Opera Omnia Luigi Einaudi

Conoscere per deliberare

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1956

Conoscere per deliberare

Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1956, pp. 1-12

 

 

 

«La soluzione si trascina»; «il problema, una volta posto, deve esser risoluto»; «urge, non si può tardare oltre ad affrontare la questione». Chi legga queste e simiglianti sentenze pensa perché il governo, perché il parlamento, perché il ministro competente, tardano tanto? Codesti frettolosi non riflettono: è questo davvero non uno dei tanti, ma il problema; e come accade che di volta in volta, ogni giorno diversi, tanti siano i problemi urgenti, dei quali la soluzione non può farsi attendere senza danno, anzi senza grave danno? Perché è così lungo l’elenco dei problemi urgenti; e così corto quello degli scritti nei quali sia chiaramente chiarito il contenuto di essi? Come si può deliberare senza conoscere?

 

 

Nulla, tuttavia, repugna più della conoscenza a molti, forse a troppi di coloro che sono chiamati a risolvere problemi. Accadde a me, alcuni mesi addietro, di leggere un rapporto di maggioranza ed un altro di minoranza sul problema detto dell’Istituto di ricostruzione industriale (I.R.I.); e, posto tra i due rapporti tanto diversi, conclusi che il problema non era, nel quadro dei due rapporti, fatto conoscere a chi doveva decidere; ché il rapporto di maggioranza, inspirato a quelle che si usano definire ampie visioni dottrinali, era troppo guasto dai soliti luoghi comuni sociali, intesi ad assicurare, passando oltre alle antiquate esigenze di compiuto effettivo pareggio dei bilanci, l’insuccesso delle imprese pubbliche e private e l’incremento della disoccupazione; ed il rapporto di minoranza, bene costrutto sulla esperienza passata e sul buon senso economico, non illustrava abbastanza i precedenti storici e le ricche vicissitudini del passato. Bastò la espressione, nuda di qualsiasi giudizio, del desiderio che, insieme con i due rapporti di maggioranza e di minoranza, fosse pubblicata una vecchia relazione Menichella, un’altra di Giovanni De Maria inserita nei volumi preparatori alla Costituente e quelle narrazioni e statistiche atte a spiegare acconciamente la situazione odierna del grandioso complesso industriale, perché taluno subito esclamasse che la mera richiesta, di far conoscere al legislatore ed al pubblico quel che fosse il problema, significava volontà di ritardo e di inazione; come se le soluzioni non maturate e non ragionate non partorissero necessariamente nuovi grovigli e rinnovate urgenze di porre rimedio a peggiori mali.

 

 

Oggi si discute di nuovo degli stipendi degli impiegati pubblici ed in particolare di quello degli insegnanti; ma non vedo che, ad informazione di coloro che saranno chiamati a pagare il conto, siano resi pubblici, in documenti ufficiali, i dati fondamentali attinenti a quella che dovrebbe essere la invocata soluzione; né che alcun giornale abbia chiesto agli iniziati di fornirli. Al riconoscimento della inadeguatezza delle paghe di ogni sorta di funzionari pubblici, tutt’al più si aggiunge: disputarsi solo sui limiti degli aumenti sopportabili dal tesoro, senza essere costretti a spingere i tributi oltre quello che si suole oggi chiamare il limite di rottura. Della quale rottura non si conosce il significato esatto, e, laddove parecchi scetticamente dubitano della esistenza stessa di cotal limite, per essere tanti anni che se ne parla, senza che sia mai accaduto nulla, altri prognostica spaventevoli accadimenti di rovina della lira e di conseguenti disordini sociali e politici.

 

 

In verità, la variazione delle remunerazioni dei pubblici funzionari è sinonimo di variazione nel riparto del reddito totale nazionale fra i gruppi sociali viventi in Italia; ma per valutare le opportunità o le possibilità o la giustizia di una qualunque variazione, farebbe d’uopo conoscere: l’ammontare della somma delle buste paga, e di tutti i complementi e supplementi ricevuti dall’impiegato durante l’anno, diviso per dodici. L’invenzione dell’anno composto di tredici mesi, divenuti, per taluni gruppi, statali solo a metà, quattordici e, per altri, bancari o non, statali in tutto o in parte, o per niente, anche sedici, è stata, per chi voglia fare calcoli e paragoni precisi, una vera calamità. Giova solo a mascherare il vero saggio di remunerazione e, insieme con gli amminicoli delle indennità di famiglia, delle presenze, delle ore straordinarie fisse e in soprannumero, delle indennità speciali d’arma, di toga, di studio, di località disagiata, di trasferta (pur ridotta secondo le regole seguite per i calcoli degli imponibili tributari), insieme anche con le diarie, le medaglie di presenza, i premi in deroga, le propine, i casuali ecc. ecc. fa sì che la cifra dello stipendio non ha nessun valore, sicché il solo dato valido, per calcolare il reddito mensile dei pubblici o semi-pubblici funzionari è quello ora detto della busta paga totale annua, divisa per dodici.

 

 

Credo che il dato sia ignoto. Anni fa, quand’ero al Bilancio e la ragioneria generale dello stato aveva comunicato e i giornali avevano, eccezionalmente, pubblicato un calcolo che, pur non tenendo conto ancora di tutti gli addendi, vi si approssimava tollerabilmente, un procuratore delle imposte telegrafò insolentemente al ministro delle finanze all’incirca: «Vedo che la ragioneria generale dello stato attribuisce al mio grado un compenso (non ricordando la cifra esatta telegrafata, scrivo un dato ipotetico) di 100. Poiché io ricevo 70, prego inviarmi la differenza». Il telegramma era insolente, perché, verificato il caso specifico, si riscontrò che costui aveva negli ultimi mesi riscosso non 100, che era la media calcolata dalla ragioneria per quel grado della gerarchia, bensì 110. A me, la moglie di un impiegato, lamentandosi dello stipendio, aggiungeva di non includere la tredicesima, perché, a suo parere, essa copriva le spese straordinarie di fine anno e perciò non sovveniva ai bisogni della famiglia. Come se anche le spese straordinarie non fossero spese di famiglia.

 

 

Certamente il calcolo della busta paga non è semplice come quello dello stipendio e varia da caso a caso. Ma non è al di là delle forze umane assumere per i diversi gradi della gerarchia statale, per le diverse anzianità, per le tipiche composizioni familiari, gli ammontari veri e fare i totali. Finché questi calcoli non siano fatti e i giornali non ne diano notizia, cestinando le inutili tabelle di aumenti assoluti e percentuali prive in se medesime di significato ed atte soltanto a confondere le idee del pubblico, si discute e si delibera alla cieca, senza conoscere ciò di cui si discute e su cui si è chiamati a deliberare.

 

 

Il calcolo delle buste paga non è decisivo; ché esso comprende solo le entrate in danaro. Chi ha mai calcolato il valore dei benefici ricevuti sotto le specie di fitti di favore, di case-cooperative sussidiate dallo stato, di generi di consumo acquistati a sottoprezzo in spacci ai quali lo stato concede locali gratuiti, con o senza illuminazione o riscaldamento e servizi pur gratuiti di impiegati e commessi remunerati sul bilancio di qualche ministero? Anche il risparmio sui biglietti di viaggio a prezzo ridotto sulle ferrovie assegnati ai funzionari pubblici dovrebbe essere aggiunto all’ammontare della busta paga, per ottenere la cifra vera della remunerazione degli statali. Naturalmente, al calcolo relativo agli impiegati pubblici dovrebbe accompagnarsi quello degli assegni e indennità, benefici di viaggi gratuiti, di case di favore, di automobili personali pagate a carico dello stato a ministri, sottosegretari, commissari, senatori, deputati ecc., ecc.

 

 

Poiché non tutti gli impiegati godono dei favori dianzi ricordati e di altri meno conosciuti, la notizia dell’importanza relativa di essi sarebbe estremamente utile per mettere in chiaro la differenza fra gruppo e gruppo di impiegati, fra residenti nella capitale ovvero nelle provincie, fra i privilegiati e gli assoggettati alle esigenze ordinarie del mercato. Quando le associazioni degli impiegati adducono i dati relativi a coloro i quali non godono di particolari facilitazioni, le quali tuttavia toccano centinaia di migliaia di persone, non fanno altro che seguire l’antico accettato pacifico metodo di tutti coloro che chiedono qualcosa allo stato. Si è mai visto un’associazione industriale, in vena di chiedere dazi contro la invasione dei tanto maleducati prodotti esteri, mettere in piazza i conti dei costi degli imprenditori più capaci e meglio attrezzati i quali potrebbero benissimo reggere colle proprie forze alla concorrenza estera? Mai no! I dati si riferiscono se non proprio ai produttori più scalcagnati, a quelli che dal margine non sono troppo lontani e non potendo tirare innanzi perché non sanno darsi da fare, accusano delle proprie disavventure l’infame straniero. Così fanno le associazioni del pubblico impiego: non tirano fuori gli esempi, pur numerosi, di coloro che sanno arrotondare legalissimamente i loro redditi, ma quello dell’impiegato nudo, che riscuote il solo stipendio o poco più. Erroneo ed inattendibile è il metodo degli industriali desiderosi di protezione; ma altrettanto erroneo ed inattendibile quello di tabelle reticenti in fatto di stipendi ai pubblici impiegati.

 

 

Nella discussione sugli stipendi è logico si discorra dell’adeguatezza di essi al cresciuto costo della vita. È diffusa l’impressione che, ridotti a moneta avente uguale capacità di acquisto, gli stipendi attuali siano inferiori a quelli di una volta: del 1938 o del 1913. Siccome, dal 1914 ad oggi non è più esistito in nessun paese del mondo quel riferimento preciso ad un dato peso di oro fino, in virtù del quale si facevano paragoni, almeno grossolanamente, apprezzabili, così parmi sia preferibile parlare, meglio che del 1938, degli stipendi del 1913.

 

 

L’annuario statistico italiano calcolerebbe in 252,4 circa il moltiplico opportuno a paragonare la variazione del costo della vita fra il 1913 e il 1954. Chi riceveva allora uno stipendio di 1 lira, dovrebbe riceverne oggi 252,4. Il moltiplico, osservo subito, non tiene conto dell’aumento dei bisogni, derivato dall’aumento nella produttività umana verificatosi lungo il quarantennio. Gli italiani sono riusciti a meritare, col maggior lavoro e con la più grande perizia tecnica ed organizzativa, una miglior condizione di vita. Se non si producesse di più non si potrebbe consumare di più, se non portando via la differenza a qualche nazione straniera; il che non solo noi non vogliamo, ma non accade.

 

 

Di quanto è aumentata la produttività italiana reale – non monetaria – nell’ultimo quarantennio? Se avessimo goduto nel frattempo di pace ininterrotta, l’aumento avrebbe dovuto essere superiore al 100%; e cioè, tenuto conto dell’aumento dei prezzi, il coefficiente di aumento nominale del reddito nazionale dovrebbe essere il doppio di 252,4, ossia di circa 500 volte. A causa delle distruzioni provocate dalle due grandi guerre e dai turbamenti monetari e sociali che ne furono la conseguenza, l’aumento fu certamente minore. Il compendio statistico italiano calcola (a p. 330 dell’edizione del 1955) da 1 a 351,1 l’aumento del prodotto netto per abitante ai prezzi di mercato fra le medesime date del 1913 e del 1954. In talun particolare ramo di attività, l’aumento fu notevolmente superiore, ma nella media generale di tutti i rami di occupazione, inclusi quelli agricoli, artigiani, professionali ed impiegatizi, il coefficiente 351,1 può sembrare abbastanza approssimato al vero. Ciò vuoi dire che il coefficiente d’aumento da applicarsi agli stipendi del 1913 dovrebbe essere calcolato non nelle sole 252 volte corrispondenti all’aumento nel costo della vita, ma nelle maggiori 351,1 volte corrispondenti alla cresciuta produttività media italiana. Un coefficiente maggiore di 351,1 dovrebbe essere considerato scorretto, perché da qual fonte mai si traggono, in tutti i paesi del mondo, i redditi delle diverse classi sociali se non dalla torta comune? Facciasi tuttavia l’ipotesi, forse non consentita agevolmente dagli altri italiani, che la produttività media degli impiegati sia cresciuta di più di quella dell’italiano medio ed arrotondiamo il moltiplico, invece che a 351, a 400 volte. Un amico propose: e se si offrisse agli impiegati di assegnare loro lo stipendio pieno (ovverosia la busta paga) del 1913 moltiplicato per 400; ossia se si offrisse una remunerazione cresciuta notevolmente più di quel che sia cresciuto il prodotto netto che gli italiani sono chiamati a dividere tra tutti, che cosa accadrebbe? Un interlocutore rispose sicuro: la grande maggioranza non accetterebbe la proposta perché le buste paga attuali sono per lo più superiori all’ammontare risultante da quel moltiplico. Io non oso dare alcuna risposta, per la solita ragione: che nessuno sa niente in proposito. Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare.

 

 

Altro argomento che dopo il 1945, ossia dopo l’inizio delle conferenze, riunioni, congressi internazionali, ha molta fortuna, è quello dei confronti con l’estero. Diplomatici, generali, direttori generali e funzionari del tesoro, del commercio estero e di ogni sorta di ministeri vanno e vengono, riscuotono indennità e diarie, calcolati un po’ all’italiana e un po’ secondo le regole della nazione mista che nel medioevo si diceva franca, e dopo ginevrina ed ora americana; fanno confronti mortificanti e concludono: noi siamo i servitori pubblici peggio pagati del mondo. Prima vengono gli americani con cinque o sei volte tanto, s’intende tutto ridotto in dollari; poi gli inglesi e i belgi con paghe da due a tre volte, poi i francesi, poi noi. Il problema è divenuto attuale, col patto atlantico, per le necessità di non trattare diversamente generali, colonnelli e funzionari dello stesso grado, che lavorano gli uni accanto agli altri e fanno lavoro ugualmente apprezzato. Si può continuare a pagare gli uni cinque e gli altri uno? Se i generali, i colonnelli, i funzionari assegnati alle unità e agli uffici atlantici sono italiani, li pagheremo, sul bilancio comune, diversamente dagli stranieri? Se coloro che sono così assegnati fossero pagati cinque ovvero tre, laddove i pari grado rimasti a casa ricevono uno, come andrà a finire la gerarchia, l’ordine, la disciplina all’interno? Il problema è gravissimo; e non so come ci caveremo dall’imbroglio.

 

 

Frattanto, i confronti invidiosi tra paghe italiane e paghe estere richieggono una decisione. Né questa si può dare, senza conoscere i fatti. Anche qui, non sappiamo quasi nulla. Non basta dire che le circostanze sono diverse; che i salari stranieri sono più alti dei nostri; ma è più alto il costo della vita, sicché l’equilibrio spontaneamente si ristabilisce. Non basta, perché non è vero o almeno non si sa se e in quale misura sia vero che le paghe “reali” siano equilibrate. Negli Stati uniti, dove i salari sono i più alti, non è vero che il costo della vita si possa affermare proporzionatamente più alto di quello italiano: essendo più a buon mercato i generi correnti di consumo e più cari i servizi personali. Pane, carne, frutta, latte, vestiti fatti ecc. ecc. costano meno; ma se si ha bisogno di rimettere un vetro rotto, bisogna aver pazienza nel tempo e pagare l’ira di dio; sicché il vetro rotto è meglio rimetterselo da sé. Tutto ciò che può essere fabbricato in serie o all’ingrosso è più a buon mercato; quel che è frutto di lavoro artigiano o di servizi personali è assai più costoso. Gli italo-americani di prima generazione, e sono sempre meno numerosi, provvedono da sé ai piccoli lavori, riparano la casa e i mobili e probabilmente spendono meno, a parità di tenor di vita, che in Italia; gli altri forse di più. In ogni caso, i confronti sono difficili ed incerti.

 

 

I confronti monetari sono incerti anche per un altro verso. Suppongasi che gli stipendi pubblici americani siano in dollari dal quadruplo al quintuplo degli analoghi stipendi italiani. Quid del reddito medio dei cittadini che pagano quegli stipendi? Se è vero che il reddito medio annuo americano batte sui 1700 dollari, laddove il nostro starebbe sui 400 dollari, sarebbe anche vero che essi fanno all’incirca pari e patta, ossia che il funzionario americano il quale riceve uno stipendio uguale i quattro-cinque volte lo stipendio del funzionario italiano, non riceverebbe nulla di più di quel che gli è ragionevolmente garantito dalla maggiore produttività o maggior reddito medio americano. In tal caso, come si spiegherebbe una richiesta di ricevere di più di quel che gli italiani possono pagare? Adopero verbi dubitativi, perché in verità, come dissi sopra, se poco o nulla sappiamo di quel che è la busta paga italiana, ancor meno sappiamo – se non per sentito dire o per letture di tabelle non si sa da chi e con quali criteri compilate – sulle buste paga forestiere. Quanto al sapere quale sia l’ammontare, paese per paese, dei vari tipi di stipendio, non in cifre assolute in dollari, ma in relazione al reddito medio nazionale, che vorrebbe dire alla capacità della collettività dei contribuenti di pagare imposte, confessiamo umilmente di non saperne niente e di non essere in grado di dir nulla in merito alla controversia sul quanto sarebbe il giusto livello delle buste paga italiane in confronto a quelle straniere.

 

 

Qualche confessione auricolare avuta da colleghi miei universitari confermerebbe la utilità dei confronti esatti. Sia detto ad onore degli insegnanti universitari nostri: essi non chiedono nulla per sé – e questa, così mi si dice, fu anche l’opinione prevalente e forse unanime in recenti adunanze; – chiedono per i loro assistenti. I migliori scolari, che il professore titolare volentieri assumerebbe come assistenti ed essi sarebbero felici di perseguire la carriera accademica, debbono rinunciarvi, posti fra le 40 mila lire mensili offerte dall’università e le da 70 a 100 o 120 subito assegnate dalle grandi imprese industriali italiane ai giovani ingegneri, fisici, chimici usciti con bei voti dalla scuola. La querela non è peculiare all’Italia; ché la concorrenza fra università ed industria è viva anche in Inghilterra e negli Stati uniti; sicché le università anglosassoni, non astrette ad uguaglianza di paghe, si stanno decidendo ad offrire stipendi più alti ai giovani tecnici e medici in confronto a quelli che entrano nelle facoltà umanistiche o teoriche. Fa onore ai professori universitari italiani giunti al quarto o al terzo grado della gerarchia di preoccuparsi non di sé ma di coloro che dovrebbero nell’avvenire assicurare la continuazione dei buoni studi ed adesso sono, pur lacrimando, costretti dalle esigenze di famiglia, a rivolgersi ad occupazioni industriali, se meno attraenti spiritualmente, meglio remunerate.

 

 

Forse i miei colleghi hanno anche la vaga sensazione della difficoltà dei confronti fra la propria situazione finanziaria e quella dei colleghi stranieri. Sono davvero così alte le paghe degli universitari stranieri? Lo stipendio normale dell’insegnante detto professor delle grandi università inglesi (i professors sono nel corpo universitario una minoranza in confronto a coloro che in Italia sono qualificati come “professori ordinari”; ché i più sono lecturers e readers, praticamente onorati – ricordisi che Keynes non fu mai professore al par degli altri, ma minori nella gerarchia e remunerati più modestamente) non sta forse sulle 2000 lire sterline all’anno, ossia sui tre milioni e mezzo di lire italiane, ridotte in media dalla imposta sul reddito, che si paga da tutti, sui tre milioni? La media della busta paga, tenuto conto di tutte le aggiunte, della tredicesima, di un incarico, che tutti hanno, delle indennità diverse, propine, tasse, non si aggira, come da distinte esatte che mi furono recentemente rammostrate, su ugual cifra?

 

 

Non traggo alcuna deduzione dall’esempio addotto che potrebbe essere un unicum. Non mi soffermo sulle curiose leggende le quali corrono sulla vistosità inaudita degli stipendi dei giudici inglesi; dove si dimentica quasi sempre che quelle cifre sono soggette ad imposta e questa li riduce per lo più ai due terzi sino alla metà dell’ammontare nominale. Dico solo non sappiamo nulla e alle nostre deliberazioni manca il fondamento primo: conoscere.

 

 

Giova deliberare senza conoscere? Al deliberare deve, invero, seguire l’azione. Si delibera se si sa di potere attuare; non ci si decide per ostentazione velleitaria infeconda. Ma alla deliberazione immatura nulla segue. Si è fatto il conto delle leggi rimaste lettera vana, perché al primo tentare di attuarle sorgono difficoltà che si dovevano prevedere, che erano state previste, ma le critiche erano state tenute in non cale, quasi i contraddittori parlassero per partito preso? Le leggi frettolose partoriscono nuove leggi intese ad emendare, a perfezionare; ma le nuove, essendo dettate dall’urgenza di rimediare a difetti proprii di quelle male studiate, sono, inapplicabili, se non a costo di sotterfugi, e fa d’uopo perfezionarle ancora, sicché ben presto il tutto diventa un groviglio inestricabile, da cui nessuno cava più i piedi; e si è costretti a scegliere la via di minor resistenza, che è di non far niente e frattanto tenere adunanze e scrivere rapporti e tirare stipendi in uffici occupatissimi a pestar l’acqua nel mortaio delle riforme urgenti.

 

 

L’azione va incontro all’insuccesso anche perché non di rado le conoscenze radunate con fervore di zelo non erano guidate da un filo conduttore. Non conosce chi cerca, bensì colui che sa cercare. Perché le commissioni alle quali è affidato il compito del conoscere non debbono essere composte solo di pratici, di competenti, di funzionari; giova includere un piccolo, anzi piccolissimo, pizzico di teorici. Dicendo teorico, non si vuole accennare agli “esperti” – in lingua italiana detti “periti” – i quali conoscono tutto del problema nei minimi particolari: precedenti, esperienze comparate estere, discussioni passate presenti e future; tutto, salvo il filo conduttore atto a scoprire il vero problema da risolvere. I periti hanno pronta la ricetta specifica adatta alla soluzione; e non occorre essere periti perché le ricette specifiche sono di dominio pubblico, subito esposte nelle lettere ai direttori dei quotidiani da lettori meravigliati non siano ancora state usate. Occorre occupare i disoccupati? Basta diminuire da 48 a 40, da 40 a 36, da 36 a 30 le ore settimanali di lavoro; basta mandare a casa i figli, le figlie, le mogli degli impiegati in carica, perché altrettanti posti si facciano vacanti e la disoccupazione scompaia.

 

 

Fatta qualche eccezione, la quale non è connessa col rimedio, ma con circostanze diverse contemporaneamente verificatesi o indipendentemente provocate, quasi sempre le ricette sono empiastri su una gamba di legno. Un teorico, ossia un uomo di buon senso che sappia ragionare ed abbia conoscenza critica del passato e degli infiniti spropositi commessi in passato, giova a far schivare le proposte più ovviamente sbagliate, le analisi mal condotte; sovratutto giova ad inspirare un salutare scetticismo sulla possibilità di giungere a soluzioni logiche in quelle che sono le complicate situazioni sociali ed economiche di questo mondo mal fatto, rese più complicate dalla difficoltà grandissima di scartare analisi e soluzioni politicamente popolari e di accogliere invece quelle buone, necessariamente impopolari. Spetta ai pratici e politici il compito specifico di far trangugiare all’opinione pubblica le soluzioni buone e spiacevoli travestendole da cattive e gradite.

 

 

Ma la conoscenza non si ottiene se invece del teorico o uomo di buon senso la ricerca del vero è affidata al dottrinario. Costui è un personaggio che possiede una dottrina, ed ha fede in quella. Egli non ragiona sul fondamento dei dati da lui conosciuti e della tanta o poca capacità di raziocinio ricevuta alla nascita da madre natura e perfezionata collo studio e colla esperienza. No; il dottrinario ragiona “al punto di vista”. Prima di studiare, egli sa già quel che deve dire. Anche se non è iscritto ad alcun partito; anche se non teme di essere espulso dal suo gruppo parlamentare; anche se non parla e non vota in conformità alle tavole statutarie deliberate nelle assise della sua parte, egli è genericamente liberale o socialista o comunista o democristiano o socialdemocratico o laburista o corporativista. Quindi sa che, “al punto di vista” della sua fede sociale e politica, la soluzione è quella. Non importa conoscere l’indole propria del problema, la sua nascita, le sue cause, i suoi precedenti. La soluzione è bell’e trovata. Talvolta, pressato dalle osservazioni persuasive del contraddittore, arriva sino a confessare «sì, quel che tu dici è esatto e si dovrebbe tenerne conto; ma io, con rincrescimento, debbo tener fermo ai principi che informano la mia condotta».

 

 

In verità, quei “principi”, non sono niente, sono tutto fuorché “principi”. Non esistono “principi”, i quali non siano fondati sulla esperienza e sul ragionamento, e non possano essere contraddetti da altri ragionamenti e da altre esperienze. Gli uomini del “punto di vista” non dichiarano principi, bensì vecchie fruste frasi fatte che, forse, un secolo o mezzo secolo fa avevano, in altre circostanze di fatto, un contenuto ed ora sono l’ombra di se stesse. Tuttavia, siccome la mente umana, fuor della fisica, della chimica, del calcolo matematico e di simiglianti territori vietati ai dilettanti e ai chiacchieroni, è pigra e nel tempo stesso amantissima delle novità, specie se popolari e seducenti ed odia le novità che promettono poco in seguito a lunga fatica, così quel che un tempo era parso nuovo ed era entrato nel bagaglio di una certa corrente ideologica seguita per inerzia ad essere magnificato come l’ottimo modernissimo portato del più ardimentoso progresso. I liberali avevano un tempo accolto, per ottime ragioni ed entro precisi limiti, ambi validissimi tuttora, il principio del “lasciar fare e lasciar passare”? Ancora oggi, taluno si sente liberale solo perché, ad ogni proposta di intervento dello stato, salta su come un istrice e dice che così si cammina sulla strada che porta alla tirannia comunistica, anche quando quello specifico intervento intende e non di rado riesce a promuovere la iniziativa privata e la concorrenza tra produttori. I socialisti un tempo, un secolo fa e più, avevano assunto come segnacolo in vessillo la nazionalizzazione di qualche industria? Ecco che ancor oggi, chi si professa socialista crede di dovere scegliere una qualunque soluzione solo perché nazionalizzatrice. Frattanto la esperienza ha dimostrato che la nazionalizzazione, in se stessa ed accolta per principio in ogni caso, è una grossa fandonia, venuta a noia a quegli stessi fabiani che tra il 1880 e il 1890 l’avevano chiarita ed ai laburisti che parzialmente l’avevano tradotta poi in atto. Fabiani e laburisti non hanno abbandonato la formula; ancora la sbandierano nei programmi annui, dove si elencano in proposito centinaia di postulati; ma la difendono in sordina e vanno affannosamente in cerca di qualche altro principio, meglio fecondo di bene al paese. Sinché il vento delle parole non sia mutato, quello è tuttavia il “principio” al cui “punto di vista” l’uomo socialista deve sottomettersi. Forseché, sussistendo “un punto di vista”, fa d’uopo cercare e, cercando, conoscere?

 

 

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