Opera Omnia Luigi Einaudi

Relazione del governatore sulle operazioni fatte dalla banca nell’anno 1946.

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 31/03/1947

Relazione del governatore sulle operazioni fatte dalla banca nell’anno 1946. Tenuta in Roma il giorno 31 marzo 1947

Adunanza generale ordinaria dei partecipanti, Tipografia della Banca d’Italia, Roma 1947

 

 

 

Signori partecipanti,

 

 

L’esame dell’andamento economico italiano nel 1946 lascia in chi lo compie l’impressione di un miglioramento di posizioni faticoso e disuguale, realizzato tra seri contrasti intorno ai modi di organizzazione dell’attività produttiva ed al riparto del prodotto sociale, i quali non hanno impedito la ricca esplicazione delle iniziative e non ne hanno spento la virtù creatrice.

 

 

Ma quell’esame indica pure che l’incertezza monetaria è entrata – come elemento di disturbo o come alea da neutralizzare e da cui trarre profitto – nei calcoli dei consumatori e dei produttori, sì da imprimere impulsi disordinati e scosse alla produzione ed agli scambi; da confondere i termini delle questioni salariali; da porre in atto pericolosi processi auto amplificatori.

 

 

Lo stato vostro e mio ci impongono di ricercare in questa sede, attraverso le voci del bilancio della Banca, donde proceda siffatta condizione di cose e di trarre dall’indagine guida al nostro operare.

 

 

Ma consentite che prima io vi intrattenga brevemente sull’amministrazione del nostro istituto.

 

 

I

Gli uffici e gli stabilimenti della Banca

 

L’amministrazione centrale

Con il decreto luogotenenziale 19 aprile 1946 (Gazzetta Ufficiale del 3 maggio 1946, n. 102) il dott. Donato Menichella è stato nominato direttore generale della Banca in sostituzione del prof. Niccolò Introna, il quale ha cessato dal servizio a sua domanda.

 

 

Nella riunione governatoriale del 7 maggio 1946, in riconoscimento dei segnalati servizi resi alla Banca lungo tutta una vita consacrata esclusivamente ad essa, è stato conferito al prof. Niccolò Introna il titolo di direttore generale onorario.

 

 

Al dott. Menichella, appena ritornato dal compiere un’alta missione a Londra, il mio ringraziamento più affettuoso per l’opera sua a prò della Banca e della cosa pubblica. Ed oltre che a lui, le mie azioni di grazie a tutti coloro che collaborarono qui dentro e nelle filiali alla comune diuturna fatica.

 

 

Nel corso dell’anno hanno continuato ad aver luogo le riunioni mensili governatoriali, che, ai sensi del decreto legislativo luogotenenziale 4 gennaio 1945, n. 1, sostituiscono quelle statutarie del consiglio superiore e del comitato del consiglio stesso. Le deliberazioni di tali riunioni, per le quali i vari servizi hanno fornito il materiale relativo, sono state portate a conoscenza del ministero del tesoro per le eventuali osservazioni ai sensi dell’art. 6 del menzionato decreto luogotenenziale, e trascritte, sotto forma di verbale, negli appositi libri regolamentari.

 

 

Sempre nel corso dell’anno, è stata apportata qualche lieve modificazione all’organizzazione interna dell’amministrazione centrale.

 

 

Date le esigenze manifestatesi, si è venuti nella determinazione di suddividere il Servizio rapporti con l’interno e con l’estero in due distinti servizi, e cioè rapporti con l’estero e rapporti con l’interno; a quest’ultimo sono stati aggregati alcuni uffici già facenti parte del Servizio sconti, anticipazioni e conti correnti e del Servizio segretariato generale.

 

 

Inoltre l’Ufficio affari coloniali ha cessato di far parte del Servizio sconti ed è stato aggregato al Servizio liquidazioni, il quale avrà anche la gestione delle liquidazioni di partite attive e passive inerenti le filiali coloniali; l’Ufficio stampa, già facente parte del Servizio studi economici, è stato posto alle mie dirette dipendenze mentre l’Ufficio legale del Servizio liquidazioni è stato soppresso.

 

 

In merito alle somme in deposito e ai valori, tutti intestati ad enti ed autorità germaniche, a suo tempo incamerati dal comando superiore dell’Agenzia finanziaria alleata, il ministero degli affari esteri italiano, in data 9 novembre 1946, ha informato la Banca di aver ricevuto, dall’Ambasciatore italiano a Londra, la comunicazione che il Foreign Office avrebbe impartito istruzioni al comando generale delle forze alleate per la restituzione delle somme e valori di pertinenza dell’erario italiano. Poiché la pratica non ha finora avuto alcun seguito, si presume possa trattarsi delle somme e valori di cui si disse nella relazione dello scorso anno, nella quale si ebbe a far presente che, salvo ulteriori accertamenti, il loro ammontare era di 15.951 milioni, di cui 12.865 della Banca d’Italia e 3.086 di aziende di credito, e che le disponibilità in conto corrente non rappresentavano averi di tedeschi, pur essendo state trovate nominalmente a loro credito, ma averi italiani che era stato possibile sottrarre all’utilizzo delle forze militari tedesche.

 

 

La somma di 12.865 milioni fa parte dei 13.729 milioni di depositi bancari presso la Banca d’Italia, biglietti bancari ed altri valori confiscati ed asportati, di cui il nostro istituto ebbe a suo tempo a denunziare il danno. In dipendenza di quanto è stato successivamente accertato, dall’importo di 13.729 milioni debbono ora essere detratti 24 milioni che risultavano incamerati dai tedeschi all’atto della chiusura della filiale di Lubiana ma che vennero poi riversati alla filiale di Verona, e aggiunti 5 milioni per una ulteriore asportazione – di cui si è avuta notizia soltanto nel corso del 1946 – effettuata alla fine dell’aprile 1945 presso la nostra sede di Trieste da partigiani slavi.

 

 

Si deve inoltre segnalare una perdita di 10 milioni di lire subita dalla Banca per effetto dell’affondamento in azione navale, nell’ottobre 1944, di una unità germanica alla quale era stato affidato dalla filiale di Fiume – per conto della sede di Trieste e per il tramite della coesistente Reichskreditkasse – un movimento fondi di pari importo in biglietti banca nuovi per la succursale di Zara. Il ministero del tesoro, interessato da questa amministrazione affinché autorizzasse la sostituzione dei biglietti che formarono oggetto della menzionata spedizione con altrettanti della stessa specie, ha fatto conoscere di non poter concedere la richiesta autorizzazione in quanto, pur risultando provato l’affondamento del mezzo navale che trasportava i biglietti, non si può escludere, in modo assoluto, la possibilità di un successivo loro recupero.

 

 

Le officine carte valori

Come è stato riferito nella precedente relazione, nel marzo 1945, terminate le operazioni di trasferimento da L’Aquila a Roma del macchinario e del materiale ancora utilizzabile, la cartiera della Banca iniziava la produzione negli antichi locali.

 

 

Nel 1946 si è provveduto alla riorganizzazione delle officine, ponendo in efficienza parte del macchinario da stampa, danneggiato ad opera dei guastatori tedeschi, e curando l’acquisto di nuovi macchinari, per alcuni dei quali le trattative sono tuttora in corso. Occorre ancora il macchinario riguardante la stampa calcografica e parte di quello ausiliario per poter raggiungere il complesso indispensabile al funzionamento integrale e definitivo della stamperia.

 

 

Quando sarà ultimata tale opera di riattrezzatura, si spera di conseguire una produzione giornaliera di un milione di biglietti con il solo lavoro delle normali prestazioni diurne e, in casi di emergenza, una produzione maggiore usufruendo delle ore straordinarie e notturne.

 

 

La produzione della cartiera è stata complessivamente di n. 26.156 risme da 500 fogli ciascuna, pari a quintali 2.683, con una differenza in meno di 1.604 risme per quintali 93 rispetto al 1945. Tale più ridotta produzione è dipesa dalla impossibilità, verificatasi nei mesi di gennaio, febbraio e marzo, di approvvigionarsi dei quantitativi di cellulosa necessari per l’alimentazione delle due macchine da carta, e al maggior numero di scarti riscontrati in dipendenza e della qualità della materia prima e delle numerose interruzioni di energia elettrica, le quali sono state ben 216, corrispondenti a 12.312 ore di lavoro. Non solo, ma le interruzioni di energia elettrica, oltre ad incidere sul quantitativo di produzione, hanno influito in modo particolare sul costo a cagione di altri inconvenienti che, per vari motivi, ne sono derivati.

 

 

La stamperia ha avuto, durante l’esercizio in esame, una produzione complessiva inferiore a quella del 1945, con la inevitabile ripercussione sul costo unitario dei titoli, il quale è stato superiore all’anno precedente, sia per la minore produzione, sia per le difficoltà di approvvigionamento dei materiali e le interruzioni nella fornitura dell’energia.

 

 

La sezione incisioni si sta ora ricostituendo, dopo lo smembramento subito durante la permanenza a L’aquila. Essa riesce già a fronteggiare le esigenze relative alla produzione di valori vari.

 

 

PRODUZIONE DELLE OFFICINE

 

   

1945

1946

 

Carta per biglietti nuovi per il cambio……………………

171.012.000

6.540.000

162.108.000

225.900.000

Carta per biglietti della Banca da 500 V.T.M. ………….

27.144.000

 

Titoli provvisori al portatore………………………………

8.000.000

5.250.000

5.000.000

Vaglia cambiari……………………………………………

3.748.000

5.620.000

Assegni bancari liberi…………………………………….

4.179.000

2.972.000

 

 

Per fronteggiare le accresciute esigenze della circolazione, cui fino a qualche anno fa provvedevano da sole le varie sezioni delle officine carte e valori della Banca, si è dovuto ricorrere, specie a seguito delle menomazioni subite da queste, all’opera di terzi.

 

 

Sin dal dicembre 1942 la Banca, per i biglietti oggi classificati vecchio tipo, aveva infatti affidato la fabbricazione della relativa carta filigranata alle cartiere Miliani di Fabriano. L’incarico venne successivamente esteso ad alcune altre cartiere, anche perché lo stabilimento Miliani di Fabriano ha dovuto, nel mese di febbraio 1947, cessare la produzione di cui sopra per iniziare la lavorazione di carta filigranata per i nuovi biglietti da lire 1.000 e lire 500, tipo 1946.

 

 

Per la stampa dei biglietti di vecchio tipo, l’Istituto poligrafico dello stato, che la effettuava fin dal dicembre 1942 in uno dei suoi stabilimenti, ha allestito un apposito reparto in un secondo stabilimento. Da 240.000 biglietti da lire 1.000 al giorno, tale lavorazione ha già raggiunto il quantitativo giornaliero di 800.000 biglietti da lire 1.000 e 320.000 biglietti da lire 500 e potrà aumentare ancora, sino ad un quantitativo di 1.320.000 biglietti al giorno.

 

 

Nel corso dell’anno 1946, è stata ultimata la stampa della prima partita di biglietti di nuovo tipo da lire 1.000, lire 500 e lire 100 – secondo nuovo tipo -, e da lire 50 – terzo nuovo tipo – autorizzata dal ministero del tesoro con decreto in data 10 dicembre 1944, per un ammontare complessivo di lire 300 miliardi, quale valuta da utilizzarsi per le operazioni di cambio dei biglietti in circolazione. Questa produzione è stata effettuata dall’Istituto poligrafico dello stato e dallo stabilimento Staderini ambedue di Roma, dallo stabilimento Arti grafiche di Bergamo e dallo stabilimento De Agostini di Novara. La fabbricazione della relativa carta filigranata per biglietti di cui sopra è stata affidata alla cartiera della Banca e ad alcune cartiere private.

 

 

A seguito del successivo decreto ministeriale 20 aprile 1946 che autorizzava la Banca a fabbricare altri biglietti dei suindicati nuovi tipi per complessivi 100 miliardi, nel luglio 1946 venne incaricato lo stabilimento Staderini di riprendere la stampa dei biglietti del taglio da lire 500. Esso ne aveva già prodotti 28.200.000 pezzi allorquando la notizia dell’arresto di due operai specializzati dello stabilimento, perché correi nella falsificazione di biglietti am-lire e poi confessi di avere riprodotto clandestinamente, con mezzi fotografici, le pellicole originali dei biglietti da lire 1.000 e da lire 500, costrinse la Banca, in seguito a disposizione del ministero del tesoro, a far sospendere la lavorazione. Il grave fatto non poteva più permettere, per le ovvie conseguenze che ne sarebbero potute derivare, di valersi dei predetti biglietti dei tagli da lire 1.000 e lire 500. Previe intese con il ministero del tesoro, si è, pertanto, dato incarico all’Istituto poligrafico dello stato di studiare i bozzetti per i nuovi e differenti biglietti da lire 1.000 e da lire 500, e di approntare tutto il materiale per la relativa fabbricazione. Questo lavoro, eseguito sotto i controlli della Banca e del tesoro, è ormai ultimato. Con decreto ministeriale del 15 marzo 1947 sono stati determinati i segni caratteristici di tali biglietti e con decreto ministeriale del 20 dello stesso mese ne è stata autorizzata la fabbricazione, la quale è stata affidata all’Istituto poligrafico dello stato.

 

 

La necessità della fabbricazione dei nuovi biglietti ha trovato conferma ufficiale nel comunicato della Presidenza del consiglio dei ministri del 18 dicembre 1946 nel quale è detto: «di fronte alla possibilità che cliches sottratti possano essere stati usati o riprodotti per stampare biglietti difficilmente distinguibili dai legittimi, con conseguenze ovvie di illimitata gravità, la stampa di cotali biglietti fu sospesa e i biglietti già stampati non saranno mai messi in circolazione».

 

 

Con decreto del ministro del tesoro del 4 agosto 1945, la Banca era stata autorizzata a stampare titoli provvisori al portatore ed a vista per complessivi 217,5 miliardi di lire al fine di utilizzarli in occasione dell’eventuale cambio della moneta. Nel mese di luglio 1946, ravvisandosi la opportunità di valersi dei titoli in parola (limitatamente, però, a quelli da lire 5.000 e 10.000) per venire incontro alle richieste del pubblico in genere ed in particolare di enti ed aziende di credito i quali tutti lamentavano che la custodia, la spedizione e sopratutto la contazione dei biglietti di banca e delle lire militari alleate erano divenute complesse e laboriose e richiedevano un eccezionale lavoro da parte del personale di cassa, il ministro del tesoro, con decreto del giorno 24, autorizzò la Banca ad impiegare tali titoli nelle operazioni di sportello.

 

 

In un primo tempo, essi suscitarono incertezze e diffidenza da parte del pubblico; ora, invece, trovano più facile impiego nelle operazioni di cassa. Al 31 dicembre u.s., risultavano in circolazione titoli provvisori da 5 e 10 mila lire per un ammontare complessivo di lire 45.479.530.000.

 

 

Tale stato di cose ha fatto considerare alla Banca l’opportunità di provvedere intanto alla stampa di un vero e proprio biglietto da lire 5.000. Il relativo bozzetto è stato studiato ed approntato dalle officine carte valori della Banca e il ministro del tesoro, con decreto 16 gennaio 1947, ne ha determinati i segni caratteristici e con successivo decreto del 17 ha autorizzato la creazione di 10 milioni di pezzi alla cui produzione, sia per la fabbricazione della carta che per la stampa, provvederanno le officine medesime.

 

 

In seguito alla cessazione della guerra ed alla ripresa delle comunicazioni con le province del nord, si è verificato un notevole afflusso di banconote danneggiate per cause diverse ed in ispecie in dipendenza di eventi bellici.

 

 

Nel corso dell’anno 1946, sono stati ricevuti per l’esame 61.252 biglietti per lire 18.732.000 che si sono aggiunti ai 67.131 biglietti per lire 25.865.000, pure danneggiati, rimasti da esaminare al 31 dicembre 1945. Sono state sottoposte ad esame 104.439 banconote danneggiate, di cui 101.519 per lire 38.740.000 sono state ammesse al rimborso mentre 2.920 per lire 1.612.600 sono state respinte non avendo i requisiti richiesti per l’ammissione al cambio.

 

 

I biglietti am-lire danneggiati vengono invece esaminati presso le filiali della Banca da apposita commissione in base ad istruzioni e norme a suo tempo emanate dalle autorità alleate.

 

 

Il logorio subito dai biglietti – in circolazione in ispecie da quelli da lire 100 e 50, per i quali non si provvede più alla ristampa sin dal mese di ottobre 1943, e da quelli di stato – ha aumentato notevolmente il ritiro delle valute incircolabili da sottoporsi all’annullamento.

 

 

I biglietti distrutti mediante abbruciamento dalla cassa speciale della Banca sono ammontati, nel corso dell’anno, a 8.213,4 milioni in banconote della Banca d’Italia e 1.419,9 milioni di lire militari alleate.

 

 

Nell’ammontare dei biglietti di banca distrutti è compreso il residuo delle banconote pervenute alla cassa speciale nell’anno 1945 e non distrutte nell’anno stesso, per un importo di 291,3 milioni di lire. Presso la detta cassa risultano ancora da verificare e distruggere altri quantitativi facenti parte delle ultime rimesse dell’anno 1946.

 

 

I biglietti bancari e le lire militari distrutti presso alcune filiali, alle quali, in seguito ad autorizzazione del ministero del tesoro, è stato dato incarico di procedere, per conto della cassa speciale, saltuariamente e con l’osservanza di tutte le cautele d’uso, alla distruzione mediante abbruciamento dei biglietti già annullati, sono ammontati a complessivi 6.287,2 milioni di lire.

 

 

La accresciuta circolazione, sia di biglietti di banca che di lire militari alleate, ha facilitato ai falsari la diffusione di banconote illegittime, nonostante l’opera degli organi della Pubblica sicurezza volta a reprimere tale delittuosa attività.

 

 

Poiché alcune contraffazioni presentavano in maniera evidente e indiscussa la falsità, sono autorizzate le filiali, con disposizione del 19 ottobre 1945, a rimettere i biglietti sequestrati direttamente al questore per le pratiche relative.

 

 

In tal modo, oltre ad accelerare le indagini, si è evitato che l’inoltro di una notevole quantità di banconote false intralciasse il lavoro dell’ufficio amministrativo fabbricazione biglietti e, di conseguenza, dell’apposita commissione d’esame, alla quale debbono continuare ad essere inviate le banconote sulla cui falsificazione può esservi qualche incertezza.

 

 

Il maggior quantitativo di biglietti falsi è dato dai tagli da 500 e 1.000 lire. L’aumento nel numero di biglietti falsi accertati negli ultimi due anni, rispetto al 1938, risulta dai dati seguenti:

 

 

 

Biglietti della Banca d’Italia

 

Lire militari alleate

 

1938 …………………………………………………. n.

5.720

 

1945 …………………………………………………. »

7.650

n.

20.742

1946 …………………………………………………. »

30.405

»

25.793

 

 

Le filiali in Italia

In considerazione dello speciale ordinamento autonomo dato dal decreto legislativo luogotenenziale 7 settembre 1945, n. 545, alla circoscrizione della Valle d’Aosta, si è reso necessario di elevare a succursale, con effetto dall’1 maggio 1946, l’agenzia della Banca in Aosta in modo che essa possa meglio esplicare la propria opera nell’interesse di quella zona.

 

 

Data l’importanza assunta dall’agenzia di Sondrio per l’incremento verificatosi nei suoi affari, analogo provvedimento è stato adottato nei confronti di quella filiale a decorrere dal 1 giugno 1946.

 

 

L’agenzia di Enna – che essendo nel capoluogo di provincia gestisce il servizio di tesoreria provinciale – e quella di Jesi sono state elevate alla prima classe, mentre l’ufficio staccato della sede di Genova in via Brigata Liguria, è stato trasformato in agenzia di seconda classe, per l’intensificata attività che sta svolgendo oltre quella inerente al servizio di tesoreria provinciale.

 

 

Circa le filiali della Dalmazia, di cui già si dette notizia nelle precedenti relazioni, la trattazione delle pratiche inerenti al rimborso totale o parziale dei depositi che esistevano presso quelle filiali è stato devoluto, con il primo dicembre u.s., alla competenza del Servizio liquidazioni.

 

 

Le filiali d’oltremare

 

Le filiali della Banca in Asmara e Massaua, tuttora aperte al pubblico per un limitato numero di operazioni, e gli uffici della Banca in Asmara, Mogadiscio, Rodi e Tripoli, presso i quali sono accentrate tutte le restanti filiali, rientrati in contatto diretto con l’amministrazione centrale, hanno potuto svolgere una notevole attività per sistemare posizioni preesistenti all’occupazione britannica e per assistere e facilitare i nostri connazionali in procinto di rimpatrio o aventi interessi commerciali in Italia.

 

 

Circa i trasferimenti di somme dalle colonie alla Madre patria, richiesti nell’approssimarsi delle truppe di occupazione, che, per la irregolarità nelle comunicazioni e per la successiva totale interruzione delle stesse, erano rimasti senza effetto, la Banca, per quanto molte operazioni della specie fossero state singolarmente definite negli anni precedenti, ha dato corso, durante il 1946, a molti degli ordini rimasti in sospeso; a tutto il dicembre scorso sono stati eseguiti 4.447 ordini per un totale di 482,8 milioni di lire.

 

 

Vivo interessamento è stato altresì svolto per cercare di aderire alle pressanti richieste avanzate dai depositanti a risparmio e in conto corrente fruttifero le cui attività, come è noto, erano passate sotto il controllo della B.M.A. e, in parte , erano state assunte materialmente dal Custodian of Enemy Property. Solo sul finire dell’anno decorso, ottenuto, sia pure in modo parziale, lo sblocco delle attività in parola, si è potuta iniziare a favore dei titolari la restituzione dei depositi a suo tempo effettuati presso le filiali della Banca nell’Eritrea, nell’Etiopia e nella Libia. A tutto il 31 dicembre u.s., erano stati eseguiti già 54 pagamenti per 9,5 milioni di lire.

 

 

Anche la realizzazione di crediti di varia natura – del resto già portata a buon punto negli anni precedenti dell’Azienda consortile dei Magazzini generali di Tripoli è stata oggetto di assidue cure insieme con la prosecuzione delle altre pratiche amministrative riguardanti l’Azienda stessa e quella dei Magazzini doganali di Massaua.

 

 

In merito al ricupero delle esposizioni per sconti ed anticipazioni cambiarie delle filiali d’oltremare, ammontanti a circa 225 milioni di lire, non appena si è avuta la possibilità di comunicare con gli stabilimenti interessati – e cioè praticamente sul finire del 1945 – si è subito intrapresa opera per sistemare le posizioni rimaste in sospeso. Si sono così potuti ricuperare sino a tutto il 31 dicembre 1946, in Italia, direttamente dai clienti e dagli enti loro debitori, oltre 43 milioni, mentre le filiali hanno ottenuto in Colonia, anche in seguito all’interessamento dell’amministrazione centrale, pagamenti che oltrepassano l’importo di 87 milioni di lire. In definitiva si sono recuperati, prendendo anche l’iniziativa di notificare al ministero dell’Africa o agli altri enti appaltanti le costituzioni in pegno e cessione a favore della Banca, complessivamente circa 130 milioni di lire su 225 milioni e si sono sistemati tre quinti delle posizioni debitorie che erano all’incirca 500, restandone ora da liquidare esattamente 214, fra cui, naturalmente, quelle più complesse e di più lento realizzo, per le quali la Banca si sta attivamente adoperando per far valere i propri diritti nei confronti dei debitori.

 

 

Gli uffici di delegazione all’estero

L’attività degli uffici di delegazione all’estero, che nel corso del precedente esercizio, in dipendenza della scarsa partecipazione italiana alla vita economica internazionale, era stata ancora ristretta e limitata soltanto ad alcuni mercati, si è andata progressivamente estendendo ed è ormai in pieno sviluppo sia per quanto riguarda le mansioni esercitate nell’interesse della Banca, che in relazione a quelle affidate dall’Ufficio italiano dei cambi.

 

 

Gli uffici di Parigi, Zurigo, Buenos Aires e Lisbona hanno continuato a funzionare regolarmente, taluni di essi, come quelli di Parigi e Zurigo, svolgendo un servizio di crescente efficienza. Quello di Lisbona aveva esercitato durante la guerra una funzione di osservatorio economico che è andata automaticamente diminuendo col normalizzarsi dei servizi di informazione economici e finanziari internazionali.

 

 

In ordine di tempo sono stati successivamente riaperti: l’ufficio di Bruxelles, al quale è stato abbinato anche un ufficio l’Aja, l’ufficio di New York e quello di Londra.

 

 

A Bruxelles, l’ufficio ha avuto modo di svolgere un proficuo lavoro, segnatamente nei rapporti con l’Istituto belga lussemburghese dei cambi e con la Commissione tripartita per la ripartizione dell’oro monetario.

 

 

La riapertura dell’ufficio di New York, accolta con favorevole e cordiale simpatia da parte del Dipartimento del tesoro e delle autorità economiche e bancarie americane, si è dimostrata particolarmente utile, sia in occasione dell’ammissione dell’Italia al Fondo monetario internazionale e alla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo che durante la visita del Presidente del consiglio italiano negli Stati Uniti, oltre che svolgimento della sua normale attività intesa a ristabilire concreta collaborazione con le banche del Federal Reserve System e gli altri istituti di credito americani.

 

 

L’ufficio di Londra, riaperto da poche settimane, si avvia a svolgere un’attività analoga.

 

 

Tutti gli uffici hanno continuato ad intrattenere ottimi rapporti con le rappresentanze diplomatiche italiane all’estero, che ricorrono sempre maggiormente alla loro collaborazione e consulenza nella trattazione delle questioni di natura più spiccatamente tecnica.

 

 

Il ministero degli affari esteri, nell’esprimere il proprio apprezzamento per la collaborazione prestata dai delegati della Banca d’Italia, ha anzi voluto recentemente dare un riconoscimento ufficiale a tale collaborazione, autorizzando i nostri delegati a rivestire la carica di consulenti finanziari delle rappresentanze diplomatiche.

 

 

I funzionari

Dal 1° luglio 1946, la misura delle medaglie di presenza per i funzionari è stata elevata come segue:

 

 

  • presso le sedi:

 

 

ai reggenti

 

 

  • per le adunanze dei consigli, da lire 200 a lire 300;

 

  • per l’apertura e chiusura delle casse e per le commissioni di sconto, da lire 100 a lire 150;

 

 

ai reggenti in funzione di censori

 

 

  • per le adunanze dei consigli, da lire 200 a lire 300;

 

  • per le verifiche di cassa, da lire 100 a lire 150;

 

  • presso le succursali:

 

 

ai consiglieri, da lire 80 a lire 120;

 

 

ai consiglieri in funzione di censori, da lire 80 a lire 120;

 

 

Di ciò si rende edotta l’Assemblea per la necessaria ratifica.

 

 

Il personale

 

Alla fine del 1946 i dipendenti a ruolo erano 5.559, con un aumento di 277 unità rispetto ad un anno prima. Di essi 350 erano di sesso femminile. Il totale era formato da:

 

 

  • -2.171 impiegati di concetto, con un aumento di 65 unità rispetto al 1945;

 

  • 2.456 impiegati d’ordine, con un aumento di 156 unità;

 

  • 932 elementi del personale di servizio, con un aumento di 56 unità.

 

 

Gli avventizi di tutte le categorie, esclusi gli elementi provvisori, erano 956 con una diminuzione di 116 unità. Di essi 184 erano di sesso femminile.

 

 

Perciò il totale dei dipendenti della Banca, a ruolo ed avventizi, esclusi li avventizi provvisori, era di 6.515 unità (5.981 impiegati, 534 impiegate) con un aumento di 161 unità rispetto al 1945 che deve porsi in relazione alle disposizioni sull’assorbimento dei reduci.

 

 

Gli avventizi provvisori assommavano a 1.340 elementi, con una diminuzione di 99 elementi rispetto al 1945.

 

 

Prospetto riassuntivo numerico del personale maschile al 31 dicembre 1946, esclusi gli operai e gli avventizi provvisori

 

 

 

a

ruolo

 

avvent. ordinari

totale fine 1946

totale fine 1945

totale fine 1944

totale fine 1943

Personale amministrativo………. di conc.

1.702

8

1.710

1.681

1.692

1.697

d’ordine

1.354

134

1.488

1.558

1.614

1.532

 

Personale di cassa….

di conc.

440

74

514

490

458

462

d’ordine

739

347

1.086

905

753

756

 

Personale tecnico…..

di conc.

29

29

15

13

11

d’ordine

13

13

11

13

14

Personale di servizio………………

932

209

1.141

1.102

1.174

1.335

Totale……..

5.209

772

5.981

5.762

5.717

5.807

 

 

Il personale operaio addetto alle officine della Banca e agli uffici di contazione e classificazione biglietti era composto di 610 elementi (248 operai e 362 operaie).

 

 

Nelle cifre di cui sopra sono compresi i dipendenti richiamati alle armi in numero di 41; e di questi 16 risultavano prigionieri di guerra.

 

 

Nei confronti dell’anno 1945, la compagine del personale ordinario maschile (amministrativo, tecnico e di servizio) e fuori ruolo risultava aumentata di 14 unità.

 

 

La compagine del personale di cassa, in conseguenza della assunzione di elementi tirocinanti per fronteggiare le esigenze della circolazione monetaria, risultava aumentata di 205 unità; risultava, invece, in diminuzione di 108 unità il personale operaio, in dipendenza prevalentemente dell’avvenuto licenziamento di elementi femminili a seguito della chiusura dei servizi monetari del nord.

 

 

Prospetto complessivo della situazione numerica del personale

 

 

a ruolo e avventizi ordinari

avventizi provvisori

operai

totale fine 1946

totale fine 1945

totale fine 1944

totale fine 1943

Maschile

5.981

933 (1)

248

7.162

6.816

6.642

6.637

Femminile

534

407

362

1.303

1.635

1.314

1.403

Totale

6.515

1.340

610

8.465

8.511

7.956

8.040

 

(1) Impiegati 593; inservienti 340.

 

 

Durante il 1946 sono stati adottati vari miglioramenti nel trattamento economico. Definiti gli aumenti di carattere generale entrati in vigore il primo ottobre 1945 e per i quali, nel precedente esercizio, erano stati corrisposti solo degli acconti, è stato apportato, dalla stessa data del primo ottobre 1945, un ulteriore aumento sulla indennità di rischio per il personale di cassa, che era stata già maggiorata nel febbraio 1945. Inoltre, in conformità delle disposizioni emanate dal governo, si sono trimestralmente apportati aumenti alle competenze del personale in relazione al variare dell’indice ufficiale del costo della vita, capitolo alimentazione, e sono stati accordati i noti miglioramenti economici di carattere generale entrati in vigore dal primo settembre 1946. Infine l’amministrazione, oltre a far luogo alla erogazione delle doppie mensilità regolamentari, ha adottato durante il 1946, di fronte al perdurare delle condizioni generali di grave disagio economico, altre provvidenze a favore del personale.

 

 

L’amministrazione, ché ha sempre fatto largo posto fra il proprio personale agli elementi forniti di benemerenze di guerra, non ha trascurato di occuparsi del grave problema del collocamento dei mutilati, invalidi e reduci dell’ultimo conflitto, nonché dei partigiani e delle vedove dei caduti. Giova osservare a questo riguardo che ancora prima della pubblicazione del decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo 1946, n. 138, riguardante il riassorbimento dei reduci nelle pubbliche amministrazioni, la Banca aveva provveduto ad assumere, presso gli uffici di Roma e presso le filiali periferiche, una apprezzabile aliquota di ex combattenti. Con le ulteriori ammissioni seguite al decreto, l’aliquota di legge è stata largamente superata.

 

 

Ai pensionati sono state concesse speciali mensilità di pensione e altre provvidenze di carattere straordinario, ed insieme alcuni miglioramenti economici, indispensabili ad assicurare loro i mezzi per far fronte alle più immediate esigenze di vita. L’onere di tali miglioramenti è stato, in via transitoria, assunto dall’istituto, in attesa del riordinamento della cassa pensioni, che l’amministrazione ha affidato ad apposita commissione.

 

 

Nell’assistenza ai dipendenti, l’azione dell’amministrazione è stata affiancata da quella della Cassa sovvenzioni e risparmio fra gli impiegati della Banca, la quale ha inoltre consentito al personale agevolezze di varia natura.

 

 

II

L’economia italiana

 

Le clausole economiche del trattato di pace

Il documento, che porta il nome di trattato di pace fra l’Italia e le potenze vittoriose della seconda guerra mondiale, documento che il governo italiano firmò a Parigi il 10 febbraio di quest’anno, con riserva di ratifica dell’assemblea costituente, non ha quel carattere di cosa definitiva, che gli si vorrebbe attribuire, attesa la protesta formale subito elevata dal nostro ministro per gli affari esteri e i riconoscimenti delle ragioni dell’Italia da parte di vari paesi, sintomi di una reazione dell’opinione pubblica, che si va formando nel mondo a nostro favore.

 

 

L’esperienza fatta dopo la prima guerra mondiale aveva dimostrato la caducità di certe condizioni, pur scritte solennemente nei trattati d’allora. I nomi di Versailles, di St. Germain, di Neuilly, di Trianon e di Sevres stanno a rammentarci modifiche sopravvenute, clausole onerose rimaste inapplicate, abbandoni di criteri arbitrari, come quello per cui si pretendeva che l’economia del paese vinto dovesse adattarsi agli obblighi previsti, e non gli obblighi commisurarsi alle possibilità economiche dell’obbligato.

 

 

Oggi si ricade in incongruenze che sarebbe stato bene lasciare storicamente sole, ed anzi se ne aggiungono di nuove.

 

 

A meglio intendere quelle e queste, bisogna aver l’occhio alla posizione singolare dell’Italia di fronte a’ suoi avversari in contratto e di fronte alla stessa Germania.

 

 

L’ Italia non fu soltanto belligerante contro le nazioni unite; essa fu:

 

 

a)    cobelligerante, nell’interesse delle nazioni unite, già prima dell’ottobre 1943 e ufficialmente dal 13 ottobre di detto anno, con la dichiarazione di guerra alla Germania;

 

b)    trasformata da paese di semplice occupazione in base di operazioni belliche delle stesse nazioni unite, con straordinario aggravio di distruzioni, requisizioni, inondazioni di am-lire ecc.;

 

c)    investitrice di lavoro e di capitali nelle sue colonie; lavoro e capitali sottratti allo sviluppo interno del proprio popolo e impiegati in opere pubbliche a beneficio duraturo e diretto delle popolazioni entrate nella sua sfera d’influenza; a beneficio pure indiretto di altri stati, che erano ammessi a goderne;

 

d)    paese, un tempo, di forte emigrazione; con fatiche e rischi di suoi figli all’estero, aveva legato il suo nome ai maggiori segni della civiltà: dissodamenti di terre, bonifiche, costruzioni di ferrovie e di canali ed altro ancora, creando una rete di imprese, fruttifera per sé, ma più fruttifera per i paesi accoglienti. E di più avrebbe fatto, se non le si fossero opposti ferrei limiti alla immigrazione, alte dogane ecc.

 

 

Fu equa la bilancia su cui vennero pesati meriti e demeriti nella compilazione del trattato di pace? Fu equa la bilancia, dopo le promesse della Carta atlantica e dopo i molti autorevoli riconoscimenti del valore della nostra cobelligeranza?

 

 

L’esame delle condizioni imposteci conclude per la negativa.

 

 

Dico del trattato in se stesso, a prescindere da atteggiamenti e fatti successivi, d’impronta cristiana e cavalleresca, specie da parte degli Stati Uniti e di altre grandi e piccole nazioni americane, nonché della Svizzera e dell’Irlanda, a cui spetta di ricambio la nostra viva e non effimera gratitudine.

 

 

Gli strappi territoriali e gli oneri economici formano un insieme di offese che vanno dalle ferite in cavità alle punture di spillo. Se del sangue romano scorre ancora un poco nelle nostre vene, noi, che grandi cose facemmo, dopo passioni di secoli , nelle arti e nelle scienze e ne abbiamo fatte ancora dal risorgimento fino, almeno, alla conclusione della prima guerra mondiale, possiamo ripetere a noi stessi: Et facere et pati fortia romanum est.

 

 

Ed ecco giunta l’ora di un nuovo e prevedibilmente lungo soffrire.

 

 

Le principali clausole economiche del trattato riguardano: riparazioni; espropriazioni di beni privati di italiani all’estero; indennizzo, da parte dello stato italiano, dei danni subiti in Italia da proprietà delle nazioni unite o di loro sudditi , senza distinzione tra quelli causati da azioni belliche tedesche e quelli causati, dopo l’8 settembre 1943, da forze alleate.

 

 

 

 

Una pesante coda alle predette clausole si aggiunge per i danni che i nostri cittadini patirono in conseguenza di requisizioni, infortuni ecc. causati da atti delle forze alleate anche indipendentemente dallo stato di guerra. Degli indennizzi ai reclamanti si fa carico, non si sa perché, al governo italiano.

 

 

In questa sede non è mio compito indugiarmi sulla critica; ma non vi dispiaccia sentire qualche nota in proposito.

 

 

Le riparazioni dovute ad alcuni stati ex nemici restano fissate in 360 milioni di dollari, che al cambio attuale si tradurrebbero, a far poco, in 130 miliardi di lire nostre conteggiabili in consegne di beni, specificatamente indicate. Inutile dire che le somme reclamate furono immensamente superiori e rivelatrici dell’animus dei reclamanti in fase di pace; i compilatori stessi del trattato dovettero in coscienza ridurle come da 50 o da 40 a 1; della qual cosa dobbiamo prendere atto, come di una difesa dei nostri interessi contro il troppo e il vano. Insomma, si è ripetuto il caso della prima guerra; anche all’ora, corredate di bellissimi quadri statistici, si chiesero riparazioni alla Germania, inverosimili, schiaccianti, finite poi nel nulla. L’aggravante d’oggi è che nessun conto fu tenuto delle migliorie, che l’amministrazione italiana procurò al demanio dei paesi occupati; quelle migliorie, che pur nel diritto privato si fanno valere. In forma di opere pubbliche, stradali, edilizie, di organizzazioni ospitaliere e via dicendo, in forma di aziende industriali e commerciali, l’Italia come stato, i cittadini italiani come imprenditori privati, avevano speso 10 volte più milioni di dollari nei territori metropolitani o coloniali ceduti. Fu come una parola d’ordine: niente per noi all’attivo, tutto al passivo. La cobelligeranza, una partita di giro.

 

 

Se poi passiamo alle riparazioni verso altre potenze, oltre quelle medesime a cui testé mi sono riferito, il principio adottato della rivalsa su beni privati di italiani all’estero assurge a fastigio di tutte le rivalse pensabili contro un ex nemico , pur divenuto, appena gli fu possibile, cobelligerante. È in regresso deplorevole nella scienza giuridica, alta espressione di civiltà nell’ordine morale, come nell’ordine fisico lo sono state le invenzioni e scoperte che rivoluzionarono il mondo. Dal Vattel, insigne internazionalista svizzero dei primordi del settecento, ai più moderni trattatisti, fu in certo modo un punto d’onore negare la confisca della proprietà privata dei sudditi nemici, pur ammettendone il sequestro, naturalmente subordinato alla durata della guerra. La prassi si conformò ai nuovi concetti; la codificazione seguì nelle precise statuizioni delle conferenze dell’Aja del 1899 (art. 46) e del 1907 (art. 23). Oggi si fa un salto di qualche secolo a ritroso.

 

 

É sperabile che la disposizione in parola cada come foglia d’albero di tardo autunno o per poco interesse che abbiano certi paesi ad applicarla o per negoziati che inducano altri alla rinunzia contro un compenso a forfait da parte del governo italiano. Così il 10 settembre 1946 a Parigi fu firmato un accordo con l’Egitto per liberare i beni della numerosa nostra colonia; egualmente a Parigi si son poste le basi di un’analoga intesa con la Francia, da cui però si eccettuano i beni di cittadini italiani in Tunisia che restano passibili dell’applicazione della rivalsa.

 

 

Intanto l’Italia, terra di lavoratori, si trova all’estremo delle risorse di materie prime e parte del popolo vive alla giornata nell’incertezza del pane di domani. Due milioni di vani abitabili distrutti dalla guerra e cinque di danneggiati più o meno gravemente, danno un’idea del bisogno che si affrettino le ricostruzioni in questo settore. Le ferrovie depauperate di metà del materiale rotabile e di quasi due quinti del materiale fisso; la marina mercantile ridotta ad un decimo del potenziale d’anteguerra, la danno in altro vasto settore. E potrei continuare ricordando gli impianti industriali, i cui macchinari furono asportati; il patrimonio agricolo, specie zootecnico, diminuito ecc. Basti sapere che le spese previste per ricostruzioni indispensabili ammonterebbero a 3 mila miliardi di lire, che, pur scaglionati su un quindicennio o un ventennio, costituiranno una grave soma per il bilancio dello stato. Notare che due terzi dei danni sono posteriori all’8 settembre 1943, da quando la penisola divenne teatro di operazioni belliche.

 

 

Quale eredità lasciata alla presente e alle future generazioni!

 

 

Le finanze dello stato e dei comuni in ostinato disavanzo e corrispondentemente i debiti pubblici in continua ascesa; gonfiata, sino ad oltre 500 miliardi, la circolazione cartacea; deficitario il conto di dare e avere con l’estero; esportazioni in vista, vincolate in parte al pagamento di indennità e quindi senza corrispettivo di importazioni a noi necessarie; e oltre e sopra questo, perdite di territori che deprimono il nostro morale e ci privano di preziose risorse.

 

 

Non si vuole con ciò asserire che il grave nostro dissesto dipenda solo e prevalentemente dall’intervento militare alleato; poiché, già prima, noi stessi ci eravamo incamminati sulla via di pericolose avventure. Ma l’intenzione punitiva, che mirava a colpire un regime, oggi finito, ha oltrepassato l’obbiettivo suo; è il popolo italiano, cobelligerante e rinnovato nello spirito democratico, che viene esposto a dure sanzioni.

 

 

In tanta amarezza, ci conforta pensare che lo spirito di altruismo non è spento nel mondo e già se ne vedono segni sicuri. Citavo poc’anzi il Vattel, come colui che primo rifiutò l’idea della rivalsa sulle proprietà privatè dei sudditi nemici, per danni di guerra. Ma egli fu anche propagandista dell’assistenza mutua dei popoli, che vogliono chiamarsi civili; e la sua voce fu raccolta dai promotori della Croce rossa per l’assistenza dei feriti in guerra (1863) e della Società delle nazioni (1919). Un italiano, il senatore Ciraolo, portò innanzi a due conferenze internazionali e al consiglio medesimo della Società delle nazioni un progetto

concreto di mutuo soccorso in caso di grandi calamità: terremoti, inondazioni, devastazioni di locuste, epidemie; e un gran numero di parlamentari, di giuristi, di filantropi in diversi paesi fu presto acquisito al principio di un’obbligazione, almeno morale, dei popoli immuni verso gli infortunati.

 

 

Le grandi guerre sono una calamità, maggiore delle convulsioni sismiche, delle inondazioni, delle invasioni di cavallette, insieme sommate. Ed ecco il nuovo settore della mutua assistenza. Tutto ciò fu ben compreso dalle nazioni unite le quali organizzarono la benefica a Dio piacente istituzione, che va sotto il nome di U.N.R.R.A., che non guarda ad amici o nemici nella sua opera di soccorso, dovunque il bisogno la chiami. L’Italia le deve già tanto, da doverne scrivere il nome a lettere d’oro e da dimenticare, nella lunga fatica della ricostruzione, una parte dei suoi dolori. Indimenticabili restando Trieste ed altre terre divelte dalla patria, italianissime d’animo e di lingua.

 

 

Il Territorio libero di Trieste

 

La costituzione di Trieste in Territorio libero fa nascere problemi di particolare difficoltà.

 

 

Lo statuto dato al Territorio vieta ogni unione ed associazione di carattere esclusivo con qualsiasi altro stato, prevede per il Territorio libero un proprio sistema monetario ed istituisce a Trieste un porto franco sotto il controllo di una commissione composta dai rappresentarti delle quattro maggiori potenze e degli stati del retroterra, inclusi l’Italia e la Jugoslavia.

 

 

Finché non venga introdotto un regime monetario autonomo, la lira italiana continuerà ad essere la moneta legale del Territorio libero ed il governo italiano è tenuto a fornire i biglietti e la valuta estera a condizioni non meno favorevoli di quelle applicate in Italia.

 

 

Le norme di esecuzione di tale impegno dovranno essere fissate in accordi diretti tra il governo italiano e quello del Territorio libero.

 

 

Il trattato fissa anche, in forma generale, gli impegni dell’Italia e della Jugoslavia per la fornitura al Territorio libero dell’acqua e dell’energia elettrica e per il transito di frontiera, mentre ai beni statali e parastatali e al debito pubblico afferenti al Territorio si applicano disposizioni analoghe a quelle previste per i territori ceduti.

 

 

Le possibilità di una vita economica autonoma per il Territorio libero appaiono limitate dal fatto che la città di Trieste vive del porto e di grandi industrie, le quali sono dipendenti dall’Italia o da altri paesi esteri per tutte le materie prime, e manca di un retroterra sufficiente a coprire un’apprezzabile quota del suo fabbisogno alimentare.

 

 

Il complesso di fabbriche, cantieri e stabilimenti esistente nell’attuale Territorio libero, che impiega il 35 per cento di tutta la popolazione attiva, è sorto e vissuto come parte integrante del sistema industriale ed economico italiano e solo come tale può continuare a vivere e prosperare.

 

 

Gli altiforni e le acciaierie «ILVA» di Servola acquistano in Italia non meno dei tre quarti del materiale ad essi occorrente e lo acquistavano anche quando Trieste faceva parte dell’impero austro ungarico, e hanno sempre venduto sul mercato italiano la ghisa prodotta e le lamiere d’acciaio. I cantieri di Trieste si sono sempre forniti in Italia della maggior parte dei semilavorati, dei lavorati ed anche di alcune materie prime loro necessarie ed hanno costruito principalmente per soddisfare la domanda italiana. L’arsenale importa dall’Italia il 90% delle materie prime e dei manufatti occorrenti.

 

 

Circa la perdita per il nostro potenziale economico, basterà rilevare, a titolo indicativo, l’importanza dello stabilimento «ILVA», che ha a Servola 3 altiforni a coke (il complesso siderurgico italiano ne conta 15 di cui efficienti soltanto 6, cioè i 3 di Servola e altri 3) e quella dei cantieri di Trieste, a suo tempo potenziati a scapito di altri cantieri italiani, che rappresentano oltre il 20 per cento della nostra capacità produttiva. Tali cantieri, inoltre, sono complementari a quelli di Monfalcone che il trattato lascia all’Italia; infatti, ad esempio, le apparecchiature elettriche sono costruite soltanto a Monfalcone, mentre a Trieste si trova la fabbrica di S. Andrea, la quale fornisce i grandi motori ai cantieri di Monfalcone ed agli altri cantieri italiani.

 

 

In analoga situazione si trovano tutte le altre principali industrie di Trieste, come quelle per la raffinazione del petrolio, per la produzione e la raffinazione di olii vegetali, per la confezione di cartine per sigarette e carte da giuoco, per la fabbricazione di vernici e colori, per la filatura della canapa, così come il pastificio, le industrie dei liquori, del legno e delle conserve alimentari.

 

 

Le industrie impiantate o sviluppate in Trieste, dopo l’annessione della città alla Madrepatria, entrano nel quadro di una razionale distribuzione geografica dei principali centri produttivi nazionali in relazione alla configurazione della penisola. Invero, il centro siderurgico, cui corrispondono quelli di Genova per l’Italia nord occidentale, di Piombino per l’Italia centrale e di Bagnoli per l’Italia meridionale; il centro cantieristico, cui corrispondono, per le stesse zone, quelli di Genova, di Livorno, di La Spezia e di Napoli; le raffinerie di olii vegetali, cui fanno riscontro l’industria ligure e meridionale; infine, le raffinerie di olii minerali, cui corrispondono quelle di Livorno e di Bari, hanno tutti il loro naturale mercato di sbocco nell’Italia nord orientale.

 

 

L’Italia abbisogna dei prodotti triestini, in mancanza dei quali dovrebbe creare industrie simili nel proprio territorio, e, allo stesso tempo, l’industria triestina trova in Italia la sua naturale fonte di approvvigionamento e di sbocco.

 

 

A questi legami naturali ed indissolubili di scambio, si aggiungono poi, non meno rilevanti, i legami finanziari. L’industria triestina è in massima parte opera del capitale finanziario italiano, il che rende l’investitore italiano direttamente interessato alla prosperità di Trieste. D’altra parte la città trova nella rete bancaria italiana un prezioso aiuto per lo sviluppo della sua attività economica e la via per l’accesso al mercato finanziario di altri paesi.

 

 

A conclusioni analoghe si giunge esaminando il settore commerciale e della navigazione.

 

 

Affinché l’economia triestina possa reggersi, è perciò indispensabile che i suoi naturali rapporti con l’Italia non siano interrotti o attenuati mediante l’introduzione nel Territorio libero di una legislazione la quale elevi barriere tra le due economie, oppure faccia cessare l’interesse dell’industriale, del commerciante o dell’investitore italiano per Trieste.

 

 

Basti qui accennare al sistema doganale ed al regime monetario.

 

 

L’instaurazione nel Territorio libero di un sistema doganale sostanzialmente diverso da quello italiano oppure, come molti vorrebbero, l’abolizione di ogni dogana, porrebbe il governo italiano nella necessità di instaurare una severa barriera doganale fra Trieste e il resto d’Italia. In tal caso, ai manifesti inconvenienti che ne deriverebbero per l’industria triestina, se ne aggiungerebbero non meno gravi per la vita di quella città, dipendenti dal fatto che il Veneto e l’Emilia sono i suoi mercati di approvvigionamento di generi alimentari e che tutti i prodotti di consumo diretto sono acquistati in Italia. A sua volta, il traffico di frontiera, che in questo caso non è altro che il naturale traffico che ogni città intrattiene con la campagna circostante e le città viciniori, ne verrebbe fortemente a soffrire.

 

 

Considerazioni analoghe valgono per l’evenienza dell’introduzione nel Territorio libero di una moneta le cui quotazioni, rispetto alla lira, possano nell’avvenire subire mutamenti. L’industria triestina vedrebbe entrare nei suoi preventivi un grande elemento di incertezza ed i prezzi a Trieste di quasi tutti i generi di consumo corrente risentirebbero di ogni oscillazione nel cambio con la lira.

 

 

Fino all’instaurazione di un sistema monetario autonomo, l’Italia fornirà, come già detto, i biglietti e la valuta estera necessari alle esigenze del Territorio libero.

 

 

Occorre, perciò, che il Territorio libero non diventi la via di evasioni valutarie dall’Italia e che tali evasioni siano impedite anche nel nuovo stato, sicché non gli manchi l’apporto valutario delle sue esportazioni e delle altre prestazioni all’estero.

 

 

Questi fatti concreti, questi intimi rapporti economici fra Trieste e l’Italia, questa complementarietà delle due economie non possono essere trascurati nelle decisioni degli organi internazionali che stanno disponendo del futuro economico di Trieste, se ad essi veramente sta a cuore la prosperità del Territorio libero. Né a ciò si oppone il concetto della sovranità dello stato poiché questa, nel campo economico, non è mai stata intesa come l’esigenza di un’uguale intensità dei suoi rapporti con tutti gli altri stati.

 

 

La ripartizione dell’oro monetario ricuperato in Germania

 

Nel quadro dell’attività diplomatica in corso, mirante alla revisione delle clausole più onerose del trattato di pace, interessa particolarmente il nostro istituto quella svolta allo scopo di ottenere la restituzione dell’oro monetario italiano asportato in Germania.

 

 

Come è noto, il 14 gennaio 1946, a conclusione della Conferenza delle riparazioni tenutasi a Parigi nel novembre dicembre 1345, è stato firmato un accordo in merito alle riparazioni tedesche, all’istituzione di una Agenzia interalleata delle riparazioni e alla restituzione dell’oro monetario ricuperato in Germania.

 

 

Con tale accordo si è voluto, tra l’altro, disciplinare il problema delle rivendicazioni avanzate da numerosi stati nei confronti della Germania per la restituzione di oro monetario. Al riguardo è stato convenuto che tutto l’oro di tale natura, trovato in Germania dalle forze alleate o ricuperato in un terzo paese nel quale esso fosse stato trasferito dalla Germania, sarebbe stato riunito in una massa comune da ripartire, a titolo di restituzione, tra i paesi firmatari dell’accordo in proporzione ai quantitativi dagli stessi rispettivamente perduti a seguito di spoliazione da parte della Germania o di illegittimo trasferimento nella Germania stessa.

 

 

Per quanto riguarda i paesi non rappresentati alla Conferenza delle riparazioni – esclusa la Germania, ma esplicitamente comprese l’Italia e l’Austria – si è prevista la possibilità della loro partecipazione al riparto, subordinata, però, alla clausola che l’ammontare delle quote parti loro eventualmente assegnate avrebbe dovuto essere accantonato e attribuito solo successivamente in relazione alle decisioni dei governi alleati interessati.

 

 

Allo scopo di dare pratica attuazione al progetto di ripartizione sopra indicato, è stata istituita, nel settembre 1946, una Commissione tripartita per la ripartizione dell’oro, composta da rappresentanti dei governi americano, inglese e francese, con sede a Bruxelles e funzioni prevalentemente esecutive. Detta Commissione ha il compito di predisporre il piano di ripartizione dell’oro ricuperato, dopo avere raccolto dai governi interessati gli elementi atti a stabilire la fondatezza delle rivendicazioni da ciascuno di essi avanzate.

 

 

Fin dal giugno 1945, la Banca d’Italia aveva invocato l’interessamento della Commissione alleata al fine di ottenere la restituzione di 71.098 chilogrammi di oro monetario (di cui 69.320,7 di proprietà della Banca e 1.777,3 di proprietà dell’ex Istituto nazionale per i cambi con l’estero) che i tedeschi avevano fatto trasferire da Fortezza a Berlino nel febbraio e nello ottobre 1944 e di cui era stato dato per certo l’integrale ritrovamento in Germania ad opera delle forze armate americane.

 

 

Venuta a cadere, a seguito degli accordi sopra ricordati, la competenza della Commissione alleata a provocare una decisione in materia, è stata condotta da parte del ministero degli esteri, per il tramite delle nostre rappresentanze, una intensa azione diplomatica al fine di ottenere: a) la restituzione integrale del nostro oro, in considerazione sopratutto dell’esiguità delle nostre riserve auree ed in analogia al trattamento usato alla Banca nazionale ungherese che, nel luglio 1946, ha ottenuto da parte delle autorità militari alleate in Austria la restituzione integrale di un cospicuo quantitativo di lingotti trasferito a suo tempo da Budapest a Vienna; b) in via subordinata, l’ammissione dell’Italia al pool dell’oro monetario previsto dagli accordi di Parigi del 14 gennaio 1946, in piena parità di diritti con gli altri stati partecipanti.

 

 

Tali rivendicazioni, che hanno formato oggetto anche delle conversazioni avute negli Stati Uniti dal presidente del consiglio e di quelle successivamente condotte a Londra da parte della missione presieduta dal nostro direttore generale, hanno avuto proprio in questi giorni un primo importante riconoscimento a seguito dell’invito ufficiale pervenuto al nostro governo dalla Commissione tripartita di Bruxelles di fornire le informazioni relative alle perdite d’oro monetario subite per effetto di spoliazioni germaniche e di rispondere a tale scopo alle domande contenute in apposito questionario diramato contemporaneamente a tutti i governi interessati. Trattasi ancora di una fase preliminare, poiché, come si è accennato sopra, l’effettiva ripartizione dell’oro disponibile, per quanto riguarda il nostro paese, è condizionata alle decisioni dei governi alleati interessati, ma gli affidamenti a più riprese ricevuti dai rappresentanti di alcuni di essi danno a sperare che, nonostante siano ancora da superare notevoli difficoltà, non si vorrà disconoscere la fondatezza del nostro buon diritto.

 

 

L’ Italia negli accordi di Bretton Woods

 

Con l’ammissione del nostro paese agli istituti di Bretton Woods, deliberata dai Consigli dei governatori del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo il 2 ottobre 1946, si è compiuto un primo passo importante verso l’inserimento dell’Italia in quei nuovi organismi che nei vari campi dell’economia mirano a sviluppare la collaborazione internazionale.

 

 

I due Consigli, dopo aver fissato la nostra quota di partecipazione a ciascuno dei due istituti in 180 milioni di dollari, avevano disposto che l’Italia divenisse membro del Fondo nel momento in cui:

 

 

a)    avesse depositato presso il governo degli Stati Uniti uno strumento comprovante l’accettazione, in conformità alle sue leggi, di tutte le condizioni prescritte dal Fondo e dalla Banca e il compimento di tutti i passi necessari per eseguire le obbligazioni da esse derivanti;

 

b)    avesse firmato le copie originali degli atti conservate negli archivi del governo degli Stati Uniti;

 

 

purché queste due formalità fossero adempiute entro il 15 aprile 1947.

 

 

Di fatto il disegno di legge sulla partecipazione dell’Italia agli accordi è stato approvato dall’assemblea costituente nella tornata del 15 marzo 1947, mentre il deposito degli strumenti di ratifica e la firma delle copie originali degli atti hanno avuto luogo il successivo giorno 27.

 

 

Contemporaneamente, si è provveduto a versare al Fondo la somma di 18 mila dollari, pari a un centesimo dell’1% della quota, a titolo di contributo alle spese di amministrazione, e alla Banca gli importi di 3,6 milioni di dollari pari al 2% della quota, e di 5.265 milioni di lire, corrispondenti al 13% della quota, valutato al cambio di 225 lire per dollaro vigente al momento dell’adesione.

 

 

La possibilità di compiere operazioni col Fondo è peraltro subordinata ad alcuni altri adempimenti di ordine finanziario e alla fissazione della parità monetaria.

 

 

In base ai termini dell’accordo, l’Italia dovrà versare in oro, dopo che sarà stata fissata la parità, il minore importo tra il 25% della quota (39.990,2 chilogrammi di fino) e il 10% delle proprie riserve in oro e in dollari degli Stati Uniti, mentre il residuo dovrà essere versato in lire. Se non fosse possibile accertare l’effettiva consistenza dell’oro o dei dollari posseduti dall’Italia quali risultano nel momento in cui sarà richiesta la comunicazione della parità, il Fondo fisserà una data più appropriata per la predetta determinazione. Qualora tale data sia successiva a quella in cui l’Italia sarà ammessa a godere delle facilitazioni di credito del Fondo, saranno presi accordi per stabilire un versamento provvisorio in oro ed un corrispondente saldo in moneta nazionale, salvo poi a rettificare l’uno e l’altro ammontare in un secondo momento, quando sarà possibile accertare l’effettiva predetta consistenza.

 

 

Per quanto riflette la parità monetaria, la deliberazione del Consiglio dei governatori stabilisce che questa dovrà essere comunicata entro 30 giorni dalla richiesta del Fondo e dovrà essere calcolata sulla base dei corsi del cambio correnti alla data dell’adesione.

 

 

Tale comunicazione è tuttavia suscettibile di rettifica, qualora, ai sensi della sezione 4 dell’art. 20 dell’Accordo, l’Italia o il Fondo notifichino, entro il termine di 90 giorni dalla data di ricevimento della richiesta, di non ritenere adeguata la parità monetaria, come sopra determinata.

 

 

Tuttavia, poiché all’Italia si accordano le facilitazioni concesse per i paesi occupati dal nemico, il termine di 90 giorni può essere prorogato a data da convenirsi in base ad accordo diretto fra il Fondo e il nostro Paese. In tale caso si avrebbe la facoltà di acquistare dal Fondo, entro il periodo di maggior mora così concordato, valute di altri paesi membri, alle condizioni e nell’ammontare stabiliti dal Fondo.

 

 

Nell’eventualità che le predette notifiche abbiano luogo, il Fondo e l’Italia dovrebbero prendere accordi per fissare il periodo entro il quale concordare una conveniente parità monetaria. Se entro tale periodo non venisse raggiunto un accordo, l’Italia sarebbe considerata dimissionaria.

 

 

Con la partecipazione alla Banca, l’Italia ha ricevuto 1.800 azioni del valore nominale di 100 mila dollari ognuna ed ha assunto l’obbligo di effettuare, oltre ai versamenti sopraindicati, un ulteriore versamento in valuta nazionale pari al 5% della quota, entro il 26 maggio 1947, cosicché complessivamente la somma versata ammonterà al 20% della quota (36 milioni di dollari). Il residuo 80% dovrà essere versato soltanto a seguito di richiamo da parte della Banca per far fronte ad impegni contrattuali e potrà essere corrisposto, a scelta dell’Italia, in oro, in dollari degli Stati Uniti o nella valuta occorrente per far fronte agli impegni contrattuali stessi.

 

 

La quota di partecipazione dell’Italia agli istituti di Bretton Woods, fissata, come sopra si è detto, in 180 milioni di dollari, è notevolmente inferiore a quella che il paese aspirava ad ottenere e che era legittimo attendersi. Come già si ebbe occasione di indicare nella relazione dello scorso anno, la quota che avrebbe dovuto essere assegnata all’Italia, tenuto conto dei criteri seguiti per la determinazione delle quote fissate per gli altri paesi, non avrebbe dovuto essere inferiore ai 250 milioni di dollari. Se la quota assegnata all’Italia si discosta sensibilmente da questa cifra, ciò può attribuirsi al fatto che nella sua determinazione si è tenuto conto dell’attuale situazione economica del paese, la quale risente di tutte le conseguenze della guerra. Qualora però si consideri che questa situazione è di natura del tutto transitoria, sussistendo all’interno condizioni favorevoli alla ripresa, è lecito domandarsi se tale riferimento sia stato appropriatamente scelto. In ogni modo, ci si deve augurare che in un avvenire non troppo lontano le autorità del Fondo monetario trovino nella realtà economica italiana motivo per consentire al nostro paese, come già è stato fatto per altri, un aumento della quota di partecipazione in misura adeguata alle sue effettive necessità e alla sua importanza nel consesso delle nazioni.

 

 

La partecipazione dell’Italia agli istituti di Bretton Woods, mentre impegna il paese a coordinare la propria politica economica con quella internazionale, viene ad assicurare la collaborazione ed assistenza, entro certi limiti, del Fondo e della Banca per la realizzazione di tale intento. Deve però rilevarsi che l’adesione al Fondo monetario pone problemi singolarmente notevoli per l’Italia in un momento in cui la bilancia dei pagamenti è dissestata in conseguenza della guerra e non potrà trarre dal ricorso al Fondo sensibile sollievo.

 

 

La partecipazione alla Banca apre, sotto questi riguardi, maggiori prospettive di aiuto, in quanto la Banca può assistere le economie dei paesi associati con finanziamenti a lungo termine e garanzie. Tuttavia anche in questo caso il soddisfacimento delle richieste di finanziamento che l’Italia potrà avanzare, pur non essendo commisurato all’entità della quota sottoscritta, come avviene per le operazioni del Fondo, trova ostacoli nelle limitate disponibilità della Banca in rapporto alla domanda complessiva dei paesi partecipanti; cosicché si può concludere che, in definitiva, l’adesione al sistema di Bretton Woods da parte dell’Italia avviene non tanto in vista di vantaggi diretti e immediati quanto come dimostrazione di pieno consenso ai motivi ideali di collaborazione internazionale ai quali esso si ispira.

 

 

Gli impegni derivanti dall’adesione al sistema di Bretton Woods trovano tuttavia, nello statuto stesso del Fondo, qualche temperamento, ispirato alla necessità di adeguarli alla attuale situazione di fatto di molti paesi. L’accordo consente infatti che, nei primi anni di funzionamento del Fondo, i paesi occupati dal nemico, tra cui l’Italia, possano mantenere e, se necessario, introdurre misure valutarie discriminatorie e restrizioni ai pagamenti e ai trasferimenti anche per transazioni internazionali correnti. Quello di seguire strade serpeggianti che allungano il cammino moderando l’asprezza dell’ascesa può essere il solo modo che ci si offre di raggiungere una meta ardua: una maggiore insistenza sull’osservanza del principio dell’unità dei tassi di cambio avrebbe potuto sortire un effetto opposto a quello desiderato, rendendo necessaria l’instaurazione o il mantenimento nei paesi aderenti di organi monopolistici di raccolta ed assegnazione delle valute estere, mentre la totale eliminazione dei controlli valutari avrebbe potuto determinare la piena instabilità dei corsi.

 

 

I temperamenti previsti consentono ai paesi deboli di aderire senza la cattiva coscienza di assumere impegni che non potranno mantenere o il cui mantenimento supporrebbe deflazione e conseguentemente depressione e disoccupazione. Considerazioni di tutt’altro ordine sono quelle che possono trattenere i paesi economicamente forti, i quali hanno ragione di temere che l’adesione al sistema provochi, da un lato, un forte afflusso di oro al paese con conseguenti effetti inflazionistici e dall’altro li esponga a subire le restrizioni derivanti dalla clausola della valuta scarsa senza possibilità di rivalsa e di tutela dei propri diritti su un piede di parità, specie se tali fattori negativi non sono neppure compensati da ragioni di prestigio politico e dalla possibilità di esercitare un effettivo controllo, attraverso il diritto di voto, in seno ai due istituti.

 

 

Una conferma della relativa elasticità di direttive che presiede all’applicazione delle norme disposte dagli accordi di Bretton Woods si può ritrovare nella recente accettazione da parte del Fondo delle parità monetarie presentate dai paesi partecipanti.

 

 

Il 12 settembre 1946 il Consiglio degli amministratori esecutivi del Fondo ha invitato i 39 governi membri originari del Fondo a fissare le parità monetarie dei loro territori metropolitani e coloniali e a comunicare entro 30 giorni il valore delle rispettive monete espresso in oro o in dollari statunitensi, al fine di consentire al Fondo di iniziare le operazioni a partire dal primo marzo 1947. Otto di questi paesi, e precisamente il Brasile, la Cina, la Repubblica Dominicana, la Grecia, la Polonia, la Jugoslavia, la Francia nei rispetti dell’Indocina e l’Olanda nei rispetti delle Indie Olandesi, hanno richiesto, e il Fondo ha accordato, un periodo maggiore di tempo per la determinazione delle loro parità iniziali.

 

 

In base alle comunicazioni delle parità monetarie pervenutegli dagli altri partecipanti, il Fondo, trascorsi i 90 giorni previsti nell’accordo per l’esame e l’eventuale rettifica della parità, ha deliberato le parità ufficiali dei detti membri dandone comunicazione il 18 dicembre 1946.

 

 

Come risulta dalle stesse dichiarazioni ufficiali da parte del Fondo, le parità monetarie ora accettate non devono essere considerate, in molti casi, come corrispondenti alle parità economiche.

 

 

Le ragioni addotte dal Fondo per spiegare tale atteggiamento sono diverse; esse valgono a confermare che il Fondo non si ritiene praticamente legato ad uno schema preordinato in modo netto e reciso. In particolare la dichiarazione che non si è voluto compromettere lo sforzo di molti paesi ora impegnati a combattere l’inflazione e a restaurare la produttività delle loro, economie in modo da portare il livello interno dei costi in linea con quello internazionale, dimostra che alcune delle parità ora accettate sono, in ispecie per i paesi europei devastati dalla guerra, troppo elevate rispetto al dollaro. Questa situazione di fatto si dovrà tenere presente nella determinazione della parità della lira italiana e nell’adozione di un’opportuna politica valutaria, poiché si dovrà evitare che l’eventuale accettazione di una parità economica col dollaro comporti come necessaria conseguenza la sottovalutazione della lira italiana rispetto alle monete europee.

 

 

La Banca dei regolamenti internazionali

 

Anche nel corso del 1946 l’attività della Banca dei regolamenti internazionali ha rispecchiato le condizioni del periodo post bellico, poco propizie ad un incremento del volume degli affari. Il totale di bilancio, che al 31 dicembre 1945 era di 454,4 milioni di franchi svizzeri oro, si è mantenuto stazionario e ascendeva al 31 dicembre 1946 a 456,9 milioni di franchi svizzeri oro.

 

 

La necessità di assicurare un elevato grado di sicurezza e di liquidità ai propri investimenti, che aveva ispirato durante la guerra la politica della Banca, ha continuato a caratterizzarne durante l’annata scorsa, fino a tutto il mese di novembre, la ripartizione degli impieghi, con un conseguente ulteriore accrescimento della riserva metallica che tra il dicembre 1945 e il novembre 1946 è passata da 118,3 a 123,0 milioni di franchi svizzeri oro, dopo aver toccato un massimo di 124,8 milioni alla fine di luglio.

 

 

Peraltro, il rendimento eccezionalmente basso degli impieghi e il graduale miglioramento della situazione internazionale hanno indotto recentemente la Banca a rivedere la propria politica, adattandola alle nuove circostanze, e a seguire, nella ripartizione e nell’impiego dei fondi, criteri meglio rispondenti alle esigenze di bilancio. Tale nuovo orientamento ha avuto una prima pratica attuazione nello scorso dicembre con la riduzione di circa 26 milioni della riserva metallica, passata da 123,0 a 97,1 milioni di franchi svizzeri oro a seguito di cessioni definitive o temporanee di oro, e con un aumento correlativo negli investimenti in carta commerciale e buoni del tesoro.

 

 

Nel dicembre 1946, dopo una interruzione di oltre sette anni, sono state riprese a Basilea le sedute del Consiglio di amministrazione con l’intervento dei rappresentanti belgi, francesi, inglesi, italiani, olandesi, svedesi e svizzeri, la maggior parte dei quali partecipavano per la prima volta alle riunioni del consiglio. La B.R.I. si avvia così nuovamente ad assolvere ad una delle sue funzioni tradizionali, quella di facilitare, attraverso periodici contatti tra i rappresentanti dei vari istituti di emissione, la soluzione di problemi economici interessanti i singoli paesi.

 

 

La collaborazione della B.R.I. con la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo ha già avuto modo di manifestarsi concretamente alla fine del 1946 in occasione del viaggio in Europa di alcuni funzionari di quest’ultima, e si può fondatamente ritenere che essa andrà progressivamente precisandosi e intensificandosi nel reciproco interesse dei due istituti.

 

 

La bilancia dei pagamenti

 

Le avverse condizioni politico economiche degli anni dopo il 1930 avevano compromesso il difficile equilibrio che la bilancia dei pagamenti di un paese come il nostro, privo delle materie prime fondamentali e sovrapopolato, riusciva a trovare in tempi ormai lontani grazie alle esportazioni, le quali coprivano per il 60-70% l’onere delle importazioni, ed ai saldi attivi delle partite invisibili: le rimesse degli emigrati, i noli, gli introiti derivanti dal movimento turistico.

 

 

La guerra, logorando l’apparato produttivo, ha lasciato dietro di sé una maggiore necessità di rifornimenti ed una menomata possibilità di pagamento.

 

 

Valutazioni del governo italiano eseguite nel novembre 1945, sulla base dei prezzi correnti a quell’epoca, facevano ascendere a circa 1.250 milioni di dollari il fabbisogno totale di importazioni per il 1946. Aggiungendo a tale ammontare il costo dei trasporti, il valore complessivo aumentava a 1.650 milioni.

 

 

Tale fabbisogno, comprendente anche prodotti destinati alla riesportazione, era così ripartito tra le varie categorie:

 

 

Prodotti alimentari…………………………………

365

milioni di dollari
Combustibili solidi e liquidi……………………….

121

»        »       »
Prodotti farmaceutici e sanitari…………………..

10

»        »       »
Materie prime per l’industria………………………

514

»        »       »
Macchinari…………………………………………

115

»        »       »
Riserva per impreviste necessità………………..

125

»        »       »

Per un totale di…….

1.250

»        »       »

 

 

Le valutazioni erano ispirate alla direttiva di assicurare:

 

 

  • la distribuzione di prodotti alimentari (pane, generi da minestra, grassi, zucchero, carni e legumi secchi) alla popolazione tesserata per 1.500 calorie giornaliere, le quali, opportunamente integrate con i prodotti a libero consumo, avrebbero aumentata la disponibilità complessiva a 2.000 calorie;

 

  • il massimo assorbimento della mano d’opera mediante la riattivazione dell’industria ad un livello medio pari al 70/75 per cento di quello prebellico, vale a dire al livello prevedibilmente consentito dall’efficienza del sistema dei trasporti;

 

  • i rifornimenti essenziali per i trasporti (carbone) e per l’incremento dell’attività agricola (concimi, bestiame, antiparassitari, macchine, ecc.).

 

 

Per contro, le nostre esportazioni, salvo per alcuni prodotti agricoli, non apparivano suscettibili di una pronta ripresa, subordinate come erano alla scarsezza delle materie prime, alle difficoltà della produzione, alla insufficienza del sistema dei trasporti ed anche alle speciali condizioni nelle quali si svolgevano allora i rapporti economici internazionali. Se si fa eccezione delle rimesse emigrati, che avevano già iniziato a rifluire in misura promettente, anche le partite invisibili non inducevano a favorevoli previsioni. Le forti perdite della flotta mercantile avevano tramutato in passiva una posta che era sempre stata attiva. Le difficoltà di ordine generale limitavano a cifre trascurabili l’introito valutario del turismo.

 

 

In tali circostanze veniva stimato ad appena 220 milioni di dollari l’ammontare delle partite attive correnti.

 

 

Il rapporto presentato dal governo italiano al V consiglio generale dell’U.N.R.R.A., tenutosi a Ginevra nell’agosto dello scorso anno, valutava a 180 milioni di dollari il valore delle esportazioni e a 40 milioni di dollari l’introito delle rimesse emigrati e di altre partite invisibili.

 

 

Si poteva anche contare sulle disponibilità sull’estero derivanti dalla parte non ancora utilizzata dei crediti concessi dagli Stati Uniti a valere sul fondo paga truppe e del fondo della Foreign Economic Administration nonché dai post liberation accounts, disponibilità che ammontavano complessivamente a circa 280 milioni di dollari.

 

 

Tali disponibilità erano così costituite:

 

 

  • fondo paga truppe, rappresentante il credito aperto dagli Stati Uniti in contropartita di parte delle am-lire emesse dalle proprie truppe combattenti sul nostro territorio. Tale credito ammontava a 140 milioni di dollari di cui soltanto 14 milioni circa erano stati già utilizzati dal governo italiano per importazioni di merci. Rimaneva, pertanto, disponibile per il 1946 un saldo di 126 milioni di dollari;

 

  • Fondo della Foreign Economic Administration, stanziato dagli Stati Uniti nell’agosto del 1945 nell’intento di provvedere ai rifornimenti tra il settembre e il dicembre di quell’anno, cioè nel periodo corrente tra la cessazione dei rifornimenti civili da parte delle autorità militari alleate e l’inizio del nuovo piano dell’ U.N.R.R.A. Gli stanziamenti ascendevano a 100 milioni di dollari, esclusi i noli; il valore c.i.f. delle relative forniture può calcolarsi a circa 140 milioni di dollari. Le difficoltà dei trasporti e del reperimento delle merci sui mercati internazionali hanno impedito che il programma fosse completamente attuato nel 1945. Alla fine di quell’anno. le importazioni a valere su tale fondo ammontavano a 50 milioni di dollari lasciando quindi un residuo di 90 milioni ai quali occorre aggiungere circa 8 milioni di forniture, principalmente costituite da lana e gomma, fatte dall’Inghilterra con analoghi intenti;

 

  • post liberation accounts, costituiti dalle rimesse emigrati e dal ricavo delle esportazioni italiane verso i paesi alleati successivamente alla conclusione dell’armistizio e che si valutavano a circa 60 milioni di dollari.

 

 

Nei riguardi delle partite correnti, la situazione subì in effetti un sensibile miglioramento, rispetto alle previsioni, nel corso dell’anno sotto rassegna; e ciò, sia per il più intenso sviluppo assunto dalle correnti di esportazione, sia per gli aiuti che le nazioni alleate, e in particolare gli Stati Uniti, hanno inteso prestare al nostro paese. Primo fra questi, in ordine di importanza, è stato l’aiuto ricevuto attraverso l’U.N.R.R.A. in seguito all’ammissione dell’Italia tra i paesi che beneficiano dell’assistenza di quell’ente.

 

 

Invero, l’U.N.R.R.A. aveva già iniziato, nel 1945, la sua attività assistenziale in base ad un piano che contemplava per quello stesso anno importazioni di merci in Italia per 50 milioni di dollari. Tale piano, peraltro, non aveva ancora avuto integrale realizzazione quando venne compilato il nuovo programma per il 1946 ispirato ai fini della ricostruzione oltre che a quelli della pura assistenza.

 

 

Esso prevedeva rifornimenti per un totale di 425 milioni di dollari (esclusi i noli) in questi compreso il valore delle importazioni già effettuate nell’anno precedente.

 

 

Difficoltà di vario genere, sopratutto originate dagli scioperi verificatisi nel Nord America, hanno impedito che il piano di importazione potesse completarsi, cosicché soltanto una parte, sebbene la più cospicua, ha avuto esecuzione entro il termine previsto. Trascurando le importazioni avvenute nel 1945, che rappresentano una percentuale minima (poco più del 4 per cento), il valore c.i.f. delle importazioni ha raggiunto, nel 1946, oltre il 71 per cento del totale del piano con 380 milioni di dollari.

 

 

Secondo dati dell’U.R.R.A., il programma presenta il seguente sviluppo:

 

 

 

 

Prezzi c.i.f. porti italiani

(in migliaia di dollari)

 

 

 

1945

 

1946

1947

Totale

Prodotti alimentari ………………

14.495

184.336

73.050

271.881

Generi di abbigliamento ………

2.134

45.935

6.920

54.989

Prodotti per l’agricoltura ………

9.833

8.270

18.103

Medicinali e prodotti sanitari….

3.940

3.283

4.500

11.723

Prodotti per l’industria ………….

998

136.574

38.500

176.072

Totale ……….

21.567

379.961

131.240

532.768

 

 

I rifornimenti hanno riguardato per il 48,5% prodotti alimentari; per il 35,9% prodotti interessanti l’industria; per il 12,1 per cento i generi di abbigliamento; per il 2,6% prodotti per la ricostruzione agricola; e, infine, per il 0,9% i prodotti medicinali e sanitari.

 

 

Altri 131 milioni di dollari restano pertanto disponibili per il 1947 e saranno utilizzati prevalentemente per rifornimenti di generi alimentari (66%) e di prodotti per l’industria (29%).

 

 

Ma oltre ai cospicui fondi erogati dall’ U.N.R.R.A. per sostenere l’opera di ripresa e di ricostruzione nazionale, altri ve ne sono stati, seppure di minore entità, dei quali l’economia italiana si è giovata per fronteggiare le proprie occorrenze di acquisti all’estero. Sono stati questi:

 

 

  • gli accreditamenti del governo degli Stati Uniti sul fondo paga truppe per altri 18,7 milioni di dollari, che hanno accresciuto a 145 milioni tali disponibilità;

 

  • il prestito di 25 milioni di dollari concesso dalla Export Import Bank ai cotonieri italiani per l’importazione di materie prime in Italia, da lavorarsi e da riesportare sotto forma di prodotti semilavorati o finiti nei paesi al di fuori dell’area del dollaro.

 

 

Anche per quanto riguarda le partite correnti, come si e già accennato, vi è stato un miglioramento degno di nota. Questo è sopratutto evidente nelle esportazioni che, oltre alla ripresa degli scambi con l’estero su basi private, si sono largamente avvantaggiate del regime di parziale libertà introdotto con le norme che lasciano a disposizione degli esportatori verso i paesi a valuta libera il 50% delle valute ricavate. Per quanto non si disponga di dati statistici che permettano di conoscere con esattezza il volume ed il valore delle esportazioni nel 1946, tuttavia una stima del valore è possibile in base al movimento valutario avvenuto per il tramite dell’Ufficio italiano dei cambi. Trattasi ovviamente di stima largamente approssimativa per la ragione che le rilevazioni si basano su dati contabili, seppure rettificati per correggere l’errore derivante dallo sfasamento di tempo rispetto all’effettivo movimento delle merci, ed anche per il fatto che le rilevazioni stesse risentono le evasioni alle disposizioni valutarie.

 

 

Considerando il movimento complessivo, in qualsiasi forma avvenuto (compresi gli affari di reciprocità e di compensazione privata, nonché quelli di lavorazione per conto terzi regolati in valuta), sia verso i paesi con i quali l’Italia non ha stipulato accordi, sia verso i paesi con i quali accordi di pagamento o di compensazione sussistono, il valore delle esportazioni regolate dall’Ufficio italiano dei cambi raggiunge l’ammontare di 376 milioni di dollari.

 

 

I dati provvisori dell’Ufficio italiano dei cambi considerano:

 

 

– esportazioni regolate a norma del decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo 1946, n. 139, ivi comprese le lavorazioni per conto terzi ………………………………………………………

278,8

 

 

milioni di dollari

– ricavo esportazioni regolate con accordi di compensazione generale………………………………………………………………….

45,5

 

»        »        »

– affari di reciprocità…………………………………………………….

3,8

»        »        »
– compensazioni private………………………………………………..

35,8

»        »        »
– esportazioni effettuate per il tramite dell’I.C.E. ……………………

10,1

»        »        »
– esportazioni per l’attuazione dei piani di ricostruzione ed assistenza in altri paesi europei, effettuate direttamente dall’ U.N.R.R.A ……………………………………………………………….

1,8

 

 

»        »        »

per un totale di……

375,8

milioni di dollari

 

 

Questo totale non comprende le esportazioni di merci lavorate. per conto di committenti esteri, contro pagamento in materia prima (valutabili a 40 milioni di dollari). Esso è più che doppio della previsione fatta nel novembre 1945 ed indica la ripresa di cui è capace il paese, solo che possa applicare le forze di lavoro di cui largamente dispone.

 

 

In conclusione, l’economia italiana ha potuto fruire nel 1946 dei seguenti mezzi di pagamento sull’estero:

 

 

Totale partite correnti ………………………………………………….

di cui:

436

milioni di dollari

– per esportazioni ………………………………………………………

376

»……»……»

– per rimesse emigrati ed altre partite invisibili ……………….

60

»……»……»

Totale partite straordinarie …………………………………………..

di cui:

708

»……»……»

– fondo U.N.R.R.A. (parte utilizzata nel 1946) …………………

380

»……»……»

– residuo fondo paga truppe …………………………………………

145

»……»……»

– residuo fondo F. E. A. e forniture inglesi ……………………..

98

»……»……»

– post liberation accounts …………………………………………….

60

»……»……»

– prestito della Export Import Bank alla industria cotoniera

25

»……»……»

per un totale complessivo di …….

1.144

milioni di dollari

 

 

Di tale ammontare di mezzi di pagamento sull’estero, una parte è stata tenuta a disposizione del tesoro per le future esigenze; un’altra parte, invece, non ha potuto essere utilizzata entro l’anno per difficoltà di varia natura. Tra queste, la generale scarsità sui mercati internazionali delle materie prime e dei prodotti di cui abbiamo maggiormente bisogno; l’impossibilità di valersi della valuta inglese, di cui le nostre disponibilità sull’estero largamente si compongono, entro l’area del Commonwealth per la deficienza di materie prime che normalmente importavamo da quei paesi e, fuori della stessa area, per la disciplina del commercio delle divise vigente in Inghilterra; l’elevato tasso di cambio sulla base del quale si regolano le importazioni dai paesi a valuta libera.

 

 

Valutazioni provvisorie del Comitato interministeriale per la ricostruzione stimano che l’importo effettivo delle somme erogate nel corso del 1946 per gli acquisti all’estero non abbia superato i 780 milioni di dollari; cui, per avere un quadro completo delle merci entrate in Italia, occorrerebbe aggiungere le importazioni in regime di franco valuta, valutate intorno a 20 milioni di dollari, e i materiali residuati delle truppe alleate assorbiti dal mercato interno, valutati a circa 60 milioni di dollari. Ciò porterebbe a valutare approssimativamente il complesso delle importazioni italiane, nel 1946, a circa 860 milioni di dollari.

 

 

La contrazione del valore delle merci importate nello scorso anno a poco più della metà del fabbisogno, previsto nel novembre 1945 in 1.650 milioni, ha limitato la ripresa dell’attività industriale, che si è sviluppata in maniera stentata ed irregolare e, nel complesso, con un ritmo assai più lento che negli altri paesi europei e con serie ripercussioni sulla occupazione operaia.

 

 

Particolarmente sentita è stata la deficienza di carbone, aggravata dalla crisi dell’industria idroelettrica. Le assegnazioni, fatte con assoluta precedenza ai servizi pubblici (trasporti, gas ecc.) hanno ridotto le disponibilità di carbone per l’industria al 35-40% del consumo anteguerra.

 

 

Per il 1947, revisioni recenti del Comitato interministeriale per la ricostruzione della stima presentata dal governo italiano al V Consiglio generale dell’ U.N.R.R.A. riunitosi a Ginevra nell’agosto scorso, registrano al passivo un fabbisogno totale di importazioni di 1.873 milioni circa di dollari di cui: 1.313 per materie prime e prodotti per l’industria e i trasporti; 460 per prodotti alimentari e l’agricoltura; 100 per importazioni di varia natura.

 

 

A queste si aggiungono altre partite passive, quali le spese diplomatiche e consolari dei nostri rappresentanti all’estero; la rata d’interesse per il pagamento dei residuati americani; la rata d’interessi e ammortamenti delle navi Liberty, che si valutano a circa 20 milioni di dollari.

 

 

Il ritmo delle importazioni nei primi mesi dell’anno si è mantenuto sensibilmente inferiore a quello corrispondente alla copertura di tale fabbisogno. La riduzione agisce in misura più che proporzionale sulla capacità di esportazione perché il consumo interno non può scendere sotto un certo limite, cosicché la limitazione delle importazioni esercita il proprio peso prevalentemente sulle disponibilità dei prodotti destinati all’estero.

 

 

A questo riguardo il Comitato interministeriale per la ricostruzione, nella previsione delle difficoltà di approvvigionameuto, ha ipotizzato alcune riduzioni di rifornimenti rispetto a quelli contemplati nella stima (minori importazioni di carbone per 1,5 1,2 milioni di tonnellate; di materiali siderurgici per 400 mila tonnellate; di legname per 700 mila tonnellate ecc.). In queste ipotesi, mentre le importazioni si ridurrebbero a circa 1.700 milioni di dollari, le esportazioni si aggirerebbero sui 600 milioni di dollari, lasciando un disavanzo di circa 900 milioni di dollari.

 

 

A risultanze alquanto diverse (principalmente per effetto dei prezzi più bassi adottati nei calcoli) giunge la stima effettuata nello scorso dicembre dall’ U.N.R.R.A., la quale prevede al passivo un esborso totale di valute per 1.233 milioni di dollari derivante da un fabbisogno di importazioni per 1.213 milioni di dollari (alimentari 397 milioni; industriali 719 milioni; agricole 17 milioni; varie 80 milioni) e da spese all’estero di natura non commerciale per 20 milioni di dollari.

 

 

Nella parte attiva, le esportazioni sono complessivamente valutate a 505 milioni di dollari (456 milioni di esportazioni industriali; 44 milioni di esportazioni agricole; 5 milioni di esportazioni varie) mentre le partite invisibili darebbero un gettito di 125 milioni di dollari così ripartiti:

 

 

– noli attivi ………………………………………………..

45

milioni

– rimesse dall’estero ………………………………….

50

»

– movimento turistico …………………………………

30

»

 

 

Secondo tali valutazioni il disavanzo della bilancia italiana dei pagamenti per il 1947 sarebbe quindi di 603 milioni di dollari.

 

 

Il disavanzo potrà essere in parte coperto con il completamento del piano U.N.R.R.A. (131 milioni di dollari); con gli aiuti post U.N.R.R.A.; con i nuovi crediti concessi dagli Stati Uniti all’inizio di quest’anno a fronte delle emissioni di am lire per scopi diversi dalla paga alle truppe (101 milioni di dollari) e con quelli che potranno seguire allo stesso titolo; con il gettito del prestito da parte della Export Import Bank trattato durante la missione del presidente De Gasperi negli Stati Uniti, e che ammonterà prevedibilmente a 100 milioni di dollari; con il credito aperto dal governo canadese (3,9 milioni di dollari) a fronte delle am lire emesse per le proprie truppe; infine con le ulteriori disponibilità in dollari che si costituiranno in base all’accordo del febbraio scorso con il tesoro nord americano.

 

 

Gli accordi commerciali

 

Nel corso dell’anno, si è addivenuti alla stipulazione di nuovi accordi commerciali e di pagamento ed alla rinnovazione di quelli già in vigore venuti nel frattempo a scadere. Il principio accolto negli accordi è quello dell’equilibrio degli scambi tra i due paesi contraenti; tuttavia essi contengono clausole temperatrici dello schema di rigorosa bilateralità. Principale, fra esse, la clausola per cui ognuna delle due parti consente che i pagamenti abbiano ad eccedere le disponibilità esistenti a favore dell’altra parte ad un limite fissato di solito in una percentuale ragguardevole degli scambi previsti. Si è inoltre badato a prevenire la possibilità che gli scambi subiscano un totale arresto nel caso in cui il clearing non abbia a funzionare, adottando all’uopo altri accorgimenti, quali quelli degli affari di reciprocità e del regolamento in valuta libera di determinati prodotti, al di fuori dei contingenti previsti dagli accordi.

 

 

Tra le misure rivolte ad assicurare la continuità dei pagamenti attraverso i conti di compensazione, sono da ricordare le intese intervenute nell’accordo italo belga dell’aprile 1946 che prevedono il regolamento in divisa o in oro, alla fine di ogni mese, dell’eventuale eccedenza rispetto al limite del finanziamento (di 100 milioni di franchi belgi), che gli istituti di compensazione possono consentire per sopperire alle eventuali deficienze di disponibilità nei conti di clearing. L’accordo prevede inoltre che alla sua scadenza il saldo venga regolato dal paese debitore nella moneta dell’altro paese o, in mancanza di questa, in oro o in divisa libera.

 

 

La clausola di finanziamento trova applicazione anche negli accordi con la Norvegia (nei quali è stabilito un limite di finanziamento di 300 mila sterline), firmati nel luglio del 1946; in quelli con i Paesi Bassi (6 milioni di fiorini) e con la Polonia (1 milione di dollari), rispettivamente dell’agosto e dell’ottobre dello scorso anno; in quello con la Francia, firmato nel dicembre e che rinnova, con talune aggiunte e modifiche, quello del febbraio 1946.

 

 

In questi accordi, cosiddetti di tipo monetario, è stato stabilito che le parti interessate debbano consultarsi ove il saldo dei conti di compensazione ecceda il limite del finanziamento. Il paese creditore ha la facoltà di cessare i pagamenti disposti dall’istituto di compensazione dell’altro paese; il paese debitore ha da parte sua la facoltà di cedere al paese creditore, a valere sulle somme accreditate nel conto aperto al nome di quest’ultimo, oro e divise estere di gradimento dell’altra parte.

 

 

Gli affari di reciprocità sono stati ammessi in taluni casi come una forma di regolamento affiancata od alternativa a quella di compensazione generale. Essi sono previsti negli accordi con la Norvegia, i Paesi Bassi, la Svezia e l’Ungheria.

 

 

Negli accordi con la Svezia del novembre 1946 il conto in corone istituito in base all’accordo del novembre 1945 è stato diviso in due sottoconti, A e B, il primo per regolare i pagamenti del clearing già in vigore; il secondo per il regolamento, in via di reciprocità, di quelli nascenti dallo scambio di determinate merci italiane e svedesi di particolare interesse. Nel caso in cui il clearing riprenda a funzionare, è riservata all’Ufficio italiano dei cambi la facoltà sia di costituirsi fondi in corone mediante cessione di valuta libera per fronteggiare eventuali deficienze di disponibilità nel sottoconto A sia di convertire in divisa le disponibilità del conto stesso eccedenti i bisogni. Tale possibilità non esiste per l’altro sottoconto, dato l’interesse che da ciascuno dei due paesi si annette alle merci importate dall’altro paese.

 

 

Con l’Ungheria, ai termini dell’accordo del novembre, gli scambi si svolgono esclusivamente attraverso affari di reciprocità regolati per mezzo di conti speciali in dollari aperti per ciascun affare presso i rispettivi istituti di compensazione.

 

 

Gli affari di reciprocità hanno le caratteristiche delle compensazioni private, ma si inseriscono nel sistema del clearing in quanto il loro regolamento avviene attraverso sottoconti speciali di compensazione aperti per ciascun affare. Essi consentono di mantenere un certo volume di scambi tra due paesi anche nel caso di congelamento del clearing o di esaurimento dei contingenti previsti dagli accordi, di modo che, specie trattandosi di merci di particolare interesse, se ne rende possibile lo scambio senza che occorra attendere la stipulazione di nuovi accordi.

 

 

Nel 1946 soltanto con la Svezia e la Norvegia si sono avuti affari di reciprocità; gli accordi con l’Ungheria e con l’Olanda hanno praticamente cominciato a funzionare nel corrente anno.

 

 

Il valore complessivo degli affari conclusi con la Svezia è stato di corone svedesi 103,5 milioni; il controvalore in lire italiane è stimato ad oltre 9 miliardi. Di essi ne erano stati approvati a tutto il dicembre per 62 milioni di corone, corrispondenti a 5,6 miliardi di lire circa.

 

 

Quelli con la Norvegia hanno raggiunto un totale di 16 milioni di corone per il controvalore di circa 1,1 miliardi di lire. Gli affari approvati a tutto il dicembre ascendevano a 2 milioni di corone per il controvalore di 143 milioni di lire.

 

 

La possibilità di regolamento in valuta libera di determinate merci al di fuori dei contingenti convenuti è contemplata negli accordi stipulati con la Svezia, i Paesi Bassi, la Danimarca e il Belgio.

 

 

Per la Svezia il regolamento in valuta ha luogo per un notevole numero di voci, comprendenti materie prime, tessuti, filati, medicinali, taluni semilavorati, macchine, navi ecc.

 

 

L’accordo con i Paesi Bassi prevede il regolamento in dollari o in qualsiasi altra divisa liberamente trasferibile, accettata dai governi dei due paesi,delle seguenti merci: all’esportazione, tessuti di cotone o misti e minio di piombo; all’importazione, ghisa, stagno, caucciù, gomma lacca e pepe.

 

 

Nel protocollo stipulato con la Danimarca nel dicembre 1946 il regolamento in valuta libera è limitato alla esportazione dall’Italia di un certo quantitativo di filati di cotone non compresi nella lista dei contingenti.

 

 

Nei confronti del Belgio è prevista la possibilità di regolare in lire sterline l’importazione in Italia di carbone e altre merci non incluse nei contingenti.

 

 

Nella stipulazione degli accordi commerciali, è talora ricorsa la clausola del regolamento in valuta diversa dalle monete di conto dei paesi contraenti. Così per la Danimarca e la Norvegia i conti di clearing sono tenuti in lire sterline e per la Polonia e l’Ungheria in dollari.

 

 

Nelle intese intercorse con la Jugoslavia nell’ottobre, è stata disposta l’apertura di un conto in lire presso la rappresentanza di Milano dell’Ufficio italiano dei cambi al nome del Centralno Prometno A. D. di Belgrado, destinato al regolamento degli scambi e di altre partite tra l’Italia (esclusa la zona A della Venezia Giulia) e la Jugoslavia (esclusa la zona B della Venezia Giulia).

 

 

Le altre partite comprendono le spese accessorie degli scambi, le spese di amministrazione, il sostentamento di rappresentanti e fiduciari di ditte jugoslave in Italia, le spese di viaggi o e soggiorno di commercianti e industriali jugoslavi in Italia e le spese che la Jugoslavia deve sostenere per il recupero da parte di ditte italiane di natanti jugoslavi affondati lungo la costa adriatica.

 

 

Infine con alcuni paesi, rispetto ai quali non si è ancora addivenuti ad una regolare ripresa dei rapporti economici (fra l’altro per la difficoltà di fissare un sicuro rapporto di cambio) gli scambi si svolgono sulla base delle compensazioni private. Tra essi si noverano l’Austria, con la quale le compensazioni private sono disciplinate da apposito accordo, e la Svizzera, cioè due paesi che nell’anteguerra intrattenevano con l’Italia larghe correnti di commercio.

 

 

L’ordinamento valutario e il mercato dei cambi

 

Per gli scambi che si svolgono con i paesi a valuta libera, la disciplina valutaria ha subito una sostanziale modifica con la concessione, fatta agli esportatori di merci di produzione nazionale, della disponibilità del 50% delle valute ricavate dalle esportazioni; che è stato reso negoziabile ed utilizzabile per l’importazione di merci di prima necessità.

 

 

Il decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo 1946, n. 139 (entrato in vigore, con procedura di urgenza, il giorno 23 dello stesso mese), ha autorizzato l’Ufficio italiano dei cambi a mettere a disposizione degli esportatori la predetta quota di valuta, in conti aperti presso la Banca d’Italia o presso una banca agente, utilizzabili per: a) pagamenti all’estero per acquisto di determinate merci da importare in Italia e relative spese accessorie; b) libere negoziazioni nel territorio italiano mediante trasferimento ad un conto analogo, intestato a persona fisica o giuridica avente domicilio o sede in Italia, purché la somma ceduta venga utilizzata per lo scopo anzidetto.

 

 

Per la pratica applicazione di questo provvedimento è stato emanato il decreto ministeriale 13 aprile 1946, contenente la elencazione delle merci importabili mediante utilizzo della quota disponibile; merci la cui scelta è stata fatta in base al criterio di assicurare l’approvvigionamento di prodotti e materie essenziali all’economia del paese, esclusi quindi i generi voluttuari e di lusso, che, avendo raggiunto sul mercato interno prezzi elevati, avrebbero determinato, ove se ne fosse consentita la libera importazione, un inasprimento dei cambi.

 

 

Le merci importabili con la valuta disponibile sono state elencate in due separate liste: quella delle importazioni ammesse direttamente dalle dogane su benestare bancario (lista A) e quella delle importazioni vincolate alla licenza ministeriale (lista B) comprendente anche merci soggette a controllo internazionale (Reserved Commodity Lists). (Con decreto del 3 settembre le liste sono state modificate mediante la soppressione di talune voci della lista A e il passaggio di numerose altre dalla lista A alla B).

 

 

Per l’utilizzo della quota è stato inoltre fissato un termine massimo, originariamente di 90 giorni a decorrere dalla data di accreditamento nei conti valutari, in seguito esteso a 90 giorni a partire dal primo giorno del mese successivo a quello dell’accreditamento (decreto ministeriale 31 maggio 1946), ancora modificato dal decreto ministeriale 3 settembre, che, per accelerare l’afflusso di valuta sul mercato nazionale, lo riduceva a 60 giorni dalla data dell’accreditamento, fissando in 4 mesi dalla data medesima il limite massimo per l’esecuzione dell’obbligo dell’importazione, e ulteriormente variato dal decreto ministeriale 20 gennaio 1947 in 60 giorni dal primo giorno del mese successivo a quello durante il quale è avvenuto l’accreditamento nei conti valutari. (Il decreto del 3 settembre ha anche abrogato l’ultimo comma dell’art. 3 del decreto ministeriale 13 aprile 1946, in base al quale la quota a disposizione dell’esportatore o del cessionario veniva considerata come utilizzata nel termine di 90 giorni previsto dal decreto stesso, anche quando, entro tale termine, per il tramite di una banca ed al fine di eseguire pagamenti all’estero per gli scopi indicati dal decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo 1946, n. 139, venisse effettuata un’apertura di credito confermata ed irrevocabile, ancorché con scadenza successiva, ma non superiore ad un periodo di 90 giorni).

 

 

Tutte le norme ora indicate, in un primo tempo applicabili anche agli utili in valuta provenienti dalle operazioni di transito, sono state estese, nel maggio dello scorso anno, ai ricavi in divisa delle lavorazioni di materie prime per conto di committenti stranieri e, nel luglio successivo, ai ricavi per riparazioni a navi estere eseguite nei cantieri nazionali. Subito dopo l’Ufficio italiano dei cambi veniva autorizzato (decreto ministeriale 20 agosto 1946) a mettere a disposizione anche degli armatori italiani o dei noleggiatori di navi mercantili, il 50 per cento della valuta libera da esso accettata in cessione, e rappresentante il corrispettivo dei noli netti ricavati dall’esercizio della navigazione. La quota deve essere utilizzata nel termine di 9 mesi dall’avvenuto accreditamento per: a) pagamenti all’estero per acquisto di navi mercantili; b) trasferimento ad un conto analogo intestato ad altro armatore o noleggiatore italiano, purché quest’ultimo utilizzi la somma cedutagli, per le finalità indicate ed entro il termine fissato originariamente al cedente; c) pagamento di spese in valuta inerenti all’esercizio della navigazione, su autorizzazione del ministero del commercio con l’estero.

 

 

Lo stesso decreto ha inoltre autorizzato l’Ufficio italiano dei cambi a mettere a disposizione degli armatori italiani che acquistano o abbiano acquistato navi battenti bandiera estera mediante finanziamenti esteri in valuta libera, l’intero ammontare dei noli netti in valuta libera ricavati dall’esercizio della navigazione delle navi acquistate. Circa l’utilizzo, è stato stabilito che tali disponibilità possono essere destinate unicamente per il regolamento dei finanziamenti ottenuti per l’acquisto delle navi, restando, per l’eccedenza, disponibili solo nella misura del 50%.

 

 

È sorto quindi un mercato delle valute di esportazione, le cui quotazioni ufficiali hanno avuto inizio il 10 maggio 1946 per il dollaro e per la sterlina e il 28 dello stesso mese per il franco svizzero. Per quest’ultimo, le quotazioni furono fin dall’inizio doppie dei corrispondenti cambi ufficiali maggiorati della quota addizionale del 125%. Anche per le altre due valute, la eccedenza sulle quotazioni ufficiali si andò accentuando di mese in mese, per effetto della pressione esercitata sul mercato dalla domanda di divisa degli industriali tessili per i loro acquisti all’estero di lana e cotone.

 

 

Ai primi del mese di settembre, il ministero del commercio estero revocava la facoltà già deferita alle dogane di accordare direttamente i permessi di importazione del cotone e della lana destinati ad essere lavorati per conto di committenti stranieri, e di consentire l’esportazione dei manufatti relativi.

 

 

Il ministero avocava a sé l’esame delle operazioni del genere e il potere di accordare le concessioni, e stabiliva che la preferenza sarebbe stata data alle operazioni in cui il compenso di lavorazione fosse costituito da valuta pregiata liberamente trasferibile, che per l’avvenire avrebbe dovuto essere per intero ceduta all’Ufficio italiano dei cambi.

 

 

Solo nel caso in cui il compenso superasse la metà del valore del prodotto esportato, l’eccedenza veniva lasciata a disposizione dell’esportatore, perché la utilizzasse secondo le norme in vigore.

 

 

Subito dopo veniva disposto, con apposito provvedimento (decreto ministeriale 26 settembre), lo stralcio dalla lista A (merci di autorizzata importazione) e il passaggio alla lista B (merci vincolate a licenza ministeriale) della lana e del cotone (e, insieme con esse, del corozo).

 

 

In seguito all’emanazione di questa norma, la quotazione del dollaro esportazione iniziava un movimento discendente fattosi particolarmente sensibile durante lo scorso mese di gennaio. La diminuzione, tra il massimo di 675 raggiunto in settembre e il minimo di 510 avutosi in gennaio, è stata del 24%.

 

 

Per la sterlina, che nel settembre aveva toccato un massimo di 2.060, la flessione, iniziatasi nella terza decade del mese, si è accentuata in modo particolare in novembre, procedendo con eguale tendenza in dicembre, con una leggera ripresa in gennaio. La diminuzione tra i massimi registrati in settembre e i minimi di gennaio è stata del 30% circa.

 

 

Quotazioni del dollaro, della sterlina e del franco svizzero

(medie mensili)

 

 

MESI

DOLLARO

STERLINA

FRANCO SVIZZERO

 

cambio ufficiale maggiorato quota addizionale 125%

corso quota disponibile 50% (1)

media cambio ufficiale quota disponibile

cambio ufficiale maggiorato quota addizionale 125%

corso quota disponibile 50% (1)

media cambio ufficiale quota disponibile

cambio ufficiale maggiorato quota addizionale 125%

corso quota disponibile 50% (1)

media cambio ufficiale quota disponibile
1946 – Maggio

225

(2) 364

295

907,3125

(2) 1.446

1.177

52,4475

(3) 98

75

»       – Giugno

225

396

311

907,3125

1.593

1.250

52,4475

105

79

»       – Luglio

225

478

352

907,3125

1.864

1.386

52,4475

122

87

»       – Agosto

225

505

365

907,3125

1.847

1.377

52,4475

133

93

»       – Settem.

225

596

411

907,3125

1.965

1.436

52,4475

153

103

»       – Ottobre

225

600

413

907,3125

1.967

1.437

52,4475

176

114

»       – Novem.

225

568

397

907,3125

1.653

1.280

52,4475

186

119

»       – Dicem.

225

568

397

907,3125

1.522

1.215

52,4475

183

118

 

1947 – Gennaio

225

528

377

907,3125

1.529

1.218

52,4475

144

98

»       – Febbraio

225

532

379

907,3125

1.704

1.306

52,4475

144

98

»       – Marzo

225

605

415

907,3125

1.974

1.441

52,4475

165

109

 

(1) Cambio sulla piazza di Roma.

(2) Media 10-31 maggio.

(3) Media 28-31 maggio.

 

 

 

Differente è stato il comportamento dei corsi del franco svizzero, che hanno continuato a progredire con movimento lento ma deciso, raggiungendo il massimo di 204 ai primi di dicembre contro 166 del settembre; subito dopo la quotazione cominciava a declinare con ritmo sempre più rapido portandosi in gennaio fino al minimo di 138.

 

 

Nella media del mese di gennaio, il cambio delle tre valute di cui trattasi, calcolato come media tra i corsi esportazione e i cambi ufficiali maggiorati, è stato di 377 lire per il dollaro, 1.218 per la sterlina e 98 per il franco svizzero.

 

 

Una inversione di tendenza si è però delineata ai primi di febbraio, specie nei confronti della sterlina e del franco svizzero, procedendo poi con tono più accentuato per tutte le tre valute, tanto che nelle prime due decadi del corrente mese le medie ora indicate raggiungevano le quote di 414 per il dollaro, 1.412 per la sterlina e 109 per il franco svizzero, che corrispondono all’incirca ai livelli toccati nei mesi di settembre e ottobre 1946.

 

 

A determinare questo nuovo movimento dei corsi sembra possa aver concorso, insieme con fattori a sfondo speculativo, il minor afflusso di divise sul mercato per effetto di un rallentamento delle nostre esportazioni all’estero, a sua volta cagionato dall’accentuato rincaro dei costi di produzione, e quindi dei prezzi, e dal simultaneo accentuarsi della concorrenza sui mercati internazionali.

 

 

L’agevolezza della libera negoziabilità di parte della valuta, ristretta alle sole operazioni nascenti da transazioni di carattere commerciale, poneva in condizione di svantaggio i beneficiari delle divise provenienti da operazioni di natura diversa e in modo particolare i destinatari delle rimesse degli emigrati, incoraggiando in tal modo tentativi di evasione attraverso negoziazioni che, specie con l’istituto delle importazioni franco valuta, potevano consentire il realizzo di prezzi più favorevoli dei corsi ufficiali maggiorati.

 

 

Rimesse emigrati

pervenute alla Banca d’Italia e ad altri istituti di credito italiani.

 

 

 

MESI

 

 

DOLLARI

 

STERLINE

1946 – Gennaio…………………………………………

5.525,2

95,5

»       -Febbraio…………………………………………

1.153,8

24,0

»       – Marzo……………………………………………

4.526,0

110,3

»       – Aprile…………………………………………….

3.626,3

103,9

»       – Maggio…………………………………………..

2.952,8

198,6

»       – Giugno…………………………………………..

2.299,2

196,0

»       – Luglio……………………………………………

2.248,4

205,1

»       – Agosto…………………………………………..

3.509,5

209,7

»       – Settembre………………………………………

2.095,4

201,6

»       – Ottobre………………………………………….

2.036,9

221,6

»       – Novembre……………………………………….

3.024,5

274,2

»       – Dicembre………………………………………..

3.423,0

182,8

 

 

Norme restrittive emanate nel settembre limitarono perciò la possibilità di importazioni franco valuta ai casi in cui esse fossero finanziate mediante: a) trasferimenti di capitali da parte di cittadini esteri o cittadini italiani residenti all’estero, con l’obbligo di versare l’importo corrispondente al costo della merce in conto intrasferibile presso una banca agente; b) utilizzo di crediti esteri di pertinenza di cittadini italiani non soggetti ad obblighi di cessione, oppure di crediti costituiti all’estero anteriormente al 26 marzo 1946, l’utilizzo dei quali, purché effettuato entro il mese di ottobre 1946, costituiva sanatoria per mancata denuncia o cessione. Veniva d’altra parte consentita l’importazione a titolo di regalo delle merci ammesse al franco valuta.

 

 

Recentemente, con decorrenza dal 21 febbraio scorso, è stata revocata anche la possibilità del finanziamento mediante trasferimenti di capitali di cittadini esteri o italiani residenti all’estero e l’invio a titolo di regalo è consentito ove l’entità della richiesta, anche in rapporto alla condizione del destinatario, non possa far sorgere dubbi sulla effettiva realtà dell’operazione. Il limite della sanatoria per l’utilizzo dei crediti italiani costituiti all’estero anteriormente al 26 marzo 1946 è stato prorogato al 6 settembre 1947.

 

 

La sperequazione è stata eliminata dal provvedimento dello scorso gennaio (decreto ministeriale 20 gennaio 1947) che ha esteso il beneficio della disponibilità del 50 per cento alle valute trasferite in Italia a scopo turistico, di investimento, di mantenimento o di donazione a favore di residenti; valute che dovranno essere utilizzate secondo le modalità in vigore per quelle che traggono origine dalle esportazioni.

 

 

In seguito a questo provvedimento è stato stipulato tra le autorità italiane e quelle americane un accordo per cui il controvalore delle lire fornite dal nostro governo per il pagamento delle truppe americane di stanza in Italia verrà calcolato, ai fini del rimborso in dollari concesso dal governo americano, sulla base di un tasso da calcolarsi di mese in mese facendo la media tra il tasso di 225 e il tasso medio di esportazione.

 

 

Con queste estensioni del regime della disponibilità del 50% si è in definitiva determinato un cambio fluttuante, uniforme per le cessioni di divisa di qualunque origine, ma limitato alle valute dei paesi con i quali l’Italia non è vincolata da accordi bilaterali.

 

 

Perciò la differenza che, nei riguardi dei ricavi delle esportazioni e dei costi delle importazioni, si è determinata tra gli scambi coi paesi a valuta libera e quelli coi paesi a noi legati da accordi commerciali e di pagamento, pone ostacolo alle esportazioni verso questi ultimi paesi e stimola per contro le importazioni da essi; tanto che può avvenire che le esportazioni verso i paesi di clearing vengano fatte per il tramite di paesi a valuta libera e le importazioni dai paesi a valuta libera per il tramite dei paesi di clearing. I guadagni od i risparmi così realizzati dagli operatori gravano in definitiva sull’Ufficio italiano dei cambi nella misura in cui esso si trovi a dover sborsare valuta pregiata od oro per coprire le punte passive dei conti di compensazione.

 

 

Situazione riepilogativa dei movimenti relativi agli scambi commerciali fra l’Italia ed i paesi con cui vigono accordi di compensazione

(milioni di lire)

 

 

 

DATA

 

 

ESPORTAZIONE

 

IMPORTAZIONE

1946 – Gennaio…………………………………………

138,3

471,3

»       -Febbraio…………………………………………

165,3

588,6

»       – Marzo……………………………………………

580,2

96,0

»       – Aprile…………………………………………….

847,2

653,9

»       – Maggio…………………………………………..

903,5

238,7

»       – Giugno…………………………………………..

650,8

852,4

»       – Luglio……………………………………………

1.691,6

794,6

»       – Agosto…………………………………………..

1.800,3

2.121,1

»       – Settembre………………………………………

1.440,4

1.524,7

»       – Ottobre………………………………………….

1.338,3

3.722,9

»       – Novembre……………………………………….

1.461,0

4.368,0

»       – Dicembre………………………………………..

1.276,0

4.281,9

1947 – Gennaio…………………………………………

1.340,4

1.259,2

TOTALI……

13.633,3

20.973,3

 

Differenza tra importazione ed esportazione ….. – 7.340,0

 

 

L’esame dell’andamento della situazione di cassa dei conti di compensazione conferma che i pagamenti agli esportatori, in aumento fino ad agosto, hanno successivamente accusato sensibili contrazioni, mentre i versamenti degli importatori hanno proseguito nel loro movimento di ascesa con ritmo sempre più accentuato, che è andato rallentando solo nello scorso gennaio in seguito all’adozione di opportune misure limitatrici.

 

 

In relazione a tali andamenti, sono stati adottati alcuni provvedimenti restrittivi:

 

 

1)    subordinazione alla preventiva autorizzazione dell’Ufficio italiano dei cambi dei versamenti per merci ancora da importare per valore superiore a lire 200 mila;

 

2)    accettazione solo a titolo di deposito provvisorio dei versamenti nei conti intrattenuti con la Danimarca e la Norvegia;

 

3)    nessuna ulteriore accettazione di versamenti sul conto globale nuovo del clearing italo svedese.

 

 

Il saldo complessivo dei conti di compensazione a fine dicembre risultava debitore per l’Italia di 7,4 miliardi di lire e discendeva in gennaio, per effetto delle accennate misure, a 7,3 miliardi di lire. Questo importo è stato destinato ad acquisti di divise libere, i quali perciò, a ben considerare, sono in parte finanziati dai versamenti fatti nei conti di clearing dagli importatori italiani.

 

 

Lo spostamento delle correnti di esportazione dai paesi di clearing verso quelli a divisa libera è confermato esso pure dal confronto tra l’importo dei regolamenti in clearing e quello dei regolamenti in valuta. Tra il maggio e il gennaio 1947, i regolamenti attraverso i clearings sono discesi dal 25 al 16% circa dei pagamenti totali; e quelli in valuta libera sono passati correlativamente dal 75 all’84%.

 

 

A contenere tale spostamento è valso il ricorso agli affari di reciprocità, sui quali si sono formati cambi sensibilmente superiori a quelli di clearing. All’inizio, tali cambi erano assai diversi da un affare all’altro e variavano specialmente secondo le merci oggetto dell’affare. Successivamente, con lo sviluppo degli affari, essi si sono andati livellando fino a dar luogo ad un vero e proprio «cambio reciprocità».

 

 

Al nostro esportatore, il regolamento in reciprocità impone, rispetto a quello in valuta libera, la necessità di trovare la contropartita nel paese di esportazione; ma gli consente di realizzare il cambio pieno sull’intera valuta realizzata.

 

 

Volendo perciò dare una intuitiva espressione aritmetica alla differenza di trattamento che la nostra legislazione valutaria determina fra le tre forme di regolamento (in clearing, in valuta libera e in reciprocità) può dirsi che – finché il cambio ufficiale di clearing e di cessione delle valute libere all’Ufficio italiano dei cambi rimanga inferiore al cambio economico – sussisterà, a vantaggio del regolamento in reciprocità,una discriminazione che colpisce il 100 per cento dei ricavi delle esportazioni regolate in clearing e il 50 per cento dei ricavi delle esportazioni regolate in valuta libera.

 

 

Nei riguardi della Svezia, con cui è stato concluso il maggior numero di operazioni, contro un cambio ufficiale di lire 62,505 per corona, quello di reciprocità, partendo da lire 70-75 è salito a 85-90 per taluni prodotti, quali i tessili e gli ortofrutticoli, a 100-105 per le mandorle. Verso la fine dell’anno, il cambio si è livellato, per qualsiasi tipo di merce, intorno a 100.

 

 

Negli affari con la Norvegia, i cambi di reciprocità, compresi in principio fra lire 69 e lire 73 per corona, si sono assestati alla fine dell’anno intorno a 73, contro un cambio ufficiale di lire 45,36.

 

 

Nel quadro dell’ordinamento valutario sono da segnalare le norme sulla disciplina del commercio dei metalli preziosi contenute nel decreto legislativo luogotenenziale 26 aprile 1946, n. 343, con il quale è stato revocato il divieto di alienazione dei metalli preziosi.

 

 

Il decreto abroga le disposizioni in tal senso contenute nei decreti legge 3 settembre 1941, n. 882, e 17 ottobre 1941, n. 1330; mantiene però il divieto di esportazione, il divieto di alienazione delle monete d’oro e d’argento che non abbiano valore storico od archeologico e le limitazioni al commercio dell’oro previste dal decreto legge 14 novembre 1935, n. 1935.

 

 

Il mercato extra-legale dei metalli preziosi (oro monetato e in lingotti) e delle banconote estere (in particolare dollaro, sterlina e franco svizzero) e il mercato dell’argento sono stati contrassegnati nel 1946 da alterne vicende.

 

 

Nei primi quattro mesi dell’anno, le quotazioni dell’oro e dei biglietti sono andate diminuendo in modo graduale ed uniforme, fino a toccare nell’aprile i minimi dell’annata. Il fascio di curve, nelle quali può esprimersi tale andamento, si manteneva chiuso anche nelle prime settimane della successiva ripresa; ma dal giugno l’ascesa si faceva assai più viva tanto per i biglietti quanto per l’oro. Il divario si manteneva e si ampliava sia nel seguito del movimento ascendente – durato fino ai primi di dicembre, quando i corsi toccavano i massimi dell’annata (dopo un massimo secondario a fine settembre) -; sia nell’opposto movimento di discesa affermatosi tra il dicembre e il febbraio 1941, che riportava i corsi dell’oro metallo e delle monete d’oro ai livelli di sei mesi prima.

 

 

Le quotazioni dell’argento hanno segnato un’oscillazione più ampia di ogni altra. Al movimento di ribasso nei primi quattro mesi, che fu più pronunciato di quello dell’oro e dei biglietti, è succeduta una ripresa anche essa più viva che, mantenutasi più a lungo e seguita da una flessione soltanto lieve, ha fatto raggiungere ai corsi dell’argento indici (rispetto alla prima settimana del gennaio 1946) i quali, dopo aver lasciato indietro quelli dell’oro nel settembre, hanno, nel dicembre, superato anche gli indici dei biglietti.

 

 

Il distacco ha raggiunto il massimo nel gennaio del corrente anno, quando gli indici dei corsi, sulla base della prima settimana del gennaio , si disponevano secondo la seguente scala decrescente:

 

 

argento ……………………..

170,7

dollaro ……………………….

151,0

sterlina ………………………

150,9

franco svizzero ……………

135,2

oro fino ………………………

111,1

sovrana ……………………..

106,4

 

 

Nei successivi mesi di febbraio e di marzo le quotazioni dell’oro e dei biglietti hanno segnato una ripresa alla quale l’argento non ha partecipato.

 

 

In questo deprezzamento relativo dell’oro, rispetto all’argento ed ai biglietti, si esprime l’effetto esercitato dai ripetuti interventi diretti e indiretti delle autorità monetarie di vari paesi sul mercato dell’oro (vendite ufficiali di oro al pubblico, allentamento delle restrizioni alla trasferibilità del metallo). Per contro l’argento, meno atto al tesoreggiamento per le sue caratteristiche fisiche, mentre risultava dapprima relativamente trascurato, successivamente è stato più richiesto per l’aumento dei consumi industriali.

 

 

La seguente tabella indica i corsi dei metalli preziosi e dei biglietti, sul mercato di Roma, in alcuni mesi caratteristici:

 

 

 

Prima settimana  di gennaio 1946

Aprile

1946

Dicembre 1946

Gennaio 1947

Marzo 1947

Sterlina oro………………..

7.997

5.853

10.034

8.509

8.628

Oro fino …………………….

813

525

1.078

904

917

Argento …………………….

12.066

7.000

20.326

20.592

18.995

Dollaro (piccolo) ………..

402

281

683

607

644

Sterlina carta (unitaria)..

1.119

784

1.824

1.689

1.818

Franco svizzero………….

125

89

199

153

176

 

 

Confrontando questi movimenti con quelli delle merci e dei titoli, si nota che tanto l’iniziale movimento di ribasso, quanto la successiva ripresa sono stati massimi sul mercato azionario e meno accentuati su quello delle valute. Sul mercato delle merci, il movimento di ribasso è stato appena accennato; quello di rialzo ha avuto inizio due mesi più tardi rispetto ai mercati delle azioni delle valute ed è stato meno spinto, ma si è meglio consolidato: le merci, infatti, non hanno quasi partecipato alla flessione avutasi, per le azioni e le valute, nel mese di ottobre, ed alla nuova flessione avutasi per le valute al principio del corrente anno.

 

 

Dei fattori di carattere generale che hanno influito sul livello dei prezzi, e quindi anche sui corsi delle valute, si dice in altra parte di questa relazione.

 

 

In modo più immediato questi ultimi hanno risentito, nei primi mesi dell’anno, l’allontanarsi della eventualità del cambio della moneta.

 

 

Tra le circostanze che hanno più specialmente pesato sul rialzo successivo, sembrano doversi ricordare i riflessi della situazione politica (campagna elettorale, trattato di pace, crisi governativa) e la maggior domanda di carattere commerciale per il finanziamento di importazioni. Le restrizioni imposte nel settembre all’utilizzo del 50% disponibile sul ricavo delle esportazioni in valuta libera, hanno fatto sì che le quotazioni dei biglietti sul mercato extra legale superassero (a partire dal settembre stesso per il dollaro, dal novembre per la sterlina e dal dicembre per il franco svizzero) quelle delle valute esportazione.

 

 

Nel complesso, i movimenti sopra brevemente descritti hanno condotto i tre mercati (delle merci, delle azioni, delle valute) ad una posizione di prezzi e di corsi ai quali corrispondono, nel febbraio 1947, indici su base 1938 assai più ravvicinati di quelli di fine 1945.

 

 

In relazione con la ripresa dei rapporti economici e finanziari internazionali, l’attività svolta dai competenti uffici della nostra Banca in materia valutaria ha registrato nel corso del 1946 un sensibile incremento in confronto all’anno precedente.

 

 

In virtù del decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo 1946, n. 139, che istituiva i conti valutari e che ha fornito nuova materia di attività all’Ufficio corrispondenza con l’estero, sono stati aperti numerosi conti in dollari e in sterline.

 

 

Numerose aperture di credito sono state disposte dall’estero sulla nostra Banca a favore di esportatori nazionali. Si è fatto luogo ad ingenti erogazioni di valuta di pertinenza del tesoro per acquisti all’estero, specie di lana e di grano. In relazione con il movimento commerciale con l’estero sono stati eseguiti, secondo le istruzioni dell’Istituto nazionale per il commercio estero e del tesoro, pagamenti per oltre 3.280 milioni di lire, in esecuzione di contratti di esportazione di merci.

 

 

In base agli accordi di pagamento stipulati con i governi francese e belga, è stata curata la emissione e la negoziazione di assegni turistici e l’acquisto a fermo e la cessione, entro determinati limiti, di banconote in franchi francesi e franchi belgi.

 

 

É stato inoltre provveduto, su incarico del competente ministero, alla cessione di biglietti di banca in dollari a militari americani e loro familiari, e a connazionali emigranti in quota diretti verso gli Stati Uniti. Queste operazioni sono state eseguite per il tramite delle filiali di Napoli, Genova, Palermo e Livorno.

 

 

 

Le operazioni di acquisto a fermo di banconote in valute pregiate e quelle di realizzo al meglio, per conto e secondo istruzioni dell’Ufficio italiano dei cambi, di biglietti stilati in altre valute, hanno avuto un notevole incremento.

 

 

Al riguardo è da notare che in considerazione delle accresciute disponibilità in dollari e in sterline, rispettivamente presso la Federal Reserve Bank di New York e la Banca d’Inghilterra, accordi sono stati presi con questi istituti per l’impiego fruttifero di tali fondi.

 

 

L’Ufficio ha anche curato la diramazione alle filiali delle istruzioni delle autorità norvegesi, brasiliane, finlandesi e belghe, per la denuncia e il deposito di banconote o titoli di tali paesi, ai fini delle operazioni di cambio o registrazione.

 

 

Nell’aprile del 1946, essendo stato reso applicativo il decreto legislativo luogotenenziale primo febbraio 1945, n. 36, le filiali sono state istruite sulle modalità per lo sblocco e la restituzione, agli aventi diritto, dei beni di pertinenza di sudditi delle nazioni unite a suo tempo assoggettati ai vincoli della legge di guerra.

 

 

In adempimento delle disposizioni emanate dal ministero dell’assistenza post bellica e dalla Commissione alleata, si è proceduto alla raccolta delle domande degli ex prigionieri italiani internati in campi di concentramento alleati in Italia, per la restituzione delle somme ad essi ritirate dalle autorità alleate durante la prigionia.

 

 

Notevole è stata altresì l’attività dell’Ufficio controllo operazioni valutarie per il disimpegno delle funzioni di collegamento con i superiori organi valutari, specie per quanto ha tratto all’applicazione dei numerosi accordi commerciali e di pagamento stipulati dall’Italia con i vari paesi nel corso dell’anno.

 

 

L’Ufficio ha inoltre provveduto alla liquidazione delle valute sequestrate dagli uffici di censura nelle lettere in arrivo o in partenza per l’estero.

 

 

Oltre le consuete pratiche riflettenti i contesti valutari, è stata particolarmente curata l’istruzione di quelle relative ai controlli e agli accertamenti eseguiti dalle filiali sull’attività delle banche autorizzate ad operare in cambi, specie in ordine alla liquidazione della nota quota di adeguamento che ad esse viene corrisposta dalla Banca d’Italia.

 

 

Allo scopo di venire incontro al desiderio espresso da istituti di credito che non rientrano nel numero delle banche agenti o aggregate, 31 banche minori sono state facoltizzate ad effettuare, per delega e sotto il controllo delle filiali della Banca, operazioni connesse con il commercio estero, pur senza intrattenere rapporti diretti con corrispondenti stranieri.

 

 

All’Ufficio portafoglio estero ha continuato a far capo la negoziazione di effetti e di assegni in valuta estera, che si è considerevolmente accresciuta nel corso dell’anno, specie per i valori in dollari, anche in dipendenza dei favorevoli provvedimenti adottati dal governo degli Stati Uniti che hanno reso possibile, pur con l’osservanza di determinate cautele, il realizzo dei recapiti emessi all’estero anteriormente al settembre 1945.

 

 

L’Ufficio ha continuato poi nel consueto lavoro di raccolta ed inoltro all’Ufficio italiano dei cambi delle nuove denunce di titoli e crediti esteri.

 

 

In virtù del decreto ministeriale 14 luglio 1943, all’Ufficio portafoglio estero sono affluite, attraverso le filiali della Banca, 20.961 denunce di banconote estere in possesso di connazionali rimpatriati, già prigionieri di guerra o internati civili. Agli acquisti successivamente fatti, per conto dell’Ufficio italiano dei cambi, a valere sulle dette denunce, sono da aggiungere quelli dei biglietti in franchi albanesi effettuati in seguito ad accordi intervenuti con la Banca nazionale di Albania in Roma, per conto di quest’ultima, a fronte delle cessioni da parte di 7.394 connazionali rimpatriati dall’Albania dopo l’internamento o la prigionia di guerra.

 

 

Nel corso dell’anno, sono pure notevolmente aumentate le operazioni di pagamento degli assegni in lire e in dollari emessi dal Dipartimento del tesoro americano per conto dell’amministrazione dei veterani, a fronte delle pensioni di cui sono beneficiari cittadini italiani o americani residenti in Italia.

 

 

Il servizio delle rimesse emigrati ha segnato nel 1946 una riduzione molto sensibile in dipendenza del frazionamento nel loro afflusso seguito alla ripresa delle relazioni tra le banche italiane e quelle americane e inglesi. Pertanto, le rimesse appoggiate direttamente alla Banca d’Italia a tutto il 31 dicembre 1946 sono ascese a circa 420 mila dollari contro 4 milioni 551 mila nel 1945, e a 96 mila sterline contro 894 mila nell’anno precedente. Attraverso l’Ufficio rimesse emigrati sono pervenute numerose altre partite di natura diversa per cifre considerevoli.

 

 

La produzione agricola

 

La produzione agricola nel 1946 ha segnato una netta ripresa rispetto all’annata precedente, pur restando ancora lontana dalla media prebellica. L’ammontare della produzione lorda dell’agricoltura, che nel 1945 raggiungeva solo il 57% di quello relativo al 1938, è salito nel 1946 al 75% se il confronto è fatto valutando ai prezzi del novembre 1946 e al 76% se si considerano i prezzi medi del 1938.

 

 

Questi valori sono suscettibili ancora di qualche aumento se si tiene conto delle produzioni forestali, in quanto la produzione legnosa dei boschi, invece di presentare una contrazione, risulta in notevole aumento (38%) per quanto riguarda la legna da ardere ed in leggero aumento per quanto riguarda il carbone ed il legname da lavoro.

 

 

La contrazione riscontrata nel volume della produzione rispetto all’anteguerra è la risultante di diversi fattori, che si possono far rientrare in due principali categorie: la deficienza di fattori produttivi in dipendenza della guerra e la politica dei prezzi e della regolamentazione del commercio dei prodotti praticata in questi ultimi anni.

 

 

Nella prima categoria occorre annoverare, oltre gli impianti di bonifica distrutti e non ancora ripristinati, la minore disponibilità di concimi rispetto all’anteguerra, la scarsezza di mezzi di lavoro animali, le deficienze di attrezzi e di macchine logorate o distrutte dalla guerra e che non si sono potute sostituire; fattori che si riflettono tutti sulle più basse produzioni unitarie. Nello stesso tempo, il persistere di rapporti artificiali tra i prezzi ricavabili dai vari prodotti agricoli, provoca un indirizzo nelle produzioni che è sostanzialmente in contrasto con le esigenze del paese.

 

 

La produzione cerealicola – che rappresenta intorno ad un terzo dell’intera produzione agricola e nella quale predomina in maniera assoluta il frumento – registra rispetto al 1938 una contrazione nelle quantità prodotte del 27,4%. Per questa produzione si ha dunque una variazione in meno più forte della media generale. Tale risultato è solo parzialmente da attribuire alla caduta dei rendimenti unitari (in particolare per il grano, da quintali 16,3 per ettaro nel 1938 si è passati a quintali 13,2 per ettaro nel 1946); per il rimanente essa è dovuta alla riduzione della superficie coltivata (91,5% di quella relativa all’anno 1938); riduzione che, oltre a restare immutata tra il 1945 e il 1946, non presenta, secondo le previsioni, variazioni neanche per la campagna corrente. A questo riguardo va rilevato che qualche aumento nella superficie coltivata si ha per i cereali minori ed è in contrasto con una ulteriore lieve riduzione per il frumento; l’aumento più sensibile si ha per l’avena (7%), che nel 1946 è stata esclusa dalla disciplina di ammasso.

 

 

Che l’indirizzo della produzione risenta dell’esistenza di prezzi stabiliti artificialmente e di vincoli al commercio, lo si constata sia dal confronto tra le varie produzioni, sia dal diverso comportamento delle regioni. Le patate, per cui l’aumento medio dei prezzi è particolarmente forte (intorno ad ottanta volte i prezzi dell’anteguerra), non presentano contrazione nella superficie coltivata; gli ortaggi, che hanno praticamente goduto sempre della maggiore libertà di commercio, pur presentando un aumento nei prezzi di sole 27 volte, costituiscono l’unica categoria di prodotti in sensibile aumento, oltre che nella superficie, anche nella produzione. Si noti che le prospettive di collocamento di questi prodotti non sono state in questi ultimi anni, né sono ancora ritornate ad essere, quelle dell’anteguerra, sia per quanto riguarda l’esportazione, sia per quanto riguarda il collocamento sul mercato interno, a causa del costo, della quantità e della disposizione tempestiva di mezzi di trasporto che richiedono.

 

 

Né ha molto peso l’obbiezione che per i prodotti soggetti a prezzi d’imperio vale come stimolante della produzione il mercato nero, in quanto questo, per bene organizzato e poco clandestino che sia, non costituisce un unico mercato nazionale; infatti, o per l’impossibilità di evadere la sorveglianza o perché il rischio rende praticamente troppo onerosi i trasporti tra regioni lontane, esso si fraziona in tanti mercati i cui prezzi influiscono solo sulla produzione locale. La scarsa riduzione e l’aumento nella superficie coltivata a grano rispettivamente della Campania e della Liguria e il mantenimento in tali regioni di un rendimento unitario quasi normale sono in relazione alla forte domanda locale: trattasi, infatti, delle regioni maggiormente importatrici di grano (la sola Campania nel 1937-38 ricevette grano per 4,5 milioni di quintali, di cui oltre 2 milioni dalla Lombardia, dal Veneto e dall’Emilia).

 

 

Nel complesso la produzione del grano si è mantenuta buona nelle zone appoderate (Italia centrale) e in quelle particolarmente idonee alla cultura (Emilia, Veneto), mentre dove predomina l’impresa a carattere capitalistico (zone di pianura a cultura intensiva della Lombardia e del Piemonte) e dove è stato agevole lo spostamento dei fattori produttivi (verso gli allevamenti ovini nell’Italia meridionale) essa presenta una contrazione superiore alla media.

 

 

L’alto grado di progresso tecnico, che tanto ha contribuito negli anni trascorsi ad elevare il rendimento unitario, si riscontra di regola nelle grandi aziende industrializzate, ma esse, sia per l’entità della produzione vendibile, sia perché facilmente controllabili, sono nelle condizioni più sfavorevoli per evadere alle disposizioni sul commercio dei prodotti agricoli e pertanto maggiormente risentono degli effetti negativi della politica vincolistica. Nelle opposte condizioni si trovano invece le piccole aziende che hanno potuto quindi realizzare redditi relativamente maggiori. Ciò spiega perché sia stata possibile una più rapida ripresa in queste ultime, particolarmente per quanto riguarda la ricostituzione del patrimonio zootecnico.

 

 

Sperare in un miglioramento nella disponibilità cerealicola, a seguito di più rigorosi metodi di accertamento e di controllo, non sembra molto fondato.

 

 

 

Rapporti tra quantità di frumento conferite agli ammassi e quantità prodotte

 

 

 

REGIONI

QUANTITÀ CONFERITA

in % di quella prodotta

Calcolo delle disponibilità di frumento dei produttori

(migliaia di q.li)

Media 1937-38

1938-39

1945

 

(1)1946

1

2

3

produzione 1937 e 1938 ³ media)………………………….

80.740

Piemonte

56,3

20,9

27,7

conferimenti 1938-39 e 1938-39 (media)………………..

40.523

40.217

Liguria

2,1

2,4

26,1

fabbisogno per le semine (2)…………………………….

7.140

 

Lombardia

78,7

37,4

43,7

resta per uso alimentare dei produttori ……………….

33.077

Veneto

69,2

33,8

44,3

   
Emilia

52,2

37,4

49,8

   
 

   
Toscana

37,7

32,2

40,9

produzione 1945…………………………………………

41.755

Marche

51,5

44,4

55,0

conferimenti 1945-46……………………………………

11.032

30.723

Umbria

42,7

34,1

47,1

 

fabbisogno per le semine (2)………………………………….

6.480

 

Lazio

42,1

16,9

32,4

resta per uso alimentare dei produttori………………..

24.243

 

   
Abruzzo

35,2

13,2

21,8

   
Campania

18,3

5,5

11,7

produzione 1946…………………………………………………

61.251

Puglie

55,9

13,3

26,8

conferimenti (previsione) (3)……………………………

23.000

38.251

Lucania

43,2

13,1

28,0

fabbisogno semine (2)…………………………………

6.333

 

Calabria

22,0

8,8

10,2

resta per uso alimentare dei produttori………………..

31.918 ³

 

   
Sicilia

39,7

6,6

14,8

   
Sardegna

44,0

12,4

27,4

   
 

   
Italia

49,9

26,4

36,3

   
 

(1) Dati a fine gennaio 1947.

(2) Calcolato supponendo un fabbisogno medio di q.li 1,4 per ettaro.

(3) Al 28 febbraio risultavano conferiti q.li 22.364.725.

 

 

È probabile che le produzioni accertate dalle statistiche siano approssimate per difetto, ma tale eventuale errore è modesto (milioni di quintali) rispetto alle esigenze (decine di milioni di quintali). Calcolando in base alle produzioni ufficiali le quantità che oggi risultano complessivamente lasciate ai produttori, si trova che sono minori di quelle dell’anteguerra (32 milioni di quintali nel 1946-47 e 24 nel 1945-46 contro 33 degli anni 1937-38 e 1938-39), mentre la popolazione è certamente aumentata; l’errore delle statistiche resta in parte compensato da questa contrazione nel fabbisogno dei produttori che è solo apparente.

 

 

Non resta quindi che contare su una politica dei prezzi, che stimoli la produzione.

 

 

Ma con «politica dei prezzi» non si vuol fare riferimento ad una politica di alti prezzi che continui la politica protezionistica di un recente passato. Si tratta di non scoraggiare la produzione in un periodo di prezzi ascendenti, o che per lo meno la speculazione stima ascendenti, con prezzi bloccati all’epoca delle semine, che poi finiscono per adeguarsi all’epoca del raccolto, quando cioè la loro funzione ai fini della produzione è ormai superata e non resta che la funzione coadiutrice e agevolatrice all’opera di requisizione e reperimento.

 

 

L’opportunità di svincolarsi da un prezzo prefissato ed unico per tutta la campagna ha già portato a modificare il sistema di alcuni ammassi. Per i bozzoli è stata stipulata una convenzione tra filandieri e bachicultori in forza della quale i bachicultori si sono impegnati a cedere i bozzoli collettivamente solo ai filandieri per contingenti mensili prefissati a partire dall’agosto e a finire a febbraio. Il prezzo di cessione, fissato di mese in mese da una commissione paritetica, è in relazione ai prezzi internazionali; tuttavia è stato garantito ai bachicultori, per la corrente campagna, un prezzo minimo di lire 200 per chilogramma di bozzoli freschi, che viene corrisposto come anticipo all’atto della consegna.

 

 

Anche per il grano un costante adeguamento ai prezzi internazionali sembra particolarmente auspicabile ove si consideri che, in conseguenza dell’aumento della popolazione, tra le nostre importazioni la voce grano sarà in futuro notevole anche nell’ipotesi ottimistica che il miglioramento della produzione realizzato tra il 1926 e il 1939 sia in gran parte dovuto a progressi tecnici e non alla possibilità, in conseguenza della protezione doganale, di produrre a costi molto elevati.

 

 

La politica italiana presenta, a questo riguardo, contraddizioni sconcertanti. Da una situazione di equilibrio tra prezzo del grano in Italia e prezzo nell’America dei Nord, nel dopoguerra 1920-24 (il rapporto medio tra il prezzo in lire del grano in Italia e il prezzo in dollari negli Stati Uniti era di 23,3 contro un corso medio di cambio tra le due monete di 22,5) si passò, in seguito al ripristino del dazio sul grano nel secondo semestre 1925, ad una fase di ascesa di prezzi in Italia a cui fece riscontro una discesa negli Stati Uniti; il risultato fu di produrre in Italia a costi elevati quel grano che normalmente importavamo, e che proprio in quegli anni era disponibile all’estero a prezzi eccezionalmente bassi. In seguito si ebbe una ripresa nelle importazioni (1936-40), in conseguenza anche dell’aumentato fabbisogno, ma orientata da criteri politici (istituzione delle licenze per l’importazione, agevolezze per le importazioni dall’Ungheria). Contemporaneamente, nel cozzo tra le opposte esigenze, di mantenere il blocco dei prezzi e dei salari da una parte e di difendere il prezzo di vendita del grano dall’altra, quest’ultimo restava svantaggiato ed – espresso in lire con potere d’acquisto costante – iniziava, a partire dal 1936, un andamento di leggera, ma netta discesa. In questi ultimi anni il movimento di discesa è diventato più forte e risulta nettamente opposto a quello verificatosi negli Stati Uniti, ove il prezzo del grano è aumentato proporzionalmente più della media generale dei prezzi. Il risultato è che, mentre oggi la situazione mondiale granaria è difficile e l’incidenza dei noli è forte, i prezzi ufficiali italiani voltati in dollari risultano più bassi di quelli americani. Si è passati quindi da una politica protezionistica, in periodo di abbondanza, ad una politica di scoraggiamento della produzione interna in periodo di carestia.

 

 

 

 

Dati sulla politica granaria nell’Italia dal 1920 al 1946

 

 

Campagne di vendita

Superficie seminata in Italia

000 ha

Produzione in Italia 000 q.li

Importazioni nette (escluse le temporanee) 000 q.li

Dazio sul grano in lire per q.le

Prezzi medi in Italia

tenero

(lit. per q.le)

duro

(lit. per q.le)

media

(lit. per q.le)

1

2

3

4

5

6

7

8

1920 – 21

4.446

37.439

26.216

102

117

110

1921 – 22

4.640

51.086

26.367

122

136

129

1922 – 23

4.595

42.549

29.756

115

123

119

1923 – 24

4.621

59.184

20.794

99

109

104

1924 – 25

4.512

44.787

27.597

155

171

163

1925 – 26

4.668

63.398

15.641

39,65

191

197

194

1926 – 27

4.858

58.080

21.155

35,48

179

200

190

1927 – 28

4.918

51.543

22.303

28,00

131

140

136

1928 – 29

4.905

60.174

23.350

40,40

131

140

136

1929 – 30

4.717

66.681

10.425

51,40

131

140

136

1930 – 31

4.775

54.325

21.286

60,50

111

128

119

1931 – 32

4.769

63.759

6.687

75,00

108

129

119

1932 – 33

4.899

72.864

2.297

75,00

103

116

109

1933 – 34

5.069

79.229

115

75,00

85

101

93

1934 – 35

4.951

62.377

832

(1) 75,00

95

107

101

1935 – 36

4.998

76.317

991

75,00

110

125

118

1936 – 37

5.137

61.119

14.128

(1) 47,00

112

127

119

1937 – 38

5.173

80.636

2.576

(1) 18,00

121

137

129

1938 – 39

5.029

80.918

4.736

45,00

135

150

142

1939 – 40

5.228

79.819

9.424

45,00

135

150

143

1940 – 41

5.076

71.043

1.479

45,00

155

170

162

1941 – 42

4.970

70.702

906

45,00

175

190

183

1942 – 43

5.173

65.737

243

243

229

1943 – 44

5.342

64.376

247

311

279

1944 – 45

4.763

63.783

542

1.000

771

1945 – 46

4.481

41.755

(2) 9.429

802

1.000

901

1946 – 47

4.629

61.251

2.574

3.106

2.840

 

(1) Dal 28 gennaio 19353 per le importazioni furono stabilite le licenze ministeriali, particolari agevolezze furono concesse alle importazioni dall’Ungheria. Il dazio fu ridotto a lire 47 dal 6 ottobre 1936, a lire 32 dal 2 novembre dello stesso anno, a lire 18 dal 30 gennaio 1937, e fu riportato a lire 45 dal 31 marzo 1938.

(2) Primo semestre 1946.

 

 

 

Prezzi in America

 

Rapporto tra il prezzo in lire di 1 per 1 q.le grano in Italia e il prezzo in cents di un q.le di grano in America (cambio specifico)

Noli in cents per 1 q.le di grano dal Nord America

Prezzi in America più noli

Rapporto tra il prezzo in lire di 1 q.le di grano in Italia e il prezzo in cents di 1 q.le di grano in America più i noli

Cambio lire dollaro

 

cents per bushel

 

 

N. 1 Northern Minneapolis

N. 2 Hard Winter Kansas City

N. 2

Red Winter Chicago

media

cents

per q.le

9

10

11

12

13

14=8:13

15

16=13+15

17=8:16

18

207

183

223

204

750

14,7

66

816

13,5

23,71

143

120

125

129

474

27,2

 

508

25,4

21,87

120

113

114

116

426

27,9

460

25,9

21,52

117

105

102

108

397

26,2

431

24,9

22,92

156

135

158

150

551

29,6

585

27,9

23,95

161

163

164

163

599

32,4

633

30,6

25,56

146

135

138

139

511

37,2

545

34,9

23,62

136

135

140

137

503

27,0

533

25,5

18,67

118

112

138

123

452

30,1

482

28,2

19,09

133

120

130

128

470

28,9

500

27,2

19,09

83

76

86

82

301

39,5

331

36,0

19,10

68

47

52

56

206

57,8

224

53,1

19,33

60

51

53

55

202

54,0

220

49,5

18,88

94

88

94

92

338

27,5

356

26,1

12,27

113

98

98

103

378

26,7

396

25,5

11,82

119

105

92

105

386

30,6

404

29,2

12,44

146

121

112

126

463

25,7

497

23,9

17,42

123

111

120

118

434

29,7

468

27,6

19,00

73

70

70

71

261

54,4

295

48,1

19,00

97

74

76

82

301

47,5

19,80

90

82

86

86

316

51,3

110

112

112

111

408

44,9

129

126

136

130

478

47,9

155

145

167

156

573

48,7

159

156

158

158

580

132,9

100,00

176

174

184

178

654

137,8

180

834

108

162,00

(3) 215

(3) 203

(3) 214

(3) 211

(3) 775

366,5

157

932

305

(4) 389,00

 

(3) Secondo semestre 1946.

(4) Media tra il cambio ufficiale maggiorato della quota addizionale e il cambio esportazione (luglio/dicembre 1946).

 

 

Prezzo del grano in Italia e negli Stati Uniti espresso in cents di dollaro con potere di acquisto 1926

 

 

Campagne di vendita

Prezzo medio del grano in Italia

lire per q.le

Indice dei prezzi all’ingrosso in Italia base

1929=100

Prezzo del grano in Italia in

lire

1929

per q.le

Prezzo del grano in Italia espresso in cents

1926

per q.le

Prezzo medio del grano negli Stati Uniti

in cents

per q.le

Indice dei prezzi negli Stati Uniti 1926=100

Prezzo del grano negli Stati Uniti

in cents

1926

Prezzo del grano più nolo dagli Stati Uniti

in cents

1926

1

2

3

4 = 2:3

5 =4:18,19

6

7

8 = 6:7

9

1920-21 …….

110

120,8

91,1

501

750

124,2

604

657

1921-22 …….

129

110,7

116,5

641

474

93,7

506

542

1922-23 …….

119

116,2

120,4

563

426

101,2

421

455

1923-24 …….

104

112,8

92,2

507

397

98,1

405

439

1924-25 …….

163

119,2

136,7

752

551

100,5

548

582

1925-26 …….

194

130,3

148,9

819

599

102,5

584

618

1926-27 …….

190

123,9

153,3

843

511

96,9

527

562

1927-28 …….

136

104,6

130,0

715

503

96,1

523

555

1928-29 …….

136

104,5

130,1

715

452

96,2

470

501

1929-30 …….

136

94,6

143,6

790

470

92,5

508

541

1930-31 …….

119

83,6

142,3

783

301

79,0

381

419

1931-32 …….

119

75,0

158,7

873

206

68,1

302

329

1932-33 …….

109

69,0

158,0

867

202

62,5

323

352

1933-34 …….

93

65,2

142,6

784

338

71,9

470

495

1934-35 …….

101

66,3

152,3

838

378

78,0

485

508

1935-36 …….

118

77,0

153,2

843

386

80,1

482

504

1936-37 …….

119

85,2

139,7

768

463

84,5

548

588

1937-38 …….

129

98,5

131,0

721

434

82,4

527

568

1938-39 …….

142

100,8

140,9

775

261

77,2

338

382

1939-40 …….

143

113,2

126,3

695

301

78,2

385

1940-41 …….

162

125,5

129,1

710

316

80,8

391

1941-42 …….

183

141,8

129,1

710

408

94,6

431

1942-43 …….

229

(1) 190,5

120,2

661

478

101,5

471

1943-44 …….

279

(1) 542,9

51,4

283

573

103,5

554

1944-45 …….

771

1.202,3

64,1

353

580

104,9

553

1945-46 …….

901

2.567,9

35,1

193

654

107,9

606

773

1946-47 …….

2.840

(2) 3.099,8

91,6

504

775

(2) 132,1

(2) 587

(2) 706

 

Nella media del 1929, il cambio tra la lira e il dollaro in Italia fu di 19,09; negli Stati Uniti, l’indice dei prezzi all’ingrosso con base era sceso nel 1929 a 95,3; pertanto 1 dollaro 1926 equivale a 18,19 lire italiane 1929 ().

(1) Medie dei valori relativi agli anni solari.

(2) Media secondo semestre 1946.

 

 

Nel secondo semestre 1946, contro un cambio effettivo di 389 (media tra cambio ufficiale e corso della valuta esportazione) il valore del rapporto tra il prezzo ufficiale in lire del grano in Italia e il prezzo in dollari negli Stati Uniti è 366; e si riduce a 305 se si tien conto dei noli ossia se si raffronta il prezzo ufficiale italiano col prezzo cif in dollari del grano d’importazione. La divergenza massima si ebbe nel 1931-32 quando, contro un corso medio del cambio del dollaro di 19,33, il rapporto tra i due prezzi era di 53,1. Non meno significativo è d’altra parte il confronto tra i prezzi nei due paesi espressi in cents con potere di acquisto costante (v. grafico), risultando il prezzo in Italia, nel secondo semestre 1946, di cents 519 e negli Stati Uniti di cents 587 e, tenendo conto dei noli, cents 706 (cents con potere d’acquisto 1926).

 

 

La viticoltura, con una produzione pari all’84% di quella del 1938 e con un livello dei prezzi che si mantiene sulle 45 volte l’anteguerra, è sostanzialmente in ottima posizione; tuttavia, con la maggiore produzione realizzata nella corrente campagna si riaffaccia qualche preoccupazione circa il collocamento del prodotto.

 

 

L’esuberanza della produzione (che in valore rappresenta il 14-15% dell’intera produzione agricola), dovuta anche alla tendenza del fabbisogno interno a contrarsi, è stata già nel passato fonte di preoccupazione, in quanto la coltivazione della vite non può ridursi senza provocare una perdita di ricchezza per l’agricoltura italiana, sia per i capitali materiali costituiti dagli impianti, frutto di lunghi anni di lavoro, sia per i capitali personali rappresentati dalla capacità tecnica e dall’esperienza specifica acquisita dai coltivatori, sia ancora perché questa cultura utilizza terreni sui quali non sempre sono possibili altre coltivazioni e consente un carico di addetti per ettaro superiore a molte altre. E’ necessario quindi che i viticultori non si facciano soverchie illusioni per il futuro, basandosi sugli alti redditi attuali, e pensino, non a impiantare nuovi vigneti, ma a sostituire gradualmente e spontaneamente quelli esistenti, ove le condizioni del terreno rendono ugualmente convenienti altre culture ed a migliorare, in specie nel mezzogiorno, la tecnica enologica e l’organizzazione commerciale, mezzi indispensabili per poter collocare all’estero quella parte della produzione che non trova conveniente impiego all’interno.

 

 

Tra le altre produzioni legnose, la frutta raggiunge nel 1946 intorno al 95% della produzione 1938, con prezzi che al novembre erano pari a 30 volte quelli dell’anteguerra; si differenziano gli agrumi con una produzione pari al 75% e con aumenti maggiori nei prezzi. Il 1946 è il secondo anno consecutivo di raccolto scarso per l’ulivo e i prezzi dell’olio, al pari di quelli degli altri grassi, presentano variazioni molto forti: 38 volte la media del 1938 quelli legali e 74 volte quelli liberi.

 

 

Il patrimonio zootecnico, se ha subito gravi falcidie a causa della guerra, si è d’altra parte avvantaggiato della situazione generale creatasi nell’agricoltura. Gli alti prezzi dei prodotti agricoli, con la conseguente formazione di alti redditi, hanno permesso (anche a causa delle difficoltà di approvvigionamento di prodotti industriali) la rapida ricostituzione delle scorte vive attraverso un’azione di autofinanziamento. La contrazione nell’offerta di prodotti per il consumo, che ne è derivata, ha portato poi particolarmente in alto i prezzi in questo settore (intorno alle 40-50 volte quelli medi del 1938 a fine 1945 e a luglio 1946 e tra le 40-60 volte a novembre 1946) stimolando ancor più lo spostamento verso di esso dei fattori produttivi.

 

 

La produzione di carne per il 1946 è stata stimata inferiore alla metà della media antebellica contro un patrimonio zootecnico (bovini) che per numero di capi si stima per il 1945 ridotto del 25 per cento e che nel 1946 è certamente aumentato. La ricostituzione degli allevamenti non avviene, però, in misura uniforme; gli ovini e i suini, in conseguenza sia del più breve ciclo riproduttivo, sia del frazionamento degli allevamenti (notevole lo sviluppo degli allevamenti a carattere familiare dei suini) hanno riguadagnato maggiormente il terreno perduto. La produzione foraggera, stimolata da tale processo di rapida ripresa, ha, secondo recenti stime, superato l’80% della produzione prebellica, mentre i cereali minori e i sottoprodotti della macinazione dei cereali hanno raggiunto prezzi più remunerativi di quelli del grano, del riso, e in genere dei prodotti di uso alimentare diretto, che vengono ceduti parte a prezzo legale e parte a prezzo di mercato nero. L’avena, la cui produzione viene venduta tutta a prezzo di mercato, nel novembre dicembre quotava sulle 6 mila lire per quintale; tra le sementi da foraggio, l’erba medica 20-30 mila lire per quintale e la veccia in alcune provincie 14 mila lire.

 

 

Nel complesso, dunque, la produzione lorda dell’agricoltura nel 1946 è superiore ai tre quarti di quella del 1938 ed essendo i prezzi (al novembre 1946) in media aumentati di 40/41 volte, ne risulta un valore in lire correnti pari a circa 31 volte quello del 1938. Accettando la valutazione dell’Istituto centrale di statistica di 45,7 miliardi di lire per la produzione lorda 1938, si ottengono 34-35 miliardi (in lire 1938) per quella 1946. Supponendo tuttora valide le argomentazioni che nel 1936 e nel 1938 portarono gli autori di varie stime del reddito nazionale a ritenere la produzione netta dell’agricoltura pari al 73% di quella lorda, si ottiene per il 1938 una produzione netta di 33,4 miliardi e per il 1946 di 25 miliardi (in lire 1938).

 

 

Così operando si suppone immutata l’incidenza sul reddito lordo delle spese di produzione, cioè delle sementi, degli anticrittogamici, dei concimi, dell’energia e degli altri prodotti industriali che vengono acquistati dagli agricoltori.

 

 

Poiché le variazioni verificatesi nei prezzi sono state tutt’altro che uniformi, la conversione in lire 1946 dei citati 25 miliardi non potrebbe farsi applicando la variazione media riscontrata nei prezzi dei prodotti agricoli. Tuttavia, dai risultati di indagini rappresentative delle varie regioni e zone agrarie, intese ad accertare la variazione tra il 1939 e il 1946 dei redditi dominicali in lire correnti, risulta per tali redditi un coefficiente medio di circa 30 e un coefficiente solo leggermente inferiore si è trovato per il reddito agrario. Il reddito di lavoro, nella mezzadria, segue le vicende della produzione e dei prezzi; negli altri casi – sia perché il reddito è in parte percepito in natura, sia perché presenta variazioni che vanno da 22-32 volte per gli uomini a 20-40 volte per le donne, sia ancora perché il numero dei lavoratori è più probabile che presenti variazioni in aumento che in diminuzione – può ritenersi anche esso nel complesso aumentato di circa 30 volte. Si riscontra così un aumento che è press’a poco uniforme per le varie categorie le quali compongono il reddito netto dell’agricoltura (reddito del lavoro manuale, reddito agrario, reddito dominicale) e che, tenuto conto anche delle variazioni nei prezzi intervenute tra i due diversi anni presi a base (1938 e 1939), concorda con la variazione nel valore della produzione lorda.

 

 

Riepilogando, la produzione lorda, per il gioco dei prezzi (aumentati 40-41 volte) e delle quantità (ridotte a poco meno di 3-4) ha un coefficiente di aumento di 30-31 volte. Poiché delle quote in cui essa si ripartisce quelle che costituiscono redditi presentano, in termini monetari, un coefficiente di aumento che può stimarsi in media anch’esso di 30-31 volte, la restante quota, costituita da spese di produzione, è – in valore monetario – variata in ugual proporzione. Possiamo quindi stimare il reddito netto dell’agricoltura – espresso in lire correnti – nel 1946 pari a 30-31 volte i 33,4 miliardi del 1938, ovvero pari al 73% della produzione lorda (1.400 miliardi); uguale quindi a 1.000-1.100 miliardi di lire (con potere d’acquisto novembre 1946).

 

 

Valore della produzione agricola nel 1938 e nel 1946

(miliardi)

 

 

 

 

Produzione

1938

 

Produzione

1946

 

in lire 1938

in lire 1946

Produzione lorda ………………………..

45,7

34

1.400

 

Produzione netta ………………………..

33,4

25

1.050

 

 

I coefficienti di variazione delle quantità prodotte e l’indice dei prezzi dei prodotti, utilizzati per la stima del reddito dell’agricoltura nel 1946, sono stati ottenuti considerando i prodotti inclusi nella valutazione della produzione lorda, riportata dall’«Annuario statistico dell’agricoltura italiana 1936-38» (pag. 153) con eccezione della legna, dei prodotti forestali, della produzione floreale, del cotone, del tabacco e di parte dei prodotti indicati sotto le voci varie. Per tutti gli anni considerati (1938, 1945 e 1946) si sono escluse la Venezia Giulia e Zara. Le produzioni zootecniche sono state calcolate per il 1945 e per il 1946 applicando alle produzioni del 1938 una variazione percentuale, nelle quantità prodotte, proporzionale a quella avutasi per i foraggi e per i cereali.

 

 

Per ciascun prodotto sono stati determinati il prezzo al novembre 1946 (si è fatta eccezione per alcuni ortaggi e per la frutta) e quello medio del 1938 facendo la media ponderata dei prezzi regionali. Questi ultimi sono stati ottenuti come medie semplici dei prezzi provinciali (riportati nel Bollettino mensile di statistica per il 1946). Per il frumento, il risone e il granturco il prezzo considerato è una media tra prezzo d’ammasso e prezzo di mercato, con pesi rispettivamente di 3 e 1; per gli altri prodotti soggetti ad ammasso, si è attribuito lo stesso peso ai due prezzi. Considerando ipotesi diverse da queste, i risultati non ne restano influenzati in maniera sensibile. Non sono stati considerati i prezzi relativi al 1945 in quanto, essendo in tale anno notevole il divario tra prezzi legali e prezzi effettivi, i risultati avrebbero risentito sensibilmente dell’ipotesi assunta, relativamente al rapporto tra mercato nero e mercato legale.

 

 

Gli indici delle quantità prodotte sono risultati, ponderando in base ai prezzi 1938 o a quelli del novembre 1946, rispettivamente 57,6 e 56,6 per l’anno 1945 e 75,8 e 75,1 per l’anno 1946. L’indice dei prezzi al novembre 1946, media 1938=100, ponderando in base alle produzioni 1938, è risultato 4.105 e un risultato solo leggermente inferiore (4.067) è stato ottenuto ponderando con le produzioni 1946. Infine il rapporto tra la somma dei prodotti delle quantità 1938 per i prezzi 1938 e la somma dei prodotti delle quantità 1946 per i prezzi 1946, è risultato di 30,8.

 

 

La produzione industriale

 

L’attività produttiva nel settore industriale, se non ha raggiunto nel 1946 il livello, che era stato ritenuto compatibile con le possibilità di ricupero, le esigenze di mercato, la presenza di vari fattori limitativi, ha tuttavia segnato un notevole miglioramento rispetto al livello medio, d’altronde assai basso, dell’anno precedente. A condizionare, in linea generale, la ripresa produttiva ha concorso la insufficiente disponibilità di combustibili solidi e liquidi, di energia elettrica e delle altre indispensabili materie prime, di cui si era previsto l’approvvigionamento sopratutto mediante le forniture alleate. I progressi realizzati nei singoli settori, a loro volta, sono dipesi dalla maggiore o minore influenza esercitata da queste circostanze di carattere generale, nonché dall’esistenza di squilibri sezionali nei prezzi e nelle possibilità di sbocco, che sono valsi a favorire talune produzioni, provocandone anche uno sviluppo euforico, e a deprimerne altre. Il ritmo della ripresa nel corso dell’anno, infine, ha subito variazioni nella intensità per riflesso del mutare delle condizioni negli altri settori della vita economica, oltre che per cause di carattere stagionale e per le indicate circostanze limitatrici.

 

 

Queste, per quanto riguarda i combustibili solidi e liquidi, riflettono l’elevato grado di dipendenza del nostro mercato dagli approvvigionamenti esteri e gli ostacoli che attualmente a questi si frappongono per la insufficiente entità della produzione mondiale, di cui si è reso necessario il riparto con razionamento su basi internazionali. Per quanto concerne invece l’energia elettrica riflettono, oltre alla diminuzione della potenza efficiente causata dalle distruzioni di guerra e al non favorevole andamento idrologico, anche un sensibile aumento nei consumi, a determinare il quale hanno contribuito la carenza di altre fonti energetiche e la situazione comparativa dei prezzi.

 

 

La disponibilità complessiva di combustibili solidi è stata pari all’incirca alla metà del consumo prebellico; alimentata quasi completamente dai rifornimenti esteri, essa ha inoltre risentito della notevole discontinuità, con cui questi si sono verificati. Gli arrivi hanno toccato livelli assai bassi agli inizi dell’anno (gennaio) e, successivamente, a metà anno (maggio-giugno) e negli, ultimi mesi (ottobre-dicembre), con conseguente necessità di riduzioni nelle assegnazioni per uso industriale, che, nell’intero periodo, non hanno superato il 40% dei consumi normali. Lievemente migliore è stata la situazione dei prodotti petroliferi.

 

 

Per l’energia elettrica, contro una disponibilità mensile media di 1.116 milioni di Kwh nel 1938, si è avuta una media mensile di 1.283 milioni di Kwh nel 1946; livello, che non ha impedito tuttavia che anche tale fonte di energia risultasse scarsa rispetto alla domanda. Questa ha trovato nei prezzi dell’energia, il cui coefficiente di aumento è inferiore rispetto a quello dei combustibili in genere, non un elemento di limitazione, ma piuttosto un incentivo al consumo. Al tempo stesso, le restrizioni prescritte d’imperio – a causa dell’inadeguatezza o forse della impossibilità di un efficiente controllo – sono risultate largamente inidonee a garantire una certa regolarità di distribuzione nei periodi di maggiore squilibrio tra richiesta e disponibilità di energia. A integrazione di essa, ha assunto una qualche diffusione l’uso di gruppi elettrogeni.

 

 

Il quadro della situazione industriale è mutevole negli aspetti particolari relativi ai vari settori. Le industrie minerarie, che già nel 1945 avevano raggiunto un apprezzabile grado di riattivazione, l’hanno mantenuto e migliorato nel corso del 1946. Un incremento notevole si è avuto nella produzione dei combustibili fossili, che sul finire del 1946 (novembre) registrava cifre di 96.000 tonnellate per il carbone sardo e di 127.000 tonnellate per le ligniti, con tendenza pertanto ad avvicinarsi alle produzioni massime raggiunte nel 1942. Si tratta comunque di produzioni, che rappresentano percentuali assai modeste rispetto a un fabbisogno annuo di 15 milioni di tonnellate; percentuali che si solo ulteriormente ridotte con la cessazione dell’apporto delle miniere dell’Arsa. Per le altre caratteristiche produzioni minerarie italiane, gli indici mensili, pur denotando un generale miglioramento rispetto al 1945, rimangono al di sotto del livello normale in misura variabile a seconda delle voci e che, in media, può considerarsi si aggiri intorno al 50%.

 

 

Livelli ancora bassi si notano nella produzione dei minerali di ferro (89.000 tonn. circa nei primi 10 mesi del 1946 contro una produzione annuale di 990.000 tonn. nel 1938); delle piriti (318 mila tonn. in 10 mesi contro 930.000 nel 1938); dei minerali di alluminio; dei minerali di zolfo (di cui, sino al mese di ottobre, si è avuta una produzione mensile oscillante tra un minimo di 68.000 tonn. e un massimo di 95.000 tonn., contro una produzione media mensile di 197.000 tonn. nel 1938).

 

 

Più soddisfacente la produzione di mercurio, che in 10 mesi ha toccato la cifra di 124.000 tonn., contro un totale di 195.500 nel 1938.

 

 

Penuria di carbone e di energia elettrica, insufficiente disponibilità di rottami di ferro e di ghisa hanno limitato, durante il 1946, le possibilità produttive dell’industria siderurgica. Progressi sensibili sono stati realizzati nei riguardi dell’acciaio, della ghisa, dei laminati, come attestano gli indici delle rispettive produzioni; ma i quantitativi sono sempre al di sotto di un 50%, e ancor più per la ghisa, di fronte ai corrispondenti livelli del 1938 e sono inadeguati, nonostante le integrazioni di provenienza estera, rispetto al fabbisogno dell’industria meccanica. Questo settore, al quale è legata la possibilità di occupazione di un’elevata aliquota della mano d’opera industriale, oltre a risentire delle generali difficoltà di approvvigionamento dei materiali necessari all’utilizzazione dell’attuale capacità produttiva, si trova di fronte anche a problemi, che investono le sue possibilità espansive avvenire. La ripresa dell’attività produttiva si è in esso verificata in misura notevolmente diversa a seconda dei rami, con livelli generalmente inferiori ai prebellici, ma talvolta anche al di sopra degli stessi per quelle forme di attività (produzione di autocarri, materiale ferroviario, motocicli), che sono apparse collegate maggiormente con le esigenze di ricostruzione.

 

 

Sensibilmente lontana dalle previsioni è apparsa l’attività del settore dei materiali da costruzione, particolarmente nei riguardi del cemento e dei laterizi mentre per il vetro la produzione mensile, pur con notevoli oscillazioni, ha sempre superato quella del periodo normale.

 

 

Complessivamente nel 1946 è stato prodotto un quantitativo di 9.250 mila mq. di vetro, assai superiore a quello prebellico, mentre per il cemento si è avuta una produzione di 986.000 tonn., contro 4 milioni di tonn. circa, che costituivano il livello normale degli anni anteguerra. Per i laterizi le valutazioni che si hanno sono soltanto approssimate, ma concordano nell’indicare che il livello produttivo raggiunto non ha superato il 55-60%di quello che si registrava in tale attività nel 1938.

 

 

Nel settore della chimica si è avuto, in complesso, un considerevole incremento rispetto alla produzione, assai modesta, realizzata nel 1945; miglioramento, che ha presentato, tra ramo e ramo, divari apprezzabili dipendenti anche da un diverso orientamento produttivo. L’industria della gomma e la produzione di pneumatici in particolare ha raggiunto un’attività elevata, per quanto essa abbia iniziata la sua ripresa soltanto nei primi mesi del 1946. L’industria cartaria ha pure migliorato il suo livello produttivo rispetto al 1945, avvicinandosi alla metà della produzione prebellica.

 

 

Quanto all’industria tessile, è noto che essa costituisce il settore in cui più intenso si è manifestato il ritmo di ripresa per un complesso di circostanze favorevoli, che vanno dalla quasi assoluta mancanza di danni nell’apparato produttivo alla intensa domanda di manufatti verificatasi sul mercato mondiale nel periodo immediatamente successivo alla cessazione delle ostilità. Di tali favorevoli condizioni si sono avvantaggiate in particolare l’industria laniera e quella cotoniera, che, avviando la produzione verso i mercati esteri, hanno avuto la possibilità di ricostituire le scorte e di consolidare su basi elevate il proprio livello produttivo. La ripresa dell’industria delle fibre tessili artificiali è stata più stentata per difficoltà di approvvigionamento di materie prime; tuttavia gli ultimi dati disponibili indicano anche per tale ramo un livello al di sopra della metà di quello prebellico, confermando l’alto tono dell’intero settore dei tessili.

 

 

Nell’industria cotoniera, sono state poste in lavorazione durante il 1946 fibre per 1.330.631 quintali contro una cifra di 2.030.560 nel 1938; in questo ultimo quantitativo, peraltro, erano inclusi oltre 550 mila quintali di fibre diverse dal cotone, mentre le medesime assommano soltanto a 78.200 nelle materie prime consumate nella filatura cotoniera nel corso del 1946: la composizione qualitativa è pertanto sensibilmente migliorata. Tenuto conto delle importazioni effettuate ad opera dei privati, degli acquisti diretti dello stato, delle forniture U.N.R.R.A., si valuta che nel 1946 si sia avuta una disponibilità complessiva di cotone non molto al di sotto dei 3 milioni di quintali, di cui la metà all’incirca in essere alla fine dell’anno come scorta di greggio da utilizzare nell’anno in corso. Il numero dei fusi installati viene indicato, secondo rilevazioni ufficiali, in 5.250.000 e l’indice della produzione in filati sin dal mese di giugno si valutava pari all’88% della produzione prebellica. Una minore attività ha svolto la tessitura, la quale è particolarmente in ritardo nell’espletamento del programma di lavorazione delle cotonate da immettere sul mercato interno in base al programma U.N.R.R.A.: a quanto risulta, soltanto due province, scelte fra quelle maggiormente colpite dalla guerra, hanno sinora ricevuto le assegnazioni preventivate.

 

 

È da avvertire, e si tratta di considerazione che vale anche per le altre industrie, che i dati riportati sono tratti da fonti varie e frequentemente di carattere non ufficiale, stante l’impossibilità attuale di ottenere per altra via notizie statistiche sulla situazione dei vari rami industriali.

 

 

Per la lana si è avuta nel 1946 una importazione complessiva di 700 mila quintali, pari quasi al doppio di quella del 1938 e vicina alle cifre raggiunte negli anni in cui i rifornimenti esteri furono più rilevanti. A formare tale disponibilità hanno concorso le importazioni U.N.R.R.A. per il 40%, i rifornimenti governativi diretti per il 27%, le importazioni private per il 33 per cento. La lavorazione ha incontrato ostacoli nella scarsezza di carbone e di energia elettrica tanto che, negli ultimi tempi, si è fatto ricorso su scala piuttosto estesa all’applicazione di gruppi elettrogeni.

 

 

Non è ancora nota l’entità della produzione di seta tratta nel 1946, mentre si hanno dati sulle esportazioni, che sono ammontate a 1.700 mila chilogrammi e sono state dirette per il 59 per cento ai paesi dell’America, per il 37% ai paesi europei e per il 4% in Africa, Asia ed Oceania. Il favorevole andamento delle esportazioni ha subito un brusco arresto verso la fine dell’anno per la piu attiva concorrenza manifestatasi sul mercato internazionale, in particolare ad opera del Giappone.

 

 

Nei restanti rami del settore tessile limitata è stata l’attività dell’industria jutiera e di quella lino canapiera per le difficoltà verificatesi nell’approvvigionamento di materie prime, svoltosi irregolarmente anche quando il rifornimento delle medesime era da compiersi esclusivamente sul mercato interno.

 

 

Per le fibre tessili artificiali, la produzione mensile complessiva è passata da 679 tonn. in gennaio a 6.957 tonn. in dicembre, raggiungendo, nell’anno, un totale di 46.100 tonn. contro 126.500 tonn. nel 1938. La composizione interna della produzione si è sensibilmente modificata, in quanto nel 1938 essa era rappresentata per il 36,3% da raion, per il 61,2% da fiocco e per il 2,5% da cascami, mentre le rispettive percentuali del 1946 sono state del 64, 29 e 7%.

 

 

Anche per le industrie tessili, tuttavia, di una effettiva ripresa non può parlarsi che a partire dal mese di aprile, poiché, nel periodo precedente, esse hanno partecipato al generale ristagno, che ha caratterizzato l’andamento dell’attività industriale. Solo posteriormente si è manifestata, in tale attività, una sostanziale intensificazione, che ne ha portato il livello, secondo stime largamente ammesse, al 60% di quello prebellico nel giugno e al 70% nel trimestre successivo, al termine del quale si è registrata una graduale contrazione.

 

 

Tale andamento, come si è accennato, non va posto in relazione esclusivamente col ritmo dei rifornimenti e con la disponibilità di energia; altri fattori vanno considerati e, in primo luogo, lo stimolo costituito dalla ripresa delle esportazioni industriali, che ha manifestato segni di intensità nel secondo semestre dell’anno. Ripresa, in fondo, modesta rispetto al livello prebellico e a quello che è da auspicare possa essere raggiunto dalle nostre esportazioni; ma non indifferente se confrontata con la situazione dalla quale si era partiti agli inizi del 1946, e, forse, non proporzionata alle esigenze del mercato interno. Al risveglio dell’attività industriale fa inoltre riscontro l’inversione del movimento dei prezzi del settore, in ascesa nel secondo semestre dopo una persistente flessione nella prima metà dell’anno.

 

 

In complesso, e in via di larga approssimazione, si è calcolato che la produzione industriale sia risultata, nell’anno in esame, uguale appena al 45-50% di quella del 1938: stima cui corrisponderebbe un valore, in lire di detto anno, compreso tra i 18 ed i 20 miliardi. Va subito detto che, a parte il comprensibile desiderio di sintesi, queste valutazioni riassuntive sono di scarso significato e che, comunque, ben più interessante sarebbe il conoscere in quali condizioni – di occupazione operaia, di rendimento e quindi di regime di costi, di remuneratività e quindi di regime di ricavi – si è ottenuta questa dimezzata produzione, per poi trarne elementi attendibili sulla ripartizione dei redditi monetari attuali, emergenti dall’attività industriale, fra le categorie compartecipi al processo produttivo. Purtroppo mancano basi adeguate per dar fondamento a valutazioni del genere, che possono essere effettuate soltanto in via di ipotesi e per fini di grossolano orientamento.

 

 

L’assorbimento di lavoratori da parte dell’industria, tenendo conto dei vari fattori che hanno contribuito a determinarlo anche in via forzata e in misura eccedente le effettive possibilità di utilizzazione, è da ritenere non sia stato inferiore ai tre milioni e mezzo di unità; cifra che, sulla base di calcoli effettuati in ordine all’entità del salario medio generale dei lavoratori industriali, porta a stimare in circa 400 miliardi l’ammontare in lire correnti dei salari corrisposti e in 550 miliardi circa il costo complessivo del lavoro.

 

 

La corresponsione di tale massa di salari non è avvenuta in modo uniforme nel corso dell’anno, ma ha gravato maggiormente nel secondo semestre, in corrispondenza delle erogazioni e degli adeguamenti avutisi in tale periodo. Facendo pari a 100 l’ammontare dei salari industriali del mese di giugno, esso risulta pressoché raddoppiato in novembre e quasi triplicato in dicembre per effetto di pagamenti arretrati o supplementari; si è pertanto cumulata in tali mesi una disponibilità di potere di acquisto, che ha contribuito fortemente a determinare il rialzo dei prezzi. Il salario medio, cui si è fatto riferimento, riguarda la generalità delle industrie e da esso risulta pertanto un coefficiente di aumento rispetto al livello prebellico, intorno alle 25 volte, che può essere diverso da quello riscontrato per singole categorie di lavoratori.

 

 

In generale, anche nell’ambito delle retribuzioni dei lavoratori dell’industria, si rileva un livellamento a scapito delle categorie specializzate, il quale, se è spiegabile con la necessità di assicurare a tutti un livello minimo di vita, è da ritenere agisca in senso sfavorevole agli effetti del rendimento e influisca sulla mancanza, riscontrata in diversi rami, di lavoratori specializzati e altamente produttivi.

 

 

Le cifre sopra esposte indicano l’eccezionale ampiezza del divario esistente tra i salari netti direttamente percepiti dai lavoratori e l’onere effettivo sopportato dalle aziende (prescindendo dalle variazioni intervenute nel rendimento) come costo totale del lavoro, inclusivo cioè dei contributi assicurativi e degli altri oneri sociali, la cui incidenza è stata valutata, nel novembre 1946, pari al 43% della retribuzione netta. Relativamente al costo totale del lavoro il coefficiente di aumento non è al di sotto di quello del livello generale dei prezzi.

 

 

Nelle condizioni in cui si è svolta la produzione industriale durante l’anno e con la configurazione di costo costante assunta dalle spese per il personale in periodo di blocco dei licenziamenti, alle variazioni intervenute nei redditi monetari del lavoro possono aver fatto riscontro: – attività che per il basso livello produttivo raggiunto, il numero degli addetti in forza, le minori possibilità di avvantaggiarsi dei prezzi illegali, sono state esposte a un effettivo consumo del capitale investito (indipendentemente dalla eventuale retribuzione ad esso accordata) per effetto di deficienza di ammortamenti; – attività che per la rapida riattivazione produttiva, l’adeguata disponibilità di materie prime, la possibilità di vendita a prezzi maggiorati, hanno avuto modo di realizzare forti profitti congiunturali; profitti emergenti anche dai proventi di una attività commerciale esercitata, in aggiunta o in sostituzione di quella puramente industriale, in quei casi, non infrequenti, in cui si siano utilizzate le materie prime di assegnazione per rivenderle sul mercato libero, anziché trasformarle industrialmente; – attività nelle quali, pur mancando una apparente remunerazione del capitale, questa si sia avuta in forma indiretta attraverso l’impiego del lavoro nell’opera interna di riassetto e di ricostruzione degli impianti.

 

 

É difficile stabilire, in base agli elementi di cui si dispone, quale sia stata la risultante di queste diverse circostanze, agli effetti della complessiva attribuzione di reddito al capitale; ma è fondato ammettere, trattandosi di fenomeno consueto in ogni economia che si impoverisce, che la proporzione del riparto si sia spostata a suo svantaggio.

 

 

La distribuzione dei redditi monetari

 

Le vicende dei redditi delle varie attività produttive sono state notevolmente diverse da categoria a categoria. L’agricoltura ha visto la sua produzione netta in termini reali ridursi del 25%, ma per il gioco dei prezzi i redditi in lire correnti presentano variazioni superiori o almeno uguali a quelle della media generale dei prezzi e quindi essa è grosso modo in una situazione quasi invariata rispetto all’anteguerra. All’opposto, i portatori di redditi fissi monetari hanno visto le loro entrate ridursi a  o  in termini reali. Peraltro, le contrazioni subite dai redditi reali tratti dai singoli rami di attività economica si polverizzano e si diffondono, trasformando, in certa misura, un problema di distribuzione tra le varie branche di attività economica in problema di distribuzione tra classi sociali. Cosi, la contrazione presumibilmente subita nell’industria dai redditi di capitale, quando trova compenso nell’alleggerimento di una situazione debitoria – in conseguenza dello svilimento della moneta – si ripercuote sui creditori e cioè sui possessori di obbligazioni e sui titolari di depositi a risparmio. Questi ultimi non sono per lo più necessariamente imprenditori industriali, ma soggetti che ritraggono, nella generalità, i loro redditi principali da altre attività.

 

 

La contrazione del reddito delle case di abitazione, raffrontata all’aumento del costo della vita, porta ad un reddito con potere d’acquisto pari a un quindicesimo dell’anteguerra. Una così notevole riduzione può essere sopportata solo grazie al frazionamento della proprietà edilizia, per cui la figura economica del puro redditiero di immobili urbani è una eccezione. Analoga è la situazione dei portatori di titoli del debito pubblico. In definitiva, la capacità di questi redditi a sopportare contrazioni in termini reali che rasentano l’annullamento è dovuta al loro frazionamento in diversi redditi complementari, più che alla loro altezza eccezionale. I redditi alti, d’altra parte, ove esistano, sopportano meglio le spese di una amministrazione attiva ed i loro percettori rifuggono da investimenti della natura di quelli sopra elencati, sui quali grava parte notevole della contrazione del reddito nazionale.

 

 

In definitiva, la contrazione del reddito nazionale, provocando una riduzione sia nei redditi di capitale che di lavoro, ha determinato all’interno di ciascuna delle due categorie una redistribuzione che è andata sovratutto a carico delle classi medie. Sono stati invero maggiormente colpiti gli investimenti tipici di queste classi (titoli pubblici, obbligazioni, immobili urbani); e i possessori di questi beni possono reagire alla riduzione dei loro redditi solo con una maggiore attività, ossia crescendo il reddito del loro lavoro.

 

 

In linea generale i redditi di lavoro presentano in termini reali una grande rigidità. Se essi, almeno nel loro complesso, hanno subito una decurtazione, non è verosimile che per lunghi periodi siano sottostati e possano sottostare ad una forte contrazione (in termini reali) rispetto all’immediato anteguerra. Se, come si suole, si confronta la situazione attuale a quella del 1938, occorre tener presente che tale anno seguiva ad una guerra coloniale, alla partecipazione nella guerra di Spagna e ad una distruzione di ricchezza causata da vari anni di politica autarchica. Già allora i redditi di lavoro erano perciò molto bassi (come dimostrano i confronti internazionali) e non vi era molto margine per ulteriori riduzioni.

 

 

Se la produzione netta presenta contrazioni del 25% per l’agricoltura e del 45-50% per l’industria, il reddito consumato non presenta necessariamente una uguale contrazione. Nel 1946 il consumo si giovò invero dell’apporto delle importazioni gratuite (U.N.R.R.A., E.N.D.S.I., dono svizzero ecc.) e può perciò essere stato maggiore della produzione netta nazionale. Inoltre (e ciò vale in ispecie per la produzione industriale) nell’istituire il confronto col 1938 occorre tener conto delle produzioni connesse con la guerra allora in preparazione, la cui mancanza oggi non influisce sulle disponibilità di beni per il consumo.

 

 

Se queste considerazioni portano a diffidare dei calcoli grossolani sui salari reali, esse non giustificano tuttavia conclusioni ottimistiche circa l’attuale livello medio delle retribuzioni del lavoro, in quanto alla riduzione delle già scarse disponibilità del 1938 (che, se pure meno forte di quella a prima vista rilevabile, sussiste e non è trascurabile), occorre aggiungere la riduzione delle disponibilità pro capite dovuta all’aumento della popolazione.

 

 

Da 43 milioni di italiani censiti al 21 aprile 1936 si è passati, tenendo conto delle perdite causate dalla guerra e non ancora rilevate dalle statistiche ufficiali, a circa 46 milioni. Dell’aumento occorre tener conto particolarmente nei confronti tra il 1945 e il 1946, in quanto sono rientrate proprio in tale periodo varie centinaia di migliaia di reduci allontanatisi gradualmente negli anni precedenti. Rispetto all’anteguerra occorre tener conto anche della maggiore occupazione (aumento della percentuale di popolazione attiva) provocata dalla guerra, la quale, costituendo una evoluzione nelle abitudini, tende a consolidarsi ed aumenta i bisogni.

 

 

La riduzione dei redditi reali di lavoro grava di più sui redditi che in partenza erano relativamente alti, generando un processo di livellamento nelle retribuzioni sia per quanto riguarda le diversità esistenti tra le varie categorie di operai o di impiegati, sia per quanto riguarda l’ammontare medio degli stipendi rispetto ai salari e dei redditi dei lavatori dipendenti rispetto a quelli indipendenti (artigiani, contadini piccoli coltivatori). I redditi delle categorie indipendenti erano scesi a livelli molto bassi; nell’inflazione successivamente intervenuta sono stati avvantaggiati (al pari di quelli di talune categorie di professionisti) da una maggiore rapidità di adeguamento al valore della moneta.

 

 

Mentre per i salari è stato calcolato (C. Vannutelli: Salari e costo del lavoro nell’industria in confronto all’anteguerra, «Rivista di politica economica», dicembre 1946) un coefficiente di aumento tra il 1938 e il 1946 di 15 volte, che sale a 34 se si tiene conto di tutte le provvidenze assicurative e assistenziali, per gli stipendi si è tra le 15 e le 20 volte, ove si escludano gli avventizi e le categorie già nel 1938 particolarmente disagiate. Il fenomeno del livellamento ha assunto forme molto decise tra gli impiegati dello stato; lo stipendio relativo ai più alti gradi è doppio di quello relativo ai primi gradi della carriera, mentre nel 1938 un direttore generale percepiva uno stipendio 4 volte maggiore di quello di un impiegato di gruppo C grado XII e 6 volte quello di un inserviente.

 

 

Una eguale riduzione del campo di variabilità si rileva nella scala delle retribuzioni della Banca d’Italia. Ad esempio un capo servizio, che nel 1938 percepiva 5 volte lo stipendio di un applicato, oggi ne percepisce uno superiore soltanto di 1 volta.

 

 

Considerando le diverse retribuzioni in termini reali, si trova che mentre negli alti gradi impiegatizi esse sono oggi intorno alla metà di quelle percepite nel 1938, nei gradi più bassi e in talune categorie di salariati la riduzione è stata molto minore. Le retribuzioni più basse risultano, a primo aspetto, vicine e in qualche caso pari e persino superiori a quelle del 1938. Il confronto è reso però incerto dalla dubbia omogeneità tra la composizione posizione attuale di alcune categorie e quella del 1938. L’aumento della popolazione ha provocato talvolta, più per esigenze sociali che economiche, un aumento dei dipendenti (specie nelle amministrazioni pubbliche e nelle aziende di servizi) il quale ha portato in genere ad un ingrossamento relativo delle categorie dei lavoratori non qualificati. Quelle, degli avventizi, da categorie di transizione continuamente rinnovantisi nei loro elementi, si sono man mano trasformate in categorie di normali impiegati, con aumento dell’età media e dei carichi di famiglia e quindi delle esigenze di vita. Infine lo stesso aumento della popolazione, per la parte non compensata da una maggiore occupazione, fa carico ai lavoratori attivi e, per il diverso accrescimento delle categorie sociali, in misura maggiore a quelle meno elevate.

 

 

Retribuzioni mensili degli impiegato dello stato (1)

 

 

 

 

GRADO

 

 

Indice degli stipendi sett.-dic. 1946, in lire correnti, base1938=100

 

 

Retribuzione reale

 

 

INDICE RETRIBUZIONE (base=100 retribuzione grado XII Gruppo C)

 

 

1938

 

1946

 

 

Gruppo A

 

1a ipotesi:

costo della vita

=2.322 (2)

   
 

Grado IV …………………..

902

39

433

193

Grado VI …………………..

1.169

50

261

151

Grado VIII …………………

1.220

53

221

134

Grado X ……………………

 

1.452

63

164

118

Gruppo C

Grado IX …………………..

1.481

64

172

126

Grado XII ………………….

2.018

87

100

100

 

Sabalterni

Capo uscere ……………

2.032

88

98

98

Inserviente………………….

2.537

109

70

88

 

2a ipotesi: costo della vita=2.685 (2)

Inserviente ………………

2.537

94

70

88

 

(1) Le retribuzioni sono comprensive dell’aggiunta di famiglia per quattro persone a carico (la moglie e tre figli) e si riferiscono all’ultimo quadrimestre dell’anno 1946.

(2) Nella prima ipotesi, si considera l’indice del costo della vita (Roma) media ultimo quadrimestre 1946; nella seconda ipotesi, si considera l’indice del capitolo alimentazione e, in base ad esso, supponendo che nel 1938 il consumo di alimenti rappresentasse il 65 per certo delle spese e nel 1946 il 75%, si è calcolato un indice del costo della vita verosimile per i meno abbienti.

 

 

Retribuzioni mensili degli impiegati del Comune di Roma (1)

 

 

 

 

GRADO

 

 

Indice degli stipendi sett.-dic. 1946, in lire correnti, base1938=100

 

 

Retribuzione reale

 

 

INDICE RETRIBUZIONE (base=100 retribuzione applicata III classe)

 

 

1938

 

1946

 

 

 

 

1a ipotesi:

costo della vita

=2.322 (2)

 

   
 

Direttore capo ripartizione (gruppo A)…………………….

873

38

501

197

Capo divisione di II classe (gruppo A)…………………….

1.165

50

297

156

Segretario di II classe (gruppo A) o ufficiale amministrativo scelto (gruppo B)………………………………

1.357

58

215

131

Segretario di III classe (gr. A) o uff. amm. di I classe (gr.B)..

1.467

63

193

128

Applicato di I classe (gr. C)…

1.865

80

124

104

Applicato di III classe (gr. C) o impiegato avv. a contratto…

2.221

96

100

100

Usciere od operaio scelto……

2.175

94

102

100

 

2a ipotesi: costo della vita=2.685 (2)

Applicato di III classe o impiegato avv. a contratto…..

2.221

83

100

100

Usciere od operaio scelto……

2.175

81

102

100

 

(1) Le retribuzioni sono comprensive dell’aggiunta di famiglia per due persone a carico (la moglie e un figlio) e si riferiscono all’ultimo quadrimestre dell’anno 1946.

(2) Nella prima ipotesi, si considera l’indice del costo della vita (Roma) media ultimo quadrimestre 1946; nella seconda ipotesi, si considera l’indice del capitolo alimentazione e, in base ad esso, supponendo che nel 1938 il consumo di alimenti rappresentasse il 65 per cento delle spese e nel 1946 il 75 per cento, si è calcolato un indice del costo della vita verosimile per i meno abbienti.

 

 

Retribuzioni mensili degli impiegati della Banca d’Italia (1)

 

 

 

 

GRADO

 

 

Indice degli stipendi sett.-dic. 1946, in lire correnti, base1938=100

 

 

Retribuzione reale

 

 

INDICE RETRIBUZIONE (base=100 retribuzione applicata III categoria)

 

 

1938

 

1946

 

 

 

 

1a ipotesi:

costo della vita

=2.322 (2)

 

   
Direttore servizio ………

1.087

42

523

217

Direttore di succursale …

1.138

44

396

172

Capo Ufficio …………..

1.428

55

250

136

Segretario …………….

1.753

68

160

107

Aiutante di cassa ………

1.792

70

152

104

Applicato di III categoria.

2.624

102

100

100

Usciere di II categoria …

1.951

76

131

97

Impiegato avventizio ……

3.394

132

70

90

Inserviente diurnista …..

3.943

153

59

89

   

2a ipotesi: costo della vita=2.934 (2)

 

   
Applicato di III categoria

2.624

89

100

100

Impiegato avventizio

3.394

116

70

90

Inservinete diurnista

3.943

134

59

89

 

(1) Le retribuzioni sono comprensive dell’aggiunta di famiglia per quattro persone a carico (la moglie e tre figli).

(2) Nella prima ipotesi, si considera l’indice del costo della vita medio di 5 grandi città; nella seconda ipotesi, si considera l’indice medio nazionale del capitolo alimentazione e, in base ad esso, supponendo che nel 1938 il consumo di alimenti rappresentasse il 65% delle spese e nel 1946 in 75%, si è calcolato un indice dal costo della vita verosimile per i meno abbienti.

 

 

Per le ferrovie dello stato, il personale non di ruolo, che nel 1938 costituiva l’8%, su un totale di 130 mila dipendenti, nel 1946 era salito al 43%, su un totale di oltre 190 mila dipendenti. Anche tra il personale civile dello stato la percentuale di impiegati non di ruolo è passata tra i due anni dal 20 al 46%.

 

 

L’aumento del carico medio di famiglia è compensato e talvolta al di là, in quei casi, frequenti per le famiglie provvedute di figli in età atta al lavoro, in cui in una stessa famiglia parecchi attendono a lavoro produttivo. Il declassamento sociale sembra perciò notabile soltanto nei gradi più alti della scala dei redditi di lavoro e per i gradi minori, per le famiglie i cui figli non hanno ancora raggiunto l’età atta al lavoro.

 

 

Una conferma della diversa contrazione dei redditi reali si trae dall’andamento dei consumi e dei fenomeni demografici, che concordemente indicano uno spostamento di disponibilità a favore delle classi già meno abbienti.

 

 

Indicazioni in tal senso sono fornite dallo spostamento del pubblico verso gli spettacoli di genere più popolare, rivelato da una recente indagine della Società italiana degli autori ed editori; dal fatto che i consumi popolari di carattere voluttuario, come quelli del vino e del tabacco, si mantengono vicini al livello d’anteguerra, nonostante gli alti prezzi raggiunti da tali generi.

 

 

A Roma, nel secondo semestre del 1946 il consumo medio mensile del vino ha raggiunto il 90 per cento di quello verificatosi nel corrispondente periodo del 1938. Nel complesso del paese, nel secondo semestre del 1946, la media mensile delle vendite di tabacchi ha superato il 90 per cento della corrispondente media del 1938; in particolare, nel dicembre 1946 si è raggiunto il 100%, ed il gettito è aumentato di oltre venti volte. Se si tiene conto delle quantità vendute illegalmente, è facile dedurne che il consumo dei tabacchi è oggi notevolmente più forte che non nell’anteguerra.

 

 

La forte ripresa della natalità sia nelle città che nelle campagne è un fenomeno comune di ogni dopoguerra, ma il livello eccezionalmente basso segnato nel 1946 dalla mortalità in genere e dalla mortalità infantile in specie non avrebbe potuto raggiungersi in una condizione di permanente disagio delle classi generalmente più prolifiche. La mortalità è discesa nel 1946 al 12 per mille cioè 2 punti al disotto della media 1936-1940 e 6 punti al disotto dell’altro dopoguerra, nonostante che la natalità abbia raggiunto il 22,6 per mille, superando il livello di tutti gli anni precedenti fino al 1940 ed adeguandosi alla media prebellica. In conseguenza del forte incremento nella frequenza dei matrimoni (che ha raggiunto il 9,1 per mille) un ulteriore aumento della natalità è da prevedersi per il 1947.

 

 

L’impoverimento relativo dei ceti medi risparmiatori è dunque il fatto più caratteristico degli anni recenti ed è indubbiamente un fattore negativo per la ripresa e la ricostruzione economica del paese. L’unico compenso al danno della distruzione e dell’impoverimento dei ceti medi è, ripetiamo, la spinta a lavorare che per tal modo si è data a coloro che non attendevano ad occupazioni produttive. Ma la percentuale degli «oziosi» sul totale dei componenti i ceti medi era già stata probabilmente assai ridotta dalla medesima causa dopo la prima guerra mondiale; cosicché la seconda odierna compressione si è esercitata sovratutto sui ceti medi risparmiatori, su coloro che hanno dato opera in passato e tuttora danno al lavoro direttivo e professionale e che risparmiano in vista dell’avvenire; ceti dei quali nessuna società può fare a meno. Poiché il reddito nazionale complessivo è diminuito e poiché quello delle classi meno abbienti si appalesa incomprimibile, giova riconoscere che l’impoverimento dei ceti medi fu inevitabile. Fa d’uopo tuttavia non chiudere gli occhi dinanzi ad esso e tendere col miglioramento della situazione al ristabilimento di rapporti meno anormali. Poiché noi non conosciamo chi sia in grado di offrire, in quantità uguali a quelle che essi usavano fornire, i risparmi occorrenti allo sviluppo della produzione, il ritorno dei ceti medi ad una posizione socialmente ed economicamente non inferiore a quella che essi tenevano innanzi alle due guerre mondiali si chiarisce necessario ove non si voglia che il paese sia condannato a ristagnare in una situazione di povertà.

 

 

I prezzi

 

Durante il primo semestre del 1946, l’andamento generale dei prezzi presentò un tempo di sosta rispetto al movimento generale di forte ascesa assunto in questi ultimi anni. In pari tempo, si accennò chiaramente la tendenza verso una situazione di equilibrio meno anormale, attraverso la riduzione della fortissima dispersione che ancora persisteva alla fine dell’anno precedente. Mentre nei vari settori dei prezzi all’ingrosso liberi e di mercato nero, che erano in vantaggio sulla media generale degli aumenti, si avevano notevoli cadute (per i tessili del 50% nello spazio di otto mesi), i prezzi legali rimanevano praticamente fermi. Qualche aumento segnavano gli indici del costo dell’alimentazione (quello calcolato dall’Istituto centrale di statistica passava da 3.378 nel primo trimestre 1946 a 3.531 nel secondo trimestre) in relazione non tanto ad aumenti dei prezzi al minuto quanto alla riduzione delle quantità distribuite a prezzi legali. D’altra parte i salari subivano aumenti coi quali si tendeva a mantenere od a migliorare il livello in termini reali raggiunto con gli adeguamenti concessi negli ultimi mesi del 1945 in occasione dell’introduzione della scala mobile.

 

 

Sul finire del maggio 1946, nell’intento di agevolare il successo della nuova campagna di ammasso dei prodotti agricoli, si fissarono dei prezzi meno sperequati di quelli fino allora vigenti, i quali, rispetto al 1938, presentavano un aumento medio di solo 7-8 volte.

 

 

I nuovi prezzi, di cui alcuni fissati qualche mese più tardi, sono risultati in media 20-22 volte maggiori di quelli in vigore nel 1938 e quindi tripli di quelli relativi al 1945. Poiché le quantità ammassate sono state nel 1946 molto maggiori di quelle ammassate nel 1945, ne è risultato un valore di scambi 5 volte maggiore.

 

 

In particolare, si è avuto un aumento rispetto al 1938 di 20 volte per i prezzi del grano, di 18 volte per quelli del granturco, di 30 volte per il risone, di 18 per l’orzo, di 28 per le barbabietole e di ben 38 volte per l’olio di oliva.

 

 

Pur essendo questo aumento nei prezzi legali in via assoluta più che giustificato dalla situazione generale dei prezzi, esso non poteva per molteplici ragioni non influenzarla a qua volta.

 

 

All’atto della fissazione del prezzo del grano fu stabilito di mantenere invariato il prezzo del pane e di fare assumere allo stato la differenza tra il nuovo e il vecchio prezzo di ammasso e l’onere derivante dalle maggiori spese di distribuzione e trasformazione; dal che, tenuto conto anche delle quantità da importare, risultava un carico per il bilancio di circa 90 miliardi.

 

 

Oggi, col prezzo al quale paga il pane, il consumatore rimborsa il solo costo di trasformazione e distribuzione, restando a carico dello stato l’intero prezzo di acquisto del grano. Deriva da ciò che le somme anticipate per gli ammassi del grano non rientrano all’atto della vendita del prodotto, ma restano integralmente a carico dello stato (al luglio del 1946, si erano già ammassati quintali 16.637 mila per un valore di 45 miliardi di lire contro 3 miliardi alla stessa data dell’anno precedente). Mentre tale onere, per l’incapacità dello stato ad incrementare le entrate, porta in sé i germi dell’inflazione, all’opposto, è almeno dubbio se un aumento del prezzo legale del pane, attuato in giugno, avrebbe accresciuto di molto la spinta all’aumento dei salari, già in atto, e portato a concessioni maggiori di quelle che furono fatte nei mesi successivi, lasciando insoluto il problema dell’onere del prezzo politico del pane. Nei mesi precedenti le razioni erano state fortemente ridotte e quindi sostituite con acquisti al mercato nero, con conseguente ulteriore aumento negli indici del costo della vita: nel secondo trimestre 1946 si ebbe un aumento del 5% che determinò l’aumento della indennità di carovita agli statali a partire dal giugno 1946. Ma proprio a partire dal giugno – luglio, con le disponibilità della nuova produzione, furono ripristinate le vecchie razioni per i generi da minestra e fu notevolmente aumentata quella del pane. Considerando quindi la spesa complessiva tra mercato nero e mercato legale, essa non risultò mantenuta allo stesso livello, ma ridotta, tanto da provocare una caduta nell’indice del costo dell’alimentazione che discese a 3.009 nel terzo trimestre 1946. Tuttavia questa variazione non fu poi applicata agli stipendi, perché nel quarto trimestre la congiuntura si invertì ed essa apparve anacronistica. In sostanza, accollando allo stato l’onere del prezzo politico del pane non fu mantenuta una situazione invariata, ma si ridusse la spesa del consumatore, mentre per altra via – con le indennità legate alla scala mobile e col premio della repubblica – se ne aumentavano le entrate.

 

 

Altre ripercussioni indirette, ma più immediate, sull’andamento generale dei prezzi derivarono dalla fissazione dei nuovi prezzi corrisposti ai produttori. In una situazione tanto variabile di prezzi quale quella esistente in Italia da alcuni anni, i prezzi legali, che in sostanza sono prezzi di calmiere, finiscono per fornire un orientamento al mercato nel senso che rappresentano un livello consolidato di aumenti al disotto del quale si è certi di non ritornare. Si aggiungano le ripercussioni delle contrattazioni, quali i fitti agrari, i cui prezzi sono ragguagliati alle variazioni del prezzo del grano, e ci si renderà conto come il passare per una cospicua massa di scambi ad un prezzo triplo e non lontano dalla media generale dei prezzi abbia potuto costituire un fattore di arresto al movimento discendente, verificatosi nel primo semestre in molti settori, e di ripresa.

 

 

Nel secondo semestre del 1946, i prezzi presentano, a partire dal settembre, un andamento fortemente ascendente. Anche l’indice del costo dell’alimentazione inverte tra l’agosto e il settembre il suo movimento e presenta forti aumenti. I salari reali, avvantaggiatisi a partire dal giugno per l’aumento delle razioni e per il funzionamento della scala mobile, che rifletteva le variazioni dei prezzi del trimestre precedente, hanno visto annullarsi il beneficio del premio della repubblica e dei successivi adeguamenti, a causa dell’andamento dei prezzi.

 

 

Esaminando sotto il solo aspetto quantitativo le condizioni del mercato, all’inizio del secondo semestre 1946 non si riscontrano le premesse di un aumento dei prezzi. Con la disponibilità della nuova produzione agricola l’offerta era aumentata rispetto all’annata precedente e anche le prospettive per le importazioni necessarie ad integrare il fabbisogno erano migliori di quelle dell’anno precedente.

 

 

La maggior disponibilità si rifletteva sui prezzi liberi e di mercato nero. Nel luglio, cioè a raccolto 1945-1946 inoltrato, un indice dei prezzi di mercato nero e libero calcolato su 15 principali prodotti agricoli, con base 1938=100, non raggiungeva il valore di 4.400 contro un valore di 4.700 raggiunto nel novembre e dicembre 1945.

 

 

L’aumento della domanda, avutosi in conseguenza del miglioramento dei salari reali nei primi mesi del secondo semestre, non può essere considerato come un fattore direttamente influente sull’aumento dei prezzi, in quanto il miglioramento del giugno – luglio era grosso modo adeguato alle maggiori disponibilità. D’altra parte, i prezzi al minuto dei generi di largo consumo hanno continuato il loro andamento discendente fino a tutto il mese di agosto e ancora nel settembre erano uguali od inferiori a quelli del maggio: l’indice del costo della vita, capitolo alimentazione, a Roma presenta tra i due mesi una riduzione del 24%, dovuta per il 18% alle maggiori distribuzioni con tessera e per il rimanente 6% ad effettiva differenza nei prezzi.

 

 

L’aumento dei prezzi, forte in ispecie dal settembre, è quindi in relazione con altri fattori: in particolare esso appare più come somma di effetti agenti nello stesso senso e derivanti da cause diverse, che come risultato di un solo fattore. Anzitutto, nel secondo semestre 1946 si è avuto un risveglio dell’attività industriale e dell’esportazione e quindi un aumento di domanda sia per la ricostituzione di scorte in previsione della ripresa di attività, sia per l’esportazione (contro la quale non vi è stata una equivalente importazione, essendo accantonata la quota di valuta versata al cambio ufficiale).

 

 

Indici dei prezzi ingrosso

 

 

DATA

 

Prodotti agricoli Italia

(1)

Prodotti industriali

(Italia settentrionale)

(2)

Generale

(3)

Secondo il grado di lavorazione

(3)

 

ammasso (prezzi percepiti dai produttori)

liberi e di mercato nero

legali

di mercato

materie grezze

materie semilavorate

prodotti finiti

1938 ……………………..

100

100

100

100

100

100

100

100

1945 – Novembre …….

774

4.639

1.654

2.579

1945 – Dicembre…….

774

4.789

1.715

2.540

 

1946 – Gennaio………

1.739

2.439

»       – Febbraio………

1.791

2.415

»       – Marzo…………

1.791

2.293

»       – Aprile………….

1.757

2.244

»       – Maggio………..

1.687

2.122

2.582

2.599

2.250

2.811

»       – Giugno………..

1.722

2.171

2.593

2.472

2.271

2.849

»       – Luglio…………

2.082

4.361

1.774

2.244

2.675

2.469

2.346

2.954

»       – Agosto………..

4.590

1.681

2.366

2.791

2.609

2.461

3.056

»       – Settembre……

4.813

1.983

2.463

3.011

2.780

2.679

3.307

»       – Ottobre……….

5.259

2.219

2.782

3.176

2.973

2.804

3.456

»       – Novembre……

2.082

5.421

2.383

3.000

3.376

3.146

3.084

3.614

»       – Dicembre……..

5.904

2.400

3.146

3.677

3.420

3.462

3.882

 

1947 – Gennaio………

3.757

3.608

3.518

3.909

»       – Febbraio………

3.898

3.747

3.641

4.038

 

(1) L’indice dei prodotti agricoli è calcolato in base ai prezzi d’ammasso e a quelli effettivi alla produzione riportati nel Bollettino mensile di statistica.

(2) Sono state riportate alla base 1938 le serie pubblicate nella rivista «Negotia».

(3) L’indice generale, e quello secondo il grado di lavorazione sono stati calcolati dall’Istituto centrale di statistica, e sono in corso di pubblicazione.

 

 

Indici dei prezzi al minuto e del costo dell’alimentazione

 

 

 

 

 

DATA

 

Costo della vita capitolo

alimentazione

 

 

Prezzi al minuto generi

alimentari

 

Italia

 

 

Roma

 

Milano

 

Roma

 

Milano

1938 …………………

 

100

100

100

100

100

1944 – 1° trimestre

1.485

747

1.366

736

»       – 2°   »

3.228

951

2.418

943

»       – 3°   »

2.976

1.036

2.544

1.049

»       – 4°   »

3.027

1.444

2.663

1.445

 

1945 – 1° trimestre

3.697

2.003

3.345

1.966

»       – 2°   »

3.520

2.472

3.444

2.408

»       – 3°   »

2.477

2.586

2.592

2.700

2.678

»       – 4°   »

3.080

3.201

3.035

3.165

3.192

 

1946 – Gennaio

3.395

3.288

3.201

3.224

3.306

»       – Febbraio

3.317

3.015

3.100

2.899

3.208

»       – Marzo

3.433

3.247

3.332

3.012

3.320

»       – Aprile

3.603

3.256

3.445

3.179

3.283

»       – Maggio

3.583

3.406

3.319

2.986

3.237

»       – Giugno

3.404

3.337

3.293

2.866

3.159

»       – Luglio

2.997

2.883

3.020

2.803

3.156

»       – Agosto

2.900

2.567

2.802

2.752

3.236

»       – Settembre

3.129

2.579

2.844

2.802

3.253

»       – Ottobre

3.279

2.946

3.110

3.016

3.628

»       – Novembre

3.620

3.279

3.420

3.340

4.001

»       – Dicembre

3.964

3.590

3.938

3.623

4.300

 

L’indice del costo della vita, capitolo alimentazione, a partire dal terzo trimestre 1945 riportato dal Compendio statistico italiano 1946 e dal Bollettino mensile di statistica; per i trimestri precedenti è stato calcolato adoperando lo stesso bilancio e criteri analoghi a quelli seguiti dall’Istituto centrale di statistica.

 

 

L’indice dei prezzi al minuto si differenzia da quello del costo della alimentazione perché nel primo le quantità considerate a prezzo legale e a prezzo effettivo sono tenute fisse, mentre nel secondo le quantità considerate a prezzo legale sono quelle effettivamente distribuite.

 

 

Questa ripresa è stata preceduta e stimolata dall’aumento nelle quotazioni delle valute verificatosi nell’aprile – maggio e dai nuovi prezzi ufficiali dei prodotti agricoli che col loro livello hanno fugato ogni residuo timore di una politica deflazionistica troppo spinta. A tale situazione di ripresa si aggiungano il coincidere nel settembre di aumenti di prezzo all’estero (negli Stati Uniti l’indice dei prezzi all’ingrosso, base , passa da 122 a metà settembre a 134 in ottobre e 141 in dicembre) e la crisi ministeriale, che faceva rinascere qualche incertezza circa la futura politica finanziaria. In pari tempo, le agitazioni per gli adeguamenti salariali apparivano meno contrastate e venivano scontati in anticipo dal mercato gli aumenti concessi qualche mese più tardi. Si aggiunga ancora la notizia apparsa in alcuni giornali di un ipotetico adeguamento del cambio del dollaro a 400 e l’effetto negativo dei calmieri, e della maggior severità di controllo, attuati e annunciati dal governo e da enti periferici non appena i prezzi al minuto invertirono andamento. In altro campo, i provvedimenti ideati come remora agli aumenti delle quotazioni dei valori azionari, ed annunciati alla fine dell’agosto, possono aver deviato delle disponibilità verso investimenti in merci e quindi influito sui prezzi. Si ha in tal modo un cumulo di fattori concorrenti all’aumento dei prezzi.

 

 

Avviatosi il movimento nel settembre, esso è stato poi rinforzato dalla ripresa dell’attività speculativa.

 

 

I capitali in cerca di rifugio, sia per tema del cambio della moneta e di altri provvedimenti finanziari, ritornati di attualità; sia per sottrarsi alla svalutazione monetaria, hanno contribuito ad accrescere la domanda di beni. Da varie fonti è stata segnalata la tendenza all’accaparramento di scorte. Nel campo agricolo l’indice dei prezzi di mercato nero e libero, che nel luglio era inferiore a 4.400, nel novembre superava i 5.400. L’aumento è essenzialmente dovuto ai prezzi del bestiame che gli agricoltori preferiscono non vendere per accrescere le proprie scorte. Per quanto riguarda le vendite al dettaglio, è notevole la ripresa degli acquisti da parte dei consumatori (rilevata attraverso gli indici delle vendite dei grandi magazzini per i generi di abbigliamento e vari) e l’aumento dei consumi dei generi alimentari e del vino nelle grandi città, solo in parte attribuibile a fattori stagionali.

 

 

Un riflesso di questo incremento di attività si ha nel rapido aumento delle operazioni giornaliere delle stanze di compensazione che nell’ottobre hanno avuto un movimento doppio della media del primo semestre dell’anno e pari a 20 volte la media mensile del 1938.

 

 

Sul finire del semestre e nei primi mesi del nuovo anno, il movimento di ascesa sembra aver perso parte del suo vigore. È poco probabile però che si possa riguadagnare il terreno perduto, in quanto gli indici dei salari e degli stipendi hanno seguito il movimento dei prezzi in maniera grosso modo corrispondente e costituiscono per la loro rigidità nel movimento inverso un fattore di consolidamento sul nuovo livello raggiunto.

 

 

Il bilancio dello stato

 

Durante l’esercizio finanziario chiusosi al 30 giugno scorso, la quasi totalità del territorio nazionale è ritornata gradualmente sotto la giurisdizione del governo italiano.

 

 

Le province in amministrazione al nostro governo, da 36 all’epoca della elaborazione delle prime previsioni, divennero 49 all’inizio dell’esercizio. Con l’1 gennaio 1946 ha avuto luogo la totale restituzione al governo delle province dell’Italia settentrionale, con l’eccezione di Udine e della Venezia Giulia.

 

 

Ciò ha fatto sì che le previsioni formulate all’inizio dell’esercizio (che solo per i ministeri militari e le aziende autonome dei monopoli e delle ferrovie si estendevano a tutte le province liberate, cioè a sud della linea «gotica») risultassero, al suo termine, largamente superate: l’esercizio si è infatti concluso, secondo i dati provvisori finora disponibili, con un disavanzo di competenza di parte effettiva pari a 373 miliardi – contro gli 84 previsti – e risultante dall’eccedenza dei 501 miliardi di spese sui 128 di entrate.

 

 

Nella categoria movimento di capitali, si sono accertati 92 miliardi circa di entrate – costituiti per 72 miliardi dal gettito del prestito Soleri al nord – e impegnati 52 miliardi di spese.

 

 

Da queste cifre restano esclusi i risultati della gestione del governo militare alleato; includendo nel calcolo le risultanze di tale gestione, valutabili approssimativamente in 21 miliardi di entrate e 45 di spese effettive, si ottiene un disavanzo effettivo complessivo pari a 397 miliardi.

 

 

Restano inoltre escluse altre importanti partite, quali gli introiti tratti dalla vendita di merci d’importazione fornite dagli alleati e gli oneri derivanti dalle emissioni di am lire.

 

 

Dei 501 miliardi di spese effettive, imputabili alla gestione del governo italiano, 215 sono dovuti ad oneri classificati come normali, mentre i restanti 286 sono rappresentati da oneri cosiddetti eccezionali, cioè da somme stanziate per fronteggiare occorrenze ritenute suscettibili di esaurimento nel corso di uno o pochi esercizi finanziari.

 

 

Considerando la ripartizione delle spese effettive, si osserva che le spese militari non hanno ancora perduto della loro soverchiante importanza e derivano, prevalentemente, dalla liquidazione degli oneri causati dalla guerra (assegni di prigionia ecc.) che dovrebbero assottigliarsi rapidamente negli esercizi successivi. Più lungo decorso sembra doversi assegnare all’esaurimento delle spese, già così importanti, per il risarcimento dei danni di guerra e per il riassetto delle aziende autonome statali.

 

 

A valere sugli stanziamenti per spese effettive e sui residui degli esercizi precedenti, sono stati eseguiti pagamenti per una somma di 407 miliardi (di cui 364 in conto competenza e 43 in conto residui), che eccede di 258 miliardi i 149 miliardi incassati per entrate effettive (di cui 146 in conto competenza e 3 in conto residui). A tale disavanzo di cassa della parte effettiva ed all’eccedenza dei pagamenti sugli incassi in conto entrate minori per movimento di capitali, pari a 30 miliardi circa, è stato fatto fronte (come appare dalla tabella) per 72 miliardi con l’emissione del prestito Soleri al nord, per 134 miliardi col debito fluttuante (dei quali 81 tratti dai buoni del tesoro ordinari, 51 dai conti correnti che il tesoro intrattiene con la Cassa depositi e prestiti, un po’ meno di 2 da quelli con le banche), per 68 miliardi con altre entrate di tesoreria (di cui 5 derivanti dall’aumento nel saldo del conto corrente I.C.E.-U.N.R.R.A. e 29 dall’incremento nel saldo dei conti correnti intrattenuti dal ministero del tesoro per le gestioni delle merci importate) e per 14 miliardi col fondo di cassa.

 

 

La previsione iniziale per l’esercizio in corso, di 341.014 milioni di spese effettive, è stata ampiamente superata dagli stanziamenti sopravvenuti durante il decorso dell’esercizio e dagli oneri addizionali non ancora introdotti in bilancio. Tenuto conto di essi, la situazione di bilancio aggiornata al 31 gennaio presenta una prevedibile spesa effettiva complessiva di 890 miliardi, ripartita in 285 circa di oneri normali e 605 di oneri eccezionali, dei quali 314 ancora da iscrivere in bilancio.

 

 

I 285 miliardi di spese normali si suddividono a loro volta in 129 miliardi di spese relative al personale e in 156 di spese per i servizi (difesa militare, pensioni di guerra, pubblica sicurezza, sanità pubblica ecc.). I 605 miliardi di spese eccezionali sono destinati per poco più della metà a ricostituzione di capitali (riparazioni danni di guerra ad opere pubbliche, risarcimento danni di guerra, ripristino aziende agrarie, recupero navi mercantili, opere pubbliche straordinarie ecc.); per il resto possono considerarsi come spese non riproduttive, destinate a finanziare consumi correnti (spese per l’assistenza, il prezzo politico del pane, i provvedimenti economici a favore del personale, le forze armate alleate e nazionali ecc.).

 

 

Dal confronto tra la composizione percentuale della spesa globale secondo l’anzidetta situazione di bilancio al 31 gennaio 1947 e quella relativa al passato esercizio 1945-46, emerge una lieve accentuazione del peso relativo delle spese di personale e, fra i servizi, un declino delle spese militari, cui si contrappone un incremento negli stanziamenti per lavori pubblici (in gran parte dovuti ad interventi di carattere sociale, specie sotto la forma di provvedimenti diretti a lenire la disoccupazione) e nelle somme destinate a riparazione ed a risarcimento di danni di guerra.

 

 

Inoltre compare per la prima volta, nell’esercizio 1946-47, l’onere derivante dal prezzo politico del pane, che assorbe circa un decimo della spesa totale prevista.

 

 

Per le entrate effettive, di fronte ai 128 miliardi circa accertati nell’esercizio scorso, la previsione per l’esercizio corrente, aggiornata al 31 gennaio, è di 280 miliardi (contro 148.055 milioni iniziali), dei quali 269 rappresentati da introiti tributari e 11 circa da proventi minori. Mancano stime attendibili sul probabile gettito dei provvedimenti di finanza straordinaria.

 

 

Il disavanzo previsto della parte effettiva è dunque di 610 miliardi.

 

 

A questi, si aggiungono 23 miliardi di disavanzo previsti nella categoria movimento di capitali, per differenza tra 267 miliardi di spese e 244 miliardi circa di entrate.

 

 

Tuttavia, 95 dei 267 miliardi di spesa si riferiscono principalmente ad impiego, per l’approvviggionamento del paese, di disponibilità valutarie precostituite attraverso gli accrediti del tesoro degli Stati Uniti in contropartita delle am lire spese dalle truppe americane; cosicché l’economia del paese ha già subito l’effetto di questa spesa, tanto in termini monetari quanto in termini reali, mentre beneficierà delle importazioni residue che verranno finanziate con la spesa di tali valute, il ricavo delle quali verrà incassato dal tesoro. Ed anche per le disponibilità che si verranno di mano in mano costituendo, non dovrebbe riuscire difficile di coprirne il costo attraverso i ricavi della vendita delle merci d’importazione, che non sono stati compresi nella previsione dell’entrata per movimento di capitali.

 

 

La categoria del movimento di capitali non sembra dunque comportare un problema effettivo di disavanzo da coprire. Non è anzi improbabile che da essa risulti un avanzo. Restano i 610 miliardi di disavanzo della parte effettiva, cui occorre sommare, per raggiungere la cifra complessiva degli impegni di bilancio, il totale dei residui degli esercizi precedenti, di cui non è ancora dato di conoscere l’esatto ammontare, ma il cui importo (per la parte effettivamente incidente sulla situazione di cassa, escluse cioè le sistemazioni puramente contabili) era stimato a fine gennaio in circa 100 miliardi.

 

 

Il deficit previsto per l’esercizio corrente è perciò di dimensioni largamente superiori a quello avutosi nel passato esercizio.

 

 

L’altra cifra degli stanziamenti e la pesante eredità di residui si sono riflesse sull’andamento dei pagamenti. Assumendo come termine di confronto l’anno precedente, si osserva che i pagamenti per spese effettive sono passati da 131,8 miliardi nel secondo semestre 1945 a 243,9 miliardi nel secondo semestre 1946, con un aumento dell’85%. Gli incassi per entrate effettive sono aumentati da 51,1 a 123,5 miliardi, ossia del 142%. L’aumento relativo degli incassi è stato dunque maggiore; tuttavia il deficit di cassa è passato da 80,7 a 120,4 miliardi.

 

 

Il tesoro vi ha fatto fronte attingendo 56,2 miliardi dalle sottoscrizioni in contanti al prestito della ricostruzione fatte a tutto il dicembre, 25,7 miliardi dai buoni del tesoro ordinari (al lordo di 10,5 miliardi che a tutto il dicembre erano stati versati in sottoscrizione al prestito della ricostruzione), 26,7 miliardi dai conti correnti con la Cassa depositi e prestiti e gli istituti di previdenza da essa amministrati, mentre nei conti correnti con le banche ha dovuto far fronte a 12,6 miliardi di rimborsi.

 

 

Il gettito netto delle fonti fin qui elencate è stato dunque nel semestre di 96,0 miliardi. Questa cifra è sensibilmente vicina a quella di 89,4 miliardi che si ebbe da consimili operazioni nel secondo semestre 1945 (72,2 miliardi del prestito Solerì, 17,2 miliardi del debito fluttuante); è invece notevolmente inferiore ai 116,7 miliardi che si trassero dal solo debito fluttuante nel primo semestre 1946 (inclusi i risultati del mese suppletivo).

 

 

I 24,4 miliardi mancanti alla copertura del disavanzo di cassa della parte effettiva sono stati tratti sostanzialmente dalla Banca d’Italia, attraverso l’apertura di un’anticipazione di 22 miliardi per somministrazioni di fondi agli alleati.

 

 

Il tesoro ha ricavato, inoltre, 5,3 miliardi dal movimento degli altri debiti e crediti di tesoreria, e 3,9 miliardi come eccedenza degli incassi sui pagamenti nelle partite minori della categoria movimento capitali. Il che ha dato luogo ad un aumento nel fondo di cassa di 6,8 miliardi (non considerando nel semestre il movimento del mese suppletivo). Tra le partite attive extra bilancio cui sono da ascrivere le accennate risultanze nella gestione delle partite minori di tesoreria, meritano ricordo i proventi della vendita delle merci U.N.R.R.A., che vengono destinati a specifici compiti di assistenza e di ricostruzione, secondo intese tra il governo italiano e l’U.N.R.R.A. Al conto cui affluiscono tali entrate («fondo lire») erano stati versati al 28 febbraio 40 miliardi circa, mentre a tutto novembre 1946 risultavano finanziate spese per 8 miliardi.

 

 

Non meno importanti sono i ricavi delle importazioni finanziate con le disponibilità valutarie del tesoro, iscritti fra i debiti di tesoreria principalmente in due conti «gestione viveri importati» e «gestione prodotti industriali e commerciali d’importazione», che a fine dicembre 1946 presentavano un saldo complessivo di 41.911 milioni.

 

 

Dimostrazione della Copertura del deficit di cassa

(esercizio 1945-46 e I semestre dell’esercizio 1946-47)

(milione di lire)

 

 

   

Luglio-Dicembre

1945

 

 

Incassi di parte effettiva

48,8

2,3

51,1

Pagamenti di parte effettiva

 

112,9

18,9

131,8

Disavanzo di parte effettiva …………………………………………………………….

– 80,7

 

Prestiti (gettito in contante):

Prestito Soleri ……………………………………………………………………………….

72,2

    »       della ricostruzione ……………………………………………………………..

Debito fluttuante (movimento):  

B.T.O. ………………………………………………………………………………………….

20,6

Cassa DD. PP. e istituti di previdenza ………………………………………………

16,9

Banco di Napoli e altri istituti …………………………………………………………..

– 20,3

 

Totale debito fluttuante (escluse anticipazioni B.I.) …………

17,2

Anticipazioni B.I. per somministrazioni fondi agli alleati ………………………

 

C/c di tesoreria gestioni merci importate (movimento):

C/c ICE – UNRRA ………………………………………………………………………….

C/c Ministero del tesoro (viveri e prodotti industriali e commerciali) ………

6,2

   

Altri debiti e crediti di tesoreria (movimento) ……………………………………..

– 7,9

Altri incassi e pagamenti in c/ movimento capitali ………………………………

– 2,0

   

85,7

 

Variazioni nel fondo di cassa…………………………………………………

5,0

 

 

Gennaio-Giugno 1946

Giugno

suppletivo

Esercizio 1945-46

(incluso il mese suppletivo

Luglio-dicembre

1946

 

Incassi di parte effettiva

85,5     11,8     146,0     120,2      
 

0,1

 

 

85,6

 

0,4

 

 

12,2

 

2,9

 

 

148,9

 

3,3

 

 

123,5

   

Pagamenti di parte effettiva

 

188,6

 

 

18,5

 

    62,6     364,1     182,2      
 

 

207,1  

5,2

 

 

67,8

 

42,6

 

 

406,7

 

 

61,7

 

 

243,9

   
Disavanzo di parte effettiva       -121     – 55,6     – 257,8       – 120,4
 

Prestiti (gettito in contante):

                           
Prestito Soleri                   72,2        
    »       della ricostruzione                            
Debito fluttuante (movimento):                            
B.T.O.   62,6     – 1,9     81,3       25,7 (2)    
Cassa DD. PP. e istituti di previdenza   34,3         51,2       26,7    
Banco di Napoli e altri istituti   14,6     7,1     1,4       – 12,6    
 

Totale debito fluttuante (escluse anticipazioni B.I.)

    111,5     5,2     133,9       39,8  
Anticipazioni B.I. per somministrazioni fondi agli alleati                         22,0  
 

C/c di tesoreria gestioni merci importate (movimento):

                           
C/c ICE – UNRRA     5,0         5,0       9,3  
C/c Ministero del tesoro (viveri e prodotti industriali e commerciali)    

19,8

 

   

3,3

 

    29,3       10,3  
      136,3     8,5     240,4       137,6  
Altri debiti e crediti di tesoreria (movimento)     3,1     38,2     33,4       – 14,3  
Altri incassi e pagamenti in c/ movimento capitali    

-13,4

 

   

– 14,3

 

   

– 27,9

 

     

3,9

 

 
Variazioni nel fondo di cassa      

126,0

4,5

   

32,4

-23,2

   

244,1

-13,7

     

127,2

6,8

 

(1) Cifra provvisoria.

(2) Di cui 10,5 (cifra provvisoria) versati in sottoscrizione al prescritto

della ricostruzione.

 

 

Poiché nel semestre l’aumento della circolazione è stato di 110 miliardi, esso ha avuto origine, per la maggior parte, da movimenti di altre voci della situazione della nostra Banca che non trovano riscontro nel conto del tesoro. L’analisi di tali movimenti verrà fatta in seguito.

 

 

I provvedimenti tributari

 

I più importanti provvedimenti tributari adottati durante il 1946 hanno avuto principalmente ad oggetto – oltre alla saldatura tributaria tra le province del nord e quelle del sud – la revisione delle aliquote e degli imponibili in connessione con la svalutazione monetaria.

 

 

Subito dopo la riunificazione del territorio italiano sotto l’unica amministrazione del governo legale, si è reso necessario risolvere il problema dell’assetto della legislazione tributaria nelle province dell’Italia settentrionale, problema scaturito dalle difformità che si erano venute a manifestare tra l’ordinamento fiscale instaurato ed applicato per 19 mesi circa in tali province e quello già in essere all’8 Settembre 1943 e successivamente modificato dal governo legale.

 

 

Così, in primo luogo (decreto legislativo luogotenenziale 18 febbraio 1946, n. 112) è stata sancita la non restituzione dei tributi pagati anteriormente alla data di liberazione, in base alle norme tributarie emanate dal sedicente governo repubblicano nei territori già ad esso sottoposti ed è stata conferita validità ai ruoli d’imposta formati o in formazione nei territori liberati. Con lo stesso decreto sono stati poi fissati speciali termini per la revisione dei redditi mobiliari di categoria B e C1 e dei redditi da assoggettare all’imposta complementare per l’anno 1945, e per la dichiarazione dei redditi soggetti all’imposta straordinaria sui maggiori utili di guerra; ed è stata stabilita l’applicazione delle norme vigenti in materia di tasse ed imposte indirette sugli affari, non soltanto nei confronti dei rapporti tributari posteriori alla data di liberazione ma anche nei riguardi di quelli non ancora esauriti a tale data. Con lo stesso provvedimento è stata infine riconosciuta validità – limitatamente al periodo anteriore alla data di entrata in vigore del decreto legislativo luogotenenziale 19 ottobre 1944, n. 348, recante modifiche in materia d’imposta generale sull’entrata – agli accordi stipulati dalle associazioni sindacali per la corresponsione dell’imposta per l’anno 1945 mediante aliquote e quote condensate, e, fino al 31 dicembre 1945, agli accordi diretti alla liquidazione dell’imposta in «abbonamento», stabilendo le aliquote da applicare.

 

 

Nel campo dell’imposizione diretta, i più importanti provvedimenti hanno principalmente inteso di restituire ai tributi un peso maggiore di quello, assai basso, cui la rapida svalutazione della moneta li aveva ridotti; in senso inverso, di riportare i minimi imponibili alla loro antica consistenza effettiva, e di alleggerire il carico tributario sopportato da alcune categorie di redditi.

 

 

Con il decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 87, infatti, sono stati elevati i minimi imponibili agli effetti sia della imposta complementare (minimo imponibile portato da 12 mila a 60 mila lire) che dell’imposta di ricchezza mobile per i possessori di redditi di categoria C2 (minimo imponibile portato da lire 8 mila a 84 mila). Sono stati contemporaneamente elevati, ai fini dell’imposta complementare, i limiti di detrazione dal reddito complessivo per ciascun componente la famiglia, che sono stati portati da 12 mila a 20 mila lire per ogni figlio a carico successivo al quarto e da lire 6 a 10 mila per ogni altra persona a carico.

 

 

Sempre per meglio adeguare poi, il peso dell’imposta ai nuovi rapporti tra la consistenza effettiva dei redditi e la loro espressione nominale, è stata fissata una nuova scala di aliquote progressive dell’imposta complementare, che sale dal 2 fino al 75%. I redditi di categoria C2 sono stati poi assoggettati, agli effetti dell’imposta di ricchezza mobile, anziché all’aliquota fissa dell’8%, precedentemente in vigore, ad aliquote crescenti dal 4 all’8%, quest’ultima applicabile ai redditi oltre le lire 108 mila; per tali redditi si è così venuto ad accentuare l’elemento di progressività d’imposizione già introdotto dal decreto legislativo luogotenenziale 19 ottobre 1944, n. 384, mediante l’abbattimento alla base della somma fissa di lire 12 mila. Sono stati infine elevati da lire 100 mila a lire 200 mila i limiti di esenzione stabiliti per le famiglie numerose, ai fini di entrambe le imposte in parola.

 

 

Per alleviare il carico tributario di alcune particolari categorie di redditi che si ritenevano esageratamente gravati dall’elevata aliquota dell’imposta di ricchezza mobile pertinente alla categoria B, è stato provveduto, in via amministrativa, ad ammettere il passaggio in categoria C1, sotto determinate condizioni (prestazione prevalente dell’opera personale, esiguità dei capitali investiti, prevalenza del frutto del lavoro su quello del capitale impiegato, ecc.), dei redditi degli artigiani e di quelli derivanti dalle minori attività industriali e commerciali (qualora presentino sostanzialmente le stesse caratteristiche economiche delle aziende artigiane) e dalle piccole affittanze agrarie condotte direttamente ed esclusivamente dagli affittuari e loro familiari.

 

 

Con analoghi intenti di alleggerimento del peso fiscale, il decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 98, ha disposto l’esenzione dall’imposta fondiaria e da quella sul reddito agrario, a decorrere dal primo gennaio 1947, per i terreni montani.

 

 

È Poi noto come il programma finanziario dell’attuale governo contempli favorevolmente, se non la completa abolizione dell’imposta mobile per i redditi di categoria C2, almeno una notevole attenuazione del carico tributario gravante su detti redditi a tale titolo.

 

 

Con decreto legislativo luogotenenziale 18 febbraio 1946, n. 220, è stata soppressa la quota integrativa dell’abolita imposta sui celibi, già dovuta come addizionale all’imposta complementare. Lo stesso decreto ha ripristinato, ai fini dell’applicazione dell’imposta complementare sui redditi dei lavoratori dipendenti da privati (non eccedenti le 180 mila lire), il metodo della ritenuta di rivalsa, fissando l’aliquota all’1,50%.

 

 

Nell’intento ancora di mantenere una certa aderenza al variato livello dei prezzi, la misura del coefficiente di rivalutazione dei redditi imponibili dominicale ed agrario è stata elevata, dall’1 gennaio 1947, a 6, ritenendosi inadeguato il coefficiente 3 precedentemente stabilito dal decreto legislativo luogotenenziale 7 febbraio 1946, n. 30 (decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 31 ottobre 1946, n. 364). Lo stesso criterio di rivalutazione automatica è stato adottato nei riguardi degli imponibili assoggettati all’imposta ordinaria sul patrimonio, per il triennio 1947-49. Il decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 31 ottobre 1946, n. 382, ha infatti confermata, per il predetto triennio, la valutazione dei beni immobili eseguita sulla base del loro valore commerciale nel triennio 1937-39 e quella delle scorte vive e morte e delle aziende industriali e commerciali eseguita per il triennio 1944-46, salvo ad applicare su tali valori il coefficiente di maggiorazione 10, ridotto a metà per i fabbricati, avuto riguardo al vigente regime vincolistico dei fitti. Nello stesso tempo, l’aliquota d’imposta è stata ridotta dal 0,75 al 0,40%, e il nuovo minimo imponibile fissato in 100 mila lire.

 

 

In materia di imposizione indiretta, sono state introdotte, particolarmente, sostanziali modifiche all’ordinamento dell’imposta generale sull’entrata, dirette a contenere le evasioni, ad introdurre un nuovo criterio di discriminazione delle aliquote dell’imposta ed a semplificare le modalità della sua liquidazione. Gli altri Provvedimenti in materia si sono sostanzialmente risolti in adeguamenti di tariffe, se si eccettui l’istituzione della imposta di fabbricazione sulle fibre tessili.

 

 

Il decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 27 dicembre 1946, n. 469, infatti, ha, tra l’altro, ridotta l’aliquota generale dell’imposta sull’entrata dal 4 al 3%, nell’intento di raggiungere, attraverso una più ossequiente applicazione delle norme da parte del contribuente, un maggior gettito; contemporaneamente l’aliquota relativa ai prodotti alimentari di più largo consumo (uova, burro, formaggi, ortaggi, pesci ecc.) è stata ridotta dal 4 al 2%, ed è stata elevata al 6%, come misura compensatrice, l’aliquota gravante su numerose categorie di prodotti e generi considerati di uso non necessario (vini spumanti, liquori, macchine fotografiche, preziosi, pellicce ecc.). Ma l’innovazione più importante è consistita nel ripristino della facoltà, da parte del ministro delle finanze, di valersi del sistema di «abbonamento» (la cui sospensione appariva aver contribuito all’evasione) anche nei confronti delle vendite al minuto, per le quali, pertanto, il pagamento dell’imposta può nuovamente avvenire sotto forma di canoni annui ragguagliati al volume degli affari; facoltà che è stata prontamente esercitata con il decreto ministeriale 18 gennaio 1947, il quale ha sancito l’adozione di tale sistema di pagamento, nei confronti di numerose categorie di esercenti, per il 1947.

 

 

Con il decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 3 gennaio 1947, n. 1, è stata, poi, istituita un’imposta di fabbricazione sui filati di fibre tessili naturali ed artificiali, in sostituzione dell’addizionale sui tessili e dell’imposta di fabbricazione sulle fibre tessili artificiali, ambedue soppresse.

 

 

Ancora con fini di adeguamento ai mutevoli valori monetari, sono stati apportati aumenti alla misura delle imposte di fabbricazione (decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 5 agosto 1946, n. 43, e decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 21 ottobre 1946, n. 236), ai dazi doganali sui tabacchi lavorati (decreto legislativo luogotenenziale 24 aprile 1946, n. 402) e altri dazi di importazione (decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 14 ottobre 1946, n. 206, che ha anche istituito una imposta di consumo sul cacao e sul burro di cacao), alle imposte di consumo sul caffè (decreto legislativo luogotenenziale l’1 aprile 1946, n. 135, e decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 14 ottobre 1946, n. 205), a vari generi di monopolio (decreto ministeriale 10 febbraio 1946, regio decreto 7 giugno 1946, n. 532, decreti ministeriali 23 luglio 1946, 25 luglio 1946, 12 agosto 1946) ecc.

 

 

Nel campo dell’imposizione straordinaria, si è provveduto a riordinare le norme regolanti l’avocazione dei profitti di regime, inquadrandole nell’ordinamento tributario, e ad avocare allo stato i profitti di guerra, già accantonati nel periodo bellico, ed i profitti di speculazione.

 

 

Il decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo 1946, n. 134 (modificato e integrato dal decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 19 novembre 1946, n. 392) ha determinato i casi in cui si fa luogo alla confisca ed ha definito la figura dei soggetti ad avocazione, fissando i limiti entro i quali può essere provata la liceità del conseguimento degli incrementi patrimoniali considerati profitti di regime; ha sancito l’avocazione anche dei profitti conseguiti dopo l’8 settembre 1943 in dipendenza di negozi conclusi con i tedeschi; ha fissato le modalità e i criteri di determinazione degli incrementi patrimoniali da avocare; ha costituito opportune garanzie per l’erario; ha disciplinato l’azione e determinato l’ambito di competenza degli uffici distrettuali e dei delegati provinciali per l’avocazione, cui sono demandate funzioni di controllo e di vigilanza su tutte le operazioni connesse alla avocazione; ha prescritto col 30 giugno 1948 l’azione della finanza per l’accertamento dei profitti di regime.

 

 

In materia di profitti di guerra, il regio decreto legge 27 maggio 1946, n. 436, ha sancito l’avocazione allo stato delle quote di profitti di guerra – già dichiarate indisponibili – rappresentate dalla differenza tra il reddito complessivo realizzato e il reddito ordinario maggiorato del 50%, per tutto il periodo l’1 gennaio 1939-31 dicembre 1945, ammettendo in detrazione dei profitti avocabili tanto le perdite verificatesi nel corso della gestione ordinaria che quelle dovute a cause di guerra, per il cui calcolo sono state dettate le modalità. Lo stesso provvedimento ha fissato all’1 gennaio 1946 il termine con il quale cessa di avere applicazione l’imposta straordinaria sui profitti di guerra, e ne ha stabilito nel contempo le modalità di accertamento per gli anni 1944 e 1945. Queste si basano sull’applicazione al reddito ordinario, determinato in rapporto al capitale investito nel periodo 1938-44, di coefficienti di rivalutazione variabili a seconda dell’anno cui si riferiscono. Gli stessi coefficienti sono stati pure adottati per il calcolo delle quote di ammortamento, anche ai fini dell’imposta di R.M.

 

 

Il medesimo provvedimento ha inoltre disposto l’avocazione allo stato, con effetto dall’anno 1939, dei profitti eccezionali di speculazione (la cui tassazione era già stata disciplinata dal decreto legislativo luogotenenziale 10 agosto 1944, n. 199), che vengono dal decreto individuati nei profitti derivanti dall’esercizio di attività in contrasto con le disposizioni riguardanti il conferimento obbligatorio, il blocco delle merci e la limitazione dei prezzi, e da ogni altra attività che abbia tratto e tragga particolari vantaggi dalla congiuntura bellica, nonché nei profitti derivanti da un improvvisato affarismo sorto in relazione alla congiuntura medesima.

 

 

Nell’intento di soccorrere le finanze degli enti ausiliari è stata anche adottata una serie di provvedimenti in materia di finanza locale, riflettenti sia ritocchi di tariffe che introduzione di nuove forme di imposizione.

 

 

In particolare il decreto legislativo luogotenenziale 18 febbraio 1946, n. 100, ha provveduto ad aumentare la tariffa massima dell’imposta di consumo sulle bevande, per meglio proporzionarla alle nuove espressioni monetarie dei prezzi; a disciplinare, in relazione alle maggiori riscossioni derivanti dalla tariffa così modificata, l’aggio degli appaltatori; ad aumentare i limiti della sovrimposta provinciale sui terreni; ad aumentare il contributo integrativo di utenza stradale; ad istituire un’addizionale sulle tasse automobilistiche a favore delle province, ed un’addizionale sui redditi agrari a favore delle province e dei comuni (la quale ultima ha trovato compenso in una riduzione delle aliquote del relativo tributo statale); ad elevare l’addizionale già esistente su vari tributi erariali, provinciali e comunali, e a prorogare al 30 giugno 1946 (proroga portata successivamente al 31 dicembre 1946 dal decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 61) l’applicazione dell’addizionale sulla vendita dei prodotti tessili.

 

 

È noto come siano allo studio del governo provvedimenti intesi a ritoccare ulteriormente i tributi locali, che, assicurando alle finanze locali maggiori introiti, dovrebbero alleggerire lo stato del grave onere rappresentato dall’integrazione dei bilanci degli enti locali.

 

 

Con decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 97, poi, l’aliquota massima dell’imposta di famiglia è stata portata dall’8 al 12%, mentre con decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 13 dicembre 1946, n. 555, sono stati apportati aumenti all’imposta di soggiorno.

 

 

Ma l’innovazione più notevole è costituita dall’introduzione, nel sistema di tassazione personale dei comuni, di un’imposta personale progressiva straordinaria sull’ammontare delle spese non necessarie (regio decreto legge 27 maggio 1946, n. 598), imposta che dovrebbe essere chiamata ad assolvere, insieme con l’imposta di famiglia o con quella sul valore locativo, quella funzione integratrice della tassazione reale che nel sistema tributario statale è svolta dall’imposta complementare. La base dell’accertamento è indiziaria, in quanto la determinazione dell’imponibile è collegata con le manifestazioni esteriori del tenore di vita desunto da vari indici di spesa, quali il fitto e l’arredamento della casa di abitazione normale e di altre eventuali case, spese per personale di servizio, per mezzi di trasporto, spese di soggiorno in località di ritrovo mondano ecc. È considerata spesa non necessaria (e quindi colpita con aliquote del 50 e del 100% a seconda dell’ammontare) quella eccedente le 400 mila lire annue per il contribuente e le 200 mila per la prima persona a carico, 100 mila per la seconda e 50 mila per ciascuna delle altre. La nuova imposta, non essendo collegata con l’imposta di famiglia o con quella sul valore locativo e neppure con quella di soggiorno, non può non dar luogo a gravi incertezze di applicazione. Le prime esperienze compiute nei grandi comuni hanno dato luogo a disillusioni, alle quali sarà difficile porre rimedio se le varie imposte elencate non saranno insieme armonicamente fuse e collegate, quanto ad accertamento della base imponibile, con la imposta complementare sul reddito.

 

 

Le operazioni delle banche e la vigilanza

 

Depositi e impieghi. – I depositi bancari, al netto di quelli presso la Banca d’Italia e dei conti correnti di corrispondenza ordinari e reciproci tra aziende di credito, ammontavano, alla fine del 1946, a 722 miliardi, con un aumento di 315 miliardi, pari al 77,5%, rispetto alla consistenza alla fine dell’anno precedente.

 

 

Al contrario di quanto si era verificato lo scorso anno ed in accordo con l’andamento degli altri anni, l’incremento è stato più sensibile nei conti correnti di corrispondenza con clienti e meno accentuato nei depositi fiduciari: infatti, all’aumento i depositi fiduciari hanno partecipato per 128 miliardi ed i conti correnti di corrispondenza per 187 miliardi.

 

 

L’incremento è stato continuo durante tutto l’anno, ma meno rapido nel secondo semestre, e di scarso rilievo nel mese di dicembre; se si considera, poi, che nei dati di fine anno sono compresi gli interessi, si deve concludere che l’afflusso verso i depositi fiduciari nel mese di dicembre ha subito un arresto.

 

 

L’andamento dei depositi nel decorso anno è stato influenzato dall’intensificata attività economica ed in modo particolare dalla ripresa dei traffici internazionali che hanno alimentato i conti valutari per cospicui importi; ciò spiega il più forte incremento dei conti di corrispondenza con clienti che sono in stretta connessione con l’erogazione del credito da parte delle banche.

 

 

I depositi presso le casse di risparmio postali hanno avuto anche essi un aumento percentuale superiore a quello che si era riscontrato negli anni precedenti e di poco inferiore a quello dei depositi fiduciari presso le aziende di credito.

 

 

In confronto col dicembre 1938, i depositi fiduciari risultano moltiplicati per 10; i conti correnti di corrispondenza con clienti per 20 ed in media i depositi bancari per 13; il coefficiente per i depositi postali è di 5; ed il coefficiente per i depositi bancari e postali è di 10. Sono cresciuti cioè più i fondi liquidi di quelli che si accingono a diventare risparmio e meno di tutti i depositi postali che si possono considerare di fatto quasi definitivi. Si risparmia o si può risparmiare assai poco nel nostro paese.

 

 

Il rapporto tra circolazione e depositi bancari – che dal settembre 1943 al novembre 1945 aveva superato l’unità – si è successivamente ridotto, essendo passato dal 96% alla fine del 1945, al 71% alla fine del 1946.

 

 

La proporzione del patrimonio al totale dei depositi e assegni in circolazione è scesa dal 2,3% alla fine del 1945, all’1,6% alla fine del 1946.

 

 

Nella distribuzione dei depositi fra le diverse categorie di aziende, è cresciuta l’importanza delle banche di interesse nazionale e delle banche di credito ordinario.

 

 

La percentuale dei depositi la cui gestione viene direttamente o indirettamente regolata dallo stato è rimasta pressoché invariata al 73% del totale.

 

 

Il frutto ritratto dai depositanti è nella media generale (ottenuta ponderando i tassi sulla base dell’ammontare delle diverse categorie di depositi) dello 0,84 per cento, con un minimo di 0,68% per i depositi presso le banche di interesse nazionale ed un massimo di 1,16% per quelli presso le casse di risparmio ordinarie.

 

 

Alquanto più alti sono i tassi corrisposti dalla Banca di credito finanziario (che raccoglie risparmio a medio termine) i quali vanno dal 2,75% per depositi con vincolo di un anno, al 3,50% per quelli con vincolo di tre anni. I depositi presso le casse di risparmio postali godono, come è noto, di un interesse molto più elevato, specialmente i buoni fruttiferi; la media delle diverse categorie è del 4%.

 

 

Questa bassa rimunerazione denota una situazione anormale, specie in un momento in cui lo sviluppo delle imprese è limitato dallo scarso interessamento dei risparmiatori.

 

 

Le aziende di credito sulle somme depositate presso la Banca d’Italia ricavano un interesse medio del 3,6% e sugli investimenti in titoli di stato un interesse medio del 4,5%.

 

 

Le medie sono state ottenute ponderando i tassi delle diverse categorie di depositi e di titoli sulla base dell’ammontare di tali investimenti alla fine dell’anno.

 

 

Queste forme di investimento nello scorso anno si sono sviluppate fino al mese di ottobre, ma negli ultimi due mesi hanno subito una contrazione in dipendenza dell’emissione del prestito della ricostruzione.

 

 

Hanno avuto, invece, un forte sviluppo gli impieghi ordinari in operazioni di credito commerciale che hanno rivestito prevalentemente la forma di sconto di effetti e di crediti di conto corrente. L’incremento è stato continuo lungo tutto l’anno ma ha assunto notevole rilevanza nel terzo e più ancora nel quarto trimestre dell’anno. Si può dire che buona parte dell’aumento dei depositi è stata assorbita da questi impieghi specie ove si consideri che per oltre il 50% gli investimenti in titoli dello stato fatti dalle banche sono utilizzati per garanzia di operazioni o per la costituzione di cauzioni.

 

 

Una conferma di questa ripresa dei finanziamenti alla produzione ed ai traffici internazionali si ha nel forte incremento del credito di firma (accettazioni per conto di terzi, avalli e fidejussioni) e del ricorso al risconto i cui importi, alla fine del periodo considerato, ammontano rispettivamente a 5 e a 8 volte quelli della fine del 1945.

 

 

Poiché il patrimonio delle aziende non è aumentato nella stessa proporzione della svalutazione della lira, e quindi dell’importo medio delle operazioni, si sono avute ben 1.877 domande di deroga dei limiti per la concessione di fidi eccedenti il quinto del patrimonio. L’importo complessivo di tali domande, che son state quasi tutte accolte, è stato di 31,9 miliardi. Nel 1945 si erano avute 814 domande per 5,8 miliardi.

 

 

L’importo complessivo degli impieghi in operazioni di credito, che alla fine del 1938 era uguale al 70% dei depositi e assegni, e che alla fine del 1945 era ridotto al 35%, è risalito al 53% alla fine del 1946. Le disponibilità liquide, che erano salite tra il 1938 ed il 1945 dal 15% al 40% dei depositi e assegni, sono ridiscese al 26% a fine 1946. Gli investimenti in titoli si sono mantenuti ad una percentuale pressoché costante dei depositi e assegni, passando dal 28% a fine 1938 al 29% a fine 1945 e al 26% alla fine del 1946.

 

 

 

Principali voci di situazione delle aziende di credito

 

 

   

Dicembre

1938

 

Dicembre

1945

Dicembre

1946

Disponibilità (1)

9.274

189.435

220.569

15,0

40,3

26,1

 

 

 

 

 

Impieghi (2)

 

 

 

 

43.370

165.967

445.052

70,1

35,3

52,6

 

 

Titoli di proprietà

 

 

 

17.055

136.445

220.113

27,6

29,0

26,0

 

Patrimonio

 

 

 

7.466

10.876

13.755

12,1

2,3

1,6

         
      (milione di lire)  
Depositi fiduciari, c/c di corrispondenza con clienti e tra aziende di credito (3)……………………………………………….

60.349

425.493

766.842

 

Assegni in circolazione…………………………………………….

1.550

 

44.637

 

79.316

 

Totale depositi e assegni ………

61.899

470.130

846.158

 

 

(1) Cassa e depositi (a vista e vincolati) presso altri istituti.

(2) Portafoglio, anticipazioni, conti correnti, conti correnti di corrispondenza, riporti, mutui, conti correnti con sezioni, prestiti su pegno e contro cessione di stipendio.

(3) Le cifre dei depositi a fine 1945 e fine 1946 si riferiscono a 365 aziende le quali raccolgono nel complesso il 99 per cento del totale dei depositi. Esse divergono da quelle desumibili dalla tavola a pagina 135 (ugualmente relative alle 365 aziende predette) perché comprendono i conti correnti di corrispondenza tra aziende di credito.

 

 

Distribuzione dei depositi presso le aziende di credito (1)

e le casse di risparmio postali

 

 

 

Dicembre 1945

 

Dicembre 1946

 

 

milioni di

 lire

per cento

milioni di lire

per cento

Istituti di credito di diritto pubblico …………………..

84.081

16,6

143.968

16,4

Banche di interesse nazionale ……………………….

108.763

21,5

210.700

24,1

Casse di risparmio e monti di credito di 1a cat. …

81.267

274.111

16,0

54,1

130.169

484.837

14,8

55,3

         
Casse di risparmio postali:        
depositi su libretto e buoni fruttiferi …………………

88.436

17,4

129.821

14,8

conti correnti ……………………………………………….

12.767

375.314

2,5

74,0

25.354

640.012

2,9

73,0

         
Aziende di credito ordinario……………………….

86.020

16,9

156.533

17,9

Banche popolari cooperative……………………..

46.455

 

9,1

 

80.172

 

9,1

 

Totale aziende di credito e casse di risparmio postali……………………………………………….

507.789

100,0

876.717

100,0

di cui:        
aziende di credito (1) ………………………………

406.586

80,1

721.542

82,3

casse di risp. postali ………………………………

101.203

19,9

155.175

17,7

 

(1) Depositi fiduciari e conti correnti di corrispondenza con clienti raccolti da 365 principali aziende (cfr. nota 3 alla tav. di pag. 134).

 

 

Conti economici delle aziende di credito. – Le variazioni della congiuntura hanno, ovviamente, diretta influenza sull’andamento del conto economico, il quale soltanto in conseguenza del progressivo rilevantissimo incremento delle disponibilità impiegabili ha potuto mantenere, sia pure faticosamente, un certo equilibrio in quasi tutte le aziende di credito malgrado il vorticoso aumento delle spese del personale che hanno raggiunto una media annua di 400 mila lire circa per ogni unità.

 

 

Naturalmente, questo equilibrio può essere raggiunto più o meno agevolmente a seconda delle caratteristiche funzionali e strutturali delle singole aziende; è infatti necessario tener presente quanto segue:

 

 

1)    le grandi aziende ad organizzazione non capillare si trovano in condizione di vantaggio per un doppio ordine di elementi, che conducono, rispettivamente, ad una compressione dei costi e ad una più alta redditività del danaro. Infatti, presso di esse:

 

 

a)    il danaro costa meno:

 

 

  • perché le disponibilità sono costituite in maggior misura dai conti correnti di corrispondenza la cui remunerazione è assai bassa (tasso d’interesse massimo 0,50 per cento) e tende a ridursi ulteriormenente per il giuoco delle valute che, in tali conti, sottoposti a notevoli e frequenti movimenti, ha influenza sensibilissima;

 

  • perché il personale è relativamente meno numeroso rispetto alle altre aziende (rapportato numericamente alla entità dei depositi risulterebbe un elemento ogni 10/12 milioni, proporzione questa che, secondo l’esperienza, costituisce la base minima per l’equilibrio delle gestioni);

 

 

b)    il reddito lordo è più elevato:

 

  • perché hanno maggior volume assoluto di impieghi tra i quali, poi, alcuni di cospicuo importo, anche dell’ordine di grandezza di varie centinaia di milioni ciascuno, che incidono sui costi in misura pressochè irrilevante e consentono di accantonare margini sensibili;

 

  • perché effettuano in larga misura operazioni speciali particolarmente redditizie (cambi, borsa ecc.) e disimpegnano servizi su una più vasta scala;

 

 

2)    le aziende minori, per contro (casse di risparmio e banche popolari), e quelle più importanti, ma ad organizzazione periferica molto diffusa, devono sopportare l’influenza di tutti i fattori inversi a quelli su accennati; e pertanto presso tali aziende:

 

 

a)    il costo del danaro è più elevato:

 

 

  • perché la massa amministrata è per la maggior parte rappresentata da depositi fiduciari i cui tassi oscillano tra l’1 e il 2 per cento e che avendo, per loro natura, un andamento più stabile di quello dei conti correnti di corrispondenza, risentono in misura insensibile il giuoco delle valute;

 

  • perché il personale è relativamente più numeroso (la proporzione su accennata si modifica in un elemento ogni 6/7 milioni di depositi e talvolta persino meno, ed ha un livello medio di rendimento inferiore a quello delle banche più dinamiche);

 

 

b)    il reddito lordo è più basso:

 

 

  • perché il volume degli impieghi è, in via assoluta, minore e comprende, inoltre, finanziamenti meno redditizi e in genere molto frazionati;

 

  • perché difettano (e ciò vale prevalentemente per le casse di risparmio e le banche popolari) di operazioni e di servizi a largo margine. Una simile situazione di disparità tra le varie categorie di aziende porta la conseguenza che, in occasione di trattative per adeguamenti salariali, non si possa pretendere di porre su di un medesimo piano tutte le aziende con gravami uniformi.

 

 

Condizioni e norme per le operazioni ed i servizi di banca. Questo stato di cose ha reso più vive e pressanti le insistenze per un ritocco delle condizioni di cartello, nei riguardi sia dei tassi attivi, sia delle commissioni afferenti le operazioni accessorie ed i servizi.

 

 

La tendenza ad una vasta revisione delle condizioni del cartello, che era stato già ritoccato nel primo semestre, si era delineata nell’ultimo trimestre del 1945 e, a fine anno, si era concretata in una serie di proposte che contemplavano l’aumento di mezzo punto dei tassi attivi ed un inasprimento (oscillante tra il 200% ed il 300% in media) delle commissioni.

 

 

Il nostro istituto, preoccupato delle ripercussioni che la accettazione di tali proposte avrebbe potuto provocare, non tanto sul mercato finanziario, quanto sui costi di produzione e quindi sui prezzi, frustrando così gli sforzi intesi a stabilizzare il costo della vita, ritenne opportuno di soprassedere ad ogni decisione, di guisa che durante il 1946 le condizioni e norme di cartello sono rimaste inalterate, ove si eccettuino alcune modificazioni di dettaglio di irrilevante portata sostanziale.

 

 

Soltanto in materia di finanziamenti su prodotti agricoli – e cioè in un campo in cui i tassi e le commissioni, che nel passato non avevano seguito con movimento sincrono gli aumenti verificatisi nei tassi e nelle commissioni delle altre operazioni attive, si appalesavano non remunerativi – si è addivenuti, sullo scorcio dell’anno, ai seguenti ritocchi da praticarsi sui finanziamenti occorsi od occorrenti per la campagna agraria 1946-47:

 

 

  • aumento da 1,50% a 1,75% in più del tasso ufficiale di sconto per il finanziamento del prezzo base effettuato sotto forma di sconto di pagherò diretti a quattro mesi;

 

  • aumento da 2,50% a 2,75% in più del tasso ufficiale di sconto per il finanziamento di cui sopra, effettuato sotto forma di scoperto transitorio di conto, dipendente da ritardo nel rilascio dei pagherò;

 

  • aumento da 1% a 1,75% in più del tasso ufficiale di sconto per il finanziamento delle quote integrative e dei premi a carico dello stato;

 

  • aumento della provvigione sul totale dei pagamenti da 0,80% a 1,20%.

 

 

Poche voci, fra cui quella della Confederazione generale italiana del commercio, si elevano per invocare una revisione del cartello intesa ad attenuarne la gravosità. Ma le pressioni in senso contrario esercitate dalle aziende di credito sono diventate negli ultimi tempi veramente insistenti e generali ed anzi in talune province le aziende già concludono accordi locali per fissarsi condizioni più rimunerative.

 

 

Come fu osservato nelle relazioni degli anni ultimi, è caratteristica della situazione attuale la divergenza crescente tra i saggi passivi, i quali scendono al 0,50% e talvolta, grazie al calcolo dei giorni di valuta, diventano negativi, ed i saggi attivi minimi di cartello, i quali vanno sino all’ 8% e, con commissioni e calcoli di valuta, si spingono al 9% e al 10%. Nonostante l’allontanamento reciproco dei due tipi di saggi, le banche stentano ad ottenere il pareggio nel loro bilancio, e quelle che ne possono menar vanto, debbono massimamente ciò ad operazioni di borsa e di cambio, divenute profittevoli in correlazione alla svalutazione monetaria.

 

 

È vero che le banche potrebbero liberamente praticare tassi attivi superiori alla misura minima sancita dal cartello e ciò in effetti spesso fanno, specie nei riguardi della clientela non di primissimo ordine.

 

 

È pure vero che, nella grande maggioranza dei casi, esse non incontrerebbero grandi difficoltà a far accettare elevati tassi attivi. Che cosa importa ad industriali, commercianti ed agricoltori pagare, invece del 10, un saggio di interesse anche del 20% e più ad anno sulle facilitazioni bancarie, se nel frattempo le scorte acquistate, grazie a quelle facilitazioni, aumentano di prezzo del 30 o del 40 o del 50%? Quando i prezzi tendono all’aumento, saggi attivi di interesse del 10% possono essere e sono non di rado saggi negativi. Il mantenimento di saggi bassi o negativi agisce come un incentivo agli acquisti ed alla formazione di scorte di magazzino, sicché il razionamento del credito e il rialzo, anche notabile, dei saggi attivi agirebbero come un freno a rialzi ulteriori di prezzo dovuti, invece che alle condizioni oggettive del mercato, allo spirito di imitazione il quale fa sì che, quando gli uni comprano, tutti si volgono a comprare; è come fanno le pecore che, dove l’una va, le altre vanno.

 

 

Quali sono quindi le ragioni che inducono le banche a chiedere insistentemente un aumento di mezzo punto dei tassi attivi quando potrebbero liberamente praticare, senza incontrare resistenze apprezzabili, tassi superiori? La ragione può ravvisarsi nel desiderio di spuntare tassi più remunerativi anche nei confronti della clientela di primissimo ordine, la quale quasi sempre pretende e ottiene l’applicazione dei minimi di cartello.

 

 

Ma la libertà dei saggi attivi impone la concorrenza nei saggi passivi, non vedendosi la ragione per la quale soltanto ai ceti risparmiatori sia preclusa la via di salvaguardarsi, aumentando i prezzi dei propri servizi, dalla tendenza al diminuire della potestà di acquisto del risparmio.

 

 

La osservanza del cartello non può dunque essere un fatto isolato. Essa fa parte di una politica economica generale intesa a porre le condizioni per le quali il fermo al rialzo dei due tipi di saggio di interesse non sia più un assurdo, ma ridiventi parte della realtà concreta. Finché la stabilità monetaria non esiste, la osservanza del cartello continuerà ad essere minacciata. Non si può alla lunga ottenere stabilità in un punto del meccanismo economico, laddove tutto è instabile.

 

 

Struttura dell’organizzazione bancaria italiana. La struttura dell’organizzazione bancaria italiana, articolata nei vari tipi di istituti ben noti, si è palesata nel suo complesso più che sufficiente a soddisfare le esigenze creditizie dell’attuale fase ricostruttiva, di guisa che le numerose iniziative sorte nel 1946 per la costituzione di nuove banche non possono, in genere, attribuirsi alla necessità di colmare lacune.

 

 

È questo un fenomeno che merita un cenno di particolare menzione, poiché le domande di costituzione di nuove aziende, in forma diretta, sono ammontate a ben 45 ed il fenomeno stesso ha interessato quasi tutto il territorio nazionale; con punte nella Lombardia (Milano), nel Veneto, nel Lazio (Roma), nel Piemonte e nelle Puglie.

 

 

Le 45 istanze comprendono, più particolarmente, 25 richieste di costituzione di nuove aziende, 8 di ricostituzione di aziende cessate od in liquidazione e 12 di trasformazione in istituti di credito di enti di altro genere.

 

 

Il ministero delle finanze e del tesoro ha autorizzato formalmente o di massima la costituzione o trasformazione in enti abilitati alla raccolta del risparmio di 15 aziende e precisamente 3 sotto forma di società per azioni; 6 banche popolari; 4 casse rurali e artigiane e 2 monti di credito su pegno.

 

 

Costituzione di nuove aziende. – In argomento ha avuto sempre peso preminente la considerazione dell’attrezzatura bancaria già esistente sulle piazze ove le nuove aziende avrebbero dovuto insediarsi, considerazione che ha portato al rigetto, ad esempio, di diverse istanze, poiché le piazze ove le nuove aziende avrebbero dovuto operare erano già adeguatamente servite.

 

 

Esito ugualmente sfavorevole hanno avuto tutte le istanze concernenti la creazione di istituti di credito, specie sotto forma di società per azioni, che, come chiaramente traspariva, sarebbero state praticamente in balia di un ristretto numero di finanziatori.

 

 

Nei riguardi, poi, delle richieste che apparivano meritevoli di accoglimento, si è sempre insistito nell’indirizzare la costituzione delle nuove aziende verso la forma cooperativistica, che è da ritenere quella più adatta ad impedire il raggiungimento di fini personali e l’esplicazione di attività speculative. Tali suggerimenti hanno trovato generalmente accoglimento presso gli interessati.

 

 

Si è dato così vita a diverse banche popolari e casse rurali che dovrebbero utilmente colmare lacune dell’organizzazione creditizia esistente in alcune zone o località di provincia.

 

 

Ricostituzione di aziende in liquidazione o cessate. – Sin dall’entrata in vigore delle prime disposizioni legislative sulla tutela del risparmio, di massima è stato adottato il criterio di ostacolare il riaffacciarsi alla vita creditizia di aziende già postesi in liquidazione o cessate.

 

 

Tale indirizzo trasse origine dal convincimento che una azienda, per il fatto stesso di essersi posta in liquidazione o di avere addirittura cessato la propria attività, avesse dato la prova di aver perduto la sua capacità funzionale; ogni contenuto patrimoniale; il modo ad essa più conveniente e più appropriato di raggiungere le proprie finalità; e che, pertanto non si potesse consentire ad un’azienda venutasi a trovare in siffatte condizioni di riassumere la facoltà di raccogliere pubblico risparmio.

 

 

Questo orientamento è stato ancor più rigidamente applicato nei confronti delle aziende la cui liquidazione era scaturita da procedure fallimentari o concordati preventivi, essendo sembrato di doversi assolutamente evitare il riafflusso del pubblico risparmio verso enti in cui aveva già subito dei danni o corso il pericolo di patirne.

 

 

I tentativi di richiamare in vita aziende cessate o di revocare le relative procedure di liquidazione, che nel passato erano rimasti circoscritti a pochi casi, sembra che attualmente vogliano assumere un carattere più diffuso, stante la difficoltà di ottenere per via diretta l’autorizzazione a creare nuovi organismi di credito.

 

 

In questa vera e propria caccia al «relitto» che possa servire da piattaforma per realizzare intendimenti spiccatamente speculativi, gli interessati si sono rivolti specialmente a quelle aziende per le quali si potevano, con maggiore o minore e molto spesso con nessun fondamento, chiamare in causa i provvedimenti razziali.

 

 

Naturalmente si è sempre provveduto a sfrondare le richieste di tutte le pseudo argomentazioni, mettendo in luce la esatta situazione di fatto, e per evitare, attraverso la eventuale cessione delle aziende, di fare il gioco di gruppi incorporanti, si è segnalata l’opportunità di introdurre negli atti costitutivi speciali accorgimenti intesi a limitare la trasferibilità delle azioni.

 

 

Trasformazione in banca di società finanziarie. Nel corso del 1946, si è verificato il caso di società o ditte finanziarie che hanno inoltrato domanda per essere abilitate a raccogliere depositi fra il pubblico. Poiché il fenomeno trae la sua origine dai criteri restrittivi adottati in materia di concessione di autorizzazioni per la costituzione di nuove banche e appurato che l’intento era di dar vita a nuovi organismi bancari, trasformando all’uopo imprese che già operavano nel campo finanziario, gli organi di vigilanza hanno esaminato le relative domande alla stregua delle sane esigenze creditizie che i nuovi organismi avrebbero potuto soddisfare. Di conseguenza, ove non è stata riscontrata l’esistenza di tale estremo, esse sono state tutte respinte.

 

 

Capitale delle nuove aziende di credito. – Ai sensi dell’art. 28, secondo comma, della legge bancaria, gli organi di vigilanza hanno la facoltà di determinare l’ammontare del capitale e del fondo di dotazione minimo delle nuove aziende esercenti il credito.

 

 

Sull’argomento, il cessato Ispettorato del credito non ravvisò l’opportunità di far luogo all’emanazione di norme tassative, ritenendo che la legge gli avesse conferito piena libertà ed elasticità di azione, in modo da consentirgli di tenere conto di volta in volta, delle particolarità dei singoli casi.

 

 

È da rilevare, però, che, pur non rinunciando alla larga discrezionalità attribuitagli dalla legge, l’organo di controllo, allorché si presentò la necessità di risolvere praticamente casi concreti in dipendenza della costituzione di qualche banca, si ispirò, di massima, al disposto dell’art. 4 del regio decreto legge 6 novembre 1926, n. 1830, il quale determinava il capitale minimo delle nuove aziende di credito in misura diversa a seconda della natura giuridica di esse e dell’ampiezza della loro sfera d’azione territoriale.

 

 

Dati i criteri restrittivi adottati dal 1936 onde perseguire una politica di deflazione bancaria, la questione ebbe in passato scarso rilievo in quanto non si presentarono richieste di costituzione di nuove aziende di credito.

 

 

Il problema viene, invece, ad assumere una rilevanza particolare nel momento attuale per il numero delle iniziative intese, come si è visto, a dare vita a nuovi organismi creditizi e nei cui riguardi si potrebbe porre un’efficace remora stabilendo, in via di principio, dei minimi di capitale cui subordinare, sin dalla fase istruttoria, l’autorizzazione.

 

 

Considerato che, in dipendenza della svalutazione monetaria, i minimi fissati dalla legge del 1926 sono ora inadeguati e che si dovrebbe, quindi, congruamente ritoccarli, la questione potrebbe essere risolta con provvedimenti i quali non abbiano carattere tassativo, bensì prevedano criteri di carattere generale da tener presenti nell’istruttoria delle pratiche.

 

 

Aperture di sportelli bancari ed espansione creditizia. – Le domande avanzate dalle aziende di credito per la istituzione di nuovi sportelli si sono considerevolmente intensificate nel corso del 1946.

 

 

Le principali ragioni di queste accresciute richieste sono da ricercarsi in un complesso di circostanze. Oltre alla sospensiva che, come si disse nella precedente relazione, ha per diversi anni ostacolato le aspirazioni delle aziende di credito, va messo in rilievo che, dopo la guerra, tutte le banche – ed in ispecie le più grandi – si sono trovate a dover fronteggiare una situazione caratterizzata dalla lenta ripresa del lavoro bancario nel campo delle operazioni attive e da un immediato considerevole aumento di tutti i costi d’esercizio, in particolare per l’alto livello raggiunto dagli stipendi, per l’assunzione di reduci e per la necessità di impiegare il personale rientrato dalle filiali all’estero e in colonia.

 

 

Pertanto, le banche sono state indotte ad ampliare la propria attrezzatura periferica nel duplice intento di utilizzare il personale esuberante e di intensificare nel contempo la propria attività al fine di raggiungere la massima efficienza nel campo della raccolta di nuove disponibilità e di prepararsi più ampie possibilità di lavoro. Non è da escludere peraltro che talune proposte abbiano anche lo scopo di precostituire posizioni di precedenza nella tema che le piazze richieste possano essere assegnate alla concorrenza.

 

 

Il contemporaneo svilupparsi di tali molteplici aspirazioni ha necessariamente dato luogo a numerosi conflitti d’interesse fra le banche sia per il fatto che, di frequente, piazze di particolare importanza economica sono state richieste simultaneamente da tre, quattro, cinque o più aziende di credito, sia per la decisa opposizione mossa dagli istituti già insediati nei singoli centri a che, data l’attuale difficoltà di proficuo lavoro bancario, nuove aziende venissero a stabilirsi entro il loro campo di attività.

 

 

Nel vaglio delle richieste di apertura di nuove filiali – che è stato praticato in senso restrittivo quando era evidente lo scopo di avere titolo di priorità rispetto a istituti concorrenti – si è tenuto presente:

 

 

a)    il grado di sviluppo delle risorse economiche delle varie località, in relazione alle occorrenze bancarie. Maggior larghezza si è usata nei riguardi delle piazze ancora non bancabili e non agevolmente collegate con altri centri più importanti per insufficienza di comunicazioni, dando, ovviamente, la preferenza alle domande di aziende di credito ritenute più idonee sia alla raccolta del risparmio sia al fiancheggiamento delle iniziative inerenti al medio e piccolo commercio ed all’artigianato;

 

b)    la necessità di contemperare le giustificate esigenze delle banche con l’opportunità di non recare pregiudizio alle aziende preesistenti che avessero un soddisfacente andamento già disimpegnassero un’utile e peculiare funzione.

 

 

Nei casi di presentazione in massa di domande di nuovi sportelli, ci si è limitati a favorire soltanto l’apertura di quelli aventi carattere di urgenza, rimandando l’istituzione degli altri, da effettuarsi con criteri di benintesa gradualità.

 

 

Circa gli sportelli di sfollamento, alcuni sono stati chiusi, mentre altri sono stati formalmente autorizzati ad operare, essendosi ormai inseriti nel complesso creditizio delle singole piazze che della chiusura avrebbero risentito sfavorevoli ripercussioni.

 

 

Circa l’istituzione di nuove agenzie di città, si sono dovute necessariamente operare notevoli riduzioni a programmi formulati su basi spesso troppo ampie (a Milano sono state concesse 24 nuove agenzie su 54 richieste, a Roma 14 su 76, a Genova 15 su 31, a Torino 14 su 21).

 

 

I criteri informatori specifici, oltre quello più generale delle esigenze della clientela, sui quali si è impostato l’esame delle istanze, possono così riassumersi:

 

 

a)    attenuare gli eventuali squilibri fra la rete di sportelli cittadini delle varie aziende, in rapporto alla loro importanza e con particolare riguardo alle necessità, ovviamente maggiori, delle aziende aventi sul posto la propria centrale;

 

b)    distanziare congruamente gli sportelli fra loro, nelle singole zone, onde evitare interferenze di lavoro (tuttavia si è permessa nelle località costituenti tradizionalmente il «centro degli affari» delle grandi città, la coesistenza di parecchie aziende di maggior rilevanza nel quadro dell’economia cittadina);

 

c)    alleggerire con nuovi sportelli decentrati la congestione di lavoro e di pubblico che in qualche caso si verificava presso alcuni uffici bancari preesistenti.

 

 

Durante l’anno, 150 aziende (tutti gli istituti di diritto pubblico e le banche di interesse nazionale, 88 banche, 52 casse di risparmio e 2 casse rurali) hanno chiesto l’autorizzazione per istituire complessivamente 1.378 sportelli e precisamente: 331 su piazze non ancora bancabili e 1.047 su piazze già bancabili, di cui 312 agenzie di città.

 

 

La Banca d’Italia ha espresso al ministero parere favorevole per 484 sportelli di cui 186 su piazze non ancora bancabili; parere negativo per 353 sportelli, di cui 52 su piazze non ancora bancabili; mentre le restanti 541 pratiche si trovavano a fine d’anno in corso di istruttoria.

 

 

Delle domande sottoposte al ministero, 374 sono state accolte, di cui 144 riguardanti piazze non ancora bancabili; 224 sono state respinte, di cui 114 riguardanti piazze non ancora bancabili; e per le rimanenti 239 il ministero deve ancora pronunciarsi.

 

 

Le autorizzazioni per aperture di nuove filiali, concesse formalmente durante il 1946, sono però 412, dovendosi aggiungere alle 374 sopra menzionate e riferentisi a domande sottoposte al ministero entro l’anno, altre 38 relative a istanze che furono trasmesse sullo scorcio del 1945.

 

 

Inevitabilmente si verifica poi uno sfasamento tra la concessione dell’autorizzazione all’apertura e l’effettivo inizio delle operazioni, dovuto alla necessità di procacciarsi i locali e provvedere al loro adattamento. Anzi, il termine di sei mesi imposto per l’utilizzo della concessione, pena la decadenza, si dimostra in molti casi insufficiente per la difficoltà di trovare una idonea sistemazione; in questi casi, vagliata la fondatezza del rinvio, si concede una proroga nel corso della quale, generalmente, l’apertura ha regolarmente luogo.

 

 

Tale sfasamento ha portato come conseguenza che durante l’anno sono stati effettivamente aperti 275 sportelli: 77 già autorizzati nel 1945 e 198 dei 412 consentiti nel 1946.

 

 

Incorporazioni. – Da collegarsi alle richieste di istituzione di nuove filiali sono le numerose domande di istituti di credito per essere autorizzati ad incorporare aziende minori, istanze che prevedono quasi sempre, come condizione principale e pregiudiziale il rilievo di sportelli. Tale fenomeno tende oggi ad estendersi ed è entrato ormai a far parte di un metodo di penetrazione che, oltre ad evitare la richiesta di autorizzazione per l’insediamento in nuove piazze, presenta per l’azienda acquirente il vantaggio di giovarsi delle avviate relazioni d’affari dell’incorporata utilizzandone le posizioni già raggiunte anche in fatto di raccolta di depositi.

 

 

A stretto rigore, non potrebbe dirsi contraria ad una benintesa economia generale bancaria, la graduale eliminazione di piccoli istituti che manifestino scarsa vitalità o denotino un andamento poco favorevole o, addirittura, abbiano compromesso le ragioni dei depositanti, ove l’incorporazione si traducesse in una soluzione vantaggiosa per i creditori senza sacrificio eccessivo da parte dell’istituto incorporante.

 

 

Anche ammettendo – entro certi limiti da esaminarsi caso per caso – l’incorporazione di aziende che, pur avendo ancora una solida posizione finanziaria e patrimoniale, si trovino non di meno in condizione di pregiudicare tale loro situazione per i risultati deficitari della gestione economica, che, ove prolungata, potrebbe finire col compromettere i diritti dei terzi (questo caso ricorre per piccole aziende, le quali, operando in un ambiente troppo circoscritto, non hanno agio di poter sviluppare la cerchia dei propri affari e risentono in modo speciale, nel corso della loro gestione, della deficienza di investimenti proficui), la questione assume tutt’altro aspetto laddove si tratti di aziende di media o modesta potenzialità, che avendo una situazione nel complesso sana ed un andamento più o meno favorevole sono in grado, mercé una oculata amministrazione, di superare facilmente il periodo contingente.

 

 

La Banca d’Italia, nel segnalare quanto precede al ministero delle finanze e del tesoro e nel sottolineare la necessità che si continui ad applicare la facoltà prevista dall’art. 47 e seguenti della legge bancaria, in materia di fusioni di aziende di credito, ha espresso il parere che le richieste di incorporazione di aziende in attività di esercizio, per le quali non si riscontrino elementi sufficienti a consigliare la loro eliminazione, non dovrebbero essere accolte ove l’incorporazione dovesse avvenire da parte di azienda non operante sulla piazza, e la combinazione fosse condizionata al rilievo dello sportello; questa remora è già sufficiente a far decadere molto spesso le proposte.

 

 

Per le incorporazioni che costituivano lo sbocco naturale di modesti organismi deficitari od addirittura inattivi (in prevalenza monti di credito su pegno di seconda categoria e casse rurali) è stato senz’altro espresso parere favorevole al ministero del tesoro.

 

 

Complessivamente si sonò avute 35 domande di incorporazione relativamente alla quali si sono espressi 18 pareri favorevoli e 7 sfavorevoli 10 pratiche sono in corso di istruttoria. Il ministero, a sua volta, ha autorizzato 10 combinazioni, ne ha respinte 5 e deve ancora pronunciarsi sulle restanti.

 

 

Albo delle aziende di credito. – Al 31 dicembre 1946, le aziende di credito in esercizio iscritte nell’albo ministeriale erano 1.393 (di cui 4 nuove iscritte) con una diminuzione di 39 rispetto alla fine del 1945; mentre quelle in liquidazione (aumentate di 38 aziende messe in liquidazione e diminuite di 52 aziende che hanno ultimato la procedura) assommavano a 463.

 

 

È da tener presente, però, che nell’albo sono iscritte soltanto le aziende di credito che raccolgono depositi e perciò non vi figurano molte altre aziende che, pur non raccogliendo depositi, sono sottoposte al controllo degli organi di vigilanza, e cioè la maggior parte dei monti di credito su pegno di seconda categoria, molte casse rurali ed artigiane e le agenzie di prestito su pegno.

 

 

Gli sportelli, che al 31 dicembre 1945 erano 6.889 e rendevano bancabili 3.715 piazze, di cui 3.157 comuni, sono passati alla fine del 1946 a 7.237, che rendevano bancabili 3.855 piazze di cui 3.286 comuni; si è avuto quindi un aumento di 348 sportelli, 140 piazze e 129 comuni.

 

 

Istituti di credito di diritto pubblico e banche di interesse nazionale. – Nei confronti di queste categorie nel corso del 1946 non sono sorti specifici problemi, ove si eccettui l’inizio dell’attività della Banca di credito finanziario (Mediobanca), di cui si parla in altra parte, e la ricostituzione del normali organi amministrativi degli istituti di credito di diritto pubblico.

 

 

Per questi ultimi la ricostituzione stessa è stata finora attuata nei soli confronti del Monte dei Paschi e dell’Istituto San Paolo, mentre per il Banco di Napoli e per il Banco di Sicilia non dovrebbe tardare il provvedimento relativo; nessuna notizia si ha, invece, circa la ricostituzione del consiglio di amministrazione della Banca nazionale del lavoro, sebbene l’attuale stato di cose, a tanta distanza di tempo dalla cessazione delle ostilità, non sia più giustificabile.

 

 

Il Banco di Sardegna – sesto istituto di credito di diritto pubblico, la cui creazione risale alla fine del 1944 – non ha fin qui iniziata la sua attività.

 

 

Banche di credito ordinario Banche popolari cooperative. – Rispetto a queste aziende, agli effetti dell’art. 28 della legge bancaria, la Banca d’Italia ha il compito dell’esame delle modificazioni agli atti costitutivi ed agli statuti disposte da aziende di credito costituite sotto forma di società commerciali.

 

 

Nell’esame delle numerose pratiche (155) si sono dovute superare varie difficoltà in quanto nel campo delle aziende di credito ordinario non si può partire da schemi fissi o da statuti tipo, trattandosi di istituti costituiti in tutte le forme sociali previste dalla legislazione italiana, ognuno dei quali ha una sua fisionomia particolare che si rispecchia nelle norme di statuto.

 

 

È da aggiungere che la recente entrata in vigore del nuovo codice civile ha determinato molte perplessità nell’applicazione delle norme da esso sancite, sicché nella massima parte dei casi si sono dovute rielaborare le modificazioni sottoposte ed indicare, con opportuni chiarimenti e riferimenti alla legge, gli emendamenti da apportarsi.

 

 

Di particolare interesse si è presentato il compito di aggiornare gli statuti delle aziende di credito in relazione alle nuove disposizioni del codice civile. Tale aggiornamento, a norma dell’art. 206 delle disposizioni di attuazione e transitorie del codice, doveva essere fatto entro il 30 giugno 1945, ma, a causa delle circostanze belliche, il termine, con provvedimento legislativo del 4 gennaio 1945, n. 11, è stato prorogato al 30 giugno dell’anno successivo a quello della cessazione dello stato di guerra, ossia al 30 giugno 1947.

 

 

Per quanto concerne gli aumenti di capitale è da ricordare l’attenuazione delle misure restrittive, imposte legislativamente, avvenuta con decreto legislativo luogotenenziale 15 febbraio 1946, n. 161, che ha elevato da 1 milione a 100 milioni di lire il limite entro il quale le società commerciali possono liberamente aumentare il proprio capitale. Lo stesso decreto, peraltro, ha confermato la obbligatorietà della autorizzazione del ministero delle finanze e del tesoro per gli aumenti di capitale, di qualsiasi importo, da effettuarsi dalle aziende di credito.

 

 

Nell’anno 1946 le pratiche di aumento del capitale hanno avuto un incremento numerico che non è stato pari a quello che poteva prevedersi in relazione alla svalutazione monetaria. Sono state infatti trattate 70 pratiche e si è registrato un aumento complessivo di circa 1.250 milioni di lire, mentre il numero delle aziende di credito ordinario (società per azioni, banche popolari cooperative, consorzi a garanzia limitata e ditte bancarie) al 31 dicembre 1945 era di 464 ed il loro capitale complessivo ammontava a 3.374 milioni di lire.

 

 

Devesi, peraltro, tener presente che alcune aziende di credito negli ultimi mesi dello scorso esercizio hanno espresso l’intendimento di procedere all’aumento del capitale e delle riserve mediante rivalutazione monetaria dei loro beni immobili in relazione a quanto consentito dal regio decreto legge 27 maggio 1946, n. 436. Di questo argomento si tratterà successivamente.

 

 

Nel 1946, enti già costituiti come imprese individuali, venuti in comproprietà di più persone con la conseguente costituzione di una società di fatto fra di esse, oppure aziende sociali con carattere familiare la cui proprietà, per recesso o per morte dei soci, si era consolidata in un unico titolare, sono stati invitati a provvedere alla loro sistemazione legale.

 

 

Merita inoltre rilievo il fatto che le banche popolari cooperative, originariamente sorte con il carattere di piccoli organismi destinati ad erogare il credito a favore dei propri soci appartenenti a categorie sociali meno abbienti (operai, braccianti, impiegati, ecc.), sono andate perdendo, con l’andar del tempo, siffatta fisonomia e da istituzioni di previdenza e risparmio sono diventate enti che assistono prevalentemente i piccoli industriali ed artigiani, piccoli commercianti e piccoli agricoltori o proprietari, quando non finanzino anche medi – e talvolta grandi – industriali e proprietari, snaturando così completamente la loro tipica istituzionale funzione.

 

 

Che non vi sia praticamente alcuna differenza tra banche popolari e banche ordinarie e che l’esistenza delle prime, come categoria qualificata, non abbia più ragione d’essere, sarebbe conclusione troppo frettolosa giacché le banche popolari trovano una certa remora ad eventuali velleità espansionistiche e speculative dei dirigenti nei regolamenti interni, che contengono norme atte ad evitare sconfinamenti da quello che oggi è normalmente il loro campo di azione e cioè l’erogazione del credito a favore delle imprese di piccola dimensione.

 

 

I casi che talvolta si sono verificati di banche popolari che hanno concesso rilevanti finanziamenti a medie ed anche grandi imprese debbono attribuirsi, più che altro, ad iniziative di singoli dirigenti in violazione di precise disposizioni regolamentari. Da tali casi, però, non può essere tratto un giudizio generale.

 

 

Nel corso del 1946, le banche popolari hanno esteso vieppiù la loro sfera d’azione sia territorialmente sia nel campo delle operazioni. In tale loro intento sono state affiancate dall’organizzazione di categoria e dall’Istituto centrale delle banche popolari. Devono essere ricordate, in particolar modo, le iniziative intese ad ottenere l’autorizzazione, a favore di quest’ultimo Istituto, ad effettuare operazioni di credito agrario di esercizio e di miglioramento e a dar vita alla Banca centrale di credito finanziario (Centro banca) che dovrebbe esercitare il credito mobiliare per conto delle banche popolari. Ma entrambe le iniziative non si sono fin qui concretate.

 

 

La Banca d’Italia segue con simpatia il movimento delle banche popolari, giudicandole adatte a fornire un’adeguata assistenza creditizia a medi e piccoli ceti produttivi e commerciali e a dotare di propri organismi bancari zone fin qui sprovviste o scarsamente servite. Nel mezzogiorno, specialmente, siffatto tipo di banca appare particolarmente idoneo ad affiancare l’azione degli istituti preesistenti per stimolare le iniziative locali anche ai fini della trasformazione economica di quelle regioni.

 

 

Casse di risparmio e monti di credito su pegno di prima categoria. – Tra i problemi specifici che hanno interessato questa categoria di aziende è da ricordare, anzitutto, la questione della ricostituzione dei normali organi amministrativi, con la quale si è posto fine al periodo delle gestioni commissariali, cui le casse vennero assoggettate mediante provvedimento delle autorità del posto – talvolta del locale C.L.N. – d’intesa con il comando delle truppe alleate.

 

 

Verso la fine del 1945 e gli inizi del 1946, ravvisandosi la necessità di procedere alla ricostituzione della ordinaria amministrazione, l’Associazione nazionale delle casse di risparmio italiane proponeva l’abrogazione del regio decreto legge 24 febbraio 1938, n. 204 – che aveva sottratto alle casse la facoltà di eleggersi liberamente il presidente ed il vice presidente demandandola agli organi centrali di vigilanza – adducendo che, con il ripristino delle libertà democratiche, siffatta disposizione non poteva avere più alcuna giustificazione.

 

 

Tali considerazioni hanno certo il loro fondamento, ma dato il momento politico delicato sembrò miglior partito mantenere in vigore, provvisoriamente, la vecchia norma, sopratutto allo scopo di escludere il rischio che le nomine stesse potessero avvenire sotto l’influsso di tendenze non sempre improntate alla serenità e indipendenza necessarie e che conseguentemente venissero portati a posti di responsabilità uomini non sufficientemente preparati.

 

 

Al 1° gennaio 1946, le casse e i monti di prima categoria erano complessivamente 86 (compresa la Cassa di risparmio della Libia); durante l’anno il Monte di Pavia è passato di prima categoria, ciò che ha fatto salire a 87 il numero predetto. Di tali aziende 60 erano in gestione straordinaria. Vi erano inoltre 9 aziende che presentavano vacanze nella presidenza e vice presidenza; di queste ultime, al 31 dicembre 1946, ve n’era ancora una, mentre le gestioni straordinarie erano ridotte a 5. Si può, quindi, affermare che le amministrazioni delle casse di risparmio sono ormai rientrate nella normalità.

 

 

Tra i compiti di carattere eccezionale che i commissari straordinari delle casse di risparmio hanno dovuto assolvere, particolarmente delicato anche perché non esisteva alcuna norma statutaria o legislativa che disciplinasse la questione – è stato quello della epurazione dei soci compromessi con il passato regime.

 

 

Allo scopo di assicurare che la declaratoria di decadenza dei soci da parte degli organi statutari competenti avvenisse con criteri uniformi per tutti gli istituti della categoria, l’Associazione nazionale tra le casse di risparmio provvide a diramare apposita circolare per suggerire i criteri da seguire nel sottoporre alle assemblee la proposta di decadenza di determinate categorie di persone gravemente compromesse con il passato regime.

 

 

Particolarmente pressanti sono state presso le casse di risparmio in genere, e presso quelle che gestiscono servizi esattoriali e di tesoreria in ispecie, le richieste da parte di comuni ed enti locali per ottenere finanziamenti che, sia per il loro rilevante importo, sia per la insufficienza (talvolta addirittura mancanza) di idonee garanzie, erano in contrasto con le norme statutarie delle casse stesse e con le vigenti disposizioni di legge in materia.

 

 

Si tratta in genere di anticipazioni straordinarie di cassa per fronteggiare spese eccezionali (aumenti di retribuzioni al personale, opere pubbliche per lenire la disoccupazione, rette di spedalità ecc.). Per le aziende di credito che gestiscono servizi di esattoria, è noto che esse hanno l’obbligo di anticipare i fondi necessari per il pagamento degli stipendi al personale e delle rette di spedalità per cifra complessiva pari all’ammontare della parte disponibile dei ruoli esigibili nell’esercizio; il tesoriere, a sua volta, ha normalmente l’obbligo di anticipi commisurati ad una cifra convenuta per contratto.

 

 

Ora, fino a tanto che le operazioni del genere vengono contenute rigidamente entro tali limiti, nulla vi è da obiettare; ma ove si tratti di sovvenzioni aventi scopi diversi e per cifre eccedenti i limiti accennati, esse dovrebbero essere validamente garantite.

 

 

Tuttavia, in considerazione delle necessità in cui gli enti in parola sono venuti a trovarsi, non si è mancato di esaminare favorevolmente le richieste pervenute; ma, avendo il fenomeno assunto proporzioni preoccupanti, è apparso opportuno richiamare sulla questione l’attenzione del ministero delle finanze e del tesoro e della presidenza del consiglio, facendo tra l’altro presente che le casse di risparmio, enti per eccellenza raccoglitori di risparmio particolarmente tra le categorie più modeste, sono state, per la loro delicata funzione, oggetto di rigorose disposizioni di legge per disciplinare gli impieghi e possibilmente eliminare ogni rischio per il depositante risparmiatore.

 

 

Di contro a tali finanziamenti ad enti pubblici, che non sempre le casse di risparmio, per le ragioni illustrate, hanno concesso di buon grado, si è delineata presso le casse stesse la tendenza ad allargare la cerchia delle operazioni onde fruire, in relazione anche all’accresciuta massa fiduciaria, della possibilità di maggiori impieghi e potere così migliorare il rendimento aziendale.

 

 

Le ragioni addotte a giustificazione di tali «desiderata» sono state considerate favorevolmente, procurando, però, di disciplinare le operazioni onde contenerle in misura prudenziale.

 

 

Si è così fissato un limite massimo di fido individuale sia per le operazioni cambiarie ad una firma sia per i conti correnti chirografari e si è stabilito che ciascuna cassa non potesse impiegare in operazioni della specie più di una data percentuale (massimo 10%) dei capitali amministrati (patrimonio e depositi).

 

 

Per quanto concerne, poi, le operazioni di riporto e di anticipazione, si è proposto al ministero delle finanze e del tesoro di consentirne l’effettuazione, stabilendo, tuttavia, che la relativa quota di impiego non dovesse eccedere il 5% dei capitali amministrati; che per ciascun nominativo le operazioni non superassero lo 0,50% degli stessi capitali e, infine, che i titoli trattati potessero essere soltanto quelli ammessi alle quotazioni ufficiali delle principali borse nazionali.

 

 

E poiché le operazioni sopraindicate non risultavano fin qui previste dagli statuti in vigore (quando non erano addirittura vietate da disposizioni di legge, come nel caso dei riporti e delle anticipazioni di cui trattasi) si è reso necessario di procedere alla revisione e modificazione di molti statuti di casse di risparmio.

 

 

Circa i casi di incompatibilità per l’assunzione di cariche presso le casse di risparmio e dei monti di credito su pegno di prima categoria si è deciso che le cariche ricoperte negli attuali partiti non possano essere considerate alla stregua di determinate cariche politiche esercitate durante il cessato regime (precisate a suo tempo in quelle di podestà, preside, prefetto e segretario federale politico e amministrativo e ritenute non compatibili con l’ufficio di amministratore, sindaco, direttore, funzionario ed impiegato delle aziende) e ciò per la diversa fisonomia dei partiti medesimi in confronto delle funzioni di governo già assegnate al cessato p.n.f.

 

 

Per quanto concerne, poi, le cariche presso comuni e province, è stato fatto rilevare che, mentre le disposizioni vigenti comportano deroghe per le due cariche più rappresentative (capo della provincia e capo del comune) e le escludono per quelle minori, nei riguardi dei dirigenti, funzionari ed impiegati delle casse e dei monti l’incompatibilità è circoscritta alle due cariche rappresentative suddette, laddove sembrerebbe opportuno estenderla anche alle cariche pubbliche minori che, per essere elettive e data l’esistenza di partiti organizzati, vengono pure ad avere sfondo politico. Ciò sia perché l’esercizio di tali cariche da parte di dipendenti influirebbe inevitabilmente sul loro rendimento presso l’azienda, sia, sopratutto, per il timore che la partecipazione alla vita pubblica dei dipendenti stessi possa determinare, nel sensibile ambiente della clientela, senso di sfiducia circa la rigorosa salvaguardia del segreto d’ufficio, in ispecie sotto l’aspetto fiscale.

 

 

Di converso non sembrerebbe inopportuno esaminare la possibilità di attenuare, in certo senso, il rigore sancito per gli amministratori, considerando anzitutto che i su ricordati fattori psicologici dovrebbero esercitare una minore influenza se riferiti a persone che, pure avendo parte nel governo delle casse e dei monti, non sono peraltro a conoscenza di tutti i minuti elementi di valutazione delle singole posizioni individuali, come si verifica invece per i dirigenti e gli impiegati.

 

 

Una più razionale disciplina della materia potrebbe essere realizzata ripristinando, ad esempio, le disposizioni della legge 15 luglio 1888, n. 311, (che all’art. 4 contempla la incompatibilità ad assumere l’amministrazione di casse di risparmio soltanto per il sindaco e per i componenti la giunta comunale e per il presidente e per i membri della deputazione provinciale), pur mantenendo una rigida intransigenza nei confronti dei dirigenti e dei dipendenti in genere.

 

 

Nel corso dell’anno, gli accordi tra le casse di risparmio e i monti di credito su pegno di prima categoria ed il dipendente personale, i quali, per avere effetto e validità, debbono riportare il preventivo nulla osta degli organi di vigilanza, sono assommati a 141.

 

 

Nell’esame si è tenuto presente il principio di non consentire miglioramenti economici che comportassero oneri non sopportabili dai bilanci delle aziende interessate e che tra le varie clausole non figurasse quella affermante il diritto, da parte del personale, alla partecipazione agli utili aziendali. Ciò in quanto, non perseguendo i detti enti scopi di lucro, si è ritenuto che l’ammissione del diritto potesse snaturare l’originaria loro caratteristica.

 

 

A maggior cautela delle aziende è stato suggerito di includere negli accordi una clausola che consenta di disdirli anche prima della scadenza, ove l’andamento della gestione denunciasse palesemente l’impossibilità di sostenere i nuovi gravami.

 

 

Casse rurali ed artigiane. – Questi istituti, già numerosi e fiorenti, sono in continua diminuzione, anche se nel corso del 1946 tale fenomeno non si sia accentuato.

 

 

Le cause principali vanno ravvisate nella scarsa dotazione patrimoniale, che le ha rese incapaci di fronteggiare le vicissitudini della vita economica nazionale; nella mancanza di idonei amministratori, difficili a trovare in piccoli centri e, anche se esistenti, timorosi di assumersi le gravi responsabilità connesse con la forma giuridica (società in nome collettivo) una volta prescritta per le aziende del tipo; nella diffidenza con cui in talune zone, nelle quali si erano verificati fallimenti di altre casse rurali, venivano riguardate; nel carattere confessionale di molte di

esse.

 

 

La difesa e l’assistenza fornite ad aziende le quali assolvono un’utilissima funzione nel campo della raccolta capillare del risparmio, sono rese spesso vane dalla concorrenza di aziende meglio dotate.

 

 

Nel corso del 1946, è stata curata la revisione, di concerto con l’Ente nazionale delle casse rurali ed artigiane, dello schema di statuto tipo (differenziato a seconda della forma giuridica di società cooperative a garanzia limitata o illimitata) onde aggiornarlo con le norme del nuovo codice civile.

 

 

Inoltre, si sono costituite federazioni od unioni provinciali fra le casse rurali ed artigiane o in genere tra le cooperative di credito delle rispettive zone, in sostituzione dei preesistenti enti di zona della federazione nazionale fascista di categoria.

 

 

Casse comunali di credito agrario. – Le casse comunali di credito agrario provengono dalla trasformazione delle preesistenti casse agrarie e di prestanza agraria e dei monti frumentari e nummari, la cui vigilanza viene espletata dagli istituti regionali di credito agrario.

 

 

Oggi tali casse – che, ad eccezione di quattro, non hanno la facoltà di raccogliere depositi e si propongono di concedere prestiti in danaro od in natura agli agricoltori – versano, nella grande maggioranza, in precarie condizioni per l’irrisoria consistenza patrimoniale (talvolta poche centinaia di lire), la mancanza di amministratori idonei sul posto, il diffuso benessere delle classi agricole.

 

 

Ad ovviare parzialmente a tale stato di cose si è proposto al ministero delle finanze e del tesoro di raggruppare i patrimoni delle casse inefficienti presso una di esse in modo di dar vita ad un organismo con qualche probabilità di sia pure modesta azione. Ma all’adozione di questo provvedimento, che in sostanza è l’unico consigliabile, osta però la natura prettamente comunale delle casse. La situazione economica di esse appare, in genere, deficitaria e, pertanto, in parecchi casi (18 nel 1946) si è addivenuti al passaggio delle gestioni patrimoniali delle casse all’istituto regionale.

 

 

Si è curata la revisione dello schema di statuto tipo di tali casse e si è provveduto inoltre ad istruire, per conto del ministero, 45 pratiche concernenti nomina di presidenti e 16 pratiche riguardanti conferma di presidenti.

 

 

Monti di credito su pegno di IIa categoria. – Si tratta di 147 aziende che sono regolate dalla legge 10 maggio 1938, n. 745, e dal regio decreto 25 maggio 1939, n. 1279. Di esse, 15 sono facoltizzate alla raccolta dei depositi; le restanti esercitano solamente il credito pegnoratizio e possono investire le somme eccedenti in titoli dello stato o da esso garantiti o in cartelle fondiarie, fare anticipazioni su detti titoli, prestiti contro cessione del quinto dello stipendio e mutui ipotecari.

 

 

Durante il periodo bellico l’attività pegnoratizia, sopratutto a causa delle note disposizioni legislative sul commercio dei preziosi e di quelle sugli oggetti sottoposti a razionamento, si è ridotta sensibilmente e non ha ancora manifestato decisi sintomi di ripresa, determinando sfavorevoli ripercussioni sul conto economico dei singoli enti.

 

 

Al fine di eliminare l’inconveniente, i monti interessati hanno ridotto l’ammontare delle singole voci di spesa, adeguata la struttura aziendale al lavoro effettuabile e incrementate le operazioni caratteristiche destinandovi ogni disponibilità, e, ove del caso, procacciandosele mediante la stipulazione di mutui ai sensi dell’art. 18 della legge 10 maggio 1938, n. 745. Poiché questi, però, sebbene stipulati a tassi di favore, venivano ad essere troppo onerosi, le aziende hanno avanzato domanda per essere autorizzate alla raccolta dei depositi onde procurarsi a più bassi costi i fondi occorrenti alla loro attività.

 

 

Nell’esame di tali domande sono stati emessi solamente due pareri favorevoli ed in entrambi i casi il ministero delle finanze e del tesoro ha accordato la chiesta autorizzazione.

 

 

Agenzie di prestiti su pegno. – Ai sensi dell’art. 32 della legge 10 maggio 1938, n. 745, le agenzie di prestiti su pegno che all’entrata in vigore della legge stessa risultavano autorizzate con regolari licenze dell’autorità di pubblica sicurezza in forza dell’art. 15 del testo unico approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, e successive modificazioni, possono continuare la loro attività; la norma, peraltro, non prevede la istituzione di nuove agenzie del genere. La rinnovazione della licenza da parte dell’autorità di pubblica sicurezza non può aver luogo se non in seguito a parere favorevole degli organi di vigilanza.

 

 

Durante l’anno è stata riveduta la tariffa dei tassi, dei diritti e delle commissioni per adeguarla al mutato potere di acquisto della moneta. Al 31 dicembre u. s., tali aziende ammontavano a 78; durante l’anno hanno cessato ogni attività 8 agenzie.

 

 

Agenzie di credito in liquidazione. – Le procedure di liquidazione (321 contro 337 a fine 1945), che si svolgono secondo le norme ordinarie del diritto, benché lasciate, in linea di massima, alla responsabilità dei liquidatori, vengono seguite sia attraverso l’esame delle documentazioni contabili annuali che con altri mezzi. Allo scopo di normalizzare procedure che non si svolgono con la dovuta regolarità o accelerare quelle non sufficientemente spedite, gli organi eletti dalle assemblee sono stati talvolta sostituiti con elementi nominati d’ufficio.

 

 

In ordine alle liquidazioni coatte (252 contro 270 a fine 1945), sono state diramate istruzioni per la tenuta della contabilità e la compilazione degli elaborati annuali e sopratutto di chiusura.

 

 

Le procedure fallimentari e concordatarie (113 contro 118 a fine 1945) iniziatesi prima dell’entrata in vigore della legge sulla tutela del risparmio, vengono seguite, dato il loro carattere specifico, mediante richieste saltuarie di notizie di regola semestrali.

 

 

Durante l’anno 1946, sono state iniziate 38 nuove procedure liquidatorie, delle quali 35 ordinarie e 3 coatte; ne sono state invece definite 72 di cui 51 delle prime e 21 delle seconde; sono state poi chiuse 5 procedure fallimentari. Complessivamente, quindi, al 31 dicembre 1946 le procedure liquidatorie rimaste da seguire sono 686 delle quali 321 ordinarie, 252 coatte e 113 fallimentari.

 

 

Nel numero delle aziende in liquidazione sopra indicate figurano 463 aziende iscritte nell’Albo ministeriale perché precedentemente raccoglievano depositi.

 

 

Istituti centrali di categoria. – Circa il problema della necessità, o quanto meno dell’utilità, di tali istituti centrali è opportuno premettere che esso risale all’epoca della costituzione dell’Istituto centrale delle banche popolari e dell’affine Istituto centrale delle banche e banchieri, i quali riuscirono a superare la riluttanza del cessato Ispettorato del credito alla loro creazione, prospettando ragioni di carattere contingente e, sopratutto, la proficua opera che avrebbero potuto svolgere nel campo dei prestiti pubblici.

 

 

Tali istituti tendono ad espandere sempre più la loro attività e a compiere quelle operazioni che le rispettive associate non potrebbero effettuare o perché non consone alla loro natura istituzionale o perché di importo eccedente le possibilità – legali od effettive – di ogni singola azienda o perché da compiersi con nominativi fuori della zona di competenza delle associate stesse.

 

 

Credito mobiliare. – Prima del recente conflitto mondiale, il credito mobiliare veniva erogato in Italia soltanto da alcuni istituti specializzati che, invero, apparivano sufficienti a fronteggiare le richieste in materia anche nel periodo post bellico. Sullo scorcio del 1945, il ministero del tesoro ritenne di consentire alle tre banche di interesse nazionale di dare vita ad un nuovo apposito organismo denominato «Banca di credito finanziario» (Mediobanca), che si proponeva, appunto, appoggiandosi alla rete delle filiali delle tre banche anzidette, di concedere il credito mobiliare in tutto il territorio nazionale.

 

 

L’iniziativa si è concretata nel 1946 e la «Mediobanca» ha iniziato le operazioni, previa autorizzazione del ministero del tesoro, concessa malgrado le riserve poste dal nostro istituto circa l’inquadramento giuridico del nuovo ente e circa taluni aspetti tecnici della sua attività. La prima questione, che poneva in forse – allo stato della legislazione – l’ammissibilità di iniziative del genere, specie se in forma sociale, è stata risolta con l’emanazione del decreto legislativo del capo provvisorio dello stato del 23 agosto 1946, n. 370, recante norme relative alla vigilanza sugli istituti esercenti il credito a medio o a lungo termine. La seconda, invece, non è stata ancora del tutto chiaramente definita e sull’argomento è stata richiamata ripetutamente l’attenzione del ministero del tesoro.

 

 

Problema fondamentale è quello di una netta separazione tra il credito a breve e quello a medio termine e al riguardo il nostro istituto ha proposto di riservare alle aziende di credito ordinario l’erogazione del credito e la raccolta di risparmi fino a un anno e di consentire agli enti di credito a medio termine la erogazione del credito da uno a cinque anni e la raccolta di depositi vincolati da due (anziché da uno, come consentito dal dicastero del tesoro) a cinque anni. Occorrerebbe, poi, stabilire chiaramente che i vincoli afferenti i depositi dei ripetuti istituti hanno carattere inderogabile e che, quindi, tali depositi non possono essere resi disponibili prima della scadenza dei termini, sia pure con applicazione del «sottosconto».

 

 

Altro punto di importanza basilare è quello del rapporto tra ammontare del patrimonio e complesso dei mezzi raccolti, rapporto che potrebbe essere fissato nella misura di 1 a 8 per gli enti ad attività regionale e di 1 a 15 per quelli a carattere nazionale, non essendo pensabile, per ovvii motivi, di applicare in questo campo il rapporto di 1 a 30 in vigore per le aziende di credito ordinario.

 

 

Infine, attesa la grande affinità degli istituti di credito mobiliare con le aziende di credito ordinario, sembra necessario che anche la vigilanza su gli enti in parola sia attribuita al nostro istituto.

 

 

Su questi punti il ministero deve ancora pronunziarsi definitivamente. Una volta definiti, essi serviranno di base per istruire la domanda delle banche popolari intesa a dar vita ad un altro ente di credito mobiliare, denominato «Banca centrale di credito mobiliare» (Centrobanca).

 

 

Credito agrario e finanziamenti degli ammassi dei prodotti agricoli. – Sono continuate nel 1946 le richieste delle aziende di credito ordinario per essere autorizzate ad effettuare operazioni di credito agrario di esercizio.

 

 

Le ragioni di tali richieste vanno ricercate, in buona parte, nel desiderio delle aziende stesse di trovare nuovi impieghi alle sempre crescenti disponibilità e di potersi precostituire dei titoli da far valere in occasione della ripartizione dei finanziamenti agli ammassi dei prodotti agricoli e segnatamente del grano.

 

 

Nell’esprimere al ministero delle finanze e del tesoro i relativi pareri, si è tenuto conto della particolare considerazione che meritavano le banche popolari; nella veduta che esse siano gli enti più idonei, in relazione alle proprie finalità istituzionali, ad assistere i piccoli ed i medi agricoltori. Complessivamente le domande presentate nell’anno concernono 294 piazze; il ministero ne ha respinte 3 e deve ancora pronunziarsi sulle restanti.

 

 

In materia di ammassi di prodotti agricoli trattasi di partecipare ad operazioni le quali non traggono origine da vere necessità di credito da parte degli agricoltori, dei mugnai e dei fornai; ma in gran parte dalla politica degli ammassi, la quale crea una domanda artificiale di credito, di cui i ceti interessati non sentono il bisogno e che pesa, insieme con gli altri costi degli ammassi, sui consumatori e più sul pubblico erario. Le domande di partecipare agli utili derivanti dalle operazioni sono state esaminate con la consueta cura.

 

 

Come sempre, quando si tratta di redditi dovuti ad una situazione artificiale monopolistica, dovuta nel caso presente alla politica degli ammassi, grande e insistente è la ressa, come si disse sopra, per partecipare alle operazioni; e tanto più grande quanto più trattasi di operazioni dovute esclusivamente al comando della legge.

 

 

Nasce il problema della ripartizione di autorità della provvista dei capitali necessari a pagare agli agricoltori i prodotti ammassati. Come spesso accade, le ripartizioni di autorità una volta fissate diventano, a differenza delle normali operazioni di credito per cui la clientela può liberamente spostarsi da banca a banca, in cerca delle condizioni migliori, fossilizzate, quasi fossero diritti acquisiti per gli istituti di credito e gli agricoltori, sudditi taillables et corvéables à merci.

 

 

I ministeri del tesoro e dell’agricoltura e foreste, condividendo l’avviso del nostro istituto sull’opportunità che si procedesse alla revisione delle ripartizioni dei finanziamenti sui prodotti ammassati, ripartizioni che, eccezion fatta per quella del finanziamento dell’olio, erano rimaste sostanzialmente immutate dalla campagna 1943-44, hanno definito, in base alle proposte della Banca d’Italia, i piani di riparto nazionali per quanto concerne i finanziamenti degli ammassi obbligatori.

 

 

Giusta le vigenti disposizioni di legge, alle operazioni di finanziamento degli ammassi del grano e della canapa sono stati ammessi soltanto gli istituti autorizzati all’esercizio del credito agrario, le casse di risparmio e i monti di credito su pegno di prima categoria. In proposito, va ricordato che la Banca d’Italia ha sostenuto presso i competenti dicasteri la tesi che le disposizioni onde trattasi debbano essere modificate nel senso di consentire a tutte le aziende di credito la partecipazione al finanziamento anche di questi due ammassi, di cui quello del grano assume importanza fondamentale.

 

 

Con il decreto legislativo 19 luglio 1946, n. 79, è stata autorizzata la spesa di 15 miliardi di lire per la corresponsione di acconti – nella misura massima di 80% – alla Federazione italiana dei consorzi agrari, ai consorzi agrari provinciali ed all’Ente nazionale risi, a fronte di crediti vantati dagli istituti finanziatori degli ammassi. Il provvedimento – per la cui esecuzione sono state emanate disposizioni dal ministero dell’agricoltura e foreste, d’intesa con il nostro istituto – riguarda le seguenti operazioni:

 

 

a)    anticipazioni effettuate per il pagamento di quote integrative di prezzo e di premi per le campagne 1940-41, 1941-42 e 1942-43;

 

b)    anticipazioni accordate durante il periodo di validità del prezzo politico del pane e della pasta;

 

c)    anticipazioni concesse per le gestioni speciali tenute dalla «Federconsorzi» ai sensi dei decreti legge 12 febbraio 1945, n. 38, e 16 novembre 1945, n. 805.

 

 

Con l’avvenuta corresponsione di questi acconti cadranno i motivi delle doglianze delle aziende di credito dovute alla formazione di un forte arretrato. Con recente comunicazione, il ministero dell’agricoltura ha fatto presente che a tutto il 20 marzo sono stati emessi decreti e mandati, interessanti 56 province, per l’importo di 9.467,1 milioni.

 

 

Con decisione ministeriale è stato disposto che agli agricoltori dell’Italia settentrionale, che conferirono i cereali all’ammasso nel periodo compreso tra la data di liberazione delle singole province e quella del 12 giugno 1945 – data di entrata in vigore delle nuove disposizioni in tema di ammassi – venisse corrisposta la differenza tra i nuovi prezzi dei cereali medesimi e quelli minori fissati a suo tempo dagli organi della sedicente repubblica sociale. Analogo provvedimento è stato adottato nei confronti degli agricoltori della Toscana che, durante il periodo di emergenza, consegnarono il grano ai comuni ed ai comitati di liberazione nazionale.

 

 

Nel gennaio del 1946, il ministero dell’agricoltura e delle foreste, aderendo ad analoga proposta della Banca d’Italia, consentiva a che sulle cambiali di rinnovo rilasciate dagli enti ammassatori a fronte di finanziamenti su prodotti agricoli ammassati e poi andati distrutti per eventi bellici, fosse apposta una speciale annotazione avente lo scopo di rendere evidente che, pur trattandosi di effetti a fronte dei quali il privilegio non avrebbe potuto esercitarsi per la mancanza totale o parziale del suo obietto, gli effetti stessi erano stati rilasciati sempre per sovvenire alle necessità finanziarie degli ammassi.

 

 

Durante l’anno, sono entrate in funzione le commissioni provinciali per la revisione dei rendiconti relativi alle gestioni di ammasso per le campagne 1944-45 e precedenti; il lavoro di dette commissioni è stato molto attivo, tanto che la tesoreria centrale ha già disposto, in numerosissimi casi, il pagamento, a favore degli enti ammassatori interessati, degli importi rappresentanti i disavanzi delle gestioni di ammasso.

 

 

Credito fondiario ed edilizio. – Le necessità della ricostruzione, nel campo dell’edilizia, hanno dato origine a diverse iniziative intese a creare nuovi enti di credito fondiario ed edilizio, sulle quali il ministero delle finanze e del tesoro ha chiesto il parere del nostro istituto. Non risulta, peraltro, che tali iniziative si siano fin qui concretate.

 

 

A proposito della materia riguardante i crediti specializzati sopra accennati, si osserva che,, ai sensi del decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 22, le funzioni di vigilanza sugli istituti di cui all’art. 41 e seguenti della legge bancaria (e cioè sul credito a medio ed a lungo termine) sono affidate al ministero delle finanze e del tesoro. A causa dei molteplici rapporti che collegano il credito ordinario con quelli specializzati e attesa, talvolta, la necessità di istruire determinate pratiche alla periferia, il ministero stesso ha chiesto in molte occasioni il parere del nostro istituto anche in questo campo.

 

 

Si viene così a porre la questione se la Banca d’Italia debba esercitare le sue funzioni di vigilanza non solo sugli istituti di credito a breve termine ma anche su quelli a medio ed a lungo termine. Poiché parecchi istituti di credito a breve termine esercitano o promiscuamente (come nel caso del credito agrario) od attraverso speciali sezioni gli altri crediti, unico dovrebbe essere l’organo che disimpegna i compiti di vigilanza.

 

 

Attività ispettiva. La vigilanza sul complesso delle aziende di credito si estrinseca, principalmente, come è ben noto, attraverso il sistematico esame dei bilanci annuali e delle situazioni dei conti e per mezzo di ispezioni.

 

 

Nonostante il persistere dei disagi per raggiungere le località sede delle aziende da ispezionare, il crescente costo dei viaggi e dei soggiorni, e l’aumentato lavoro interno dei nostri uffici periferici, il ritmo dei sopraluoghi ispettivi non ha subito alcun rallentamento durante l’anno 1946; esso, anzi, si è andato intensificando rispetto agli anni precedenti per la sentita necessità di ristabilire più idonei contatti con le aziende di credito in modo da saggiarne e approfondirne la consistenza e l’andamento dopo le vicissitudini della guerra.

 

 

Durante l’anno testé decorso, sono state eseguite 108 visite ispettive e i rilievi emersi sono già stati segnalati al ministero del tesoro e contestati alle aziende interessate.

 

 

A prescindere dai casi in cui, a seguito dell’ispezione, è stata necessaria l’adozione di provvedimenti di carattere tutorio, le manchevolezze e deficienze di maggior rilievo poste in luce nella generalità dei casi dalle visite ispettive riguardavano sopratutto: il ricorso fatto in talune aziende a operazioni fittizie, a richiesta della clientela per scopi non sempre ben definiti; la concessione non autorizzata di fidi eccedenti il limite legale e talora sproporzionati alla potenzialità delle singole aziende; la ricerca di operazioni fuori zona di competenza. Quest’ultimo fenomeno, che va rigidamente represso sia per i pericoli incombenti sulle aziende di operare lontano dalle proprie immediate possibilità di controllo e di informazione e sia per difendere gli interessi delle altre aziende di credito che non usano evadere da una tale disciplina, è andato divenendo più frequente e più diffuso in dipendenza della contrazione verificatasi in determinate zone economiche nelle consuete operazioni di affidamento e quindi dell’inclinazione a ricercarsi comunque clienti e affari.

 

 

Si è dovuta inoltre rilevare la concessione di eccessive agevolazioni nel pagamento di assegni di conto corrente a valere su istituti fuori piazza. Non poche sono state le aziende che ne sono rimaste danneggiate, tanto da fare apparire necessario di raccomandare a tutte le aziende di essere più guardinghe nel pagamento di assegni del genere.

 

 

Va aggiunto che qualche ispezione fu compiuta al fine di fugare il pericolo di disintegrazione della compagine morale dell’azienda per effetto di contrasti interni dovuti alle vicende politiche del dopoguerra tra personale, amministrazione e dirigenti. In altri casi ancora il sopraluogo, quando si è trattato di organismi minuscoli venuti meno ai loro scopi originari, è valso a porre le rispettive amministrazioni di fronte al dilemma di una efficiente ripresa o della messa in liquidazione.

 

 

Taluni rilievi, infine, furono comuni a quasi tutte le aziende ispezionate, come qualche infrazione al cartello, l’irregolare tenuta dei libri obbligatori e degli schedari, l’immobilizzo di attività, la negligenza nell’azione di tutela e di recupero di crediti in sofferenza, lo scarso interessamento di amministratori e di sindaci, l’eccessiva autonomia di qualche dirigente.

 

 

Le risultanze emerse in ordine alla situazione patrimoniale e finanziaria in generale delle aziende sottoposte ad ispezione, confermano in massima che essa può dirsi soddisfacente, in quanto le perdite accertate o presunte erano di entità facilmente sopportabile e in più le aziende potevano far calcolo su riserve potenziali di rilievo derivanti dal valore corrente di immobili ed impianti rispetto alle cifre contabilizzate, mentre, d’altro canto, le attività liquide o facilmente realizzabili erano adeguate.

 

 

È necessario quindi che le aziende di credito, anche se preoccupate del crescente costo di gestione e dell’instabile andamento del conto economico – circostanza questa confermata, in massima, anche nel corso delle ispezioni – non cedano alla tentazione di conseguire un miglioramento nel gettito dei ricavi a scapito della rigorosità di vaglio della sicurezza e della moralità dei finanziamenti domandati.

 

 

Le ispezioni, come sempre, sono apparse un valido e opportuno mezzo di controllo specialmente presso quelle aziende che sono state scompaginate dagli eventi bellici e che non sono ancora riuscite a ristabilire e consolidare la propria attrezzatura. Le prime a trarne benefici effetti sono state le aziende stesse le quali, in più casi, si sono trovate in presenza di squilibri patrimoniali e funzionali da esse medesime ignorati prima delle rilevazioni ispettive, per cui l’intervento del nostro istituto è sempre valso a porre in tempestivo allarme amministratori, sindaci e dirigenti, a far loro adottare i rimedi necessari ed a scongiurare quindi un peggioramento delle situazioni esaminate.

 

 

Rapporto fra patrimonio e depositi. Le aziende di credito (escluse le casse di risparmio, i monti di credito su pegno e le casse rurali) tenute all’osservanza della norma che prescrive di versare presso l’istituto di emissione, in titoli o in contante, la eccedenza della massa fiduciaria raccolta, hanno opposto viva resistenza ad ottemperare a tale obbligo, malgrado che nel febbraio 1946 il rapporto di 1 a 20 stabilito dall’art. 15 del regio decreto legge 6 novembre 1926, n. 1830, sia stato elevato ad 1 a 30.

 

 

I motivi sono da ricercarsi:

 

 

  • nella esitazione delle banche ad acquistare ancora titoli di stato, dei quali sono già detentrici per forti quantitativi, e nel desiderio di sottrarsi al pagamento dei diritti di custodia per i titoli depositati a garanzia presso il nostro istituto;

 

  • nella riluttanza a vincolare forti disponibilità liquide presso la Banca d’Italia ad un saggio non sufficientemente rimunerativo (3 per cento), ma principalmente:

 

  • nella necessità di disporre di una sempre più cospicua massa di mezzi da impiegare in operazioni di fido, tale da consentire profitti adeguati. Le banche vorrebbero quindi:

 

  • che il rapporto venisse ulteriormente spostato ad 1 a 40 o 1 a 50;

 

  • che i conti correnti di corrispondenza non fossero computati nella massa fiduciaria;

 

  • che nel patrimonio fossero computate le riserve aventi speciali destinazioni (fondo oscillazione valori) ove non ancora utilizzate, ed anche le riserve occulte;

 

  • che fossero ammesse in detrazione dalla massa fiduciaria le corrispondenti attività investite in finanziamenti di pubblica utilità (ammassi, ricostruzione);

 

  • che ai fini cauzionali fossero considerate utili le disponibilità comunque versate in conto corrente presso il tesoro o la Banca d’Italia.

 

 

In merito ai vari punti si osserva:

 

 

  • la modificazione del rapporto non consentirebbe che un respiro momentaneo per gli adempimenti in questione, perché anche con la ragione 1 a 40 le principali banche resterebbero scoperte per forti eccedenze, in quanto il continuo incremento dei depositi sposta incessantemente l’equilibrio in un rapporto in cui uno dei termini (patrimonio) rimane praticamente fisso rispetto all’altro in forte ascesa (depositi); la soluzione deve essere ricercata in altra via, come si dirà in appresso;

 

  • i conti correnti di corrispondenza debbono essere considerati, anche per la loro origine economica, oltre che per la loro natura giuridico – tecnica, veri e propri depositi, poggianti anche essi, come i libretti a risparmio, sull’elemento «fiducia», sicché un diverso trattamento non sarebbe ammissibile;

 

  • le riserve palesi aventi speciale destinazione non possono farsi rientrare nel computo del patrimonio, data appunto la loro specifica finalità; analogamente deve dirsi di quelle occulte, per il fatto stesso che non sono in evidenza e per l’impossibilità di dare sanzione legale a ciò che la legge d’altro canto non consente;

 

  • le detrazioni per i finanziamenti di pubblica utilità non sono ammissibili per la difficoltà di un controllo continuo nella loro incessante variazione e per il fatto che, a parte ogni solida garanzia, sono pur sempre degli investimenti il cui realizzo comporta un lasso di tempo più o meno lungo;

 

  • si conviene invece nella concessione che tutte le disponibilità in conto corrente presso il tesoro o la Banca d’Italia possano essere utilizzate per l’adempimento in parola; in tal modo le banche potranno fruire di saggi superiori al 3%.

 

 

Che l’attuale sistema, poggiante esclusivamente sul patrimonio, sia superato, si rileva dal fatto che la percentuale di depositi che verrebbe sottratta ad impieghi oscillerebbe da banca a banca dal 7% al 75% con forte sperequazione tra i vari istituti bancari.

 

 

Un nuovo sistema proposto al ministero delle finanze e del tesoro, pur non abbandonando del tutto l’elemento «patrimonio» la cui importanza verrebbe limitata rispetto allo sviluppo delle operazioni bancarie, poggerebbe principalmente sulla «massa fiduciaria»: le aziende di credito dovrebbero versare una somma pari a tre volte la differenza tra un decimo dei depositi ed il patrimonio o, ciò che è lo stesso, il 30% dell’eccedenza

dei depositi oltre il decuplo del patrimonio.

 

 

È stato anche esaminato il punto se, ferma rimanendo la proporzione del 30% per l’eccedenza esistente ad una certa data, suppongasi il 28 febbraio 1947, la proporzione debba essere elevata al 50% per i nuovi depositi, o meglio, per l’eccedenza ulteriore dei depositi, oltre quella accertata alla data di partenza.

 

 

In concreto, il nuovo procedimento si basa sulla facoltà per le banche di disporre liberamente di una quota di depositi pari a 10 volte il patrimonio oltre al 70% dell’eccedenza dei depositi stessi su tale limite, ed al 50% dei depositi «nuovi», con obbligo di depositare alla Banca d’Italia l’altro 30 e rispettivamente 50%. Mentre l’aliquota di 10 volte il patrimonio sarebbe fissa, le altre del 70 e del 50% sarebbero variabili in relazione all’andamento della situazione creditizia, conseguendosi così anche uno strumento di manovra più efficace di quello costituito dalla sola variazione del saggio ufficiale di sconto che oggi non ha quasi più influenza sul mercato.

 

 

Senonché nelle more del necessario vaglio al quale debbono essere sottoposte questioni e proposte dell’importanza di quelle qui esaminate, si è venuta a maturare una situazione tale da imporre un intervento più marcato degli organi di vigilanza per porre un freno alla espansione creditizia. È ovvio che provvedimenti immediati non potevano essere presi che nel quadro delle norme già esistenti, sia pure temperandole con l’introduzione di qualche criterio sulla cui adozione ormai ministero e istituto di emissione fossero d’accordo.

 

 

Eppertanto, pur avendo imposto il rispetto del rapporto vigente, è stato eccezionalmente e temporaneamente consentito ai fini cauzionali possano venire computate anche le disponibilità in conto corrente comunque accantonate dalle aziende presso il tesoro o la Banca d’Italia.[1]

 

 

Molte aziende di credito vedrebbero la possibilità di realizzare, attraverso le rivalutazioni regolate dal regio decreto legge 27 maggio 1946, n. 436, e dal decreto legislativo 13 settembre 1946, n. 241, alcuni vantaggi, tra cui prevalgono i seguenti:

 

 

a)    inclusione nel patrimonio dei saldi di rivalutazione, onde ridurre proporzionalmente l’eventuale eccedenza sul noto rapporto tra patrimonio e depositi, da vincolare ai sensi di legge;

 

b)    inclusione dei saldi suddetti nel patrimonio, onde elevare il limite legale del fido;

 

c)    inclusione dei saldi nel patrimonio, anche ai fini dell’art. 11 del regio decreto legge 7 ottobre 1923, n. 2283, onde ridurre cioè l’ammontare del deposito in titoli che le aziende di credito debbono effettuare per garantire l’eccedenza della circolazione fiduciaria rispetto al capitale ed alla riserva legale.

 

 

Bisogna riconoscere, in proposito, che, per effetto della progressiva svalutazione della moneta e ferma restando l’espressione dei patrimoni in lire anteguerra, sono venuti a risultare non più in armonia con le esigenze funzionali delle aziende di credito il limite legale del fido, il rapporto tra patrimonio e depositi ed il rapporto tra patrimonio e titoli fiduciari in circolazione, per cui le aziende – in ispecie le maggiori – trovano serie difficoltà a sottomettersi ai prescritti adempimenti.

 

 

Può anzi ritenersi che siano questi i motivi che maggiormente inducono numerose aziende di credito a sostenere la necessità delle rivalutazioni e che le stesse aziende rinuncerebbero forse ai loro propositi ove gli organi di vigilanza risolvessero per altra via tali questioni.

 

 

In tale direttiva si inquadra, appunto, la proposta testé formulata al ministero a proposito dei nuovi criteri circa l’investimento delle eccedenze dei depositi.

 

 

A tutt’oggi la rivalutazione in parola è stata proposta ufficialmente da pochissime aziende di credito, ma progetti, richieste di chiarimenti o comunicazioni scritte e verbali di propositi nel senso suddetto, continuano a pervenire.

 

 

Titoli fiduciari. – Particolarmente intensa è stata l’attività di vigilanza esplicata in merito alla emissione di titoli fiduciari da parte delle aziende di credito, a cagione del notevolissimo incremento verificatosi nella massa dei titoli rappresentativi del danaro, e per effetto della tendenza, già nettamente delineatasi nel corso del 1945, manifestata dalle aziende bancarie ad emettere, per motivi diversi, nuovi tipi di titoli, non sempre agevolmente riconducibili per le loro caratteristiche formali e materiali agli schemi tradizionali previsti e disciplinati dalla vigente legislazione. Aggiungasi che una particolare vigilanza si è dovuta esercitare al fine di garantire il tempestivo e congruo adeguamento delle cauzioni volute dalla legge a garanzia dei portatori, in rapporto all’ammontare crescente dei titoli emessi.

 

 

a)    Assegni circolari. – Gli istituti abilitati ad emettere assegni della specie ammontano a trenta. Nessuna nuova autorizzazione è stata accordata nel corso dell’anno; anzi il ministro delle finanze e del tesoro, in occasione di richieste avanzate da alcune aziende di credito e dall’Istituto centrale delle banche e banchieri, ha ribadito il criterio che non convenga, nell’attuale congiuntura, estendere la facoltà di emissione ad altri istituti.

 

 

Particolare menzione merita la resistenza manifestata da numerose aziende di credito ad adeguare nella misura prescritta i depositi cauzionali presso l’istituto di emissione ai sensi dell’art. 11 del regio decreto legge 7 ottobre 1923, n. 2283. Ciò spiega col fatto che l’accresciuta emissione di assegni circolari e la conseguente diminuzione del rapporto tra il patrimonio dell’azienda emittente e l’ammontare dei titoli circolanti implica in pratica la prestazione di cauzioni assai ingenti non solo in valore assoluto, sibbene anche relativo all’importo della circolazione.

 

 

Quanto alla emissione di assegni circolari a mezzo corrispondenti, l’azione della Banca d’Italia è stata caratterizzata da numerosi interventi resisi necessari presso alcune aziende che non avevano preteso in misura adeguata la costituzione delle speciali cauzioni in titoli, previste a garanzia dei mandati da esse conferiti.

 

 

Efficace controllo è stato pure esercitato al fine di evitare che fossero conferiti mandati di corrispondenza per l’emissione di assegni ad enti che non rivestono la qualifica di «banchiere»; qualifica cui, ai sensi dell’art. 85 del regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736, è subordinata la concessione di mandati del genere.

 

 

A tale riguardo torna opportuno rammentare come al fine di corrispondere alle esigenze di alcuni grandi enti meritevoli di particolare considerazione e dotati di indiscussa solidità patrimoniale, si ritenne nel 1940 di poter interpretare estensivamente la legge attribuendo la qualifica di banchiere anche ad enti che, pur non rivestendo i caratteri di aziende di credito stricto sensu, potevano, sotto alcuni aspetti, ritenersi a queste assimilabili (istituti che raccolgono risparmio a medio è lungo termine di cui all’art. 41 della legge bancaria, «finanziarie» e imprese di assicurazione).

 

 

Nel corso dell’anno, alcuni istituti bancari di primaria importanza hanno inoltrato istanza volta ad ottenere l’autorizzazione per la concessione di nuovi mandati della specie. Prima di pronunciarsi su tali richieste si è ritenuto di procedere ad un’indagine statistica di tutti i mandati esistenti.

 

 

L’emissione di titoli di credito speciali (assegni circolari all’ordine dell’emittente e girati in bianco, assegni bancari tratti sulle proprie dipendenze, ecc.), tollerabile in momenti di rarefazione del medio circolante, non può oggi trovare giustificazione, e ciò per la funzione economica, assai simile a quella del biglietto di banca, che tali titoli assumono in contrasto con lo spirito delle vigenti disposizioni di legge. Il notevole incremento verificatosi nell’emissione degli assegni circolari è provato dall’ammontare degli assegni in circolazione che da 31,7 miliardi alla fine del 1945 è salito a 58,4 miliardi alla fine del 1946.

 

 

Anche l’emissione dei titoli fiduciari da parte dei due banchi meridionali presenta analoghe caratteristiche. Infatti, l’ammontare dei suddetti titoli in circolazione al 31 dicembre 1946 era salito a miliardi 19,1 rispetto a quello di 11,8 miliardi a fine 1945.

 

 

È da ritenere che abbia influito sull’aumento della massa dei titoli fiduciari anche un fenomeno di tesoreggiamento, facilmente spiegabile col fatto che gli assegni ed i vaglia presentano, nei confronti dei biglietti di banca, elementi di sicurezza in caso di furto o smarrimento e maggiori possibilità di agevole occultamento.

 

 

Un indice sintomatico di tale tendenza può ravvisarsi nella protrazione della durata media della circolazione degli assegni; infatti, la vita media di un assegno circolare sarebbe stata nel 1946, in via largamente approssimativa, di sedici giorni, contro cinque nel 1939.

 

 

b)    Assegni Italcasse. – L’Istituto di credito delle casse di risparmio italiane venne autorizzato fin dal 1942 ad emettere assegni circolari. Senonché, per motivi vari, l’emissione di siffatti titoli non si è ancora iniziata e l’Italcasse seguita tuttora a servirsi per le proprie occorrenze e per quelle delle casse associate degli assegni comunemente denominati «Italcasse», i quali, pur avendo i requisiti formali degli assegni bancari, presentano una spiccata analogia funzionale con gli assegni circolari.

 

 

Le difficoltà incontrate per la sostituzione dei cennati assegni bancari con quelli circolari – difficoltà che risiedono principalmente nella necessità di costituire presso l’istituto di emissione la prescritta cauzione – possono considerarsi avviate a soluzione. La cessazione della emissione degli assegni bancari «Italcasse» porrà fine alle irregolari emissioni di assegni, alle quali alcune casse di risparmio hanno fatto largo e frequente ricorso.

 

 

c)    Assegni a copertura garantita. – La principale caratteristica differenziale del titolo, nei confronti dell’ordinario assegno bancario, consiste nel fatto che gli assegni in questione – validi fino ad un importo massimo indicato a stampa nel testo – vengono tratti su un conto corrente speciale – e non utilizzabile se non per mezzo degli assegni onde trattasi – precostituito presso l’azienda di credito trassata, le cui disponibilità non possono essere inferiori al valore massimo degli assegni rilasciati al correntista.

 

 

Se è incontestabile che dal punto di vista giuridico – formale rigoroso l’assegno a copertura garantita si inquadra nel paradigma tradizionale dell’assegno bancario, non si può non riconoscere che il fatto di essere esigibile presso qualunque sportello bancario, in quanto garantito dalla esistenza della provvista, conferisce al titolo una stretta analogia con l’assegno circolare.

 

 

Fu appunto in vista di tale analogia funzionale che venne disposto l’obbligo per le aziende trassate di costituire presso l’istituto di emissione apposita cauzione in titoli, al pari di quanto è prescritto per gli assegni circolari. Per il computo della cauzione, si decise – in mancanza di elementi atti a poterla fissare in rapporto all’ammontare degli assegni emessi – di commisurarla, in via di esperimento, alla media giornaliera degli assegni effettivamente pagati nel trimestre precedente, moltiplicata per la loro durata media di circolazione che, presuntivamente, venne fissata in cinque giorni.

 

 

Ma alcune aziende di credito hanno obiettato che il calcolo eseguito con i criteri anzidetti porterebbe a risultati molto discosti dall’effettivo ammontare degli assegni in circolazione, e hanno proposto di modificare il sistema di cui sopra nell’evidente scopo di ridurre il più possibile l’onere cauzionale.

 

 

Senonché, a parte il fatto che le proposte formulate sono parimenti basate su criteri presuntivi, per cui si è ritenuto miglior partito di proporre al ministero del tesoro il mantenimento del sistema in vigore come il meno lontano dalla realtà, si ha motivo di ritenere che l’attuale coefficiente moltiplicatore di cinque giorni sia inferiore alla durata media effettiva di circolazione degli assegni in parola.

 

 

Gli istituti autorizzati ad emettere assegni a copertura garantita sono quindici. Nel 1946 è stata concessa una sola autorizzazione.

 

 

Richieste pervenute da parte di aziende di modesta importanza non sono state prese in considerazione in quanto avanzate da istituti non dotati della facoltà di emettere assegni circolari, facoltà cui, giusta la prassi sin qui costantemente seguita, restano subordinate le autorizzazioni del genere.

 

 

Il taglio massimo degli assegni in parola è stato portato dal ministero del tesoro, su parere favorevole del nostro istituto, da 50.000 a 100.000 lire.

 

 

Avocazione allo stato dei profitti di regime. – Gli accertamenti presso le aziende di credito, affidati dalla legge ad un’organizzazione prettamente fiscale, così come erano effettuati nei primi mesi del 1946, hanno dato luogo a gravi inconvenienti.

 

 

A seguito di ciò, e poiché nel frattempo era stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’8 aprile 1946 il decreto legislativo luogotenenziale 26 marzo, n. 134, concernente l’inquadramento nel sistema tributario della avocazione dei profitti di regime, la Banca d’Italia sottopose tutta la materia a nuovo esame.

 

 

Poiché in virtù del quarto comma dell’art. 24 del citato decreto legislativo luogotenenziale erano stati attribuiti alle Intendenze di finanza, ai fini dell’accertamento dei profitti di regime, della conoscenza dei beni e del sequestro, tutti i poteri di indagine, accessi ed ispezioni, controllo e richieste di dati, si trattava di valutare le seguenti due alternative:

 

 

a)    lasciare che gli organi fiscali, in base alle norme di legge, indagassero, con rapporti diretti, presso le aziende di credito in ordine alle attività della clientela;

 

b)    intervenire nell’indagine e far salvo il principio che sconsiglia i contatti diretti del fisco con le aziende relativamente agli affari dei clienti.

 

Benché esulasse, a stretto rigore, dai compiti della Banca d’Italia nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, è stata scelta la seconda soluzione perché più gradita alle aziende di credito evitandosi, così, ogni ripercussione pregiudizievole nei riguardi dei depositanti.

 

 

Date le cautele con cui vengono eseguite le indagini (le richieste di notizie sono preventivamente vagliate dalla direzione generale per la finanza straordinaria e inoltrate alle aziende di credito per il tramite di questa amministrazione centrale) non si sono avuti a lamentare inconvenienti, nonostante che i nominativi inquisiti ammontino a varie centinaia.

 

 

La direzione generale per la finanza straordinaria ha mostrato molta comprensione per le nostre preoccupazioni accogliendo le nostre proposte, le quali hanno conciliato l’osservanza della legge con la cura, non meno importante, della tranquillità del settore bancario.

 

 

Conti, assegni e cassette di sicurezza bloccati. – Da più parti vennero sollevati dubbi sulla legittimità delle norme di blocco dei conti bancari, assegni e cassette di sicurezza che il governo italiano aveva emanato, confermando, in via amministrativa, le corrispondenti disposizioni che gli alleati avevano promulgato con proclami e con bandi al momento della liberazione delle singole zone. Anche in sede giudiziaria era stato sentenziato che le norme in parola, così come erano state fatte proprie dal nostro governo, non potevano aver forza cogente.

 

 

Ad ovviare a ciò, con decreto legislativo luogotenenziale l’1 febbraio 1946, n. 58, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del successivo giorno 7 marzo, venne sancita «la piena validità, ad ogni effetto, anche dopo la restituzione dei singoli territori all’amministrazione italiana, di tutti i provvedimenti di blocco di depositi bancari e postali e dei titoli di credito, effettuati in applicazione dei proclami e delle disposizioni delle autorità militari alleate».

 

 

Un cenno particolare merita la questione degli assegni emessi dalle autorità militari tedesche od all’ordine di queste e bloccati dalle banche italiane.

 

 

Era stato segnalato che taluni speculatori si adoperavano per rendere possibile il pagamento degli assegni acquistati con un sensibile scarto rispetto al loro valore. Ora, mentre il pagamento di assegni di conto corrente era da escludersi giacché le disponibilità di conto corrente intestate a nominativi tedeschi erano state incamerate dagli alleati, nei riguardi di assegni circolari, vaglia o titoli bancari del genere sussisteva il pericolo che fossero realizzati, attraverso uno sblocco illecitamente ottenuto. Prospettata ai competenti organi ministeriali la necessità di impedire il pagamento dei titoli in questione, è stato disposto l’obbligo di sottoporre direttamente al ministero ogni richiesta di sblocco, qualunque ne fosse l’importo.

 

 

Orario di sportello e di lavoro delle aziende di credito. – Attualmente l’orario di lavoro per le aziende di credito non è uniforme in tutto il territorio nazionale; alcune piazze praticano, infatti, l’orario continuato, altre invece sono ritornate all’orario diviso con o senza apertura di sportelli nel pomeriggio.

 

 

Dette situazioni locali sono frutto di una intesa talora faticosamente raggiunta tra le aziende di credito ed il loro personale, dato che le rispettive vedute sulla questione sono in netto contrasto.

 

 

Da un lato, gli istituti, preoccupati di soddisfare le esigenze della clientela, particolarmente quella industriale e commerciale tenderebbero ad adottare l’orario diviso che permette un miglior utilizzo dei servizi bancari (l’apertura pomeridiana degli sportelli consente il versamento degli incassi giornalieri) e delle prestazioni del personale.

 

 

D’altro lato, i dipendenti asseriscono che le retribuzioni, per quanto gravose per le banche, sono insufficienti per le necessità della vita, onde essi sono costretti ad esplicare nelle ore pomeridiane attività sussidiarie. Aggiungono che la situazione dei pubblici servizi nei grandi centri (trasporti, energia elettrica) non è ancora tale da consentire lo spostamento agevole di masse di impiegati per più volte nella stessa giornata. E viene per chiari accenni manifestata l’intenzione di mantenere con qualsiasi mezzo l’orario unico.

 

 

Se la intenzione dovesse tradursi in realtà duratura, ancor dopo venute meno, come via via stanno venendo meno, le passeggere circostanze che hanno fornito argomento ad instaurare l’orario unico, sarebbe d’uopo concludere che in questo campo, come in tanti altri, non le banche sono chiamate a servire il pubblico, bensì il pubblico le banche. Forse non ultimissima e non trascurabilissima ragione della tendenza che già s’avverte, sia pure in proporzioni minute, ad instaurare rapporti diretti fra prestatori e prenditori di risparmio, passando sopra alla intermediazione delle banche e non ultima ragione delle difficoltà in cui si dibattono gli istituti di credito, costretti ognora, e fortunatamente costretti, a migliorare i servizi se si vuole che i costi non soverchino le entrate. È necessario, nell’interesse generale, che le associazioni dei datori e dei prenditori di lavoro vaglino accuratamente i dati del problema, affinché non accada che provvedimenti intesi ad assicurare, come è bene assicurino, sempre più alte condizioni di vita ai lavoratori, ottengano invece, col rialzo dei costi e con la conseguente riduzione della domanda dei servizi, l’effetto opposto di creare disoccupazione tra i lavoratori e dissesti tra i datori di lavoro.

 

 

La tesi dei dirigenti gli istituti di credito è precisa.

 

 

L’Associazione sindacale bancaria (ASSIBANCA) sostiene che, fermo restando il limite delle 40 ore settimanali, convenga ripristinare per tutte le piazze – salvo qualche grande centro – l’orario diviso con almeno due ore di intervallo, ed apertura degli sportelli per almeno un’ora nel pomeriggio, esclusi il sabato e gli altri giorni semi festivi.

 

 

Anche l’Associazione bancaria italiana rileva che l’orario di sportello diviso risponderebbe all’interesse dei settori produttivi e sopratutto di quello bancario. In occasione delle trattative svoltesi nel novembre decorso per gli adeguamenti salariali, propose di mettere in discussione la questione, ma, per le resistenze dei rappresentanti dei lavoratori, la definizione del problema fu rinviata.

 

 

Statistiche bancarie. – Dopo la soppressione dell’Ispettorato del credito, rimasero affidate alla Banca d’Italia tutte le statistiche concernenti le aziende bancarie che raccolgono risparmio a breve termine, mentre quelle relative agli istituti esercenti il credito a medio e lungo termine (credito agrario, fondiario e mobiliare) passarono al ministero del tesoro, sebbene per connessione di materia sarebbe stato meglio accentrare presso un unico ente, e cioè la Banca d’Italia, ogni rilevazione statistica riguardante l’intero settore creditizio.

 

 

Allo scopo di semplificare e rendere meno oneroso il lavoro, le rilevazioni vengono limitate ad un complesso di 365 aziende di credito che raccolgono il 99% dei depositi, e soltanto alla fine di ciascun anno si fa un riepilogo della situazione di tutte le aziende in esercizio (circa 1.400).

 

 

Tenuto presente che la situazione dei conti è il documento contabile che costituisce la base principale per le rilevazioni statistiche nel settore creditizio, si è studiata la possibilità, in collaborazione con la commissione per le statistiche bancarie dell’Istituto centrale di statistica, di adottare un nuovo schema di situazione, uniforme per tutte le aziende di credito (ad eccezione soltanto delle casse rurali ed artigiane e dei monti di credito su pegno di seconda categoria, per i quali rimangono immutati i rispettivi moduli) e avente periodicità trimestrale, periodicità che è stata estesa, dal marzo scorso, alle casse di risparmio che prima presentavano la situazione ogni semestre.

 

 

Il nuovo schema di situazione, nel quale si è cercato di limitare, per quanto possibile, innovazioni radicali, è stato già approvato dal ministero del tesoro a decorrere dalla situazione al 31 dicembre 1946.

 

 

Il riordinamento delle statistiche ha portato, inoltre, alla abolizione di alcuni moduli statistici con conseguente alleviamento di lavoro per le aziende di credito.

 

 

L’ufficio statistica, che è stato riorganizzato e messo in grado di compiere le varie elaborazioni con la maggiore celerità possibile, provvede annualmente al riepilogo di 11 mila moduli a carattere permanente (mensili, trimestrali e annuali) e di 4.400 segnalazioni speciali decadali, a carattere provvisorio.

 

 

Non è stato possibile ricostruire la serie interrotta di tutte le rilevazioni. Poiché la normale periodicità si ha soltanto dal giugno 1945, per il periodo antecedente sono stati riepilogati i dati di fine anno 1943 e 1944, ad eccezione della statistica del credito per rami di attività economica per la quale, dopo la situazione del 30 giugno 1942, si ha quella al 31 dicembre 1945.

 

 

Le statistiche bancarie vengono pubblicate nel Bollettino mensile del Servizio studi economici della Banca.

 

 

Spese per i servizi di vigilanza – Contributi delle aziende di credito. – Nel periodo 1926-1936, nel quale la funzione di vigilanza sulle aziende di credito era svolta dall’istituto di emissione che ne riferiva al ministero dell’agricoltura (per le casse di risparmio e per le casse rurali) e al ministero delle finanze (per tutte le altre aziende di credito) la Banca d’Italia sostiene notevoli spese.

 

 

Essendo inerenti allo svolgimento di una attività di carattere pubblico per conto dello stato, furono sempre considerate ripetibili, e in varie occasioni, infatti, venne prospettata la necessità che in una forma o in un’altra se ne dovesse tener conto. Ma in tale periodo, né la Banca d’Italia, né i due ministeri ritennero di gravare su le aziende di credito.

 

 

Al periodo 1936-1944, nel quale sia le attribuzioni ministeriali sia quelle della Banca d’Italia furono accentrate nell’ispettorato del credito, il quale ritenne opportuno di giovarsi della organizzazione tecnica dell’istituto di emissione, si applica la deliberazione presa dal comitato dei ministri, nella sua prima riunione del 28 marzo 1936, che tutte le spese riguardanti la funzione assegnata all’Ispettorato dovessero essere rimborsate dalle aziende.

 

 

Stabilite le modalità di determinazione dei contributi, le aliquote si rivelarono insufficienti, ma ragioni di opportunità consigliarono di non maggiorarle per non gravare eccessivamente sulle aziende di credito.

 

 

Passate ora al ministero delle finanze e del tesoro le attribuzioni del soppresso Ispettorato, la Banca d’Italia, su istruzioni del ministero stesso, si occupa anche della riscossione dei contributi. Sarà prossimamente disposta l’esazione dei contributi per l’esercizio 1945-46.

 

 

Come è ormai tradizionale, i rapporti con gli uffici ministeriali, con le associazioni di categoria e con gli esponenti delle singole aziende di credito sono stati improntati alla massima cordialità e correttezza.

 

 

Non si può, tuttavia, tacere che l’attuale impostazione delle competenze in materia di vigilanza, suddivise tra il ministero e la Banca, oltreché rendere più gravosa la nostra fatica, si risolve, talvolta, in una certa disorganicità, la quale ostacola quella piena consecuzione dei fini comuni che sarebbe nel nostro desiderio e nelle nostre possibilità.

 

 

L’andamento delle borse valori

 

Nei primi quattro mesi del 1946, periodo di scarsa attività industriale, di lieve declino dei prezzi e di relativa stabilità finanziaria, i corsi dei titoli azionari furono orientati al ribasso; nell’aprile essi toccarono il più basso livello mai avutosi dalla fine del 1943, e per alcuni titoli, livelli inferiori a quelli prebellici. Dal maggio, con movimento analogo a quello delle quotazioni delle valute, e con circa due mesi di precedenza sui prezzi delle merci, i corsi iniziarono una rapida ascesa.

 

 

Il movimento venne favorito dalla emanazione di provvedimenti di legge che restituivano mobilità al mercato (salvo il persistere della nominatività obbligatoria) con l’abrogazione di quelle norme limitative cui già nel 1945 erano stati apportati notevoli temperamenti. Venivano abolite, in ordine di tempo, l’imposta cedolare (decreto legislativo luogotenenziale 14 maggio 1946, n. 403) istituita nel 1935, la sovrimposta di negoziazione (regio decreto legge 14 maggio 1946, n. 420) istituita nel 1941 e le norme restrittive sulla distribuzione dei dividendi delle società commerciali (regio decreto legge 17 maggio 1946, n. 497) introdotte nel 1940, mentre restava in vigore l’imposta straordinaria progressiva sui dividendi di cui ai decreti 5 ottobre 1936, n. 1744, e 19 ottobre 1937, n. 1729. Inoltre, col citato decreto 14 maggio 1946, n. 420, le aliquote dell’imposta di negoziazione, unificate al 6 per mille nel 1942, venivano riportate, con effetto dall’1 gennaio 1946, al 3 per mille per i titoli nominativi ed al 6 per mille per quelli al portatore; col che praticamente l’onere veniva dimezzato, per essere i titoli azionari quasi tutti al nome. Lo stesso decreto abrogava l’imposta surrogatoria sui contratti di (di cui al regio decreto legge 19 agosto 1943, n. 738, art. 14) e modificava la tassa sui contratti di borsa (regolata in precedenza dal decreto legislativo luogotenenziale 25 maggio 1945, n. 301) nel senso di renderne più semplice l’applicazione e di colpire in maggior misura i contratti di maggiore importo.

 

 

In precedenza, il decreto legislativo luogotenenziale 15 febbraio 1946, n. 161 (modificando l’art. 1 del regio decreto legge 7 aprile 1942, n. 322), aveva elevato da 1 a 100 milioni il limite oltre il quale le società erano tenute, fino al 31 dicembre 1946, a chiedere la preventiva autorizzazione del ministro per l’industria ed il commercio (che provvedeva di concerto col ministro del tesoro) per la costituzione, l’aumento di capitale e per l’emissione di obbligazioni; l’autorizzazione era in ogni caso richiesta per le società quotate in borsa. Il decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 4 gennaio 1947, n. 23, che proroga alla fine del corrente anno il precedente termine del 31 dicembre 1946, non mantiene più la distinzione tra società quotate e non, e, pertanto, anche le prime non sono più soggette, al disotto del limite di 100 milioni, alla detta preventiva autorizzazione ministeriale.

 

 

Rimane fermo, peraltro, per le disposizioni degli articoli 2 e 45 del regio decreto legge 17 luglio 1937, n. 1400, l’obbligo della preventiva autorizzazione governativa, qualunque sia l’importo dell’operazione, per le nuove emissioni di titoli già quotati in borsa, ovvero per il loro collocamento attraverso istituti di credito.

 

 

Tale autorizzazione spetta, dopo la soppressione dell’Ispettorato per la difesa del risparmio e l’esercizio del credito, al ministero delle finanze e del tesoro (Ispettorato per la vigilanza sulle aziende di credito).

 

 

Ulteriore impulso al rialzo dava il regio decreto legge 27 maggio 1946, n. 436, il quale consentiva la rivalutazione del reddito ordinario (ai fini dell’imposta straordinaria sui profitti di guerra) e quella delle quote di ammortamento (ai fini di tale imposta e dell’imposta di ricchezza mobile), subordinatamente alla rivalutazione dei cespiti, e stabiliva che i saldi attivi così ottenuti fossero destinati o a copertura di perdite o in aumento del capitale, con l’obbligo, in questo caso, di aumentare contemporaneamente la riserva ordinaria, sì da mantenere immutato il rapporto tra riserva e capitale preesistente all’aumento. Avvalendosi di tale facoltà, molte società preannunciarono numerosi ed importanti aumenti di capitale i quali crearono in borsa, come suole accadere in simili casi, un notevole stato di euforia.

 

 

Tra l’aprile e l’agosto i corsi delle azioni raddoppiavano o più e il valore delle contrattazioni si moltiplicava per otto. Con opposto andamento, i corsi dei titoli di stato toccavano nel settembre i livelli più bassi dell’annata.

 

 

Le tendenze in atto si modificarono in seguito al ripristino, attuato ai primi di settembre, dell’obbligo del deposito preventivo del 25% per le operazioni a termine (che era stato abolito sette mesi prima) ed all’emanazione del decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 13 settembre 1946, n. 241, il quale stabilisce che i saldi di rivalutazione, passati a capitale in virtù del decreto del maggio, siano devoluti allo stato nella misura del 25%.

 

 

Ove siano accantonati a riserva, essi non vengono compresi tra le riserve risultanti dal bilancio agli effetti dell’applicazione dell’imposta progressiva sui dividendi, a meno che la società non devolva a favore dello stato il 15% dei saldi accantonati a riserva, con l’obbligo di corrispondere il residuo 10% al momento in cui i saldi medesimi vengono passati a capitale.

 

 

Alle società è consentito di soddisfare l’onere della devoluzione mediante la consegna di azioni gratuite di valore nominale complessivo corrispondente all’importo dei saldi attivi devoluti, salvo il diritto di riscatto.

 

 

Attraverso alcune alternative di rialzi e ribassi, i corsi delle azioni subirono, tra la fine di agosto e la metà di ottobre, una flessione media del 20% circa; anche le quantità trattate si ridussero nell’ottobre. Le società, dal canto loro, non diedero corso agli aumenti di capitale precedentemente deliberati.

 

 

Tuttavia negli ultimi due mesi dell’anno i corsi delle azioni segnavano un nuovo aumento di oltre il 50% e, in luogo della contrazione di affari che suole accompagnare l’emissione dei prestiti nazionali, anche il volume degli scambi di azioni si riprendeva in novembre e toccava in dicembre la punta massima dell’annata.

 

 

L’ascesa dei corsi proseguiva nei primi mesi di quest’anno, cosicché alla fine di febbraio il loro livello medio era pari a 5 volte i minimi dell’annata precedente, toccati nell’aprile, a 3 volte i corsi del dicembre 1945 ed a 19 volte quelli del dicembre 1938.

 

 

Nella media generale, l’adeguamento dei corsi al ridotto valore della moneta, può dirsi dunque in gran parte avvenuto. Si tratta, tuttavia, di una media di termini molto diversi, perché da un aumento medio di appena 13 volte per i valori delle società elettriche, minerarie e meccaniche, si arriva fino ad uno di quasi 60 volte per i tessili.

 

 

Per contro, le quotazioni dei titoli di stato scendevano quasi continuamente dal gennaio al settembre, sostando soltanto nell’aprile – maggio, in corrispondenza della depressione dei valori azionari. Seguiva in ottobre e novembre, in vicinanza dell’emissione del prestito, un modesto miglioramento, che si è maggiormente pronunciato nello scorso febbraio. Il tasso di capitalizzazione dei titoli di stato è però sempre assai alto; esso supera in media il 5% e si mantiene sopra il 5,50% per i buoni poliennali.

 

 

Il divario tra questi tassi di rendimento e quello medio delle azioni si è ancora accentuato in seguito al rialzo di queste ultime. Il rapporto tra la somma dei dividendi distribuiti, nell’ultimo esercizio chiuso, da un gruppo di 40 principali società ed il valore di mercato delle loro azioni, che al dicembre 1945 era del 0,71%, è sceso nel dicembre 1946 al 0,16% appena.

 

 

Il prestito della ricostruzione

Di tale situazione fu tenuto conto nel determinare le condizioni di emissione del prestito della ricostruzione. Come è noto a quelli tra voi che concorsero a tale determinazione, si ritenne che, nella valutazione corrente tra i risparmiatori al momento del lancio, l’esenzione dall’imposta sul capitale avesse maggiore importanza di un alto saggio d’interesse; che però, anche con siffatta esenzione, il tasso non dovesse stabilirsi inferiore al 3,50%.

 

 

Il Prestito fu emesso (decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 26 ottobre 1946, n. 262, e decreto ministeriale 9 dicembre 1946) dal 20 novembre 1946 al 4 gennaio 1947, al prezzo di 97,50 per ogni 100 lire di capitale nominale. I titoli fruttano l’interesse annuo del 3,50 per cento pagabile in due rate semestrali posticipate all’1 gennaio e all’1 luglio di ciascun anno e saranno ammortizzati nel corso di 30 anni, con estrazioni annuali a partire dall’1 gennaio 1950 e rimborso al valore nominale; essi concorrono, inoltre, a premi per complessivi tre miliardi di lire, in cinque lotti annuali di 600 milioni, che verranno estratti il giorno 20 novembre degli anni 1947, 1948, 1949, 1950 e 1951 e così distribuiti: 10 premi da 10 milioni, 20 da 5 milioni e 400 da 1 milione.

 

 

Furono accettati in sottoscrizione (decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 26 ottobre 1946, n. 262, decreto ministeriale 15 novembre 1946, decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 8 dicembre 1346, n. 453):

 

 

  • il contante e le cedole scadenti entro il primo gennaio 1947 dei titoli al portatore del prestito redimibile 3,50% (1934), della rendita 5% (1935) e del prestito redimibile 5% (1936), nonché dei titoli al portatore e misti dei consolidati 3,50% (1902 e 1906);

 

  • i buoni del tesoro ordinari: per quelli emessi anteriormente all’1 ottobre 1946, al prezzo di lire 100, 99 e 98 a seconda che scadano, rispettivamente, non oltre i mesi di marzo, giugno e settembre 1947; per quelli emessi dall’1 ottobre 1946 in poi, calcolando i buoni al valore nominale, sotto deduzione degli interessi, al rispettivo tasso di emissione, dal giorno d’inizio della sottoscrizione, e cioè dal 20 novembre 1946, fino alla data di scadenza del titolo;

 

 

– i buoni poliennali ai prezzi seguenti:

 

 

1) Buoni del tesoro novennali 5%:

scadenza 15 febbraio 1949 ……………………………………………..

 

a L.

99

2) Buoni del tesoro novennali 5%:

scadenza 15 febbraio 1950 ……………………………………………..

 

»  »

99

3) Buoni del tesoro novennali 5%:

scadenza 15 settembre 1950 …………………………………………..

 

»  »

99

4) Buoni del tesoro novennali 5%:

scadenza 15 aprile 1951 …………………………………………………

 

»  »

98

5) Buoni del tesoro novennali 4%:

scadenza 15 settembre 1951 …………………………………………..

 

»  »

93

6) Buoni del tesoro novennali 5%:

scadenza 15 settembre 1951 …………………………………………..

 

»  »

 

99

7) Buoni del tesoro quinquennali 5%:

scadenza 15 giugno 1948 ……………………………………………….

 

»  »

101

8) Buoni del tesoro quinquennali 5%:

scadenza l’1 aprile 1950 (Serie C/1 a C/33) ………………………

 

»  »

 

99

9) Buoni del tesoro quinquennali 5%:

scadenza l’1 aplile 1950 (Serie C/34 a C/106) ……………………

 

»  »

100,50

 

 

  • i premi attribuiti e da attribuirsi ai buoni poliennali;

 

  • le ricevute rilasciate dalle sezioni di tesoreria per operazioni di conversione o di sottoscrizione di buoni poliennali;

 

  • i buoni del tesoro ordinari e poliennali ammessi alla ricostituzione in dipendenza del decreto legislativo 23 agosto 1946, n. 470.

 

 

Titoli, interessi e premi sono esenti: da ogni imposta reale presente e futura; dalla istituenda imposta straordinaria sul patrimonio; dalla imposta di successione e da quella sul valore netto globale delle successioni; dalla imposta di registro sui trasferimenti a titolo gratuito per atti tra vivi e per la costituzione di dote e del patrimonio familiare; dalla imposta di manomorta. Ai fini delle imposte sopra elencate, i titoli sono esenti da obbligo di denuncia, nè possono formare oggetto di accertamenti d’ufficio, e, ove fossero denunciati, essi non concorrono alla determinazione delle aliquote applicabili per l’imposta straordinaria sul patrimonio) per le quote ereditarie, per l’asse ereditario globale, per l’imposta di manomorta, per i trasferimenti a titolo gratuito per atti tra vivi, nonché per la costituzione di dote e del patrimonio familiare.

 

 

Come vi è noto, il prestito diede 231 miliardi, sottoscritti per 112 miliardi in contante, per 16 miliardi con buoni del tesoro ordinari, per 79 miliardi con buoni del tesoro poliennali e per 24 miliardi con la conversione di debiti statali ratizzati per forniture militari, che erano stati scontati dal Consorzio per sovvenzioni su valori industriali e da esso riscontati presso la Banca d’Italia. Dei 112 miliardi di contante, 10 sono stati sottoscritti dalla Cassa depositi e prestiti.

 

 

Questi risultati non hanno corrisposto a stime avventate che avevano avuto larga diffusione; avventate, perché omettevano di ricercare nell’esperienza dei prestiti precedenti una guida alla previsione e un criterio di giudizio.

 

 

Giova dunque ripetere che le varie emissioni di buoni poliennali susseguitesi in Italia dal 1940 al 1943 hanno ogni volta fornito (salvo l’ultima del giugno 1943 che diede meno di ogni altra) un gettito in contanti e cedole compreso tra un limite minimo del 10% ed uno massimo del 16 per cento della consistenza dei mezzi liquidi all’epoca dell’emissione, che sono costituiti dalla circolazione e dai depositi bancari e che formano il fondo dal quale attingono i sottoscrittori. Questa relativa stabilità di rapporti rivela che, in quegli anni, è stata relativamente costante la misura in cui il pubblico si è indotto (di fronte ad appelli opportunamente distanziati e ad opportune condizioni a tradurre in forma meno liquida una parte delle sue disponibilità monetarie.

 

 

Tale disposizione del pubblico subì, lungo tutto il periodo 1940-43, lo stimolo di particolari condizioni obbiettive, rafforzate dalla politica economica del governo di allora, delle quali dirò nel seguito di questa relazione.

 

 

Se, a valutare il risultato del prestito, assumiamo il rapporto tra il suo gettito in contanti (112 miliardi) e in buoni del tesoro ordinari (16 miliardi) e la consistenza del fondo circolazione depositi dal quale tale gettito è stato attinto – rapporto pari al 12% circa, cioè a 128 miliardi su 1.100 (circolazione 450, depositi bancari 650) – troviamo che esso regge il confronto coi precedenti prestiti di questa guerra ed anche, tenendo conto della minor durata della sottoscrizione, col sesto prestito nazionale del 1919-20, l’ultimo ed il maggiore del ciclo della prima guerra mondiale.

 

 

Il VI prestito nazionale emesso in forza dei decreti 22 settembre 1918, n. 1300, e 24 novembre 1919, n. 2168, aveva le seguenti caratteristiche: consolidato 5 per cento; prezzo di emissione 87,50 con facoltà di pagare lire 35 all’atto della sottoscrizione, lire 30 al 30 aprile 1920 e lire 22,50 al 5 luglio 1920. Furono ammessi alla conversione buoni del tesoro poliennali e, con determinate limitazioni, titoli di stato esteri.

 

 

Il gettito del prestito fu di complessivi 20,6 miliardi nominali di cui 10,3 sottoscritti con buoni del tesoro ordinari e poliennali, 8,2 in contanti (con un incasso quindi di 7 miliardi effettivi) e 2,1 sottoscritti all’estero. Questi risultati furono ottenuti a distanza di un anno e mezzo dall’emissione del quinto prestito. In tale intervallo i depositi presso le banche e le casse postali erano fortemente aumentati (da 12,2 miliardi al 30 giugno 1918 a 17,4 al 30 giugno 1919 e 20,7 al 30 giugno 1920) e forte, era stato il gettito dei buoni del tesoro ordinari: l’aumento tra il settembre 1918, cioè qualche mese dopo il pagamento dell’ultima rata del V prestito nazionale, e il settembre 1919 era stato in media di 0,6 miliardi al mese. È da rilevare che durante il primo semestre 1920, in cui avvennero i pagamenti per le sottoscrizioni del prestito, non vi fu incremento nei buoni del tesoro ordinari, incremento che riprese rapido dopo qualche mese dal pagamento dell’ultima rata. Il gettito mensile dei buoni del tesoro ordinari era in media, prima dell’emissione del prestito (settembre 1918 settembre 1919), di 0,6 miliardi al mese; dopo (settembre 1920 – settembre 1921) esso riprese in ragione di 1,1 miliardi al mese. Nel semestre di sua emissione il prestito raccolse intorno ai 7 miliardi di contanti; quindi – tenendo conto della sua ripercussione nei mesi dell’emissione ed in quelli che immediatamente la precedettero e la seguirono esso in fondo non fece altro che sostituirsi ai buoni del tesoro ordinari.

 

 

In conclusione, il prestito ebbe successo come mezzo di conversione in debito consolidato di debiti fluttuanti; per 10,3 miliardi si ebbe conversione di prestiti già contratti; per 7 miliardi sottoscritti in contanti si ebbe la emissione di un consolidato il quale in sostanza prese il posto dei buoni del tesoro ordinari che avrebbero potuto collocarsi, se il prestito non fosse stato emesso, durante il periodo di sei mesi in cui rimasero aperti la sottoscrizione e il pagamento al prestito stesso.

 

 

Una conferma indiretta di questa constatazione è data dalla limitata ripercussione del prestito sull’andamento della circolazione. In effetti, la flessione che si ebbe tra il dicembre 1919 e il febbraio 1920, riflette unicamente il movimento stagionale che si ebbe anche all’inizio del 1919 e del 1921.

 

 

Poiché alla fine del 1919 la situazione della circolazione, dei buoni del tesoro ordinari e dei depositi era la seguente:

 

 

circolazione ………………. 18,6 miliardi

(5,1

volte l’ammontare del 1914)
depositi bancari …………. 24,8    »

(3,6

»………»………..»…..»
depositi postali ………….. 5,0      »

(2,4

»………»………..»…..»
B.T.O. ……………………… 14,8    »

(39,1

»………»………..»…..»
B.T.P. ……………………… 16,9    »

(15,7

»………»………..»…..»

 

 

ne segue che il prestito nello spazio di oltre sei mesi raccolse in contanti un ammontare pari al 16 per cento della somma circolazione depositi. Questi ultimi, a causa dell’assorbimento del risparmio da parte dello stato, si erano andati sviluppando, dopo il 1914, con notevole ritardo rispetto alla circolazione.

 

 

Dei buoni del tesoro ordinari in circolazione ne furono convertiti meno della metà (5,6 miliardi) mentre dei poliennali ne furono convertiti solo tra  e  (3,1 miliardi su 16,9).

 

 

Nel prestito Soleri il rapporto fu del 16 per cento, grazie a condizioni del tutto eccezionali, specie nella emissione al nord che diede 73 miliardi su 106. Infatti, l’ultimo prestito precedente era stata la modesta emissione di buoni quinquennali del giugno 1943. Nei due anni successivi, lo stato si finanziò con una emissione di biglietti che nelle regioni occupate dai tedeschi non esercitò il suo pieno peso sui prezzi, così per effetto del tesoreggiamento da parte degli agricoltori e delle persone che si trovavano fuori della loro dimora abituale od erano esposte a perderla, come per effetto dell’estendersi dei pagamenti in biglietti relativamente ai pagamenti attraverso banca. Anche la persistenza dei controlli, il processo di consumo di capitali, la riduzione dell’attività industriale a livelli sempre minori fino a toccare minimi intorno all’epoca di emissione del prestito, avevano contribuito a costituire presso le banche ingenti disponibilità liquide, in gran parte riversate nei conti correnti presso la Banca d’Italia, che trovarono impiego nel prestito.

 

 

Secondo le cifre definitive, i 106 miliardi del prestito Soleri sono stati sottoscritti per 68,0 miliardi (cioè per il 64 per cento) da privati, per 25,0 miliardi (24%) da aziende di credito e società finanziarie e di assicurazione e per 13,0 miliardi (12%) da società commerciali e industriali.

 

 

I giudizi sfavorevoli sui risultati del prestito della ricostruzione procedono generalmente da ciò, che nel valutarli si assumono, il più delle volte in modo indistinto od inespresso, termini di riferimento diversi da quello della consistenza dei mezzi liquidi che è stato fin qui usato e che sembra quello meglio atto a chiarire la relazione tra il gettito attuale ed il gettito potenziale di una emissione.

 

 

I riferimenti che più ricorrono sono quelli alle cifre della spesa o del disavanzo di bilancio, e quello al livello dei prezzi, che vale a tradurre i risultati dei vari prestiti in unità monetarie con potere d’acquisto costante.

 

 

Poiché dopo il 1938 i prezzi, le spese statali e il disavanzo sono aumentati più dei mezzi liquidi, la portata della recente operazione, misurata sul metro di quelle quantità, è minore di quella delle emissioni precedenti.

 

 

Traducendo in lire 1938 i gettiti dei prestiti degli ultimi sette anni si ottengono i seguenti risultati:

 

 

 

 

EMISSIONI

 

Gettito contanti  e cedole in lire correnti (milioni)

 

 

Indice dei prezzi

1938=100

 

Gettito in lire

1938

(miliardi)

Febbraio 1940 …………………………………………

10.554

115,5

9,1

  1941 …………………………………………………

15.369

124,8

12,3

Settembre 1941 …………………………………………………

21.000

134,1

15,7

Aprile 1942 …………………………………………………

25.000

147,0

17,0

Settembre 1942 …………………………………………………

19.343

148,3

13,0

Giugno 1943 …………………………………………………

12.000

(1) 228,6

5,3

Apr.-Lugl. 1945 …………………………………………………

105.987

(1) 2.257

4,7

Novembre 1946 …………………………………………………

112.000

3.356

3,3

 

(1) Valori largamante approssimati e, riferentisi a medie annue. (Dal volume del C.I.R. su L’economia italiana nel 1947, pag. 185).

 

 

Nei riguardi della tecnica dell’operazione, è stata oggetto di discussione la base ristretta che venne data al prestito, facendo di questo un appello ad una categoria di contribuenti piuttosto che alla generalità del pubblico. Deve osservarsi, a questo riguardo, che gli importi più elevati di sottoscrizioni, in relazione alla rispettiva consistenza dei depositi, sono stati realizzati dalle banche ordinarie delle regioni industriali dell’Italia nord occidentale ed i meno alti dalle banche popolari e dalle casse di risparmio che servono una clientela più minuta; da ciò sembra potersi indurre che la clausola di esenzione dall’imposta straordinaria patrimoniale abbia agito efficacemente. L’andamento sfavorevole delle sottoscrizioni ai buoni del tesoro ordinari, nei cinque mesi dal settembre 1946 al gennaio 1947, sembra confermare come durante tale periodo – che include i 45 giorni dell’emissione del prestito – il mercato abbia preferito la promessa di eccezionali esenzioni fiscali all’alto tasso di interesse.

 

 

Le altre emissioni di valori e il finanziamento dell’industria

 

A partire dalla metà dell’anno, il mercato finanziario è stato nuovamente chiamato a fornire, come nell’anteguerra, considerevoli mezzi finanziari all’industria, attraverso le emissioni di azioni a pagamento ed il collocamento delle obbligazioni degli istituti di credito industriale.

 

 

L’importo nominale degli aumenti di capitale è stato (secondo rilevazioni della Banca commerciale italiana) di 8.818 milioni (dei quali 6.486 milioni nel secondo semestre) contro 458 milioni nel 1945 e 1.670 milioni nella media del triennio 1936-38. L’importo corrispondente da versarsi in contanti (compresi i sovraprezzi) è stato di 9.518 milioni nel 1946, contro 477 milioni nel 1945 e 1.160 milioni nella media 1936-38.

 

 

La quota emessa gratuitamente è stata di 1.492 milioni. Per circa nove decimi del totale, le emissioni gratuite hanno avuto luogo dopo il maggio, sia per l’influenza del decreto 27 maggio 1946, n. 436, che ammetteva l’utilizzo dei saldi di rivalutazione monetaria, sia per le migliorate condizioni del mercato dei titoli, le quali hanno consentito alle società di abbinare alle operazioni gratuite quelle a pagamento.

 

 

I programmi di aumento gratuito mediante utilizzo dei saldi di rivalutazione 1946, predisposti da molte società in seguito all’emanazione del decreto del maggio, furono in gran parte revocati per l’intervento del decreto 13 settembre 1946, n. 241, che colpì con un’imposta del 25% i saldi predetti portati in aumento del capitale. Attualmente, gli aumenti gratuiti vengono di preferenza eseguiti, in esenzione da tale tributo, utilizzando i saldi di rivalutazione 1936 o riserve precostituite che già hanno scontato gli oneri fiscali.

 

 

L’attività degli istituti di credito industriale ha segnato una viva ripresa. La circolazione di obbligazioni dell’Istituto mobiliare italiano, del Consorzio di credito per le opere pubbliche e dell’Istituto di credito per le imprese di pubblica utilità, che tra la fine del 1938 e la fine del 1945 era aumentata da 7.553 a 14.998 milioni, è salita a fine 1946 a 28.175 milioni.

 

 

Dell’attività del consorzio per sovvenzioni su valori industriali si dice oltre, commentando la voce «Operazioni speciali del Consorzio sovvenzioni su valori industriali» del bilancio della Banca.

 

 

Anche lo stato ha prestato il suo concorso alla copertura dei fabbisogni finanziari dell’industria, sia con l’erogazione di finanziamenti diretti (per 28 miliardi), sia prestando la sua garanzia (per complessivi 31,5 miliardi) alle operazioni di credito mobiliare.

 

 

La cifra di 28 miliardi è la somma dei finanziamenti disposti coi seguenti provvedimenti:

 

 

  • decreto legislativo luogotenenziale 8 maggio 1946, n. 449, che reca provvidenze per il ripristino e la riconversione di imprese industriali di interesse generale o di particolare utilità economica e sociale, e autorizza, pertanto, l’IMI a concedere finanziamenti, entro il limite di 3 miliardi di lire (costituenti una gestione speciale per conto dello stato) ad imprese industriali le quali non abbiano la possibilità di avvalersi, in tutto o in parte, delle provvidenze previste dal decreto l’1 novembre 1944, n. 367; il limite predetto di 3 miliardi è stato successivamente elevato (regio decreto legge 2 giugno 1946, n. 524, e decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 12 dicembre 1946, n. 675) a 13 miliardi. (Con decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 8 gennaio 1947, n. 65, sui fondi autorizzati con il decreto legislativo luogotenenziale 8 maggio 1946, n. 449, e con il regio decreto legge 2 giugno 1946, n. 524, sono stati concessi finanziamenti per l’acquisto di navi all’estero);

 

  • decreto legislativo luogotenenziale 5 marzo 1946, n. 86, che dispone l’aumento, a carico del bilancio dello stato, del fondo di dotazione dell’IRI da 2 a 12 miliardi, e ne regola l’utilizzo;

 

  • decreto legislativo luogotenenziale 14 giugno 1945, n. 365, che, tramite le Intendenze di finanza, ha autorizzato la concessione di anticipazioni fino al limite di 1 miliardo a favore delle aziende industriali di importanza nazionale creditrici dello stato per forniture, prestazioni e servizi anteriori alla data dell’8 settembre 1943. Il limite precedente è stato elevato a 5 miliardi con decreto legislativo luogotenenziale 10 agosto 1945, n. 526.

 

 

La cifra di 31,5 miliardi è la somma delle garanzie concesse coi seguenti provvedimenti:

 

 

  • decreto legislativo luogotenenziale 1° novembre 1944, n. 367 (che riunì e modificò il regio decreto legge 13 dicembre 1943, n. 26-B, e il regio decreto 29 maggio 1944, n. 138), con il quale gli istituti di credito di diritto pubblico e gli enti di diritto pubblico esercenti il credito mobiliare, sono stati autorizzati a concedere anticipazioni ad imprese industriali interessanti in modo specifico il riassetto della vita civile e la ripresa economica dei territori liberati, con la garanzia sussidiaria dello stato. Il limite, fissato in origine a 2 miliardi di lire, è stato successivamente elevato (decreto legislativo luogotenenziale 7 giugno 1945, n. 313, decreto legislativo luogotenenziale 12 aprile 1946, n. 360, decreto legislativo luogotenenziale 2 giugno 1946, n. 562, e decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 12 dicembre 1946, n. 675) a 25 miliardi, dei quali: 500 milioni riguardano le imprese elettriche (decreto legislativo luogotenenziale 15 novembre 1944, n. 397); 1 miliardo, le imprese industriali della Sicilia (decreto legislativo luogotenenziale 28 dicembre 1944, n. 416, e decreto legislativo luogotenenziale 12 aprile 1946, n. 360); 1 miliardo, le imprese industriali della Sardegna (decreto legislativo luogotenenziale 28 dicembre 1944, n. 417, e decreto legislativo luogotenenziale 12 aprile 1946, n. 360); 2 miliardi, la provincia di Napoli (decreto legislativo luogotenenziale 7 giugno 1945, n. 313, e decreto legislativo luogotenenziale 12 aprile 1946, n. 360);

 

  • decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1945, n. 605, in virtù del quale sono state autorizzate anticipazioni, entro il limite di 3 miliardi, alle imprese industriali che non dispongono di mezzi per provvedere alle improrogabili erogazioni occorrenti per la gestione delle rispettive aziende, in considerazione anche delle particolari esigenze inerenti alle attività delle industrie ed in quanto esse non possano avvalersi in tutto o in parte delle provvidenze stabilite dal decreto 14 giugno 1945, n. 365;

 

  • decreto legislativo luogotenenziale 19 ottobre 1945, n. 686, che prevede la concessione da parte dello stato di un compenso di riparazione e di un contributo di interesse per il recupero e la rimessa in efficienza di navi e galleggianti sinistrati, nonché la concessione, da parte degli enti ed istituti di diritto pubblico esercenti il credito navale e peschereccio, dei finanziamenti relativi, con la garanzia sussidiaria dello stato fino ad un ammontare complessivo di 3.500 milioni.

 

 

Una ripresa si è avuta anche nelle operazioni di credito alla proprietà immobiliare. La circolazione di cartelle degli istituti di credito fondiario, di credito agrario di miglioramento e di credito edilizio, che era scesa da 6.468 milioni alla fine del 1938 a 5.373 milioni alla fine del 1945, è risalita a 7.474 milioni alla fine del 1946.

 

 

III

Il bilancio della Banca

Il bilancio al 31 dicembre 1946

La riserva, rappresentata da oro in cassa, al 31 dicembre 1946 ammontava a 523,2 milioni, con un aumento di 60,2 milioni rispetto ad un anno prima.

 

 

Recentemente, a seguito di trattative svoltesi in occasione del recente viaggio del presidente del consiglio a Washington, è stata acquistata dalla Bank of Canada di Ottawa, con l’amichevole assistenza della Federal Reserve Bank di New York, una partita di oro fino in verghe del peso complessivo di 26,6 tonnellate circa, al prezzo di 35 dollari l’oncia, per un ammontare di circa 30 milioni di dollari degli Stati Uniti. L’operazione è stata perfezionata nello scorso febbraio e per il pagamento sono stati utilizzati nostri fondi in dollari esistenti in conto libero a New York.

 

 

L’intera partita trovasi attualmente in un deposito al nome della Banca d’Italia presso la Federal Reserve Bank di New York.

 

 

L’oro depositato all’estero dovuto dallo stato era invariato nella cifra di 1.772,8 milioni.

 

 

La cassa, che figurava nel bilancio del 1945 per l’ammontare di 18.430,9 milioni, di cui 16.820,7 milioni di lire militari alleate e 1.610,2 milioni di altre valute, a fine 1946 sommava alla cifra di 1.132,1 milioni, nella quale, a seguito dell’accordo con le autorità alleate, non erano più comprese le lire militari.

 

 

Il portafoglio su piazze italiane sommava a 44.029,4 milioni con un aumento di 34.283,5 milioni rispetto alla consistenza di un anno prima, che era di 9.745,9.

 

 

L’analisi delle variazioni intervenute nell’anno deve essere riferita alle cifre della seconda decade di dicembre per la quale si dispone del dettaglio delle operazioni che concorrono a formare la consistenza totale del portafoglio.

 

 

Al 20 dicembre 1946 questa consistenza era di 40.335,1 milioni, costituiti per 39.312,4 milioni da operazioni di risconto per 81,0 milioni da residui di sconti diretti, per 11,7 milioni da sconto di note di pegno e per 930,0 milioni da sconti di buoni del tesoro ordinari.

 

 

A sua volta, la consistenza del risconto era formata pe 33.229,4 milioni da effetti riguardanti gli ammassi (30.572,4 grano e 2.657 altri prodotti), per 3.402,3 milioni da risconto a favore del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali e per 2.680,7 milioni da risconto a favore di altre aziende ed istituti di credito.

 

 

I residui di sconti diretti erano costituiti per 32,3 milioni da operazioni in liquidazione di sconto a privati e per 48,7 milioni da sconti ordinari nelle colonie.

 

 

Gli sconti di buoni del tesoro erano costituiti per 806,3 milioni da sconti a favore di aziende di credito e per 123,7 milioni da sconti a privati.

 

 

Rispetto al 1945, l’ammontare del portafoglio ordinario al 20 dicembre segnava un incremento di 30.627,4 milioni, dipendente da aumenti di 1.631,2 milioni nel risconto a favore del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali, di 1.828,5 nel risconto ordinario, di 26.293,1 nel risconto di effetti riguardanti gli ammassi. Aumenti si sono pure verificati negli sconti di buoni ordinari per 867,2 milioni e negli sconti diretti (comprensivi delle note di pegno) per 7,4 milioni.

 

 

Nel complesso, gli impieghi in operazioni di sconto hanno registrato un soddisfacente progresso.

 

 

Tuttavia va osservato che mentre il portafoglio agrario ha assunto una certa consistenza in relazione all’ammasso obbligatorio del grano, lo sconto di carta commerciale presso l’istituto di emissione è stato piuttosto limitato da parte delle banche.

 

 

Il ricorso al risconto è stato invece di una certa entità sia da parte di quegli istituti che non dispongono di mezzi provenienti da raccolta di depositi tra il pubblico, sia da parte di enti di minore potenzialità economica.

 

 

Infatti, il portafoglio riscontato è di prevalente pertinenza di istituti federali di credito agrario, oppure di aziende di credito locali o casse rurali, ed è in gran parte di tipo agrario, in quanto attinente alla produzione o al lavoro agricolo, o rappresentato addirittura da cambiali assistite da privilegio legale o da ipoteca. Ne fanno parte effetti emessi a fronte di anticipi ai consorzi agrari per acquisti di attrezzi, sementi e altre merci da collocare presso gli agricoltori; cambiali rappresentative di credito agrario di esercizio, o per miglioramento di fondi, o per ricostruzione di case coloniche o per riparazione di danni di guerra; cambiali emesse a fronte di anticipi a favore di consorzi di bonifica per lavori da eseguire con contributo dello stato nella misura del 75%.

 

 

Particolare menzione merita il finanziamento dell’ammasso volontario dei bozzoli, nel quale la Banca è intervenuta riscontando le relative cambiali ad alcuni istituti federali. Il portafoglio di questo genere è stato considerato come ordinario perché l’ammasso è stato concretato in seguito a liberi accordi tra le rispettive associazioni dei produttori e dei filandieri e perché, sebbene assistiti dal privilegio sul prodotto, gli effetti mancano della garanzia dello stato, che assiste invece i titoli creati a fronte dei finanziamenti degli ammassi obbligatori.

 

 

Fra gli sconti diretti si è avuta una diminuzione per rientri di finanziamenti relativi al riscatto dell’imposta straordinaria sul capitale azionario e per riduzione di rischi verso la clientela privata. Per contro si è avuto un aumento di 8,2 milioni negli sconti di note di pegno.

 

 

Anche lo sconto di buoni del tesoro ordinari ha registrato un aumento, più sensibile per le aziende di credito che per i privati. Prendendo in considerazione, però, anche gli ultimi dieci giorni dell’anno, l’ammontare a fine 1946 dei buoni del tesoro riscontati, che al 20 dicembre era di 930 milioni, ha superato i 2 miliardi di lire, in seguito all’accoglimento delle richieste presentate da alcune aziende di credito in relazione alle esigenze di chiusura di esercizio.

 

 

La consistenza degli effetti ricevuti per l’incasso era di 5,9 milioni.

 

 

Al 31 dicembre 1946 i corrispondenti incaricati del servizio di incasso degli effetti cambiari nelle località in cui la banca non è stabilita erano 588 e rendevano bancabili 3.323 piazze.

 

 

I depositi a garanzia del mandato di corrispondenza per incasso effetti erano costituiti da titoli per il valore nominale di lire 125 milioni contro 129 milioni al 31 dicembre 1945.

 

 

Le anticipazioni ammontavano a 13.084,1 milioni, con un aumento di 7.641,0 milioni rispetto al 31 dicembre 1945.

 

 

Di essi 13.068,1 rappresentano anticipazioni su titoli di stato e su altri titoli ammessi dalle norme statutarie e di legge, e 16,0 milioni anticipazioni su seta e bozzoli.

 

 

Dei 13.068,1 milioni, 12.898,1 milioni erano costituiti da anticipazioni al saggio normale, 142,9 milioni da anticipazioni cambiarie a saggi vari eseguite dalle filiali coloniali, 5,7 da anticipazioni al 5% su titoli del prestito redimibile immobiliare 1936, 21,4 milioni da anticipazioni a saggio ridotto, di cui 0,4 milioni eseguite al 4% dalle filiali coloniali su titoli di rendita 5%, 20 milioni a favore della Cassa depositi e prestiti e 1 milione a favore del Credito fondiario già della Banca nazionale nel Regno, in liquidazione.

 

 

L’aumento dei saldi debitori delle anticipazioni, essendosi verificato sopratutto a partire dalla seconda metà di novembre, è senza dubbio da collegarsi con le esigenze manifestatesi presso le aziende di credito in relazione al prestito della ricostruzione. Infatti, ove si tenga presente la natura degli scoperti, si osserva che mentre quelli dei privati, pur denotando un lieve incremento, si sono in genere aggirati sui 3 miliardi, quelli delle aziende di credito hanno subito, nel corso dell’anno, talune oscillazioni, il cui livello più alto è stato raggiunto proprio al 20 dicembre. Dopo tale data si è avuta una diminuzione del saldo che potrebbe attribuirsi alla consuetudine di alcune aziende di credito di chiudere l’esercizio senza posizioni debitorie o quanto meno ridotte. Si aggiunga poi che questo fluttuare dei saldi debitori – che è minimo nei confronti dei privati – è da ascrivere al fatto che le banche intrattengono le anticipazioni presso l’istituto di emissione sopratutto allo scopo di costituire una riserva di disponibilità liquide per temporanee ed improvvise occorrenze.

 

 

La massa dei titoli depositati a garanzia è salita da 43.201,9 milioni a fine 1945 a 68.088,5 milioni a fine 1946.

 

 

I prorogati pagamenti alle stanze di compensazione ammontavano a 1.270,3 milioni, con un aumento di 1.029,6 milioni, verificatosi in prevalenza durante il mese di dicembre in relazione al prestito della ricostruzione.

 

 

La voce disponibilità in divisa all’estero, che figurava per la prima volta in bilancio per l’importo di 8.689,4 milioni, riguarda il controvalore in lire delle disponibilità in divisa esistenti all’estero a nome della Banca.

 

 

Tali divise, acquistate dalla Banca d’Italia in gestione Ufficio italiano cambi e derivanti dal ricavo delle esportazioni, da rimesse emigrati e da altre fonti, sono state scritturate in base al cambio ufficiale di lire 100 per il dollaro, lire 403,25 per la sterlina, lire 23,31 per il franco svizzero ecc. La quota addiziona]e del 125% è, come si vedrà appresso, addebitata al conto corrente ordinario dell’U.I.C.

 

 

Gli immobili per gli uffici erano iscritti in bilancio per 22,0 milioni in confronto ai 55,5 milioni dell’esercizio precedente.

 

 

A determinare la variazione hanno concorso per 16,5 milioni pagamenti effettuati in conto o a saldo per nuove costruzioni a Napoli, a Roma (Amministrazione centrale – via dei Serpenti), a Viterbo, a L’Aquila o per restauri a Bologna, Genova, Bolzano, La Spezia, nonché ammortizzazioni per 50,0 milioni.

 

 

Notevole è stata l’opera dell’istituto nello scorso anno per il restauro e la ricostruzione dei fabbricati ad uso delle filiali danneggiati dalla guerra.

 

 

Durante il 1946 è stato infatti completato il ripristino degli stabili delle succursali di Bolzano, Ferrara, Latina, Pescara, Pistoia, Verona e dell’agenzia di Cesena, mentre sono proseguiti alacremente i lavori per quelli di Palermo, Arezzo, Cagliari, Cosenza, La Spezia, Lugo, Messina, Pisa, Sora, Terni, Udine, Viterbo e sono stati altresì iniziati quelli per gli edifici di Caltanissetta e Foggia, oltre le opere di riparazione compiute presso altri stabilimenti che riportarono danni meno gravi.

 

 

L’amministrazione ha portato anche il suo interessamento per la sistemazione delle filiali di Ancona, Pesaro e Trapani per le quali, essendo andati distrutti gli stabili di proprietà, si dovrà provvedere alla costruzione di nuove sedi.

 

 

Nell’anno 1946 la cassa pensioni della Banca, allo scopo di completare il numero di appartamenti necessari per dare sistemazione alle famiglie degli operai delle officine carte valori, che ricondotti da L’Aquila a Roma erano venuti a trovarsi senza abitazione, ha proceduto all’acquisto di altri due stabili, in aggiunta ai due acquistati nell’anno 1945.

 

 

La voce debitori diversi, che raggruppa un numeroso complesso di voci, segnava un aumento di 5.713,7 milioni rispetto al dicembre 1945.

 

 

A determinare l’aumento ha contribuito specialmente il conto corrente ordinario dell’Ufficio italiano dei cambi, che presentava un saldo a debito di questo per 8.097,1 milioni.

 

 

Tale conto, intrattenuto presso la Banca d’Italia, e accreditato degli incassi (versamenti in clearing e controvalore delle divise cedute) e addebitato dei pagamenti (controvalore degli importi versati all’estero in clearing e delle divise estere acquistate) effettuati dalle filiali della Banca d’Italia, le quali, come è noto, svolgono il servizio di cassa per conto dell’Ufficio italiano dei cambi.

 

 

Gli addebitamenti e gli accreditamenti rappresentano i controvalori in lire calcolati sulla base dei cambi ufficiali e le quote addizionali del 125%, le quali, però, decadalmente, dopo gli opportuni controlli, vengono stornate e passate al conto «U.I.C. parziale finanziamento valute gestione cambi».

 

 

Le anticipazioni temporanee e straordinarie al tesoro a fine 1946 erano rimaste invariate agli stessi importi di fine 1945 e cioè a 1 miliardo e a 342.697 milioni rispettivamente.

 

 

La voce emissioni delle forme alleate o per conto di esse riguarda l’importo di 136.651,1 milioni addebitato al tesoro dello stato per le lire militari emesse in Italia dalle autorità alleate e per le somministrazioni di fondi effettuate dalla Banca in moneta nazionale alle forze medesime.

 

 

La circolazione dei biglietti am-lire, conseguente alla occupazione del territorio italiano da parte delle forze alleate, ha potuto essere regolata soltanto con la convenzione 24 gennaio 1946, intervenuta fra il governo italiano e gli alleati; in forza della quale l’emissione delle lire militari è stata, a decorrere dal 1° febbraio, assunta, per conto del governo italiano, dalla Banca d’Italia. Ai sensi della convenzione il governo ha dovuto provvedere affinché la Banca fornisse regolarmente i biglietti metropolitani ed i crediti in lire necessari al fabbisogno delle forze armate alleate in Italia comprese quelle dislocate nella Venezia Giulia.

 

 

Al 1° febbraio 1946, secondo dichiarazione delle autorità alleate, le lire militari messe in circolazione ammontavano a 105.671,6 milioni.

 

 

In tale cifra erano comprese le lire militari esistenti alla stessa data presso le casse della Banca d’Italia per complessivi 20.568,4 milioni.

 

 

Alla suindicata cifra di lire 105.671,6 milioni, devono essere poi aggiunte lire militari per 8.913,6 milioni prelevate successivamente dagli alleati, come si precisa in appresso, dai depositi costituiti presso la Banca e tolte am lire per 132,1 milioni immesse dagli alleati nei depositi medesimi.

 

 

Al 31 dicembre 1946 la situazione delle lire militari alleate era la seguente:

 

 

– biglietti in circolazione …………………

 

87.822,3

milioni
– biglietti giacenti presso le casse della Banca d’Italia……………………  

26.630,8

 

 

»

  114.453,1 milioni
– biglietti esistenti presso la Banca d’Italia in depositi per conto alleati….  

26.934,2

»

 

141.387,3

 

milioni

 

 

L’importo di 114.453,1 milioni, che nel bilancio della Banca è stato addebitato al tesoro nella voce «am lire emesse direttamente dalle forze alleate» è dato pertanto dalle lire militari in circolazione e dalle lire giacenti nelle casse della Banca. Non vi sono compresi i biglietti per 26.934,2 milioni in deposito presso la Cassa centrale della Banca e presso le sedi di Bari, Firenze, Milano e Napoli, in quanto essi costituiscono, ai termini della accennata convenzione, una scorta a disposizione dell’Agenzia finanziaria alleata, con l’intesa che essa venga utilizzata solo nel caso in cui il governo italiano non fosse in grado di fornire le lire metropolitane occorrenti.

 

 

A fronte della voce «am-lire emesse direttamente dalle forze alleate», figura in passivo l’effettivo importo della circolazione delle lire militari, dalla quale vengono detratte le giacenze esistenti presso la Banca d’Italia.

 

 

In conformità alla convenzione, a far tempo dall’1 febbraio sono state iniziate le somministrazioni di fondi alle autorità alleate. Le prime sovvenzioni, e precisamente quelle relative al periodo 1° febbraio -15 marzo 1946, per complessive lire 8.913.664.000, furono, su richiesta degli alleati, ancora effettuate in lire militari, che vennero prelevate dagli anzidetti depositi, nonostante che la Banca avesse dichiarato di essere in grado di potervi far fronte con propri biglietti.

 

 

Le successive somministrazioni di fondi sono state eseguite in biglietti metropolitani e a fronte di esse la Banca ricevette mensilmente la relativa copertura dal tesoro.

 

 

Al 31 dicembre, però, l’importo delle somministrazioni in biglietti metropolitani ammontanti a complessivi 22.198,0 milioni è stato rimborsato al tesoro e a questo addebitato nel conto «fondi in moneta nazionale forniti alle forze alleate».

 

 

La voce impieghi in titoli per conto del tesoro, sulla cui origine si disse nelle precedenti relazioni, rimaneva invariata a 68,0 miliardi.

 

 

La voce servizi diversi per conto dello stato, che appare per la prima volta in bilancio, in 6.666,6 milioni, raggruppa un complesso di conti con il tesoro che, data l’entità raggiunta, si è ritenuto opportuno scorporare dalla voce «debitori diversi», nella quale erano stati compresi nei precedenti esercizi.

 

 

Le partite a debito riguardano per:

 

 

  • 0,4 milioni il conto effetti per pagamenti di varia natura eseguiti per conto del tesoro;

 

  • 674,4 milioni il conto dinari relativo al controvalore in lire dei dinari ritirati nei territori jugoslavi che erano stati occupati dalle forze armate italiane;

 

  • 10,3 milioni il conto dracme per saldo derivante dagli acquisti di dracme a suo tempo effettuati dalla Banca d’Italia d’ordine e per conto del tesoro;

 

  • 1.482,2 milioni il conto speciale oro effettivo per il controvalore dell’oro effettivamente asportato dai tedeschi, calcolato al prezzo di lire 21.381,227 al chilogrammo di fino;

 

  • 4.718,2 milioni il conto esportazione per importi versati dalla Banca d’Italia per conto ed ordine del tesoro agli esportatori italiani nel periodo in cui, in dipendenza dell’armistizio, non erano consentiti ai privati scambi commerciali con l’estero;

 

  • 7.489,2 milioni il conto corrente tesoro dello stato nel quale vengono contabilizzati tutti i rapporti tra la Banca e il tesoro che non hanno corrispondenza nei conti sopra elencati. Fra le voci che hanno maggiormente inciso in tale conto sono da ricordare: gli interessi liquidati semestralmente – al netto degli interessi di competenza incassati sui B.T.O., cui si accennerà appresso – sui conti correnti vincolati fruttiferi delle aziende di credito i quali, in base all’apposita convenzione di cui al decreto legislativo luogotenenziale 21 settembre 1944, n. 265, vengono addebitati al tesoro; le maggiorazioni di tasso a debito del tesoro accertate dalla Banca sulle anticipazioni straordinarie; il compenso per il servizio di tesoreria provinciale.

 

 

Le partite a credito riguardano per:

 

 

  • 4.729,5 milioni il conto importazioni relativo alle somme versate dal tesoro alla Banca d’Italia a titolo di provvisoria copertura degli importi da questa pagati agli esportatori italiani;

 

  • 1.662,8 milioni il conto interessi su impiego depositi vincolati delle banche per risconto degli interessi incassati sui B.T.O. nei quali sono stati investiti parte dei depositi vincolati delle banche;

 

  • 1.315,8 milioni che rappresentano il saldo del conto certificati utili al pagamento dei dazi d’importazione in dipendenza del servizio di rilascio dei certificati doganali d’importazione;

 

 

e, per il restante importo, il conto sconti ai consorzi e altri enti.

 

 

La voce U.I.C. parziale finanziamento valute gestione cambi, che figurava in bilancio per 18.810,0 milioni, rappresentava il saldo del fondo adeguamento prezzi internazionali, costituito, per conto dell’ Ufficio italiano dei cambi, presso la Banca d’Italia, in seguito al decreto legislativo luogotenenziale 4 gennaio 1946, n. 2, e al decreto ministeriale 18 gennaio 1946, che hanno previsto una quota addizionale del 125% ai cambi ufficiali a carico degli importatori italiani ed a favore degli esportatori italiani.

 

 

La voce Istituto per la ricostruzione industriale appariva all’attivo per il consueto importo di 4.708,1 milioni.

 

 

Il fondo ammortamento I.R.I., costituito in applicazione del piano di cui si disse nelle precedenti relazioni, saliva, alla fine del 1946, a 541,6 milioni.

 

 

Le operazioni speciali riscontate dalla Banca d’Italia al Consorzio per sovvenzioni su valori industriali, al 31 dicembre 1946 ammontavano a lire 491,4 milioni, in confronto a lire 40.752,6 milioni dell’anno precedente.

 

 

Come è noto, tali operazioni, effettuate nell’interesse dello stato o con la sua garanzia, vennero compiute dal Consorzio – che fece ricorso al contestuale risconto presso la Banca d’Italia nelle seguenti forme:

 

 

a)    assunzione provvisoria con pagamento alla pari di certificati di credito trentennali 5 per cento emessi inizialmente dal tesoro dello stato per fronteggiare spese di bonifica integrale e poi prevalentemente utilizzati per spese di natura diversa (regio decreto legge 21 maggio 1942, n. 521);

 

b)    erogazioni, a ditte fornitrici dello stato, delle somme di cui risultavano creditrici verso le amministrazioni committenti, sulla base di speciali dichiarazioni di debito emesse a favore delle ditte (regio decreto 15 novembre 1938, n. 1873; regio decreto legge 13 gennaio 1941, n. 27);

 

c)    finanziamenti ad enti e ditte per il compimento di opere pubbliche, per l’esercizio di determinate attività, e, infine, per particolari finalità dichiarate di pubblico interesse (regio decreto legge 17 novembre 1938, n. 1847; legge 27 novembre 1939, n. 1780; regio decreto legge 19 luglio 1941, n. 865; legge 12 febbraio 1942, n. 100).

 

 

Al 31 dicembre 1946 l’importo complessivo degli impieghi del Consorzio, comprese le operazioni non riscontate, era di 6.543,7 milioni, contro 45.039,1 milioni dell’anno precedente, registrando così una diminuzione di 38.495,4 milioni.

 

 

Correlativamente, si è avuta la contrazione da 40.752,6 a 491,4 milioni nelle «operazioni speciali» riscontate dalla Banca d’Italia. Hanno concorso a determinare questa notevole diminuzione: l’incasso di rate di ammortamento e il collocamento presso istituti vari di certificati trentennali 5%, l’assunzione diretta da parte della Banca di certificati trentennali al 5% e il regolamento delle erogazioni eseguite a suo tempo a favore di ditte fornitrici dello stato, mediante titoli del recente prestito redimibile 3,50%, secondo le modalità previste dall’articolo 11 del decreto legislativo del capo provvisorio dello stato del 26 ottobre 1946, n. 262.

 

 

Si riporta qui di seguito il dettaglio delle variazioni sopravvenute nel corso dell’anno nella voce «operazioni speciali»:

 

 

 

(in milioni)

 

Operazioni speciali con il Consorzio sovvenzioni su valori industriali, in essere al 31 dicembre 1945………………………………………………………………………………………

L. 40.752,6

Operazioni speciali di cui al decreto legge 19 dicembre 1936, n. 270, decreto legge 21 maggio 1942, n. 521, e legge l’1 luglio 1941, n. 809.

Diminuzione per:

– incasso di rate ammortamento ……………………

L. 137,5

– collocamento di certificati trentennali 5% presso istituti ed enti vari ..

L. 1.213,2

– assunzione diretta da parte della Banca d’Italia di certificati trentennali 5% in precedenza riscontati………………………………….

L. 14.049,2

 

L. 15.399,9

Operazioni speciali di cui al decreto legge 13 gennaio 1941, n. 27. Diminuzione per:

– incasso rate di ammortamento ………………………………………………….

L. 1.198,3

– regolamento dei residui 23.652,6 milioni con 24.259,0 milioni c. n. prest. ricos. 3,50% a 97,50 ricevuti dalla Banca d’Italia a saldo della sua posizione creditoria …………………………………………………………….

 

23.652,6

 

L. 24.850,9

A riportare ……..

L. 40.250,8

Riporto ……..

L. 40.250,5

 

Operazioni speciali di cui alla legge 12 febbraio 1942, n. 100 (convenzione col tesoro del 9 luglio 1942): ……………………………………………………………………………………….

– diminuzione per incasso residuo …………………………………………………………………………….

L. 10,4

L. 40.261,2

Operazioni speciali in essere al 31 dicembre 1946 ……………………………………………………..

L. 491,4

L. 40.752,6

 

 

Alla fine del 1946 la consistenza del risconto presso la Banca d’Italia delle operazioni ordinarie del Consorzio era salita a 3.361,9 milioni rispetto a 1.943,5 dell’anno precedente.

 

 

Ricondotto ad assolvere la sua specifica funzione nel credito mobiliare a medio termine, il Consorzio ha potuto ulteriormente ampliare il suo concorso alla ricostruzione economica del paese affiancando la ripresa industriale e accordando operazioni ordinarie per l’importo di oltre 7 miliardi, di cui circa 5 miliardi nell’Italia settentrionale e 2 miliardi nell’Italia centro meridionale.

 

 

Le operazioni concesse, alcune delle quali disciplinate con utilizzo graduale in relazione al perfezionamento di impianti o alla reperibilità di materie prime, sono ascese a 619. La loro distribuzione, per rami di industria, è la seguente:

 

 

 

 

Saccarifera ………………………………………………………………..

n.   11

Tessile ………………………………………………………………………

»   45

Enologica ed olearia ……………………………………………………

»   83

Alimentare e conserviera ……………………………………………..

»   56

Metallurgica e meccanica …………………………………………….

»   47

Agricola ……………………………………………………………………..

» 100

Edilizia e materiali da costruzione …………………………………

» 107

Industria del legno ………………………………………………………

»   20

Molitoria e paste alimentari …………………………………………..

»   18

Navale e armatoriale ……………………………………………………

»   16

A riportare ……..

n. 503

Riporto …..

n. 503

Trasporti …………………………………………………………………….

»  11

Mineraria ……………………………………………………………………

»    4

Chimica ……………………………………………………………………..

»  12

Elettrica ……………………………………………………………………..

»    3

Varie ………………………………………………………………………….

»  86

n. 619

 

 

Il complesso delle operazioni è fornito di validi requisiti e i dati appresso riportati dimostrano la elasticità degli impieghi e il regolare andamento dei relativi piani di rimborso:

 

 

 

(in milioni)

 

MESI

 

 

Impieghi del

mese

(nuove operaz.)

 

Incassi del

mese

 

Rimanenza del portafoglio

1945 – Dicembre 31……………

2.255,9

 

1946 – Gennaio ……………………

302,3

75,2

2.483,0

   »    – Febbraio …………………..

393,7

130,8

2.745,9

   »    – Marzo ………………………

458,9

123,9

3.080,9

   »    – Aprile ……………………….

469,3

144,3

3.405,9

   »    – Maggio ……………………..

247,9

262,4

3.391,4

   »    – Giugno ……………………..

593,4

261,6

3.723,2

   »    – Luglio ……………………….

488,7

382,5

3.829,4

   »    – Agosto ……………………..

433,4

352,4

3.910,4

   »    – Settembre ………………

521,8

310,9

4.121,3

   »    – Ottobre …………………….

558,7

381,3

4.298,7

   »    – Novembre …………………

307,5

330,9

4.275,3

   »    – Dicembre ………………….

344,1

282,1

4.337,3

 

 

Si riporta qui di seguito un prospetto riepilogativo della consistenza delle operazioni del Consorzio a fine 1946 a e fine 1945:

 

 

 

 

 

Operazioni

riscontate a saggio

 

Operazioni

non riscontate

Totale fine

1946

Totale

fine1945

 

normale

ridotto

     
 

Ordinarie ………..

3.361,9

975,4

4.337,3

2.256,0

Speciali ………….

20,0

3.381,9

491,4

491,4

1.695,0

2.670,4

2.206,4

6.543,7

42.783,1

45.039,1

 

 

L’anno decorso è stato caratterizzato dall’avvenuto smobilizzo della massima parte delle operazioni speciali, già riscontate presso la Banca d’Italia, e da un apprezzabile incremento delle operazioni ordinarie, anche se contenute in limiti moderati in relazione alle dirette possibilità del Consorzio e ai suoi attuali criteri di impiego, intesi ad assicurare alle aziende una adeguata stabilità di credito senza però gravare in forma esclusiva sulla circolazione dei biglietti.

 

 

Così, mentre al 31 dicembre 1945, su una rimanenza di operazioni per 45.039,1 milioni, ben 42.783,1 milioni erano rappresentati da operazioni speciali, contro soli 2.256 milioni di operazioni ordinarie, al 31 dicembre 1946 le operazioni speciali sono residuate a 2.206,4 milioni e quelle ordinarie sono salite, come esposizione effettiva, a 4.337,3 milioni su 7.206,6 milioni concessi ai vari settori industriali.

 

 

Di conseguenza, anche la situazione di credito e di debito tra la Banca d’Italia e il Consorzio è venuta a modificarsi nettamente, per cui oggi può affermarsi che il risconto del Consorzio presso l’istituto di emissione è costituito quasi interamente da operazioni ordinarie, sebbene l’importo delle operazioni non riscontate si sia sensibilmente elevato per l’intensificato collocamento di buoni fruttiferi.

 

 

I titoli di proprietà della Banca, che al 31 dicembre 1945 sommavano a 888,8 milioni, sono saliti a 37.760,1 milioni, segnando un aumento di 36.871,3 milioni.

 

 

Le variazioni sono state determinate dall’assunzione di certificati trentennali 5 per cento (di cui al decreto legge 19 dicembre 1936, n. 270; decreto legge 21 maggio 1942, n. 521, e legge 11 luglio 1941, n. 809) che erano stati in precedenza riscontati;

 

 

dal regolamento a favore della Banca di lire 23.652,6 milioni, in titoli del nuovo prestito redimibile 3,50%, a copertura delle erogazioni effettuate a suo tempo a ditte fornitrici dello stato, e dalla diminuzione nella consistenza di titoli dello stato o da questo garantiti posseduti in portafoglio.

 

 

Al 31 dicembre 1946 il portafoglio titoli di proprietà della Banca era così costituito:

 

 

– Certificati trentennali:      
valore di bilancio ………………….

13.346,7

 
 

rata di ammortamento incassata nel secondo semestre del 1946………………

121,6

 

 
 

13.225,1

milioni
– Titoli del prestito della ricostruzione:

 
 

valore di bilancio ………………….

23.652,6

  »
– Altri titoli:

 

 
valore di bilancio ………………….

882,4

 

  »
 

37.760,1

milioni

 

 

La circolazione dei biglietti della Banca e delle am lire ammontava alla fine dell’anno a 505.051,9 milioni, con un aumento di 123.002,0 milioni rispetto alla cifra di fine 1945, che era di 382.049,9 milioni.

 

 

L’analisi delle variazioni nelle voci del bilancio che fanno riscontro a tale aumento è contenuta nella tavola inserita alle pagg. 212-13.

 

 

Tra il dicembre 1945 ed il maggio 1946, la circolazione aumentò appena di 3.524,1 milioni, passando a 385.574,0 milioni.

 

 

Il grosso dell’aumento si è dunque prodotto tra il maggio e il dicembre, per le ragioni che analizzerò in seguito. Contabilmente esso è spiegato in modo pieno quando si dice che è stato dovuto per 28,1 miliardi al risconto di carta degli ammassi, per 10,4 miliardi alle somministrazioni di fondi agli alleati, per 26,3 miliardi agli acquisti di valute estere, per 24,3 miliardi a ritiri sui depositi vincolati delle aziende di credito, per 35,5 miliardi alla riduzione nel saldo del conto corrente di tesoreria, e per 0,5 miliardi ad altre operazioni direttamente connesse con il tesoro; si sono inoltre avuti 7,8 miliardi di rientri di biglietti derivanti dalle operazioni commerciali.

 

 

ATTIVO

1945

1946

VARIAZIONE DELLA CIRCOLAZIONE

 

Sottovoci

Voci di bilancio

Sottovoci

Voci di bilancio

aumento

diminuzione

 

Oro in cassa………………………………………

463,0

523,2

60,2

Oro depositato all’estero dovuto dallo stato…..

1.772,8

1.772,8

Portafoglio su piazze italiane……………………

9.745,9

44.029,5

34.283,5

Effetti ricevuti per l’incasso……………………..

10,1

5,9

4,2

Anticipazioni su titoli e merci……………………

5.443,1

13.084,1

7.641,0

Prorogati pagamenti alle stanze di compensazione…………………………………..

240,7

1.270,3

1.029,6

Titoli di stato o garantiti dallo stato di proprietà della Banca……………………………………….

888,8

37.760,1

36.871,3

Operazioni speciali del Consorzio sovv. su valori industriali…………………………………..

40.752,6

491,4

40.261,2

Immobili per gli uffici…………………………….

55,5

22,0

33,5

Istituto per la ricostruzione industriale…………………………………………

4.708,1

4.708,1

 

Anticipazioni al tesoro

– temporanee……………………………………..

1.000,0

1.000,0

– straordinarie…………………………………….

342.697,0

342,697,0

Impieghi in titoli per conto del tesoro…………..

68.000,0

68.000,0

U.I.C. Parziale finanziamento valute gestione cambi………………………………………………

18.810,0

18.810,0

 

Debitori diversi:

– Dispo.lità divise all’estero………………………

4.863,8

8.689,4

3.825,6

– Servizi diversi per conto dello stato………….

4.425,9

6.666,6

2.240,7

– C/c ordinario con U.I.C…………………………

C 14,4

8.111,5

– Altre voci dei debitori diversi…………………..

3.121,9

18.110,9

6.891,9

 

Cassa

16.820,7

1.610,2

1.132,1

478,1

Emissione delle forze alleate o per c/di esse

Am lire emesse dalle forze alleate:

– in circolazione 86.028,9
– in cassa B. I. 16.820,7

 

114.453,1

Fondi in moneta nazionale forniti alle forze medesime…………………………………………

22.198,0

22.198,0

 

 

PASSIVO

 

 

 

 

 

 

 

Vaglia cambiari assegni e altri debiti a vista….

13.448,7

15.098,0

1.649,3

Deposito in C/c…………………………………..

46.865,3

59.118,8

12.253,5

 

C/c vincolati

 

120.174,8

101.158,3

18.171,4

3.995,6

4.840,7

 

Creditori diversi

 

794,0

4.323,6

7.693,9

C/c per il servizio di tesoreria………….……….

20.504,6

10.096,6

10.408,0

Fondo Ammortamento I.R.I. ……………………

478,7

541,6

62,9

Utili netti …………………………………………………..

75,5

70,9

4,6

Capitale sociale ………………………………………..

300,0

300,0

Fondo di riserva ordinario………………………

331,7

378,7

47,0

Fondo di riserva straordinario………………….

245,5

281,0

35,5

 

182.150,8

59.148,8

 

59.148,8

123.002,0

 

 

31 Dicembre 1945: Biglietti B. I. ………………..

269.021,0

Am lire …………………………………………………..

86.028,9

382.049,9

31 Dicembre 1946: Biglietti B. I. ……………..

417.229,6

Am lire ……………………………………………………

87.822,3

505.051,9

Aumento della circolazione …….

123.002,0

 

 

L’erogazione di biglietti corrispondente alle partite fin qui considerate è di 117,3 miliardi (). La differenza di 2,2 miliardi rispetto all’aumento effettivo di 119,5 miliardi è dovuta ai movimenti delle partite minori non considerate.

 

 

L’andamento mensile delle principali partite influenti sulla circolazione è esposto nelle cinque tabelle inserite alle pagg. 226-30.

 

 

Alla fine dello scorso mese di febbraio la circolazione ammontava a 504.350,5 milioni, con una lieve diminuzione di 701,4 milioni rispetto a due mesi prima.

 

 

I vaglia cambiari, assegni e altri debiti a vista della Banca saldavano al 31 dicembre 1946 in 15.098,0 milioni.

 

 

Gli assegni bancari liberi venivano emessi nel 1946 da 2.200 piazze servite da 638 corrispondenti.

 

 

L’aumento del numero delle piazze e dei corrispondenti si inquadra nel piano di diffusione del servizio, che si cerca di promuovere sempre più in relazione alle esigenze e alle possibilità delle singole zone con riguardo alla attuale dislocazione degli sportelli bancari e degli uffici del registro, i quali ultimi dovrebbero avvalersi del nostro assegno per i versamenti in tesoreria.

 

 

All’aumentata emissione e circolazione degli assegni fa riscontro l’accrescimento complessivo dei relativi depositi cauzionali. Dall’1 gennaio al 31 dicembre 1946 tale incremento, sia per conferimento di nuovi mandati, sia sopratutto per aumento delle cauzioni preesistenti, ha sommato a lire 1.598 milioni di titoli al valore nominale, raggiungendo l’importo globale di lire 3.617 milioni.

 

 

I depositi in conto corrente a vista sommavano a 59.118,8 milioni con un aumento di 12.253,5 milioni rispetto al 1945.

 

 

L’incremento dei depositi in conto corrente – nei quali sono compresi per cospicuo ammontare anche depositi infruttiferi – oltre che dalla notevole liquidità del mercato monetario è derivato anche da vari servizi che, per conto di terzi, l’istituto di emissione ha assunto o ampliato in relazione alla situazione contingente.

 

 

Al 31 dicembre 1946 i saldi dei conti, per grandi categorie, esistenti presso l’istituto di emissione erano i seguenti:

 

 

– Conti correnti di aziende di credito ………..

20.052,9

milioni
– Conti correnti di enti morali ………………….

1.996,4

»

– Conti correnti A.F.A., U.N.R.R.A. e I.C.E..

32.612,7

»

– Altri conti correnti ……………………………….

4.456,8

»

 

59.118,8

milioni

 

 

I conti correnti di aziende di credito, sui quali viene corrisposto l’interesse di 0,50%, hanno registrato un incremento di 8.390,2 milioni, che, in massima parte, si è verificato nel corso del mese di dicembre.

 

 

I conti correnti di enti morali, che fruiscono dello stesso tasso d’interesse delle aziende di credito, hanno invece segnato una diminuzione di 292,3 milioni, essendo discesi da 2.288,7 milioni a 1.996,4 milioni.

 

 

I conti correnti vincolati erano complessivamente 105.999,0 milioni con una diminuzione di 18.171,4 milioni rispetto al 1945.

 

 

Il totale era costituito per 4.840,7 milioni da saldi di conti di varia natura e per 101.158,3 milioni da saldi di conti vincolati fruttiferi con le aziende di credito.

 

 

Nel corso del 1946 la consistenza dei conti vincolati delle aziende di credito, cui agiscono disponibilità in massima parte di grandi istituti (esclusi alcuni di essi) e, in misura assai più modesta, di istituti minori, ha avuto un alterno andamento.

 

 

Ad una prima lieve flessione verificatasi nel marzo, ha fatto seguito un continuo accrescimento delle consistenze che, al 20 ottobre, con l’importo di 142.594,2 milioni, hanno raggiunto la punta massima dell’anno. Successivamente, i prelevamenti, sensibili nel novembre, hanno assunto maggiore intensità nel dicembre, cioè durante il periodo di sottoscrizione al prestito della ricostruzione, tanto che, a fine 1946, i ritiri, in confronto al 20 ottobre, avevano raggiunto 41.435,9 milioni. Durante tutto il 1946 la diminuzione complessiva è stata di 19.016,5 milioni.

 

 

I saldi dei vari conti vincolati a favore delle aziende di credito erano, al 31 dicembre 1946, i segnenti:

 

 

 

1946

 

1945

 

(in milioni)

 

– Conti correnti con preavviso di 8 giorni (2,50%)………………………………

93,3

50,8

 

– Conti correnti con preavviso di 15 giorni (3%) ed altri conti al 3%………..

14.556,1

20.928,3

 

– Conti correnti vincolati a 4 mesi (3,50%) ……………………………………….

560,5

6.572,8

 

– Conti correnti vincolati a 6 mesi (4%) ……………………………………………

85.948,4

101.158,3

92.622,9

120.174,8

 

 

Benché dal confronto non sia possibile desumerlo, giova accennare che nel corso dell’anno, e precisamente quando il totale dei conti vincolati aveva raggiunto la punta massima, le disponibilità si erano prevalentemente concentrate nei conti con preavviso di 15 giorni e in quelli vincolati a 6 mesi, ove, tra l’altro, erano affluite quelle dei conti vincolati a 4 mesi, la cui consistenza, tra i due periodi considerati, ha registrato una sensibile riduzione.

 

 

Con decreto ministeriale 12 gennaio 1946, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 25 stesso mese, n. 21, i tassi d’interesse sui depositi in conto corrente delle aziende di credito con vincolo a 4 e 6 mesi sono stati ridotti rispettivamente dal 4 e 4,50% al 3,50 e 4%. La riduzione, che cominciò ad essere applicata sui nuovi conti aperti successivamente al 25 gennaio, e, per i preesistenti, a decorrere dalla scadenza dei vincoli che erano in corso a tale data, ebbe lo scopo di avvicinare la rimunerazione corrisposta su tali conti a quella vigente per i conti intrattenuti direttamente presso il tesoro.

 

 

Il conto corrente del tesoro presentava, a fine 1946, un saldo creditore di 10.096,6 milioni contro 20.504,6 milioni dell’anno precedente.

 

 

Le 300.000 quote di partecipazione al capitale sociale della Banca d’Italia appartenevano, al 31 dicembre 1946, a 100 enti ed istituti così suddivisi:

 

 

Casse di risparmio

n. 78

per quote

n. 178.000

Istituti di credito di diritto pubblico e banche d’interesse nazionale

n. 11

per quote

n. 75.500

Istituti di previdenza

n. 1

per quote

n. 15.000

Istituti di assicurazione

n. 10

per quote

n. 31.500

Totale partecipanti

n. 100

per quote

n. 300.000

 

 

Delle 500.000 azioni che già costituivano il capitale azionario della Banca d’Italia, ne risultavano rimborsate, alla stessa data, 499.420 e un terzo.

 

 

Il fondo di riserva ordinario, costituito dal residuo delle riserve all’atto del nuovo ordinamento dell’istituto, dagli accantonamenti a carico dei bilanci dal 1936 al 1945 ed aumentato dei frutti d’investimento, ammontava a lire 378.757.210,77 e il fondo di riserva straordinario, formato dagli accantonamenti per gli esercizi dal 1936 al 1945 e dagli interessi d’investimento, ammontava a lire 280.951.090,52.

 

 

Il conto profitti e perdite

Il conto «profitti e perdite» dà, per l’esercizio 1946, le seguenti risultanze:

     

1945

(in milioni)

 

Utili lordi accertati ……………………………………….

L.

4.409.383.191,04

2.146,63

Spese e perdite liquidate ……………………………..

»

4.338.470.611,70

2.094,33

Utile netto …..

L.

70.912.579,34

52,30

 

 

Gli utili provengono da:

 

 

     

1945

(in milioni)

 

Utili sulle operazioni di sconto ………………………..

L.

897.270.808,01

335,82

Interessi sulle anticipazioni ……………………………

»

350.064.559,84

204,49

Interessi sui prorogati pagamenti alle stanze di compensazione……………………………………..

»

15.733.376,55

7,10

Interessi sui conti attivi ………………………………….

»

2.478.837.526,95

1.472,44

Provvigioni diverse ……………………………………….

»

192.637.922,05

57,36

Utili sulle operazioni con l’estero …………………….

»

27.621.775,65

2,20

Benefizi diversi …………………………………………….

»

40.744.914,92

13,72

Interessi sui fondi pubblici ……………………………..

»

399.062.943,04

50,79

Proventi degli immobili di proprietà………………….

»

5.640.169,70

2,56

A riportare ………

L.

4.407.613.996,71

2.146,48

Riporto ………

L.

4.407.613.996,71

2.146,48

 

Interessi sul fondo di dotazione delle colonie …..

»

80.000,00

Utili gestione residui attivi dei cessati istituti …….

»

1.689.194,33

0,15

 

Totale ………

L.

4.409.383.191,04

2.146,63

 

 

Le spese e i tributi sono così ripartiti:

 

 

       

1945

(in milioni)

Spese di amministrazione:

   
per la Banca ………………………………………………..

L.

1.804.009.468,13

597,80

per le stanze di compensazione …………………….

»

53.245.155,08

17,18

 

per la vigilanza …………………………………………….

»

78.372.234,68

29,53

per la tesoreria …………………………………………….

»

220.074.227,58

165,95

diverse ……………………………………………………….

»

467.810.418,39

599,56

 

Totale ………

L.

2.624.111.503,86

1.410,02

 

Spese per i funzionari …………………………………..

»

9.637.486,04

5,19

 

Spese per movimento valori ………………………….

»

30.215.502,07

16,87

Spese per la fabbricazione dei biglietti ……………

»

1.225.417.220,10

209,25

Spese per gli immobili di proprietà ………………….

»

28.104.932,18

8,37

Spese, bolli e provvigioni s/ operazioni con l’estero ………………………………………………………..

»

434.734,90

Imposte e tasse diverse ………………………………..

»

98.981.426,62

47,95

Sofferenze dell’esercizio ……………………………….

»

118.138,75

0,03

Ammortizzazioni diverse ……………………………….

»

220.665.055,40

214,50

Interessi ed annualità passivi …………………………

»

65.045.191,38

149,10

Erogazioni per opere di beneficenza e di pubblica utilità ……………………………………………..

»

2.675.496,85

2,64

Contributi per la cassa pensioni ……………………..

»

18.003.923,55

15,41

Fondo di previdenza del personale avventizio

»

15.000.000,-

15,—

 

Totale ……….

L.

4.338.470.611,70

2.094,33

Utile netto ……….

»

70.912.579,34

52,30

Tornano ………

L.

4.409.383.191,04

2.146,63

 

 

L’utile netto dell’esercizio 1946 è stato superiore a quello del precedente esercizio.

 

 

La gestione è stata invero contrassegnata da un soddisfacente aumento delle operazioni attive e da un continuo aumento delle spese. Tra queste, malgrado che si sia avuto un accresciuto rimborso nelle spese per il servizio di tesoreria, deve essere ricordato l’aumento nelle spese di amministrazione dipendente dagli aumenti di stipendio, indennità ecc. accordati al personale, da maggiori spese di riscaldamento degli stabilimenti e dell’amministrazione centrale della Banca, da maggiori assegni ai pensionati ed elargizioni a famiglie di impiegati defunti e da spese di varia natura.

 

 

Come nell’esercizio precedente, anche nel 1946 i profitti conseguiti hanno consentito di provvedere nuovamente alle normali ammortizzazioni ed ai consueti accantonamenti.

 

 

Tra le altre variazioni nelle rimanenti voci del conto profitti e perdite, sono da rilevare la diminuzione di 84,0 milioni negli interessi ed annualità passivi; l’aumento di 1.016,2 milioni nelle spese di fabbricazione dei biglietti, per i maggiori costi e l’accresciuta produzione; l’aumento di 561,5 milioni negli utili derivanti dalle accresciute operazioni di risconto relative ad effetti sugli ammassi e, infine, l’aumento di 1.015,1 milioni negli interessi sui conti attivi dipendente per la quasi totalità dalla maggiorazione del tasso corrisposto alla Banca quale compenso sulle anticipazioni straordinarie concesse al tesoro.

 

 

La ripartizione degli utili

 

A norma dell’art. 54 dello statuto, delle disposizioni ministeriali e della proposta dei sindaci, la ripartizione dell’utile netto riferentesi all’esercizio 1946, che sottopongo all’assemblea, è la seguente:

 

 

Al fondo di riserva ordinario nella misura del 20%…………………………………………………………..  

L.

14.182.515,85

Al fondo di riserva straordinario nella misura di un ulteriore 20%………………………………………….

»

14.182.515,85

Al Credito fondiario della già Banca nazionale nel Regno, in liquidazione, per annualità di interessi 4% relativa alle riserve trasferite alla Banca d’Italia nell’esercizio 1913……………….

»

281.060,—

Ai partecipanti, nella misura del 6% sul capitale

»

18.000.000,—

Allo stato la rimanenza di…………………………

»

24.266.487,64

 

Totale utili netti ………

 

L.

70.912.579,34

 

 

Il miglioramento del conto economico nel 1946 ha consentito nuovamente la devoluzione del 20% degli utili al fondo di riserva straordinario.

 

 

IV

Considerazioni finali

 

Questa è l’analisi contabile delle principali partite del bilancio dell’istituto di emissione. Importa ora compiere dei fatti accaduti una analisi che direi economico morale. Come mai accadde che il governatore della Banca d’Italia abbia assistito, senza reagire, ad un aumento della circolazione tra la fine del maggio 1946 ed il 20 gennaio 1947 – data successiva alla chiusura del Prestito della ricostruzione – uguale a 103.817 milioni di lire, quasi esattamente corrispondente (ove non si tenga conto, quasi fosse una partita di giro, dei 10 miliardi sottoscritti dalla Cassa depositi e prestiti) ai 102 miliardi del gettito in contanti del prestito della ricostruzione? L’impressione prima che queste due cifre fanno su chi le legge è che da un lato il tesoro dello stato abbia potuto impinguare di 102 miliardi il suo conto corrente presso la tesoriera Banca d’Italia; e che avendo questa inoltre nel periodo considerato emesso quasi 104 miliardi di lire di biglietti in più, si sia creato un fondo di 206 miliardi, il quale dovrebbe essere a disposizione del tesoro per il raggiungimento dei fini della ricostruzione. Noi sappiamo già che, contabilmente, ciò non accadde.

 

 

Usando per un momento un linguaggio informato ai concetti di colpa e di responsabilità, si deve constatare:

 

 

1)    che il tesoro dello stato non ha alcuna responsabilità diretta dell’aumento della circolazione: fra anticipazioni ordinarie e straordinarie, ex operazioni speciali del Consorzio valori (che erano una forma particolare di anticipazioni al tesoro), contropartita delle am lire in emissione (altra specie di anticipazioni della Banca allo stato) e servizi diversi minori, il tesoro era debitore della Banca per 502.604 milioni alla fine del maggio 1946 e per 503.401 milioni al 20 gennaio 1947. La differenza in più (di 797 milioni in cifra assoluta e di poco più dell’1 per mille in proporzione relativa) è davvero troppo piccola cosa e così agevolmente spiegabile per l’intreccio delle variazioni delle numerosissime partite di dare e di avere fra il tesoro e la Banca, per potere, su di essa, istruire un’istanza di responsabilità a carico di un qualunque ministro del tesoro;

 

2)    che la Banca d’Italia, non ha, come istituto esercente secondo l’indole sua il credito, neppure essa alcuna responsabilità nell’incremento della circolazione. Raccolse, tra il maggio 1946 ed il 20 gennaio 1947, 11.327 milioni in più di depositi volontari sotto varie forme e ne impiegò in più solo 8.577, ritirando perciò 2.750 milioni dalla circolazione. Il governatore della Banca d’Italia è dunque perlomeno altrettanto innocente quanto il ministro del tesoro dell’aumento della circolazione;

 

3)    di chi dunque la colpa? Per ora, contentiamoci di attribuirla a quel personaggio misterioso che gli antichi chiamavano fato; e del quale in seguito si cercherà di precisare le caratteristiche attuali.

 

 

Poteva la Banca, innanzitutto, rifiutare di somministrare agli alleati i fondi in biglietti, che essi si procacciavano prima emettendo am-lire? La convenzione del 24 gennaio gliene faceva obbligo; e quella convenzione era parsa ed era di fatto vantaggiosa al paese, consentendo all’istituto di emissione di controllare compiutamente la circolazione. Tanto meno poteva poi l’istituto nostro rifiutarsi di consegnare biglietti suoi, in quanto oggi la consegna è la premessa necessaria per l’accreditamento in dollari negli Stati Uniti. Tra il maggio ed il 20 gennaio le somministrazioni aumentano da 11.834 a 22.492 milioni, con un sovrappiù di 10.658 milioni di lire.

 

 

Poteva la Banca rifiutare di riscontare la carta degli ammassi obbligatori di cereali ed altre derrate ritenute di prima necessità? La legge attribuisce ai consorzi la funzione degli ammassi e li costringe a procacciarsi i mezzi di pagare subito agli agricoltori il prezzo del frumento mercé sovvenzioni di istituti autorizzati al finanziamento degli ammassi. Ma poiché cotali istituti non posseggono mezzi sufficienti, essi sono costretti a riscontare la carta presso l’istituto di emissione. Nel periodo anzidetto, l’importo dei risconti ammassi obbligatori – il risconto degli ammassi volontari è una ordinaria operazione commerciale e fu inclusa nelle operazioni comuni di banca di cui si disse dianzi – crebbe di 31.377 milioni di lire.

 

 

Poteva la Banca rifiutarsi di versare all’Ufficio italiano dei cambi le somme ad esso bisognevoli per acquistare dagli esportatori italiani i dollari, le sterline, i franchi svizzeri, i pesos e le altre valute pregiate che gli esportatori sono dalla legge obbligati a consegnare al cambio ufficiale (oggi sino a concorrenza del 50 per cento) all’Ufficio italiano dei cambi? Tanto varrebbe dire che si proibiscono le esportazioni; ché gli industriali italiani, esportando, hanno d’uopo di ricevere il prezzo in lire delle merci esportate per far fronte all’acquisto delle materie prime, al pagamento dei salari, alle spese generali e diverse. Dalla solita fine maggio 1946 al 20 gennaio 1947 sono 27.607 milioni di lire uscite per tal modo dalle casse della Banca. Supporre che la Banca potesse comportarsi diversamente voleva dire che la Banca poteva arbitrariamente sospendere l’attività delle industrie esportatrici, mettere sul lastrico centinaia di migliaia di lavoratori, privare il paese di crediti notabilissimi in valute pregiate, che già oggi stanno diventando strumento necessario per lo svolgimento della vita economica italiana.

 

 

Ancora: poteva la Banca, depositaria per legge di ingenti depositi degli istituti di credito, rifiutarsi a rimborsarli, quando a loro volta le banche dovevano far fronte a ritiri di depositi da parte della clientela? A citare solo un esempio, certo il più caratteristico, come avrebbero potuto i risparmiatori sottoscrivere al prestito della ricostruzione, se non ritirando parte dei loro depositi presso banche e casse di risparmio? Nonostante superficiali impressioni contrarie, il più dei risparmiatori non tiene in casa biglietti inoperosi; ma li deposita presso enti in cui abbia fiducia; e per sottoscrivere a prestiti, deve forzatamente trarre sul proprio conto corrente; ed a loro volta le banche debbono trarre sui loro depositi vincolati presso l’istituto di emissione. Se questo non avesse eseguito il rimborso, avrebbe compiuto atto illegale ed estremamente nocivo, scatenando una crisi di credito la quale avrebbe cagionato danni gravissimi al paese. La vita economica dipende dall’adempimento dei propri impegni da parte di chi gode della fiducia altrui, ed al vertice degli enti il cui credito deve essere immacolato sta l’istituto di emissione. Perciò questo ha rimborsato in passato, anche in tempi di moratoria, e rimborserà in futuro ad ogni costo i depositi ricevuti. Dal maggio al 20 gennaio i depositi vincolati delle aziende di credito scemarono da 125.447 a 90.986 milioni di lire, con una riduzione di 34.461 milioni di lire.

 

 

Finalmente, può la Banca d’Italia, tesoriera dello stato, rifiutare di versare allo stato le somme che questo ha a suo credito nel conto corrente presso la Banca medesima? E chi terrebbe un conto corrente se non potesse tirare su di esso a suo piacimento? Perciò la Banca, che al 31 maggio 1946 aveva un saldo debitore verso il tesoro di 45.598 milioni di lire, pagò al tesoro o su ordine di esso l’importo necessario a ridurre quel saldo a 41.042 milioni, con una uscita di 4.556 milioni di lire.

 

 

 

OPERAZIONI DELLA BANCA D’ITALIA

 

 

a) Operazioni commerciali di impiego e di raccolta

(milioni di lire)

 

 

DI IMPIEGO

 

 

 

 

DATA

(fine mese)

Portafoglio sconti ammassi volontari altre operazioni

Anticipazioni su titoli e merci

Prorogati pagamenti Stanze di compensazione

 

TOTALE

VALORI ASSOLUTI

Numeri indici della consistenza

Consistenza

Variazione rispetto al maggio

1

2

3

4

5 = 2+3+4

6

7

1946 – Maggio …………..

4.275

6.341

318

10.934

100

   »    – Giugno …………..

4.772

7.455

573

12.800

+ 1.866

117,1

   »    – Luglio …………….

4.474

6.422

120

11.016

+ 82

100,7

   »    – Agosto …………..

7.227

6.669

115

14.011

+ 3.077

128,1

   »    – Settembre ………

8.495

7.984

338

16.817

+ 5.883

153,8

   »    – Ottobre ………….

8.422

8.633

453

17.508

+ 6.574

160,1

   »    – Novembre ………

6.690

10.393

448

17.531

+ 6.597

160,3

   »    – Dicembre ……….

7.084

13.084

1.270

21.438

+ 10.504

196,1

 

 

1947 – Gennaio 20…….

7.590

10.505

1.416

19.511

+ 8.577

178,4

»    –          »       31……

7.590

10.265

1.352

19.207

+ 8.273

175,7

 

 

 

 

 

 

DI RACCOLTA

 

Eccedenza delle operazioni di raccolta su quelle di impiego

 

 

 

DATA

(fine mese)

Vaglia e assegni

Depositi in conto corrente

Conti correnti vincolati

 

TOTALE

VALORI ASSOLUTI

Numeri indici della consistenza

Consistenza

Variazione rispetto al maggio

8

9

10

4

11 = 8+9+10

12

13

14

1946 – Maggio …………

12.108

46.785

1.765

60.658

 

100

49.724

   »    – Giugno …………

13.808

49.021

4.078

66.907

+ 6.249

110,3

54.107

   »    – Luglio …………..

15.651

51.102

2.072

68.825

+ 8.167

113,5

57.809

   »    – Agosto …………

14.083

50.034

1.889

66.006

+ 5.348

108,8

51.995

   »    – Settembre …….

14.469

49.308

2.158

65.935

+ 5.277

108,7

49.118

   »    – Ottobre …………

15.094

49.160

2.227

66.481

+ 5.823

109,6

48.973

   »    – Novembre …….

14.783

51.199

2.409

68.391

+ 7.733

112,7

50.860

   »    – Dicembre ……..

15.098

59.119

4.841

79.058

+ 18.400

130,3

57.620

 

 

 

 

 

 

 

 

1947 – Gennaio 20……

15.195

54.296

2.494

71.985

+ 11.327

118,7

52.474

»    –          »       31…..

15.084

54.595

2.109

71.788

+ 11.130

118,3

52.581

 

 

b-1) Operazioni di impiego di interesse generale

(milioni di lire)

 

 

 

 

 

 

 

 

DATA

(fine mese)

Titoli di stato o garantiti dallo stato di proprietà

 

Operazioni speciali  Consorzio sovvenzioni valori industriali

 

 

TOTALE

 

Anticipazioni ordinarie e straordinarie al tesoro

 

Tesoro dello stato contropartita am-lire in emissione

 

 

Servizi diversi per conto dello stato

(1)

 

 

TOTALE

 

VALORI ASSOLUTI

Numeri indici della consistenza

Consistenza

Variazione rispetto al maggio

 

15

16

17

18 = 16+17

19

20

21

22 = 18+19+20+21

23

24

1946 – Maggio …….

886

40.280

41.166

343.697

114.585

3.105

502.553

100 

   »    – Giugno ……..

14.935

25.988

40.923

343.697

114.454

5.059

504.133

+ 1.580

100,3 

   »    – Luglio ……….

14.813

25.039

39.852

343.697

114.453

4.519

502.521

– 32

100,0

   »    – Agosto ……..

14.813

24.634

39.447

343.697

114.453

4.212

501.809

– 744

99,9

   »    – Settembre …

14.811

24.529

39.340

343.697

114.453

4.736

502.226

– 327

99,9

   »    – Ottobre …….

14.810

24.183

38.993

343.697

114.543

3.769

500.912

– 1.641

99,7

   »    – Novembre …

14.810

24.154

38.964

343.697

114.453

2.177

499.291

– 3.262

99,3

   »    – Dicembre ….

37.760

491

38.251

343.697

114.453

6.667

503.068

+ 515

100,1

 

 

1947 – Gennaio 20

37.634

491

38.125

343.697

113.896

7.683

503.401

+ 848

100,2

»    –          »       31……………

37.634

491

38.125

343.697

113.896

7.472

503.190

+ 637

100,1

 

(1) Al netto spese fabbricazione biglietti.

 

 

b – 2) Altre operazioni di impiego di interesse generale

(milioni di lire)

 

 

 

 

DATA

(fine mese)

Somministrazioni di fondi agli alleati

Risconto ammassi obbligatori

ACQUISTI DI VALUTA

 

TOTALE

C/c con l’Ufficio italiano dei cambi

Disponibilità all’estero

U.I.C. c/ fondo adeguamento

 

TOTALE

 

VALORI ASSOLUTI

 

Numeri indici della consistenza

Consistenza

Variazione rispetto al maggio

25

26

27

28

29

30

31=28+29+30

32 = 26+27+31

33

34

1946 – Maggio ………..

11.834

5.097

1.874

5.351

2.093

9.318

26.249

100 

   »    – Giugno …………

12.207

5.332

2.336

5.654

3.570

11.560

29.099

+ 2.850

110,9 

   »    – Luglio …………..

14.616

12.064

3.539

5.991

5.648

14.998

41.678

+ 15.429

158,8

   »    – Agosto …………

17.448

19.022

4.587

6.354

7.918

18.859

55.329

+ 29.080

210,8

   »    – Settembre …….

19.846

23.494

4.871

8.170

11.115

24.156

67.496

+ 41.247

257,1

   »    – Ottobre ………..

19.846

24.994

8.244

8.586

12.912

29.742

74.582

+ 48.333

284,1

   »    – Novembre …….

21.166

25.711

8.637

8.224

16.820

33.681

80.558

+ 54.309

306,9

   »    – Dicembre ……..

22.198

33.229

8.097

8.689

18.818

35.604

91.031

+ 64.782

346,8

 

 

1947 – Gennaio 20…..

22.492

36.474

10.260

8.874

17.791

36.925

95.891

+ 69.642

365,3

»    –          »       31…..

23.048

36.474

7.875

8.995

19.280

36.150

95.672

+ 69.423

364,5

 

 

c) Operazioni di raccolta di intresse generale

(milioni di lire)

 

 

 

 

 

 

 

DATA

(fine mese)

 

C/C DI TESORERIA

 

DEPOSITI VINCOLATI DELLE AZIENDE DI CREDITO

 

 

TOTALE

Saldo contabile

Somministrazioni di fondi agli alleati addebitate al c/c di tesoreria(*)

Saldo, depurato  delle somministrazioni di fondi agli alleati

 

 

Consistenza

Impieghi in titoli (B.T.O.) per conto del tesoro

 

Al netto degli impieghi in titoli per conto del tesoro

C/ Divisa estera di proprietà del tesoro

 

VALORI ASSOLUTI

 

 

Numeri indici della consistenza

Consistenza

Variazione rispetto al maggio

35

36

37

38 = 36+37

39

40

41 = 39-40

42

43 = 38+41+42

44

45

1946 – Maggio ……..

33.764

11.834

45.598

125.447

68.000

57.447

103.045

100

   »    – Giugno ……..

25.106

12.207

37.313

126.326

68.000

58.326

95.639

– 7.406

92,8

   »    – Luglio ……….

18.526

14.616

33.142

129.586

68.000

61.586

94.728

– 8.317

91,9

   »    – Agosto ………

15.106

17.448

32.554

135.304

68.000

67.304

99.858

– 3.187

96,9

   »    – Settembre …

2.658

19.846

22.504

141.499

68.000

73.499

96.003

– 7.042

93,2

   »    – Ottobre ……..

D 2.992

19.846

16.854

140.942

68.000

72.942

1.537

91.333

– 11.712

88,6

   »    – Novembre …

D 8.419

21.166

12.747

137.363

68.000

69.363

793

82.903

– 20.142

80,5

   »    – Dicembre …..

10.096

10.096

101.158

68.000

33.158

794

44.048

– 58.997

42,7

 

1947 – Gennaio 20

41.042

41.042

90.986

68.000

22.986

796

64.824

– 38.221

62,9

»    –          »       31

32.035

32.035

94.376

68.000

26.376

796

59.207

– 43.838

57,5

 

(*) Per i mesi del marzo al novembre, le somministrazioni di fondi agli alleati erano addebitate al conto del tesoro; e quindi vanno stornate, iscrivendole alla colonna 26 così come si pratica anche contabilmente, a partire dal dicembre.

 

 

d) Confronto tra l’andamento delle operazioni di interesse generale e quello della circolazione.

(milioni di lire)

 

 

 

 

 

DATA

(fine mese)

 

ECCEDENZA DELLA SOMMA (b1 + b2) su (c)

 

 

DIFFERENZA TRA SOLO (b2) e (c)

 

CIRCOLAZIONE

Valore assoluto

Variazioni rispetto al maggio

Numeri indici del valore assoluto

Valore della differenza

Sua variazione rispetto al maggio

Biglietti Banca d’Italia

Lire militari alleate

Totale

Variazione rispetto al maggio

Numeri indici della circolazione totale

46

47 = (22+32)-43

48

49

50 = 32-43

51

52

53

54 = 52+53

55

56

1946 – Maggio ….

425.757

100

– 76.796

293.593

91.981

385.574

100

   »    – Giugno ….

437.593

+ 11.836

102,8

– 66.540

10.256

300.369

94.333

394.702

+ 9.128

102,4

   »    – Luglio ……

449.471

+ 23.714

105,6

– 53.050

23.746

311.125

96.373

407.498

+ 21.924

105,7

   »    – Agosto ….

457.280

+ 31.523

107,4 

– 44.529

32.267

324.826

92.885

417.711

+ 32.137

108,3

   »    – Settembre

473.719

+ 47.962

111,3 

– 28.507

48.289

341.164

90.796

431.960

+ 46.386

112,0

   »    – Ottobre ….

484.161

+ 58.404

113,7

– 16.751

60.045

357.885

87.634

445.519

+ 59.945

115,5

   »    – Novembre

496.946

+ 71.189

116,7

– 2.345

74.451

371.863

86.067

457.930

+ 72.356

118,8

   »    – Dicembre

550.051

+ 124.294

129,2

46.983

123.779

417.230

87.822

505.052

+ 119.478

131,0

 

 

 

1947 – Gennaio 20

534.468

+ 108.711

125,5 

31.067

107.863

406.067

83.324

489.391

+ 103.817

126,9

»    –          »     31

539.655

+ 113.898

126,7 

36.465

113.261

412.068

83.875

495.943

+ 110.369

128,6

 

Nota – b1: sono le operazioni di impiego di interesse generale (titoli di stato, operazioni speciali del Consorzio per sovvenzioni su valori industriali, anticipazioni al tesoro, contropartita am lire in emissione a debito tesoro, servirzi diversi per conto dello stato).

b2: sono le altre operazioni di impiego di interesse generale (somministrazione di fondi agli alleati, risconto ammassi obbligatori, acquisti di valuta).

c: sono le operazioni di raccolta di interesse generale (saldo conto corrente di tesoreria, deposito vincolati di aziende di credito, divise estere di proprietà del tesoro).

 

 

Tiriamo le somme:

 

 

Versamenti agli alleati ………………………

10.658

Risconto ammassi……………………….

31.377

Acquisti valute …………………………………

27.607

Rimborsi depositi bancari vincolati…….

34.461

Diminuzione saldo creditore del conto corrente del tesoro………………………

4.556

Il totale ammonta a …….

108.659

 

 

Le uscite di biglietti così elencate e sommate in 108.659 milioni di lire bastano ed al di là a spiegare l’aumento di 103.817 milioni nella circolazione. Le altre variazioni minori nel bilancio della Banca danno ragione del perché si siano emessi per qualche miliardo biglietti in meno di quel che sarebbe stato giustificato dalla somma delle erogazioni elencate.

 

 

Dovute davvero al fato? Sì, se si riconosce, come riconoscere si deve, che per virtù di premesse poste fuori dell’azione della Banca, questa non poteva non osservare obblighi ineluttabili. Non c’era libertà di scelta: o crescere la circolazione o creare il caos economico. Mali amendue; ma di gran lunga peggiore il secondo.

 

 

No, se noi neghiamo che un fato ineluttabile prema su di noi e ci costringa a compiere necessariamente le azioni nostre. Dobbiamo proseguire l’analisi intrapresa e guardare che cosa sta dietro allo stato di necessità in cui si è trovata la Banca d’Italia di emettere in sette mesi e venti giorni ben 104 miliardi di biglietti in più.

 

 

Assumiamo un esempio: l’ammasso grano. Sui 31,4 miliardi in più di carta ammassi obbligatori, ben 28,7 provenivano da carta riscontata per l’ammasso del frumento. Aggiungendo i risconti già in essere a fine maggio ed ancora vivi al 20 gennaio 1947, a questa data il risconto frumento ammontava a 32,9 miliardi per la sola Banca d’Italia. A questi debbono essere aggiunti circa 30 miliardi di lire di carta ammasso grano che alla stessa data erano stati scontati dagli istituti di credito autorizzati a finanziare gli ammassi e non erano stati presentati al risconto alla Banca d’Italia. In totale oltre 60 miliardi di lire erano stati anticipati dal sistema bancario italiano ed a questo non restituiti, alla data del 20 gennaio 1947, per consentire l’ordinato trapasso del frumento dagli agricoltori ai consumatori. A chi erano anticipati i 60 e più miliardi? Si noti che i mulini pagano nella campagna corrente 1946/47 ai consorzi ammassatori lire 900 per quintale di frumento; e poiché la gestione degli ammassi è fatta nell’interesse dello stato, 900 lire per quintale sono tutto ciò che lo stato recupera dalla vendita del frumento; poco più di quanto occorre per compensare le 240 lire di spese di gestione degli ammassi, le 175 lire di spese dell’UNSEA, le 400 lire di spesa di trasporto. Se si aggiungono le spese di panificazione e di macinazione, si può dire che lo stato non ricupera neppure le spese vive di trasformazione e distribuzione del frumento ed assume a suo carico per intero il prezzo medio di lire 2.700 versato ai produttori.

 

 

Qual è il significato «bancario» di queste cifre?

 

 

Esso si deve distinguere in due parti: quella dovuta al fatto «ammasso obbligatorio» e quella dovuta al fatto «prezzo politico».

 

 

Il fatto «ammasso obbligatorio» distintamente dal fatto «prezzo politico». significherebbe soltanto un maggior lavoro, con relativo compenso di interessi e di provvigioni, attribuito artificiosamente, per mera virtù di legge, alle banche. Quando non esistevano ammassi, il servizio di trasporto nel tempo e nello spazio del frumento, durante il passaggio dagli agricoltori ai consumatori, era compiuto direttamente dalle categorie degli agricoltori, dei mugnai e dei fornai e massimamente dai primi. L’agricoltore vendeva a poco a poco le sue scorte e, invece di interessi, lucrava, per il servizio di conservazione e di trasporto nel tempo, un premio psicologico consistente nella contemplazione del proprio frumento nei granai e nel senso di sicurezza alimentare da ciò derivante ed un premio pecuniario consistente nel valore della speranza di fruire, aspettando, di un aumento di prezzo delle proprie scorte. L’ammasso obbligatorio ha sostituito a un tipo di remunerazione un altro tipo: al compenso certo di soddisfazione psichica e incerto di aspettativa di lucro positivo o negativo ha sostituito per l’agricoltore la sicurezza del ricavo immediato in lire e per le banche il lucro di interessi e provvigioni.

 

 

Non è compito dell’osservatore imparziale giudicare quale delle due quantità sia maggiore al punto di vista dell’interesse generale. Forse si può fondatamente dire che la variazione del tipo di compenso ai ceti interessati nel trasportare nel tempo e nello spazio il frumento dal produttore al consumatore è un esempio di una variazione più generale: dal compenso incerto e variabile al compenso certo e fisso. In regime di mercato libero, agricoltori, mugnai e fornai operavano in base a previsioni su prezzi futuri variabili; oggi, esistendo gli ammassi, fanno calcolo su prezzi certi assicurati dallo stato e su compensi di trasporto, macinazione e panificazione altrettanto certi garantiti da patti sindacali e da prezzi di impero. La speranza nell’avvenire faceva prima contentare gli uomini di compensi incerti e talvolta puramente psicologici; la certezza odierna tende a far fissare i compensi sulla base delle esigenze delle imprese lavoranti ai costi più alti. Agli alti costi si è aggiunto un costo prima quasi inesistente: il costo del servizio bancario: utile agli istituti che finanziano gli ammassi ed all’istituto di emissione; non ugualmente vantaggioso alla collettività. Al cosiddetto «profitto» si è sostituito il salario fisso degli agricoltori, dei mugnai, dei fornai, dei banchieri, pagati per fortuna ancora a cottimo e non a giornata. Probabilmente il costo del compenso fisso è notabilmente più alto del profitto variabile; e la differenza vuol dire spreco di lavoro e di tempo e quindi riduzione del prodotto sociale collettivo; riduzione di reddito per i molti, no compensata dai salari guadagnati dai pochi e giudicati, a giusta ragione, dai pochi insufficienti a remunerare un’opera socialmente inutile. La variazione dal tipo di «profitto» psicologico ed economico incerto e variabile al tipo del salario certo e fisso per i ceti sociali occupati a fornire pane all’umanità è uno dei tanti casi di irrigidimento progressivo del meccanismo economico contemporaneo. Nulla gli uomini odiano tanto quanto il progresso tecnico ed economico, che è mutazione, che è incertezza, che è ansia continua. In questa lotta fra i pochi inventori ed innovatori, i quali amano l’alea, anelano all’alto, anche se l’anelito vuole talvolta dire rovina, e la grandissima maggioranza, la quale vuole quiete e certezza, anche se la quiete vuol dire stasi e costi alti e vita mediocre, gli ammassi sono un episodio di vittoria delle maggioranze umane. Noi osservatori ci limitiamo a constatare che gli uomini pagano a caro prezzo il loro bisogno di star quieti, mormorando contro chi non è in grado di fornire ad essi al tempo stesso quiete ed abbondanza.

 

 

Ma il fatto «prezzo politico» ha aggiunto al fatto «ammasso obbligatorio» nuovi ulteriori connotati degni di attenta meditazione.

 

 

Sia il prezzo del pane economico ovvero politico, tutto ciò che dallo stato e dai consumatori viene pagato agli interessati nella produzione del pane (le 2.700 lire versate agli agricoltori, le 2.300 e più lire per quintale versate ai trasportatori, agli ammassatori, ai mugnai ed ai fornai), viene dagli agricoltori, dai vettori, dagli impiegati agli ammassi, dai bancari, dai mugnai e dai fornai speso in acquisto di beni diretti di consumo o di beni strumentali. Tutte le, supponiamo, 5.000 lire per quintale vengono così reimmesse nella circolazione, salvo quelle modeste quantità che i contadini usavano e, dopo una punta all’insù nel 1944-45, usano di nuovo tesaurizzare; e, una volta immesse, esercitano la loro influenza sui prezzi.

 

 

Quale influenza? Qui nasce la differenza tra il regime del prezzo economico e quello del prezzo politico. In regime di prezzo economico tutte le 5.000 lire circa per quintale di frumento trasformato in pane e paste alimentari sarebbero rimborsate dai consumatori; e, perdendo via via le porzioni spettanti alle fasi intermedie della produzione, risalirebbero ai fornai, ai mulini, ai vettori ed agli enti ammassatori; da questi, ridotte alle 2.700 lire versate originariamente agli agricoltori, tornerebbero agli istituti finanziatori e, per gli effetti riscontati, all’istituto di emissione.

 

 

Pertanto, in regime di prezzo economico, la circolazione tocca i minimi dell’anno verso la fine della campagna granaria. Nella campagna 1940-41 il risconto ammasso frumento, iniziatosi in agosto con 901 milioni, saliva in ottobre al massimo di 1.603 milioni e gradatamente ridiscendeva a 82 nel giugno 1941; nella campagna 1941-42 da 496 milioni in agosto si toccava il massimo di 1.296 in ottobre e si ridiscendeva a 218 nel giugno successivo; nella campagna 1942-43 da 1.067 in agosto si saliva al massimo di 1.768 in ottobre e si calava di nuovo a 410 milioni nel giugno successivo. Era un moto ciclico regolare e prevedibile.

 

 

Nel 1945-46, prima per l’accumularsi di arretrati e poi per l’inavvertito ritorno del prezzo politico, invano momentaneamente abolito, per la seconda volta nella sua vita, dal compianto Soleri, il minimo si presenta nel maggio 1945 con 2.701 milioni e il massimo dell’anno si prolunga con 6.054 milioni sino al novembre; poi decresce lentamente. Nel maggio 1946 siamo per il solo frumento scesi solo ad un minimo di 4.220. Dopo di allora è un crescendo senza requie. La consistenza totale dei risconti per ammassi obbligatori presso l’istituto di emissione fu:

 

 

a fine

maggio 1946 di ……………………………

5.097

milioni

»   »

giugno

»

» ……………………………

5.332

»

»   »

luglio

»

» ……………………………

12.064

»

»   »

agosto

»

» ……………………………

19.022

»

»   »

settembre

»

» ……………………………

23.494

»

»   »

ottobre

»

» ……………………………

24.994

»

»   »

novembre

»

» ……………………………

25.711

»

»   »

dicembre

»

» ……………………………

33.229

»

»   »

gennaio

1947

» ……………………………

36.474

»

 

 

Chiaro è ora il significato delle cose accadute. Delle 5.000 lire circa per quintale di frumento trasformato in pane versate ai diversi gruppi interessati alla produzione, forse solo la metà vengono pagate dagli acquirenti di pane, e, consumate dalle spese, non riescono a ritornare indietro sino agli istituti bancari i quali avevano anticipato il costo del frumento. Le 2.700 lire rimangono un debito dello stato. I biglietti non tornano indietro.

 

 

Se noi supponessimo per ipotesi deprecata, che il prezzo politico si perpetuasse, al debito attuale del tesoro verso la Banca d’Italia e gli altri istituti bancari, che è di 63 miliardi (), ogni anno si aggiungerebbe un debito nuovo. La circolazione aumenterebbe a gradini ad ogni nuova campagna e non subirebbe mai alcuna flessione.

 

 

I biglietti così immessi nel circolo e non ritornati eserciterebbero il loro inevitabile effetto sui prezzi, e con moto accelerato darebbero impeto alla svalutazione della moneta. Urge perciò che il proposito manifestato dal governo attuale di porre fine al prezzo politico del pane e di porvi fine in modo radicale, senza alcuna possibilità di ritorno e senza eccezioni per questa o quella classe sociale, eccezioni le quali ridiverrebbero ben presto la regola, abbia pronta attuazione. Periculum est in mora. Urge che al fato, il quale costringe la Banca d’Italia ad emettere ognora nuovi biglietti, sia tolta una delle armi più potenti le quali ci costringono, volenti o nolenti, a malfare.

 

 

Dopo il lungo discorso sulle conseguenze del risconto ammassi obbligatori, non occorre indugiarsi sulle altre due ragioni di fuoruscita di biglietti: le somministrazioni di fondi agli alleati: 22.492 milioni al 20 gennaio 1947 tra consistenza originaria nel maggio 1946 ed incremento successivo; e gli acquisti di valuta: 36.925 milioni alla stessa data. I biglietti ristagnano e crescono, perché il tesoro non è in grado, come per gli ammassi di frumento, di ricavare dalle imposte e dal mercato monetario (prestiti lunghi e brevi) i mezzi per far fronte alla spesa dell’acquisto delle valute degli esportatori italiani ed oggi anche alle spese fatte in paese dagli alleati con lire da noi somministrate.

 

 

Il ragionamento fatto per il risconto ammassi è valido anche che per queste altre cause di fuoruscita di biglietti. Qui si potrebbe osservare che l’emissione non è fatta a vuoto. Contro il debito di 63 miliardi di lire del tesoro per ammasso frumento non sta, è vero, nulla, perché il pane è già stato consumato e per quel che era il loro debito fu dai consumatori interamente pagato; laddove contro alle lire fornite agli alleati ed agli esportatori di merci italiane stanno le valute pregiate a noi accreditate. La differenza è fondamentale; ma perché essa avesse un riflesso benefico sulla circolazione sarebbe necessario che le valute fossero realizzate con acquisto di beni essenziali ed il ricavo di questi fosse impiegato nel rimborsare le anticipazioni in lire ricevute dall’istituto di emissione. Anche se il rimborso avvenisse con qualche ritardo ed anche se il ristagno dei biglietti nella circolazione producesse il suo consueto nefasto effetto, il danno non sarebbe permanente ed i prezzi, attraverso oscillazioni temporanee, tenderebbero a ritornare al livello antico.

 

 

Due rischi tuttavia si incorrono durante il processo di ritorno che prende la forma: lire – valute – beni stranieri – lire realizzate con la vendita dei beni. Il primo si è che i beni esteri acquistati con le valute non siano venduti a prezzi economici, ma a prezzi politici, calcolando le valute non ai corsi corrispondenti alla realtà del momento della vendita in Italia dei beni esteri, ma a corsi storici, ad esempio per il dollaro di 100 o 225 invece che 400. In tal modo il tesoro non si impingua di lire atte a pagare stipendi e forniture ai saggi e prezzi attuali od a coprire i costi attuali delle nuove esportazioni italiane. Nasce una perdita per l’erario o per l’economia nazionale, che qualcuno dovrà pure sopportare.

 

 

Il secondo rischio sta in ciò, che le lire incassate dalla vendita dei beni esteri non siano adoprate per rimborsare l’istituto di emissione che ha anticipato le lire, ma siano destinate a coprire spese correnti. Se ciò accade, l’emissione originaria di lire da temporanea diventa permanente e, come peso morto, consacra in modo definitivo la spinta all’insù dei prezzi.

 

 

L’anno scorso, chiudendo l’esame dell’anno 1945, si poteva essere sereni. La circolazione dei biglietti della Banca d’Italia e delle am lire era aumentata bensì da 312.485,1 milioni a fine 1944 a 382.049,9 a fine 1945, con un incremento di 69.564,8 milioni; ma della massima parte dell’incremento potevamo, con orgoglio, dar colpa ai tedeschi, ai neo fascisti ed alle spese allora non rimborsate degli alleati. Il libero legittimo governo italiano aveva nell’incremento una responsabilità così piccola da essere trascurabile. Oggi non possiamo più ostentare la serenità di ieri. Quello, che dianzi fu detto fato, in verità ha un nome assai più semplice e noto, sebbene meno antico e meno tremendo, ed è il disavanzo nel bilancio dello stato. Sino a quando non si sarà provveduto a coprire, senza ricorrere ai biglietti, tutte le spese pubbliche, comprese quelle che paiono operazioni di investimento, noi non avremo allontanato da noi lo spettro dell’inflazione.

 

 

I mezzi per allontanarlo sono noti. Non esistono in materia di finanza rimedi nuovi miracolosi. Con i giochetti scritti sulla carta, con il cambiar nome alle cose ed ai pezzi di carta non si ottiene alcun risultato sostanziale. La sostanza ha due nomi soli: imposte e prestiti. Imposte vere e non apparenti. Prestiti ricavati non da giri contabili, ma dal risparmio del paese. Se lo stato e gli enti territoriali minori hanno bisogno di 800 miliardi di lire all’anno, uopo è che i cittadini diano allo stato prelevandoli sul loro reddito, ossia sul prodotto annuo lordo del loro lavoro, della loro industria e dei loro capitali, 800 miliardi di lire all’anno. Non ha nessuna importanza sostanziale il nome dato alle imposte, se sul reddito o sul capitale o sul consumo; non ha oggi neanche importanza decisiva la forma dei prestiti, se perpetui o redimibili o a scadenza fissa, breve o lunga. Ciò che importa è che gli italiani diano i miliardi a titolo di imposta o prestito prelevandoli sul flusso corrente del loro reddito. In questa sede non è luogo a discutere la proporzione corretta fra imposte e prestiti. L’ideale sarebbe che con imposte si provvedesse alle spese correnti a fondo perduto e con prestiti alle spese in conto capitale atte a fruttare direttamente o indirettamente i mezzi per il loro servizio; ma se anche nei nostri tempi tumultuosi la proporzione ideale fosse violata, il danno non sarebbe gravissimo. Purché sia salvo il principio di ricorrere unicamente al flusso del prodotto nuovo nazionale.

 

 

Per quanto ha tratto alle imposte, gli auspici sono favorevoli:

 

 

(in milioni di lire)

 

 

 

PERIODO

 

Incassi per entrate effettive

 

NUMERO INDICE

 

delle entrate effettive

dei prezzi all’ingrosso

Media mens. 1°semestre

14.267

100

100

Luglio ……………………….

4.655

33

103

Agosto ……………………..

20.527

144

108

Settembre …………………

16.866

118

117

Ottobre …………………….

26.660

187

124

Novembre …………………

23.940

168

131

Dicembre ………………….

30.869

216

142

 

 

Le entrate da imposte sono dunque aumentate non solo in quantità assoluta; ma la velocità del loro incremento è stata anche maggiore della velocità dell’incremento dei prezzi.

 

 

L’aumento è notevole nel gettito nominale, ma vi è pure un aumento sostanziale nella quantità dei beni e servizi che con quel gettito si può acquistare.

 

 

Non così per il gettito dei prestiti, intendendo per prestiti tutto ciò che il mercato monetario ha fornito al tesoro a breve od a lunga scadenza. Nel secondo semestre del 1946 si nota invero un rallentamento apprezzabile nel gettito dei mezzi volontariamente messi dai risparmiatori a disposizione del tesoro (in miliardi di lire):

 

 

 

I° semestre

1946

II° semestre

1946

Gettito effettivo in contanti del prestito della ricostruzione dal 20 novembre al 31 dicembre 1946……………………………………………………………………….

56

Ricavo dei buoni ordinari del tesoro versati in sottoscrizione al prestito della ricostruzione………………………………………………………………………….

10

Buoni ordinari del tesoro ……………………………………………………………………….

61

15

Aumento del saldo del conto corrente della Cassa depositi e prestiti e degli istituti di previdenza presso il tesoro ……………………………………………………….

34

27

Aumento del saldo del conto corrente del Banco di Napoli e di altri istituti di credito presso il tesoro ………………………………………………………………………….

22

– 13

Aumento dei depositi vincolati delle aziende di credito presso la Banca d’Italia ………………………………………………………………………………………………..

6

– 25

Sovvenzioni al tesoro da parte degli istituti autorizzati a finanziare gli ammassi………………………………………………………………………………

123

30

100

 

 

(Naturalmente, il confronto non include il gettito ulteriore del prestito della ricostruzione nella prima parte del gennaio 1947). Entro i limiti di tempo indicati, il quadro dimostra che il mercato monetario è unico; e che quelli che sono chiamati «prestiti» non hanno e non possono avere lo scopo di dare al tesoro mezzi che altrimenti esso non otterrebbe; ma l’altro, ugualmente importante, di consolidare apporti di fondi che avrebbero luogo ugualmente ma in modo precario ed infido. Non è che coloro i quali diedero dal 20 novembre al 31 dicembre all’erario i 56 miliardi in contanti del prestito abbiano dato denaro veramente fresco o nuovo. Essi trassero sulle loro banche e queste per adempiere agli ordini ricevuti dai clienti dovettero ridurre di 38 miliardi () i saldi dei loro conti correnti presso il tesoro medesimo e la Banca d’Italia. Quel che monta è l’ammontare complessivo dei fondi messi a disposizione del tesoro: 123 miliardi nel primo semestre e 100 nel secondo semestre del 1946.

 

 

A spiegare il fatto giova ricordare che durante il 1946 si è accentuata una mutazione profonda nelle disposizioni dei risparmiatori verso gli investimenti pubblici in confronto alla condotta tenuta nel periodo dal 1940 al 1943 e che in parte si mantenne fino al 1945.

 

 

Durante la guerra fascistica la cosiddetta politica del circuito dei capitali vietava o grandemente limitava gli investimenti in immobili, in azioni, in nuove iniziative industriali, obbligando il risparmio forzatamente a volgersi verso i buoni del tesoro o i depositi in banca. Era d’altra parte assai difficile approvvigionarsi di materie prime e di beni strumentali sia all’estero che all’interno. I prestiti statali venivano perciò alimentati da fondi provenienti dalla liquidazione delle scorte di magazzino o costituiti dalle quote di manutenzione, di ammortamento e di rinnovamento, le quali non potevano trovare di fatto impiego nelle imprese industriali, agricole e commerciali. Non ricostituire i fondi di magazzino, non rinnovare e non riparare le macchine, non attendere alla ordinaria e straordinaria manutenzione delle case non vuol dire risparmiare, ma trasformare il capitale investito in fondi liquidi; vuol dire non reinvestire quella parte del ricavo dei beni prodotti, la quale avrebbe dovuto servire alla conservazione del capitale esistente. Se, poi, quel denaro liquido si riversa, attraverso i buoni ordinari del tesoro od i depositi bancari, nelle casse dello stato e serve ai fini della guerra; per altrettanta somma diminuisce, non ricostituendosi, il capitale preesistente. Il paese in sostanza si impoverisce; ma l’impoverimento assume l’apparenza di un gettito più abbondante del mercato monetario a favore dell’erario. Alla domanda così frequente: come mai il tesoro, così prodigo nello spendere illimitato durante la guerra, diventa improvvisamente in pace inetto alle assai più moderate opere della ricostruzione? si risponde: sì, si potrebbe continuare; ma sarebbe opera di Sisifo: si consumerebbe da una parte il capitale privato esistente ed investito e si tenterebbe d’altra parte di ricostruire altro capitale privato o pubblico. Si distruggerebbe 100 per ricostruire 50 o 20 o forse anche meno; ché quel che si perde nel distruggere vale spesso di più di quel che si ricupera ricostruendo. Sì, si potrebbe continuare, se fosse possibile continuare indefinitamente a non rinnovare macchinari ed impianti, a non ricostruire case, a non rifornire magazzini esausti. Ma poiché tutto ciò non appartiene al mondo delle cose possibili, è evidente che trascorso il momento del consumo, per cause di guerra, dei capitali esistenti, giocoforza è rassegnarsi a guardare esclusivamente al risparmio nuovo come alla fonte da cui traggono alimento le spese straordinarie dello stato e gli investimenti privati. Ridotta la dimensione del fondo e ritornato in scena, in concorrenza con lo stato, l’investimento privato, è ovvio che ad un certo momento, e il momento per noi fu il 1946, l’apporto del mercato monetario al tesoro abbia dovuto subire una flessione.

 

 

All’arricchimento temporaneo del tesoro nel tempo di guerra e nell’immediato dopoguerra contribuiva altresì il razionamento e la impossibilità di spendere. L’oscuramento, le incursioni aeree, gli sfollamenti costringevano alla vita ritirata e parca. Essendo impossibile od inutile spendere il reddito eccedente il costo delle razioni, il sovrappiù trovava forzato sbocco nei depositi bancari e nei titoli di stato a breve scadenza. In tutti i paesi del mondo l’anno 1946 segnò una ripresa nello spendere; che fu frenetica altrove, ma non ignota anche fra noi. Gli incassi crescenti dei cinematografi, dei luoghi di divertimento e di scommesse rendono testimonianza dello scemare del risparmio e quindi del diminuito flusso volontario di denaro al tesoro.

 

 

Più oscura, ma forse più potente, è stata l’azione esercitata, sulla formazione di disponibilità monetarie, dal lento graduale aumento della circolazione. Di una immissione sul mercato di nuova capacità di acquisto si avvantaggiano anzitutto i profitti, elemento marginale nella distribuzione dei redditi prodotti dalle imprese. Ne soffrono invece temporaneamente i redditi di lavoro, i quali subiscono un processo di adattamento ritardato, e permanentemente i redditi dei creditori di somme monetarie fisse, i grandi come i moltissimi piccoli. Ne soffrono, per questa loro condizione, lo stato creditore delle imposte, e con esso le aziende pubbliche e semipubbliche, quelle esercenti servizi pubblici, soggetti tutti che, per la loro natura o per i controlli che subiscono, sono lenti a variare le loro fonti di entrata.

 

 

Nella misura in cui una siffatta redistribuzione avvantaggia quella che suole definirsi la situazione finanziaria delle imprese private; in cui assicura una maggior parte del prodotto sociale a ceti che hanno una maggiore propensione al risparmio; in cui allevia l’onere delle imposte, essa può essere fonte di disponibilità monetarie che cercano investimento nei prestiti pubblici.

 

 

Lo stesso sforzo, da parte dei creditori di somme fisse di moneta, di ricostituire il valore reale dei loro possessi, eroso dall’inflazione, può agire in pari senso; nel tempo stesso in cui quella erosione rende facile il risparmio ai loro debitori.

 

 

Ma, come una curva che si appiattisce avvicinandosi al suo asintoto, questa sequenza di effetti gradualmente si esaurisce. Il vantaggio residuo, che i debitori di imposte e di somme fisse di moneta possono trarre dalla prosecuzione della inflazione, si riduce in ragione della riduzione subita dal valore reale dei loro debiti per effetto della inflazione precedente. Il debitore di 100 lire ha un vantaggio di 50 se la potenza di acquisto delle 100 lire si riduce al 50%; ma di 25, 15, 5, 2 soltanto se, per successive svalutazioni, quella originaria potenza d’acquisto si riduce al 25, al 10, al 5 ed al 3%. Per gli impianti e le scorte, si pone ad un certo punto il problema di ricostituirli. Il risparmio forzato delle classi lavoratrici trova un limite nelle esigenze minime di vita. Per giunta, l’inflazione in atto finisce con l’essere avvertita dagli imprenditori e dai dirigenti sindacali; sicché con avvedimenti di scala mobile od altri l’adeguamento dei salari alla svalutazione monetaria diventa immediato e talvolta in sull’inizio riesce persino a migliorare il salario reale percepito dai lavoratori. Se poi accada che l’inflazione sia avvertita anche dal grosso pubblico, questo eviterà di costituirsi detentore di moneta o di crediti in moneta. Se non si ponga ostacolo immediato al propagarsi della malattia, questo è il principio della fine.

 

 

Noi sappiamo invece che la fine della lira non deve venire. Lo sappiamo perché i dati del problema che abbiamo esaminato conducono alla conclusione logica della possibilità e quindi del dovere di mettere il fermo all’inflazione.

 

 

Riassumiamo quei dati.

 

 

Il primo è il rapporto fra incremento della circolazione ed incremento del gettito tributario (entrate effettive). Nel secondo semestre del 1946 la circolazione aumentò del 28% in confronto alla fine del primo semestre; ma le entrate effettive furono nel dicembre superiori del 116% alla media del primo semestre.

 

 

Se anche in avvenire faremo sì che l’incremento nel gettito delle imposte sopravanzi l’incremento dei segni monetari, un valido argine sarà opposto al progredire della inflazione.

 

 

Ma la cura delle imposte non basta. Ancora per non pochi anni è ovvio che il gettito delle imposte non sia bastevole a coprire il totale ammontare delle spese. Una parte, che possiamo anche chiamare straordinaria, di esse dovrà continuare ad essere coperta con i debiti. Ma qui ci troviamo dinnanzi al fatto contrario: il mercato monetario, ossia il risparmio nuovo, dà al tesoro somme decrescenti. Le ragioni sono talune di segno positivo ossia vantaggiose all’interesse collettivo: cessazione del consumo dei capitali esistenti e ripresa delle iniziative industriali, agricole e commerciali; ed altre di segno negativo. Queste sono una conseguenza dell’inflazione medesima. Alla lunga, l’inflazione già accaduta distrugge la propensione a risparmiare. Perché risparmiare, se il frutto del risparmio è destinato a volatilizzarsi in mano nostra quanto a capacità di acquisto? Sono invincibilmente scettico intorno al valore concreto delle teorie moderne, le quali fanno supporre che vi siano paesi e circostanze nelle quali il risparmio possa palesarsi dannoso, reputando che il succo di verità contenuto in quelle dottrine si riduca ad antiche e pacificamente accettate proposizioni intorno alla convenienza della ricerca dell’ottima proporzione fra consumo e risparmio. Ma in Italia è opinione probabilmente unanime che la proporzione fra consumo e risparmio, fra produzione di beni diretti e di beni strumentali debba oggi essere corretta a favore del risparmio e dei beni strumentali. Troppo grande è il bisogno di ricostruire, perché non sia conveniente, osservate le esigenze della sanità fisica e della vita morale, di dare opera all’incremento del risparmio ossia alla produzione dei beni strumentali. Ma il risparmio è una funzione della fiducia nella unità monetaria. Il mercato monetario darà al tesoro le somme necessarie a colmare il vuoto fra gettito delle imposte e totale delle spese statali solo se la produzione del risparmio – che è una produzione come ogni altra, frutto di atti volitivi dell’uomo – appaia agli occhi dei risparmiatori siffattamente conveniente da indurli a fabbricare risparmio in quantità sufficienti agli investimenti privati e pubblici. Normalmente i risparmiatori compiranno l’atto volitivo del risparmio soltanto se spereranno di ricavare da esso una qualche soddisfazione morale ed economica. Possono contentarsi e spesso, in molti casi, si contentano di redditi modesti dello 0, del 2 o del 3%, ma è dubitabile se essi siano oltremodo incoraggiati a risparmiare dalle minacce di espropriazione, dalle male parole e dalle prospettive di messa al muro. Per quel che concerne la moneta, i risparmiatori sono positivamente scoraggiati dai timori di svalutazione; ed essi identificano la svalutazione con le eccessive spese pubbliche; eccesso il quale dà luogo ad emissione di biglietti. L’analisi del bilancio della Banca ha dimostrato che l’identificazione è esatta: durante il periodo dal maggio al 20 gennaio essendosi avuti 104 miliardi di aumento della circolazione contro 108 miliardi di fuoruscita di biglietti per ragioni dipendenti da spese di ragion pubblica (somministrazioni agli alleati, risconto ammassi, acquisti valuta, riduzione dei depositi vincolati delle banche e del saldo del conto corrente del tesoro).

 

 

Ma le preoccupazioni dei risparmiatori sono dimostrate valide anche per un altro verso. Se si pon mente all’accelerazione nei pagamenti diretti ed indiretti del tesoro durante il primo e il secondo semestre del 1946 si ottengono i seguenti risultati (in miliardi di lire):

 

 

 

I° semestre

II° semestre

Pagamenti diretti per spese effettive ….

207

244

Pagamenti indiretti:

per sconto ammassi…………………….

60

per acquisti valute……………………….

7

214

24

84

328

 

 

Trattasi qui di pagamenti effettivi in conto degli impegni assunti sulla competenza dell’esercizio e sui residui passivi degli esercizi precedenti, come pure, per i pagamenti indiretti, in conto erogazioni fuori bilancio. Ed invero, per quanto ha tratto ai prezzi, le erogazioni effettive hanno maggiore importanza degli impegni di bilancio, dei quali l’effetto si intravvede solo per l’avvenire. I numeri indici dei fatti esaminati sono i seguenti (base il primo semestre del 1946):

 

 

 

I° semestre

1946

 

II° semestre

1946

Pagamenti diretti ………………………………….

100

118

Totale pagamenti diretti e indiretti…………

100

153

Entrate effettive………………………………

100

144

Mezzi forniti dal mercato monetario………..

100

81

Circolazione…………………………………..

100

116

Prezzi all’ingrosso……………………………

100

121

 

 

La sorte della lira dipende dalla velocità rispettiva dei diversi corridori in lizza: da una parte la spesa pubblica, la quale da un semestre all’altro passa in totale da 100 a 153 ed è aizzata a corsa sfrenata dal crescere rapido degli stanziamenti di bilancio, fortunatamente non seguiti sempre dalla erogazione effettiva; dall’altro lato le entrate, di cui quelle tratte dal mercato monetario (prestiti e conti correnti) danno segni evidenti di stanchezza contraendosi da 100 a 81, mentre invece le entrate effettive aumentano da 100 a 144 e danno segni di velocità crescente ascendendo a 216 nel mese di dicembre.

 

 

Ma al punto al quale siamo arrivati è vano sperare solo sullo zelo crescente dei contribuenti nel pagare imposte. Occorre agire contemporaneamente per frenare l’impeto ascendente delle spese.

 

 

Non è compito dell’istituto di emissione segnalare le vie per cui debbano crescere le imposte e diminuire le spese. La scelta delle imposte da crescere e delle spese da diminuire è opera del politico.

 

 

Qui basti segnalare quale è il momento critico dell’inflazione: quello in cui il suo effetto diventa negativo anche per un governo che, ignorando i suoi spaventosi costi indiretti, si limitasse a considerarne il gettito immediato di cassa.

 

 

Teoricamente quel momento si avrebbe, quando le spese pubbliche fossero uguali al doppio dell’ammontare della circolazione e volendosi compiere novelle spese, l’unico mezzo all’uopo offerto fosse l’aumento della circolazione medesima. Suppongasi che la spesa pubblica sia all’inizio dell’anno di 1.000 miliardi di lire e che la circolazione sia alla stessa data di 500 miliardi di lire; e suppongasi pure che si intenda durante l’anno spendere in più 100 miliardi e che tutti i 100 miliardi siano richiesti al torchio dei biglietti. È manifesto che, a parità di altre condizioni, e non si vede come nella ipotesi fatta le altre condizioni debbano mutare, se al principio dell’anno i prezzi erano 1, alla fine dell’anno, essendo aumentata la circolazione di un quinto, da 500 a 600, i prezzi saranno parimenti aumentati di un quinto, da 1 ad 1,20; e durante l’anno saranno in media arrivati a metà strada: ad 1,10.

 

 

Di qui segue che al principio dell’anno, lo stato poteva acquistare, spendendo 1.000 miliardi, al prezzo di 1 lira per unità, 1.000 miliardi di unità di beni e di servizi; ma, durante l’anno, se lo stato spende 1.100 miliardi di lire, ma paga 1,10 lire per ogni unità di beni e servizi, esso acquista medesimamente gli stessi 1.000 miliardi di beni e di servizi che acquistava al principio dell’anno prima di ricorrere al torchio dei biglietti. Vi è cioè un momento nel quale lo stato chiedendo biglietti all’istituto di emissione per far fronte ad un aumento di spese, non ottiene più nessun vantaggio dalla maggiore spesa. La stampa dei biglietti è fatta a vuoto. Prima di giungere a quel punto, lo stato ricava dal cartalismo ancora qualche vantaggio reale, dapprima notevole e poi a grado a grado riducentesi, finché esso diventa uguale a zero quando la spesa pubblica sia uguale al doppio della circolazione.

 

 

Dopo quel punto, il cartalismo produce un effetto negativo. Se, invero, la spesa iniziale dello stato fosse di 1.200 miliardi, ossia più che doppia della circolazione di 500 miliardi, al prezzo iniziale 1, lo stato acquisterebbe 1.200 miliardi di unità di beni e servizi. Ma crescendo la spesa a 1.300 e procacciandosi lo stato i 100 miliardi in più coll’aumentare la circolazione da 500 a 600 miliardi, i prezzi, al solito, aumenterebbero alla fine dell’anno ad 1,20 e durante l’anno in media a 1,10. Ma con i 1.300 miliardi di lire dovendosi pagare i beni e servizi a 1,10 per unità, non si acquistano più neppure i precedenti 1.200 miliardi di unità di cose; ma fatti i conti, appena 1.181 miliardi. I 100 miliardi di più in biglietti chiesti al torchio non solo non fruttano più nulla, ma cagionano allo stato una perdita netta in beni ed in servizi reali.

 

 

Naturalmente, il ragionamento ha valore tendenziale ed ammonitore. Esso fa astrazione dallo stimolo che, entro il periodo di tempo considerato, l’inflazione può dare alle entrate; e non tiene conto del fatto che oggi le entrate ricavate dalle imposte e dal mercato monetario sono ben lungi dal raggiungere il doppio della circolazione ed appena si aggirano nel momento presente sui 500 miliardi di lire ossia su una somma uguale all’ammontare della circolazione. Si può paradossalmente dire che il disordine stesso, ossia la repugnanza dei contribuenti a pagare imposte e dei risparmiatori a risparmiare, impedisce all’aumento della circolazione di produrre gli effetti sovra descritti o, meglio, li allontana nel tempo. Se lo stato invero incassa e spende 500 miliardi, essendo la circolazione 500 ed il livello dei prezzi 1, esso si procaccia in un primo momento 500 miliardi di unità di beni e di servizi. Se poi esso, rimanendo invariata la entrata, con i biglietti aumenta la spesa a 600 ed i prezzi aumentano, per l’aumento della circolazione da 500 a 600, alla fine dell’anno a 1,20 e durante l’anno ad 1,10, con 600 miliardi di spesa, anche ai prezzi cresciuti ad 1,10, l’erario ha ancora un guadagno netto, chè esso si procaccia 545 invece di 500 miliardi di unità di beni e servizi.

 

 

In verità però l’unità di tempo «anno» è una creazione della nostra mente; è un mero strumento comodo per chiudere i conti e ricominciare o credere di ricominciare una novella vita. Le premesse del ragionamento non presuppongono una unità di tempo piuttostochè un’altra. Noi siamo liberi di assumere come unità il biennio; ed allora resta conforme abbastanza bene ai fatti che in un biennio oggi la spesa coperta dalle imposte e dal mercato monetario è di 1.000 miliardi; e che essendo inizialmente la circolazione di 500 miliardi, se si deve, per la rigidità complessiva delle entrate (imposte più prestiti) ricorrere alla inflazione per fare una nuova spesa di 100 miliardi, entro il biennio la catena degli avvenimenti sarà quella sovra descritta.

 

 

Ma gli uomini accelerano colla immaginazione antiveggente il corso dei fenomeni e fanno sì che gli effetti, i quali dovrebbero manifestarsi solo entro un lasso di tempo abbastanza lungo e tale da lasciar modo di correre ai rimedi, si producano prima. La immaginazione fa sembrare, a quello che si dice mercato ossia alla mente degli uomini, vicino il fatto lontano e può condurre alla fuga dalla moneta. Quando un simile processo sarà in atto, l’aumento dei prezzi supererà quello della circolazione. Avviene allora che più lo stato spende, meno ottiene in cambio. È l’inizio del precipizio; di quello che si usa oggi chiamare avvitamento. Preso nelle spire della decrescente capacità di acquisto della moneta, lo stato affannosamente cerca di salvarsi dal naufragio, ricorrendo a nuove emissioni e più unità monetarie si emettono meno esse acquistano. Arriva il momento nel quale totali impronunciabili di unità monetarie circolanti hanno una potenza di acquisto infinitamente piccola, quasi nulla.

 

 

In Italia ed oggi siamo ancora lontani dal momento di indifferenza, chiamando di indifferenza quel momento nel quale ogni nuova emissione monetaria è vana e non dà più alcun vantaggio all’erario. Ma siamo ad un bivio. Vi è una strada dura e faticosa la quale va verso l’alto, ed un’altra piana ed agevole la quale conduce nell’abisso. La vetta ed il precipizio non sono ancora in vista, ma si sentono. A noi la scelta della via da percorrere. Nessun ostacolo, salvo la nostra volontà, si oppone alla scelta della via dura e faticosa la quale conduce velso l’alto.

 

 

Il paese lavora e produce, fervono le iniziative degli industriali, i ceti medi e rurali non hanno perduto del tutto l’abitudine del risparmio ed i lavoratori chieggono lavoro e, ben organizzati, sono pronti a dare opera alla fatica comune. Lo sforzo che siamo chiamati a fare non è neppure uno sforzo sostanziale; è la rinuncia alle spese inutili, alle spese prorogabili, alle spese le quali vengono ultime nell’ordine dell’urgenza e della produttività. Importa mettere un punto fermo inesorabile all’affollarsi di richieste di spesa rivolte a gara all’erario da regioni, da città, da gruppi smaniosi di arrivare per i primi o paurosi di essere secondi nell’assalto al pubblico denaro. Importa che gli industriali non continuino, pretestando pericoli di disoccupazione operaia, a chieder concorsi e prestiti allo stato, che essi sanno essere vani, perché concessi col cartalismo. Importa che gli organizzatori operai veggano il pericolo comune a tutte le classi sociali e massimamente grave per le classi lovoratrici di ricorrere all’incremento dei segni monetari. Importa guardare la realtà con gli occhi chiari, non velati da premesse disformi dal vero. Esiste rispetto ai salari un punto nel quale ogni aumento nominale di essi è causa di diminuzione reale. Se non aumenta il flusso dei beni reali prodotti, l’aumento dei salari, in virtù ad esempio della automatica applicazione della scala mobile, a che cosa serve se non a crescere la miseria dei più sfortunati, di coloro il cui reddito è fisso od aumenta in proporzione minore del medio incremento stabilito dalla scala mobile? In quelle condizioni, la scala mobile è uno strumento di privilegio per i meno e di immiserimento dei più. Ingannati da una fata morgana, gli organizzatori operai si illudono di operare il bene di tutti ed invece inaspriscono le ingiustizie sociali; ripetendo l’errore che, dopo l’epoca gloriosa dell’ultimo decennio del secolo scorso e del primo decennio del presente, aggiogò le organizzazioni operaie, tanto benemerite del progresso economico e sociale italiano, al carro dei monopolisti, degli assalitori della cosa pubblica e dei creatori di discordia fra regione e regione, fra mezzogiorno e settentrione. Finché il pericolo non sia passato e non si sia percorso un buon tratto di strada lungo l’erta via la quale conduce alla salvezza ed alla grandezza, è d’uopo che tutte le classi sociali si assoggettino alla sorte comune. Paghino i ceti medi ed alti, senza troppo mormorare, anzi con letizia di cuore, insieme con le altre, distribuite ed esatte con ragionevolezza, l’imposta straordinaria sul patrimonio che or s’annuncia; rinuncino i ceti di impiegati e di operai a chiedere aumenti di salari destinati a svanire prima di essere goduti.

 

 

Inchiniamo riverenti il capo dinanzi a coloro i quali hanno sofferto o sono morti per la liberazione dell’Italia dal nemico e dal tiranno; e poiché siamo oggi chiamati solo a sacrifici materiali, non dimentichiamo che vi sono ceti sociali i quali hanno perduto tutto e stanno perdendo gran parte della loro fortuna e dei loro redditi. Facciasi astrazione da coloro che innanzi all’ultima guerra avevano investito i loro risparmi in titoli di stato ed hanno, in potenza d’acquisto, perso i  del patrimonio e del reddito; ricordiamo solo che coloro i quali, avendo al principio del 1946 investito il risparmio in titoli pubblici a reddito fisso, durante l’anno furono assoggettati dalla riduzione della potenza d’acquisto della lira ad un tributo, che nel tempo stesso è sul patrimonio e sul reddito, non minore del 25%.

 

 

A più riprese in questi ultimi mesi e giorni è stato chiesto sui pubblici fogli: che cosa fa il governatore della Banca d’Italia, che cosa fa quel signore il quale ripete oggi il vecchio grido del 1920: rompiamo il torchio dei biglietti e frattanto firma, senza fine, biglietti della interminabile serie W?

 

 

Vi ho esposto candidamente, che cosa quel signore non può fare. Ma al privilegio di conoscere, qualche giorno prima di voi, l’ammontare della circolazione, che praticamente è il solo privilegio di cui egli gode, quel signore vuole aggiungere il privilegio di gettare in quest’aula un grido di allarme: in fondo alla via, che dalla comodità e dal desiderio di popolarità siamo chiamati a percorrere, c’è l’abisso dell’annientamento dell’unità monetaria e del caos sociale. Ma nel tempo stesso vuole anche gridare alto la certezza che, se noi vorremo, quella via noi non la percorreremo. Non occorre molto sforzo di volontà per rinunciare alla via che conduce alle rive fiorite dell’inflazione. Basta ripetere quel che in altri tempi fecero gli uomini della generazione passata. Ricordate le cifre dei disavanzi dell’altro dopoguerra? A pronunciarle sembrano piccole: 23 miliardi nel 1918-19, 11 nel 1919-20, 21 nel 1920-21, 17 nel 1921-22. Piccolissime in confronto al disavanzo che il valoroso ministro del tesoro d’oggi, on. Campilli, ci ha annunciato per l’anno corrente: 610 miliardi di lire. Ma traduciamo, per renderle paragonabili, quelle cifre in lire aventi l’uguale potenza d’acquisto delle lire odierne: e constatiamo che nel 1918-19 il disavanzo fu di 784 miliardi, nel 1919-20 di 331, nel 1920-21 di 539, nel 1921-22 di 481 miliardi.

 

 

Eppure qualche anno dopo, nel 1924, il ministro del governo fascista poteva orgogliosamente annunciare che il suo governo aveva riconquistato il pareggio. Vanto bugiardo; ché il pareggio esisteva già, a conti fatti, il 28 ottobre 1922, ed esisteva perché i governi che si erano succeduti dopo la fine della guerra avevano mirato a liquidare l’eredità di essa ed a liberare il bilancio dagli oneri permanenti i quali avrebbero condotto anche allora la moneta al disastro. Marcello Soleri, presidente del consiglio Giovanni Giolitti, riuscì nel 1921 a persuadere il Parlamento ad abolire il prezzo politico del pane ed a porre così le fondamenta del pareggio.

 

 

Nell’altro dopoguerra, il disavanzo ebbe il seguente andamento:

 

 

Esercizi

disavanzo effettivo

in lire dell’epoca

(milioni)

 

 

coefficiente di rivalutazione in lire attuali

disavanzo effettivo

in lire attuali

(miliardi) (1)

dai rendiconti consuntivi

 

cifre

rettificate(1)

   
1918-19

22.776

23.345

33,6

765

784

1919-20

7.886

11.494

28,8

227

331

1920-21

17.409

20.955

25,7

447

539

1921-22

15.760

17.168

28,0

441

481

1922-23

3.029

3.260

26,7

81

87

1923-24

418

989

27,5

11

27

 

(1) Da La finanza italiana nel ventennio 1913-32 di F. A. Repaci.

 

 

Il coefficiente di rivalutazione impiegato è pari al rapporto tra il livello medio dei prezzi all’ingrosso nell’esercizio 194-47 e quello avutosi in ciascuno dei sei esercizi presi in considerazione.

 

 

Signori Partecipanti,

 

 

Ho fiducia nei regimi liberi che sono regimi di discussione. Gli italiani di oggi non tollereranno più che un nuovo tiranno, raccogliendo l’eredità dei loro sforzi, possa vantarsi di aver ricondotto il bilancio al pareggio e di aver salvato la lira. La salvarono essi, gli italiani, nel 1920-22 e la salveranno di nuovo oggi.

 

 

Ma è necessario che gli italiani non aspettino la salvezza della lira da nessun Messia, da nessun supposto taumaturgo, anche se preposto al governo della moneta; è necessario che essi non credano di dovere la salvezza a nessun altro fuorché a se stessi. La salvezza è sicura, immancabile. Basta un atto di volontà: la volontà di rinunciare alle spese superflue, il che oggi vuol dire a tutte le spese nuove, sia quelle già deliberate sia quelle che fossero proposte in avvenire le quali non siano assolutamente, direi quasi fisicamente necessarie; e la volontà di sopportare i necessari sacrifici di imposte. Non voglio nemmeno porre la domanda: questa volontà noi l’avremo? Non la pongo, perché all’imperativo categorico del dovere si risponde in un modo solo: obbedisco!

 

 

Il Governatore

LUIGI ElNAUDI

 

 



[1] Si riporta qui di seguito una lettera che il governatore della Banca d’Italia, in data 29 gennaio 1947, ha inviato alle principali aziende di credito:

 

 

«Le necessità della tutela della circolazione monetaria in questo periodo richiedono sia data immediata applicazione alla norma che fa obbligo alle aziende di credito, le quali abbiano una somma di depositi superiore a 30 volte l’ammontare del patrimonio, di investire l’eccedenza in titoli dello stato o garantiti dallo stato da depositarsi presso l’istituto di emissione o versarla in conto corrente fruttifero presso l’istituto stesso. In ossequio alla legge, comunico essere mio fermo intendimento che a cominciare dalla situazione di fine febbraio prossimo risultino in essere i depositi cauzionali in titoli e in contante necessari per ricoprire le eventuali eccedenze risultanti dalla situazione della massa fiduciaria alla data stessa. In via assolutamente eccezionale e transitoria (ed in attesa che le competenti autorità si pronuncino definitivamente sulla materia), comunico che per quanto riguarda la indicata data di fine febbraio saranno considerati utili agli effetti cauzionali anche le disponibilità risultanti dai conti correnti presso il tesoro e presso la Banca d’Italia. Prego di darmi atto della presente la quale prescinde dalla eventualità che codesta azienda sia attualmente in regola con le disposizioni sopra ricordate. In tal caso, la presente non è per essa un richiamo ad ottemperare alle norme vigenti bensì un avvertimento che gli organi di vigilanza intendono sia data d’ora in poi piena applicazione a quelle norme. Confido che le aziende di credito si renderanno conto delle esigenze che hanno determinato questa mia comunicazione e non daranno motivo di contestare loro inadempienze in questa importante materia».

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