Opera Omnia Luigi Einaudi

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Prefazione

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Ediz. di storia e letteratura, Roma, 1953

Con poche eccezioni, la silloge che qui si presenta, è composta di saggi pubblicati tra il 1933 ed il 1941 nella rivista La Riforma Sociale e poi, quando questa fu soppressa dal regime fascistico, nella Rivista di storia economica che forse parve ai governanti del tempo meno fastidiosa a cagione della sua limitazione a cose passate. Ma già il Sismondi, in una lettera del 1835 al Brofferio aveva avvertito i vantaggi che la censura offre agli scrittori costringendoli ad essere avveduti nel dichiarare la verità invisa ai tiranni; sicché il numero dei lettori ed il potere di persuasione su di essi crescono più di quanto non accada in tempi di libertà, quando la facilità del linguaggio e la violenza delle polemiche alienano il pubblico.

I saggi datati dal 1936 al 1941 agevolmente persuadono che il forzato velo storico non vietò mai a chi scrive di discutere problemi contemporanei. Fanno eccezione, per data, il saggio sul Galiani scritto nel 1944 e pubblicato nel 1945 in una rivista svizzera; la recensione del 1951 ai primi due volumi della edizione critica delle opere di Davide Ricardo procurata da Piero Sraffa; e l’elenco degli scritti di e su Adamo Smith aggiunto ad occasione della presente ristampa al saggio su Adamo Smith. L’aggiunta novissima ricorda l’origine prima degli scritti oggi raccolti; che fu il tentativo, iniziato col titolo di Viaggio tra i miei libri e mai condotto a termine, di offrire agli studiosi italiani di cose economiche un complemento ai saggi bibliografici di Luigi Cossa, con i quali esso non intendeva tuttavia rivaleggiare per compiutezza, a causa del vincolo posto all’elenco di comprendere solo i libri da me posseduti intorno ad alcuni autori, ad esempio Francesco Ferrara, Adamo Smith, Federico Le Play; e l’elenco avrebbe dovuto seguitare per altri autori ed estendersi ad alcuni problemi particolari a torto od a ragione preferiti. Il tentativo, nella sua voluta esclusione dei libri non voluti o non potuti acquistare, non sarebbe stato senza qualche utilità alla quale nel testo (pp. 3 e segg.) si fa riferimento. Direi che esso sia fallito forse soltanto in ciò che l’elenco pretendeva altresì indicare di passata il prezzo probabile di mercato o ragionevolmente spendibile per l’acquisto dei libri descritti. Provvide la svalutazione della lira a rendere quei prezzi – che non mutai per non aggiungere errore ad errore – antidiluviani; ma provvide anche l’interesse nuovamente destatosi in Italia per i libri economici antichi o vecchi od esauriti. Quando cominciai a raccogliere, conoscevo un solo rivale pericoloso ed era l’amico, e collega nell’ateneo torinese, Giuseppe Prato. A poco a poco, i ricercatori si sono moltiplicati ed io che sono forzato a sfogliare rapidamente e con ritardo i cataloghi, ben di rado sono oggi fortunato nell’ottenere i pezzi rari. Qua e là nel testo si leggono perciò auguri di aumento nel numero dei ricercatori, auguri oggi fortunatamente avverati, particolarmente ad opera di amatori di libri economici viventi fuor dalla confraternita accademica e forse perciò atti a pagare i prezzi egregi odiernamente richiesti dai librai antiquari e sovrattutto da quelli di costoro che meritano successo per la preparazione specifica bibliografica (cfr. pagina 215 in nota).

Su questo punto e su qualche altro (ad es. i cataloghi dei libri posseduti da Adamo Smith e le sconcezze accadute nel ristampar Ferrara, Senior, Rae) il lettore riscontrerà ripetizioni noiose; rimaste vive a cagion del fastidio di rimaneggiare scritti venuti alla luce compiuti in se stessi, e dunque privi di riferimenti ad altri scritti allora non pubblicati o volti ad altro proposito. Qualche ripetizione, fra le più grosse, fu potuta togliere, ad esempio nel saggio su Galiani; ed anche lì qualche brano fa doppio con quello del vicin saggio sulla moneta immaginaria, ma non poteva essere cancellato senza lasciare l’argomento in aria. Nonostante i quali vizi, il volume, che in fondo avrebbe potuto anche essere intitolato, dal primo saggio in esso contenuto, Viaggio tra i miei libri non mi dispiace troppo.

Innanzitutto, quei libri, essendo dovuti a penne insigni, hanno benevolmente consentito a servirmi da utile attaccapanni. Non sempre accade di avere sottomano nomi come quelli di Ferdinando Galiani, di Adamo Smith, di Francesco Ferrara o di minori di gran levatura, anche se non troppo letti o persino dimenticati, come il marchese d’Argenson, Sismondo de Sismondi, Francesco Fuoco, Carlo Ignazio Giulio, Antonio Scialoja e di potere prendersi il gusto di riprodurre e commentare qualcuna delle loro teorie, particolarmente se contrastanti con la descrizione che di essi si legge nella letteratura manualistica od in quella, più contennenda, degli anti-qualcosa, anti-economisti, anti-fisiocrati, anti-liberisti, anti-classicisti, anti-socialisti, ecc. ecc.

Non fa piacere, a cagion d’esempio, citare, sulla faccia dei frettolosi sempre pronti a sparlare di Adamo Smith, come dell’arcibarbasso del capitalismo e del liberista difensore dei privilegiati, le parole sue proprie nelle quali si legge una infiammata condanna della iniquità di privare il lavoratore dell’intero frutto del suo lavoro? (qui, pp. 97-99). Chi parla per sentito dire, vede teorici e teorie attraverso una nebulosa di tipi generici; chi legge i testi vede l’uomo.

Uno dei motivi fondamentali del presente vagabondaggio attraverso i miei libri è perciò l’antipatia, che pare non di rado volgersi in disprezzo, verso il tipo classificatorio nella storia delle idee economiche. C’è certa gente la quale non è contenta se ad ogni scrittore non ha appiccicato un cartellino con su scritto: giusto prezzista o canonista, mercantilista, fisiocrate, liberista, protezionista, socialista, utopista, socialista scientifico o marxista, socialista cattolico, socialista della cattedra, economista matematico, istituzionalista, walrasiano, marshalliano, paretiano, keynesiano, econometrico ecc. ecc. Non sono state ancora coniate parole adatte per indicare coloro che particolarmente indagano le variazioni dinamiche della società economica o puntano sul concetto del reddito sociale per descrivere il meccanismo economico contemporaneo; ma quando gli aggettivi appropriati saranno scoperti ed accettati, guai a chi tocca! Sarà degli ultimi modernissimi come dei vecchi antiquati: mai più potranno salvarsi dal cartellino. Inutilmente Adamo Smith o Francesco Ferrara hanno scritto pagine che soltanto essi, che erano quegli uomini in carne ed ossa, con quella testa, fatta così, potevano scrivere e che nessun loro contemporaneo o predecessore o seguitatore sarebbe mai stato capace di scrivere. Tutto inutile: Adamo Smith è il capo degli economisti liberisti, il fondatore della scienza economica classica; Francesco Ferrara è l’economista liberista principe del risorgimento italiano; ossia amendue sono niente, sono meri caposcuola, la cui dottrina è conosciuta principalmente per la caricatura fattane dai loro nemici protezionisti o socialisti; come, inversamente, List, arcifanfano dei protezionisti, è conosciuto attraverso la caricatura che del protezionismo usano fare i liberisti spiccioli; e Saint-Simon, Fourier e Proudhon sono noti per il vilipendio accumulato dai socialisti detti scientifici sulla loro testa utopistica. Dal vagabondare, mosso dalla curiosità del leggere i testi originali della gente etichettata e perciò infamata, ho tratto una convinzione: che alle istorie delle “scuole” economiche, buone al più per agevolare durante gli esami agli studenti pigri una risposta facilmente mandata a memoria, fa d’uopo sostituire urgentemente schizzi di economisti singoli, scelti a volta a volta tra i grandi, i bravi e, perché no?, tra i cattivi. Che cosa importa, a cagion di esempio, di sapere se Ferdinando Galiani fosse mercantilista o liberista? Assolutamente nulla. Tanti altri meritarono di essere etichettati con quei nomacci; e lo meritarono perché non dissero nulla, non trasmisero agli uomini nessun messaggio, limitandosi a ripetere quel che tanti dicevano. Invece Galiani disse, sui 20 anni, qualcosa di suo; e di nuovo disse di suo qualcos’altro sui 40. Questo è quel che importa scavare nei suoi scritti e non le solite classificazioni o categorizzazioni od etichettature che lo fanno scomparire in mezzo alla folla grigia di color che mai non furono. Dopo aver scavato si scopre che Galiani non è né fisiocrate né antifisiocrate, né liberista né protezionista; ma era semplicemente Galiani, l’uomo di ingegno più pronto ai suoi giorni, di Francia e di Italia, l’uomo che per divertirsi prendeva in giro tutti i sopracciò meditanti a vuoto e presentandosi a Luigi XV nei saloni di Versailles, lui piccolo di statura, come un échantillon d’ambassadeur, si procacciava universali simpatie da re e da cortigiani, già pronti a ridere della sua schiena alquanto curva. Val la pena di classificare un uomo, il quale tant’anni prima se ne parlasse come di scoperte, applicava lo strumento delle successive approssimazioni, usava, sulle orme di Vico, il metodo storico, esponeva chiarissimamente il principio della decrescenza dell’utilità delle dosi successive di un bene, risolveva il paradosso, lasciato insoluto dal Davanzati, dell’utilità somma e del valore nullo dell’aria e dell’acqua, dichiarava, meglio di tanti moderni, i vantaggi ed i danni delle svalutazioni monetarie ed inventava una clausola, che dal suo nome dissi galianea la quale, se applicata, avrebbe risoluto i problemi fastidiosi del bimetallismo oro ed argento e resa evidente la verità che le variazioni dei cambi sono un fatto interno, dei cui inconvenienti non è lecito dar la colpa all'”odiato straniero”?

In luogo di etichettarlo, collocandolo in una finca qualunque, diciamo che Galiani era un genio rarissimo, di cui i libri si leggono oggi con lo stesso stupore e la medesima gioia di quando vennero alla luce; e diciamo invece che il suo contemporaneo marchese Girolamo Belloni, nonostante le recensioni laudatorie dei competenti e le epistole gratulatorie di Pietro Metastasio alla sua dissertazione Del Commercio, stampata in varie edizioni, di lusso ed ordinarie, può essere bensì catalogato, a libito dello scrittore di storie per ragazzi, tra le scritture post mercantiliste ovvero tra quelle precorritrici del corporativismo; ma è certamente una testa fatua, scientificamente piena di pappa. Anche le scritture fatue sono tuttavia non di rado utili. Poiché tradizionalmente il Belloni godeva fama di economista, sicché il Custodi l’aveva ristampato nella sua grande raccolta, parve obbligatorio, dopo la prima lettura giovanile, rileggerlo di proposito un giorno che mi capitò, mentre curavo l’edizione di cose edite di Bodin e di Malestroit e di una inedita da me scoperta a prima apertura di un catalogo della “Bibliotheque Nationale” di Parigi – e la scoperta ancor oggi parmi stravagante, tanti erano stati gli eruditissimi uomini i quali avevano studiato la celebre polemica monetaristica, e ne avevano letto la chiusa, la quale accennava ad un seguito – di provare il dovere di intendere, un po’ meglio di quanto prima non intendessi, il significato di una entità misteriosa detta «moneta immaginaria». Leggendo, mi avvidi che il Belloni era un povero diavolo che si sforzava con gran tramestìo di parole, di spiegare altrui ciò che egli stesso non intendeva. Sicché mi venne voglia di andare a fondo di quel significato e scrissi la «teoria della moneta immaginaria» (vedila in questo volume a pp. 229-266) nella quale misi innanzi una spiegazione di quella moneta, che allora «mi parve nuova» (p. 261) e di cui ancora oggi non so chi l’avesse dichiarata innanzi di me. Sia vera o sbagliata, di quella interpretazione storica sono debitore alla rabbia provata nel non riuscire a comprendere quel che al povero Belloni pareva di avere chiarissimamente spiegato; nella stessa guisa in cui anche oggi banchieri fortunati – ed il Belloni meritatamente con la banca aveva guadagnato denari e si era procacciato dal papa il titolo di marchese – od industriali valorosi espongono ad esterrefatti studiosi di cose economiche pensamenti che ad essi paiono l’evidenza medesima e sono invece scatoloni vuoti di un qualsiasi contenuto.

Per avermi costretto ad intendere od a tentar di intendere quel che egli non era riuscito forse a capire e certamente a chiarire altrui, tengo caro, tra i miei libri, la bella copia di una edizione della dissertazione sul commercio di Girolamo Belloni. Anche i libri nulli possono giovare a chi li legge, se riescono ad infuriarlo dapprima contro se stesso, per la inettitudine ad intendere cose dichiarate evidenti, e poi contro l’autore, scoperto in peccato di vuota superbia.

Se talun libro merita di essere tenuto caro per lo stimolo fornito ad apprezzarne la nullità, altri libri diventano cari perché, leggendoli, a poco a poco ci si persuade che sono libri grandi non solo per le qualità da tutti ammirate, ma per altre, di cui non si discorre negli scritti dei discepoli e degli ammiratori, qualità che dapprima sono intuite in confuso e lentamente si chiariscono, sino ad imporsi con l’evidenza della verità sicura. È il caso della sessantina di opere elencate in fine del presente volume tra quelle scritte da e su Federico Le Play. Notissimo e citatissimo come autore dei bilanci dei beni di famiglia e della libertà testamentaria; ricordato come propugnatore di una sua riforma sociale, fondatore di un metodo di studio dei fatti sociali, Federico Le Play mi apparve, attraverso la lettura di quasi tutto ciò egli scrisse, pensatore di ben altra grandezza. Egli non si indugiò soltanto, come tanti moderni, a raccogliere notizie sulle condizioni dei cittadini e dei rustici, sui prezzi, sulle imposte, sui costi, sui mercati, sulla produzione e sulla vendita – e ne raccolse con scrupolo sommo molte ancor oggi degne di meditazione – ma al di là di queste «grossissime bazzecole» (sotto pag. 341) ricordò che Olivier de Serres, autore di quel Théâtre d’agriculture su cui Enrico IV amò istruirsi per trarne guida nelle cose dello stato, reputava fondamento principalissimo di successo nel governo della terra da parte del capo famiglia la scelta «d’une sage et vertueuse femme, pour faire leurs communes affaires avec parfaite amitié et bonne intelligence…, estant la femme l’un des plus importants ressorts du ménage, de laquelle la conduite est à préférer à toute autre science de la colture des champs». Meditando sulla quale massima e sulle fazioni compiute percorrendo a piedi l’Europa dalla Spagna agli Urali e dal Mediterraneo alla Scandinavia, Le Play perfezionò, avanti lettera, le teorie di Mosca e di Pareto intese a spiegare le ragioni in virtù delle quali, in tutti i regimi e sotto l’impero di tutte le costituzioni, la minoranza governa e dirige la maggioranza. La classe politica di Mosca e la élite di Pareto governano popoli perché hanno le virtù fisiche, economiche, intellettuali necessarie a dirigere ed a dominare le moltitudini. Esistono in ogni paese ed in ogni tempo i ceti dirigenti atti a tenere in mano il governo; procacciando a sé potere e ricchezza e talvolta fomentando le scienze, le lettere, le arti, e forsanco crescendo il benessere delle popolazioni. Gli scrittori italiani del cinquecento dicevano «virtuosi’» costoro; ma la virtù era spesso sinonimo di abilità, astuzia, inganno, tradimento, assassinio. Le classi dirigenti posseggono le virtù atte al dominio; ma son virtù, che le farebbe non di rado dannare da Dante all’inferno. Le Play fece altra ricerca e scrisse nelle monografie di famiglia contenute nei sei volumi degli Ouvriers Européens una strana e stupenda storia dell’umanità. La sua classe eletta non si identifica con la classe politica di Mosca o con la élite di Pareto; ma la classe eletta che egli chiama delle «autorità sociali» e si conosce dai risultati. Se questi sono di discordia e di dissoluzione noi vediamo soltanto ceti dominanti; se essi sono di prosperità riconosciamo la presenza degli «eletti» ed i popoli se ne lasciano guidare senza uopo di coazione politica. Ma la prosperità di Le Play non è quella economica; sibbene quella morale derivata dalla osservanza del decalogo e da essa deriva a sua volta la prosperità economica o, meglio, una peculiare specie di prosperità economica, dove, al luogo dell’invidia e dell’odio, si contemplano la pace e la stabilità sociale. Laddove sempre, pure nelle società volte alla dissoluzione ed alla morte, esistono ceti governanti e dirigenti, la classe eletta è quella che fa durare nel tempo stati e nazioni. Di avere veduto, accanto allo statistico, al sociologo ed al riformatore, in Federico Le Play lo storico ed il teorico politico debbo ringraziare la passione, che, per gli autori preferiti ed i problemi che mi inquietarono mi spinge ad arricchire a poco a poco le piccole raccolte il cui insieme forma la mia biblioteca. Che importa se essa sia di tanto inferiore a quelle celeberrime delle quali discorro nel primo dei saggi contenuti in questa silloge? E se in essa si osservano spaventevoli lacune in argomenti da tutti i miei confratelli riputati di grande rilevanza? I libri che un privato raccoglie hanno il compito di servire a lui od ai suoi scolari; ed a me, che non uso e non leggo altri libri fuor di quelli che so di poter ritrovare in casa senza chiederli in prestito altrui, giovarono a scrivere i saggi che l’editore vuole oggi ripresentare agli sperati quattro lettori. Ai quali il libro vorrebbe offrire un solo insegnamento: di non mai citare alcun libro se non lo si ha avuto materialmente in mano e di non fidarsi di alcuna citazione altrui, senza averla con i propri occhi verificata. E poiché questo ideale non sempre si può raggiungere, non aver vergogna di confessare che si è quella volta letto attraverso occhi altrui. Nobile confessione, che onora il peccatore.

Dogliani, nel luglio del 1952

Teoria e pratica e di alcune storture intorno alla equazione degli scambi

«La Riforma Sociale», settembre-ottobre 1931, pp. 510-522

Mario Mazzucchelli: Crisi e cause (in «Rivista bancaria» del 15 agosto 1931, pag. 659-668).

1. – La fama che Mario Mazzucchelli ha saputo guadagnarsi tra gli studiosi italiani di problemi economici concreti: economisti professionali, banchieri, industriali, uomini d’affari, e, suppongo parecchi funzionari delle finanze e uomini politici – è, immagino, – invidiata da molti. Gli ho sentito negare qualità di scrittore, perché adopera parole stravaganti, di sua privatissima fattura: «neofitici, teoretici (invece di teorici), farnientisti, sottopunti, influenzante, alcoolizzamento»; e cito solo dal fascicolo di agosto, con in più l’inimitabile «crisastico», aggettivo a cui M. è quasi riuscito, per la ostinatezza nell’adoperarlo, a dare diritto di cittadinanza nella lingua italiana. Sono lievemente comiche le filastrocche interminabili di: «S.E., Comm., Prof., Grand Uff., Cav. di Gran Croce, Dott., Avv.» e via dicendo, appiccicate da lui ai personaggi importanti che gli capita di citare[1] ; rasentano talvolta l’assurdo i suoi ditirambici elogi a relazioni stampate intorno a fatti di ordinaria amministrazione. Nonostante le quali inesperienze di scrittore, Mazzucchelli si è imposto per la forma e per la sostanza. Lo stile nervoso, originale, colorito, il buon senso tipicamente ambrosiano, le interpretazioni opportune e calzanti, l’attitudine sorniona a vedere, attraverso cifre apparentemente innocue, il fatto degno di essere chiarito; l’esperienza, che si sente viva ed affinata da lungo contatto con il mondo bancario, l’occhio clinico del conoscitore di bottegai e di contadini, di finanzieri e di massaie hanno fatto delle Considerazioni sul conto del tesoro, sul bilancio e sulla circolazione, pubblicate da M. ogni mese sulla Rivista Bancaria, la cronaca economica forse più letta d’Italia. La cronaca di M. ha il titolo più qualunque che si possa immaginare, il meno atto ad eccitare l’attenzione del pubblico; la materia trattata fu sempre ritenuta noiosissima; il documento ufficiale in cui quella materia si contiene suppongo in altri tempi non avesse più di tre lettori. Se oggi del conto del tesoro si vendono non so quante, ma certo parecchie copie, il merito è un po’ del conto medesimo compilato assai meglio di prima, un po’ dell’interesse con cui si seguono le vicende del tesoro e della banca d’emissione per trarne, in tempi duri, oroscopi di consigli per l’avvenire, ed un po’ di Mazzucchelli, il quale ogni mese spiega, combina, ricorda le cifre del mese e dell’anno precedente, borbotta e loda, loda assai per ottener venia di borbottare qualcosa; pesta e ripesta sul medesimo chiodo e qualcosa ogni tanto ottiene dal governatore della banca d’Italia, dal ragioniere generale dello Stato, dal direttore generale del tesoro, a cui tributa senza risparmio incenso di onorificenze, di illustrazione e di eminenza, ma da cui in cambio riesce a farsi leggere e anche ascoltare.

2. – Anch’io sono tra gli assidui ed attenti lettori delle cronache di Mazzucchelli; e ripetutamente lamentai, per golosità di lettore non sazio, che per non si sa quale necessità tecnica di stampa la cronaca, uscisse ritardata di un mese: in luglio quella del conto del tesoro del maggio, in agosto quella del giugno, sicché il lettore, che ha già sott’occhio il conto del tesoro di luglio, deve in agosto contentarsi di leggere i commenti di Mazzucchelli sul conto di giugno, e per l’impazienza di doverli scorrere in ritardo si arrabbia. In qualità di lettore assiduo ed affezionato – quanti sono i pubblicisti italiani i quali in materia astrusa hanno lettori assidui ed affezionati – non sempre sono d’accordo con Mazzucchelli. Ed ho preso la penna in mano per dirgli di un vezzo che nelle sue cronache mi dà fastidio. Segno anche questo di affezione e di stima; perché le cose insipide che molti scrivono non danno fastidio a nessuno. Il vezzo è quel suo contrapporre, non abbastanza raro e non casuale, di pratica a teoria. È comunissimo quel contrapposto in bocca di tutti coloro che non hanno studiato od hanno studiato male; ma è vezzo volgare e stona in bocca a chi, come Mazzucchelli, ha la testa fatta per fare ed effettivamente fa, ragionamenti economici esatti. Quel contrapposto è falso perché “teoria” vuol dire unicamente rappresentazione abbreviata, schematica, parziale della realtà. Siccome è impossibile descrivere in un numero non sterminato di parole una realtà che, del resto, “tutta” non è conosciuta né conoscibile, fu, è e sarà giocoforza astrarre, semplificare, porre ipotesi. La teoria economica è “necessariamente” ipotetica perché ragiona che cosa accadrebbe se agissero, invece di mille, centomila, un milione di forze, alcune poche forze ben definite. È forse lamentabile che l’ingegno umano sia così corto da non poter ragionar diversamente; ma nemo ad impossibilia tenetur. Nessun teorico pretende che le sue conclusioni siano tali e quali verificabili nella realtà; ma, se egli ha ragionato bene, nessuno può negare siano vere nei limiti delle ipotesi fatte. Quando il cosidetto “pratico” si lagna dei teorici, quasi sempre egli altro non fa che sostituire una sua ipotesi diversa a quella posta dal teorico; ma, diversamente dal teorico, egli non sa di porre una ipotesi parzialissima, pretende che essa rappresenti tutta la realtà, ragiona erroneamente e conclude storto. Che davvero, per parecchie generazioni, studiosi ed osservatori si siano tutti sbagliati ed abbiano scelto ipotesi irrilevanti, poco importanti, trascurando quelle fondamentali? Non è credibile; e se fosse stato, la concorrenza fra economisti è tale che essi a volo avrebbero appreso ed utilizzato e fecondato le ipotesi prima trascurate. Il che è appunto quel che si fa. Ad ogni generazione la scienza progredisce; perché quel che era intuito di pratici diventa ipotesi feconda di teorici e rinnova la sostanza e la forma della dottrina. Non dunque contrasto fra teoria e pratica; ma collaborazione fra di esse, allo scopo di spazzar fuori dal tempio della scienza i facitori di false teorie, inette a rappresentare una qualsiasi porzione, piccola o grande, della realtà, perché fondate su ipotesi inconcludenti o sbagliate ed i profittatori della pratica, i quali vorrebbero che la teoria si rendesse mancipia dei loro privati interessi.

3. – Da qualche tempo Mazzucchelli ha un fatto personale contro i quantitativisti monetari, tipo Cassel, Fisher, Keynes ed altri che egli, ad esempio, accusa di attribuire «con dogmatismo assoluto, che non ammette neppure la minima deroga» la crisi mondiale presente a pure e sole cause monetarie; e dopo vario discorrere la dice invece dovuta:

 

a) alla grande guerra;

b) alla superinflazione monetaria, creditizia, di debiti statali e di enti locali, mobiliare, mentale ed insomma generale;

c) al progresso tecnico in tutti i rami della produzione;

d) alla inelasticità degli alti salari mondiali;

e) agli elevati ed ancor più inelastici sussidi di disoccupazione;

f) al permanere, a causa dei salari, di gravissima distanza fra prezzi industriali e prezzi agricoli, minerari e coloniali;

g) alla persistente o crescente vischiosità fra prezzi di grosso e prezzi al minuto;

h) all’importanza crescente dei sindacati intesi a mantenere alti i prezzi industriali in tempi di ribasso dei prezzi delle materie prime;

i) all’entrata rapidissima nell’agone produttivo di paesi industrialmente nuovi o quasi nuovi (Russia, Asia, America, Australia);

l) alle conseguenze antieconomiche della guerra: spezzettamento di Stati, alte barriere doganali, ostacoli alla emigrazione, spreco nella creazione di duploni, triploni, quadruploni produttivi, ecc. ecc.

4. – Io chiudo gli occhi e mi ripasso mentalmente le rappresentazioni schematiche degli economisti; a cominciare da quella più famosa di tutte, detta di Fisher (che Sensini rivendica al nostro dimenticato Piperno; ma si potrebbe forse, interpretando, come si deve, benignamente le vecchie notazioni, risalire a Verri e prima di lui a Hume e più in là):

dove P è il livello generale dei prezzi, M è la quantità di moneta, V la velocità di circolazione di essa e Q la massa dei beni e servigi da scambiare. E mi chiedo: che cosa v’è di fondamentalmente diverso, di contraddittorio fra la rappresentazione di Fisher e l’elenco di Mazzucchelli?

5. – Per non complicare l’argomentazione, non discutiamo se la equazione dimostri qualcosa; diciamo soltanto che essa è un tentativo di definire e rappresentare il meccanismo esistente degli scambi. Essa constata cioè semplicemente un fatto di osservazione comune: che il livello generale dei prezzi (P) varia col variare di altri dati. C’è forse qualcuno il quale sostenga che in generale, a parità di altre circostanze, se c’è più roba da vendere (Q) i prezzi salgono? No. Anzi scendono. Dunque sta bene scrivere Q come divisore nel secondo membro della equazione, per indicare la sua relazione inversa con P. C’è forse qualcuno il quale sostenga che, in generale, a parità di altre circostanze, se gli uomini hanno in tasca più moneta (M) disponibile non se ne servano per acquistar roba? Varierà il genere della roba comprata; gli uni comprando roba per consumo immediato, gli altri beni strumentali per consumo futuro (risparmio); ma, eccettuato il caso oggi praticamente trascurabile del tesoreggiamento vero e proprio, se gli uomini hanno moneta, comprano roba. Se la quantità di moneta disponibile cresce e la roba rimane invariata, per forza i prezzi crescono. Quindi fa d’uopo scrivere M come dividendo nella equazione degli scambi. Accanto ad M bisogna poi scrivere V (velocità della moneta), essendo evidente che se un disco monetario è usato una volta nell’unità di tempo, compra roba una volta sola; se è usato 2, 3 … n volte compra la stessa quantità di roba 2, 3, … n volte.

6. – Scrivendo l’equazione, si rappresentano dunque i fatti come avvengono; non si dice perché avvengono, perché ci sia molta M o molta Q o perché V sia aumentata o diminuita. Mazzucchelli col suo elenco tenta di specificare, spezzettare i P, gli M, i Q ed i V e di spiegare, di dir le cause del loro variare.

7. – Lasciando invero stare il suo a, la grande guerra, che è concetto troppo generico per essere traducibile in quantità economiche ed è contenuto, in quanto sia tradotto, negli altri termini dell’elenco; che cosa è il suo b: superinflazione monetaria, creditizia, di debiti statali e di enti locali, mobiliare, mentale, ecc., se non una specificazione bell’e buona del solito scolastico M? Sempre si seppe e sempre si scrisse che M è un composito di parecchie specie di moneta; moneta metallica propriamente detta, in quanto circoli, M1 biglietti fiduciari ed a corso forzoso circolanti, M2 moneta bancaria (depositi in conto corrente ed assegni tratti su di esso). Mazzucchelli aggiungerebbe la inflazione di debiti statali e di enti locali, quella mobiliare, mentale ed insomma, generale. Intuizioni queste più che enunciazioni precise, che si possono discutere ed eventualmente tradurre in notazioni rigorose. Non direi che i titoli di debito statale e di enti locali, che le azioni e le obbligazioni fondiarie, industriali e bancarie (suppongo che per inflazione “mobiliare” ciò si intenda) siano in generale moneta ed agiscano nel senso di crescere i prezzi. Pare siano segni rappresentativi di cose o di diritti in cui si investe la moneta risparmiata; sono, nello scambio, la contropartita di M. Perciò li ficcheremo normalmente in Q, nei beni e servigi da scambiare; ed il loro crescere avrà per effetto, a parità di altre circostanze, di scemare i prezzi. Il che anche pare verità di osservazione comune. Talvolta titoli di debito pubblico, azioni ed obbligazioni possono diventar moneta o surrogato di moneta; buoni del tesoro, pagherò cambiari possono in determinate circostanze operare, invece che ed oltrecché come mezzi d’investimento, come mezzi di pagamento ed in tal caso ed entro tali limiti, noi diremo che esiste un M3, moneta titoli.

8. Rimane l’inflazione “mentale”, concetto aereo, di cui non si vuole negare l’influenza sui prezzi, essendoché la psicologia umana, capricciosa, mutevole, or paurosa e or temeraria, è fattore importantissimo di avvenimenti. Ma per agire sui prezzi, questa benedetta psicologia, intorno a cui si mena tanto baccano, deve pure manifestarsi attraverso a moneta od a roba. La donnetta la quale mangia cogli occhi il vezzo di perle nella vetrina del gioielliere, né fa né ficca nel determinare il prezzo delle perle. Bisogna che essa, signora vera o finta, persuada il marito o l’amante a cacciar fuori denaro (M, M1 od M2) od imbrogli il gioielliere e gli faccia accettare un suo pagherò (M3). Se M + M1 + M2 + M3 è tot, nel tempo T, ma dall’esperienza passata, dal timore del futuro gli uomini sono persuasi che diventerà M1+ M11+ M21+ M31 nel tempo T1; se cioè essi sentono, intuiscono o che i governi emetteranno altra moneta a corso forzoso o le banche, in tempi di allegria, allargheranno le aperture di credito, sicché cresceranno gli assegni tirati sui depositi bancari, la previsione dell’aumento delle quantità monetarie nel tempo T1 reagirà sull’operare degli uomini nel tempo T. Non nel senso di aumentare la quantità di moneta oggi (tempo T) esistente, ma nel senso di aumentare di questa la velocità (V). Gli uomini, se sanno, prevedono, intuiscono o sentono (sono queste, ed altre, le gradazioni della spinta ad operare) che la quantità di moneta aumenterà in avvenire e quindi scadrà di pregio, se ne disfano fin d’ora più volentieri; la danno via prima per sbarazzarsene ed acquistar roba. Ferma nel presente M, cresce, per l’influenza di una cresciuta M futura, la V presente; ed i prezzi crescono. Non si nega il fattore psicologico; si constata che per agire sui prezzi esso deve passare attraverso moneta e roba.

9. Che cosa sono i c, progresso tecnico, gli i, entrata rapidissima di paesi nuovi nell’agone produttivo se non faccie di Q, fattori che spingono all’insù, più o meno rapidamente, la produzione di beni e di servigi economici e perciò, sempre a parità di altre circostanze, spingono all’ingiù i prezzi? Ed h, i sindacati di produttori di merci industriali; ed l, barriere doganali, spezzettamenti di Stati, duploni, ecc., ecc., che cosa sono se non parimenti fattori che agiscono variamente su Q, gli uni nel senso di restringere temporaneamente certe date produzioni e crescerle alla lunga (sindacati), gli altri nel senso di crescere le produzioni di merci protette e limitare quella delle merci non protette? Se i fattori enunciati debbono esercitare un’azione sui prezzi, ciò può accadere soltanto attraverso variazioni di Q, della sua massa complessiva e delle sue parti componenti.

10. – Rimangono: d – inelasticità degli alti salari, e – elevati ed inelastici sussidi di disoccupazione, f – distanza fra i prezzi industriali ed i prezzi agricoli, e g – diversa vischiosità dei prezzi di grosso e di quelli al minuto. Che sono tutte osservazioni importanti, ma non pertinenti al punto controverso che pare sia: se la variazione della quantità monetaria (M) eserciti influenza sul livello generale dei prezzi (P). La confusione delle lingue è su questo punto veramente incredibile. O non accade talvolta di dover leggere, con gli occhi sbarrati, in pagine per altri rispetti degne che la teoria quantitativa della moneta è sbagliata perché questi o quei prezzi singoli invece di diminuire, sono aumentati o sono rimasti stazionari? Se fosse vera la teoria, si ha l’aria di dire, perché non scemano anche i prezzi al minuto, perché non certi prezzi industriali, perché non i salari, perché non gli interessi dei mutui lunghi? La teoria quantitativa sarà sbagliata; non certo però per tal motivo strano. Quando mai fu scritto che, scemando M, tutti i prezzi dovessero calare? È evidente invece che, pur essendo P1 del tempo T1 > P del tempo T, taluni prezzi singoli Pa1 salari, Pb1 (sussidi di disoccupazione), Pc1 (prezzi industriali), Pd1 (prezzi al minuto), Pe1 (imposte), possono, per ragioni particolari di vischiosità o di politica (prezzi politici, salari fissati per arbitrato determinato da ragion politica di ossequio al numero degli elettori operai, ecc. ecc.), essersi mantenuti costanti o persino essere cresciuti in confronto a Pa, Pb, Pc, Pd, Pe del tempo T. Poiché P1, somma dei singoli prezzi pagati per tutti i beni e servigi nagoziati nella unità di tempo data, è quello che è disceso, per mantenersi in equilibrio con l’altro membro della equazione, è giocoforza che gli altri prezzi singoli i quali entrano a comporre il livello generale dei prezzi P1 del tempo T1: Pf1 (profitti o interessi o rendite), Pg1 (prezzi agricoli o minerari o coloniali), Ph1 (prezzi all’ingrosso), scemino, in confronto ai prezzi singoli Pf, Pg, Ph del tempo T, in misura maggiore dello scemare di P1 in confronto a P. È intuitivo che la diminuzione del secondo membro dell’equazione da

deve essere accompagnata da una riduzione dell’altro membro da P a P1[2]; ma da ciò non discende affatto che tutti i componenti di P debbano scemare. Se io ho meno denari in tasca per riduzione di stipendio del 12% debbo scemare del 12% il totale delle spese; ma non sono obbligato affatto a scemarle tutte uniformemente del 12 per cento. Anzi potrà darsi che io abbia convenienza ad aumentarne qualcuna, per esempio la spesa del pane e di altri alimenti indispensabili, scemando od abbandonando addirittura qualche altra spesa (vino, carne, bagni estivi). Qualcuno parlerà di vischiosità dei prezzi del pane e di crisi ingiusta del vino, laddove si tratta di una volgarissima applicazione dei più risaputi teoremi elementari economici. Se una somma di dieci addendi scema da 100 a 70 e se cinque di questi addendi restano fermi a 12, 8, 15, 6 e 11, totale 52, e giuocoforza che gli altri cinque addendi, i quali prima erano 17, 7, 4, 13 e 7, totale 48, si contraggano a 18 in totale e singolarmente, ad esempio, a 5, 1, 3, 5 e 4. Il che può accadere – senza danno e permanentemente per quelle merci o per quei servigi il cui costo di produzione si è ridotto in quelle proporzioni. In questo caso i produttori si lamentano, per abitudine verbale, di crisi, ma è crisi benefica, temporanea, di adattamento a nuove condizioni produttive, riduzione progressiva di quelle che gli economisti chiamano rendita di produttore da invenzioni tecniche o commerciali. Crisi vera esiste per quei produttori di beni e servigi che, non avendo saputo e potuto costruire attorno a sé trincee di sindacati, di leghe, di protezioni doganali, di commesse governative a prezzi politici, si trovano a subire la pressione combinata della diminuzione del livello generale dei prezzi da P a P1 e della costanza dei prezzi singoli Pa, Pb, Pc, Pd, Pe. Costoro rimangono stritolati e soffrono vera crisi, perdendo patrimonio o essendo costretti ad emigrare, o a cadere a carico della pubblica carità. Il precipitar dei prezzi non significa per sé crisi. Vi dà luogo, se ed appunto perché alcuni o molti dei prezzi singoli sono vischiosi, ancorati e rifiutano di muoversi.

11. È curiosissimo veder Mazzucchelli affermare da un lato che gli economisti «non hanno mai dato la ragione … della giustezza, della naturalezza e del fondamento economico» della tesi la quale dice conveniente la costanza di P (leggasi bene P, ossia livello generale dei prezzi e non di Pa, Pb, … Pn ossia dei prezzi singoli: tesi, questa seconda, che non è mai stata affermata da nessuno) e nel tempo stesso dilungarsi tanto sulla ripugnanza di certi prezzi a discendere. Agli economisti non importa nulla che i prezzi siano P o nP o P/n. Quel che soltanto essi ritengono desiderabile è che i prezzi non ballino per cause insulse, come sarebbe la scoperta di miniere d’oro più o meno feconde, o pericolose, come sarebbe il lavoro del torchio da biglietti[3] . Non è desiderabile ballino per tali motivi, perché si sa anche che taluni prezzi sono vischiosi (prezzi al minuto), che taluni altri sono fatti vischiosi da gente potente (sindacati industriali e leghe operaie) od abile (dazi e favori politici); e quindi altri prezzi sono costretti a ballare in senso inverso, con rovina immeritata di innocenti. Ieri, quando i prezzi rialzavano, rovinavano le classi medie, oggi, che i prezzi ribassano, i detentori di titoli di debito pubblico, di valori a reddito fisso, i beneficiari di imposta arricchiscono; vanno in malora industriali e commercianti ed aumentano i disoccupati. Perché gridar raca agli economisti i quali cercano, ben sapendo che si tratta di ricerche difficilissime e di rimedi incerti, non agevolmente maneggiabili ed a lunga scadenza, di trovar le cause ed i rimedi della tragica alterna rovina, la quale partorisce malcontento sociale, rivolte, esperimenti comunisti, e minaccia la esistenza medesima delle società civili? Cercando di eliminare le variazioni infeconde e socialmente pericolose di P, gli economisti non intendono eliminare le variazioni utili dei singoli prezzi (P). È utile che ribassino i prezzi delle merci e dei servizi, rispetto a cui i desideri degli uomini sono venuti meno o di cui sono ribassati i costi di produzione. Come, altrimenti, senza la guida dei prezzi sarebbe governata l’attività, umana? La tesi è: le variazioni dei singoli “p” è conveniente avvengano in un quadro di P costante. Entro quel quadro, affermano molti economisti, le variazioni dei “p” sono efficaci ad indirizzare la produzione; ma perdono quelle punte in su e in giù che sono determinate da un irrazionale comportamento di M. Il quantum della massa monetaria o è abbandonato a sé ed è in balia del caso od è governato da qualche volontà. In un’epoca in cui la scienza tenta di scoprire e volgere a profitto degli uomini i segreti della natura pare inconcepibile si abbandoni al caso. Se dunque esso deve essere, se esso anzi è stato durante tutto il secolo XIX ed è ora governato da qualche volontà, pare ragionevole sia questa una volontà illuminata e non indotta, lungimirante e ferma e non impressionabile e volubile.

12. Contro la tesi di questi economisti si possono elevare serie obbiezioni. Di quelle valide in teoria pura non discorrerò; ma, in concreto, si può dire essere impossibile misurare le variazioni di “P”, distintamente da quelle dei “p”, scindere i danni dei mutamenti del livello generale dei prezzi dai vantaggi dei mutamenti dei prezzi singoli; si può essere scettici sui lumi della volontà addottrinata e unificata, e preferire praticamente la concorrenza di molte volontà contrastanti, temperate dai capricci inaspettati del caso. Sono pienamente d’accordo con Mazzucchelli nel credere che «di fatto, oggi, in qualche paese», ad es. l’Inghilterra, dalle tesi degli economisti traggano astutamente od ingenuamente lor pro’ gli industriali poltroni, che non si decidono a far lo sforzo necessario per rammodernarsi e ridurre i costi; i capi lega, i quali vogliono tenere alto artificiosamente il livello dei salari; i partiti politici, i quali non vogliono correre il rischio di perdere il voto dei disoccupati, con riduzioni di sussidi; o quello dei maestri o dei marinai o degli impiegati, a carico dei quali si debbono fare economie di bilancio. Ma … c’è un residuo di sconvolgimento di prezzi che non è dovuto a poltronaggine, ad egoismo di posizioni acquisite, a trincee di favori politici; e che non si riesce a spiegare fuor del campo monetario. Bisogna analizzare, approfondire, scindere causa da causa, variazione accidentale da variazione stagionale e questa da ciclica e la ciclica dalla secolare monetaria; assegnare, nel quadro generale, ad ogni fattore il suo proprio luogo e peso.

13. – L’analisi e l’approfondimento non si fa con degli elenchi, tipo Mazzucchelli. Gli elenchi, lo vedemmo or ora, sono disordinati, mettono tutto sullo stesso piano, non fanno vedere la coordinazione ed il rapporto di un fattore cogli altri, la reciproca interdipendenza ed influenza. Cogli elenchi si è condotti – quante esperienze non ne facemmo! – ad azioni contraddittorie ed elidentisi. Ad ogni malanno elencato si appiccica un rimedio empirico; sicché la somma dei rimedi cresce il malanno. È necessario, fatti gli elenchi, sistemare i fattori in un quadro che dia una visione d’insieme. La formula detta di Fisher non è altro che uno dei tanti tentativi compiuti per dare questa visione di insieme. È semplicemente rappresentativa. Rappresenta solo un istante nel tempo; non il passaggio dinamico da un istante all’altro. È quasi soltanto una definizione. Ma comincia ad orientare. A poco a poco si progredirà. Tanti begli ingegni si travagliano attorno al problema, che non v’ha dubbio si dovrà perfezionare lo strumento imperfetto di visione ora posseduto.

14. – La mia rabbia non è tanto contro gli scrittori pratici come Mazzucchelli i quali, impazienti di venire al sodo, preferiscono gli elenchi dei fattori oggi ai loro occhi più importanti e non si attardano a studiare se ciascuno di quei loro fattori non trovi luogo acconcio in qualcuna delle note rappresentazioni astratte del mondo economico. Gioviamoci del loro fiuto e della loro esperienza per dar corpo ai “P”, agli “M”, ai “V” ed ai “Q”, che finora avevano veduto più sotto la specie di quantità astratte che di fattori concreti e palpabili. Con i Mazzucchelli si litiga per incomprensione reciproca di linguaggio, ma in fondo si resta buoni amici ed alla fine si giunge a conclusioni concordi.

15. – La rabbia vera mia è contro quei ritardatari, i quali invece di analizzare la formula di Fisher o qualunque altra, e progredire oltre di esse verso rappresentazioni più perfette, si divertono ancora oggi a battere in breccia la teoria quantitativa della moneta, assumendola secondo la formula:

dove P è un qualunque indice generale dei prezzi, M è la quantità di oro monetato esistente nel mondo e Q un qualunque indice del traffico; e montano in cattedra a sentenziare che quel P non è determinato dal rapporto di quell’M con quel Q; che quel P non raffigura il vero livello generale dei prezzi, né quell’intiera massa monetaria e neppure quel Q l’intiera massa dei beni economici permutabili; e si compiacciono a tirar fuori, al luogo di quella quantitativa, teorie psicologiche o teorie di sottoproduzione o sovraproduzione, o di credito, ecc. ecc., a spiegare le cadute di P, ossia le crisi.

16. – Come se non fosse risaputissimo e non avesse la barba lunga al par di quella di Noé che:

– P, ossia il livello generale dei prezzi, è rappresentato solo in modo larghissimamente approssimativo dai conosciuti indici dei prezzi. Per quanto ponderati e scelti accuratamente, gli indici dei prezzi segnalano le variazioni di una parte soltanto dei prezzi all’ingrosso, trascurando i prezzi al minuto, i prezzi del lavoro (salari, onorari, stipendi), dell’uso del capitale (interesse), dei fattori limitati di produzione (rendite), i prezzi capitali dei terreni, delle case, delle imprese industriali, dei titoli pubblici e privati. Un indice compiuto del livello generale dei prezzi dovrebbe risultare dal confronto fra la somma dei prezzi pagati nel lasso di tempo T(1) per tutti i beni economici, di qualunque specie, negoziati in quel lasso di tempo con la somma dei prezzi che si sarebbero pagati per gli stessi beni economici nel lasso di tempo d’origine. Ad un indice siffattamente perfetto non giungeremo probabilmente mai, per la imperfezione degli strumenti di indagine, per la difficoltà insormontabile di conoscere tutto ciò che accade nel mondo economico ad opera di ogni massaia, in ogni bottega, nelle grosse come nelle piccole contrattazioni. Bisogna contentarsi di approssimazioni, le quali col tempo si sono già avvicinate e si avvicineranno sempre meglio alla realtà; e trarne quel più largo pro’ che sia possibile;

– M è quel composito che sopra si disse di M1, M2, M3, ecc. Che sugo c’è a ripetere ancora che la teoria quantitativa della moneta è sbagliata, perché l’oro non è la sola moneta usata, anzi l’oro non corre più affatto come moneta ed al suo luogo corrono biglietti, assegni bancari, giro conti, pagherò, compensazioni alla stanza e via dicendo? Tutto ciò è noto, arcinoto; non c’è più un cane il quale riduca M ad oro. Perché perdere tempo in queste polemiche senza senso, quando il vero oggetto della ricerca scientifica è misurare le diverse specie di moneta: per M quale sia la massa di moneta d’oro effettivamente circolante, per M1, quanti siano i biglietti effettivamente circolanti, quanti i perduti, i tesaurizzati, quanti in serbo nelle riserve delle banche ordinarie, quante le monete di argento, di nickel e di rame (biglietti coniati nel duro per ragioni pratiche) coniate, disperse, fuse, emigrate, ecc.; per M2, come eliminare i doppi tra banche di emissione e banche ordinarie, tra banca e banca, tra depositi ed assegni, come distinguere fra depositi che sono mezzo di pagamento e depositi che sono mezzo di investimenti; come indurre le banche a pubblicare situazioni da cui sia possibile ricavare i dati bisognevoli agli studiosi, per M3, quali e quanti siano i titoli di credito, i pagherò, le cambiali, i buoni del tesoro che talvolta possono servire come mezzi di pagamento? Queste sono le ricerche veramente feconde intorno ad M; non l’andare ripetendo che M non è più l’antico M aureo; come se per essere di carta, biglietto od assegno o pagherò, la moneta cessasse di essere tale e di avere influenza sui prezzi. E gioverebbe sommamente si intraprendessero ricerche precise e si approfondissero e rinnovassero talune ottime già condotte intorno ai rapporti fra M, M1, M2, M3, ed Mn. Se si appurasse che la relazione fra M (moneta d’oro) e le altre specie di moneta è costante, si potrebbe nella equazione dello scambio fare astrazione da queste altre specie; ché, noto essendo M, sarebbe noto il multiplo costante di essa (M + M1 + M2 + M3, …+ Mn). La relazione pare invece non sia costante né nel tempo né nei luoghi, tendendosi probabilmente ad un lento avvicinamento tra luogo e luogo (l’uso degli assegni bancari progredisce, proporzionatamente al montante d’origine, più in Francia e in Italia che in Inghilterra e negli Stati Uniti) e variando da tempo a tempo, nel senso che M1 ed M2 siano un multiplo a valore crescente nella fase ascendente ed a valore decrescente nella fase calante del ciclo economico e che, per il perfezionamento tecnico nell’uso dei mezzi di pagamento, fra l’altro per la concentrazione dell’oro nelle sagrestie delle banche di emmissione [sic], M1 ed M2 tendono ad acquistare attraverso a molte oscillazioni cicliche ed accidentali ed a diversità locali, un valore crescente rispetto ad M. Sarebbe assai utile che gli studiosi, accesi dal sacro fuoco antiquantitativistico, applicassero i loro meritori sforzi ad accertare con precisione se esistano relazioni di questa specie o diverse ed a misurarle;

– V è anch’esso un composito delle velocità diverse di circolazione V, V1, V2, V3 … Vn delle differenti specie di moneta M, M1, M2, M3 … Mn; e per la misurazione di esse si ripetono analoghe incertezze. Già fu osservato dianzi che V, V1, V2 ecc., tendono ad assumere valori diversi a seconda delle variabili previsioni che di volta in volta gli uomini fanno intorno alle quantità future di M, M1, M2, ecc.: avvento di corso forzoso, di moratoria, ritorno alla convertibilità dei biglietti ed alla sanità bancaria. L’esperienza dell’inflazione bellica e particolarmente di quella tedesca fornì dati ragguardevolissimi in proposito e indusse i soliti pappagalli a cantar l’esequie della teoria quantitativa invece che dar loro lo spunto a perfezionarne la formulazione;

– Q è un valore di altrettanto ardua constatazione quanto P e quasi per le stesse ragioni. I valori, in masse fisiche, di taluni beni prodotti all’ingrosso, di taluni servizi importanti (trasporti ferroviari) sono noti: ma poco si sa dei valori aggiunti per trasformazione di beni all’ingrosso in beni al minuto, dei servigi personali, dei beni capitali negoziati[4].

17. – Negare il valore degli sforzi intesi a rappresentare schematicamente l’infinita complicazione del meccanismo degli scambi è dunque futile denigrazione. Giova invece perfezionare i primi tentativi imperfetti sia col costruire rappresentazioni più complesse e compiute, sia col dare ad esse sapore mercé la sostituzione di valori numerici alle lettere dell’alfabeto, tanto belle finché si resta sulle generali, ma tanto irritanti allorché si vorrebbe, come nel caso presente, trovare una risposta concreta a problemi concreti. È certo che il tracollo presente dei prezzi non può essere dovuto esclusivamente al più lento incremento comparativo dell’oro monetato (M) in confronto al più veloce incremento dei beni e servigi economici negoziati (Q); ma pare anche certo che la variazione ciclica attuale sia stata complicata da fattori monetari e, quel che importa, sembra temibile un suo prolungamento oltre il termine ordinario dei cicli a causa della incapacità o impossibilità dei dirigenti di padroneggiare lo strumento monetario delle variazioni secolari. Altro è trovarsi sulla sezione discendente della curva del ciclo economico se la curva stessa è inserita in una più ampia curva secolare monetaria ascendente od in una curva secolare monetaria discendente. La fase di crisi acuta del ciclo breve è nel primo caso breve, nel secondo caso può essere lunghissima. La influenza delle variazioni di M per essere indiretta non è meno importante; colorando esse in nero od in rosa il mondo economico nel quale si muovono gli altri fattori. Quale importanza scientifica mai può avere la svalutazione del rapporto di M con Q per esaltare a volta a volta i fattori contingenti che in ogni successivo momento possono aver avuto più importanza nel determinare una variazione di P? Quale importanza mai può avere l’osservare che i prezzi sono precipitati di più in questo o quel paese, per questa o quella causa, quando è ovvio che le variazioni di M possono avere influenza in un senso dato solo sul livello generale dei prezzi (P) e logicamente debbono influire più accentuatamente in quello stesso senso su taluni prezzi singoli (C), perché gli altri prezzi non si muovono o si muovono poco? Cosiffatte critiche partoriscono per lo più disperazione. Non nego che anche l’esaltazione nevrotica dei fattori i quali di momento in momento appaiono occasionalmente od eccezionalmente, importanti non possa essere scientificamente vantaggiosa. Come molti uomini in altri campi della vita, così taluni studiosi non vedono cose nuove non si eccitano e non combattono contro mulini a vento. Si ammira Jevons, anche quando si esalta per avere riscoperto cose che si sapevano, perché quel suo esaltarsi, quel suo persuadersi di avere scoperto tutto un continente scientifico nuovo, era condizione necessaria affinché egli veramente ritrovasse qualche nuova cima in terra nota. Ma il ronzio dei ripetitori, i quali affettano di disprezzare le vecchie rappresentazioni e non sanno sostituire ad esse nuove, più coerenti e piene ipotesi, è solo fastidioso. Si vorrebbe ignorarli, ché essi non esistono nel mondo delle idee, e si chiede venia se, per farli tacere, si è talvolta costretti a ripetere verità notorie.

 


[1] L’uso diverso degli studiosi è determinato dalla loro indole aristocratica, epperciò ugualitaria. Chi scrive e stampa è “pari” a chiunque altro sia affetto dalla medesima malattia. Epperciò nelle riviste scientifiche si cita per puro cognome; ed al più si aggiunge il nome di battesimo quando si voglia rendere a taluno particolare testimonianza di onore.

[2] Dicesi “deve” essere accompagnata, per chiarire due verità: la prima delle quali si è che P deve necessariamente essere uguale a

e

poiché una disuguaglianza è impensabile.

[3] Adopero qui la parola “causa” perché non mi vanno giù coloro i quali «osservando le situazioni di equilibrio

Ovvero

affermano che i membri di esse sono legati tra di loro da rapporti di interdipendenza» e sputano disprezzo sulla gente antiquata la quale parla ancora di cause. Sì, tutto si tiene a questo mondo; ma c’è modo e modo di tenersi. La grande guerra fu causa ed effetto nel tempo stesso di tante altre cose; ma, posta contro alle nostre piccole faccende di prezzi, di salari, di moneta, fu tal cosa grossa, praticamente indipendente dalle nostre minuzie che ben la possiamo considerare “causa”; causa di messa in moto di torchi, di inondazione di carta moneta, di ingrossamento di M, con tutta la sequela che ne derivò. Da qualche punto bisogna pur dar origine alla narrazione dei mutamenti delle cose umane; e se quel punto d’origine è vistoso, ingombrante, massiccio, ben lo potremo chiamar causa. Sì, è vero che la produzione delle miniere d’oro è causa ed insieme effetto di alti prezzi; causa perché origina incremento di M; effetto perché se P è basso, ciò significa che sono bassi i salari dei minatori, i prezzi di esplosivi, di reagenti o di macchine perforatrici e quindi conviene lavorare miniere che altrimenti sarebbero abbandonate, sicché la produzione dell’oro aumenta. Ma perché aumenti, direbbe il signor De La Palisse, occorre esistano le miniere d’oro. E se non ci sono e non si scoprono? Tutta la buona volontà dei cercatori d’oro non basta a scoprire miniere. Occorre la fortuna, l’intervento di S.M. il caso. Dunque il caso è fattore indipendente, capriccioso delle variazioni di M. Ed io lo chiamo “causa”. Si potrebbe seguitare in questa elencazione di “cause” che gli equilibristi si sono lusingati troppo a buon mercato di aver bandito dal vocabolario economico. Finché esisteranno concetti diversi, occorrerà indicarli con parole diverse. Talvolta è propria la parola “rapporto di interdipendenza”; tal altra quella di “causa”. Perché abbaruffarci intorno questioni di parole?

[4] Per una assai lucida esposizione del contenuto del concetto di livello generale dei prezzi, dei vari indici usati di fatto e dei metodi di misurazione dei fattori della equazione dello scambio vedi le Lezioni di statistica economica (per ora incompiute) di P. Jannaccone, Torino, Giappichelli, 1931.

Il mondo del lavoro

Scritti economici storici e civili, Mondadori, Milano, 1983, pp. 779-848

 

Gli scioperi del biellese

I

Coggiola (Biella), 17

In viaggio da Biella per Valle Mosso, alcuni operai, un muratore, un falegname mi raccontano dello sciopero della Val Sessera: «Da noi tutti son socialisti. Dopo Crispi, dopo la battaglia d’Adua gli operai si sono schierati tutti nel partito socialista. Vogliamo le otto ore; per ora ci accontentiamo di meno; ma è solo un’inezia; finita la lotta sull’orario, si comincia quella sulle paghe. Con due lire al giorno i meglio pagati, con 8 soldi i ragazzi siamo sempre in debiti: polenta e formaggio e vino niente».

In quanto al vino però sarebbe interessante fare una statistica delle numerose cantine.

A Valle Mosso, ieri, 16, una cinquantina di ragazzi e ragazze attaccafili si sono rifiutati ad entrare in fabbrica; volevano i salari cresciuti da 12 a 25 soldi al giorno; hanno percorso il paese in fila serrata, a quattro a quattro, le ragazze in testa, ed i ragazzi dopo, cantando l’inno dei lavoratori, e gridando: «Viva il nostro deputato, viva Rondani!». In una fabbrica si è già venuto ad un accomodamento, in un’altra si è ancora in trattative.

Nella Val Mosso e nella Val Ponzone si lavora: lo sciopero, ad eccezione degli attaccafili di Valle Mosso, è ristretto alla Val Sessera; a cominciare dal ponte provinciale a Pianceri, tutti gli stabilimenti sono chiusi. Un solo stabilimento piccolo, con 15 telai, continua a lavorare per circostanze speciali; negli altri lavorano ancora gli operai giornalieri, i sorveglianti per ultimare la fabbricazione in corso e per le riparazioni alle macchine ed agli edifici.

Gli operai della Val Sessera sono circa 2500; di questi 800 son tessitori e scioperano unanimi e solidali; 1000 sono operai addetti alla filatura, alla tintoria, all’asciugamento, a cui il lavoro è venuto a mancare in causa dello sciopero dei tessitori. Forse 700 lavorano ancora, ma anche di questi il numero va gradatamente scemando per la mancanza progressiva di lavoro. Coggiola è il centro del movimento operaio; ogni giorno vi è adunanza della lega di resistenza; e si scambiano le trattative fra gli operai e la lega degli industriali, ora direttamente ed ora per mezzo del delegato di pubblica sicurezza. Sessanta soldati con un tenente ed un sottotenente vegliano al mantenimento dell’ordine pubblico. Il paese, eccetto in alcuni momenti, sembra però deserto; era molto più animato prima dello sciopero.

Gli operai di sera affollavano i luoghi di ritrovo. Ora cominciano a stringersi i fianchi. L’ultima quindicina è stata pagata pochi giorni fa; cosicché per un po’ di tempo gli operai possono campare sulle risorse del passato. I fondi della lega non devono essere gran cosa. La lega di resistenza fra tessitori e tessitrici del Biellese è stata costituita il 9 maggio di quest’anno. I soci pagano 50 centesimi alla settimana in caso di sciopero in una delle fabbriche per aiutare i compagni di lavoro; in tempo di quiete 50 centesimi al mese. La lega è dunque troppo giovane perché possa vantare una cassa ben fornita. E la cassa è già stata vuotata altre volte negli scioperi parziali dello stabilimento Bozzalla e dello stabilimento Cerino-Zegna, avvenuti alcuni mesi fa.

Ora la tattica antica è stata mutata; non più la lotta contro le fabbriche isolate per questioni singole, durante la quale gli operai lavoranti potevano soccorrere gli operai inattivi; ma la guerra contro tutte le fabbriche insieme. Gli industriali, del resto, hanno parata la tattica degli attacchi parziali, fermando contemporaneamente tutti i telai e stringendosi in lega di resistenza contro gli operai. È un fatto naturale che si ripete con meravigliosa esattezza in tutti i paesi dove la lotta fra capitale e lavoro ha assunto un carattere generale.

Ora l’origine dello sciopero si ha nella domanda di modificazione d’orario. Interrogo alcuni capi operai i quali gentilmente mi danno informazioni: «Prima dello sciopero, scoppiato quindici giorni fa, noi lavoravamo da 12 a 16 ore al giorno; alcuni, che venivano da lontano, per vie difficili di montagna, rimanevano lontano da casa perfino 16, 17 ore. Rimanevano solo più 8 o 9 ore al giorno per riposarci e prendere i nostri pasti. Alla domenica i tessitori fermano i telai ma gli altri giornalieri spesso continuano a lavorare in alcune fabbriche fino a mezzogiorno. Noi abbiamo chiesto un orario di dieci ore di permanenza nella fabbrica e di lavoro: ad esempio nei mesi di settembre e di marzo noi abbiamo chiesto nel nostro memoriale ai capitalisti (non dicono più padroni; il frasario della propaganda socialista è di uso corrente) di lavorare dalle 6,30 alle 12 antimeridiane e dalle 1,15 alle 5,45 pomeridiane senza interruzione. I proprietari hanno accettato l’orario di dieci ore di lavoro; ma vogliono che nella fabbrica si permanga 11 ore, con due mezz’ore di riposo per la colazione e per la merenda. L’orario sarebbe così dal settembre al marzo: dalle 6,30 alle 11,45 antimeridiane, con mezz’ora di riposo dalle 8 alle 8,30, e dalle 1,15 alle 7, con mezz’ora di riposo dalle 4,30 alle 5. Ci siamo abboccati una volta cogli industriali, ma questi, che avevano ceduto subito sulla questione dell’orario, non hanno voluto concederci di far senza della colazione e della merenda in fabbrica, a cui volevamo rinunciare. Finalmente la questione si era ridotta tutta ad una differenza di un quarto d’ora. Gli industriali avevano concesso l’uscita serale alle 6,30 invece delle 7, ma per guadagnare la mezz’ora perduta, diminuivano di un quarto d’ora la merenda, e facevano cominciare il lavoro un quarto d’ora prima. Su questo punto non abbiamo voluto cedere». «Ma perché non avete accondisceso alle proposte degli industriali?» domando. «Avevate già ottenuta subito una notevole diminuzione di permanenza in fabbrica, da 13 ad 11 ore; sembra cosa da disprezzarsi?». «Gli industriali durante le trattative ci aveano chiesto se noi avremmo in caso di urgenza di forti ordinazioni fatto qualche lavoro supplementare. Dopo che noi generosamente abbiamo detto di non voler guardare pel sottile per otto giorni od anche per due o tre settimane, essi non vollero abbandonare quell’ultimo quarto d’ora». La ragione non ha davvero molto peso; si tratta di questioni separate, da trattarsi disgiuntamente.

La realtà si è che gli operai sono meravigliosamente organizzati e solidali. «Siamo operai coscienti dei nostri diritti» afferma uno con occhi sfavillanti in cui è entrata la fede in un programma nuovo «siamo operai onesti che vogliamo regolare le condizioni del nostro lavoro in modo equo ed umano». E nella spiegazione delle vertenze coi padroni sull’orario si sente un linguaggio che contrasta colle attitudini quasi tradizionali di questi operai. Non si dice: Gli industriali volevano che il lavoro durasse mezz’ora di più, ma: Gli industriali volevano sfruttare una mezz’ora di più.

E si sente che gli operai, od almeno alcuni capi, credono che la fabbrica l’hanno fatta loro. Il collettivismo non è ancora però diventato l’espropriazione degli sfruttatori da parte di coloro che hanno soli creata la ricchezza. «Noi compreremo le fabbriche in contanti e le eserciteremo per conto della società». Tutto ciò ancora avvolto in una oscura nebulosa; sentono che adesso non è ancora sonata l’ora della rigenerazione e si accontentano di ottenere un minor orario e di affermarsi. Sovratutto affermarsi, e qui i miei discorsi cogli operai cambiano tono ed entrano nella politica.

Le risposte sono solo più a monosillabi. Quegli stessi operai che prima discorrevano abbondantemente del modo con cui vivevano, del loro orario, diventano sibillini e muti. Ed è qui, non nelle questioni di orario, in cui è facile accordarsi, che sta se non il perno delle lotte, almeno il germe dell’astio insolito che ora divide in due campi opposti padroni ed operai. Al disotto della calma profonda in cui vive la zona, e dalla quale con quasi assoluta certezza non si uscirà per l’indole tranquilla della popolazione e per gli incitamenti dello stesso partito socialista, cova un fermento mal represso.

Gli animi sono eccitati contro la chiusura di otto esercizi pubblici, dove convenivano i socialisti. Oggi, in pieno consiglio comunale, sette consiglieri presentano un memoriale contro l’operato dell’autorità politica, dove si biasima il sindaco perché quale primo magistrato del comune non ha impedito i soprusi e le illegalità dell’autorità centrale, e si invita il prefetto di Novara a dichiarare per quali articoli di legge la chiusura degli esercizi fu effettuata, oppure a riaprirli subito. E malgrado che un telegramma del sottoprefetto ordinasse al sindaco di togliere questo argomento dall’ordine del giorno, il consiglio, presenti 11 consiglieri su 20, di cui tre tessitori, gli altri osti, proprietari contadini, piccoli commercianti e bottegai, mugnai, fabbri, unanime vota la mozione ed il biasimo al sindaco. Segno di un profondo mutamento nello spirito delle masse.

All’ultima ora sento che gli operai andranno lunedì a vuotare i telai, ossia a finire quelle pezze di panno che erano state al momento dello sciopero lasciate incompiute. Era loro dovere.

20 settembre 1897

 

II

II Coggiola, 19 settembre

Ho parlato con parecchi industriali cercando di formarmi una idea esatta della situazione. Non tutti raccontano la medesima storia, ma questa varia nei suoi caratteri fondamentali.

Ecco quanto ho potuto raccogliere:

L’industria laniera del Biellese da alcuni anni attraversa tempi se non difficili almeno non più così prosperi come una volta. C’era stato un momento di rinnovata attività al tempo dell’aggio alto; questo agiva come un aumento di dazio protettivo ed impediva la importazione dei tessuti esteri. Allora i telai battevano continuamente; i prezzi erano rimuneratori, i fabbricanti fecero profitti e gli operai ottennero maggiori salari.

Salvo questo momento di floridezza, la industria della Val Sessera si può dire abbia attraversato un periodo di morta nel 1893-94-95. Le crisi imperversanti nell’Italia, le fallanze agricole si ripercossero sull’industria laniera. Si consumavano meno vestiti nuovi e si facevano durare più lungo tempo quelli già usati. Per conseguenza i telai battevano solo la metà del tempo; quattro, cinque giorni alla settimana in alcuni mesi; ed anche quando la fabbrica era sempre aperta, non tutti gli operai erano occupati. Qui la disoccupazione si manifesta in un modo peculiare. Non si getta un terzo, la metà degli operai sul lastrico, occupando di continuo gli altri, ed obbligando alcuni ad emigrar altrove per cercare lavoro; ma tra una pezza e l’altra si fa passare un tempo più o meno lungo, cosicché mentre alcuni operai lavorano, gli altri rimangono a casa.

Così gli operai sono tutti saltuariamente occupati per turno; la disoccupazione e la crisi industriale si manifesta col decremento del numero medio dei giorni in cui gli operai lavorano e non coll’aumento degli operai del tutto oziosi. Del resto gli operai stessi non permetterebbero che alcuni soli fossero in tempo di morta occupati e gli altri licenziati.

Dal periodo di crisi l’industria tessile non è ancora del tutto uscita; un grande stabilimento non lavora il sabato dopo pranzo per non accumulare fondi di magazzino.

Si può affermare però che un qualche risveglio nella Val Sessera si è manifestato nelle ultime campagne. Le ordinazioni sono venute più abbondanti e si sperava in una prospera nuova stagione, quando è scoppiato lo sciopero. Gli operai hanno abbandonato il lavoro senza finire le pezze incominciate. Adesso hanno acconsentito a vuotare i telai; ma il fatto ha prodotto una triste impressione sugli industriali, perché dinota la rottura di un’antica consuetudine che ambe le parti avevano sempre osservata.

Il momento poi è stato scelto dagli operai molto inavvedutamente, secondo gli industriali. La stessa lega di resistenza e qualche influente capo socialista hanno dovuto riconoscerlo. A questo proposito sono necessarie alcune spiegazioni sulle consuetudini commerciali dell’industria laniera. L’anno si divide in due stagioni, d’inverno e d’estate. Nell’inverno si fa la campagna d’estate e nell’estate quella d’inverno. Entro settembre, ad esempio, i fabbricanti finiscono il campionario d’estate e vanno in giro essi stessi o mandano i loro viaggiatori dai grossisti coi cosidetti campioni piccoli, sui quali i grossisti scelgono i numeri che presumibilmente sembra possano incontrare il gusto del pubblico.

Una volta i grossisti facevano subito le ordinazioni ed i fabbricanti si potevano mettere al lavoro; ora invece si fanno per ottobre e novembre i campioni grandi, che i grossisti distribuiscono ai dettaglianti e su cui si ricevono le ordinazioni definitive a novembre dicembre. Questo è uno dei guai maggiori nell’industria laniera. I campioni piccoli, e più quelli grandi, costano un’enormità; mi si citano delle fabbriche dove si spendono da 30 a 100 mila lire senza alcun compenso. Perché i campioni piccoli e grandi vengono distribuiti gratis ai grossisti, alcuni dei quali di sottomano se ne fanno delle collezioni per rivenderli, od anche per ottenerne imitazioni a buon mercato. È questa però una consuetudine radicata, difficile a togliersi, a meno di fare il dettaglio, cosa impossibile per i fabbricanti, che non possono mantenere un esercito di viaggiatori e non vogliono far concorrenza ai grossisti.

Lo sciopero è scoppiato quando in alcune fabbriche si era già ultimato il campionario piccolo e si stava per uscire, ed in altre se ne era già iniziata la preparazione. Ora tutto è sospeso. Se il lavoro non viene ripreso, i fabbricanti non usciranno col campionario piccolo, le ordinazioni non verranno e per sei mesi le fabbriche rimarranno ferme.

Gli industriali ci rimetteranno le spese generali, il costo del campionario, ma non dovranno subire le multe per inadempiute commissioni. Perderanno sovratutto gli operai, ridotti all’ozio per sei mesi, con risorse diminuenti progressivamente, nell’impossibilità di trovare lavoro sulla terra ingratissima.

Allora dovranno emigrare e rimpiangeranno i giorni in cui i telai battevano. Non solo emigreranno gli operai, ma emigrerà l’industria. Già alcuni industriali hanno manifestato l’intenzione di trasportare altrove una parte dei loro telai, nell’agro torinese, in Lombardia, dove la mano d’opera, se non altrettanto sperimentata, è meno costosa e più docile. Si ripeterà quello che è accaduto già per l’industria dei cappelli, una volta fiorente nel Biellese ed ora, per le pretese eccessive degli operai, successivamente trasportata ad Intra e poi a Monza. Sarebbe la rovina ultima delle valli, dove l’agricoltura non offre assolutamente alcuna risorsa. Non solo si è scelto male il momento, ma si è errato eziandio nella scelta del pretesto dello sciopero. Gli scioperi precedenti erano stati diretti contro industriali singoli.

Gli operai degli stabilimenti attivi potevano sussidiare gli scioperanti e protrarre l’inazione per lungo tempo.

Ora accade qualcosa di simile, perché i tessitori di Valle Mosso, di Val Ponzone, di Biella aiutano i compagni di Val Sessera. Ma non è così facile aiutare 2000 persone, come 350, ed il momento della resa dovrà venire presto.

Alle domande degli operai chiedenti un orario di dieci ore, gli industriali risposero accettando le dieci ore, ma intercalandovi due mezz’ore per la colazione e la merenda, dimodoché la permanenza in fabbrica era di undici ore.

Gli operai pretendevano di poterne fare senza, ma gli industriali temevano che i due riposi si sarebbero a poco a poco reintrodotti, riducendo la giornata di lavoro a nove ore. E se essi accettavano la giornata di dieci ore di lavoro effettivo, perché sapevano che l’operaio produce tanto in dieci ore quanto in undici stancandosi meno e lavorando più attentamente ed intensamente, non avevano la medesima certezza quanto all’orario di nove ore. Gli operai potevano, ma non vollero, accettare l’orario modificato. E qui ebbero torto, tanto più che la differenza si era ridotta a poca cosa nelle trattative, come ho già detto dianzi.

La lega di resistenza degli industriali decise di resistere ad oltranza, anche a costo di sospendere le fabbriche per sei mesi, non tanto per la questione dell’orario quanto per quella delle paghe e del regolamento interno. Per ora non si è parlato di aumenti nel salario, ma gli industriali hanno ragione di credere che se essi cedono sull’orario, poco dopo si sciopererà nuovamente per ottenere un aumento nei salari. E questo sarebbe incomportabile all’industria laniera biellese.

I tessitori della Val Mosso e della Val Sessera sono i meglio pagati del Biellese, e quelli del Biellese godono i salari più alti d’Italia. È vero che i biellesi sono più abili (da più secoli addestrati alla tessitura), è vero che esiste una maestranza numerosa e adatta ai varii generi di lavoro, ma non si può negare che quando i fabbricanti vicino a Torino, del Veneto, della Toscana pagano 8, 10 centesimi per ogni mille mandate invece di 14, 16, 18 come a Val Mosso od a Coggiola, quelli possono vincere più facilmente i loro rivali sul mercato. Mentre nel Veneto i tessitori si contentano di lire 1,50 al giorno, nel Biellese guadagnano da 2,25 a 3 lire; ed in una fabbrica nel mese scorso ebbero in media un salario per giornata di lavoro di 3,42 al giorno. Del resto gli industriali non sarebbero avversi ad un aumento nei salari, purché questo avvenisse contemporaneamente in tutta Italia. Ciò è però molto difficile!

All’epoca dello sciopero del 1889 fu concordata fra industriali e tessitori una lista uniforme di tariffe. Per un po’ fu osservata. Ma a poco a poco cominciarono alcuni industriali piccoli ad abbassare la tariffa di un centesimo per volta, ponendo agli operai l’alternativa di accettare i nuovi patti o di chiudere. Cosi si è ritornati al caos antico, e ne soffrono gli industriali che hanno osservato l’accordo. Perché gli operai non dirigono i loro sforzi specialmente contro gli industriali che danno salari più bassi della media?

La lega degli industriali vuole tener duro non solo per opporsi ad un aumento futuro dei salari, ma anche per mettere argine alle intrusioni della lega di resistenza nella disciplina interna degli stabilimenti. Gli industriali non possono oramai licenziare un operaio senza che gli altri abbandonino il lavoro. A Biella, alla fabbrica Squindo, 90 fonditori hanno scioperato in seguito al licenziamento di due loro compagni. Non è possibile nemmeno redarguire gli operai per lavoro mal fatto e per altre cause senza il beneplacito della lega. Con tutto questo gli industriali sono decisi a farla finita. «Vogliamo» dicono essi «essere padroni a casa nostra; non vogliamo essere coartati nella nostra libertà di assumere e licenziare operai da una lega misteriosa ed occulta. I direttori di fabbrica, i capi su cui pesa la responsabilità della buona o cattiva fortuna degli stabilimenti siamo noi; e non vogliamo essere obbligati a tener elementi turbolenti od a noi invisi. Siamo magari pronti a concedere loro anche due, tre, quattro settimane di preavviso, ma vogliamo poter licenziare chi non ci piace».

22 settembre 1897

 

III

Biella, 23 settembre

Da tre giorni mi sembra di fare uno strano sogno. Mentre viaggio nelle valli industriali del Biellese, e contemplo le fabbriche grandi e piccole inseguirsi lungo il fondo della vallata, ed ascolto i discorsi degli industriali e degli operai, in cui si mescola all’attrito sprizzante dalla nuovissima propaganda socialista il ricordo di un periodo patriarcale non ancora trascorso nelle relazioni fra i varii compartecipanti al prodotto dell’industria, ritornano dinanzi alla mente mia di studioso di cose economiche, le pagine narranti altre lotte, altre propagande nel paese che primo si è slanciato nella vita industriale, dissolvendo le antiche forme economiche ed instaurando sulle loro rovine quella organizzazione industriale che oggi impera incontrastata. L’industria laniera del Biellese attraversa ora un periodo molto simile a quello che si svolse intorno al 1830-40 nell’Inghilterra, e più specialmente nel paese del cotone, il Lancashire. Biella è stata detta la Manchester d’Italia, ed a ragione.

Nella storia i medesimi fatti si ripetono ad intervalli nei varii paesi, e sono l’inevitabile risultato delle trasformazioni economiche che così rapidamente si succedono nel nostro secolo.

Allora, come adesso in Italia, il ceto dei proprietari di terre imperava in Inghilterra, e malgrado che gli industriali si fossero già elevati a grande potenza, forti tasse gravavano su tutti gli oggetti di consumo dell’operaio e sulle materie prime dell’industria; le rivoluzioni nel macchinario si susseguivano a brevi intervalli e sostituivano al telaio a mano il telaio meccanico; gli uomini con salari alti venivano gettati sul lastrico, e le donne ed i fanciulli affollavano le fabbriche e preparavano la degenerazione della razza. Ed assistiamo perciò nell’Inghilterra ad un’agitazione vivissima contro il governo che tortura i sudditi con un sistema tributario iniquo; gli industriali chieggono l’abolizione dei dazi sui cereali; operai, stretti in organizzazioni gigantesche, alzano il grido della carta, bruciano i telai meccanici e mandano al parlamento i loro rappresentanti, coll’incarico di strappare il potere di mano ai signori della terra e dell’industria. La parola guerra di classe diventa il segnacolo in vessillo della classe operaia e gli animi si dividono con un profondo abisso.

Ora molto è mutato nell’Inghilterra; non più guerra, ma trattative, arbitrati. Gli scioperi permangono, ma vi si ricorre solo più in ultima istanza. Gli operai non hanno cessato di organizzarsi per aumentar la paga già cospicua e diminuir l’orario già diminuito, ma avanzano le loro domande solo quando sanno che gli industriali sono in grado di concederle; colle scale mobili aumentano o diminuiscono i salari, a misura che oscillano i prezzi di vendita della merce, da cui tutto si deve trarre: salari, profitti, assicurazioni, imposte, ecc.

Nel Biellese la rivoluzione industriale, che nell’Inghilterra avvenne al principio del secolo, è cosa recente. Solo da una ventina d’anni si è compiuta la progressiva trasformazione del telaio a mano nel telaio meccanico; ed essa non è stata esente da dolorose esperienze. Non si è potuto d’un tratto indurre gli operai che tessevano in casa loro, aiutati dalla intera famiglia, con orario irregolare, con giornate saltuariamente intense e prolungati ozi domenicali e lunediani, a venire alla fabbrica all’ora fissa, tutti i giorni della settimana. Non si seppe subito nemmeno fare il conguaglio fra il salario del tessitore a mano e quello del tessitore a macchina. La scarsità della maestranza abile ed i grandi profitti dei primi industriali tennero per un po’ di tempo i salari ad una misura molto alta; e quando la concorrenza costrinse a ribassare i prezzi, gli operai reagirono contro la diminuzione dei salari. Gli scioperi del 1877 e del 1889 ebbero per cagione appunto la necessità di introdurre una rigida disciplina e regolarità nel lavoro di fabbrica e di fissare in modo uniforme il valore della giornata di lavoro.

Ed ora la situazione industriale è la seguente: sostituito intieramente al telaio a mano il telaio meccanico nei grandi stabilimenti. Rimangono alcuni rari avanzi nelle fabbriche degli antichi telai, conservati per usi speciali, e si veggono ancora lungo le vie radi operai vecchi che si portano sulle spalle il filato per trasformarlo a casa in tessuti. Ma sono eccezioni che vanno rapidamente scomparendo.

Le fabbriche sono di tutte le gradazioni: da quelle che occupano 5 tessitori a quelle in cui si accentrano 800 tessitori e tessitrici.

Nelle fabbriche di una certa importanza si compiono tutte le successive operazioni necessarie per trasformare la lana greggia in tessuto pronto alla spedizione. L’industria non si è specializzata; non vi sono stabilimenti in cui si fili unicamente, altri in cui si tessano solo i generi d’estate oppure d’inverno, altri in cui solo si tinga o si apparecchi. L’ampliamento delle fabbriche non si compie per giustapposizione di saloni dedicati al medesimo lavoro, ma per completamento delle operazioni prima mancanti. Tutti gli attuali industriali della Val Sessera, di Val Mosso, di Biella erano due generazioni fa operai venuti dal niente. Né il processo di reclutamento degli industriali nel ceto operaio ha avuto termine.

Si citano molti fabbricotti, dove si lavora e si guadagna, condotti da antichi operai economi, intraprendenti, riuniti in società, di quattro, cinque amici, o cugini o fratelli. Vi sono molte fabbriche, i cui proprietari o sono andati in rovina od hanno cessato di dedicarsi all’industria, le quali vengono affittate intiere, o per sezioni, a uomini dotati di un qualche capitale, o godenti la fiducia di un amico denaroso o di un banchiere. Si comincia con qualche telaio e si tesse per conto altrui.

Poi s’imprende la tessitura per conto proprio; si aggiunge in seguito la tintoria, la filatura, e lo stabilimento è sorto e può prosperare anche contro la concorrenza di quelli potenti già stabiliti da lunga data. A Biella vi sono industriali che in una dozzina d’anni sono diventati milionari, ed erano capi operai. Non si vuole con ciò asserire che a tutti sia aperta la via di diventare fabbricanti; ora comincia persino a mancare il sito, a meno che con la trasmissione elettrica a distanza della forza motrice esso non venga artificialmente aumentato. Si vuole dimostrare solamente che la classe degli industriali è molto variegata; e va da quelli che sono mezzi operai e lavorano essi stessi o fanno lavorare i proprii figli e la propria moglie, a coloro che si riservano solo la direzione dell’impresa. Non c’è però ancora nessun proprietario di lanifici il quale sia un puro e semplice capitalista e si accontenti della sorveglianza su direttori stipendiati e di percepire alla fine dell’anno un dividendo variabile a seconda delle buone o cattive annate. Non esistono società anonime; se n’era fondata una, ma ha fatto cattiva prova ed ora si sta liquidando. Gli industriali sono essi stessi direttori dello stabilimento e vi dedicano la maggior parte del loro tempo. Per lo più sono parecchi fratelli, cugini o parenti in diverso grado. Uno si dedica alla parte tecnica, l’altro alla parte amministrativa, un terzo disegna, studia la tendenza della moda nelle stoffe, un quarto viaggia a ricevere le commissioni ed a ordinare le nuove macchine.

Il guadagno, una volta più cospicuo d’adesso, ma ancora abbastanza rilevante e non mai nullo, che gli industriali ritraggono dalla loro impresa, non è dunque solo interesse sul capitale impiegato, ma nella maggior parte è compenso per la loro opera di direzione, è un salario come un altro. Certo è un salario di gran lunga superiore al salario dell’operaio, ma la loro opera è anche di merito ben maggiore.

Tutto nelle fabbriche dipende dalla buona direzione ed amministrazione; dove questa manca non giova a nulla avere una maestranza abile ed esperta; gli affari vanno a rotoli e lo stabilimento si deve chiudere con danno del paese e degli operai, gettati sul lastrico ad ingombrare il mercato del lavoro ed a deprimere le mercedi. È vero che i fabbricanti talora sono remunerati profumatamente, ma gli operai non devono solo pensare con ira alle eleganti palazzine ed ai milioni accumulati, ma anche al merito reale di coloro che stanno a capo delle imprese fortunate, ed alla sfortuna di quelli meno abili o vinti nella lotta della concorrenza.

Ho sentito che nel Biellese ogni anno avvengono in media tre o quattro fallimenti nell’industria tessile. È cosa dolorosa, ma inevitabile, e finora l’unico mezzo per incitare al miglioramento della produzione è tener sempre viva e desta l’attenzione degli industriali su quanto è possibile fare per ridurre il costo e per aumentare l’efficacia del lavoro umano. Finora non s’è trovato altro mezzo per attuare la legge del minimo mezzo; né l’ora sembra spuntata di un nuovo ordinamento industriale nell’industria laniera. Gli accordi da qualche industriale invocati e perfino proposte non hanno ivi alcun avvenire. Sono troppo i generi prodotti, così eccessivamente molteplici i fattori di cui bisogna tener conto e così variabili da fabbrica a fabbrica, che è del tutto chimerico pensare a regolare la produzione, perché i prezzi non ribassino e si possano quindi pagare salari alti. Gli operai devono dunque adattarsi al pensiero che per un tempo indefinito futuro la regolatrice suprema dell’industria laniera biellese sarà ancora la concorrenza, non solo italiana, ma anche estera, e regolare su questa nozione sicura la loro condotta e le loro domande rispetto all’orario ed ai salari; e devono pensare che il capitale può ancora trasferirsi, sebbene con perdite per gli industriali e pel paese, ad altri paesi dove maggiore sia il suo tornaconto, e che il trasferimento non dipende dal beneplacito degli industriali, ma dalle inesorabili leggi del minimo costo.

Sovratutto poi è necessario ricordare che gli industriali non sono solo in lotta colla concorrenza, e quindi interessati a pagar poco per vendere a buon mercato, ma sono posti fra l’incudine ed il martello: fra la maestranza che chiede buone paghe ed il governo che affligge l’industria con imposte vessatorie, minute, ostacolatrici della produzione e si appropria una parte notevole del prodotto, parte che altrimenti potrebbe andare ad aumento dei salari. È questo un terreno su cui industriali ed operai sono naturalmente non in lotta, ma d’accordo; e possono stringere una sincera alleanza, gli uni per ottenere diminuzione delle imposte gravanti sull’industria, gli altri per ottenere uno sgravio sui loro generi di consumo. Ed a questo accordo fra industriali ed operai, per ridurre alla parte congrua quel partecipante ignoto e lontano che talvolta si attribuisce la parte del leone, è necessario solo un po’ di fiducia reciproca ed un po’ di buona volontà.

25 settembre 1897

 

IV

Biella, settembre

«Una casetta un campicello ed una vacca»; questo il grido di alcuni riformatori che in molte contrade industriali si spaventavano davanti allo spettacolo di torme immense di operai raccolti nelle grandi città attorno ad una fabbrica, salariati giornalieri, imprevidenti, beoni, senza legame col suolo, non aventi nulla da perdere e speranti molto in una rivoluzione industriale.

«Diamo a questi paria dell’industria una piccola proprietà, e li trasformeremo in custodi dell’ordine sociale e tutori delle istituzioni vigenti».

L’ideale dei riformatori è in gran parte attuato nel Biellese; nella Val Sessera, dove più, dove meno una notevolissima parte della popolazione operaia è anche proprietaria. Nella Val Mosso mi fu detto che l’80% delle famiglie operaie possiede la casa, il prato e il castagneto attiguo. È una proprietà curiosa, frazionatissima: la proprietà-cencio che non dà abbastanza da mangiare, ma pur tiene legati ed affezionati al luogo natio. I padri vecchi e le madri di numerosa figliuolanza stanno a casa, curano le faccende domestiche, conducono in pastura la vacca o la capra, mungono il latte, tagliano il fieno e lo mettono in serbo per l’inverno; sbattacchiano le castagne o le noci, gli uomini e le donne che ci vedono ancora; i giovani e le ragazze vanno alla fabbrica.

Ognuna di queste proprietà cencio ha un valore altissimo, senza nessuna corrispondenza col reddito effettivo. Solo chi conosce l’affetto intenso del montanaro per la sua terra può spiegarsi come una giornata di terreno, dove non cresce né la vite, né il grano, né la meliga, e dove si raccoglie solo dell’erba, delle castagne e della legna da fuoco, valga da 1500 a 4000 lire, ossia i prezzi attuali dei migliori vigneti nel Monferrato o dei prati della bassa piemontese, dove l’agricoltura non e un’occupazione secondaria ma la principale. Solo in tal modo si può spiegare l’estrema e quasi fantastica suddivisione del terreno, per cui alcuni posseggono poche are, qualche metro quadrato di prato, due o tre piante di castagne. Quando muore il capo famiglia, nessuno rinuncia alla terra; e questa viene divisa all’infinito fra gli eredi.

Questi operai piccoli proprietari guadagnano salari che, cominciando da 10 soldi per i ragazzini di 12 anni, e salendo a 3,50 pei tessitori, a 150-200 lire al mese pei capi sala, disegnatori, si devono dir buoni e superiori alla media italiana. È vero che in alcune campagne si è lavorato poco; a quanto mi fu detto, nel 1894 e nel 1895 gli operai furono occupati solo metà dell’anno; i salari poterono allora discendere a quelle cifre che alcuni tessitori mi descrissero come media, ossia 40 lire al mese.

Ma non si può estendere un fatto eccezionale ad alcuni anni e ad alcune fabbriche a tutti gli anni ed a tutti gli stabilimenti. Nel 1897 la media è stata molto più alta, e giunse in una fabbrica, come ho già detto, a 3,42 al giorno. Per un mese del 1897, scelto a caso, e per una fabbrica tipica della Val Sessera, ho potuto raccogliere dati più precisi. Il 6,3% dei tessitori guadagnò 100 lire ed oltre al mese; il 17,5% ottenne una paga da 90 a 100 lire; il 19,5% da 80 a 90; il 26,5%, da 70 ad 80; il 16%, da 60 a 70; il 9%, da 50 a 60; ed il 5,5%, da 30 a 50. La massa dei tessitori ha dunque uno stipendio medio da 70 a 100 lire al mese; alcuni pochi guadagnano di più; il 30% guadagna meno per cause speciali, e sovratutto per le interruzioni nel lavoro, con cui si manifesta il fenomeno della crisi e della disoccupazione nel Biellese. In un altro mese forse quelli che guadagnarono ora solo da 30 a 50 otterranno di più; ed al loro posto verranno altri. Se si pensa che molti operai non devono pagar fitto, e che del resto questo non è superiore alle lire 3 al mese per camera (camere vere e non soffitte come a Torino), che i proprietari ottengono qualche guadagno supplementare o qualche reddito in natura dalla campagna, sorge nella mente di molti la domanda: «Perché gli scioperi sono più frequenti, il socialismo ha gittato più profonde radici, trascinando uomini e donne, vecchi e fanciulli, a guisa di una novella religione, perché le donne leggono in chiesa l’Avanti! e baciano le mani all’oratore socialista nel Biellese e non invece in altri luoghi, dove i lavoratori sono veramente ridotti alla miseria ed alla fame cronica, come nella bassa vercellese o nella pianura lombarda? Perché si sciopera fra gli operai dei lanifici e non nei cotonifici, dove la paga è minore?».

La questione è complicatissima ed una risposta la si può dare solo con esitanza. Non si tratta, prima di tutto, di un fenomeno isolato e peculiare al Biellese. Prendete qualunque statistica ufficiale e vedrete che in Italia gli scioperi agrari avvengono, non fra gli agricoltori denutriti della bassa Lombardia, ma in quelli più vigorosi e meglio pagati dell’agro emiliano e cremonese; che in Inghilterra ed in America gli scioperi più grandiosi hanno luogo fra gli operai dell’industria metallurgica o carbonifera che hanno l’orario di otto ore, mezza festa al sabato, 10 lire al giorno e la carne al desco durante tutta la settimana, e che ivi aumenta il numero degli scioperi, precisamente come nel Biellese, non negli anni in cui i salari sono bassi, ma nelle annate prospere, quando il lavoro abbonda.

Non è difficile indicare le cause di questo fenomeno. Gli operai mal pagati non si trovano di solito nella grande industria, ma disuniti e separati nelle case loro e nella campagna; non elevano la loro mente al disopra del cibo giornaliero e della fatica necessaria per procurarselo. La vita di fabbrica cambia tutto questo. Nell’industria tessile non si richiede grande fatica muscolare dall’operaio; la macchina fa tutto da sé; esso deve solo stare molto attento. L’attenzione continua per 10, 11 ore, in mezzo ad un fragore assordante, stanca il sistema nervoso e fa nascere il desiderio di cibi e di bevande riconfortanti. La comunanza di vita in un grande stabilimento, il contatto continuo con numerose persone dello stesso ceto, fa sorgere il bisogno di vivere insieme; rallenta a poco a poco i legami di famiglia, indebolisce la forza di coesione dell’unità familiare e rafforza la simpatia fra i varii membri dello stesso gruppo sociale. Alla sera, finito il lavoro giornaliero, l’operaio desidera di ritrovare quelli con cui ha lavorato tutto il giorno, e casca nell’unico ritrovo attraente da lui conosciuto: l’osteria. È straordinario il numero degli alberghi, caffè, osterie, cantine, spacci di liquori, che il viaggiatore osserva nei villaggi industriali.

Nella Val Sessera se ne incontra uno ad ogni passo. Nel comune di Pray sono 11, a Portula 22, a Coggiola 42, a Pianceri 9. E gli osti fanno affari. Gli operai non comprano il vino a brente per consumarlo a casa, ma lo bevono unicamente a litri nelle osterie. Si comprende così come una parte notevole dei salari prende la via dell’oste, come gli operai, quantunque piccoli proprietari, siano imprevidenti, indebitati e malcontenti. È necessaria un’opera lenta e faticosa di rigenerazione sociale, la quale potrà solo essere l’opera degli operai stessi e delle persone generose, di cuore e senza seconde intenzioni, che esistono dappertutto ed abbondano nel Biellese, dove le consuetudini migratorie e la grande attività economica hanno creato una classe di persone le quali vivono di un reddito che fluisce nel paese, ma viene da lontano, e possono mantenersi giudici imparziali fra operai ed industriali.

In mezzo ad una classe operaia disposta dal lavoro di fabbrica alla solidarietà, premuta da bisogni nuovi non prima conosciuti, cadde come scintilla eccitatrice di un grande incendio la propaganda socialista, fomentata ed aiutata dalle discordie fra gli industriali e dalla scissura nel campo costituzionale.

Ed ora gli operai, che hanno sentito durante due successive campagne elettorali predicare da oratori valenti ed instancabili il verbo novello, vogliono tradurlo in atto, e cominciano col chiedere la riduzione dell’orario.

Colla fretta dei neofiti essi sono andati più avanti già dei loro apostoli; ed hanno dopo la lotta politica incominciato la lotta economica in un momento tale in cui, come ho già osservato, una sospensione delle fabbriche può avere lunga durata con conseguenze dannose per le valli biellesi.

Ed accanto alla domanda di riduzione di orario, la quale dopo tutto è stata accettata subito dagli industriali con una differenza minima, spunta lo spettro, pauroso per questi ultimi, di nuove domande: aumento di paghe e impossibilità per i fabbricanti di licenziare gli operai, da loro ritenuti fomentatori di malcontento e di sciopero, senza il consenso della lega di resistenza.

Amendue le domande sono premature. Io non so se un giorno si giungerà nel Biellese ad una condizione tale di cose in cui padroni ed operai non si credano più in diritto di discutere individualmente le condizioni del loro contratto di lavoro e si sottomettano alle decisioni dei comitati misti delle associazioni padronali ed operaie. In altri paesi oramai è questa una consuetudine radicata contro cui nessuno protesta; ma nel Biellese mi sembra ed è prematuro.

Il proprietario dello stabilimento non è una società anonima, un essere impersonale, lontano, a cui poco importa di avere piuttosto questo che quell’operaio, e contro i soprusi dei cui rappresentanti sono necessarie delle guarentigie, ma è un uomo che vive in mezzo alla fabbrica, conosce tutti i suoi operai personalmente ed il quale non si lascerà costringere tanto facilmente a tenersi vicino operai che non gli talentino.

E se i proprietari hanno il dovere di consentire alle domande che sono giuste e ragionevoli, gli operai hanno dal canto loro il dovere di non far proposte, la cui giustificazione si può solo trovare in ambienti ed in condizioni industriali che sono ben lontane dalle nostre.

È un perditempo discutere se nel lontano futuro impererà la libera concorrenza o la organizzazione collettivistica; non si può mettere a base della vita quotidiana le elucubrazioni che lo scienziato viene serenamente facendo nel suo studio; importa sovra ogni altra cosa che industriali ed operai cerchino di evitare nella pratica i sacrifizi immensi causati a tutte le parti contendenti da quell’arma a doppio taglio che è lo sciopero.

27 settembre 1897

 

V

Lo sciopero che ancora si prolunga fra i tessitori della Val Sessera e dilaga sporadicamente anche nelle altre valli ed in Biella non è stato privo di insegnamenti agli interessati nell’industria della lana. Agli operai ha insegnato che la tattica degli scioperi deve essere sottile e sapiente e richiede accorgimenti e cautele infinite riguardo ai modi ed ai tempi più opportuni per addivenire all’ultima ratio della guerra industriale. Essi si sono accorti che, come nella guerra vera, occorre sapere a tempo debito battere alquanto in ritirata se si vogliono conservare le posizioni conquistate e se si vuole impedire che il nemico approfitti di una mossa sbagliata per metterli in iscompiglio dopo la effimera vittoria.

Sovratutto esso ha insegnato loro a pregiare ed a valersi accortamente dell’arma della solidarietà mercé la lega di resistenza.

Le leghe, che ad alcuni industriali paiono mafie occulte e pericolose da sopprimersi colla forza della legge, sono invece i portati naturali e necessari della grande industria moderna. Ora sono semplici strumenti per lo sciopero, come erano le prime unioni artigiane inglesi. Ma avverrà delle leghe italiane come delle unioni inglesi. Queste, col crescere in potenza ed in ricchezza, videro la utilità di proseguire altri scopi, oltre la resistenza agli industriali, e crearono così nel loro seno casse contro la vecchiaia, la invalidità, le malattie, la disoccupazione, ecc. Inoltre se alle leghe giovani e prive di fondi importa poco iniziare uno sciopero, poiché i rischi sono tenui e si riducono alla perdita di un fondo minuscolo, i capi di potenti unioni guardano con diffidenza allo sciopero che farebbe sfumare come nebbia al vento le centinaia di migliaia di lire di riserva penosamente accumulate e porrebbe in pericolo il servizio delle pensioni e dei sussidi per malattia e per disoccupazione.

Tutte le più potenti unioni artigiane inglesi preferiscono allo sciopero le trattative, gli arbitrati, le reciproche concessioni, ed addivengono alla guerra solo in ultima istanza, con quanto vantaggio della pace sociale e della industria non è chi non veda.

Gli industriali, dal canto loro, hanno imparato quanto valore risieda nell’amichevole accordo per opporsi alle domande degli operai. Dal punto di vista dell’impresa, la lega fra gli industriali sopprime la concorrenza reciproca nella caccia all’operaio, come la lega operaia sopprime la caccia al salario. È l’inizio anche questo di un movimento che sarà lungo e fortunoso, ma potrà essere apportatore di conseguenze benefiche. Nelle dispute fra capitale e lavoro l’esistenza di associazioni padronali ed operaie sopprime il carattere personale, astioso, che si possa nascondere nei punti controversi, e lascia solo venire a galla i punti generali ed impersonali.

Su di questi è più facile trovare il ponte di passaggio per l’accordo fra le parti contendenti. Perché gli industriali ragionerebbero male se dalla forza imprevista esistente nella loro lega conchiudessero alla possibilità ed alla utilità di una guerra ad oltranza contro l’agitazione operaia allo scopo di sopprimere le leghe di resistenza fra le maestranze. L’effetto primo sarebbe forse quello della vittoria e della tranquillità, ma sarebbe vittoria effimera e tranquillità apparente, sotto le cui ceneri continuerebbero a covare i germi della discordia e della lotta.

La esistenza delle due associazioni opposte fornisce invece il mezzo adatto ad introdurre una nuova forma di arbitrio. Seduti ad un tavolo comune, i rappresentanti autorizzati delle due associazioni non tarderebbero a scovrire coll’occhio linceo di cui sono dotati gli uomini del mestiere un terreno neutro di accordo. Il segretario di una delle più potenti Trade-Unions diceva un giorno: «Da venticinque anni nella nostra industria e nella nostra città non avvengono scioperi. La ragione è facile a scoprire. Quando sorge una controversia, i rappresentanti ufficiali delle leghe padronali ed operaie sentono che su di loro incombe una grave responsabilità; da loro dipende il fiorire od il decadere dell’industria; la tranquillità e la pace di migliaia di famiglie o la loro forzata emigrazione all’estero. Non è mai avvenuto che essi si sottraessero alla loro responsabilità e non addivenissero ad un accordo con soddisfazione reciproca».

Ciò che accade altrove, può ripetersi nel Biellese, dove si annoverano gli industriali e gli operai più intelligenti e più abili d’Italia. Molti industriali sono avversi all’arbitrato, alle trattative colle leghe di resistenza, e si dimostrano riluttanti perfino a nominare i membri della loro parte nei futuri collegi dei probi-viri, perché credono che arbitrato significhi resa, abdicazione della propria indipendenza, e paventano che le sentenze del collegio dei probi-viri non siano osservate ed eseguite. È questo un errore funesto. L’arbitrato vuol solo dire sottomissione del giudizio individuale che può fallire perché interessato nella questione, al giudizio di una persona estranea la quale più difficilmente fallirà perché imparziale. Allo stato di guerra succedono così le trattative che creano e rafforzano la pace.

Quanto alla domanda se le decisioni del collegio dei probi-viri saranno eseguite, non si può rispondere se non: provate. E la esperienza del passato è arra sicura che, una volta messa in giuoco la molla della responsabilità collettiva di tutta una classe, questa saprà assurgere all’altezza dei suoi doveri. Se non gli si insegna a servirsi dello strumento nuovo, il novizio non imparerà giammai a maneggiarlo. Del resto i collegi a Como hanno fatto buona prova e preesistevano perfino alla legge nuova regolatrice.

Pel governo, finalmente, scaturiscono dallo sciopero biellese insegnamenti gravi e solenni. La tranquillità delle masse operaie scioperanti ha dimostrato che è inutile e pericolosa la repressione nei conflitti fra capitale e lavoro.

Quantunque le osterie siano veramente sovrabbondanti nei villaggi industriali, a me è sembrata inopportuna la chiusura degli otto esercizi pubblici. Ha eccitato gli animi ed ha allontanato il componimento delle vertenze. Il Biellese non è la Sicilia, ed i tessitori della Val Sessera non sono picconieri delle zolfare superstiziosi e forse violenti.

Il governo deve bensì reprimere le violazioni della legge, ma deve sovratutto regolare le condizioni degli interessati nell’industria, inspirandosi ai supremi principii della igiene, della pace sociale e della preservazione della razza, applicando le leggi esistenti, ed ove occorra, facendone delle nuove. Il ministero ha già iniziato le pratiche per la costituzione dei collegi dei probi-viri, ed ha fatto il dover suo. Esso deve vegliare ancora affinché i collegi si formino e funzionino veramente. Io non so in qual modo si provveda alla osservanza della legge sul lavoro dei fanciulli; certo non se ne curano persone tecniche, ma funzionari amministrativi sovraccarichi di mille faccende diverse. Tanto varrebbe che la legge non esistesse.

Biella è un centro industriale abbastanza importante perché vi venga adibito un ispettore delle fabbriche apposito ed eventualmente anche un sotto ispettore, scelti nel novero delle persone tecniche e pratiche dell’industria, specialmente tessile. L’ispettore dovrebbe vegliare alla rigorosa applicazione delle leggi esistenti e fare un’inchiesta minuta, precisa, paziente, imparziale sugli abusi che si manifestano e che richieggono un rimedio, ricercare, ad esempio, quali siano le vere cagioni per le quali la media dei riformati nei paesi industriali del Biellese è così spaventevolmente alta (quest’anno a Cossato su 50 coscritti se ne riformarono 48). Sarebbe una inchiesta amministrativa, senza inutili spese, col vantaggio che il medesimo organo che propose le nuove disposizioni sarebbe incaricato di applicarle.

Senza conoscere i mali che debbono essere riparati, è inutile legiferare; si faranno leggi bislacche destinate a rimanere senza applicazione, come tante altre in Italia.

6 ottobre 1897

* * * * *

Lo sciopero del porto di Genova

I

Lo sciopero dei lavoratori del porto di Genova, scoppiato improvvisamente ieri in seguito allo scioglimento della camera del lavoro, ha destato una impressione profonda, la quale non si restringe a Genova, ma si ripercuote in tutta l’alta Italia. Noi non sappiamo con precisione quali siano i motivi che hanno indotto il prefetto Garroni a sciogliere la camera del lavoro. Il decreto afferma che la camera faceva opera contraria all’ordine pubblico, istigando anche pubblicamente a delitti contro la libertà del lavoro, all’odio fra le diverse classi sociali ed alla disobbedienza della legge.

I giornali di Genova non ci danno informazioni siffatte da poterci formare un giudizio sulla giustizia e sulla opportunità del provvedimento prefettizio. Sicché a noi non resta se non aspettare il momento in cui un giudizio sereno ed imparziale possa pronunciarsi; pronti, se tale sarà il nostro dovere, a biasimare il prefetto quando lo scioglimento apparisse ingiustificato, od a lodarlo se la tutela dell’ordine imperiosamente avesse richiesto la deliberata chiusura.

Ad ogni modo, qualunque sentenza si voglia dare sul decreto del prefetto, nessuno che serenamente osservi le cose potrà persuadersi che fosse necessario, per un siffatto motivo, pronunciare la generale sospensione del lavoro nel porto di Genova.

Alcuni mesi or sono uno sciopero consimile scoppiava a Marsiglia; e per lunghi giorni le colonne dei giornali recarono informazioni delle sue conseguenze dannose per la vita economica ed industriale della Francia. Marsiglia non è il solo porto francese; eppure l’opinione pubblica si commosse fortemente; tristi presagi si fecero per l’avvenire del commercio marittimo; e si guardò con sospetto ed ansia all’incremento del traffico nei porti stranieri, e sovratutto nel porto di Genova, a danno di Marsiglia.

Tutti rammentano l’indignazione con cui dai nostri vicini si accolse la parola del deputato Morgari, andato ad eccitare alla lotta i lavoratori italiani. Egli apparve – e certo non lo era – come un messo dei commercianti liguri vogliosi di attirare a sé il traffico marsigliese; e come perturbatore dell’ordine pubblico il deputato socialista di Torino fu espulso da un ministero in cui pure moderatore delle questioni del lavoro era il socialista Millerand.

A scagionarsi dalla stolida accusa di essere venduto ai capitalisti genovesi, l’on. Morgari scrisse una lettera al Petit Provençal, nella quale si dichiarava dolente di non avere potuto far scoppiare lo sciopero anche fra i lavoratori del porto di Genova, a causa della assoluta proibizione delle società operaie di resistenza. Egli sapeva – affermando questo – di dire cosa non corrispondente a verità, poiché a Genova esisteva una camera del lavoro forte di 33 leghe e 44 associazioni. Ma il mal vezzo di parlar male all’estero del governo patrio è troppo radicato perché si perda un’occasione sola di dedicarsi a tal genere di esercitazioni retoriche.

Oggi il voto dell’on. Morgari si è compiuto: 8000 operai, eccitati, come da una scintilla elettrica, dal bisogno di protestare contro il decreto prefettizio, non hanno pensato che lo sciopero non era l’unico mezzo di far udire le loro ragioni; che il rimedio era peggiore del male; e che ad altre armi sarebbe stato doveroso ricorrere in questa lotta prima che ad una la quale è atta a ferire non solo chi la impugna, ma insieme la società intera.

Noi non abbiamo bisogno di dire il danno del prolungarsi dello sciopero attuale. Il porto di Genova è l’anima della vita italiana; è un meccanismo perfezionato e delicatissimo, il cui movimento dà vita e ricchezza a regioni ed a moltitudini, ed il cui arresto significa miseria diffusa nelle città popolose e fino nelle più remote campagne dove batte un telaio o dove è giunta la eco del commercio moderno.

Tutta questa vita è possibile e tutta questa ricchezza si svolge sol perché il porto di Genova è un superbo meccanismo atto a sfidare la concorrenza dei porti esteri, sol perché le organizzazioni del lavoro, del carico e dello scarico, le tariffe di trasporto da Genova ai porti d’oltremare ed alle città dell’Italia e dell’Europa sono combinate per modo da concedere ai trafficanti qualche lieve guadagno di pochi centesimi. Ma sospendasi il lavoro per un po’ di tempo, e le navi estere, od almeno quelle navi che possono spostarsi, andranno a caricare ed a scaricare nei porti esteri; e questi a gara si decideranno a concedere quelle facilitazioni che valgono a trattenerle per ora e ad attirarle in futuro. Nella gara internazionale dei traffici un momento perduto può essere la causa di grave danno. Mentre i porti concorrenti per l’accresciuto momentaneo traffico riescono a diminuir le tariffe ed a rendere l’incremento, da temporaneo, permanente; il porto di Genova si trova costretto ad aumentare le tariffe perché le spese generali più non si possono diffondere sul numero antico di atti di scarico e di carico; e l’aumento è un nuovo stimolo alle navi a recarsi altrove.

Grave è perciò la responsabilità di coloro i quali nel delicatissimo meccanismo di scambio fra l’Italia ed il resto del mondo introducono ostacoli materiali o morali, i quali siano cagione che il meccanismo non funzioni. Ciò che importa sovratutto è la vittoria; e per vincere occorre che tutti siano, come i soldati di un esercito, insieme solidali ed inspirati da un unico intento: tutti, dallo stato che è proprietario del porto, agli imprenditori che del porto si giovano per compiere lor traffici, agli operai che ne traggono alimento.

Il governo deve mantenersi al disopra dei partiti, non cedere né ai desideri degli imprenditori né ai clamori degli operai i quali chiedano interventi illegali a favore di una parte. Imprenditori ed operai devono essere animati da quello spirito di tolleranza e di equanimità che appiana gli attriti e risolve le questioni.

21 dicembre 1900

 

II

Genova, 21

In Genova l’oggetto generale dei discorsi è lo sciopero, il quale va diventando sempre più generale. Oramai sono più di dodicimila gli scioperanti nella sola Genova, tra lavoratori del porto ed operai delle officine; ed a questi si aggiungono altri cinque o seimila scioperanti a San Pier d’Arena ed a Sestri.

Siccome la causa dello sciopero è lo scioglimento della camera del lavoro, avvenuto per decreto prefettizio, così ho creduto dovere recarmi innanzitutto dal prefetto per conoscere i motivi che lo avevano indotto a tale provvedimento. Ecco, secondo quanto mi disse, con molta cortesia, stamane il comm. Garroni, quali ragioni hanno spinta l’autorità politica a sciogliere la camera del lavoro.

Questa già nel 1896 era stata disciolta dal prefetto d’allora, Silvagni, perché compieva atti contrari alle leggi vigenti, e perturbava l’ordine pubblico. In quest’anno, giovandosi della condiscendenza governativa, parecchi componenti l’antico sodalizio si sono ricostituiti da sé in camera del lavoro. Da sé, poiché non consta che vi sia stata una delegazione formale da parte degli operai. Anzi quasi tutti i membri del comitato esecutivo sono estranei al vero elemento operaio genovese. Tutti sono socialisti.

La nuova camera aveva tutti i caratteri dell’antica già disciolta, per cui dovere del prefetto attuale era di mantenere fermo il decreto del suo predecessore Silvagni.

Si aggiunga che, anziché avere scopi di intervento e di tutela delle ragioni dei lavoratori, quando se ne presentasse la necessità, la camera del lavoro ha costituito nel suo seno delle leghe di miglioramento per ognuna delle varie professioni, eccitando desiderii eccessivi nei membri delle leghe. Quando poi gli operai, presentarono domande di revisione di tariffe od aumento di salari, la camera del lavoro ha avuto l’aria di intervenire come paciera fra capitale e lavoro a dirimere un conflitto che essa aveva suscitato. Le leghe di miglioramento a poco a poco si mutarono così in leghe di resistenza e di prepotenza. Chi non era socio difficilmente poteva trovar lavoro, a causa delle intimidazioni della lega.

La camera del lavoro veniva in tal modo a compiere un’azione contraria alle leggi dello stato, annullando l’opera della camera di commercio e dei collegi dei probi viri, e facendo affiggere pubblici avvisi con cui invitava gli operai a far capo, non più alle autorità, ma esclusivamente ad essa. Le riunioni aventi carattere pubblico e discorsi violenti erano frequenti e costituivano un continuo eccitamento all’odio fra le classi sociali, e sovratutto fra capitale e lavoro. Ogni giorno una questione nuova veniva sollevata per dar agio ai dirigenti della camera di intervenire.

Perciò la camera del lavoro fu disciolta, lasciando sussistere però le leghe di miglioramento. Non perciò gli operai rimangono privi del mezzo di far valere le loro ragioni di fronte agli imprenditori.

Il comm. Garroni mi espose un suo disegno, che egli ha eziandio manifestato ieri all’onorevole Pietro Chiesa, il quale era andato da lui per sentire le ragioni dello scioglimento.

Esiste una legge dei probi viri, destinata a dirimere i conflitti tra capitale e lavoro. È vero che ora la legge non si applica ai lavoratori dei porti. Ma è sempre possibile, sia con una interpretazione autentica, sia per accordo delle parti, costituire collegi dei probi viri in cui siano rappresentate le due classi degli imprenditori e degli operai.

Nulla vieta inoltre che i probi viri eletti dalla classe operaia si possano costituire separatamente in camera del lavoro o segretariato del popolo – il nome non importa – per trattare le questioni operaie. La nuova camera del lavoro sarà una vera emanazione della classe operaia, e non sarà composta solo di otto persone scelte da se stesse.

Contro la rappresentanza legale degli operai, eletta da tutti gli interessati con le necessarie garanzie, nessun decreto di scioglimento interverrà mai, almeno finché il tribunale dei probi viri e la parte operaia si mantengano entro i limiti indicati dalle leggi. Questi gli intendimenti del prefetto, esposti all’on. Chiesa e su cui stamane, alle ore 10, doveva deliberare l’assemblea degli scioperanti.

Mi recai ai terrazzi di via Milano, dove era assiepata una folla immensa, ed in compagnia di alcuni giornalisti potei assistere alla discussione che nella sala di una società operaia tenevano i delegati delle leghe di miglioramento e numerosi membri della disciolta camera del lavoro.

Presiedeva l’on. Chiesa, un bel tipo di operaio intelligente e dotato di praticità e buon senso. Due correnti predominavano nell’assemblea; ed importa fermarcisi su, perché possono aiutare a spiegare l’origine e la persistenza dello sciopero.

Tutti gli operai ed i capi del movimento – fra cui alcuni non operai – sono d’accordo nel ritenere che lo scioglimento della camera del lavoro è stato un arbitrio inqualificabile del prefetto il quale, appena fu sicuro, per la chiusura della camera dei deputati, che non si sarebbero potute fare interpellanze al riguardo, con un colpo di testa sciolse la camera del lavoro, perquisì locali, asportò registri, ecc.

Nulla giustificava, affermasi, l’atto prefettizio. La camera del lavoro e le leghe di miglioramento si erano sempre adoperate a sedare i conflitti tra capitale e lavoro; e solo ai buoni uffici della commissione esecutiva è dovuto se alcuni scioperi gravissimi non scoppiarono nei mesi scorsi fra gli scaricatori di carbone e di grano, e se si poterono di buon accordo fra imprenditori ed operai ripristinare, alquanto modificate, le tariffe del 1892, che erano cadute parzialmente in disuso.

Lo scopo vero dello scioglimento si fu di mettere gli operai nella impossibilità di avere un organo proprio di difesa. Quando le leghe saranno disciolte, chi potrà far osservare le tariffe concordate? Alla prima occasione gli imprenditori le violeranno e vorranno pagare alquanto meno dello stabilito; e gli operai non avranno alcun mezzo di reagire.

Perciò scioperarono tutti. Non è questa una questione economica; è questione di dignità civile e di solidarietà.

Quanto alla solidarietà, devo rilevare una circostanza. Gli operai ascritti alle varie leghe del porto sono 4000, eppure gli scioperanti nel solo porto ammontano a 6000; il che vuol dire che si astennero dal lavoro operai non iscritti alle leghe. Ciò avvenne non già per solidarietà, ma perché è interesse dei negozianti o di scaricar tutto o di non scaricar nulla.

Le navi quando giungono in porto denunciano il numero dei giorni entro cui deve effettuarsi lo scarico. Se lo scarico dura di più, allora la nave va incontro alle stallie, ossia paga un diritto supplementare, detto di controstallia, che per i piroscafi moderni può calcolarsi a duemila lire al giorno. Se per uno sciopero parziale alcune navi lavorano ed altre no, quelle che non lavorano devono pagare le controstallie; ed è quindi interesse dei negozianti di non lavorare affatto, perché quando la inazione è generale si presume sia dovuta a forza maggiore e non si pagano le controstallie, mentre se la inazione è parziale, il regolamento la reputa dovuta all’opera dei negozianti e fa pagare il maggior diritto.

Perciò tutti scioperarono; gli ascritti alle leghe per protesta politica contro l’atto del prefetto, ed i non ascritti perché così portano le necessità degli ordinamenti portuali.

Di fronte alle nuove proposte prefettizie, conviene continuare nello sciopero?

Una parte, più intransigente, reputava che delle parole del prefetto non si dovesse fare il menomo conto, che esse fossero unicamente una manovra fatta per indurre gli operai a cedere ed a ritornare al lavoro, salvo poi disciogliere anche le leghe ed annientare ogni organizzazione operaia.

Altri, fra cui l’on. Chiesa, guardavano sovratutto all’aspetto pratico della questione. Il fatto si era che il prefetto, sotto una nuova forma, e con elezioni fatte in modo speciale, a norma della legge dei probi viri, permetteva la ricostituzione della camera del lavoro. «Perché sofisticare sulla forma quando si era ottenuto la sostanza? Non era forse vero che lo scopo degli operai, nel costituire la camera del lavoro, era quello di tutelare i nostri diritti? Non si era forse già dimostrato, scioperando in massa, che i lavoratori del porto di Genova sanno resistere alle illegalità governative? Un’altra volta il prefetto si piglierà ben guardia dal molestarci perché saprà che noi siamo fermamente decisi a resistere».

«Si aggiunga» notavano i fautori della moderazione «che continuando nello sciopero perderemo quello che ancora ci resta; le leghe saranno disciolte e perderemo il frutto di tanti mesi di lavoro. L’opinione pubblica, che ora ci è favorevole, si rivolterà contro gli operai perché i danni del commercio arenato, danni che ammontano a milioni di lire al giorno, si faranno vivamente sentire non solo in Genova, ma in tutta l’alta Italia. E non c’e mai stato nessun sciopero d’importanza generale il quale abbia avuto un esito propizio quando l’opinione pubblica vi era avversa».

Le decisioni degli scioperanti vi sono già state telegrafate: una commissione di nove si abboccherà oggi col prefetto, col sindaco e col presidente della camera di commercio; e finché non si sia venuti ad un accordo sulla base della ricostituzione della camera del lavoro, sotto una forma od un’altra, e sulla restituzione dei registri, fu deliberato di continuare lo sciopero.

22 dicembre 1900

 

III

Genova, 22 dicembre

Si dice che gli italiani abbiano il vizio di cominciare tutti i loro libri col descrivere le origini del mondo. Siccome però di questo vizio italiano sono abbastanza immuni i giornalisti, così spero che mi si vorrà perdonare se in questa mia lettera sullo sciopero attuale prendo le mosse da un’epoca un po’ remota.

I lavoratori del porto di Genova hanno infatti dal medioevo avuto la tendenza a raggrupparsi in corporazioni per la tutela dei loro interessi e per la determinazione dei salari e delle altre condizioni del lavoro. In verità sarebbe difficile fare altrimenti. Dove gli imprenditori sono pochi, e gli operai si contano a migliaia, e tutti sono, suppergiù, egualmente forti ed atti a compiere il rude lavoro di facchinaggio che è loro imposto, è naturale che gli operai si riuniscano in società per non portarsi via il pane l’un l’altro, per regolare l’ammontare del salario e la durata del lavoro.

Ancora. Siccome il lavoro del porto non è continuo, ma muta di giorno in giorno per intensità ed ampiezza, così è necessario che sul porto esista un’armata di lavoratori capace di far fronte ai lavori dei giorni di massima nello scarico e nel carico; e siccome nei giorni di lavoro medio od inferiore alla media non tutti possono essere occupati, così è d’uopo che gli operai si accordino per alternarsi al lavoro in modo che nessuno corra il rischio di morir di fame, quando il lavoro è scarso. Altrimenti alcuni si dedicherebbero ad altre professioni, e nei giorni di lavoro massimo mancherebbe la mano d’opera.

La necessità di provvedere a queste speciali contingenze del lavoro del porto di Genova – contingenze esistenti del pari in tutti i grandi porti e che dettero origine, anni or sono, al gigantesco sciopero dei facchini del porto di Londra – era talmente sentita che una compagnia, intitolata con lo strano nome di Compagnia dei caravana, esiste ancor oggi, la quale data dal principio del secolo XIV. Uno statuto dell’11 giugno 1340, nel suo primo articolo, in un linguaggio mezzo tra il genovese e l’italiano, dice: «Questi son li statuti e le ordination facte per tuti li lavoraor de banchi e de lo ponte de lo peago e de lo ponte della calcina e in tuti li altri logi facta e ordenà per lo prior, ecc. ecc.». Il priore incassava tutti i guadagni dei soci della compagnia; provvedeva alla cura dei malati e feriti. Per un curioso privilegio i soci dovevano essere bergamaschi e perciò i mariti mandavano le mogli a partorire a Bergamo, perché i figli potessero far parte della compagnia dei caravana. La quale aveva il privilegio esclusivo del carico e dello scarico nel porto di Genova, onde nascevano continue controversie coi facchini liberi ed abusivi da parte dei soci, che alla fine del secolo scorso erano giunti persino a vendere i loro posti.

Protetti dalle autorità genovesi, perché la compagnia accoglieva solo uomini di specchiata condotta morale e garantiva ogni danno che per avventura potesse essere arrecato dai soci; risparmiati dalle leggi abolitive di Napoleone e di Cavour, e dal legislatore italiano del 1864 che aboliva tutte le corporazioni operaie, i caravana, non più bergamaschi, ma italiani in genere, si mantennero fino ad ora, e vivono di vita fiorente.

Essi non sono più gli unici ed esclusivi facchini del porto di Genova, perché il loro privilegio è limitato allo scarico, al peso ed al trasporto delle merci provenienti dall’estero nel recinto del porto franco e della dogana, ossia nei luoghi dove si compiono operazioni daziarie su cui ha autorità ed ingerenza lo stato.

Sono circa 220 con a capo un console nominato dall’intendente di finanza e parecchi capi squadra. Versano tutti i guadagni in un fondo comune, il quale basta a pagare le spese d’amministrazione, a distribuire una pensione ai caravana resi inabili al servizio per vecchiaia o per ferite, ed a dare ancora un salario medio mensile non inferiore a 120 lire.

Tutti gli altri facchini e lavoratori liberi del porto – più di 6000 – guardano a questi 220 caravana del porto franco con invidia. Soggetti, come sono, a tutte le alee del commercio marittimo, sempre col rischio di rimanere disoccupati, i facchini liberi hanno sempre istintivamente sognato di costituire una corporazione che distribuisse fra tutti equamente il lavoro, desse un’indennità in caso di infortunio, li tutelasse contro gli sfruttamenti, provvedesse alle vedove ed agli orfani. Il divieto posto dalla legge del 29 maggio 1864 alla costituzione legale delle corporazioni d’arti e mestieri non ha fatto altro che acuire il desiderio di fondarle sovra una base libera, ma estesa a tutti i lavoratori.

Le società di mutuo soccorso, numerosissime, sono una manifestazione della tendenza. Così pure i bagon, curiose società, in cui gli operai si dividevano in turni, ed ogni turno attendeva al lavoro quando la sorte lo designava.

Tanto più il desiderio di avere nelle associazioni uno schermo contro le avversità della vita cresceva, in quanto la concorrenza fra gli operai veniva fomentata dai cosidetti confidenti o capi-squadra, i quali fungono da intermediarii fra la mano d’opera e i commercianti, che, avendo bisogno di caricare o scaricare una nave non vogliono trattare con 100 o 200 operai individualmente, ma con un solo che negozi a nome di tutti gli altri. Dei confidenti io ho sentito raccontare cose molto diverse. Gli uni affermano che i confidenti percepiscono un guadagno, lauto bensì, ma ben meritato dalle loro fatiche manuali e dalla loro opera di intermediazione.

Se si vogliono condannare i confidenti, quasi tutti uomini colossali, dalla muscolatura erculea, che sollevano pesi enormi come una piuma, bisognerebbe condannare tutti quelli che comprano e vendono e che dal facilitare gli scambi traggono un qualche guadagno. Altri invece afferma che i confidenti sono esosi sfruttatori della mano d’opera. Ricevono cinque dai commercianti e pagano la metà o poco più agli operai. La giornata media di parecchi confidenti non sarebbe inferiore ad 80 o 100 lire al giorno. Vi sono alcuni fra essi, antichi camalli, i quali si sono arricchiti a milioni e posseggono castelli sulla riviera ligure. Essi sono sempre pronti ad attizzare la discordia fra commercianti ed operai per farne loro pro. Anche ora non sono malcontenti che la camera del lavoro abbia spinto gli operai a far domande di aumento di salari, perché sperano di ricevere bensì dai commercianti le paghe secondo le nuove cresciute tariffe, salvo a distribuirne solo una parte agli operai, intascando il resto.

Per meglio speculare, i confidenti da alcuni anni avrebbero chiamato dalle montagne una moltitudine di contadini ignoranti e rozzi ad accrescere le falangi dei facchini del porto. Mettendo abilmente gli uni contro gli altri, i confidenti sarebbero riusciti a diminuire i guadagni degli operai, obbligandoli a lavorare al disotto delle tariffe per la tema di vedersi soppiantati da altri nel lavoro.

Qualunque giudizio si voglia arrecare intorno a codesti confidenti, è certo che gli operai del porto, da lungo tempo desideravano di trovare un organo per la difesa dei loro interessi.

Non già che le giornate di lavoro siano mal pagate; 6 o 7 lire al giorno sono una paga comune. Il guaio si è che la paga è saltuaria, oscillante, soggetta ad intermittenze e ad incertezze le quali molto contribuiscono a deprimere le sorti dei lavoratori e ad abituarli a costumi di oziosità e di spreco deplorevoli.

Di questi bisogni della classe operaia del porto di Genova pochissimi – è doveroso confessarlo – si diedero pensiero. Né il comune, né la camera di commercio e neppure gli altri enti politici o commerciali si accorsero mai che qualche cosa bisognava pur fare per organizzare gli operai e per impedire che un bel giorno il malcontento desse origine a dissidii ed a sospensioni del lavoro, perniciose per la vita di un porto come quello di Genova, di importanza non solo nazionale, ma internazionale.

Il solo che si sia occupato – fra le classi dirigenti – a dirimere le questioni del lavoro ed a mantenere la pace in mezzo agli operai del porto è un funzionario di pubblica sicurezza, Nicola Malnate, a cui la meritata commenda non ha mai tolto il desiderio di vivere ogni giorno da vent’anni la vita tumultuosa del porto, sempre intento a far da paciere fra capitale e lavoro.

In questa sua opera il Malnate nessun aiuto ottenne mai. Non dal governo, occupato in altre cose; non dalla camera di commercio, i cui mentori, in troppe faccende affaccendati, si occupano delle questioni del lavoro e del porto solo per accusarsi a vicenda di ottener favori nei trasporti a scapito dei rivali; non dai commercianti e dagli industriali, i cui rapporti con gli operai non sono ancora improntati a molta cordialità ed umanità. Non è spento ancora il ricordo di quel vecchio operaio che, dopo trent’anni di servizio ininterrotto in uno dei più grandi cantieri genovesi, fu buttato sul lastrico con 15 lire di buona uscita – il salario di una settimana di lavoro -; sì che il vecchio, ridotto alla disperazione, finì per annegarsi nelle acque del porto.

Che meraviglia, se di fronte a questa assoluta assenza e noncuranza delle classi dirigenti, i lavoratori del porto di Genova abbiano prestato ascolto alle predicazioni degli apostoli del socialismo? Che meraviglia se i socialisti, organizzando le leghe di miglioramento, abbiano attirato a sé gli operai, disertati da tutti, e si siano impadroniti per modo dell’animo loro da farli agire come un sol uomo nel senso che i capi del movimento desiderano?

23 dicembre 1900

 

IV

Genova, 23 dicembre

Ora la disciolta camera del lavoro è ricostituita e le leghe di miglioramento ritornano a funzionare. Il governo, che avea voluto far atto di autorità collo scioglimento, ha dovuto piegare dinanzi alla formidabile protesta degli scioperanti.

Ed allora perché sciogliere prima per ricostituire poi? Forse perché la camera del lavoro era quasi esclusivamente dominata da socialisti? Vi ho già dimostrato, in una precedente lettera, che le associazioni fra gli operai del porto rappresentano una vera necessità economica, se si vuole avere un’organizzazione del lavoro efficace e pronta. Il fatto che le leghe siano state costituite da socialisti prova tutto al più che questi erano stati più attivi e più abili degli altri partiti ed avevano saputo prima e soli trarre profitto dalla condizione dei lavoratori del porto di Genova. Ora, siccome non è lecito fare il processo alle intenzioni, lo scioglimento sarebbe stato legittimo solo quando, dietro l’impulso del partito, socialista, l’opera della camera del lavoro e delle leghe di miglioramento si fosse estrinsecata in modo contrario alle leggi.

A questo proposito ho esaminato gli statuti delle leghe ed ho interrogato persone che ne conoscono il funzionamento pratico e, per la loro posizione sociale, sono in grado di dare un giudizio imparziale.

Ecco i risultati ai quali sono giunto, risultati che ho motivo fondatissimo di ritenere fossero pienamente noti alle autorità politiche nel momento in cui fu deciso lo scioglimento della camera del lavoro.

Le leghe costituite nel porto ed affiliate alla camera del lavoro sono otto: 1) lega tra i facchini del carbone (600 soci); 2) tra gli scaricatori di carbone con 700 soci; 3) tra i coffinanti, ossia caricatori di carbone, con 500 soci; 4) tra i facchini in grano, con 400 soci; 5) tra i lavoratori in cereali, con 300 soci; 6) tra i giornalieri, caricatori e scaricatori di bordo, con 1400 soci; 7) tra i giornalieri chiattaiuoli, con 200 soci; 8) tra i pesatori di carbone, con 100 soci.

In tutto 3600 soci su 6000 operai, i quali, unendosi in lega e pagando una tassa d’iscrizione da lire 2,50 a lire 15 ed una tassa mensile da lire 1 a lire 2,50, si proponevano di costituire un’associazione intesa a regolare le condizioni del lavoro nel porto.

Scopo finale della lega era di stringere insieme tutti i lavoratori, escludendo dal lavoro gli operai non iscritti o non accettati nella lega e infliggendo multe ai soci i quali accettassero patti di lavoro non conformi alle prescrizioni delle singole leghe.

Dire se questi scopi siano oppur no contrari alle leggi vigenti dipende dal sapere se essi si raggiungono colla persuasione e cogli accordi liberi coi principali, oppure con violenze ed intimidazioni.

Se tutti gli operai lavoranti in una data azienda si mettono d’accordo a non accettare meno di un dato salario; o, se anche essendovi operai liberi, estranei alle leghe gli imprenditori consentono a impiegare soltanto gli operai associati, non si commette alcuna violazione di legge. Gli operai sono padronissimi di non voler lavorare se non a certe condizioni; gli imprenditori sono liberi di scegliere i loro lavoranti dove vogliono.

La violazione della legge e in ispecie degli articoli 154 e 165 del Codice penale si ha solo quando con minacce o intimidazioni, materiali o morali, si attenti alla libertà del lavoro, impedendo agli operai “liberi” di lavorare od agli imprenditori di scegliere i lavoranti dove meglio loro aggrada.

Ora a me consta che le autorità di polizia e politiche di Genova sapevano che questi mezzi delittuosi non furono mai finora messi in azione dalle leghe. Il processo che si intenterà forse ai componenti della disciolta camera del lavoro dimostrerà la verità di quanto ora affermo e che – ripeto – era cosa nota alle autorità.

Anche durante lo sciopero attuale le autorità di polizia poterono constatare che gli scioperanti non avevano posto alcun ostacolo alla libertà del lavoro. Quegli operai che nel primo giorno vollero lavorare, poterono liberamente caricare e scaricare navi, senza timore di minacce e senza intimidazioni.

L’unica legge perciò in base alla quale si potesse pronunciare lo scioglimento di società, le quali si propongano con accordi, sia pure volontari e liberi, di monopolizzare il mercato del lavoro, era la legge del 29 maggio 1864 abolitiva delle corporazioni di arti e mestieri.

Ma a parte che si tratta di una legge antica, disadatta alle moderne necessità economiche, e che da lunghi anni si permette ad associazioni vietate in teoria da quella legge di sussistere e di fiorire liberamente, sta il fatto che il prefetto non ha nemmeno creduto opportuno di citarla nel suo decreto. Il che prova essere ormai universalmente riconosciuta la necessità di una organizzazione dei lavoratori del porto.

Dato che la camera del lavoro e le leghe non aveano commesso alcuna violazione delle leggi esistenti, è chiaro che lo scioglimento si può giustificare soltanto per motivi di ordine pubblico o per il desiderio di sostituire alla camera disciolta un organismo migliore di tutela e di pacificazione sociale.

Quanto ai motivi di ordine pubblico, è lecito chiedersi: perché, se quei motivi apparvero esistenti ieri, per la camera disciolta, si credono scomparsi oggi con la camera nuova, composta quasi dei medesimi elementi? O forse si crede che il governo sia ora più capace di tutelare l’ordine contro una istituzione sovversiva ricostituita di quanto non fosse prima di rimangiarsi ad una ad una tutte le disposizioni prese contro i sovversivi disciolti?

Quanto all’intenzione delle autorità politiche di sostituire alla organizzazione abolita una migliore magistratura del porto, costituita, come mi spiegò il comm. Garroni, sulla base dei tribunali dei probi viri, pare a me che il modo scelto per ottenere lo scopo non sia stato il più felice.

Non è collo sciogliere improvvisamente la camera fondata dagli operai, che si inducono questi ad accostarsi ad un nuovo organismo creato da chi ha distrutto quello che essi si erano da sé costituito. Occorreva fondare prima i tribunali dei probi-viri; far toccare con mano i vantaggi che operai e imprenditori potevano trarne. A poco a poco gli operai genovesi, che sono gente pratica su cui le teorie fanno poca presa, si sarebbero abituati a guardare con fiducia ai nuovi tribunali ed avrebbero lasciato in asso le associazioni socialiste, quando si fossero accorti della inutilità di farne parte.

Invece, sciogliendo la camera esistente prima che qualcosa si fosse creato per sostituirla, si è quasi fatto credere che il governo volesse impedire ogni organizzazione dei lavoratori, per fare il vantaggio dei datori di lavoro. Il che non poteva non fornire un’ottima arma in mano ai capi socialisti per indurre gli operai ad opporsi fieramente al decreto prefettizio.

Lo sciopero fu certamente un danno grave per l’industria, i commerci e gli operai medesimi. La perdita di un milione di lire al giorno è stata vivamente risentita dalla piazza di Genova. Coloro i quali hanno da tanti mesi riempito la testa degli operai genovesi di parole grosse, come: “solidarietà, sfruttamento dei capitalisti, ecc. ecc.”, hanno certo una grave responsabilità, la quale sarebbe stata ancor maggiore se, ostinandosi il governo a non concedere nulla, le perdite economiche fossero cresciute al di là della già grossa somma presente.

Ma che dire dell’autorità politica, che a cuor leggero compie un atto senza sapere che questo avrebbe eccitato gli animi degli operai già infiammati dalla predicazione socialista e lo compie per giunta in un momento nel quale, per i traffici intensissimi, si poteva prevedere che i medesimi ceti commerciali di Genova avrebbero implorato ogni sorta di concessioni pur di poter riprendere il lavoro?

La conchiusione non è lieta. Uno sciopero come quello del porto di Genova è l’indizio di una condizione sociale in cui nessuno ha una coscienza precisa dei proprii doveri e dei proprii diritti. Da un lato la piazza che si impone al governo e distrugge il principio di autorità. Dall’altro il governo che si immagina di sciogliere le questioni del lavoro a colpi di decreto. E fra i due una grande istituzione nazionale – ché tale è il porto di Genova – la quale corre il pericolo di vedersi sopraffatta dalla concorrenza straniera. Qui è il pericolo maggiore. L’esperienza odierna ha dimostrato che il porto di Genova funziona per caso.

Quando ho visto un silenzio di morte regnare sulle calate dove il giorno prima fervevano lavori tumultuosi, una domanda mi si è presentata spontanea: ma che davvero non vi sia nessun mezzo di impedire conflitti, che possono mettere in forse la continuità della vita industriale e commerciale di mezza Italia, e farci perdere i vantaggi ottenuti faticosamente con una lotta diuturna nella concorrenza cogli altri porti?

Dato il modo come è ora organizzato il porto di Genova, le crisi sono inevitabili. Il porto è un caos, dove si incrociano e si confondono le autorità di polizia e di dogana, il governo politico, la camera di commercio, il comune, le ferrovie, i negozianti, gli armatori, gli operai colle loro leghe, i confidenti, ecc. ecc.

È un miracolo che gli attriti non siano più frequenti in questo intrecciarsi e sovrapporsi di competenze, di autorità e di interessi in lotta. Questa non è libera concorrenza, è confusione di burocrazie e di enti che si vogliono sopraffare a vicenda. Se il porto fosse un ente autonomo, libero ed agile nei suoi movimenti, tutti gli interessati saprebbero bene trovare il modo di farsi ascoltare e di mettersi d’accordo. Se, per esempio, nella futura magistratura del porto di Genova vi fossero alcuni rappresentanti delle leghe operaie, si potrebbe star sicuri che le questioni relative ai salari ed alle ore di lavoro sarebbero risolute.

In Inghilterra, quando, nel 1875, le leghe operaie erano maggiormente accusate di sopraffazioni e di delitti contro la libertà del lavoro, al governo non venne neanco in mente che il miglior rimedio fosse di scioglierle. Una legge concedette alle leghe la massima libertà di azione, obbligandole soltanto a non lavorare nel mistero, ma alla luce del sole. Adesso ogni tinta rivoluzionaria è scomparsa nelle unioni britanniche, divenute fin troppo borghesi per i socialisti del continente. Se anche da noi fosse riconosciuta la necessità delle associazioni operaie, e se ad esse fosse riconosciuta la parte che loro spetta nel determinare le condizioni del lavoro, i benefizi ben presto sarebbero evidenti. Gli operai del porto di Genova non sono né poco intelligenti, né rozzi, come si vorrebbero far credere. «Qui nel porto» è un ispettore di pubblica sicurezza il quale così scrive «un barcaiuolo è così sottile matematico che dottamente intrattiene l’Accademia dei Lincei; un carbonaio, Giambattista Vigo, era così gentil poeta da meritarsi dalla civica amministrazione di Genova, alla morte, il tumulo che già era stato accordato a Felice Romani; un facchino, Niccolò Conti, detto Legna, è così profondo in dialettica ed eloquenza da oscurar la fama di celebri avvocati; e un console di Caravana, Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, legato in amicizia con illustri statisti del risorgimento italiano per meriti patriottici, professa filosofia, dirigendo il facchinaggio di dogana, al pari di un antico sapiente dell’areopago di Grecia».

Date ad una classe operaia siffatta la possibilità di trattare liberamente, per mezzo delle proprie associazioni, cogli imprenditori e col governo, le questioni del lavoro, e dopo dieci anni non sentirete più parlare di sciopero, perché tutti avranno la coscienza del dovere di rimanere uniti contro la concorrenza estera, e non vedrete più tribuni socialisti alla testa degli operai, perché questi avranno imparato a curar da sé i proprii interessi e non avran più bisogno di tutori.

24 dicembre 1900

 

V

La risposta che il presidente del consiglio ha dato all’interpellanza Vitelleschi non può a meno [sic] di produrre una dolorosa impressione. L’on. Saracco non osò negare di avere errato nell’apprezzamento dei motivi che lo avevano indotto a decretare lo scioglimento della camera del lavoro di Genova; ma dell’errore gittò la colpa sulle autorità locali di polizia. Negò recisamente di aver ceduto dinanzi alle imposizioni della piazza e di aver fatto ricorso alla mediazione di elementi sovversivi; e volle far credere che la vittoria degli scioperanti fu dovuta soltanto al suo desiderio che nella città di Genova la calma ritornasse senza dover far uso della forza repressiva posta in sue mani.

A noi sembra che il capo di un governo responsabile non debba poter fare in moda siffatto la cronistoria di una sciopero come quello di Genova. Non era forse dovere del governo l’indagare – magari andando di persona a studiare la situazione – se realmente furono compiuti gli atti delittuosi che servirono a motivare la scioglimento della camera del lavoro? E se quei fatti delittuosi erano avvenuti, non doveva forse l’onorevole Saracco reprimerli senza esitare e senza cedere dinanzi alle minacce di sciopero? Se invece quei fatti fossero risultati insussistenti, non era del pari obbligo dell’autorità di astenersi da ogni provvedimento che potesse ferire il senso di giustizia delle masse operaie genovesi e spingerle a dimostrazioni ed a proteste deleterie per il commercio del massimo porto italiano?

La risposta dell’onorevole Saracco dimostra la verità di quella che finora era soltanto una fondatissima ipotesi: non essere il prefetto di Genova il solo colpevole di non aver compreso l’importanza del decreto di scioglimento della camera del lavoro.

Il governo fu il maggiore responsabile in tutta questa dolorosa faccenda; e, come tutti gli incoscienti, accortosi del fallo commesso, precipitò di dedizione in dedizione, sino a compromettere il prestigio dell’autorità ed a lasciar credere alla piazza che basti protestare e pretendere per vincere.

Il che è molto grave.

25 gennaio 1901

 

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Leghe operaie e leghe padronali

I recenti scioperi di solidarietà hanno indotto molti industriali e commercianti a chiedersi: quale garanzia abbiamo noi contro codeste convulsioni industriali, le quali, per motivi a noi estranei, colpiscono le nostre industrie ed i nostri affari? Quale garanzia abbiamo noi che domani la vita della nostra fabbrica non rimanga sospesa, non più come protesta contro un atto considerato offensivo alla intiera classe operaia, ma per dar modo di vincere una battaglia impegnata in guisa particolare dalla maestranza di un’industria con la quale noi non abbiamo alcun rapporto? Chi ci garantisce che non si ricorra allo sciopero generale per vincere tutte le battaglie che gli operai inizino a turno nelle varie industrie, opprimendoci ad uno ad uno colla loro solidarietà?

Contro i danni degli scioperi di solidarietà e contro i pericoli degli scioperi impulsivi ed irragionevoli in genere, uno solo è in sostanza il rimedio; e questo si deve cercare ricorrendo ai medesimi strumenti di cui gli operai si servono nella lotta contro gli imprenditori. Gli operai si stringono in leghe per vincere colla forza organizzata del numero gli imprenditori ed ottenere cresciuti salari e migliori condizioni di lavoro? Ebbene gli imprenditori si uniscano in leghe ed oppongano anch’essi alla forza coalizzata dei lavoratori, la forza dell’unione e della concordia nella difesa.

Adamo Smith, il quale, come forse tutti sanno, fu il padre della economia politica e scrisse un secolo ed un quarto fa, disse che gli imprenditori non hanno bisogno di coalizzarsi: essi sono per natura già uno solo contro molti operai divisi ed hanno quindi naturalmente il sopravvento. Se Adamo Smith risuscitasse e potesse contemplare lo spettacolo imponente delle leghe operaie, sia nella terra inglese natia, sia in tutti i paesi inciviliti, non ripeterebbe la sentenza ora citata. Ora gli operai formano una massa sola coalizzata; e gli imprenditori sono molti e disuniti. Come in tutte le battaglie, se il capitano della massa compatta è abile e sa accortamente manovrare tra le nemiche schiere disunite, la vittoria gli arride sicuramente.

Agli imprenditori dispersi un’unica via di salvezza rimane: unirsi e lottare concordi contro l’avversario. L’Inghilterra, che è il paese classico delle leghe operaie, è anche il paese classico delle leghe degli imprenditori. Uno degli ultimi rapporti del dipartimento del lavoro ne novera ben 659, sparse nelle diverse località del Regno unito ed unite in 25 società nazionali e 15 federazioni.

Le associazioni si propongono di esercitare una azione regolatrice nei rapporti tra gli imprenditori ed i loro operai, controllando il saggio dei salari e le altre condizioni del lavoro, sostenendo i soci nelle loro dispute cogli operai. Così l’Iron Trades Employers’ Association intende assicurare la cooperazione di tutti i soci nel resistere alle domande delle unioni degli operai riguardo alle ore di lavoro, il cottimo, le ore straordinarie; e la Liverpool Employers’ Labour Association di stabilire un ufficio per l’organizzazione e la registrazione della mano d’opera, e di assistere i soci ad intentare azioni giudiziarie contro i marinai ed i fochisti che manchino al contratto d’arrolamento.

Quando scoppia uno sciopero, il socio che n’è minacciato deve darne avviso al segretario, il quale convoca l’assemblea generale. Se lo sciopero è limitato ad un solo ramo d’industria, si radunano i soli imprenditori in quel ramo; se invece è generale, tutti debbono essere solidali e nessuno può venire a patti speciali cogli scioperanti. Quando sia necessario per vincere uno sciopero, l’associazione degli industriali può ordinare la chiusura di tutti gli stabilimenti; ma ordinariamente per dichiarare una serrata generale è necessaria l’approvazione dei due terzi o dei tre quarti dei soci. È sottoposto a multe quel socio il quale assume nel suo opificio operai che uno sciopero od una serrata nello stabilimento d’un altro socio abbia lasciato temporaneamente senza lavoro.

Questi gli scopi delle leghe padronali inglesi. Le quali del resto, necessità imponendolo, hanno già avuto il loro riscontro in Italia, dove nel novembre scorso la Lega fra gli industriali in pannilana ed affini condusse e vinse la campagna contro lo sciopero dei tessitori a Biella, e dove il 26 gennaio scorso a Novara si fondava una grande Associazione fra gli agricoltori del Novarese, del Vercellese e della Lomellina, nel cui statuto si leggono tre articoli, il terzo, il quarto ed il dodicesimo, i quali statuiscono che: ogni socio debba pagare un contributo fisso di centesimi 10 per ogni ettaro di terreno e l’associazione debba indennizzare del danno sofferto il proprietario quando i lavoratori ricusino di osservare il contratto da loro consentito od il giudicio arbitrale su di esso; e gli aderenti si debbano accordare per determinare le condizioni ed i corrispettivi del contratto di lavoro ed in tutto quanto valga ed occorra a difesa dei comuni interessi.

Unirsi per combattere concordi: questo il motto delle leghe di industriali all’estero ed in Italia. Noi non dobbiamo però credere che la costituzione delle leghe padronali valga solo a cambiare le contese tra capitale e lavoro da piccole e numerose in lotte poche di numero e gigantesche di dimensioni. Sarebbe un guadagno; perché le battaglie tra grandi eserciti sono sempre meno micidiali di una moltitudine di piccoli combattimenti tra deboli schiere, inferocite da odii personali. Come la esistenza di due grandi eserciti in due nazioni vicine, ed il terrore dei danni incalcolabili che deriverebbero da una lotta gigantesca, allontanano il pericolo della guerra ed inducono i popoli a trattative, ad accordi e ad arbitrati, così succede anche nelle guerre industriali. L’organizzazione perfetta degli eserciti scema i rischi di guerra. L’organizzazione perfetta delle leghe padronali e delle leghe operaie allontana il pericolo degli scioperi e dei conflitti violenti.

Gli operai meno facilmente proclamano uno sciopero sia generale sia speciale, perché sanno che avrebbero contro di sé la massa compatta degli imprenditori. La lega degli industriali non ribassa a cuor leggero i salari e non licenzia indebitamente operai, perché sa di trovare contro di sé schierata la massa compatta dei lavoratori.

I danni di un cozzo violento sarebbero incalcolabili da una parte e dall’altra; e nessuna osa ricorrervi, se non davvero come ad una ultima ratio. Non esistono più e non possono esistere scioperi impulsivi e vendette ingiustificate. I capi od i segretari delle leghe preferiscono venire a patti e discutere. Ai piccoli trionfi del pugilato individuale dei paesi poco progrediti individualmente si sostituiscono le accorte trattative fra diplomatici consapevoli della responsabilità che incombe a chi rappresenta milioni di lire di capitale e migliaia di lavoratori.

In Inghilterra tutte le leghe padronali, come del resto le leghe operaie, non sono fucine di scioperi o di serrate, ma garanzie di pace. L’azione pacifica si esplica nelle commissioni miste (joint boards), costituite da un numero eguale di rappresentanti delle associazioni d’industriali e di rappresentanti delle leghe operaie, per stabilire di comune accordo il saggio dei salari, le ore di lavoro, i regolamenti di fabbrica, ecc.; e per comporre le piccole liti. Negli statuti delle leghe è anzi per lo più prescritto che si debba promuovere la costituzione di uffici di conciliazione e d’arbitrato per prevenire e per comporre le contese tra operai e principali.

Identico scopo si propongono le leghe padronali italiane. Uno dei principali fautori dell’associazione novarese citata così scrive: «S’inganna chi s’adonta del sorgere di leghe e di federazioni operaie. Un uomo illuminato deve anzi compiacersene, perché la associazione non è soltanto elemento di forza e di ordine, ma è anche affidamento di giustizia sociale. Epperò gli agricoltori devono imitare l’esempio e l’opera dei contadini, associandosi fra loro per determinare d’accordo con le leghe di costoro, quali condizioni, per quali corrispettivi il contratto di lavoro debba farsi e per assicurarne l’osservanza».

Il bollettino del consorzio agrario bolognese, in un articolo propugnante la costituzione di leghe di proprietari, afferma: «A noi sembra che il problema sociale, che agita le nostre campagne, debba trovare la sua soluzione in un ubi consistat fra le leghe degli operai e le leghe dei proprietari».

Non solo nelle campagne, ma dappertutto gli imprenditori devono convincersi che l’unione è lo strumento migliore per lottare contro le leghe operaie. Ed è strumento tale che per natura sua conduce non alla guerra, ma alla pace.

1 marzo 1902

 

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La bellezza della lotta

Rileggendo gli scritti sui problemi del lavoro, che l’editore Piero Gobetti ha desiderato che io riesumassi dalle riviste e dai giornali su cui li ero andati pubblicando dal 1897 in qua, mi sono accorto che essi obbedivano ad alcune idee madri, alle quali, pur nel tanto scrivere per motivi occasionali e sotto l’impressione di circostanze variabili di giorno in giorno, mi avvedo, con un certo perdonabile compiacimento intimo, di essere rimasto fedele; lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica, per le provvidenze che vengono dal di fuori, per il benessere voluto procurare agli operai con leggi, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato, con la competenza, con la divisione del tanto a metà; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e, in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi. Il socialismo scientifico ed il collettivismo russo, in quanto schemi di organizzazione della società o tentativi di applicare praticamente quegli schemi, non mi interessano. Sono al disotto del niente. Invece il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del Biellese o del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere, fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia. Il collettivismo è un ideale buono per le maniche col lustrino e serve solo a far morire di fame e di noia la gente. Sono puri socialisti, del tipo noioso, coloro i quali vogliono far risolvere le questioni del lavoro da arbitri imparziali, incaricati di tenere equamente le bilance della giustizia, e vogliono far compilare le leggi del lavoro da consigli superiori, in cui, accanto ed al disopra alle due parti contendenti, i competenti, gli esperti, i dotti, i neutri insegnino ai contendenti le regole del perfetto galateo.

Oggi, gli ideali burocratici sono ridivenuti di moda. Sott’altro nome, l’aspirazione dei dirigenti le corporazioni fasciste di trovare un metodo, un principio, per far marciare d’accordo imprenditori ed operai, è ancora l’antico ideale collettivistico. La lotta combattuta per insegnare agli operai che l’internazionalismo leninista era una idea distruttiva e che la nazione era condizione di vita civile fu una cosa santa; ma il credere che si possa instaurare in terra l’idillio perfetto tra industriali ed operai, sotto la guida di qualche interprete autorizzato dell’interesse supremo nazionale, è una idea puramente burocratico-comunistica. Tanti sono socialisti senza saperlo; come tanti che si dissero socialisti o furono a capo di movimenti operai contro gli industriali erano invece di fatto puri liberali. Un industriale è liberale in quanto crede nel suo spirito di iniziativa e si associa con i suoi colleghi per trattare con gli operai o per comprare o vendere in comune; è puro socialista quando chiede allo stato dazi protettivi. L’operaio crede nella libertà ed è liberale quando si associa ai compagni per creare uno strumento comune di cooperazione o di difesa; è socialista quando invoca dallo stato un privilegio esclusivo a favore della propria organizzazione, o vuole che una legge o la sentenza del magistrato vieti ai crumiri di lavorare. Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi. I nomi non contano: l’ideale rimane quello che esso è intrinsecamente, qualunque sia la denominazione sua esteriore.

Oggi, il problema operaio in Italia ha cambiato nome: invece di federazioni o di camere del lavoro rosse o bianche o gialle, si parla di corporazioni fasciste. Quale è il contributo sostanziale che esse hanno recato al problema del lavoro? Parlo dei principi, non dei particolari. Non ha importanza il fatto che in parecchi casi le corporazioni si comportino nello stesso modo delle antagoniste rosse; che anch’esse usino talvolta violenze contro gli avversari o contro i crumiri o gli adepti di altre fedi; che esse pronuncino anatemi o boicottino altrui od ambiscano a monopoli. Queste possono essere accidentalità passeggere, non connaturate alla dottrina. Quale sia questa dottrina io tenterei di chiarire così:

«Il principio della lotta fra le due classi degli imprenditori e degli operai è nocivo alla produzione. Ognuno dei due combattenti immagina di poter raggiungere un massimo di vantaggio distruggendo ed espropriando l’avversario. L’imprenditore tenta di ridurre l’operaio al salario minimo; l’operaio vorrebbe annullare il reddito del capitale. In conseguenza della lotta e della sopraffazione dell’una parte sull’altra, sono alla lunga danneggiate ambedue ed è danneggiata sovratutto la nazione. Diminuisce la produzione ed impoverisce perciò la collettività; lo stato si indebolisce verso l’estero e si sgretola all’interno. La corporazione sorge per combattere questa politica suicida. Col suo medesimo nome essa afferma l’idea della costruzione, dell’ossequio al principio superiore della nazione, al quale gli egoismi particolari di classe debbono sacrificarsi. La corporazione non sacrifica l’operaio all’imprenditore; né l’imprenditore all’operaio; essa vuole riunire in una sintesi superiore le due rappresentanze finora ostili. Le corporazioni operaie e quelle padronali debbono rimanere distinte e indipendenti l’une dall’altre; ma, pur tutelando i propri interessi, ognuna di esse deve essere consapevole della necessità di non offendere l’industria, di non indebolire la nazione. Se le due corporazioni non sanno trovare la via dell’accordo fecondo, vi deve essere chi, nel momento critico, pronunci la parola risolutiva, dichiari la soluzione giusta alla quale tutti debbono inchinarsi. L’arbitro non deve avere la mentalità né dell’operaio né dell’imprenditore. Deve essere l’uomo che s’inspira alle necessità nazionali, che è educato nella dottrina del sacrificio del presente all’avvenire, che sa ricomporre in sintesi le vedute e gli interessi discordanti delle due parti unicamente intese al guadagno immediato».

La dottrina ora esposta è una nuova formulazione, con linguaggio mutato, di teorie le quali si sono di volta in volta sforzate di ritrovare l’unità perduta attraverso i conflitti fra uomini e classi. Le armonie economiche di Bastiat, la teoria dell’equilibrio economico, non sono forse anche tentativi di sintesi, sforzi per vedere il punto nel quale sul mercato, per un attimo, le forze si equilibrano e si raggiunge un risultato che può essere di massima felicitazione della collettività? Gli economisti come è loro costume, parlano di equilibrio, di prezzi, di mercato, di massima soddisfazione. I teorici delle corporazioni parlano di nazione e di soggezione delle classi alla volontà superiore che incarna l’interesse della nazione. Il linguaggio formale è diverso, il contenuto sostanziale è uguale.

Il problema non è di negare l’equilibrio fra le forze contrastanti; cosa che sarebbe assurda. È di trovare il metodo col quale quell’equilibrio possa essere raggiunto col minimo costo, colla minore superficie di attrito. Non è neppure necessario all’uopo scegliere l’una formula più che l’altra: purché l’equilibrio si raggiunga, possono riuscire utili le contrattazioni dirette, le leghe, le corporazioni, l’arbitrato, perfino il colpo di sterzo dell’uomo posto in situazione di autorità per togliere le parti dal punto morto in cui si erano cacciate. L’ideale della nazione o quello dell’interesse collettivo, l’aspirazione cooperativa o quella partecipazionistica sono tutte formule atte a condurre all’equilibrio. Ma tutte sono pure armi strumentali le quali sono vive e feconde soltanto quando siano adoperate in condizioni favorevoli. Quali siano queste condizioni non si può dire in modo tassativo. Ne enumero alcune tra le più caratteristiche.

È preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore. La soluzione imposta dal padrone, dal governo, dal giudice, dall’arbitro nominato d’autorità, può essere la ottima; ma è tenuta in sospetto, appunto perché viene da altri. L’uomo vuole sapere perché si decide e vuole avere la illusione di decidersi volontariamente. Bisogna lasciare rompersi un po’ le corna alla gente, perché questa si persuada che lì di contro c’è il muro e che è vano darvi di cozzo. Nella lotta e nella discussione si impara a misurare la forza dell’avversario, a conoscerne le ragioni, a penetrare nel funzionamento del congegno che fa vivere ambi i contendenti.

L’equilibrio stabile è più facilmente raggiunto dal tecnico che dal politico. Affidare cioè la risoluzione delle questioni del lavoro al ministro, al prefetto, al fiduciario fascista od al deputato conservatore illuminato, è indizio di scarsa educazione industriale. La soluzione, a cui il politico tende, è in funzione dell’equilibrio politico, non di quello economico. Entrano in gioco fattori di tranquillità esteriore, di accaparramento elettorale, di propiziazione di gruppi politici. Poiché l’equilibrio in funzione di fattori puramente economici sarebbe diverso, l’una o l’altra delle parti o tutt’e due cercano una compensazione alla perdita che debbono sopportare in favori economici ottenuti dal potere politico: all’equo trattamento corrisponde un aumento dei sussidi chilometrici, al controllo operaio sulle fabbriche tien dietro la tariffa doganale del luglio 1921, le piccole concessioni strappate da prefetti amanti del quieto vivere sono dolcificate dalle commende e dalle chincaglierie cavalleresche di cui, non si sa perché, gli industriali sono ghiottissimi. Non accade che l’offesa all’equilibrio economico duri. Qualcuno paga sempre il costo dell’offesa.

L’educazione dei tecnici capaci della soluzione dei problemi del lavoro si fa attraverso la lotta, tanto meglio quanto più questa è aperta e leale. Orator fit. Il buon arbitro non si fa sui libri, nei comizi elettorali, nella pratica prefettizia, non nei partiti, nei fasci, nei parlamenti. Solo l’operaio della miniera o della officina sente la vita del lavoro; solo l’industriale sente la gloria ed ha l’orgoglio della impresa. Troppi avvocati, troppi politicanti, troppi uomini abili, accomodanti, soluzionisti hanno rovinato il movimento operaio italiano. Ci sono stati troppo pochi uomini rudi, pronti a sbranarsi, ma pronti anche a sentire quel che in fondo al loro animo c’era di comune: l’amore al lavoro compiuto, l’orgoglio del capolavoro, il desiderio di metterlo al mondo perfetto. Solo discutendo faccia a faccia, queste due razze di uomini possono giungere a riconoscere le proprie sovranità rispettive: l’uno sulla direzione, sulla organizzazione e sulla invenzione della impresa, l’altro sulla propria forza di lavoro. La sovranità sui mattoni, sulle macchine, sulle merci non conta. È cosa morta, la quale vive soltanto perché l’organizzatore ed il lavoratore apprezzano e fanno valere quel che ognuno di essi apporta di proprio nell’opera comune. È bene che ognuno custodisca gelosamente l’esclusivo dominio sul proprio compito, che è, per l’imprenditore, di organizzare l’impresa e per l’operaio di prestare la propria opera manuale ed intellettuale. È bene che ognuno risenta vivamente l’ingerenza altrui nel proprio campo. Gli imprenditori sfiaccolati, che si rassegnano a lasciarsi controllare dai propri dipendenti, gli operai privi di orgoglio, i quali affidano la tutela del proprio lavoro a fiduciari non usciti dalle proprie file, sono mezzi uomini. Con questi omuncoli non si costruisce per l’avvenire. Si guadagnano forse denari, ma non si innalza l’edificio dell’industria, non si cresce valore alla personalità umana.

Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato ad ogni istante di non durare. Chi vorrà leggere le pagine di questo libro, vedrà quanto sia antica la mia repugnanza verso i monopoli industriali ed operai. Ad un certo momento, le leghe rosse, accortesi di essere diventate potenti in un mondo di vili borghesi, frammezzo a magistrati prontissimi a rendere servigi invece che a dare sentenze, vollero essere sole padrone del lavoro: negarono ai bianchi ed ai gialli il diritto di esistere, si arrogarono il diritto esclusivo di eleggere rappresentanti nel consiglio superiore del lavoro e si apprestarono a negare il diritto del parlamento a correggere le decisioni del consiglio del lavoro caduto in loro mani. Fu il segnale della loro rovina. Oggi le corporazioni fasciste paiono avviarsi a commettere il medesimo errore. Anch’esse negano il diritto all’esistenza dei rivali sconfitti e ad uno ad uno li espellono dalle cooperative, dalle camere del lavoro, dai consigli del lavoro, dal parlamento. Solitudinem faciunt et pacem appellant. Anche ora, e sovratutto ora, bisogna negare che l’equilibrio esista nel monopolio, nella soppressione di diritto o di fatto degli avversari. Ho descritto, nei primi saggi di questo volume, gli sforzi che nel 1897 e nel 1900 compievano alcuni gruppi di operai italiani. A tanta distanza di tempo, riandando coi ricordi a quegli anni giovanili, quando assistevo alle adunanze operaie sui terrazzi di via Milano in Genova, o discorrevo alla sera in umili osterie dei villaggi biellesi con operai tessitori, mi esalto e mi commuovo. Quelli furono gli anni eroici del movimento operaio italiano. Chi vide, raccapricciando, nel 1919 e nel 1920, le folle briache di saccheggio e di sangue per le vie delle grandi città italiane, non riconobbe i figli di quegli uomini, che dal 1890 al 1900 nascevano alla vita collettiva, comprendevano la propria dignità di uomini ed erano convinti di dover rendersi degni dell’alta meta umana a cui aspiravano. Lo spirito satanico della dominazione, inoculato da politicanti tratti dalla feccia borghese, li travolse e li trasse a rovina. Perché l’equilibrio duri, bisogna che esso sia continuamente in forse. Bisogna che nessuna forza legale intervenga a cristallizzare le forze, ad impedire alle forze nuove di farsi innanzi contro alle forze antiche, contro ai beati possidentes. Perché gli industriali rendano servigi effettivi alla collettività, fa d’uopo che lo stato non dia ad essi il privilegio di servire la collettività, non li tuteli con i dazi protettori contro la concorrenza straniera; non li costituisca in consorzi a cui la gente nuova non possa aspirare. Perché gli operai si innalzino moralmente e materialmente, importa che ad ogni istante gli organizzatori rossi possano sfidare i bianchi e questi i rossi ed i fascisti amendue e con essi i gialli e tutti siano sotto l’incubo del sorgere di altri miti organizzativi. È diventato di moda oggi irridere alla pretesa di suscitare la concorrenza nel mondo delle organizzazioni padronali ed operaie; e si addita l’esempio delle corporazioni fasciste, le quali, nimicissime del monopolio sinché questo era tenuto dai rossi, ora che ne hanno la forza, lo pretendono per sé. E si vuol dimostrare che ciò non è solo frutto di prepotenza politica, ma di esatto calcolo economico, poiché solo coll’unicità e col monopolio della organizzazione possono gli operai ottenere il massimo di guadagno. Su di che non occorre disputare; poiché di ciò non si tratta.

Instaurino pure, se ci riescono, operai ed imprenditori, il monopolio del lavoro e dell’impresa. Ciò che unicamente si nega è che lo stato sanzioni legalmente il monopolio medesimo, vietando ad altri di combatterlo e di distruggerlo, ove ad essi basti il coraggio. Il punto fermo è questo, non quello della convenienza del monopolio. Finché il monopolio, padronale od operaio, è libero, finché è lecito a chiunque di criticarlo e di tentare di abbatterlo, può esso recare qualche danno; ma è danno forse non rilevante e transitorio. La condizione necessaria di un equilibrio duraturo, vantaggioso per la collettività, vantaggioso non solo agli industriali ed agli operai organizzati, ma anche a quelli non organizzati, non solo a quelli viventi oggi, ma anche a quelli che vivranno in avvenire, non è l’esistenza effettiva della concorrenza. È la possibilità giuridica della concorrenza. Altro non si deve chiedere allo stato, se non che ponga per tutti le condizioni di farsi valere, che consenta a tutti la possibilità di negare il monopolio altrui. La possibilità giuridica della negazione dà forza al monopolio, se utile davvero al gruppo e forse alla collettività, poiché la sua persistenza, contro alla libertà di ognuno di combatterlo, è la sola dimostrazione persuasiva della sua ragione di vivere. Qual merito o qual virtù si può riconoscere invero a chi, per vivere, fa appello alla spada del braccio secolare?

In verità poi, le organizzazioni, quando non siano rese obbligatorie dallo stato, non conservano a lungo il monopolio. La storia dei consorzi industriali e delle leghe operaie è una storia caleidoscopica di ascese, di decadenze, di trasformazioni incessanti. Ad ogni momento debbono dimostrare di meritare l’appoggio dei loro associati. Ed è impossibile, non aiutando il braccio secolare, che questa dimostrazione sia data a lungo. Gli uomini sono troppo egoisti o cattivi o ignari perché, trovandosi a capo di una organizzazione potente, non soccombano alla tentazione di trarne profitto per sé, a danno dei propri rappresentati o non si addormentino nella conseguita vittoria o non tiranneggino i reietti dal gruppo dominante. A rendere di nuovo l’organizzazione viva, operante e vantaggiosa agli associati ed agli estranei, uopo è che essa sia di continuo assillata e premuta da rivali di fatto o dal timore del loro nascere. L’equilibrio, di cui parlano i libri di economia, la supremazia della nazione a cui si fa oggi appello non sono ideali immobili. Essi sono ideali appunto perché sono irraggiungibili; appunto perché l’uomo vive nello sforzo continuo di toccare una meta, la quale diventa, quando pare di averla raggiunta, più alta e più lontana. L’equilibrio consiste in una successione di continui mai interrotti perfezionamenti, attraverso ad oscillazioni, le quali attribuiscono la vittoria ora a questa, ora a quella delle forze contrastanti. La gioia del lavoro per l’operaio e della vittoria per l’imprenditore, sta anche nel pericolo di perdere le posizioni conquistate e nel piacere dello sforzo che si deve compiere per difenderle prima e per conquistare poi nuovo terreno. Tolgasi il pericolo, cessi il combattimento, e la gioia del vivere, del possedere, del lavorare diventa diversa da quella che è sembrata gioia vera agli uomini dalla rivoluzione francese in poi. Non che la “quiete” di chi non desidera nulla, fuorché godere quel che si possiede, non possa essere anche un ideale e che la sua attuazione non sia bella. Ho descritto in un capitolo di questo libro la vita felice del lazzarone napoletano nel meraviglioso secolo XVIII, che fu davvero l’età dell’oro della contentezza di vivere, del buon gusto, della tolleranza e dell’amabilità. Purtroppo la natura umana è cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita.

 

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Il diritto allo sciopero

L’art. 57 del progetto di costituzione presentato dalla commissione dei 75 alla costituente dice: «Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero». È questa una formulazione alquanto diversa di un principio che il secolo scorso, 1800 anni dopo Cristo, aveva riaffermato, abolendo dapprima la tratta degli schiavi e poi mettendo fine quasi contemporaneamente, tra il 1860 ed il 1870, alla servitù della gleba (l’uomo non può abbandonare la terra dove è nato) in Russia ed alla schiavitù dei negri (l’uomo non può abbandonare il padrone) negli Stati Uniti.

Risorgono talvolta forme particolari di schiavitù le quali legano l’operaio alla fabbrica destinata alla produzione bellica; ma sono norme di eccezione, rigidamente ristrette al tempo di guerra.

Il diritto allo sciopero è una applicazione del concetto, prevalso nelle società civili del secolo XIX, della abolizione della schiavitù e della instaurazione della libertà del lavoro. Che cosa infatti significherebbe la negazione del diritto di sciopero? Evidentemente l’obbligo del lavoratore di lavorare non quando a lui piace ed alle condizioni liberamente da lui discusse ed accettate, ma quando ad altri piace ed a condizioni diverse da quelle accettate da lui. Quell’obbligo ha un nome preciso e dicesi “schiavitù”. Non monta essere schiavi di un imprenditore privato o dello stato; ciò che all’uomo sovra ogni altra cosa importa essendo di non essere schiavo di nessuno.

Dovendo scegliere, è evidentemente preferibile essere schiavi (parola tecnica usata per indicare il fatto di non poter abbandonare il lavoro senza il consenso altrui) di un imprenditore privato che dell’imprenditore unico (stato). Infatti gli imprenditori privati sono molti e non è quindi assurdo fuggire, sia pure illegalmente, dall’uno all’altro ed essere ricevuti a braccia aperte da quest’altro imprenditore bisognoso di lavoratori. Inoltre, è più facile, e l’esperienza storica reca di ciò testimonianze innumeri, ai lavoratori concertarsi contro imprenditori privati e riuscire a violare la legge vincolatrice della libertà umana, di quanto non sia agevole concertarsi contro lo stato, che fa la legge a suo piacimento. Dove esiste la schiavitù esiste invero altresì una qualche maniera di governo tirannico; ed il tiranno può avere interesse ad ingraziarsi i lavoratori contro gli imprenditori privati, non mai contro se stesso.

In ogni caso gli uomini giustamente desiderano di non essere costretti a fare scelta fra due mali; ma vogliono la libertà. Epperciò il diritto di sciopero è sacrosanto. I codici civili dei paesi moderni avevano già concordemente formulato il principio del diritto allo sciopero affermando la nullità dei patti con i quali taluno si fosse obbligato a prestare senza limiti di tempo l’opera propria a favore altrui.

La abolizione della schiavitù od il suo sinonimo detto “diritto di sciopero” suppone tuttavia un dato clima economico. È un istituto che vive quando nella società agiscono determinate condizioni, tra le quali principalissima è quella ricordata sopra della libertà degli uomini di acquistare, a propria scelta, i beni ed i servizi da essi desiderati. Il lavoratore ha il sacrosanto diritto di abbandonare la fabbrica che non è in grado di pagargli il salario da lui giudicato bastevole a compensare le proprie fatiche ed a consentirgli quel tenore di vita al quale egli giudica di avere diritto. Ma il consumatore ha uguale ragione di non essere costretto da nessuno ad acquistare al prezzo di 20 mila lire un abito, solo perché i lavoratori chiedono – scioperano per ottenerlo – un salario siffatto che il produttore non può mettere sul mercato l’abito ad un prezzo inferiore a 20 mila lire. Al diritto di sciopero dei lavoratori, alla loro esigenza di non essere sottoposti a schiavitù corrisponde l’ugual diritto dei consumatori di non acquistare le merci prodotte dai lavoratori. Non sono due diritti diversi: bensì due faccie del medesimo diritto. Tra i due, i lavoratori ed i consumatori, vi è l’intermediario detto comunemente industriale, che gli economisti usano, dal 1738 in poi, chiamare “imprenditore” colui il quale, a suo rischio e vantaggio mette insieme i fattori produttivi – area, stabilimenti, macchine, scorte di materie prime e di semilavorati, dirigenti, impiegati, lavoratori -; ne paga il prezzo di mercato ed offre il prodotto finito al consumatore.

Se i due estremi, lavoratore e consumatore, fanno sciopero, i primi perché non ritengono di essere pagati abbastanza, gli altri perché ritengono il prezzo dei prodotti superiore al vantaggio che si ripromettono dal loro acquisto, l’imprenditore, il quale sta in mezzo dei due, non può rimanere fermo. Anch’egli, se non vuol perdere i suoi capitali – e la perdita dei capitali non giova a nessuno – deve potersi muovere. Il suo diritto a muoversi ha un nome abbreviato ed è diritto alla “serrata”. In sostanza, il diritto alla serrata degli imprenditori ha un contenuto semplice e necessario. Non si può immaginare che, là dove i lavoratori hanno il diritto – sacrosanto diritto, innato nell’uomo libero – di incrociare le braccia e di rifiutarsi a lavorare a condizioni da essi non accettate volontariamente, vi sia talun altro il quale sia costretto a tenere il proprio stabilimento aperto ed a pagare salari che egli giudica superiori al ricavo, dedotte le altre spese del prodotto da lui posto sul mercato. Se l’imprenditore potesse “costringere” i consumatori a pagare il prezzo di 20 mila lire per un abito, che gli è costato, fra salari, materie prime, ammortamenti, interessi sul capitale preso a prestito od ottenuto dai soci, ecc., altrettanta somma, l’imprenditore potrebbe fare a meno di “serrate”. Basterebbe aumentare i prezzi e qualunque salario sarebbe razionale. Fatta astrazione dal significato monetario della manovra, non vi sarebbe alcun limite all’aumento dei salari.

Ma così non è. I consumatori non hanno nessun obbligo di acquistare alcuna merce ad alcun prezzo prefissato. Anch’essi hanno diritto allo sciopero. Anch’essi hanno diritto a non diventare schiavi di chi vuol vendere una data merce ad un dato prezzo. Essi scioperano riducendo il consumo o rinunciando del tutto al consumo della merce rincarata.

Epperciò, l’imprenditore, posto fra l’incudine ed il martello, ha il diritto di serrata, ossia di riorganizzare la sua impresa, di mutare il genere della produzione, di ridurre o crescere il numero degli operai, di tentare nuovi mercati per adattarsi alle condizioni contemporaneamente poste dai lavoratori e dai consumatori, tra le quali egli deve pur trovare un mezzo di conciliazione. Diritto di sciopero e diritto di serrata sono due fattori o condizioni di un sistema economico improntato a libertà. Se togliamo l’un diritto aboliamo anche l’altro. Se l’imprenditore non può aprire, chiudere, allargare, restringere l’impresa; se il lavoratore non può abbandonare il lavoro, ciò significa che noi viviamo nel clima economico della schiavitù; in quel clima nel quale una autorità superiore, un tiranno dice al lavoratore: «tu lavorerai tante e tante ore al giorno, per tale e tale salario»; all’imprenditore: «tu comprerai la materia prima a tal prezzo, pagherai i lavoratori con tale salario e venderai i prodotti tuoi a tale prezzo»; ed al consumatore: «io ti distribuirò d’autorità i prodotti dell’industria in tale quantità e ad un prezzo tale che tutto ciò che è stato prodotto secondo il nuovo piano sia compensato interamente ed a tempo debito». Ma gli uomini non amano vivere in un siffatto clima, odiano la schiavitù e sono persuasi di aver diritto, nelle diverse loro manifestazioni di lavoratori, di imprenditori, di consumatori a scioperare contro chi pretende di farli vivere secondo le regole poste dai potenti della terra.

L’innalzamento del minimo a mezzo della estensione dei servizi pubblici gratuiti

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1975, § 124

Fatta la quale ipotesi, è chiarito il problema del limite da porsi alla trasmissione dei “grandi” patrimoni allo scopo di evitare le eccessive disuguaglianze nei punti di partenza tra i giovani giunti all’età produttiva.

L’innalzamento del minimo si opera con la graduale estensione del campo dei servizi pubblici gratuiti. L’ente pubblico dovrà, fra l’altro, gradualmente provvedere a fornire ai ragazzi istruzione elementare, refezione scolastica, vestiti e calzature convenienti, libri e quaderni ed ai giovani volenterosi, i quali diano prova di una bastevole attitudine allo studio, la possibilità di frequentare scuole medie ed università a loro scelta senza spesa o con quella sola spesa la quale possa essere sostenuta dal giovane disposto a lavorare senza nocumento degli studi; e le scuole dovranno essere varie ed adatte, per numero e per attrezzatura, alle occupazioni diverse manuali od intellettuali ai quali i giovani si sentiranno chiamati.

L’assicurazione per le pensioni di vecchiaia

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1975, § 40

Fondamento della pensione di vecchiaia è il vantaggio morale, dal quale deriva il vantaggio economico. Soltanto l’uomo fiducioso in se stesso e nel suo avvenire risparmia e si eleva. Colui il quale non è sicuro rispetto al futuro, colui il quale sa di dover chiedere ricovero all’ospizio o di dover vivere della carità dei figli o del prossimo, non tenta neppure di provvedere colle sole sue forze all’avvenire. Il compito gli appare troppo duro e la fatica eccessiva. Ove invece egli sappia che un minimo di vita gli è assicurato nella vecchiaia, non solo è spinto a lavorare con tranquillità durante gli anni migliori, ma è incoraggiato ad aggiungere qualcosa a quel che è già suo. È difficile cominciare a prepararsi col risparmio attuale la prima lira di pensione per quando si saranno compiuti i 65 anni; ma se le prime 100 lire (ante-1914) di pensione sono già assicurate, è assai più probabile si rifletta ai vantaggi che si potrebbero ottenere se, mercé uno sforzo attuale di rinuncia a beni presenti, ossia di risparmio, a quelle 100 lire certe si potessero aggiungere altre 10 o 20 o 50 o 100 lire supplementari. Non sempre il ragionamento: «è più facile partire da 100 che dallo zero» è vero; ché molti uomini hanno saputo prendere le mosse dal nulla; ma pare non infondata la tesi di coloro i quali affermano essere la volontà umana spesso debole e soggetta alle tentazioni immediate e pronta allo scoraggiamento dinnanzi alle difficoltà iniziali.

La pensione di vecchiaia è tuttavia un povero surrogato di quel più alto tipo di società nella quale essa è inutile perché il vecchio possiede nella casa propria, nel podere ereditato o costrutto a pezzo a pezzo, nel patrimonio formato col risparmio volontario, nell’affetto di una famiglia saldamente costituita il presidio sicuro contro l’impotenza della vecchiaia.

La pensione di vecchiaia è il frutto fatale – e qui si adopera l’aggettivo sia nel senso di inevitabilità storica come in quello di inferiorità morale – del tipo di società che a poco a poco si è venuto creando sotto i nostri occhi: di grandissime imprese dalle quali dipendono migliaia e decine di migliaia di impiegati e di operai, di città enormi, tentacolari, dove in caseggiati a molti piani si accumulano moltitudini di persone ignote le une alle altre, viventi di giorno in giorno col provento di salari, di lavoro, scissi dalla terra e dalla casa, senza altro appoggio nella vita fuor del libretto di risparmio, su cui sono scritte cifre, le quali non dicono nulla al cuore ed alla mente di chi pur ha rinunciato a consumare i beni rappresentati da quelle cifre. In questo tipo di società la pensione di vecchiaia è una sciagurata necessità, pallido surrogato di quel che in altri tipi di società sono il possesso della casa, dell’orto, del campo, la possibilità di vegliare, da vecchi, ai giochi dei figli dei propri figli ed ai lavori dei ragazzi, l’orgoglio di dare ancora una qualche opera ai lavori dell’orto e della casa, che non sia una prigione melanconica di due stanze in fondo ad un cortile nero ed oscuro, ma sia aperta al sole e si apra su un po’ di terra propria. Il tipo di vita imposto dalla grande città contemporanea è davvero fatale? Non è possibile la ricostruzione, nei modi imposti dalla grande industria, di tipi diversi di vita? Ardue domande, che qui basti aver posto, allo scopo di affermare che la pensione di vecchiaia è un surrogato di metodi moralmente più elevati immaginabili allo scopo di provvedere alla vecchiaia.

Il pregio suo specifico, che sopravviverebbe anche in un tipo superiore di convivenza umana, è un altro: quello di offrire anche al vecchio provvisto di mezzi propri e tanto più a colui che ne è sprovvisto, una ragione autonoma di vita, destinata a perir con lui e a non essere tramandata ai figli ed agli eredi. Può sembrare contraddittorio e paradossale, dopo quanto si è detto intorno alla eccellenza del presidio offerto al vecchio dalla casa, dall’orto, dal terreno od altro patrimonio tangibile e visibile, affermare che al vecchio giova anche il diritto ad una pensione vitalizia, destinata a morire con lui. Ma gli uomini sono quelli che l’eredità, i costumi, la religione, l’educazione, le leggi li hanno fatti; ed in essi vivono talvolta, non troppo di rado, purtroppo, i residui inconfessati e subconsci dei sentimenti che, millenni or sono ed ancor oggi in mezzo alle tribù selvagge, spingono i vecchi, divenuti impotenti alla battaglia ed alla caccia, a radunare essi stessi i figli, i discendenti ed i vicini ed a condurli nel luogo dove, per loro comando, è scavata la fossa, nella quale si adagiano per essere tolti di vita e coperti di terra.

La loro giornata è finita ed essi non sono più buoni a nulla. Meglio morire che essere di peso alla tribù che deve muoversi per sfuggire al nemico o combatterlo o andare alla cerca del nutrimento. Così è di tanti vecchi ancor oggi. Impotenti al lavoro essi si ritirano umiliati dinnanzi ai figli ed alle nuore che hanno preso il governo della casa e della terra.

Casa e terra appartengono tuttavia ad essi; ma a che vale se non sono capaci a coltivarla? Essi hanno il senso della propria inutilità e questo li uccide anzi tempo. Abbiano invece una pensione la quale duri per tutta la loro vita e non oltre ed essi non saranno più impotenti ed avviliti. Uomini tra uomini, sentiranno e con essi sentiranno figli e nuore e nipoti, di apportare qualcosa alla cosa comune; qualcosa che verrebbe meno se essi morissero. Epperciò essi vivono e sanno di poter vivere senza essere del tutto a carico di altri. Rispetto ed affetto ed affermazione della propria personalità sono il frutto della pensione di vecchiaia; sicché questa contribuisce a poco a poco ad attenuare il senso di dispregio in che i giovani tengono i vecchi, i quali li hanno preceduti ed oggi sono incapaci a seguitare la fatica, la quale ha consentito ai figli, ora dimentichi, di intraprenderla nella pienezza delle loro forze[1].

Nella società moderna la pensione di vecchiaia deve tener conto di una tendenza: quella dell’invecchiamento crescente della popolazione. Si legge nel rapporto Beveridge che nella Gran Bretagna i vecchi (di 56 anni compiuti se uomini e 60 se donne) erano il 6,2% della popolazione nel 1901; ma crebbero al 12% nel 1941 e si calcola saranno il 14,5% nel 1951 ed il 20,8% nel 1971. Tende cioè a crescere in modo preoccupante la quota della popolazione totale la quale non lavora più ed è a carico altrui ed a diminuire la quota di coloro i quali producono e contribuiscono. Quanto più la tendenza (dovuta alla diminuzione della natalità, al prolungamento della durata della vita umana e ad altre cause) si accentua, tanto più il problema finanziario dei beni e dei servigi, in cui si concreta la pensione, diventa difficile a risolvere. Né la soluzione può trovarsi in una dilazione generalizzata dai 65 e 60 ai 70 e 65 anni dell’inizio della pensione; ché questa sarebbe causa di disparità di trattamento tra coloro che a 65 anni sono davvero impotenti al lavoro e cadrebbero, nel tempo innanzi ai 70 anni, in miseria dolorosa e quelli che a 70 anni sono vigorosi e floridi. Il rimedio si trova nell’incoraggiare il prolungamento volontario dell’età nella quale si chiede la pensione; così come fa il Beveridge, il quale alla pensione di vecchiaia sostituisce la pensione di quiescenza; e questa si distingue dalla prima, perché il vecchio può se vuole e se ne è capace, continuare a lavorare anche dopo i 65 anni se uomo e 60 anni se donna ed in tal caso la pensione cresce di 2 scellini la settimana per ogni anno di ritardo per la coppia di marito e moglie e di 1 scellino per la pensione individuale. Il ritardo a 70 anni recherebbe la pensione da 40 a 50 scellini la settimana per la coppia e da 24 a 29 scellini per l’individuo. L’erario vede notevolmente diminuito, grazie al ritardo, l’onere da esso sopportato; la collettività si giova del prodotto del lavoro dei vecchi, che altrimenti deperirebbero in un ozio forzato; e la possibilità offerta ai vecchi di lavorare allontana effettivamente l’inizio della decadenza fisica e quindi della vera vecchiaia.

 

[1] Chi parla, ricorda sempre l’esempio di un vecchio, divenuto quasi immobile per gli acciacchi della vecchiaia, oggetto di compassione per gli altri e di avvilimento per se stesso. Ma il vecchio improvvisamente ricominciò a camminare e, nei giorni di festa, ripercorse la lunga strada che lo portava alla chiesa del villaggio ed ogni mese si recava all’ufficio postale. Era accaduto che la morte di uno dei figli nella grande guerra gli aveva fatto assegnare una modestissima pensione. Ma questa basta per farlo ridivenire un uomo; per essere onorato e curato dai parenti e dai vicini e per vivere ancora assai anni vegeto e non inutile a sé ed agli altri. Né l’esempio fu l’unico; ed a chi sappia guardare, si ripete particolarmente per le vecchie vedove, non più derelitte e spregiate dalle nuore. Leggasi, purtroppo in un numero del tempo dell’Italia occupata dal nemico («Corriere della sera», 22 aprile 1944), un articolo (La nuova padrona di Giovanni Comisso) sulla sorte riservata alle contadine divenute vedove.

Intorno al contenuto dei concetti di liberismo, comunismo, interventismo e simili

«Argomenti», I, 1941, n° 9, pp. 18-34

Forse è opportuno, piuttosto che insistere in una discussione resa ardua dalla diversità delle premesse dovute alla diversa preparazione intellettuale ed alle diverse tendenze sentimentali o politiche o sociali, chiarire talune di queste premesse; e sono ben lieto me ne offra occasione il suggestivo scritto che precede.

Che cosa si intende per ordinamento liberistico o comunistico o capitalistico, della cui conformità o compatibilità col concetto di libertà o con l’ideale liberale si discute? A seconda della definizione data e, più che della definizione, del contenuto concreto posto teoricamente o constatato storicamente per quegli ordinamenti, la discussione può recare a conclusioni se non diverse almeno intonate o motivate diversamente.

Il liberismo certo non è un’astrazione, bensì un ordinamento concreto. Quale è il suo contenuto? P. S. non aderisce alla opinione volgare, propria della gente innocente di qualsiasi peccato di cultura economica, secondo la quale il liberismo si identificherebbe con un ordinamento nel quale all’uomo fosse lecito di fare qualunque cosa, salvo, s’intende, ammazzare, rubare, ecc., lo stato rimanendo ridotto ai compiti elementari di soldato, magistrato, poliziotto, tutore dei cordoni sanitari contro la peste, il colera, la febbre gialla e simili. Egli intende il liberismo «nel senso dei moderni economisti, come intervento dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza». Benissimo detto. Qualche parola in più non sarà tuttavia male spesa a chiarire il concetto. Innanzitutto, bisogna insistere sul punto che la «libera concorrenza», alla quale in quella definizione si accenna, appartiene a tutt’altro ordine di concetti da quello di liberismo. Questo è un ordinamento concreto; quella è un’astrazione. La configurarono gli economisti puri o teorici per avere in mano uno schema dal quale partire per esporre le loro leggi, che sono leggi astratte, in tutto simili a quelle della geometria o della meccanica razionale, vere sub specie aeternitatis, finché non mutino le premesse. L’economista dice: «Supponiamo che … i produttori venditori della merce x siano molti, che ognuno di essi produca e venda solo una piccola quantità della detta merce, tale cioè che il produrla o non produrla, venderla o non venderla, non produca effetto sensibile sulla quantità totale recata sul mercato; supponiamo che anche i consumatori della merce x siano molti, che ognuno di essi intenda acquistare solo una piccola quantità di essa, supponiamo che… che… ecc. ecc. Avremo quella situazione che è definita di libera concorrenza; ed in questa situazione accade che il prezzo sia ecc. ecc.». Tutto ciò è pura astrazione, lecita lecitissima per costruire un corpo di leggi astratte, le quali avranno una parentela più o meno stretta con le leggi del prezzo delle merci quali si verificano sul mercato concreto, a seconda che le premesse del mercato concreto si avvicineranno più o meno alle leggi del mercato astratto, dello schema posto dall’economista come premessa del suo ragionamento.

C’è chi, a leggere tutti quei «supponiamo» si impazientisce. Quarantasette anni fa, il fondatore, che non sono io, della rivista La riforma sociale buon’anima, nel programma prendeva in giro per l’appunto le teorie che «si vogliono dare anche ora come assolute e imporre nella pratica della vita quotidiana» e sono esposte «in libri dove due terzi dei periodi cominciano con le parole: Let us suppose, If it be assumed, If we can imagine, Let us now introduce, Suppose an event to occur, But suppose a lot of persons, ecc.». In questo mezzo secolo gli economisti hanno continuato a foggiare premesse col «supponiamo»; anzi, per far arrabbiare i loro naturali nemici che sono i pratici, hanno finito per abolire le premesse in lingua volgare che qualcosa dicevano al lettore, contentandosi di abbreviature con lettere dell’alfabeto. Gli economisti hanno ragione nel seguire i comandamenti metodologici della scienza che è astratta; e soltanto il buon gusto e la sensibilità economica, che nessuno si può dare se non ce l’ha, possono ad essi consigliare i limiti dello schematizzare e dell’astrarre; ché, in fin dei conti, la scienza economica dovrebbe preoccuparsi – e tutti i grandi economisti se ne sono preoccupati – di fornire schemi astratti i quali giovino alla interpretazione della realtà concreta.

Di fronte allo schema astratto della libera concorrenza, i pratici ed i politici si sono trovati d’accordo su un punto: che lo schema della concorrenza piena, con i suoi molti venditori e produttori, col mercato aperto a tutti nell’entrata e nell’uscita, col prezzo il quale in ogni momento è uguale al costo di produzione di quel produttore, la cui offerta è necessaria a rendere la quantità offerta uguale a quella domandata e tende verso il costo del produttore a costo minimo, è un bellissimo schema, ma lontanissimo o lontano o ad ogni modo diverso dalla realtà concreta. In questo basso mondo imperano monopoli, consorzi, leghe, privilegi, brevetti, limitazioni fisiche o giuridiche, ignoranze, ecc. ecc., sicché tra lo schema astratto e la realtà concreta non c’è alcuna rassomiglianza.

A questo punto l’unanimità si guasta ed i politici si partono in due schiere che per brevità dirò degli interventisti e dei liberisti. I primi sono assai variopinti e vanno dai comunisti puri ai semplici programmisti, con programmi più o meno estesi. Essi sono accomunati dall’idea che direi della strada breve. Poiché in concreto la libera concorrenza non esiste, fa d’uopo che qualcuno regoli e disciplini il meccanismo economico. Poiché l’automatismo conduce – si afferma o si osserva o si pretende di osservare – al monopolio dei più forti, occorre che qualcuno, ossia lo stato, guidi gli uomini nella loro condotta economica e li costringa a operare nel senso del vantaggio collettivo. Talvolta si afferma di volere lasciare ai singoli libertà di iniziativa, limitando l’azione dello stato a qualche campo considerato più importante dal punto di vista collettivo, od alla fissazione delle condizioni di vendita (massimi di prezzi, calmieri) o di produzione (graduatorie nella fornitura delle materie prime, licenze di apertura di nuove fabbriche o di ampliamento delle antiche). All’ala estrema dei programmisti, si trovano i comunisti, i quali tacciano i colleghi più tiepidi di inconseguenza; osservando che non è possibile regolare solo alcuni rami o punti del meccanismo economico e sociale; ché, fissato un prezzo, tutti gli altri mutano e reagiscono. Non si può fissare il prezzo del pane, senza fissare quello della farina e della legna per accendere il forno e dell’uso del capitale forno e della mano d’opera e poi, via via, dei servizi dei mugnai e dei trasporti per ferrovia e per mare e del grano all’origine, e del lavoro dei contadini e dei prezzi delle terre; e poiché fissar tutto in concreto è pressoché impossibile, la sola soluzione logica, secondo i comunisti, è la assunzione generale della produzione e della distribuzione dei beni della terra da parte della collettività intera, ossia dello stato.

I liberisti sono gente che l’esperienza ha fatto profondamente scettica intorno alla attualità concreta dei “programmi” e nemica acerrima della assunzione compiuta di tutto il meccanismo economico da parte del leviatano statale. Essa non crede del resto che il mondo concreto sia davvero lontanissimo, oggi ed in molte epoche storiche passate, dallo schema astratto della piena concorrenza. Diverso sì e un po’ più complicato di quanto lo schema supporrebbe. Ma non lontanissimo né opposto. Là dove il mondo concreto sembra più lontano dallo schema astratto della piena concorrenza, fa d’uopo, se si vuole argomentare logicamente, chiedersi: Perché è lontano? Alla domanda gli economisti à la page coloro i quali hanno una paura verde di apparire “superati”, e che perciò tentano ad ogni quarto d’ora di superare se stessi, rispondono con un gran rimbombo di parole, tra le quali emergono: fatale andare del capitalismo, alto capitalismo, la concorrenza che sbocca nel monopolio, i grossi che schiacciano i piccoli, la legge dei costi decrescenti, il grande macchinario, la tecnica o tecnocrazia. Tutte chiacchiere prive di senso, se non siano analizzate. Chi ha fatto l’analisi? Chi ha distinto caso per caso per ogni consorzio o trust o cartello o monopolio, le ragioni del suo fiorire, se fiorì, o del suo decadere, quando decadde? Quale è la proporzione rispettiva dei monopoli o monopoloidi o consorzi intesi ad imporre prezzi superiori a quelli che sarebbero di concorrenza, i quali debbono la loro esistenza a positivi atti del legislatore e di quelli che sono dovuti a cause “tecniche”, intendendo per tali quelle cause che possono essere spiegate col tipo dell’industria esercitata, colle sue dimensioni, colle caratteristiche della merce prodotta e del mercato? Sinché questa indagine non sia stata fatta con serietà, tutte quelle parole intorno alla concorrenza morta e seppellita ed al trionfo fatale dei monopolisti – che spesso sono, nel linguaggio volgare ed in quello degli economisti ansiosi di non apparire superati, spesso confusi con gli imprenditori semplicemente “grossi” – rimangono parole, che il vento disperde.

Non ho la certezza, ma qualcosa di più del sospetto, che la proporzione maggiore dei più pericolosi consorzi di produttori, di quelli i quali veramente riescono ad estorcere prezzi arieggianti al monopolio, debbano la loro vita ad atti positivi del legislatore: dazi doganali, contingentamenti, inibizione di concorrenza da parte di nuovi venuti, brevetti e privative di ogni genere, favori negli appalti, imposte di fabbricazione, enti semi pubblici forzosi ecc. ecc. È assai dubbio se l’opera dei rimanenti monopoli o sindacati o consorzi si allontani veramente in modo apprezzabile dallo schema della concorrenza o non ne sia invece, in mutate circostanze, una nuova maniera di attuazione.

Quante strida si levarono nel secolo scorso, fra il 1820 ed il 1880, contro le leghe operaie, qualificate come tentativi di estorcere salari e condizioni di lavoro superiori a quelli naturalmente determinati dal libero gioco del mercato! E poi si vide che quelle strida erano per lo più a vuoto; ché il mercato libero suppone contraenti conoscitori delle quantità domandate ed offerte, capaci di entrare e di uscire, ossia di offrire o ritirare l’offerta della propria mano d’opera, ed invece l’operaio od anche l’industriale singolo spesso non conosce il mercato, e per lo più è costretto ad offrirsi e quindi ad accettare salari o prezzi inferiori al normale. Le leghe operaie non contraddicono dunque allo schema della concorrenza; ma sono uno strumento perfezionato della piena più perfetta attuazione di quello schema. S’intende entro certi limiti; dei quali uno è libertà dell’operaio e dell’industriale di entrare o non entrare nella lega, di contrattare per mezzo o all’infuori di essa. Anche qui il vero pericolo monopolistico nasce dal privilegio legale concesso dal legislatore a certe leghe a danno o ad esclusione di certe altre, o addirittura dall’esclusiva attribuita ad una di esse.

L’intervento «dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza» non è perciò tanto “limitato” come pare. Esso si distingue in due grandi specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato medesimo e l’altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l’operare pieno della libera concorrenza. La prima specie di intervento appare a primo tratto piana, poiché si tratta solo di abrogare leggi e norme vincolatrici, le quali creano il deprecato malanno. Il dazio protettore, il contingentamento, il divieto di iniziare, senza licenza, nuove intraprese creano il monopolio? Si aboliscano dazi contingentamenti e divieti! In un batter d’occhio lo scopo è conseguito. Si dimentica che quei dazi contingentamenti e divieti debbono la loro origine a forze economiche e politiche, le quali se sono state tanto potenti da ottenere la promulgazione di quelle leggi, saranno abbastanza forti da impedirne la abrogazione. Sicché in sostanza, quella che i cosidetti liberisti invocano non è affatto una mera mutazione nella legislazione, ma una lunga faticosa difficile contrastata opera di educazione economica sociale e politica, rivolta a persuadere il cittadino, ossia i ceti, i gruppi sociali e politici i quali agiscono sul legislatore, che una certa politica è quella più confacente all’interesse dei più dei viventi e delle generazioni venture. Altro che “fato” generatore di monopoli e distruttore della concorrenza! Quel fato si chiama Tizio e Caio, gruppo tale o tal altro, il quale direttamente dispone del legislatore o indirettamente, attraverso giornali, riviste, economisti ansiosi di non apparire superati, avvocati, maneggioni influisce sulla opinione pubblica e crea l’ambiente favorevole alla desiderata legislazione favoreggiatrice. Contro questo fato, che è poi volontà di mal fare, non c’è nessun rimedio fatato e semplice. La via diritta non serve. Bisogna rassegnarsi ai viottoli scoscesi ed agli andirivieni della educazione economica e morale. Sovratutto morale: ricordati di non rubare.

L’altra specie di intervento intesa a porre limiti alle forze naturali, proprie “eventualmente” del tipo dell’industria o del mercato o del prodotto o del momento tecnico, le quali ostacolino l’azione della libera concorrenza, non è di ardua persuasione, ma è tanto più delicata nell’attuazione. Gli uomini sono presti a persuadersi, quando c’è qualcosa che va male, ad invocare il braccio forte dello stato. Qui è la gran forza degli interventisti di tutte le razze, dai semplici ingenui programmisti ai comunisti puri. Perché lo stato, perché il governo non ci pensa? È la soluzione dei deboli, i quali, incapaci o indolenti nel fare il bene, si affidano a qualcuno che pensi e provveda per conto loro. I liberisti – seguito a chiamarli così per ossequio all’abitudine, ma bisogna davvero inventare un altro nome, tanto il loro atteggiamento mentale è lontano dal laissez faire, laissez passer – sanno che coll’incapacità e coll’indolenza non si ottiene niente; che i governi sono quelli che i popoli fanno e meritano e che è vano tentare di cavar da popoli incapaci e indolenti governi capaci di far bene, se prima il politico di genio non abbia provveduto a mutare i poltroni in gente alacre e gli incapaci in avidi di apprendere. Epperciò i liberisti non si propongono di “fare” il bene; ma solo di mettere gli uomini nella condizione di potere procurarselo da sé, quando vogliano o sappiano usare i mezzi all’uopo opportuni.

Si potrebbe citare assai esempi di siffatti tipi di intervento liberistico. Ne ricorderò due soli. Primo: il regime ereditario. Lo ricordo, perché lo vedo fatto argomento di esempio anche dallo scrittore della nota, alla quale sto appendendo queste mie considerazioni metodologiche. Senza dubbio il figlio del ricco è, sul mercato dove si incontrano produttori e consumatori di beni e di servigi, favorito in confronto del figlio del povero. Non c’è uguaglianza nei punti di partenza. Il comunista risolve alla spiccia il problema, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, ossia, praticamente, di tutto, salvo i mobili che possono stare nel numero di camere (metri quadrati) che il legislatore fisserà. Costui, in quanto sia un credente nel suo verbo, è un buon uomo, il quale immagina che di ostacoli al mondo esista solo quello della ricchezza e ignora che l’esistenza di un certo numero e di una certa dose di essi può essere necessaria per neutralizzare altri e ben più formidabili ostacoli che operano a danno dei buoni, degli operosi, degli intraprendenti, degli studiosi, dei valori seri e fecondi. In una società dove tutto è dello stato, dove non esiste proprietà privata salvo quella della roba di casa, che sta nella casa tipica assegnabile a tutti – suppongasi dieci metri quadrati in media a testa, ma non credo si giunga a tanto nell’Europa contemporanea -, dove la produzione è organizzata collettivamente, per mezzo di piani i quali debbono essere elaborati al centro, qual è l’ostacolo, veramente formidabile che gli uomini di ingegno, intraprendenti, onesti, volonterosi, ecc. ecc., fatalmente incontrano sulla loro via? Quello dell’intrigo. Mirabeau padre l’aveva già osservato nel 1760 in un brano da me altra volta ricordato (ed ora in Saggi sul risparmio e l’imposta, p. 352): on ne seroit occupé qu’à obtenir des places et des pensions, qu’à participer aux libéralités du Prince, qu’à éviter le travail, qu’à parvenir à la fortune par toutes les voyes de collusion que la cupidité peut suggerer, qu’à multiplier les abus dans l’ordre de la distribution e des dépenses.

Quando tutti dipendono da tutti, quale è lo strumento di ascesa? Cattivarsi il favore di chi sta un gradino più in su e così via via fino al grado supremo. Non è la capacità di intrigo, di piaggeria, di connivenza un formidabile ostacolo contro gli onesti, gli intraprendenti, i lavoratori, gli studiosi seri, i valori veri, i quali nulla odiano più che la necessità di procacciarsi il favore altrui? Epperciò il liberista esiterà assai dinnanzi all’abolizione della eredità come mezzo per abolire uno dei tanti ostacoli che esistono a questo mondo contro la uguaglianza nei punti di partenza. Egli cercherà invece nella esperienza del passato quali siano i temperamenti, le vie di mezzo da adottare (imposte ereditarie, quote legittime, facoltà di testare, ecc. ecc.), allo scopo di eliminare i casi nei quali massimo è il danno del favore ereditario concesso ai fortunati, senza abolire i vantaggi di creazione di un ceto sociale indipendente dal principe, sicuro contro le sopraffazioni dei potenti – la mia casa è il mio castello -, di promuovimento dei vincoli familiari, di stimolo al risparmio che l’istituto della eredità può produrre. Si intende che il liberista non pensa che i vantaggi si possano ottenere, che l’ostacolo ereditario possa essere conservato senza un’opera continua di illuminazione, la quale ad ogni generazione dimostri col ricordo di esperienze passate, col confronto con altri tipi di organizzazione sociale quali sono le ragioni le quali consigliano la conservazione dell’istituto.

Secondo esempio: le privative industriali. Queste oggi, attraverso un secolo di legislazione favorevole all’istituto della privativa dell’inventore sulla sua invenzione, sono divenute un vero scandalo. La privativa è oggi una beffa per l’inventore povero e d’ingegno, al quale soltanto il legislatore in origine aveva pensato. A costui il diritto di privativa praticamente non giova; che la quasi totalità delle invenzioni è opera collettiva, di sperimentatori calcolatori tecnici i quali lavorano in laboratori o gabinetti installati da grandi ditte industriali. Il brevetto oggi è divenuto uno strumento di dominio e di monopolio delle grandi intraprese, le quali possono permettersi il lusso di stipendiare fisici chimici matematici avvocati, intentar liti al povero inventore isolato il quale si illude di aver scoperto qualcosa, impedirgli di far uso della propria invenzione, costringerlo a cederla al grosso già avviato, il quale con mille raggiri cercherà di perpetuare la validità del proprio brevetto bene al di là dei 15 o 25 anni di legge[1]. Di fronte a siffatta miseranda fine delle privative industriali, il liberista quale via sceglierà? L’abolizione pura e semplice del diritto di privativa industriale? Sì, se si potesse essere sicuri, ed invece è solo probabile, che il segreto di fatto è arma migliore della privativa legale per dare all’inventore, isolato o collettivo, un compenso adeguato. In ogni caso, contrariamente all’andazzo odierno, se la privativa dovesse essere conservata, la legislazione relativa dovrebbe informarsi a due criteri: riduzione della durata al minimo, inferiore notevolmente a quello attuale, necessario per consentire all’inventore la possibilità una iniziale applicazione; e diritto per tutti di usare, senza il consenso dell’inventore, privative e relativi perfezionamenti col pagamento di un canone temporaneo stabilito per legge o dal magistrato in misura atta a non consentire prezzi di monopolio all’inventore.

Fuor di esempi, il liberista non è colui il quale vuole un intervento “limitato” nelle faccende economiche. Il criterio di distinzione fra l’interventista ed il liberista non sta nella “quantità” dell’intervento, bensì nel “tipo” di esso. Astraendo dall’interventista comunista il quale risolve il problema abolendo l’intervento medesimo – che cosa è invero quello comunista se non uno stato il quale non “interviene” più, perché ha avocato a sé tutta la gestione economica? – il criterio del distinguere sarebbe il seguente: il legislatore interventista dice all’uomo: tu farai questo o quello; lavorerai od opererai così e così; questo è l’industria o il commercio o la piantagione agricola che nell’interesse collettivo devi esercitare e nella misura e secondo un programma che io ti indicherò. Ecco il piano siderurgico, tessile, cerealicolo che tu devi attuare. Poiché siete in parecchi, ecco la proporzione che avrai a te assegnata. Lo stato, nel sistema interventistico e programmistico, insegna agli uomini, industriali agricoltori commercianti artigiani professionisti intellettuali, ciò che essi debbono fare e come lo debbono fare; fissa o disciplina o regola i prezzi e quindi i costi ed i guadagni; li varia a seconda di quelle che egli crede esigenze collettive. Il metodo interventistico è preferito dagli uomini, la grandissima maggioranza dei quali aborre dalle iniziative, dalle responsabilità e dai rischi. Su questa via regia, diritta, breve gli uomini immaginano di giungere alla felicità, al benessere, al bene. Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio liberamente muoverti. Se sei industriale, potrai liberamente scegliere i tuoi operai; ma non li potrai occupare più di tante e tante ore di giorno notte, variamente se adolescenti, donne o uomini; li dovrai assicurare contro gli infortuni del lavoro, la invalidità, la vecchiaia, le malattie. Dovrai apprestare stanze di ristoro per le donne lattanti, e locali provvisti di docce e di acqua per la pulizia degli operai; osservare nei locali di lavoro prescrizioni igieniche e di tutela dell’integrità degli operai. Potrai contrattare liberamente i salari con i tuoi operai; ma se costoro intendono contrattare per mezzo di loro associazioni o leghe, tu non potrai rifiutarti e dovrai osservare i patti con esse stipulati. Tu, nel vendere merci, non potrai chiedere allo stato alcun privilegio il quale ti consenta di vendere la tua merce a prezzo più alto di un qualunque tuo concorrente, nazionale o forestiero; e se, dopo accurate indagini, un tribunale indipendente accerterà che tu godi di qualche privilegio che non sia la tua intelligenza o intraprendenza o inventività, il quale ti consentirebbe di vendere la tua merce a prezzo superiore a quello che sarebbe il prezzo normale di concorrenza, il tribunale medesimo potrà fissare un massimo, da variarsi di tempo in tempo, per i tuoi prezzi.

E così di seguito: nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica. La legge, ossia non il governo o potere amministrativo, bensì la norma discussa apertamente, largamente, in seguito a pubbliche inchieste, con interrogatori pubblici di tutti gli interessati e di tutti coloro i quali reputino di avere qualcosa da dire in argomento; la legge fatta osservare da magistrati ordinari, indipendenti dal governo e posti al di fuori e al disopra dei favori del governo. E questa non è, evidentemente, una via regia o diritta o rapida o sicura verso il benessere, verso la felicità, verso il bene. Anzi tutto il contrario. È via lunga, ad andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa ed incerta. Tale perché non può essere diversa; perché gli uomini debbono fare sperimenti a loro rischio, debbono peccare e far penitenza per rendersi degni del paradiso; perché essi non si educano quando qualcuno si incarica di decidere per loro conto ed a loro nome quel che debbono fare e non fare, ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità.

Dopo essermi tanto indugiato su quel che è il contenuto di un ordinamento liberistico, posso essere più breve intorno all’ordinamento comunistico. Nella discussione sui rapporti fra libertà e liberismo, fra ideale liberale e comunismo, in coloro i quali sostengono la tesi che l’uomo politico liberale possa servirsi dello strumento comunistico per ottenere l’elevamento degli uomini, mi è parso di intravvedere una certa impazienza verso coloro i quali sostengono che la libertà è incompatibile coll’ordinamento comunistico. O che forse c’è una sola definizione del comunismo? O che questo si identifica colla Russia di Lenin e di Stalin? Quale incompatibilità c’è fra libertà ed una maggiore giustizia sociale, fra libertà e legislazione sociale, fra libertà ed assunzione di certe industrie da parte dello stato, fra libertà e un compiuto ordinamento comunistico nel quale sia conservata agli uomini la piena libertà di scelta delle occupazioni e dei costumi preferiti; fra libertà e ordinamento comunistico, nel quale sia negata ai consociati ogni libertà di scelta delle occupazioni e dei consumi, ma la rinuncia sia, come accadeva nei monasteri benedettini o francescani, liberamente voluta ed anzi accettata da tutti i componenti la collettività? La più parte delle dispute ha luogo perché i contendenti non si intendono sul significato delle parole da essi usate; ed è perciò che volentieri, se fosse possibile ma non è per la necessità di usare parole corte per esprimere concetti lunghi, abolirei l’uso delle parole liberismo e comunismo (o socialismo) perché equivoche. Ho già detto sopra come un ordinamento detto liberistico sia vincolante forse più, sebbene in senso diverso, dell’ordinamento interventistico. Così è equivoca del pari la parola comunismo e socialismo. Che sugo c’è a classificare sotto la voce “ordinamento comunistico o socialistico” – la differenza tra le due parole è impalpabile e indefinibile, e perciò, le uso promiscuamente – una semplice aspirazione ad una più o meno ampia giustizia sociale o ad una statizzazione (o municipalizzazione o pubblicizzazione e mi si perdoni la parola ostrogota usata per indicare la attribuzione ad un ente pubblico, che sono maniere solo tecnicamente diverse di attuare il medesimo concetto) di qualche industria da parte dello stato? Davvero nessuno, postoché liberisti e interventisti fanno amendue propri questi ed altri consimili strumenti che essi possono reputare atti al maggiore elevamento degli uomini e solo si disputa in quali casi e con quali modalità essi siano atti a raggiungere quello scopo di elevamento; e la disputa ha importanza esclusivamente in ragione dei casi e delle modalità di applicazione e non ne ha nessuna quanto al principio, che tutti sono disposti ad accettare in generale.

A me sembra che parecchi tra i contendenti siano nel discutere troppo indulgenti verso il “generico”. Parlare “in generico” equivale a non dir nulla od almeno ad esporre banalità; ed è una banalità ammettere prima che in qualche parte del mondo o in qualche epoca storica, passata presente o futura, un dato provvedimento può essere od essere stato o tornerà ad essere giovevole all’elevamento umano, e concludere che quindi il politico liberale lo avrebbe dovuto fare o farà bene a farlo suo. L’interesse non sta in ciò; ma nel vedere perché in quella parte del mondo od in quella epoca storica quel provvedimento, il quale poteva essere e fu altrove ed in altra epoca cagione di male, fu causa, invece, di bene. Finché si tratta di provvedimenti od ordinamenti parziali o singoli, forse è facile cadere d’accordo. Diremo nocivo ed illiberale quel provvedimento di maggior giustizia sociale, in virtù del quale, essendosi il principe di una società complicata e numerosa di milioni di persone persuaso essere ingiusto che Tizio possegga 100 e Caio soltanto 50, egli ordina a Tizio di dare a Caio 15, cosicché l’uno scemi ad 85 e l’altro cresca a 65, con minore disparità fra i due. Nocivo ed illiberale perché arbitrario, dipendente dal beneplacito o dal capriccio del principe, con offesa al senso di sicurezza dei cittadini e quindi con nocumento alla spinta a produrre ed a consumare.

Si potrà discutere invece sulla misura; ma non sarà detta né nociva né illiberale e molti affermeranno essere invece liberale quella norma di legge generale, annunciata prima e duratura e prevista, in virtù della quale ad ognuno che abbia 100 venga imposto un tributo di 15 destinato a promuovere opere di bene o contributi assicurativi vari a favore di tutti coloro i quali, appartenendo alla medesima società numerosa e complicata, abbiano meno di 50, progressivamente in ragione del loro aver meno. Un provvedimento cosiffatto non è arbitrario anzi è universale; non è incerto ma è preannunciato; non turba la sicurezza degli averi, anzi la garantisce per la solidarietà che crea nei consociati. Si può e si deve discutere intorno alla misura del contributo ed alla specie delle opere di bene e dei tipi di assicurazione; che vi sono misure tollerabili ed altre eccessive; e vi sono tipi altamente educativi (pensioni di vecchiaia) ed altri (indennità di disoccupazione) i quali, oltre un certo punto, che l’amico Emanuele Sella chiamerebbe critico, dal produrre effetti morali ed educativi trascorrono a produrne altri immoralissimi e corruttori. Anzi il punto critico vi è sempre; ché persino le pensioni di vecchiaia, lodevoli sovra ogni altra assicurazione sociale a cagione del rispetto verso i vecchi che esse inducono e diffondono tra le popolazioni rustiche, spesso crudelissime verso i vecchi impotenti al lavoro, possono divenire corruttrici quando per il loro eccesso distolgano dal risparmio uomini nell’età giovane e matura, e dal lavoro vecchi attissimi al lavoro, ottimi lavoratori sino a quel momento, divenuti oziosi e viziosi quando ad essi paia di poter vivere senza far nulla, malo esempio a sé ed agli altri. Dovendo definire, direi comunistico quel qualunque provvedimento di maggior giustizia sociale o di statizzazione il quale vada oltre il punto critico, e liberale quello il quale sapientemente riesca a stare alquanto al di qua di esso. Dal che è manifesto che tutto l’interesse della disputa non sta nel provvedimento, ma nelle modalità le quali lo rattengono entro i limiti del punto critico o glieli fanno oltrepassare. In verità, però, quando si parla di incompatibilità fra ideale liberale e comunismo non si pensa dai più a codesti parziali provvedimenti sociali. Si pensa a qualcosa di compiuto, ad un tipo finito di ordinamento economico; e questo ordinamento lo si identifica, abbastanza ragionevolmente mi pare, poiché disputando conviene avere almeno una idea approssimativa di quel di cui si discorre, con un ordinamento nel quale agli uomini sia inibito di avere la proprietà privata di qualunque cosa non cada entro la categoria dei beni “diretti”, ossia destinati al consumo od uso personale o della famiglia, con la restrizione ulteriore che non si possa possedere oltre una certa quantità fisica di codesti beni diretti – ad esempio, una vettura automobile e non due, una casa di x camere od y metri quadrati per ogni membro della famiglia e non un castello, un giardino e non un parco e simili – e che i beni diretti posseduti non possano essere locati in affitto a terzi contro compenso di un canone. Tutto il resto, tutti cioè i beni che gli economisti chiamano “strumentali” sono nell’ordinamento comunistico proprietà dello stato, od in parte dello stato e in parte dei comuni o di altri enti pubblici specificati per luoghi o per industrie o per fini. Le modalità possono essere infinite; il carattere distintivo stando in quel “tutti”; che, se invece di tutti i beni strumentali siano accomunati solo alcuni di essi, la disputa tornerà ad essere quella del punto critico, restando al di qua del quale rimaniamo nel mondo liberale ed oltrepassandolo cadiamo nel comunismo.

Anche se sia osservata la regola del “tutti”, non è del resto necessariamente offeso l’ideale liberale. Se la società comunistica è composta di monaci, i quali “volontariamente” sacrificano ogni loro avere a pro della cosa comune e si riducono a lavorare ed a pregare agli ordini del padre guardiano ed a ricevere quei soli cibi e vestiti e giacigli che al padre guardiano piaccia di assegnare ad ognuno di essi, quella è una società che intende ad elevare se stessa; ed in certe epoche storiche diede opera ad elevare anche la società intera che viveva attorno ad essa. Non vi è alcuna offesa, anzi esaltazione della libertà umana, se certi gruppi di uomini rinunciano e si sacrificano e dissodano foreste e redimono paludi a maggior gloria di Dio. S. Benedetto e S. Francesco promossero l’elevazione degli uomini ad essi contemporanei ed esaltarono l’aspirazione degli uomini verso la libertà.

Del pari non vi è nulla di contrario alla libertà nelle generose aspirazioni e nei tenaci ripetuti tentativi degli Owen, dei Cabet, dei Fourier e degli altri utopisti di fondare in Europa e in America società comunistiche. La imperfetta riuscita dei tentativi dimostra la fragilità della natura umana, la quale non riesce ad attuare durevolmente i buoni propositi; non prova affatto che quei tentativi fossero, come è volgare costume asserire, antiscientifici. La pigrizia mentale di tutti coloro i quali hanno accettato la terminologia di “utopisti”, usata a titolo di scherno da Marx a carico dei suoi predecessori, è almeno altrettanto ammiranda come la sfacciataggine di costui. Se ben si rifletta, la distinzione fra gli Owen, i Cabet, i Fourier e gli altri classificati fra i socialisti utopisti ed i Marx ed Engels, i quali da sé si autodefiniscono socialisti scientifici, sta in ciò che i primi dissero: siano socialisti coloro i quali spontaneamente decidono di vivere insieme, in tutto od in parte, di lavorare e di produrre insieme, di spartire tra di loro, con una regola da essi accettata, i beni da essi prodotti; ed i quali, così decidendo, riconoscono agli altri il diritto di vivere così come ad essi meglio aggradi, con vincoli diversi da quelli di comunione e di cooperazione che ai socialisti piace di accettare. Laddove i socialisti scientifici inventarono un gergo da cui dedussero che la società “fatalmente” era incamminata verso il cannibalismo esercitato dai grossi a danno dei piccoli, sinché, avendo il cannibale più grosso divorato tutti i minori consorti, ad esso sarebbe stata agevolmente tagliata la testa e la collettività si sarebbe messa al suo posto, instaurando il regno della felicità. Siccome l’avvenimento tardava a verificarsi, accadde che, nel paese più lontano dalla sua verificazione, per la ignavia e la corruttela delle classi dirigenti i Lenin e gli Stalin tagliassero sul serio la testa ai componenti di quelle classi e di altre classi ancora ed instaurassero un regime che si dice comunistico e forse è solo la contraffazione del comunismo.

Tra parentesi, chi merita sul serio l’attributo di “utopistico”? Gli Owen, i Cabet, i Fourier, i Saint-Simon, e gli altri, irrisi come utopisti, i quali, se non riuscirono a far durare collettività in tutto comunistiche, furono tra i maggiori creatori e promuovitori del grandioso movimento cooperativo, il quale ha, si, mutato la faccia di talune società umane? Chi abbia un’idea anche vaga dei risultati meravigliosi ottenuti dalla cooperazione britannica di consumo, con le sue innumeri cooperative locali, con le due grandi associazioni di acquisto e produzione e vendita all’ingrosso d’Inghilterra e di Scozia, con le sue fabbriche e le sue flotte; chi sappia di quale trasformazione nell’edilizia popolare sia stata feconda l’opera delle società cooperative edilizie britanniche; chi ricordi la persistente sempre rinnovata opera delle società di mutuo soccorso, divenute oggi in quel paese le maggiori cooperatrici dello stato nella assicurazione malattie, non può a meno di riconoscere che quei vilipesi utopisti, quei sognatori calunniati da Marx riuscirono a creare, in nome dell’ideale comunistico, istituti vivi e grandiosi e fecondi di stupendo elevamento materiale e morale per le classi operaie. E che cosa crearono i socialisti “scientifici”? Non certo il movimento operaio propriamente detto, là dove esso davvero conquistò, come di nuovo in Gran Bretagna, posizioni oggi incrollabili di fronte ai ceti industriali nella contrattazione dei salari, delle ore e delle condizioni di lavoro; che quel movimento si svolse del tutto fuori dell’influenza del socialismo scientifico e se deve qualcosa a qualche ispirazione, questa fu la medesima ispirazione di libertà religiosa e politica la quale sta alla radice, così come di tanti altri istituti, anche delle correnti di pensiero dette del socialismo utopistico.

Per non discutere su contraffazioni, facciamo astrazione dal gergo apocalittico di Marx e dall’opera dei profittatori odierni di quel gergo; e immaginiamo una società comunistica compiuta e perfetta, nella quale ad uno o più enti pubblici sia dunque riservata la proprietà e l’esercizio di tutti i beni strumentali (quelli che nel gergo cosidetto scientifico dei marxisti si chiamano strumenti di produzione). Altrove [2] furono già esaminate le ipotesi varie che si possono fare in proposito. Non le riesporrò, per non ripetermi e non dilungarmi. Dirò solo che delle due ipotesi estreme l’una, a parer mio, è utopistica; ed è quella secondo cui l’ente o gli enti pubblici padroni dei beni strumentali e del loro esercizio (ossia organizzatori di tutta la produzione dei beni diretti di consumo e del risparmio, che è produzione di nuovi beni strumentali) riconoscerebbero e rispetterebbero ed avrebbero per iscopo di promuovere la massima più ampia libertà degli uomini di scegliere le proprie occupazioni e di distribuire il proprio reddito tra i beni di consumo. È la premessa dei ragionamenti con cui Pareto, Barone e Cabiati concludono alla identità delle soluzioni comunistiche con quelle date dalla perfetta libera concorrenza. La verificazione di siffatta premessa richiede la verificazione di parecchie altre premesse politiche, morali, religiose, intellettuali. Suppone che nella immaginata società comunistica i dirigenti siano davvero l’emanazione dei governati e ne attuino pienamente le aspirazioni; suppone che nei cittadini esista unanimità di propositi, o se vi sono dispareri e dopo discussione la maggioranza si sia pronunciata, la minoranza volentieri acceda[3] e collabori; suppone che esistano mezzi attraverso i quali le minoranze, anche le più piccole, possano liberamente esprimere e far valere le proprie opinioni o credenze contrarie a quelle della maggioranza e ad esse sia garantito nel modo più ampio il diritto di trasformarsi in maggioranza, se ad esse riesca di persuadere i più.

Tutto ciò, storicamente, sulla base della esperienza fin qui osservata e dalla quale non possiamo dipartirci se non con buone ragioni, è utopistico, fantasticamente utopistico. Abbiamo osservato ordinamenti concreti forniti di una dose maggiore o minore di libertà; ma in nessuno di essi mai si vide che coloro, i quali in un certo momento erano i dirigenti politici, fossero anche i dirigenti economici assoluti, ossia padroni della vita e della morte di tutti i cittadini, arbitri di escluderli dall’acqua e dal fuoco, se non ubbidissero ai loro comandi. Chi, dotato di tale autorità, non soggiacque alla tentazione di diventare uno Stalin? Chi non trovò pretesto o giustificazione a diventarlo, nel dovere da lui sentito di non cedere il posto ad un Trotzki, da lui giudicato a sé inferiore e nemico dell’ideale scritto nelle tavole della legge?

La ipotesi corrispondente alla natura umana è l’altra: quella per cui chi ha il potere politico assoluto se ne serve non al perfezionamento degli uomini, ma a crescere ed affermare il potere proprio e del gruppo dirigente. Se poi, come accade in una società comunistica piena, il gruppo dirigente, oltre il potere politico, possiede anche il pieno potere economico, per quale mai ragione misteriosa dovrebbe astenersi dall’usarne? Per rendere ossequio al principio che i governanti sono fatti per i governati, che il ministro della produzione deve produrre quel che piace e nella misura in cui piace ai consumatori di desiderare? Eh! via; questi principi possono essere scritti od essere implicitamente contenuti negli scritti teorici di Pareto, Barone e Cabiati; ma i politici e i ministri della produzione di uno stato, il quale abbia a sua disposizione l’arma terribile del possesso e dell’esercizio di tutti i beni strumentali, se ne sono sempre infischiati (Incas del Perù, Russia attuale) e sempre se ne infischieranno. Che sottoposti a siffatto giogo, i popoli alla lunga ne traggono argomento per rivoltarsi e che così attraverso i secoli, per tesi ad antitesi, si giunga alla libertà e si attuino ideali umani più alti, può darsi. Ma che il processo storico di rivolta dimostri la compatibilità fra comunismo e ideale liberale, direi sia una barzelletta.

Non è un ordinamento economico, ma solo la coscienza politica che può garantire o compromettere la libertà … Né il filosofo né l’economista in quanto tali hanno nulla a dire in questioni pratiche; la parola spetta solo al politico.

È lecito esporre qualche considerazione sui pericoli che presenta la attribuzione della competenza nel decidere di questioni pratiche ai soli politici? Mi astengo dal parlar di quel che possono dire e fare i filosofi, sebbene le tante belle persuasive pagine di Benedetto Croce contro i filosofi, i quali almanaccano escogitazioni di sublimi veri tratti dal proprio cervello e non sanno nulla della vita e non vivono nella storia, e le sue lodi ai cultori di scienze particolari i quali dalle loro conoscenze ed esperienze concrete sono tratti a filosofar bene, mi facciano dubitare della inettitudine dei filosofi alla pratica. Al Croce medesimo la qualità di filosofo non credo sia stata poco giovevole nell’amministrar ottimamente, come egli fece, le cose della pubblica istruzione in Italia ed altre cose pubbliche minori in Napoli. Parliamo solo degli economisti. D’accordo che essi, in quanto fanno il loro mestiere, sono dei puri astrattisti. Fabbricano schemi e ragionano in base a quelli. Però sarebbe inesatto dire che quei teoremi non hanno nulla a che fare colla pratica. Quegli schemi sono, anzi debbono essere via via complicati con successive approssimazioni, sì da renderli ognora più vicini alla realtà. Non giungeranno mai a fotografare del tutto la realtà, che è complicatissima e mutabilissima; ma talvolta arrivano ad un grado di approssimazione notevole, tale che le leggi e teoremi finali certamente non dovrebbero parere e non sono disutili al politico il quale debba intuire e studiare e risolvere problemi concreti.

Dopo la grande guerra, diventò di moda presso la gente frettolosa dire che essa aveva distrutto sbugiardato tutte le leggi economiche; ed invece era vero che quella guerra fu crogiolo quasi sperimentale dal quale riuscirono ridimostrate e nuovamente illustrate e pienamente confermate quelle leggi; e lo sbugiardamento immaginato dai frettolosi consisteva semplicemente in ciò che essi ed i politici non avevano mai saputo dove stavano di casa quelle leggi ed accumulando spropositi credevano ingenuamente che questi non avrebbero avuto degna sanzione; e quando la sanzione venne, strillarono contro la scienza economica quasi questa li dovesse salvare dalle conseguenze dei loro spropositi. L’esperienza fatta nell’altra guerra avrebbe dovuto insegnare che nel risolvere questioni pratiche economiche al politico giova la conoscenza delle essenziali leggi teoriche economiche; e se egli non ha avuto modo prima di procacciarsi una solida cultura in argomento – il che non solo è lecito, ma può essere considerato normale, altra essendo la preparazione dell’economista da quella del politico – giova però l’attitudine a distinguere, tra i suoi consulenti, gli improvvisatori ed i cerretani dai tecnici seri. Dico che il puro intuito non giova nel risolvere questioni pratiche economiche e scegliere le conoscenze vere da quelle spurie. Darò, di quel che dico intorno alla insufficienza dell’intuito, tre esempi: Napoleone, Cavour e Giolitti.

È curioso leggere nelle memorie del suo grande ministro del tempo, il conte Mollien, gli appunti intorno alla mentalità economica di Napoleone. È mentalità divulgatissima tra gli uomini e si dice del “progettista”. Quasi tutti coloro i quali discorrono di economia pubblica – non di quella particolare loro, della loro impresa, nella quale possono essere espertissimi – appartengono al genere dei progettisti. Hanno una cabala pronta a fornir denari allo stato, per salvare questa o quella industria, per porre rimedio a questo o quel malanno o crisi. Il guaio è che costoro non sentono quasi mai ragione ed è inutile perdere tempo a smontare la cabala. È un lavar la testa ai cani. L’intuito economico di Napoleone – e perciò egli faceva eccezione alla regola propria dei “progettisti” – consisteva nell’afferrare fulmineamente le obbiezioni di Mollien, nel farle proprie e nel rivoltare la propria argomentazione, cosicché Mollien non aveva presto altro da fare se non inchinarsi alla decisione dell’imperatore; che era invece la decisione da lui abilmente, senza parere, suggerita contro il progetto fantastico stravagante di Napoleone. Ma l’intuito ancor più penetrante di Napoleone fu nell’aver scelto Mollien, economista di nascita e di studio, e di averlo, finché regnò, tenacemente conservato, nonostante le lezioni che ne riceveva, ministro del tesoro; come tenne del pari sempre a capo delle finanze un altro grande ministro, Gaudin, duca di Gaeta.

Il conte di Cavour non aveva invece, nelle cose economiche, bisogno di consiglieri; che il grande politico aveva studiato sul serio la scienza economica teorica ed era stato insieme banchiere e finanziere ed agricoltore pratico, emulo di quegli economisti inglesi, i quali erano anche banchieri o commercianti ed agenti di cambio e che egli tanto ammirava e di parecchi dei quali era amico. In lui si cumulavano l’intuito fulmineo del politico, la conoscenza dell’economista teorico, la pratica dell’imprenditore di cose economiche concrete. Chi dubita che la riunione di tutte queste qualità non abbia contribuito a fare di lui quel grande che fu? Maggiore di quanti uomini politici vanti il secolo XIX? Egli non correva rischio di sbagliarsi chiedendo, prima di decidere, consiglio all’uomo competente in questioni economiche concrete delle quali per avventura non si fosse mai occupato; che egli aveva nella sua organizzazione mentale e nella sua preparazione scientifica gli strumenti sicuri per giudicare l’uomo da lui interrogato e le soluzioni a lui offerte.

Non si può negare che Giolitti avesse una dose non comune di intuito politico; ma non aveva bastevole preparazione economica e mancava di alcune delle qualità necessarie a dare il giusto peso ai dati del problema che egli doveva risolvere. Giolitti fu il tipico, anzi il maggior rappresentante di quella classe laboriosa, onesta di amministratori pratici, i quali governarono i dicasteri italiani dal 1876 al 1914; gente la quale guardava con sospetto i teorici e credeva che bastasse la “pratica” a “governar bene”; e quella frase del “gövernè bin” sentii appunto dalla bocca di Giolitti a riassumere l’essenza dell’arte del governo. Ma non si governa bene senza un’ideale. Era penoso, ascoltando i discorsi di Giolitti, vedere come, discutendo di cose economiche, egli passava sopra, con qualche barzelletta o qualche volgare frase demagogica, al punto essenziale del problema, per ottenere il plauso ovvio della maggioranza alla sua tesi. A lui accadde talvolta di giungere con l’intuito alla soluzione buona; ad esempio, quando propose e tenacemente volle nel 1921 l’abolizione del prezzo politico del pane, che minacciava di trarre nell’abisso la finanza e la moneta italiana. Gli giovò, qui, l’incubo, spaventevole per un uomo assestato come egli era, dei miliardi di disavanzo che ogni dì si cumulavano e crescevano; e volle farla finita. Il merito suo fu in questa occasione grandissimo e vale a riscattare la colpa delle leggi demogogiche d’imposta da lui fatte approvare e di tutto quel che di bene avrebbe potuto, negli anni fortunati in cui governò, operare in economia e in finanza e non fece. Giovò a lui l’avere come emulo un dottrinario, il Sonnino; il quale, per essere un dottrinario e non un teorico, difettava dei freni che al teorico impediscono di cercare di attuare i propri schemi teorici; mentre il dottrinario, per definizione privo di senso scientifico ed insieme di intuito politico, vorrebbe fare e, incapace a muovere la materia sorda, non può. Ma Giolitti lo irrideva a torto. Avrebbe invero potuto sorridere di Sonnino il conte di Cavour; non egli, Giolitti, il quale ebbe una sola grande idea: quella di immettere le classi lavoratrici e contadine a partecipare al governo politico ed economico del paese; ma, a differenza di Cavour, mancava a lui la conoscenza del meccanismo economico e non seppe perciò andar oltre la nozione empirica del lasciar fare a socialisti ed operai l’esperimento necessario. Troppo poco per un uomo di stato, il quale deve sapere capeggiare ed indirizzare le forze sociali alle quali egli ha inteso aprire l’accesso al potere.

Un politico che sia un puro politico è qualcosa di difficilmente definibile ed a me pare un mostro, dal quale il paese non può aspettarsi altro che sciagure. Come possiamo immaginare un politico che sia veramente grande – della razzamaglia dei politicanti non val la pena di occuparsi, anche se temporaneamente riscuotono gran plauso ed hanno seguito frenetico – il quale sia privo di un ideale? E come si può avere un ideale e volerlo attuare, se non si conoscano i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a governare e se non si sappiano scegliere i mezzi atti a raggiungere quell’ideale? Ma queste esigenze dicono che il politico non deve essere un mero maneggiatore di uomini; deve saperli guidare verso una meta e questa meta deve essere scelta da lui e non imposta dagli avvenimenti mutevoli del giorno che passa. Il vizio di Giolitti fu di non possedere le qualità necessarie per attuare l’idea dell’elevamento delle masse che era nell’aria e che egli professava e intendeva far propria. Era uno scettico, adusato dalla quotidiana pratica amministrativa ed elettorale a disprezzare gli italiani, che avrebbe dovuto ed a parole diceva di voler innalzare. Il suo giudizio coincideva con quello di un gran fabbricante di abiti fatti, il quale: «gli italiani – diceva – camminano gobbi» e gli abiti fatti si adattano perciò male al loro dorso. «Gli italiani camminano gobbi», ripeteva Giolitti e perciò non fanno guerre. Ma egli non li educò e sforzò a voler fortemente e se sul Grappa e sul Piave stettero valorosamente in campo, non fu merito suo; mentre era stato merito di Emanuele Filiberto l’aver costretto i piemontesi del tempo suo, poltroni famigerati tutti, nobili e plebei, a divenire il popolo guerriero per antonomasia fra gli italiani.

Non esiste una coscienza politica la quale da sé garantisca la libertà ed elevi i popoli. La coscienza politica è un composto di vivo sentimento morale, di amore di patria, di fierezza individuale, di solidarietà di famiglia, di classe e di nazione, di indipendenza economica, che il politico esalta ed utilizza a fini pubblici. Se di quella coscienza esistono i germi, essi possono essere fatti crescere o possono essere distrutti, a seconda della comparsa sulla scena del mondo, di uomini superiori o mediocri. In sostanza, gli uomini governati e governanti creano nel tempo stesso la libertà sotto tutti i suoi aspetti: politico, economico, religioso, di stampa, di propaganda. Se alla radice dell’azione degli uomini vi è libertà morale, come è possibile che essi creino istituti economici che li leghino e li riducano alla condizione di servi, privi della facoltà di scegliere le proprie occupazioni, di soddisfare ai propri gusti, di lavorare fuor degli ordini di funzionari gerarchicamente sovrapposti? Tanto varrebbe dire che gli uomini per elevarsi e per conquistar libertà decidano di delegare ad un dittatore il compito permanente di pensare, di scrivere e di parlare per loro conto. Possono e debbono farlo durante un assedio od un tumulto, volgendo tempi di guerra esterna o civile; ma se si acquetano ad ubbidir sempre, essi sono servi e non liberi.

[1] Cfr. Rileggendo Ferrara, nel quaderno del marzo 1941 della «Rivista di storia economica».
[2] Cfr. Le premesse del ragionamento economico e la realta` storica, nel quaderno del settembre 1940 della «Rivista di storia economica».
[3] Sul concetto di “accessione” cfr. i paragrafi 265 e 266 dei miei Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino 1940.

Il minimo nazionale di vita. La limitazione dei beni

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1975, § 35

Poiché non mi è possibile in questa lezione introduttiva, entrare nei particolari, dirò solo quale sia il concetto informatore della legislazione sociale. Si tratta di giungere per vie diverse ed adatte a far sì che ogni uomo vivente in una società sana disponga di un certo minimo di reddito.

Si può discutere se ciò significhi diritto al minimo. Repugno alla affermazione di un vero e proprio diritto, reputando più vantaggioso giungere altrimenti allo stesso risultato. Basti affermare il principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario alla vita. In fondo tutta l’opera delle trade-unions inglesi, un’opera che oramai dura da più di un secolo, mira ad obbligare l’imprenditore a pagare agli operai un minimo di salario, minimo che deve essere garantito a tutti coloro assunti a lavoro. Poiché quel risultato fu ottenuto dalle trade-unions inglesi, quelle stesse che da noi sono chiamate “sindacati operai”, con sforzo secolare, con scioperi, ricorso a comitati di conciliazione, a trattative paritetiche, il minimo ottenuto con grande sforzo non è più un incitamento all’ozio. Non si spreca, come per tanti anni si temé e si rimproverò, nel vino e nell’ozio quello che è durato anni e anni di sforzo per poter essere ottenuto. Si spreca quel che si ottiene d’improvviso, per intimidazione e senza merito.

Se le classi operaie in Inghilterra ed anche in Italia (si ricordi il progresso compiuto tra il 1880 e il 1914, testimoniato da tanti dati e frutto anche di uno sforzo consapevole) sono riuscite ad affermare il diritto al minimo di salario, con ciò non si è fatto nulla che sia contrario ad alcuna legge economica. Si è affermato e conquistato il principio che il prestatore d’opera possa, forte della solidarietà con gli altri operai e dei fondi da lui volontariamente accumulati nel suo sindacato, trattare da paro a paro con l’imprenditore ed ottenere che siano garantite a tutti i lavoratori condizioni uguali minime di salario e di lavoro.

Non sempre, tuttavia, si lavora, non sempre si può godere del minimo di salario. Disoccupazione, infortuni, malattie, invalidità e vecchiaia, attentano alla continuità del lavoro. E allora la domanda è se lo stato per mezzo delle imposte non dovrebbe garantire a tutti un minimo in tutte le contingenze della vita nelle quali sia impossibile di lavorare. E c’è di più. Taluno sostiene invero la tesi che il minimo di punto di partenza dovrebbe essere garantito, astrazion fatta dalle circostanze in cui uno si trova nella vita. Egli dovrebbe fruire dell’assicurazione del minimo solo perché nasce.

Se un consenso abbastanza largo si trova, sia pure con le cautele necessarie, per la tesi del minimo nei casi di impossibilità a lavorare, i dubbi sono assai più grandi per la seconda tesi. Queste idee possono essere accolte?; entro quali limiti necessariamente potranno essere accolte? La soluzione dipenderà sempre da molte circostanze, dalla ricchezza del paese, dal livello di vita, dalla distribuzione delle proprietà, circostanze che dovrebbero essere esaminate caso per caso prima di giungere ad una conclusione che abbia il marchio della attuabilità e non delle semplici fantasie che sono per lo più socialmente pericolose. Anche chi ammette il concetto del minimo nei punti di partenza, sa che bisogna cercare di stare lontani dall’estremo pericolosissimo dell’incoraggiamento all’ozio.

Questo è il freno che deve stare sempre dinnanzi ai nostri occhi. Dobbiamo evitare il pericolo di ricreare qualche cosa come il panem et circenses che ha portato alla rovina del mondo romano. Non sono stati tanto i barbari che hanno fatto cadere l’impero romano; ma l’impero era marcio in se stesso; ed una delle cause della decadenza interna era che i cittadini romani sdegnavano di essere soldati, lavoratori, perché, mantenuti dallo stato, preferivano andare ad assistere nel foro agli spettacoli, alla caccia data ai cristiani dalle belve, ecc. ecc.

L’idea nostra dovrebbe essere un’altra, ossia che il minimo di esistenza non sia un punto di arrivo ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini. C’è del vero in quel che si dice che molte invenzioni non prendono corpo, che molti progetti non si attuano perché i più degli uomini sono costretti a una vita dura che assorbe tutte le loro forze e la loro intelligenza. Se un minimo di punto di partenza consentisse ai giovani di poter continuare a studiare, a fare ricerche, ad inventare, a trovare la propria via senza dover fin da troppo giovani lavorare nelle fabbriche, verrebbero fuori studiosi e inventori che oggi non ne hanno la possibilità.

A questo ideale dobbiamo tendere. Ma non dimentichiamo mai che quando Dio cacciò Adamo ed Eva dal paradiso terrestre disse loro: «voi guadagnerete il vostro pane col sudore della fronte». Il pane deve diventare certo più abbondante per tutti ed anche altre molte cose dovranno essere messe a disposizione gratuita degli uomini. Ma in perpetuo durerà la legge per cui gli uomini sono costretti a strappare col lavoro alla terra avara i beni di cui essa è feconda.

Schemi storici e schemi ideali

Schemi storici e schemi ideali

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 259-298

 

 

 

 

242. Se in quest’ultimo capitolo si costruiscono, traendoli dalla esperienza storica, schemi concreti di interpretazione dei fatti finanziari, non si afferma perciò che essi siano tutta la realtà e di questa ci diano le leggi. La scienza studia le leggi concrete dei fatti accaduti ovvero le leggi ideali che gli uomini intendono avverare? Il modello di indagine che lo studioso tiene dinnanzi agli occhi vuole raffigurare il reale effimero o l’ideale perenne? Per ora poniamo solo le domande solenni.

 

 

243. Fra gli schemi antichi caratteristico è quello della finanza del «tiranno» greco. Esso è stato eccellentemente analizzato da Andréadés.[1]

 

 

La «tirannia» fu un metodo di governo che ebbe nell’antichità greca luogo normale fra gli altri metodi, principalmente come strumento di reazione contro l’oligarchia. Lo schema della finanza tirannica è la logica conseguenza della necessità propria di quello come di ogni altro metodo di governo di provvedere alla propria conservazione. Di qui i seguenti connotati delle spese pubbliche nello schema della «tirannia».

 

 

1)    Una guardia del corpo numerosa e devota era caratteristica essenziale del sistema; perciò nella tabella «politica» la spesa relativa ha uno dei primi luoghi, con alti indici relativi di importanza. In linguaggio comune, la spesa non è suscettiva di compressione;

 

2)    la spesa della guerra è anch’essa primaria ed ha indici alti. Il tiranno solitamente è un militare e si compiace perciò nell’esercizio della sua professione. Inoltre è necessario che il popolo sia distratto dal rivolgere la sua attenzione alle cose interne e senta vivo il bisogno di un capo imperioso. Lo splendore della vittoria rafforzava d’altronde la posizione del capo. Alcuni storici moderni sostengono che nessuna guerra ingiustificata fu condotta dagli antichi tiranni greci; ma è incontestabile che le guerre furono molte, probabilmente troppe in ragione dei mezzi esistenti e che enormi furono le spese le quali ne seguirono;

 

3)    le spese per i lavori pubblici venivano subito dopo nella graduatoria, con indici di importanza pure assai alti. Il tiranno ricorreva alle opere pubbliche per molte ragioni. Esse soddisfacevano la sua ambizione e la sua vanità. La costruzione dei templi giovava allo spirito teocratico da lui coltivato; le fortezze davano il senso della sicurezza; il culto delle arti belle rialzava il prestigio del tiranno sul popolo; l’occupazione fornita al popolo lo distoglieva, in tempo di pace, dalle cospirazioni e dalle rivoluzioni; le classi medie ed operaie, sostegno massimo del tiranno contro le oligarchie, avevano lavoro; il popolo sopportava i carichi fiscali senza protestare;

 

4)    le spese elencate sinora si riferiscono a beni che il governante considera «pubblici» in grado eminente e con alti indici di importanza, perché egli reputa che la perpetuazione del suo sistema di governo sia preferibile, nell’interesse non solo proprio ma della collettività, al ritorno ai sistemi concorrenti e principalmente a quello oligarchico. Il giudizio può darsi sia stato talvolta erroneo; ma, astrazion fatta dalla incertezza dei criteri in base ai quali si potrebbe constatare l’errore, qui non si vuol dare un giudizio morale o politico dello schema, bensì semplicemente constatarne la logicità. La quale pare, sinora, indubbia. Non ugualmente in tutto logica, dal punto di vista della conservazione del sistema, è il quarto capitolo di spesa ricordato dall’Andréadés e cioè delle spese personali e della corte. Se fossero state tenute entro limiti ragionevoli, queste spese avrebbero potuto conferire allo splendore del governante; ma Andréadés afferma che «nessun tiranno conobbe né la frugalità né la Misura». Entro i limiti in cui è esatta l’affermazione, si può dire che nella tabella «politica» è stato introdotto un fattore di spesa non logico cioè non confacente alla perpetuazione del sistema. Non giova alla polis ossia alla conservazione ed all’incremento della cosa comune, anche guardata coll’occhio del tiranno, creare malcontento ed invidia nel popolo;

 

5)    uguale è il giudizio intorno al quinto capitolo di beni pubblici inserito dal tiranno nella sua tabella «politica». Andréadés così lo descrive: «L’avidità dei tiranni e dei loro fidi, come pure il bisogno di tesorizzare per il caso probabile in cui dovessero abbandonare il potere ed il paese, incitava il tiranno ad ammassar ricchezze». Qui, se logica v’era, era privata e non pubblica. Dal punto di vista della persistenza del sistema, il tesoro attrae i rivali e li spinge ad ogni sforzo per abbattere il tiranno. Chi ammassa tesoro per il caso di fuga confessa di essere debole ed incoraggia all’assalto.

 

 

244. Al quadro dei beni pubblici si contrappone nel sistema tirannico un correlativo quadro dei mezzi atti a procacciarli. Essi erano i seguenti:

 

 

1)    in primo luogo le confische. La lotta del tiranno contro le oligarchie si concludeva con la cacciata degli oligarchi dalla città e con la confisca dei loro beni. Principio essenziale del sistema era l’abbattimento di tutti gli alti papaveri. Gli ottimati dovevano essere resi incapaci a nuocere. La confisca soddisfaceva a siffatta esigenza, contentava l’invidia delle folle e riempiva le pubbliche casse;

 

2)    in secondo luogo le imposte sui cittadini. Andréadés constata che a questo riguardo i tiranni non innovarono sostanzialmente nulla in confronto al sistema tributario usato dai «satrapi» persiani nelle regioni dell’Asia Minore dove erano numerose le città greche. La decima sui prodotti della terra era la principale fra le imposte. Venivano poscia l’imposta sui greggi e sugli armenti, il testatico, la patente per l’esercizio di arti e mestieri; le dogane sulle merci trasportate per mare o per terra, ed i dazi sulle vendite al minuto. Nel complesso, le imposte non diedero luogo a querele rilevanti;

 

3)    «La gravezza delle imposte – dice Andréadés – era insignificante se la si paragona a quella delle “estorsioni” alle quali il tiranno ricorreva per far fronte alle spese». Tra le estorsioni deve essere ricordata la fabbrica di moneta falsa.

 

 

Le tre caratteristiche dello schema tributario sono convenienti al tipo del governo tirannico. Sorto in antagonismo cogli oligarchi il tiranno li deve abbattere anche economicamente. Poggiato sovratutto sulle classi medie e sul popolo, egli è moderato nella esazione delle imposte le quali toccano la generalità dei cittadini. Ma, pressato dall’altezza delle spese, egli deve ricorrere a metodi palliati, come l’abbassamento del titolo e del peso delle monete, per procacciarsi entrate bastevoli, senza che il popolo subito ne abbia consapevolezza; e compiere estorsioni particolari, le quali lasciano indifferenti la massa non colpita.

 

 

245. Il sistema era, tuttavia, nell’insieme instabile. Gli storici antichi sostengono che parecchi tiranni, tipici Dionigi di Siracusa e Cipselo di Corinto abbiano assorbito la ricchezza dei cittadini, il primo in dieci ed il secondo in cinque anni. Ma Cipselo comandava ai cittadini di rifare ogni anno col lavoro quel decimo della fortuna privata che egli confiscava; sicché alla fine del decennio i corinzi avrebbero dovuto serbare intatta la loro fortuna. Il consiglio, fosse o non seguito, dimostra che il tiranno incontrava limiti alle sue esazioni. Anche quelle del grande Dionigi non pare fossero confiscatrici; ché egli non poteva rivolgere ad uso pubblico le case e le terre dei cittadini e le fonti fanno supporre che egli si contentasse di appropriarsi del denaro contante che essi possedevano. Questo pretendeva fino all’ultimo obolo; e quanto più i cittadini levavano alte grida, tanto più egli persisteva nel chiedere, aggiungendo alla prima una seconda una terza ed una quarta taglia; sinché all’annuncio della quinta i segugi gli riferirono che i siracusani ridevano e scherzavano sulle pubbliche piazze. «Ora – disse – conviene far pausa; ché, se i cittadini ridono di noi, ad essi non deve restare proprio nulla. Altrimenti continuerebbero a lamentarsi». Neppure Dionigi poteva obbligare i cittadini a lavorare per dare a lui l’intiero frutto del loro lavoro; come testimonia l’insuccesso della taglia sul bestiame. Il quale o non fu più allevato; o, se già nato e cresciuto, era ammazzato anzi tempo; ed, essendo stato posto limite al macello privato, era sacrificato agli dei, i quali si contentavano dell’odore degli intestini bruciati, abbandonando ai mortali le carni.

 

 

La finanza tirannica doveva al tempo stesso ubbidire a due esigenze contrastanti. La prima è ricordata da Platone quando nella Repubblica, nota che i tiranni dovevano con le taglie mantenere i popoli in povertà, affinché, costretti a pensare continuamente a procacciarsi il cibo, essi non avessero tempo a complottare. La seconda è quella di avere i grandi mezzi occorrenti alla politica di grandezza, di conquista e di fasto; mezzi che possono essere forniti solo da popoli industriosi e ricchi.

 

 

I grandi fondatori delle dinastie tiranniche vedevano chiaramente la necessità di promuovere insieme la ricchezza pubblica e quella privata; laddove i discendenti inetti od imbelli, impoverendo coi balzelli il popolo, conducevano la città alla rovina e minavano il potere proprio. 246. Altro schema caratteristico dell’antichità è quello della finanza della città periclea. Non tutti i connotati che si leggono nella esposizione di Andréadés (pp. 29-39 e 40-92) possono essere fatti risalire esclusivamente al tempo di Pericle; ma questo tempo con la sua caratteristica di democrazia guidata da un capo di genio è quello nel quale essi hanno avuto il loro massimo sviluppo od almeno il germe iniziale.

 

 

Nella tabella «politica» della città periclea avevano luogo cospicuo:

 

 

1)    le spese per la polizia, alla quale si provvedeva con l’opera in parte gratuita e in parte remunerata di cittadini e con quella, sempre costosa, di schiavi pubblici;

 

2)    quelle per la costruzione ed il mantenimento della cinta fortificata la quale aveva trasformato Atene quasi in un’isola inaccessibile;

 

3)    le spese militari propriamente dette. Minime quando il cittadino – soldato doveva provvedere al proprio mantenimento ed alle proprie armi e le altre spese erano coperte dal bottino di guerra, crebbero al tempo di Pericle quando si dovette far appello a cittadini poveri, provvedendoli di armi e di cavalli; e si dovettero mantenere i marinai della flotta. Da una media di 300 talenti in tempo di pace (verso il 240 a. C.) si sale, secondo Andréadés, a 1300 talenti all’anno in tempo di guerra; enorme spesa se si fa uguale il talento a circa 35.000 lire antebelliche e si pensa alla piccolezza degli stati greci;

 

4)    le spese diplomatiche, saltuarie bensì, ma non irrilevanti, se vi si comprendono le spese segrete;

 

5)    le spese per la istruzione, che prendevano sovratutto la forma indiretta di apprestamento di opere d’arte e di spettacoli drammatici, che i cittadini dovevano essere in grado di apprezzare;

 

6)    le spese di culto: cerimonie religiose (pompe, sacrifici, festini, lampadoforie), giuochi, navi sacre;

 

7)    le spese per lavori pubblici, i quali consistevano sovratutto nell’abbellimento della città con templi e statue. Le spese di Pericle non sono mai state proporzionalmente emulate, neppure nei tempi moderni. Andréadés le calcola da 6000 ad 8000 talenti, (da 200 a 300 milioni circa di lire antebelliche) suppergiù da sei ad otto volte l’ammontare delle entrate ordinarie annue dello stato. Pericle attribuiva un alto grado di importanza alle opere intese «ad adornare la città al par di donna fastosa» perché pensava che da esse sarebbe derivata «gloria eterna» alla sua città. Il patriottismo dei cittadini, l’opportunità di dar lavoro ai reduci dalle guerre, i quali non potevano o non volevano ritornare alla campagna, il desiderio di addestrare il popolo alle arti contribuirono, insieme coll’ambizione di tessere un serto di gloria attorno al capo di Atene, a dare alla spesa per i lavori pubblici un alto grado di importanza. Non buono fu il risultato di abituare il popolo all’idea di aver diritto di vivere a spese dello stato;

 

8)    la provvista di frumento a buon mercato alla popolazione. La preoccupazione di garantire al popolo il principale dei suoi mezzi di sussistenza fu sempre vivissima nell’antichità, ed inspirò in Atene la politica dell’emigrazione (cleruchie), delle egemonie militari in paesi produttori di cereali, dei vincoli alle esportazioni; e sovratutto delle distribuzioni gratuite od a sottocosto di razioni di frumento;

 

9)    le spese sociali: come il mantenimento dei cittadini eccellenti nel Pritaneo, la erezione di statue o la iscrizione lapidaria di decreti onorifici, il mantenimento degli orfani di guerra sino ai 18 anni e loro dotazione con un’armatura completa alla maggiore età, il mantenimento dei mutilati di guerra e dei cittadini invalidi. Fu un capitolo importante di spesa, indice dell’alto senso civico della città periclea;

 

10)  i salari politici: Atene ammise sempre la remunerazione degli impiegati pubblici propriamente detti, i quali coprivano uffici puramente esecutivi, detti yperesíai. Gli yperéti erano numerosi e mediocremente pagati, in gran parte liberti e persino schiavi. Agli investiti di uffici propriamente detti (arkai), i quali avevano la rappresentanza del popolo o demos si cominciò tardi a pagare un salario. Pericle introdusse probabilmente il salario di oboli per seduta ai 500 senatori; e certamente quello di 2, cresciuti poi da Cleone a 3, oboli per seduta ai giudici, moltiplicati a poco a poco sino a 6000, quasi il quinto del numero totale dei cittadini. Il «simbolo», fissato da ultimo in 3 oboli per seduta, versato a tutti i cittadini partecipanti all’assemblea, non fu opera di Pericle; ma meno di mezzo secolo era bastato per passare dalla gratuità degli uffici pubblici alla remunerazione universale di tutti i cittadini. Se il principio della remunerazione poteva essere giustificato per gli uffici, i quali richiedevano una effettiva prestazione d’opera, il compenso per la semplice partecipazione alle assemblee senatoriale, giudiziaria e sovratutto politica fu accolto da Pericle per consentire di fatto al popolo l’esercizio del potere che era privilegio dei ceti medi ed alti. Il metodo che avrebbe prodotto effetti vantaggiosi di educazione politica, se tenuto entro limiti stretti, degenerò col predominio dei demagoghi, alimentò il proposito nei cittadini ateniesi di vivere a spese degli alleati; li abituò all’ozio; mise il diritto al salario al disopra del diritto della città alla propria salvezza; ridusse la città alla balia dei poveri, ai quali la partecipazione alle assemblee fruttava i mezzi di vita, laddove ai cittadini dei ceti medi ed alti quel salario riusciva indifferente. Aristotele nella Costituzione di Atene offre un quadro di parassitismo politico e finanziario: 6000 giurati, 1600 arcieri, 1200 cavalieri, 500 membri del consiglio, 500 guardiani del porto, 50 guardie notturne, 700 funzionari in città ed altrettanti fuori; in tutto più di 20.000 cittadini mantenuti a spese del pubblico erario. Le città alleate e suddite e gli ateniesi indipendenti dovevano provvedere i mezzi per far vivere questa burocrazia imponente e crescente;

 

11)  il «teorico». Istituito in origine per consentire ai poveri il pagamento del diritto di entrata al teatro di Dionisio o per sovvenire i bisognosi durante la guerra del Peloponneso, si trasformò ben presto in distribuzione gratuita del denaro pubblico ai cittadini. Tutti gli avanzi di bilancio dovettero essere in tal modo distribuiti, senza riguardo ai bisogni, al valore, al lavoro ed all’età dei cittadini. Poiché il concetto di «avanzo» è elastico, i cittadini, i quali deliberavano sulle spese pubbliche, finirono per considerare primissima tra le spese quella della distribuzione del théoricon, a scapito delle opere pubbliche, della difesa o della costituzione del tesoro per provvedere alle esigenze straordinarie della città. Quando il disamore al lavoro, la corruzione pubblica, il demagogismo giunsero agli estremi, Demostene, dipingendo eloquentemente il quadro dei pericoli i quali sovrastavano alla città, riuscì a far approvare il versamento degli avanzi nella cassa di guerra. Era però troppo tardi. Filippo di Macedonia stava per distruggere la libertà delle città greche.

 

 

247. Di fronte alle spese, il quadro delle entrate:

 

 

1)    quelle demaniali innanzitutto, da case terreni schiavi. Il demanio si arricchiva per donazioni confische bottino sul nemico e scemava per distribuzioni al pubblico e per vendita a sollievo di spese straordinarie. Ad Atene il cespite più importante di entrate demaniali erano le miniere d’argento del Laurio, il cui reddito netto per lo stato nel periodo di massima produttività delle miniere oscillò fra 50 e 100 talenti all’anno. Durante la guerra del Peloponneso, gli schiavi abbandonando le miniere si unirono agli spartiati per combattere la città dominante;

 

2)    le entrate giudiziarie, importanti per Atene, città egemonica, nella quale si concludevano litigi più importanti sorti nelle città alleate;

 

3)    le pene pecuniarie, distinte in ammende (timémata), inspirate nei delitti politici al principio che gli uomini di stato dovessero, anche se eminenti e probi, subire le conseguenze materiali dell’insuccesso della loro politica; ed in confische (demioprata), accessorio di pene più gravi, come condanna a morte, a schiavitù, a bando. In Atene, dove i sentimenti umanitari erano più diffusi, l’ostracismo non portava con sé la confisca dei beni;

 

4)    le imposte dirette erano considerate incompatibili con la libertà e con la qualità di cittadino. Solo gli stranieri, le cortigiane e gli schiavi vi erano sottoposti. Gli stranieri permanentemente domiciliati nella città pagavano il «métoikion», a guisa di compenso per i privilegi di cui essi godevano nella città. Era un pesante uniforme testatico, a cui si aggiungevano particolari tributi, ad es. per il diritto di lavorare sul mercato. Anche le cortigiane erano soggette ad un tributo fisso. Più incerta era la situazione degli schiavi e dei liberti;

 

5)    le liturgie ordinarie, le quali sostituivano, per i cittadini, le imposte da cui erano immuni. Distinte in varie sottospecie, come le «coregie» destinate a coprire le spese dei giuochi drammatici e musicali e delle danze, le «gimnasiarchie» a copertura dei giuochi atletici, l’«estiasi», a sopperimento delle spese delle pubbliche cene a carattere religioso delle tribù, poggiavano sul concetto che ad ogni spesa si dovesse provvedere con una particolare entrata all’uopo stabilita e sovratutto facevano affidamento sull’ambizione tradizionale nei ricchi greci di fare buon uso della propria ricchezza e sul desiderio di rendersi popolari con generose largizioni ad incoraggiamento di feste religiose, giochi e spettacoli. La liturgia era dunque in origine e rimase sempre in principio una oblazione spontanea. Lo spirito di emulazione tra i ricchi, la brama di cattivarsi il favore del popolo innanzi alle elezioni inducevano non di rado i ricchi greci ad eccedere, nelle pubbliche largizioni, i limiti considerati normali dall’opinione generale. Testimonianza di volta in volta di patriottico amore alla cosa pubblica e della sua degenerazione demagogica, le liturgie non sempre bastavano a coprire la spesa, sovratutto se questa assumeva dimensioni insolite. All’oblazione spontanea sottentrava la coazione morale. Si compilavano liste dei ricchi messi a contributo; problema sempre arduo, a causa del piccolo numero dei chiamati e della gravezza del contributo. Soccorre qui l’istituto forse più originale della finanza ateniese: l’antidosi.

 

 

Il cittadino chiamato ad offrire la liturgia poteva designare un altro cittadino, che egli avesse creduto più atto a sopportare il peso della spesa desiderata. Il designato in seconda poteva rifiutarsi; ma in tal caso era obbligato a permutare il proprio col patrimonio del primo designato, il quale doveva prelevare l’ammontare della liturgia sul nuovo patrimonio così acquistato. Il sistema era ingegnoso, poiché nessun designato in primo luogo avrebbe avuto convenienza ad indicar altri, se la fortuna di questi non fosse davvero stata maggiore della propria. Il sistema, suscitatore di atti emulativi e talora ricattatori, non doveva però essere di piana applicazione, se a poco a poco si riduce a mera forma, e la decisione è, nel quarto secolo a. C., rimessa al giudizio dei magistrati;

 

6)    dazi doganali, che per l’Attica erano del 2% del valore della merce introdotta od esportata o in transito. Nelle città alleate, il dazio fu cresciuto, in un certo momento, al 5% per sostituire l’invisa imposta sugli alleati. La generalità della tariffa dimostra che il dazio non aveva scopi protezionistici e non era incompatibile con il fiorire del commercio internazionale del porto del Pireo. Il dazio si elevava al 10% solo per il transito attraverso al Bosforo;

 

7)    le imposte interne di consumo: diritti percetti sulle vendite al minuto nelle piazze; sulle vendite all’incanto, su quelle di immobili, sulle merci al momento del passaggio attraverso le porte della città; diritto di porto, di pesca, di pedaggio negli stretti ecc.;

 

8)    l’imposta sugli alleati. Si direbbe un vero tributo (foros) pagato dal vassallo a vantaggio del conquistatore; ma durante l’epoca periclea fu un contributo versato dalle città alleate in cifra fissa (460 talenti) per sopperire alle spese comuni della confederazione ateniese. La moderazione del tributo e la sua equa ripartizione persuasero gli alleati a consentire che il provento fosse destinato a coprire non solo le spese delle guerre nazionali ma anche quelle dei grandi monumenti pubblici di Atene, che tornavano a gloria di tutta la Grecia.

 

 

Morto Pericle, l’imposta, più che raddoppiata, provocò, sotto Cleone, grave malcontento tra gli alleati. Dopo l’insuccesso della spedizione siciliana, il foros fu trasformato nel dazio doganale del 5% all’entrata ed all’uscita delle merci nelle città alleate, metodo più elastico e adatto alle mutevoli fortune economiche dei singoli luoghi. Durante la seconda confederazione ateniese, si ritornò all’imposta in cifra determinata, detta syntaxis, fissata dall’assemblea degli alleati e destinata esclusivamente a fini comuni. Il ritorno successivo al foros provocò la rivolta degli alleati e la fine dell’egemonia ateniese;

 

 

9)    le cleruchie, od imposta sugli ateniesi stabiliti nel territorio degli alleati. Ne è incerta la portata e persino la esistenza. In ogni caso, l’emigrazione dei cittadini ateniesi e la loro dotazione con terre situate nel territorio degli alleati liberavano Atene dall’onere del mantenimento di buon numero di poveri;

 

10)  al novero delle entrate straordinarie appartengono le ultime che ancora si devono elencare. E prima l’«argirologia», ossia le indennità o taglie pagate dai vinti. Esse discendevano dal principio che il corpo ed i beni dei vinti appartenessero ai vincitori; poiché il principio era religioso, un decimo del bottino era destinato agli dei. I generali erano scelti non solo per le loro virtù militari, ma anche per l’attitudine a procacciarsi tributi dai vinti. La finanza parassitica ebbe grande importanza in tutto il mondo antico;

 

11)  il tesoro; necessario in tempi nei quali di fatto era sconosciuto o pochissimo usato il ricorso al debito pubblico. Nell’età periclea, si pensò a rendere sacro il tesoro, dedicandolo alla cassa di Minerva, dalla quale poteva essere ritirato, a titolo di mero prestito, solo in circostanze di pericolo gravissimo. Dicesi che l’ammontare fosse giunto a 6000 talenti; e che 1000 fossero consacrati in modo particolarissimo, sotto pena di morte per chiunque avesse proposto di usarlo altrimenti che per sovvenire all’ultimo pericolo della città. Col declino della città, anche il tesoro venne meno;

 

12)  la trierarchia era una particolare specie di liturgia. Il triarca era il comandante della nave; e dall’ufficio suo discendeva l’obbligo di mantenimento di essa, di anticipo del soldo e vitto dell’equipaggio, il cui rimborso era lento ed incerto, di supplemento al soldo ed al vitto. Il peso della trierarchia era attenuato dall’esenzione da ogni altra liturgia, dall’immunità da nuove trierarchie se non trascorso un certo lasso di tempo e dal ricorso eventuale all’antidosi. A poco a poco l’ufficio di comando fu distaccato dall’obbligo finanziario. Si compilarono liste dei triarchi; ma gli iscritti furono appena 700 od 800 su 10.000 ricchi (357-6 a. C. sotto Periandro). Demostene, con lunga campagna oratoria, riuscì a rendere più equa la distribuzione dell’onere. L’istituto ebbe qualche momento felice, quando l’emulazione tra i comandanti delle navi fece sopportare volontariamente oneri superiori alle loro forze, ed un cliente di Lisia si vanta di essere stato, nei nove anni dal 410 al 402, otto volte corego, con un dispendio di 15.000 dramme e sette volte triarca con un sacrificio di 6 talenti; ma poi la invidia politica lo guastò;

 

13)  le epidoseis erano, come le liturgie, una donazione volontaria; ma ne differivano perché erano precedute da un voto solenne ed erano destinate a sopperire ad esigenze straordinarie. Lo spirito patriottico degli ateniesi era nell’età periclea così alto che, se il voto dell’assemblea fissava un minimo ed un massimo ognuno si sforzava di arrivare colla propria offerta al massimo;

 

14)  l’eisfora, od imposta diretta straordinaria, deliberata solo per la copertura di spese di guerra o altrimenti gravi od urgenti e distribuita su tutta la fortuna, mobiliare ed immobiliare, dei cittadini. Pare che essa sia una istituzione post-periclea del tempo democratico e quasi demagogico di Cleone, quando il tesoro pubblico essendo esaurito, fu necessario ricorrere agli estremi rimedi. La materia imponibile, detta timéma, era repartita in symmorie quasi uguali tra di loro; e dentro ogni symmoria, il riparto si operava secondo un «diagramma» nel quale era iscritta la fortuna di ogni symmorita. In questo stadio del riparto, doveva aver luogo un certo controllo vicendevole.

 

 

La eisfora pare fosse proporzionale alla fortuna; ma quando le difficoltà dell’esazione si fecero sentire, l’onere del versamento dell’importo totale fu attribuito ai 300 più ricchi ateniesi, col diritto di rivalsa sugli altri contribuenti. Di fatto, poiché era opinione comune tra gli ateniesi che i ricchi dovessero pagare prima che gli altri, ed in questa opinione anch’essi, per vanità od ambizione o alto sentire, consentivano, non sempre i grandi riuscivano o si curavano di farsi rimborsare dai minori cittadini. Costoro, uomini liberi, invidiosi, potenti nelle assemblee, non di rado sicofanti denunciatori, incutevano timore; sicché i ricchi, minacciati nella vita e negli averi, si adattavano ad accollarsi l’onere delle imposte altrui. L’eisfora era tenuta per più oppressiva della liturgia. In questa il sacrificio pecuniario era compensato spesso dall’onore: il corega durante le feste quasi diventava persona sacra; il triarca comandava la nave. Il contribuente all’eisfora nulla riceveva, se non l’onere di far parte di una classe sempre minore in numero di ottimati, soggetti all’obbligo del tributo e paurosi di coloro da cui avrebbero dovuto farselo in parte rimborsare.

 

 

Il popolo inclinava a pretendere confische; ed i tribunali, più terribili quasi dell’assemblea politica, infliggevano, su accusa di demagoghi e sicofanti, ammende e confische, incomparabilmente più arbitrarie delle imposte. Il ricco, esposto alle calunnie di oratori e di demagoghi, spesso ricattatori, non poteva far assegnamento sulla imparzialità dei tribunali, sfavorevolmente disposti contro una persona agiata la quale non avesse, con la sua prontezza ad offrire spontaneamente, dato prove evidenti del suo patriottismo.

 

 

248. Il quadro della finanza della città greca nelle grandi linee è compiuto. In esso si possono, idealmente, distinguere due sottotipi.

 

 

249. Il primo può dirsi pericleo in senso proprio ed è esempio davvero stupendo della finanza propria dello stato, nel quale la coscienza politica è giunta al suo massimo fiore. Nella tabella «politica» dei fini pubblici desiderati dai cittadini periclei emergono per importanza la sicurezza, la giustizia, la difesa nazionale, la assistenza ai vecchi, ai poveri meritevoli, ai reduci, i grandi lavori pubblici intesi alla gloria eterna della città, i salari agli uomini i quali dedicano tempo e ingegno alla cosa pubblica. Nel quadro delle entrate, hanno peso notevole le imposte sui consumi, in cui è insito un certo elemento di volontarietà, i contributi delle città alleate, deliberati dall’assemblea di esse a pro della cosa comune, le imposte sui non cittadini e le liturgie ordinarie e straordinarie. In queste il senso civico del cittadino ateniese raggiunge altissima espressione; i ricchi vanno a gara nel sobbarcarsi a singole spese, da cui sperano onore a sé e gloria e potenza alla città. Non tutto è volontario nella liturgia; ché la offerta volontaria è stimolata dalla emulazione per i generosi e dal disprezzo del popolo per gli avari.

 

 

La città tocca il fastigio più alto non a causa della finanza da essa condotta, ma la finanza periclea è nel tempo stesso condizione effetto ed indice della città giunta a perfezione politica.

 

 

250. Ma l’equilibrio così istituito fra potenza politica, gloria artistica filosofica e letteraria e finanza chiaramente consentita da tutti, poveri e ricchi, è delicatissimo. Laddove Cimone, ricco e splendido, aveva divelte le siepi dei suoi campi affinché i cittadini potessero coglierne liberamente le frutta ed ogni giorno convitava i bisognosi a pasto frugale ma sufficiente, Pericle, non potendo gareggiare col rivale, ricorse al denaro pubblico per conseguire il favore popolare. Poiché gli scopi perseguiti erano vantaggiosi alla cosa pubblica e Pericle conteneva la spesa entro limiti ragionevoli, la città continuò a prosperare. Ma, già nell’epoca periclea si avvertono i germi di degenerazione e questi si accentuano a mano a mano che la democrazia guidata dagli uomini migliori si muta in demagogia capitanata da meri ambiziosi e guasta da sicofanti. Invece che dall’ambizione e dall’emulazione, i ricchi sono spinti a donare le loro ricchezze alla città dalla paura propria e dall’invidia altrui.

 

 

Nella finanza post-periclea, ai lavori pubblici splendidi, al tesoreggiamento rivolto a tutelare l’avvenire della città, alla cura vigile della difesa, si sostituiscono a poco a poco nei primi posti della graduatoria dei fini pubblici le distribuzioni di frumento a tutti i cittadini, il salario pagato a tutti coloro i quali intervengono nelle assemblee, la distribuzione gratuita degli avanzi di bilancio. Il povero diventa sempre più esigente e pone il proprio ozio a spese altrui al disopra degli interessi cittadini. Nelle entrate, le liturgie perdono sempre più il carattere volontario ed al luogo dell’emulazione e del timore della pubblica disistima sottentra il timore dell’accusa calunniosa da parte di sicofanti armati del diritto di proporre morte e confisca a tribunali popolati di gente mediocre invidiosa. Le imposte straordinarie acquistano gran peso e ne sono fatti responsabili i più ricchi, timorosi di rivalersi sui mediocri, prevalenti nelle assemblee. Agli alleati, invece di contributi liberamente discussi, si impongono forti tributi, rassomiglianti alle argirologie estorte ai popoli vinti. Atene si avvia verso la decadenza, quando le moltitudini schiamazzanti nel foro presumono di potere vivere oziosamente a carico dei ricchi e dei sudditi. Quando la finanza, invece di essere costruita in modo da far sì che i ricchi diventino sempre più ricchi ed i poveri sempre meno poveri e che la rilevanza dei ricchi scemi proporzionatamente a quella dei mediocri e degli umili, è rivolta ad impoverire i ricchi, i poveri vieppiù immiseriscono e sovratutto perdono l’amore al lavoro ed alla città.

 

 

Quando il ricco del Simposio di Senofonte può affermare ai banchettanti di essere giunto a stimare la povertà, alla quale fu ridotto, al disopra di ogni bene; perché, ricco, viveva in continua ansia per i beni e la vita; ed oggi, povero, vive sicuro, non avendo nulla da perdere e sperando di acquistar qualcosa; perché, ricco, pagava imposte alla città; ed oggi, povero, la città, mantenendolo, paga imposte a lui; quando discorsi cosiffatti traducono, anche in parte, lo stato d’animo dei ceti medi, la città decade.

 

 

Sopravvivono nei secoli i monumenti dell’età periclea, ma la città di Pericle è morta per sempre.

 

 

251. La esemplificazione potrebbe prolungarsi. Celebre è il confronto tra gli schemi opposti della finanza borbonica e di quella cavourriana il quale fu istituito nel 1857, con ardente passione politica, da Antonio Scialoia esule in Piemonte e, per dovere d’ufficio, negato da Agostino Magliano, segretario nel ministero napoletano delle finanze.[2] Spoglio di quella passione, il contrasto si può riassumere così:

 

 

  • la finanza borbonica escludeva e quella cavourriana invocava la pubblicità. Non basta la buona onesta gestione del pubblico denaro, di cui i borboni si vantavano; importa che la onestà e la bontà siano sottoposte alla prova della pubblica critica;

 

  • la finanza borbonica preferiva i tributi sui consumi, che erano inavvertiti ed era aliena dai tributi sui redditi, i quali rischiavano di scontentare i ceti medi commerciali e professionali, per abito proclivi alla critica; la finanza cavourriana non temeva di chiamare a contributo palese quei ceti, i quali avevano luogo nel governo e partecipavano alle deliberazioni sulle spese e sulle entrate;

 

  • la finanza borbonica provvedeva alle opere pubbliche atte a dare incremento all’economia del paese entro i limiti dell’aumento spontaneo delle entrate al disopra delle esigenze delle spese ordinarie, sì da far credere che l’opera fosse dovuta a generosità del sovrano; la finanza cavourriana non temeva di anticipare con prestiti l’incremento del gettito tributario e lo provocava con opere di ferrovie, di canali, di navigazione atte a crescere la produttività del lavoro nazionale;

 

  • la finanza borbonica si vantava di assicurare ai suoi popoli un minimo di gravezza di imposta; la finanza cavourriana non temeva di crescere l’ammontare assoluto dell’onere tributario, quando, per il crescere della prosperità nazionale, il margine assoluto di reddito rimasto a disposizione dei cittadini anche esso cresceva.

 

 

252. Lo stesso schema per opposizione di principii opposti si legge, ed in seguito alla medesima esperienza, nelle pagine che Francesco Ferrara aveva consacrato alla pubblica finanza e che solo ora sono venute alla luce. Anche egli, esule dalle carceri borboniche e successore di Antonio Scialoia nella cattedra economica di Torino, è tratto a confrontare la gravezza delle imposte piemontesi e la tenuità di quelle napoletane.[3]

 

 

Io vedo il Piemonte sopraffatto dalle enormità degli aggravi che sta per subire, come conseguenza di una grande impresa fallita [la guerra d’indipendenza del 1848-49]; lo vedo rassegnato e tranquillo, convinto che si tratta di una necessità ineluttabile. Non so, ripeto, se ai tempi dell’assolutismo questo medesimo popolo avrebbe mostrato un’uguale impassibilità; ma so che sarebbe impossibile far pagare con uguale rassegnazione una metà di tanti pesi al popolo di Napoli e di Sicilia, dove un solo uomo è giudice, arbitro, esecutore dei sacrifici ai quali la nazione può essere chiamata (p. 748).

 

 

Che cosa gli uomini sono pronti a pagare a titolo di imposta?

 

 

L’imposta, nel suo puro significato, non sarebbe né un sacrificio propriamente detto, né una violenza esercitata su chi la paga da un potere superiore; sarebbe piuttosto il prezzo, ed un tenuissimo prezzo, di tutti i grandi vantaggi che a ciascheduno di noi lo stato sociale, lo stato organizzato presenta. Divisi l’uno dall’altro, o appena materialmente accozzati, come furono e sono i selvaggi, saremmo, riguardo alla società organizzata, ciò che è l’animale riguardo all’uomo. Lo stato sociale ci difende dalle aggressioni individuali e generali, interne ed esterne, ci assicura il possesso dei beni, ci sviluppa l’intelligenza, ci raffina il cuore, ci dirige le azioni; e dopo aver vegliato su ciascheduno di noi, dal nostro primo vagito sino all’estremo respiro, ci dà l’ultimo e forse il più caro di tutti i conforti, ci concilia coll’idea della morte, assicurandoci che custodirà colla medesima sollecitudine i beni che abbiamo accumulato ai nostri figliuoli e farà rispettare i loro diritti come ha fatto pe’ nostri. Questa immensa utilità di cui l’abitudine ci fa dimenticare l’alta importanza, è frutto di una serie di combinazioni, le quali costituiscono anche esse un travaglio umano, un travaglio che ha un valore, un travaglio che deve essere retribuito. È frutto delle leggi e della loro esecuzione; esige uomini che le pensino, le sanciscano, le facciano rispettare e ubbidire; esige mezzi di coercizione e di facilitazione; armi, truppe, prigioni, tribunali da un lato; strade, edifici, istituzioni, scuole, soccorsi, da un altro; e ciascheduno di questi mezzi, non è creazione spontanea della natura, è opera dell’ingegno e della mano dell’uomo, è travaglio che niuno farebbe se non gli si offrisse un compenso, se non divenisse per lui ciò che è per ogni altro, mezzo di sussistenza e d’industria. Chi può offrire questo compenso? Chiunque ne goda, cioè la società tutta intiera, cioè ciascheduno di noi. Noi che dall’insieme della combinazione sociale ricaviamo sicurezza personale e reale, mezzi di sapere e d’industria, considerazione e soccorsi; noi che invece di vegliare alla custodia della nostra capacità e delle nostre famiglie, riposiamo tranquillamente la notte, lavoriamo il giorno e produciamo i nostri mezzi di vivere; noi abbiamo, non già il dovere, ma il vantaggio di staccare una frazione dei nostri beni e cederla in compenso di chi lavora per noi, di chi fa e fa eseguire le leggi; di chi veglia dietro le nostre porte, di chi offre la scuola ai nostri figli, la strada a chi viaggia, la chiesa a chi prega, l’asilo a chi è povero, l’ospedale a chi è infermo. Eccovi l’idea dell’imposta nella sua purità. Nulla di più legittimo anzi di più volontario. È un contratto fra la maggioranza della società, e quella parte degli uomini che, o per le loro speciali abilità, o per motivi che qui non interessa discutere, rappresentano l’autorità costituita, il governo. È una frazione de’ nostri valori che diamo in cambio delle utilità inerenti allo stato organizzato; e se riflettiamo che, per ciascheduno di noi, il valore è minimo, l’utilità immensa, l’idea del sacrificio quasi sparisce, l’imposta non è più che una delle nostre spese necessarie e meglio calcolate. Lo stesso vocabolo imposta, colla nozione che vi è implicata, di costringimento, di obbligo, di violenza, ci sembra male adoperato e preferiremmo chiamarla non più che semplice contribuzione (I, 551-53).

 

 

Lo schema ideale, nel quale gli uomini quasi volontariamente accettano l’imposta coattiva come premessa necessaria al raggiungimento del fine comune, non sempre si attua. Essa non è sempre «contribuzione»; talvolta diventa taglia pagata ai Ferdinandi spergiuri:

 

 

Al contadino siciliano si dà ad intendere che egli paghi [l’imposta] soltanto per averne in cambio giustizia, mezzi di lavoro, protezione; e invece ne ottiene bastonate, esili, assassini, miseria (I, 553).

 

 

Non solo sotto i Borboni, ma anche negli stati costituzionali l’imposta può essere volta a malo uso.

 

 

Come mai in un governo temperato, un cattivo ministero [può] far ligie al suo volere le camere? trovare deputati e giornali che ne coprano e difendano le colpe e l’incapacità? l’imposta racchiude e spiega tutto l’enigma. L’imposta è la grande sorgente di tutto ciò che un governo corrotto possa speculare in danno de’ popoli; l’imposta mantiene la spia, incoraggia il partito, detta gli articoli dei giornali (I, 553).

 

 

253. In fondo agli schemi i quali sono stati analizzati fin qui, vi ha un pensiero comune: come la tabella mengeriana è premessa accettata della teoria del prezzo dei beni privati perché essa «registra» i gusti degli uomini e la loro relativa importanza, così, tra le tante, ha maggiori titoli all’accettazione come premessa per la teoria dell’imposta quella tabella «politica» la quale meglio delle altre sia frutto della volontà dei cittadini.

 

 

S’intende che vi può essere una volontà, come quella della città post periclea o del governo dei Borboni la quale, anche col mezzo di imposte a tipo di taglia, porta lo stato alla rovina; e vi può essere una volontà, come quella della città periclea o dello stato cavourriano che, grazie ad imposte-contribuzioni, procaccia gloria eterna al tempo ed al luogo in cui si manifestò.

 

 

Il teorico dell’imposta registra quelle due volontà e costruisce le teorie della imposta-taglia e dell’imposta-contribuzione. Lo storico inserisce i due schemi opposti nel quadro delle cause che condussero lo stato alla rovina od alla grandezza.

 

 

Come quella volontà si manifesti è incertissimo. Lo studio, che dovrebbe essere storico e perciò applicato concretamente a dati momenti e tempi, è appena iniziato. Forse il solo saggio notabile insieme per la potenza teorica e la concretezza storica è quello, già citato, di Maffeo Pantaleoni, il quale teorizza la formazione della volontà finanziaria nell’Italia del 1883. Quello schema, conforme alla realtà d’allora, non avrebbe avuto valore cinquant’anni prima e non sarebbe valido ora. Resta un modello per gli investigatori di ogni tempo.

 

 

254. Accanto a questi che si riferiscono ad esperienze storiche passate, merita ricordo lo schema wickselliano di registrazione della volontà dei cittadini rispetto alle pubbliche spese ed entrate[4] sia perché fu composto da un economista di prim’ordine, sia perché dichiara con suggestiva ingenuità quali condizioni dovrebbero essere soddisfatte nei moderni regimi rappresentativi affinché la domanda dei servizi pubblici potesse essere assimilata a quella dei beni e servizi privati.

 

 

Il Wicksell constata:

 

 

  • che le deliberazioni di maggioranza semplice dei parlamenti contemporanei non danno alcun affidamento di registrare la volontà comune o generale dei cittadini. La tirannia di una eccezionale maggioranza parlamentare non è meno «odiosa» di quella delle antiche oligarchie. Egli scriveva in un tempo (1896) in cui la maggioranza spettava ancora, in gran parte, alle classi alte e ricche, le quali sceglievano tipi e grandezza di spesa e tipi di imposte conformi ai proprii interessi e perciò intendeva proporre un metodo che impedisse sovratutto le manifestazioni di egoismo di quelle classi. Ma affermava che l’applicazione di quel metodo era anche nell’interesse delle medesime classi alte e ricche. Il loro predominio politico non poteva durare eterno; ed era opportuno che anche le classi lavoratrici, giungendo al potere, avessero già trovato operante un metodo, il quale, come prima avrebbe tutelato gli umili contro le sopraffazioni dei grandi, così dopo avrebbe difeso i grandi contro gli umili;

 

  • che nessuna spesa pubblica può essere veramente considerata utile alla collettività se non «sia riconosciuta come tale da tutte le classi sociali senza eccezione». Pare al Wicksell palesemente ingiusto «obbligare a partecipare al costo di determinate misure non solo chi non trae da esse alcun vantaggio, bensì addirittura chi ne risente un danno immediato»;

 

  • che la volontà di compiere la spesa non può essere considerata seria se nel tempo medesimo in cui essa è deliberata, non si deliberi altresì intorno al metodo da seguire per la ripartizione sui cittadini del relativo costo. La deliberazione della spesa non può essere dunque scissa dalla deliberazione contemporanea della correlativa entrata; il che soltanto, secondo il Wicksell, rende inoltre possibile quella «unanimità e spontaneità» delle decisioni la quale è la sola garanzia che la spesa sia voluta dall’universale;

 

  • che, nello stesso modo come la deliberazione della sola spesa per sé, astrazion fatta dall’entrata, non è cosa seria, così la deliberazione della spesa a condizione che essa sia coperta da «quella» entrata e non da altre, è praticamente impossibile. Attorno ad una spesa, per quanto bene accetta, non si forma maggioranza, anche semplice, quando la maggioranza sia costretta a collegare la spesa con una data imposta, la quale può essere invisa ai più. Sono però talmente numerose e varie le combinazioni le quali si possono fare di tale e tale spesa con tale e tale entrata, che, se davvero una spesa risponde ad un interesse collettivo, si può essere certi del suo accoglimento.

 

 

Esistono centinaia di modi di ripartire fra le varie classi sociali i costi di una progettata spesa pubblica: dal semplice testatico alle tasse abbastanza simili sulla farina, sul sale, sulle bevande spiritose, ecc., sino all’imposta progressiva sui redditi, sul patrimonio o di successione e sino anche alle imposte indirette di lusso. Sarà quindi sempre possibile teoricamente, ed in modo approssimativo anche praticamente, giungere ad una tale ripartizione dei costi che la spesa relativa, non appena ad essa corrisponda un’utilità superiore ai costi, venga riconosciuta conveniente da tutti i partiti e venga perciò approvata all’unanimità. Se ciò non fosse possibile in alcun caso, si avrebbe così una prova a posteriori, l’unica possibile, che l’attività pubblica in questione arrecherebbe alla collettività un utile non corrispondente al sacrificio necessario, e che essa dovrebbe quindi, razionalmente, essere respinta (p. 95).

 

 

255. La unanimità della decisione, contemporanea per ogni data spesa e per la corrispondente entrata, è l’unico criterio che possa avvicinare la tabella «politica» a quella mengeriana. Se «tutti» sono concordi nel ritenere che la spesa di 1 miliardo di lire per il raggiungimento di un dato fine pubblico è la migliore destinazione, fra le tante private e pubbliche possibili, di quel miliardo è se «tutti» sono parimenti concordi nel ritenere che quella tale imposta, la quale arrecherà ad ognuno un dato onere ben conosciuto e determinato, è il miglior modo di ripartire quel costo, fa d’uopo riconoscere che la tabella «politica» non differisce davvero in nulla dalla tabella mengeriana. Qualunque sia l’imposta scelta, sia pure di testatico o, all’opposto, progressiva in modo da avocare allo stato il 100% del reddito al disopra di un dato livello; se essa è voluta da «tutti», è certo che essa è accettata anche da coloro a cui apparentemente riesce dannosa; ed è perciò certo che anche costoro reputano essere il sacrificio sopportato minore del vantaggio ottenuto dalla pubblica spesa. Il che è precisamente quel che accade per i beni privati. Se un bibliofilo spende l’ultimo migliaio di lire rimastogli per acquistare il libro raro desiderato, chi parla di «avocazione» al libro dell’intiera fortuna del bibliofilo? Contento lui, contenti tutti. Così se il cittadino sacrifica volontariamente sull’altare della patria l’ultimo soldo, chi parla di confisca? Il sacrificio fu voluto da lui e ciò basta.

 

 

256. Caratteristica dell’unanimità e della contemporaneità (fra spese ed entrate singole contrapposte) è l’assenza, per i beni pubblici, così come pacificamente accade per i beni privati, di ogni paragone fra cittadino e cittadino. Non occorre fare il confronto fra i vantaggi differenziali (vantaggio della spesa pubblica meno costo dell’imposta) ottenuti dai singoli; non occorre alcuna condizione di uguaglianza o proporzionalità fra essi. Nessun uomo, quando fa un acquisto, decide di non comprare solo perché, comprando, egli sarebbe avvantaggiato di meno dell’amico o del vicino. Ognuno bada a sé; e compra, se gli conviene. Se poi all’amico o vicino conviene ancor di più che a lui, tanto meglio per l’amico o il vicino. Fanno eccezione alla regola solo i contadini piccoli proprietari, i quali volentieri rinunciano al proprio vantaggio di 1000, purché il vicino non lucri 100; ma tutti sono d’accordo nel dire che un siffatto modo emulativo di ragionare è proprio di ceti peculiari e tende ad obliterarsi persino tra i contadini a mano a mano che si affina la loro capacità raziocinativa economica.

 

 

257. Il sistema wickselliano incontra per fermo, nel pensiero medesimo dell’autore, talune difficoltà rilevanti nella sua applicazione. La prima è la impossibilità in cui si trovano i cittadini, salvo che nei più piccoli cantoni svizzeri, di deliberare direttamente sulla cosa pubblica. La deliberazione avviene sempre a mezzo di delegati, scelti nelle maniere più svariate. Chi garantisce che la volontà dei cittadini sia fedelmente riflessa dalla deliberazione dei delegati? La difficoltà, tuttavia, perde quasi tutto il suo vigore, se si pensa che le deliberazioni debbano essere unanimi. Fra i delegati vi è certamente qualcuno il quale rappresenta i desideri e le volontà delle minoranze più piccole. Per legittima ambizione di potere, per interesse elettorale o proprio, sempre vi ha taluno pronto a farsi innanzi a tutelare l’interesse o le aspirazioni di gruppi minimi di cittadini; sicché, nel do ut des delle deliberazioni collettive, qualunque interesse ha modo di farsi sentire.

 

 

258. La seconda è la impossibilità delle deliberazioni unanimi. Sarebbe, viene spontanea l’obbiezione, un risuscitare il liberum veto del nobile polacco, il quale condusse a rovina la Polonia.

 

 

Il Wicksell ammette perciò che l’unanimità debba intendersi in senso relativo come maggioranza speciale dei due terzi, dei quattro quinti od anche se si vuole, dei nove decimi dei delegati. Una votazione avvenuta a maggioranza così alta è in sostanza uguale alla unanimità. È suggestivo seguire il Wicksell nella esposizione del sistema:

 

 

Ogni proposta di nuova attività dello stato o di ampliamento di attività esistenti proveniente dal governo o da una frazione parlamentare dovrebbe essere costituzionalmente accompagnata da una o più proposte alternative circa la ripartizione dei costi relativi. Le altre frazioni parlamentari dovrebbero quindi introdurre i loro eventuali emendamenti sia per quel che riguarda la spesa da approvarsi, sia per quel che concerne i mezzi destinati a coprirla.

 

Si dovrebbe quindi procedere alla votazione sui singoli emendamenti in parte concordati ed in parte no, all’incirca nel modo seguente:

 

 

Proposta di nuova attività statale

Tipo di imposta correlativo

 

Votazione

 

a

 

b

Proposta principale A

 

c+d

 

e

 

f

 

 

a

Emendamenti A’

e

 

g

 

 

b

Emendamenti A’’

h

i+k

 

ecc.

 

 

Qualora con una di queste votazioni si sia raggiunta la maggioranza necessaria, dei tre quarti, cinque sesti o addirittura nove decimi dei votanti, la vittoria toccherebbe alla relativa combinazione (ad esempio proposta principale A con imposta e, ovvero emendamento A’’ con imposta i+k); se in parecchie di quelle votazioni si ottenesse la maggioranza necessaria, si potrà decidere fra di esse semplicemente ad esempio tenendo conto della maggioranza relativa di voti; se infine nessuna delle votazioni raggiungesse la maggioranza necessaria, si dovrebbe considerare come respinta per questa volta la proposta in questione (p. 68).

 

 

La riduzione od abolizione di talune spese e relative entrate seguirebbe nel medesimo modo. Una piccola minoranza dei delegati, suppongasi un decimo, avrebbe diritto di richiedere la abolizione dell’entrata e perciò della spesa relativa, e toccherebbe alla maggioranza speciale, quando voglia conservare la spesa, mettersi d’accordo nell’approvare un’altra corrispondente entrata.

 

 

259. Il metodo della contemporaneità delle deliberazioni – spesa e relativa copertura – agevola la distribuzione dell’onere di particolari spese a carico di quelle regioni o di quelle classi che dalla spesa traggono particolare beneficio. Se una minoranza di un decimo ha il diritto di mettere nel nulla spesa ed imposta, nessuna regione e nessuna classe ha ragione di sentirsi lesa da essa quando sia approvata. Se tale si sentisse, non avrebbe che da respingere la proposta. E perché la maggioranza dovrebbe rifiutare il consenso ad una imposta che il gruppo interessato è pronto a pagare?

 

 

260. Potrebbe dubitarsi che l’obbligo della contemporaneità delle deliberazioni relative all’entrata ed alla spesa faccia rivivere il sistema dei bilanci speciali, contro il principio fondamentale del bilancio unico prevalente nelle legislazioni moderne. In verità, è pacifico che tutte le spese statali debbano essere soddisfatte dall’unica cassa generale del tesoro e tutte le entrate debbano affluire alla stessa cassa. La creazione di bilanci speciali, grazie a cui determinate entrate affluiscono a pro di un bilancio particolare destinato a sovvenire a particolari spese, dà luogo ad un dilemma dannoso. Se le entrate sono inferiori alla spesa necessaria, il servizio è insufficientemente alimentato e soffre, con danno della cosa pubblica. Se le entrate superano le spese, gli amministratori del bilancio speciale credono di avere diritto ed interesse a spendere tutto ciò che affluisce alla loro cassa. Il denaro pubblico è sprecato, nel momento medesimo in che altri servizi sono insufficientemente dotati. Il controllo sulle entrate e spese è affievolito a causa dell’esistenza di particolari nascondigli, nei quali si accumulano piccoli tesori, che i gestori hanno interesse a sottrarre all’attenzione pubblica. Alla regola aurea che tutto arriva e tutto parte dall’unica cassa del tesoro debbono essere fatte perciò pochissime eccezioni, giustificate da particolari fortissime ragioni.

 

 

Lo schema wickselliano non turba tuttavia l’attuazione del principio del bilancio unico. La votazione simultanea delle entrate e delle spese ha valore puramente costituzionale. Di fatto, il grosso delle entrate e delle spese di ogni stato è eredità del passato e non è argomento di discussione. Non vi sono dubbi, ad esempio, sulla necessità di far fronte al servizio degli interessi e degli ammortamenti contrattuali del debito pubblico. Nessun partito, nessun gruppo si assume la responsabilità di far perdere la faccia allo stato. Lo stesso si dica per il grosso delle spese per la difesa, per la giustizia, per la sicurezza, per l’igiene, per l’istruzione, per le strade, ecc. ecc. Le discussioni ed i dubbi in realtà sorgono al margine: per le nuove spese che taluno vuole introdurre, per le vecchie spese che il tempo ha obliterato e della cui necessità pochi ormai hanno consapevolezza.

 

 

Solo in questo momento ha valore il principio della contemporaneità. Il gruppo il quale propone la nuova spesa, ha l’obbligo di proporre, nel tempo stesso, l’inasprimento di qualche vecchio o la istituzione di qualche nuovo tributo. Il gruppo, il quale male soffre una vecchia imposta, ha l’obbligo di proporre altresì l’abolizione del servizio che originariamente o per deliberazione successiva di carattere costituzionale era stato collegato con quella imposta. Solo in tal modo le deliberazioni hanno carattere di serietà.

 

 

Quando spesa ed imposta siano tuttavia state approvate, il legame tra esse rimane sospeso, sino al momento di una eventuale proposta di cessazione del servizio od abolizione del tributo. Il provento dell’imposta non è assegnato al servizio particolare, ma affluisce nella cassa generale; e questa provvede alle spese del servizio; sia o non bastevole ad esse il provento dell’imposta. Né ciò può far sorgere il pericolo che una spesa sia votata a cuor leggero contrapponendovi una imposta nominale di nessun conto; ché l’onere del servizio dovrà pur essere coperto con altre imposte o con l’uso del maggior gettito delle imposte esistenti; e rimarrà sempre in facoltà di una piccola minoranza di pretendere l’abolizione delle altre imposte o l’attenuazione delle aliquote dell’imposta a gettito cresciuto. Se la maggioranza dei quattro quinti o dei nove decimi delibererà di conservare lo statu quo, ciò vorrà dire che questo è da essa reputato meno dannoso della cessazione del servizio, il quale dovrebbe in caso contrario necessariamente venir meno.

 

 

Fuor dei due momenti iniziale e terminale il collegamento fra entrate e spese vien meno; e la regola del bilancio unico impera sovrana.

 

 

261. Il vero pericolo insito nel sistema della quasi unanimità è l’ostruzionismo. Una piccola minoranza, di un quinto o di un decimo dei delegati, potrebbe impedire il funzionamento dello stato; se ad essa non fossero fatte concessioni forse esorbitanti. Il diritto di veto della minoranza può essere arma perniciosa di ricatto in mano a minoranze prive di scrupoli. Il Wicksell non si turba perciò di soverchio:

 

 

Gli ostruzionismi sono l’arma della disperazione, le vendette meschine di minoranze i cui diritti sono calpestati (p. 128).

 

 

Qui si va alla radice del giudizio intorno allo schema wickselliano. Esso non può presumere di raffigurare la realtà di un momento storico. Sebbene nel pensiero del suo ideatore, esso fosse una proposta di perfezionamento delle costituzioni democratico-rappresentative esistenti nel suo tempo, pare tuttavia contrario all’esperienza storica supporre che un sistema di governo rappresentativo, sia a suffragio ristretto che universale, possa operare alla condizione posta da Wicksell: nessuna spesa e nessuna imposta potersi approvare se non con alta maggioranza speciale. Per potere affermare siffatta possibilità farebbe d’uopo avere osservato qualche luogo o tempo nel quale lo schema sia stato applicato con risultati favorevoli. Poiché siffatta esperienza non è nota, dobbiamo classificare lo schema tra quelli utopistici. Esso merita studio, come ogni altra «utopia», solo in quanto riassuma, in forma schematica, qualche aspetto della esperienza storica.

 

 

262. Lo schema wickselliano può essere considerato, in primo luogo, come l’astrazione teorica di un fatto storicamente reale: la consapevole delegazione della potestà tributaria ad un capo scelto da uomini giunti ad un alto grado di perfezionamento intellettuale e morale.

 

 

Rimanendo sempre nel campo della esperienza storica passata si ebbero nella storia del mondo epoche od attimi felici: l’Atene di Pericle, la città fiorentina in taluni momenti del duecento e del trecento, la Francia di Enrico IV e di Bonaparte primo console, l’Inghilterra di Beaconsfield e di Gladstone, il Piemonte del decennio cavourriano. In quelle epoche il consiglio decisivo spettò alla valentior pars della società; a quelle che Federico Le Play chiamò le autorità sociali e Platone definì nelle Leggi:

 

 

Vi sono sempre in mezzo alle moltitudini alcuni uomini divini, non molti invero, la cui consuetudine è d’un valore inestimabile; essi nascono non più negli stati ben ordinati che negli altri e chi vive negli stati bene ordinati, deve, per terra e per mare, mettersi continuamente sulle tracce di questi uomini incorrotti, in parte per raffermare quanto vi è di buono nelle istituzioni del proprio paese, in parte per correggerle, se v’è qualche difetto. Giacché senza queste osservazioni e ricerche… la perfezione dello stato non è mai durevole (trad. di A. Cassarà, libro XII, V, pp. 398-99; nella collezione dei «Filosofi antichi e medioevali» del Laterza).

 

 

In quelle epoche, per consiglio dei saggi, il comando spettò all’uomo od ai pochi uomini, che colla condotta privata, con l’altezza dell’ingegno, con le opere di pensiero o di azione compiute erano di esempio e di guida alla folla. In quell’attimo la città non sopraffece l’individuo e non lo considerò strumento nelle sue mani per fini posti fuori dell’umanità e l’individuo non suppose di essere estraneo al consorzio dei suoi cittadini, ma vivendo nella città esaltò se stesso e gli altri.

 

 

In quell’attimo gli ottimati dirigenti non furono i plutocrati od i demagoghi, i politicanti parlamentari od i cortigiani servili. Accadde, miracolosamente, ossia per il combinarsi di circostanze svariatissime che solo l’occhio sperimentato dello storico può precisare, che in quell’attimo gli ottimati furono i migliori, fossero essi scelti, come Sully, da un re assoluto, designati, come Bonaparte primo console, dalla vittoria militare, o come Cavour venuti fuori dalle urne elettorali; i migliori, ossia coloro che per conoscenza degli uomini, per esperienza di vita, per altezza d’ingegno, per attitudine al comando ed all’azione potevano guidare la nazione.

 

 

Quegli ottimati non erano quasi mai concordi nei particolari dell’azione, nella scelta dei mezzi per raggiungere il fine. Erano concordi solo nel fine, che era la grandezza della loro patria, raggiunta per mezzo della elevazione degli individui componenti la società. Non concepivano più grande e glorioso lo stato, se migliori non erano i cittadini. Essi erano stati scelti ed erano giunti al sommo del potere perché i cittadini, se non ancora erano fatti buoni, sentivano l’aspirazione al meglio ed istintivamente od ammaestrati da durissime esperienze scartavano i cattivi consiglieri e si affidavano ai buoni.

 

 

Si affidavano, il che voleva dire che ponevano i loro averi e le loro vite in mano ai capi che avevano scelto, sicuri che dalla prontezza della loro volontà di sacrificio sarebbe derivato più tardi vantaggio forse a sé e certamente ai loro figli.

 

 

263. In quegli attimi, v’era unanimità nella deliberazione delle spese e delle entrate pubbliche. Se il meccanismo wickselliano fosse stato legge costituzionale durante quegli attimi, non vi sarebbe stato traccia di ostruzionismo. Ogni volta, per ogni capitolo di spesa e per ogni tipo di imposta si sarebbe trovata la combinazione atta a raggiungere l’unanimità del suffragio. Ciò non sarebbe tuttavia accaduto perché fosse scritto nelle tavole costituzionali, sibbene perché tale era la volontà meditata della valentior pars e questa era seguita dal consenso unanime dei cittadini.

 

 

264. Lo schema utopico wickselliano è, in secondo luogo, l’astrazione teorica di un altro fatto storico, rarissimo, ma non ignoto del tutto. Se per qualche generazione, gli uomini si elevano intellettualmente e moralmente, se non si formano gruppi plutocratici o demagogici corruttori, se qualche dura esperienza ha dimostrato la inutilità delle sopraffazioni di ceti o di classi, se le forze dei ceti sociali sono tra loro equilibrate ed i ceti medi consentono l’ascesa del popolo e fanno da argine al prepotere dei plutocrati, accade, è accaduto che si sia diffusa nel paese l’atmosfera del «compromesso».

 

 

265. Parla il rappresentante ottantenne della terza generazione di una dinastia di economisti e filosofi, la quale ha illustrato la capitale del calvinismo, e cioè la sede di una un tempo intollerantissima tra le religioni protestanti:

 

 

Giovane, ho fatto anch’io le fucilate nel cortile e sulle scale del palazzo di città. Poi, ci siamo rassegnati a non vincere ed a tollerarci a vicenda. Il risultato della nostra vita di compromesso è che noi ginevrini paghiamo imposte forse ignote, per altezza, in altre parti del mondo. Sono contribuente a Ginevra, e, a due passi di qui nella Savoia francese; e pago, proporzionatamente ai redditi rispettivi, tre volte più di imposta a Ginevra che in Savoia. Eppure di pagar tanto di più sono contento. So perché pago. Vedo i servizi che mi sono resi. Ho discusso, direttamente o per mezzo dei miei rappresentanti, soldo per soldo ogni aumento di spesa ed ogni aumento di imposta. Così, dappertutto, nei nostri cantoni. Un mio allievo, ticinese, mi raccontava che nel suo villaggio discussero per anni intorno all’erezione di un’umile fontana pubblica di acqua. Alla fine tutti erano persuasi. Anche coloro che non son persuasi, accedono, dopo la deliberazione della maggioranza, all’opinione altrui e la fanno propria. La «accessione» della minoranza all’opinione della maggioranza è la vera sanzione della spesa pubblica. Sono convinto che solo così le spese pubbliche sono tempestive ed utili alla collettività.

 

 

266. Così parlava il saggio. Dalle sue parole riterrò solo quella di «accessione». Lo schema wickselliano può passare dal terreno dell’utopia in quello della realtà operante quando una combinazione eccezionale di circostanze storiche ha creato l’atmosfera del compromesso e dell’accessione. Compromesso, che vuol dire persuasione a poco a poco divenuta generale che nessuno dei ceti sociali, dei gruppi economici, delle correnti di pensiero ha tanta forza di vincere del tutto gli altri; sicché, nella discussione dei contrastanti punti di vista, della scelta da farsi tra fini e mezzi, ogni gruppo è indotto ad abbandonare la parte più caduca della propria tesi ed a ridursi all’ultima trincea del nucleo essenziale di essa, il quale non può essere abbandonato senza rinunciare alla propria ragion d’essere. All’ultimo, prevale la maggioranza. Ma la maggioranza sa che la sua vittoria non sarebbe durevole se essa non fosse seguita dalla accessione della minoranza. Avvenga con o senza votazione formale, la decisione è di compromesso solo quando è seguita dalla accessione; quando cioè la minoranza, a compromesso avvenuto, fa propria la tesi della maggioranza, nel senso di dare opera alla sua attuazione con la stessa lealtà e la medesima fede come se la tesi fosse sempre stata sua.

 

 

Perché vi sia accessione, è necessario che la maggioranza non spieghi tutta la forza di cui è capace; fa d’uopo si arresti cioè al punto nel quale la vittoria del proprio ideale, la consecuzione del proprio fine vorrebbe dire distruzione e rovina o anche solo gravissimo nocumento per il vinto. Se la maggioranza è capace di così trattenersi sulla via del trionfo sui concittadini, il suo trionfo è compiuto, perché si trasforma nel volere concorde di tutti, vincitori e vinti.

 

 

267. In questo quadro storico muore l’imposta e nasce la «contribuzione»che avevano vagheggiato i fisiocrati[5] e Francesco Ferrara. È necessario dire che l’orgoglio col quale il saggio di Ginevra mi parlava delle altissime contribuzioni da lui pagate, e quello col quale Antonio Scialoia additava ai napoletani quelle, pur alte, consapevolmente pagate dai piemontesi del tempo di Cavour sono fatti rari nella storia?

 

 

268. Wicksell poneva un meccanismo costituzionale nel luogo dove deve essere collocata l’esperienza storica. Per sé, il meccanismo costituzionale è il nulla. L’ho ricordato solo per chiarire come sia eterna nei teorici la aspirazione ad estendere il dominio della tabella mengeriana dal campo della vita privata a quello della vita pubblica. Il paradosso supremo della imposta e cioè la inapplicabilità della tabella mengeriana alla finanza e la necessità di trovare ad essa un surrogato sono alla radice degli schemi «politici» dell’imposta. La maggior parte degli schemi che si possono astrarre dalla esperienza storica sembrano dar ragione a coloro i quali, come Marx, li proclamano frutto esclusivo degli interessi della classe economicamente dominante o, come Pareto, derivazioni pseudo logiche messe avanti dai gruppi politici governanti. Ebbero però esistenza storica anche gli schemi della città periclea, del decennio cavourriano, della finanza di compromesso con accessione. Bastano queste esperienze per dare, in materia tributaria, diritto di cittadinanza a schemi proprii in apparenza della città ideale. Sono essi, tuttavia, meri schemi di «utopie» sogni chimerici di quel che «dovrebbe essere» o leggi storiche della realtà che «è» e vive ed opera? Pure qui, nell’umile campo dei tributi, si rinnova l’eterna contesa fra l’essere e il dover essere, fra il reale e l’ideale, fra quel che si vede si tocca e pesa su di noi e la meta invisibile diuturnamente forse vanamente perseguita alla quale l’animo nostro aspira. V’ha taluno il quale nel mondo vede solo oppressi ed oppressori, classi soggette e classi dominatrici; e crolla tristemente il capo a sentir parlare della ragione come della regolatrice delle cose umane. Ognuno di noi è costretto talvolta dall’esperienza vissuta e contemplata a far propria la trista disperata conclusione. Nelle teorie messe innanzi a spiegare il perché degli accadimenti umani, e, nel campo nostro tributario, il perché delle imposte esistenti, siamo spesso forzati a vedere solo strumenti pseudo-logici utili a coonestare il fatto bruto dell’imposta prelevata a carico dei dominati a vantaggio dei dominatori. Poiché le imposte sono, in ogni tempo e luogo, quelle che sono, queste soltanto, si pensa, importa studiare, di queste analizzare il meccanismo, di queste conoscere le ragioni d’essere e gli scopi a cui servono. Importa conoscere i sentimenti ed i ragionamenti i quali furono alle radici delle imposte che furono e sono, non di quelle che possono essere costrutte sulla base della pura logica. Può darsi che i ragionamenti addotti dai legislatori a spiegare questa o quella imposta esistente siano pseudo-ragionamenti, può darsi che in fondo alla «formula politica» (Mosca) od alla «derivazione» (Pareto) addotta nei documenti legislativi a spiegare quell’imposta si trovi il nulla logico, può darsi che formule e derivazioni siano mere «illusioni» (Puviani). Che monta? La «scienza» si occupa delle imposte «che sono» non di quelle «che mai non Furono», scruta le leggi dei «fatti» non delle «utopie»; vuol giungere alla conoscenza delle origini e delle variazioni degli istituti che esisterono nel passato ed esistono oggi, non di quelli che sono scritti sulla carta dei loici. Poiché la finanza periclea ebbe realmente vita, essa deve essere studiata, uno tra i mille e mille fatti empirici dei quali gli annali umani conservano il ricordo; ma poiché le finanze di Dionigi il grande e di Cleone il demagogo occupano negli annali medesimi ben più lungo e ripetuto corso di tempo, le leggi delle finanze di Dionigi e di Cleone, della finanza monopolistica (De Viti) e di quella demagogica, debbono essere studiate con ben maggior attenzione di quelle delle finanze di Pericle, del capo scelto dalla volontà unanime e spontanea del popolo. Quella è la realtà quotidiana di tutti i tempi e di tutti i luoghi, questa è la realtà dell’attimo fuggente. La «scienza» deve pesare i fatti secondo la loro importanza effettiva e dare ad ognuno di essi il luogo che essi in verità hanno avuto ed hanno nella storia degli uomini: una pagina a Pericle ed un volume a Dionigi ed a Cleone.

 

 

269. Ebbene no. Questa è falsa storia ed è falsa teoria. I fatti accaduti non si misurano in ragion del tempo da essi occupato, dello spazio a cui si estesero, dei popoli che ne furono attori o spettatori. Vi è tal fatto che vale milioni di altri fatti di uguale e maggiore dimensione nel tempo e nello spazio. Tra la breve predicazione di Cristo ed il lungo ed agli occhi dei contemporanei fortunato e glorioso reggimento di Filippo II o di Luigi XIV vi è l’abisso. Quella predicazione mutò veramente le sorti del mondo, fece gli uomini diversi da quel che erano; quei gloriosi reggimenti a malapena riuscirono ad increspare le lievi onde della storia di una parte d’Europa. Potenti ed umili, sapienti e semplici, raffinati e primitivi, buoni e malvagi ricordano e ricorderanno nei secoli la parola di Cristo, laddove di Filippo II e di Luigi XIV leggono gli scolari nei libri di testo e discorrono dottamente gli storici, ma forse col tempo non discorreranno neppur più. I massacri di settembre, gli ultimi giorni di Maria Antonietta, la fuga di Varennes, gli affogamenti di Nantes, il mistero di Luigi XVII e di Naundorff hanno fornito e forniranno materia inesausta a libri eruditi commoventi appassionanti alla Lenotre; ma lo storico indugerà nei secoli a studiare il movimento di idee e le trasformazioni sociali che condussero alla dichiarazione dei diritti dell’uomo. Noi leggiamo con interesse vivo in Le Pesant de Boisguillebert, in Vauban, in Pompeo Neri le notizie particolari delle disuguaglianze nel reparto delle imposte a pro dei potenti, dei nobili, del clero, delle città contro i deboli, i plebei, i contadini; ma perché quelle notizie non sono mera cronaca delizia degli eruditi e gioia degli amatori di tempi perduti? perché Boisguillebert e Vauban e Neri le innalzarono a ragion di critica contro gli ordinamenti effimeri della decadente monarchia francese e della Lombardia spagnuola, perché sotto i colpi del loro ragionamento quegli ordinamenti, che pure erano un fatto, vennero meno ed al loro luogo trionfò l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini dinnanzi all’imposta.

 

 

270. Esiste dunque una gerarchia nei fatti accaduti; e non è né storico né teorico chi non la sa vedere. La gerarchia esiste anche in quell’umilissima categoria di fatti accaduti che si dicono di imposte e di finanze. Anche essi, sebbene attinenti al «vil metallo» hanno una propria varia dignità. Lo storico e il teorico non sono liberi di dare ad ogni imposta, ad ogni sistema di finanza, ad ogni schema di provvista dei mezzi necessari alla cosa pubblica lo stesso peso. Fa d’uopo cercare attraverso la rude corteccia del fatto bruto, dell’imposta empiricamente esistente in ogni tempo ed in ogni paese il nocciolo essenziale, l’idea informatrice, la meta ultima. Se noi, per un istante, chiamiamo «periclea» la finanza ideale, e «quotidiana» quella corrente di fatto nei diversi tempi e luoghi, dico che lo storico il teorico deve sovratutto avere lo sguardo rivolto alla finanza periclea.

 

 

La finanza «quotidiana» è la finanza a cui gli uomini debbono diversamente ubbidire nei diversi luoghi e tempi. Debbono ubbidire perché l’ordine politico e la convivenza sociale sarebbero distrutti se gli uomini non ubbidissero con pienezza di ossequio alle leggi vigenti. Essa è un fatto, degno di studio e di meditazione. Giustamente i trattatisti ne indagano le leggi empiriche, riconnettendola ai miti, alle formule, alle derivazioni invalse nella comune opinione del tempo ed interpretandola in base all’ordinamento generale del diritto pubblico e privato. Ma essa, la finanza «quotidiana» è un fatto apparente, precario, transeunte. È materia bruta alla quale non può essere data vita perenne da meri miti, formule, derivazioni, opinioni invalse e costruzioni giuridiche.

 

 

Accanto ad essa, la finanza «periclea» sembra priva di sostanza, sogno utopistico; ed è invece la realtà vera. Nel cuore degli uomini essa è la sola viva. Di fronte all’altra, essa è giudice ed esecutrice delle alte opere di giustizia. L’imposta «quotidiana» deve presentarsi alla sbarra del tribunale della «contribuzione» fisiocratica e ferrariana (cfr. sopra paragrafi 252 e 267); e lì deve rassegnarsi ad essere giudicata. Gli uomini, quando ragionano dell’imposta «quotidiana» e discutono se essi debbono conservarla o riformarla o mutarla, hanno fisso dinnanzi agli occhi della mente l’ideale pericleo. Anche se essi sono in apparenza mossi a riformare o distruggere da un altro mito tributario, in verità così fanno perché sono rosi dal dubbio logico. Il demone della ragione turba il loro senso di ubbidienza agli ordini correnti e li persuade a confrontare il fatto quotidianamente sofferto e l’ideale intravisto; ed essi, riconoscendo il fatto calante in confronto all’ideale, lo vogliono mutato ed alla lunga lo mutano.

 

 

Il mutamento ha luogo attraverso tentativi faticosi di avvicinarsi a quell’ideale di finanza periclea che già aveva fornito le armi logiche per negare il fatto bruto esistente. La nuova realtà la quale verrà fuori dal contrasto tra la finanza «quotidiana» e quella «periclea» non sarà in tutto questa, forse sarà da essa diversa e lontana. Talvolta accade che, al termine del conflitto, la nuova realtà sia inferiore a quella abbattuta, inferiore perché più lontana dall’ideale pericleo. Ma questa resta la meta alla quale gli uomini, attraverso sforzi ripetuti, non di rado vani, tendono. Essa è dunque, nel tempo stesso, strumento di critica perenne contro la finanza quotidiana e meta verso la quale gli uomini camminano.

 

 

271. Lo sforzo di attuare la finanza periclea, la ottima imposta, si applica, oltreché agli istituti fondamentali, a quelli peculiari dell’ordinamento finanziario. Lo storico di grande marca studia le cause finanziarie della decadenza dell’impero romano, della rivolta delle tredici colonie americane contro l’Inghilterra o della rivoluzione francese. Il modesto storico della finanza si attarda con predilezione nell’indagare perché l’imposta a superficie si sia a poco a poco trasformata in imposta a decima e questa in quella sul prodotto netto; vi si attarda perché vede in siffatte mutazioni l’idea corrodere invincibilmente il fatto antico e mutarlo nel fatto nuovo. L’imposta primitiva di lire dieci, suppongasi, per ogni jugero o giornata o campo fu accettata dagli uomini finché essi pascolavano o coltivavano jugeri gli uni simili agli altri, i migliori tra i pascoli o tra i campi esistenti. L’intelletto umano vedeva il fatto razionale nel fatto bruto e ad esso si inchinava. Quando, moltiplicandosi gli uomini sulla terra, dovettero essere pascolati o coltivati terreni inferiori, la ragione reputò iniquo che i terreni cattivi dovessero pagare 10 lire per ogni jugero al pari dei buoni; e reputò ancora più iniquo, che in conseguenza di siffatto modo di pagare tributo, talun privato si locupletasse senza vantaggio della cosa pubblica. Infatti se tutti gli jugeri pagano 10 lire; ma il peggior jugero che deve essere messo a cultura per soddisfare il bisogno di cibo della popolazione frutta 5 sacchi, ecco il costo del frumento prodotto sullo jugero peggiore crescere, a causa dell’imposta, di 2 lire a sacco; e, poiché nessun sacco di frumento può essere sul mercato venduto a prezzo diverso da quello di ogni altro sacco, ecco il prezzo di tutto il frumento, tratto dai terreni buoni, da quelli mediocri e da quelli cattivi, crescere di 2 lire a sacco. Epperciò il proprietario del buon terreno dai suoi 20 sacchi cava 40 lire di più, e quello del terreno mediocre dai suoi 10 sacchi 20 lire di più; ma poiché tutti, buoni mediocri e cattivi, versano allo stato ugualmente 10 lire, il proprietario del terreno buono resta con un guadagno di 30 lire e quello del terreno mediocre di 10 lire. Laddove il proprietario del terreno cattivo versa quanto riscuote e nulla guadagna. Perché? chiede l’uomo ragionante. Perché lo stato deve ricevere solo 10 e 10 e 10 lire; ed i consumatori del frumento prodotto nei 3 campi debbono pagare, a causa dell’imposta, 40 e 20 e 10 lire di più di prima? Perché le differenze di 30 e 10 lire debbono essere serbate dai proprietari dei terreni migliori e mediocri? Quale pubblico servigio hanno essi reso alla comunità per meritare tanto guiderdone?

 

 

Poiché dinnanzi al tribunale della ragione la risposta non viene od è reputata calante, il fatto «imposta a superficie» cessa di essere un fatto. Al luogo suo, sottentra, fatto nuovo, l’imposta a decima. Ogni jugero pagò in ragione del proprio prodotto: il terreno buono che produceva 20 sacchi di frumento fornì allo stato 2 sacchi; il mediocre, producendone 10, diede 1 sacco e quel cattivo che ne produceva 5, diede mezzo sacco solo.

 

 

Finché la ragione fu appagata, il sistema durò. Ma venne il giorno, in che un coltivatore meditante pensò di arare più profondamente il campo o di ammendarlo con marne o di arricchirlo con concimi forestieri o, spianatolo, di irrigarlo. Il terreno che fruttava 10, rese 30 sacchi. Ma le opere assoldate e le altre spese necessarie alla cultura invece di assorbire 2 sacchi su 10 ne assorbirono 15 su 30. Al coltivatore convenne tuttavia migliorare perché invece di 8 restò con 15 sacchi di prodotto netto. A questo punto, il metodo tenuto dallo stato nel prelevare l’imposta parve però a lui di nuovo iniquo. Prima, quando tutti lavoravano con l’aratro a chiodo e si contentavano, per migliorarla, di lasciar riposare la terra per un anno o due, il costo proporzionale del produrre sia 20, che 10 che 5 sacchi sulle tre qualità di terreno era moderato ed uniforme. In una società agricola patriarcale, anzi, un costo quasi non esisteva. Il prodotto era, per la famiglia lavoratrice, lordo e netto nel tempo stesso, tutto essendo remunerazione del lavoro prestato dalla famiglia. Quando, coll’intensificarsi delle culture, fu d’uopo ricorrere ad opere estranee alla famiglia, ecco il produttore tardigrado ottenere solo 10, ma, come si disse, spendere anche solo 2; e l’avventuroso spendere 15 per ottenere 30. Il primo seguita a dare allo stato 1 sacco su 10, laddove il secondo ne deve dare 3 su 30. Ma il primo, in verità, dà in tal modo 1 sugli 8 sacchi che gli restano netti da spese ossia il 12,50%, ed il secondo dà sui 15 a lui restanti, il 20%. Ecco premiato l’infingardo e punito il diligente ed intraprendente.

 

 

Di nuovo, la disuguaglianza ed il danno non sanno giustificar se stessi quando sono tradotti dinnanzi al tribunale della ragione; e nuovamente perciò il fatto «imposta a decima» cessando di essere un fatto, diventa un’ombra nel mondo che fu; ed al luogo suo sottentra il fatto nuovo «imposta sul prodotto netto».

 

 

Le trasmutazioni non sono chiuse a questo punto; anzi seguono continue e varie e ricche. I tipi più diversi di imposte: personali e reali, ad aliquota costante o progressiva, sul reddito o sul capitale, periodiche o saltuarie, sui vivi e sui morti, sui consumi e sui guadagni, sulla generazione presente e su quelle avvenire, sui redditi normali o su quelli di eccezione si combattono e si alternano. Ogni istituto od ogni metodo tributario ha tuttavia vita precaria; anzi non è propriamente in se stesso vivo, traendo speranza di continuità solo dalla propria conformità a ragione. Nessuno di essi è sicuro di sé, se non sappia rendere conto di sé all’unico giudice che in siffatta materia avvinghia e manda ed ha nome «ragione».

 

 

272. Perciò dico che il vero oggetto della «scienza» finanziaria non è il fatto precario dell’ieri o dell’oggi o del domani, ma è l’ideale che la ragione umana contempla quando guarda ai fatti correnti. Il fatto quotidiano è l’ombra che passa, l’ideale è la sola realtà eterna. Perciò dico ancora che la vera realtà non è la finanza quotidiana, ma l’ideale finanza periclea. La finanza quotidiana è la cianfrusaglia dell’aneddottame cronachistico, è la delizia dell’erudito, è la materia molle delle comparazioni fra stati e tempi diversi, è il terriccio fecondo nel quale germinano doviziose le «nuove» generalizzazioni utili alla conquista delle cattedre universitarie. La diremo dunque sola e vera realtà, solo e vero «fatto» degno di studio? Ohibò! Fatto vero quello che oggi è e domani muore, quel che ad un urto della fantasia del politico di genio o del ragionamento implacabile dell’uomo di studio cade a terra in frantumi! Se così piace, ammettiamo la esistenza di entrambi i fatti: sia della finanza quotidiana come della finanza periclea; ma a gran distanza l’uno dall’altro. Il primo è ombra di realtà che par viva; il secondo è la sola realtà vivente. Il primo è materia bruta caduca, il secondo è spirito perenne. La finanza quotidiana è un composito di «imposte» che gli uomini «debbono» pagare; la finanza periclea è la «contribuzione» di cui gli uomini dicono: «voglio» pagarla.

 

 

A far pagare coattivamente imposte son buoni i reggitori qualunque. Ma il capo scelto dalla valentior pars dei cittadini, l’uomo divino di Platone intende elevare i mortali dalla città terrena alla città divina, dove la parola «imposta» è sconosciuta, perché tutti sanno la ragione ed il valore del sacrificio offerto sull’altare della cosa comune.

 

 



[1] Il quale l’aggiunge ai tre tipi della finanza regia, satrapica e cittadina analizzati nelle «Economiche» del pseudo-Aristotile. Vedi la larga esposizione che dei risultati ottenuti da Andréadés fa Athanase I. Sbarounis in André M. Andréadés, fondateur de la science des finances en Grèce, Paris 1936, pp. 27-29. Cfr. anche i capitoli dal quarto al sesto del libro di Charles J. Bullock, Politics, Finances and Consequences. A study of the relations between Politics and Finance in the Ancient World, Mass., Cambridge 1939; ed i capitoli sesto e settimo del libro terzo della Storia dei greci dalle origini alla fine del secolo V di Gaetano De Sanctis, Firenze 1939.

[2] Un riassunto del dibattito si può leggere in una nota: «Di una controversia tra Scialoia e Magliani intorno ai bilanci napoletano e sardo», nel quaderno del marzo 1939 della «Rivista di storia economica», pp. 78 sgg.;dove è ricordata anche la bibliografia. Il segretario Magliano è, col nome di Magliani, meglio conosciuto come ministro delle finanze durante parecchi ministeri Depretis dal 1877 al 1887.

[3] Francesco Ferrara, Lezioni di economia politica. Opera pubblicata per iniziativa dell’Istituto di politica economica e finanziaria della R. Università di Roma, e cioè per merito di Alberto De Stefani (Bologna 1934-35). Il trattato della finanza è contenuto nel vol. I, pp. 551-765. Lo schema che ci interessa è tratteggiato a pp. 747-49,551-54, e fu con larghi estratti riassunto nel mio Francesco Ferrara ritorna, in Nuovi saggi, Einaudi, Torino 1937, pp. 398 sgg., e di nuovo in Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche. Edizioni di storia e letteratura, Roma 1953, pp. 27 sgg.

[4] Knut Wicksell, Finanztheoretische Untersuchungen, Jena 1896. Il secondo saggio: Ueber ein neues Prinzip der gerechten Besteuerung e principalmente i paragrafi IV, V, VI ed VIII interessano l’argomento trattato nel testo. Il saggio è tradotto per intiero nella «Nuova collana di economisti stranieri e italiani», vol. IX, pp. 68 – 129.

[5] Cfr. per una esposizione di quella che ritengo essere la sostanza della teoria fisiocratica dell’imposta, ben diversa dalla caricatura di essa che i fisiocrati medesimi divulgarono col nome di imposta unica sulla terra, il mio saggio Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta, in «Atti della reale accademia delle scienze di Torino», vol. LXVII, 1931-32, rielaborata in The Physiocratic Theory of Taxation, in Economic Essays in Honour of Gustav Cassell (London 1933), pp. 129-42. Ristampato nella edizione del 1940 degli Scritti di economia e finanza, edizione del 1941, Einaudi, Torino, saggio ottavo, pp. 332-61.

Il supremo paradosso tributario

Il supremo paradosso tributario

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 236-258

 

 

 

 

219. Chi ricordi lo schema usato nel capitolo sesto (par. 153, p. 155) per sgonfiare il pallone dei sommi principii utilitaristici, può credere che io abbia voluto altresì negare valore ad un altro schema, detto comunemente tabella di Menger; e può credere perciò che io abbia voluto con quei ragionamenti dichiarare illogica l’applicazione alla pubblica finanza di uno schema pur reputato universalmente utile strumento nella interpretazione dei fatti economici. In verità, se la tabella di Menger è strumento assai meno fecondo per il finanziere di quanto non sia per l’economista, esso non è tuttavia inutile e sovratutto è profondamente diverso dallo schema posto a fondamento dei confutati sommi principii utilitaristici.

 

 

Se chiamiamo benthamiana[1] quella della distribuzione ugualitaria dell’imposta, le due tabelle possono essere messe l’una accanto all’altra:

 

 

I. Tabella Benthamiana

o schema della distribuzione ugualitaria dell’imposta

in una società di tre contribuenti

 

 

X

1

IX

2

2

VIII

3

3

3

VII

4

4

4

VI

5

5

5

V

6

6

6

IV

7

7

7

III

8

8

8

II

9

9

9

I

10

10

10

Tizio

Caio

Sempro

nio

 

 

I numeri romani indicano le successive dosi uguali di ricchezza possedute da ogni contribuente; i numeri arabici i gradi di importanza attribuiti ad ogni dose.

 

 

220. Dimostrai già che lo schema I è frutto della ragion raziocinante del dottrinario. Volendo repartire la imposta in una data maniera, da lui reputata ottima, costui suppone che: 1) i contribuenti della immaginaria società siano tutti modellati su di un uomo medio e 2) attribuiscano alla prima dose di ricchezza da egli posseduta ugual grado di importanza, ad es. 10; 3) il grado 10 di Tizio sia uguale al grado 10 di Caio e a quello, pur 10, di Sempronio; 4) essi attribuiscano alla seconda dose di ricchezza ugual grado di importanza, ad es. 9; e che il 9 dell’uno sia uguale al 9 dell’altro; 5) e così via dicendo sino ad esaurimento di tutta la ricchezza posseduta dai tre consorti.

 

 

Confortato da questa bella architettura, il dottrinario utilitarista procede a costruire il suo schema di distribuzione dell’imposta.

 

 

Ma è schema che il vento disperde, perché: 1) la scala dei gradi di importanza delle dosi successive di ricchezza varia da uomo a uomo ed è bizzarramente varia; 2) i gradi di importanza sono meri indici comparativi validi per ogni uomo, ma non paragonabili da uomo a uomo, ed il 10 di Tizio non solo non è uguale al 10 di Caio, ma, non esistendo alcun strumento adatto a paragonare la relativa sensibilità di Tizio con quella di Caio o di Sempronio, nessuno può dire di quanto sia maggiore o minore; 3) se anche nel metodo di ripartizione dell’imposta in base al sacrificio «proporzionale» non è necessario far confronti fra individuo ed individuo, è necessario però ricorrere alla confessione del contribuente all’orecchio del procuratore alle imposte. Poiché nessuno immagina che siffatte confessioni auricolari siano fededegne, l’imposta cede il luogo alla oblazione volontaria, insufficiente a provvedere alle esigenze degli stati moderni (cfr. sopra par. 162).

 

 

221. Lo schema II (tabella mengeriana) è invece dedotto dall’osservazione. Esso non si riferisce ad una collettività di individui, ma ad un individuo solo. La tabella mengeriana vuole soltanto raffigurare il modo di operare di un uomo il quale, nell’intervallo di tempo considerato, abbia la disponibilità di un certo numero di unità di numerario (moneta o generica potenza d’acquisto). Suppongasi che ogni dose od unità (I, II, III ecc.) di ognuno dei beni desiderati (A, B, C ecc.) sia rappresentata da un quadratino e possa acquistarsi sul mercato con una unità di numerario. Perché lo schema sia senz’altro evidente[2] basta immaginare che ognuno dei beni A, B, C ecc., desiderati dall’uomo possa essere frazionato in unità abbastanza piccole da essere acquistabili con la unità di numerario. Spesso non è così; ma sono varii gli espedienti con i quali il fatto reale può essere avvicinato al fatto ipotetico. Si può ingrossare alquanto l’unità del numerario, pensando in biglietti da 100 o 10 lire invece che in dischi da 1 lira o da 1 soldo. Se l’acquisto di una casa è cosa troppo grossa per contanti, la si può frazionare nel tempo in opportune annualità o mensilità; od addirittura la comune degli uomini fa a meno di acquistare la casa, e si contenta di affittarla, pagando il canone di fitto a semestri, a trimestri, a mese, a settimane e puranco, stando all’albergo, a giorni. Si può allungare il tempo considerato, e pensare, invece che alla distribuzione della spesa giornaliera, a quella della spesa mensile od annua o forsanco decennale.

 

 

II. Tabella mengeriana

o schema della distribuzione della ricchezza

posseduta da un individuo

 

 

X

 

1

 

IX

 

2

1

 

VIII

 

3

2

1

   

VII

 

4

3

2

1

VI

 

5

4

3

2

1

   

V

 

6

5

4

3

2

1

IV

 

7

6

5

4

3

2

1

 

II

 

8

7

6

5

4

3

2

1

 

II

 

9

8

7

6

5

4

3

2

1

 

I

 

10

9

8

7

6

5

4

3

2

1

A

B

C

D

E

F

G

H

I

L

 

 

Ognuno compie quella distribuzione del numerario posseduto oggi o previsto disponibile per domani o per un tempo avvenire che a lui medesimo sembri offrire il soddisfacimento migliore dei suoi desideri, quelli effettivi, che egli sa o prevede di poter soddisfare col numerario posseduto oggi o previsto disponibile per l’avvenire.

 

 

I beni che si presentano all’occhio dell’uomo nell’unità di tempo da lui preferita sono beni presenti o beni futuri. L’uomo cioè può destinare parte del suo numerario al soddisfacimento, con beni presenti, di bisogni presenti (pane, vino, casa, vestito, libro ecc.); e parte al soddisfacimento di beni futuri. In questo secondo caso si dice che egli risparmia, ossia, direttamente o mediatamente, acquista beni strumentali (materie prime, macchine, campo, albero, ecc.) che si trasformeranno in un bene diretto consumabile in un tempo futuro. L’uomo è libero di fare del proprio numerario la distribuzione da lui ritenuta più opportuna. La distribuzione scelta da Tizio sarà dunque, poco o molto, diversa da quella di Caio; e questa da quella di Sempronio.

 

 

La tabella mengeriana non contraddice affatto la varietà dei gusti individuali; non mira a dare uniformità a ridurre a tipi medi le svariatissime distribuzioni operate dagli uomini. Le accetta tali quali sono. Essa non dice neppure che A sia, per tutti, il bene «pane»; e B sia, per tutti, il bene «vestito» ecc. ecc. Anche qui, essa accetta le incarnazioni effettive deliberate dai singoli uomini delle lettere dell’alfabeto nei beni più svariati: A, che per Tizio è «pane», per Caio può chiamarsi «vino», per Sempronio «bicicletta» e per Mevio un’edizione rara di Ariosto o di D’Annunzio. V’ha chi rinuncia a mangiare, pur di acquistare il libro prediletto ovvero andare in loggione a sentir musica di Verdi o di Wagner. Ciascuno ha i suoi gusti, e buon pro gli facciano. Il mondo è bello perché è vario. La tabella di Menger, impassibile, registra tutto.

 

 

222. Codesta ragionevolissima tabella dice soltanto: se l’uomo è razionale, – ma basta possegga, per meritare quella lode, un minimo di buon senso – non accadrà mai che egli, possedendo, ad esempio, una sola unità di numerario, acquisti una prima dose del bene B, quando potrebbe acquistare una prima dose del bene A. Il nostro uomo rifiuta di comportarsi illogicamente, perché egli stesso, proprio lui e non altri, attribuisce alla prima dose del bene B un grado di importanza 9, laddove attribuisce il grado di importanza 10 alla prima dose del bene A. Anche il bambino, al quale, a torto od a ragione, piace più il cavallo di legno che il soldatino, condotto dalla mamma nella bottega dei giocattoli, destina la sua liretta a comprare il cavallo di legno e rinuncia al soldatino. Nello stesso momento e nella stessa bottega, un secondo bambino acquista il soldatino e disprezza il cavallo di legno.

 

 

Se il nostro uomo invece di una possiede due unità di numerario, si troverà un po’ imbarazzato. Ché, dopo acquistata con la prima unità di numerario una prima unità di A col grado di importanza 10, egli, provvisto oramai di una sola unità di numerario, si trova come l’asino di Buridano dinnanzi ad una seconda unità di A e ad una prima unità di B, le quali hanno per lui una importanza pari ed uguale a 9. Come l’asino imbrocca una via piuttostoché l’altra se a correre alla cieca lo spinga la puntura di un tafano, così l’uomo si decide sulla base di qualche imponderabile. Se egli possegga 3 unità di numerario, non occorre il tafano o l’imponderabile la seconda e la terza unità di numerario saranno destinate ad acquistare una seconda dose di A ed una prima di B. Qui viene in scena il teorema più importante della tabella mengeriana: essere uguale l’importanza finale o marginale delle ultime dosi dei beni acquistati dall’uomo a mezzo del numerario posseduto nell’intervallo di tempo considerato. Uguale s’intende per quell’uomo ed a giudizio suo. Se egli possiede 10 unità di numerario, non accade che egli le impieghi tutte ad acquistare 50 unità del bene A. Se egli, dopo la quarta, continuasse sulla stessa via, acquisterebbe dosi di A che hanno per lui gradi di importanza misurati dagli indici 6, 5, 4, 3, 2, 1, laddove con quelle 6 unità di numerario potrebbe acquistare 3 unità di B fornite rispettivamente di 9, 8, 7; 2 unità di C fornite di 8 e 7 ed 1 unità di D fornita di 7 gradi di importanza, tutte dunque capaci di soddisfare desideri più importanti di quelli che sarebbero soddisfatti persistendo nell’acquistare dosi di A. Egli dunque distribuirà le 10 unità di numerario, così da acquistare 4 unità di A, 3 di B, 2 di C ed i di D. Al margine, le unità acquistate hanno tutte il grado di importanza 7. Col trasgredire la regola dell’uguale utilità od importanza marginale, egli commetterebbe errore di buon senso: rinuncerebbe a qualcosa che ai suoi occhi vale 7 per avere cosa che, medesimamente ai suoi occhi, vale 6.

 

 

223. Ciò non vuol dire che l’uomo non sia soggetto ad errore. Può darsi che egli valuti 7 ciò che tutti attorno a lui, con unanimità commovente, valutano 2 od 1 o zero od a cui magari danno valore negativo. La tabella di Menger non si occupa di ciò. Essa esclude solo l’errore soggettivo: comprare il bene valutato dall’acquirente 2 invece del bene da lui stesso valutato 7. La tabella non esclude la sciocchezza in genere, ma solo la sciocchezza reputata tale da chi la commette. Anzi, la tabella non esclude, a rigore, neppure questa. L’uomo può, consapevolmente, acquistare un bene a cui egli attribuisce un grado di importanza 2 invece di un bene a cui, pure egli, attribuisce il grado 7. Vorrà dire che egli, così operando, vuole avere la soddisfazione di far vedere a tutti che egli è capace di commettere sciocchezze (buttare denari dalla finestra per vedere le baruffe dei passanti, non accettare il resto di un biglietto da 50 dal vetturino al quale si devono pagare 8 lire e simili). Egli cioè vuole in cotal modo bizzarro acquistare, insieme col bene principale, qualche altro bene complementare da lui desiderato : fama di denaroso o di stravagante o di generoso, ecc. ecc.

 

 

224. Notisi che fra i beni desiderati vi è il numerario medesimo, del quale un certo numero di unità è desiderato per se stesso ed è comprato (comprare è sinonimo di non barattare o di tenere in tasca) come un qualsiasi altro bene. Si tiene poco denaro in tasca, il minimo possibile, in tempi normali; molto in tempo di crisi o guerre o rivoluzioni. Sotto forma di depositi a risparmio ed in conto corrente, di biglietti o moneta metallica, a seconda della maggiore o minore fiducia di cambiare ogni specie di numerario nella moneta propriamente detta, universalmente accettata, che è quella d’oro.

 

 

225. Le spiegazioni date intorno alla tabella mengeriana sono di quella specie elementarissima che si legge o dovrebbe leggersi in ogni testo di economia. Non parve inutile darle, perché non son persuaso che sempre ed anche da reputati scrittori si sia fatta la dovuta distinzione fra la tabella benthamiana e quella mengeriana. Qualche volta si ha l’aria di credere che la prima discenda logicamente dalla seconda. Non si potrebbe invece immaginare niente di più diametralmente opposto. La tabella mengeriana non si impaccia nel dar giudizi sulla razionalità o moralità delle azioni degli uomini. Essa vien dopo che gli uomini hanno fatto quel che la fantasia, il demone nascosto, i bisogni immaginari o reali, gli istinti, gli affetti hanno ordinato ad essi di fare; e registra. Registrando, constata che anche i matti hanno preferenze – pazzesche, forse, ma preferenze – ed osserva che essi preferiscono un creduto più ad un creduto meno e distribuiscono la ricchezza posseduta in modo che al margine siano uguali i gradi di importanza delle ultime dosi di tutti i beni acquistati.

 

 

La tabella benthamiana non registra invece le libere scelte di ogni uomo singolarmente considerato. Essa è il risultato di almanaccamenti di certi dottrinari i quali hanno pensato che gli uomini siano uguali gli uni agli altri o riducibili a marionette tutte uguali; che essi appetiscano la ricchezza in ugual modo decrescente; che gli appetiti degli uni siano uguali a quelli degli altri; e così via almanaccando hanno dedotto regole dette giuste intorno alla ripartizione dei tributi. Sui quali almanaccamenti non c’è altro da fare che sputarci sopra.

 

 

226. La tabella mengeriana non ci dice nulla intorno alle imposte? Ecco. In una primissima approssimazione,[3] essa ci dice che i beni pubblici sono da noverarsi fra i beni in generale. Nella gamma dei beni A, B, C, D, ecc. che sino all’ennesimo si presentano dinnanzi agli occhi dell’uomo come desiderabili, ci sono anche i beni pubblici, quei certi beni che l’uomo sa, per esperienza sua o per istinto storico, dover essere od essere conveniente acquistare per mezzo dello stato: sicurezza, difesa nazionale, giustizia, sanità, istruzione, avanzamento sociale ed economico, potenza, ecc. ecc. Questi beni, siano diretti o, come altri vuole, strumentali o condizionali, sono dall’uomo classificati al pari degli altri beni secondo il grado di importanza di ognuna delle successive dosi di essi. E così classificati, ubbidiscono alla legge comune. Il numerario posseduto in ogni unità di tempo dall’uomo si distribuisce su di essi nella stessa maniera usata per gli altri beni, detti privati. Anch’essi al par dei beni privati, sono presenti e futuri. Gli uomini destinano una parte del numerario posseduto ad acquistare giustizia o sicurezza od istruzione nel momento presente ed una parte a costruire porti, a bonificare paludi, a piantar foreste che daranno frutto tra dieci o cinquant’anni. Gli uomini hanno i servizi pubblici che desiderano e apprezzano. Se essi sono ignoranti ed egoisti, vivono come bestie in uno stato debole; se sono antiveggenti e solidali, toccano alte mete di convivenza politica e sociale.

 

 

227. Senonché il quadro di prima approssimazione della pubblica finanza dedotto dalla tabella mengeriana dura un attimo e subito si dissolve. Mi sono indugiato a bella posta in una spiegazione elementare della tabella mengeriana per mettere bene in chiaro che essa meramente «registra» i fatti accaduti, le azioni compiute dai singoli uomini, così come le vollero compiere gli uomini esistenti, forniti, come sono, di virtù, vizi, passioni, istinti, conoscenze ed ignoranze.

 

 

228. Ora, purtoppo, tra i vizi degli uomini, principalissimo è la mancanza di memoria. Finta mancanza di finti tonti. Perciò la tabella di Menger si applica male ai beni pubblici. Il grosso – non tutto, ma il grosso basta a rovinare il tutto, – dei beni pubblici ha una curiosa caratteristica: che essi debbono essere forniti dallo stato prima che il relativo bisogno sia sentito dagli uomini. Lo stato non può attendere ad apprestare esercito armi munizioni navi da guerra velivoli militari il momento in che il nemico sia in casa ed abbia già occupato parte del territorio nazionale. Sarebbe troppo tardi. Lo stato non può attendere ad organizzare polizia carabinieri giudici carceri e carcerieri che malandrini grassatori e ladruncoli infestino strade e case. Di nuovo, sarebbe troppo tardi. Lo stato non può attendere ad organizzare servizi di pubblica sanità che gli acquedotti mal tenuti abbiano diffuso le febbri da tifo, che il colera e la peste bubbonica abbiano invaso città e campagne. Sarebbe troppo tardi. Lo stato deve fare tutte queste cose, adempiere bene a questi ed altri numerosi uffici innanzi che i cittadini ne sentano la privazione. Anzi, lo stato adempie meglio al suo ufficio, è universalmente lodato e reputato vicino alla perfezione sua, quanto più riesce ad attutire a mortificare nel cuore, nell’animo degli uomini la sensazione del possibile pericolo alla loro pace e sicurezza e al loro benessere. Se l’esercito è così saldo che i cittadini si sentono sicuri entro le proprie frontiere, se la polizia è così vigile che essi si dimenticano di chiudere, di notte o quando vanno a passeggio, la porta di casa, se la magistratura è così sapiente che ai litiganti temerari vien meno la voglia di adire i tribunali, allora si dice che lo stato è perfettamente organizzato.

 

 

In quel punto, però, gli uomini farebbero, se non ci si ponesse rimedio, i finti tonti. Sanno bene od intuiscono che fra i beni desiderati A, B, C… n vi sono i beni pubblici; sanno ed intuiscono che essi sono costosi e convenienti ad acquistarsi. Ma, poiché essi ne godono già, poiché lo stato, per la ragione medesima della sua esistenza, deve fornir quei servizi in modo che essi non abbiano mai la sensazione della loro privazione; perché pagare? Perché far domanda volontaria e disporsi a pagare il prezzo di ciò che si possiede già? Forseché, se non si ha appetito, se anzi si è sazi, si spendono denari per acquistar cibo? Se il guardaroba è ben fornito, perché arricchire il sarto?

 

 

229. Questo è il paradosso ultimo e massimo della pubblica finanza. Esistono beni pubblici, ai quali gli uomini prodigano attestazioni di apprezzamento altissimo; quei beni sono graditi quanto più efficacemente sono forniti; ma poiché la perfezione consiste nel far dimenticare agli uomini che essi potrebbero essere privi di quei beni, così gli uomini non ne fanno domanda. Quei beni si cancellano dalla loro memoria e quindi anche dalla tabella mengeriana.

 

 

230. Oltreché finti tonti, gli uomini sono, in materia di oneri pubblici, stranamente fiduciosi nella coscienza altrui. Se capitano a riflettere che qualcosa bisognerebbe pur pagare per acquistar beni pubblici, subito pensano che altri avrà memoria più buona ed attiva. I beni pubblici hanno, insieme a quella della mortificazione, un’altra curiosa caratteristica: essi non possono essere forniti all’un cittadino senza essere ipso facto forniti a tutti gli altri cittadini. Se ci si potesse saziare col guardar gli altri a mangiare, basterebbe incaricare a turno qualcuno di mangiar sulla pubblica piazza. Trattorie e panetterie sarebbero deserte di clienti. Invece si sa che solo chi ha pane mangia e si sazia. Gli altri, se vogliono togliersi l’appetito, devono rassegnarsi e cacciar fuori di tasca la moneta occorrente a comprare il pane. Invece, se per miracolo vivono in una società politica molti o pochi cittadini così antiveggenti da decidersi a dare volontariamente allo stato i mezzi per l’acquisto dei beni pubblici, ecco che la difesa, la sicurezza, la giustizia, ecc. ecc. sono senz’altro fornite dallo stato a tutti i paganti ed i non paganti. Lo stato non può chiudere le porte di casa allo straniero solo a pro dei cittadini paganti, lasciandole spalancate per i non paganti; non può mettere in guardina ladri ed assassini solo per coloro che abbiano pagato il prezzo della sicurezza, aprendo ad essi l’uscio della galera quando si tratti di derubare ed assassinare i dimentichi. Lo stato deve difendere il territorio nazionale per tutti, deve dar sicurezza e giustizia ed igiene e viabilità e tante altre cose a tutti, senza badare se i cittadini abbiano o no pagato.

 

 

231. Se dunque il cittadino smemorato può per giunta anche far affidamento sulla memoria altrui, il vuoto assoluto si fa attorno ai beni pubblici. Ognuno, sicuro di goderli, anzi già sazio di essi e speranzoso che qualcun altro pagherà, si dimentica di pagare. Gli uomini tributano allo stato salamelecchi senza fine per ringraziarlo dei preziosi suoi servizi, ma denari punti.

 

 

La tabella mengeriana, premessa logica per la spiegazione dei prezzi dei beni privati, non serve di fatto a nulla per la spiegazione dei prezzi dei beni pubblici. Su per i trattati di economica noi impariamo le leggi regolatrici dei prezzi del pane, del vino e degli altri mille e mille beni privati. Noi chiamiamo «razionali» quelle leggi, perché poste alcune premesse (tabella mengeriana, ipotesi di concorrenza o di monopolio o di concorrenza limitata) è possibile dedurre col ragionamento quali prezzi si formeranno sul mercato per i beni diretti, per i beni strumentali, per i beni capitali. Per i beni pubblici, invece, buio perfetto. Poiché la domanda non agisce, non esiste per i beni pubblici un mercato, non si formano prezzi. Lo stato deve agire «d’autorità»; deve, esso, stabilire il numero delle unità di beni pubblici che ogni cittadino sarà obbligato ad acquistare, il prezzo unitario e l’importo complessivo dell’acquisto. L’importo dicesi imposta.

 

 

232. L’imposta non è il termine finale di un meccanismo messo in moto dalle azioni volontarie degli uomini, come accade per i prezzi dei beni privati. È il punto di partenza fissato dallo stato per farsi consegnare anticipatamente i mezzi necessari a provvedere ai servizi pubblici che è suo compito fornire in guisa da risparmiare ai cittadini persino l’ombra di ogni apprensione al riguardo.

 

 

I prezzi dei beni privati sono determinati sul mercato, indipendentemente dalla volontà dei singoli compratori e venditori. Persino il monopolista perfetto innanzi di fissare il prezzo della merce da lui venduta, deve calcolare quale sarà la reazione dei consumatori. Non è in poter suo fissare prezzo e quantità consumata. Determinata l’una, e questa è data dai gusti dei consumatori e dall’ostacolo (privazione di moneta) da essi incontrato, è determinato l’altro. Lo stato invece determina l’importo totale che il contribuente è chiamato a pagare e l’importo od imposta è il risultato della moltiplicazione del fattore «numero delle unità di beni pubblici acquistandi dal contribuente» per il fattore «prezzo unitario di ogni unità»; ed ambi i fattori sono determinati «d’autorità» dallo stato.

 

 

233. Con qual criterio lo stato determina i due fattori? Alla domanda la tabella mengeriana non dà risposta se non in un aere rarefattissimo di puro ragionamento. Se fosse possibile supporre una società di uomini razionali, consapevoli dell’importanza dei beni pubblici presenti e futuri, capaci di rappresentare vivamente dinnanzi alla propria mente il quadro delle conseguenze le quali deriverebbero dalla privazione dei beni pubblici, consapevoli tutti della necessità di fare domanda attiva di essi senza fare alcun affidamento sulla probabilità che altri, in loro luogo, vi provveda, gli uomini farebbero, direttamente nelle comunità politiche minime a democrazia diretta, od a mezzo di proprii delegati nelle comunità più ampie, domanda di beni pubblici sufficiente a coprire il costo della loro fornitura. In quella società di uomini razionali, i servizi pubblici sarebbero probabilmente forniti in misura e varietà grandemente maggiore di quella osservata laddove l’imposta è opera di coazione. Anche in essa l’imposta sarebbe coattivamente distribuita; ma la coazione sarebbe il frutto della concorde libera volontà di tutti. In quella società ideale, sulla tabella di Menger si vedrebbero, accanto ai beni privati, disporsi, nella mente dei cittadini, i beni pubblici presenti e futuri. La ricchezza posseduta dai cittadini sarebbe distribuita equabilmente fra tutti i beni in misura da osservare la legge della uguaglianza dei gradi finali di utilità.

 

 

Gli utopisti da Platone a Tommaso Moro e a Roberto Owen hanno descritto società di uomini perfetti, nelle quali gli uomini volontariamente distribuiscono la loro ricchezza così da soddisfare con la pienezza consentita dai mezzi disponibili tanto i bisogni privati che quelli pubblici.

 

 

Poiché non bisogna disperare dell’avvenire dell’umanità, possiamo augurare che il regno dei cieli si attui in terra. Frattanto constatiamo di essere lontanissimi dall’applicazione spontanea della tabella mengeriana ai beni pubblici.

 

 

234. La sanzione del paradosso ultimo tributario è la coazione. Contro agli uomini smemorati e fiduciosi nell’altrui civismo vale l’imposta. Qualcuno deve costringere d’autorità il cittadino a destinare una parte del numerario disponibile in ogni unità di tempo all’acquisto dei beni pubblici.

 

 

Chiamiamo «stato» questo qualcuno fornito del potere di coazione; e chiediamo: in base a quali regole lo stato determina l’imposta?

 

 

Si riconosca innanzitutto che il problema è straordinariamente arduo. La tabella mengeriana registra ogni sorta di gusti, da quelli comunemente reputati razionali ai più stravaganti e pazzeschi.

 

 

Qui, per i beni pubblici, lo stato

 

 

  • deve sostituire il proprio giudizio sulla convenienza dei beni pubblici al giudizio dei singoli interessati;

 

  • deve dare un giudizio comparativo non solo sui gradi di importanza per ogni cittadino delle successive dosi dai numerosissimi beni pubblici immaginabili, ma anche sui gradi di importanza attribuiti dai cittadini alle successive dosi degli ancor più numerosi beni privati; distinti, ambe le specie, in presenti e futuri;

 

  • deve dare il giudizio sovramenzionato nonostante la insensibilità della grande massa dei cittadini rispetto ai beni pubblici ed alla contemporanea ipersensibilità rispetto ai beni privati;

 

  • deve dare il giudizio nonostante che molti cittadini reputino positivamente dannosi certi beni pubblici che lo stato deve pure ad essi fornire. Lo stato deve dare e far pagare la difesa nazionale anche agli internazionalisti, i quali vorrebbero abolire le frontiere; deve dare e far pagare i beni della sicurezza pubblica e della giustizia anche ai signori ladri ed assassini, il cui mestiere sta nell’offendere sicurezza e giustizia; deve dare servizi di igiene a chi si diletta di vivere in luride tane e ride della pulizia ed odia l’acqua; deve fornire servizi di istruzione a chi ha in sommo pregio l’ignoranza;

 

  • deve dare un giudizio di importanza relativa frammezzo al contrasto vociferante di classi, di ceti, di gruppi accaniti a dichiarare che quei tali beni pubblici tornano vantaggiosi solo a classi, a ceti, a gruppi diversi dal proprio e devono essere fatti pagare solo a quelli che ne godono; od addirittura affermano che certi beni pubblici vantaggiosi a sé devono essere fatti pagare esclusivamente o principalmente ad altri.

 

 

Il paradosso tributario assume a questo punto un aspetto suggestivo: la solita tabella mengeriana chiamata a registrare le decisioni volontarie dei consumatori rispetto ai beni privati, dovrebbe dallo stato essere arricchita con altre colonne ed altre categorie, nelle quali dovrebbero essere registrate le decisioni latenti, non espresse, spesso negative e frequentemente contrastanti dei contribuenti rispetto ai beni pubblici. Che senso ha una tabella mista di «registrazioni» di fatti conformi all’esperienza e di fatti contrastanti con essa? Come distribuire il numerario posseduto dai cittadini in conformità alla legge dell’uguaglianza dei gradi finali di utilità, quando fa d’uopo nel tempo stesso destinare numerario a comprare beni privati fino alla dose avente un grado di utilità nove e beni pubblici per dosi la cui utilità può dall’interessato essere considerata nulla o negativa?

 

 

235. Dal paradosso si esce costruendo una tabella, nella quale certi uomini, i quali compongono l’entità chiamata «stato», registrano quelle che «dovrebbero essere», secondo il giudizio dello «stato» le decisioni «razionali» dei cittadini rispetto ai beni pubblici e questa tabella sovrappongono, o meglio incastrano dentro la nota tabella mengeriana della distribuzione del numerario disponibile fra beni privati.

 

 

Si sostituisce cioè il «dover essere» di un archetipo all’«è» dell’esperienza; si trasforma in un precetto quello che per i beni privati è una legge empirica. Con tutti gli inconvenienti di siffatte sostituzioni. Abbiamo veduto un esempio clamoroso di sostituzione del dato di ragione al dato di esperienza quando abbiamo analizzato il nulla della tabella benthamiana o di distribuzione ugualitaria dell’imposta. Eppure lo schema ugualitario è il solo sinora offerto all’ammirazione del pubblico il quale discenda da superbo lignaggio. Bentham, il grande filosofo utilitarista, lo tenne a battesimo; e grandi pensatori, come il secondo Mill, Edgeworth, Cohen Stuart lo perfezionarono. Se uomini insigni, ragionando, riuscirono a così misero risultato, che cosa dire degli altri schemi e schemini e schemetti venuti fuori da intelligenze di second’ordine?

 

 

Si capisce dunque come altri disperato abbia abbandonato la partita ed abbia giudicato che su questa via non si fa opera di scienza. Che cosa sia nella soggetta materia opera di scienza è tuttavia assai difficile definire. Parrebbe che lo studioso, il quale non vuole, al par degli utilitaristi, sostituire il suo giudizio a quello degli uomini, debba astenersi di ogni indagine intorno a «ciò che dovrebbe essere». La ricerca del «dover essere» sarebbe ufficio del moralista, non dello scienziato. Il finanziere dovrebbe emulare l’economista, il quale non ha voluto nella tabella mengeriana costruire nessun schema di distribuzione «razionale» della ricchezza, ma si è limitato a enunciare talune leggi empiriche della sua distribuzione di fatto. Anche il finanziere si deve limitare a constatare le distribuzioni «di fatto» della ricchezza tra beni privati e beni pubblici. E poiché le distribuzioni di fatto furono in passato e sono oggi svariatissime, il finanziere indagherà quali circostanze hanno influito a determinare l’una distribuzione piuttostoché l’altra.

 

 

Perché, per parlare linguaggio piano, oggi basta destinare alla spesa pubblica il 10% e domani occorre dare il 20 o il 40% del reddito nazionale? Perché ieri erano esenti dal tributo i nobili e gli ecclesiastici e oggi si tende ad esentare l’operaio?

 

 

Perché ieri erano preferite le gabelle sui consumi ed oggi sono predilette quelle sui redditi e sui patrimoni?

 

 

Perché si alternano le imposte a tipo reale ad aliquota costante e quelle personali ad aliquota variabile crescente o decrescente?

 

 

Perché oggi i redditi normali e domani i sopraredditi?

 

 

Perché le imposte successorie hanno diversa importanza nei diversi tempi e paesi?

 

 

Perché talvolta si inacerbiscono le imposte e talaltra si ricorre a prestiti pubblici o ad emissioni cartacee?

 

 

Su quali argomenti si fondano le scelte fatte? o, meglio, con quali argomenti si cerca di persuadere il contribuente ed il non contribuente che la scelta fatta risponde, meglio di ogni altra, a certe esigenze dette di ragione, di interesse nazionale, di convenienza per i presenti ed i futuri?

 

 

Quale peso hanno nelle argomentazioni addotte la logica e il sentimento? Le «illusioni» di Amilcare Puviani[4] ed i «miti» e le «derivazioni» di Vilfredo Pareto quale parte hanno, in confronto agli argomenti logici, nella determinazione del quantum e del modo della destinazione della ricchezza a fini pubblici?

 

 

237. Nello sterminato campo del sapere umano, tutti i tipi di indagine hanno diritto di cittadinanza. Cercare le ragioni di «quel che è» è ricerca scientifica, sebbene di genere diverso, del cercare se, posta la premessa a o quella b (vedi sopra cap. IV, par. 97), sia o non sia colpevole di doppio la tassazione del risparmio; o se, esistendo sul mercato una certa massa di titoli di debito pubblico, si commetta o non errore di doppio conteggio col tenerne conto nell’inventario della ricchezza nazionale (cap. V, paragrafi 143 sgg.); o se sia più giovevole al promuovimento della ricchezza l’assumere il reddito normale o quello effettivo come base di valutazione del reddito (cap. X, paragrafi 201 sgg.); o se la tassazione dell’incremento di valore delle aree fabbricabili faccia doppio con la tassazione del reddito che si ricaverà poi dall’area fabbricata (cap. III, paragrafi 55 sgg.). Questi, che ho ricordato e tutti gli altri che ho discusso nei capitoli precedenti, sono problemi di pura logica. Non è affatto inutile discuterli e risolverli su quella base. L’uomo politico ed il finanziere pratico traggono sempre vantaggio dal conoscere le conclusioni della pura logica. Quanto all’accettarle o meno, è un altro paio di maniche. L’economista, il cui mestiere è solo ragionar logicamente, non pretende vedere accolte le sue conclusioni. L’uomo politico può avere mille ragioni per non accettarle. Ad esempio, dopo aver tassato il reddito delle aree fabbricate (e quindi il valor capitale e l’incremento del valor capitale delle aree fabbricabili) con un’imposta del 20%, il politico può ritener necessario di tassare con un altro 20% l’aumento di valore delle aree fabbricabili. La necessità discende:

 

 

a)    dal bisogno dell’erario di un’entrata supplementare;

 

b)    dall’essere gli aumenti delle aree fabbricabili materia di tassazione accetta all’universale dei cittadini, eccezione fatta dei pochi colpiti;

 

c)    dall’essere l’universale convinto trattarsi di una materia imponibile la quale altrimenti sfuggirebbe alla tassazione;

 

d)    dall’essere agevole costruire un ragionamento in base al quale si dimostra che quell’incremento è ottenuto senza sforzo dal proprietario per l’operare di fattori sociali (incremento della popolazione cittadina, dei traffici, ecc.)

 

 

Diremo a la spiegazione finanziaria del tributo; b la spiegazione psicologico-sociale; c quella pseudo-logica; e d quella di giustizia. Il politico contrappone il peso di a, b, c, d, congiuntamente o separatamente considerate, al ragionamento di doppio proposto dall’economista; e trova questo calante ai fini della decisione che egli deve prendere. L’imposta sull’incremento di valore delle aree fabbricabili entra nel novero delle imposte vigenti in quel dato paese.

 

 

Discende forse da ciò che il ragionamento dell’economista, il quale conclude al doppio sia anch’esso calante? A taluno basta anche meno per concludere che un ragionamento od una teoria è «infondata». A me basta ancor meno per concludere che il cervello di costui è spappolato. Come mai può diventare erronea la conclusione di un ragionamento astratto solo perché un politico non l’accetta e non la fa diventare base del suo operare? La conclusione resta quello che è: vera o sbagliata a seconda della bontà del ragionamento condotto. Se vera, la sua verità rimane salda anche se mille uomini politici la respingano e nessuno la faccia propria. Se erronea, l’accoglimento favorevole dei legislatori unanimi di tutti i paesi e di tutti i tempi non ha forza di trasformarla in vera.

 

 

Altra, ed anch’essa interessante scientificamente, è la ricerca delle ragioni z, v, s, rn le quali hanno fatto sì che questo o quel legislatore o tutti i legislatori accolsero conclusioni opposte a quella che il ragionamento dimostrava, ad ipotesi, vera. Ma, badisi, l’avere precisato quelle ragioni z, v, s, rn non autorizza l’indagatore a concludere che la conclusione accolta dall’uomo politico sia fornita dell’attributo di «conformità alla logica», quale aveva, per ipotesi, la conclusione opposta, da lui respinta. Non può a essere a e contemporaneamente non a. Se una certa imposta, fatta una certa premessa, è un doppio, resta un doppio anche se codificata da mille legislatori.

 

 

Le due conclusioni si muovono in campo diverso.

 

 

La conclusione dell’economista, come sono quelle raggiunte nei capitoli precedenti, si muove nel campo della logica. Possono essere erronee perché la premessa fu mal posta od il ragionamento mal condotto; non mai perché esse non siano state applicate dai politici. All’economista basta averle fatte presenti al politico. Il suo ufficio di chierico camminante della verità per il momento è conchiuso.

 

 

Per il momento; ché quando il politico avrà fatto la sua scelta, accogliendo o respingendo in tutto od in parte, le conclusioni dell’economista; quando, fatta la scelta, il politico avrà costrutto un certo sistema tributario, e questo avrà operato per tempo bastevole, l’economista rientrerà in campo per indagare gli effetti delle scelte fatte.

 

 

Qui, nuovamente, ci muoviamo in un campo di indagine avente valore logico. Il trattato degli effetti delle imposte risponde al quesito teoretico: data una certa tassa, data una certa imposta, dato un certo prestito, dati cioè certi istituti tributari configurati in tale o tale modo, quali sono le variazioni nell’equilibrio economico generale le quali sono collegate coll’introduzione o coll’abolizione di quegli istituti?

 

 

L’ultima indagine in sostanza si confonde colla prima. Nella prima, più astratta, l’economista configura certe ipotesi semplici di imposta e ci ragiona sopra; nell’ultima egli lavora sulla più ricca e complicata esperienza degli istituti tributari esistenti e ritorna a ragionarvi sopra. Le conclusioni della prima indagine astratta rimangono vere anche se non siano accolte dal legislatore; le conclusioni della seconda rimangono, se ben ragionate, vere anche se il legislatore, avvertito che talun istituto da lui creato produce effetti che, secondo il vocabolario concordemente accettato, debbono definirsi dannosi, persiste nel mantenere quell’istituto. Non è meraviglia se questi due capitoli dei quali il primo può dirsi di analisi logica del concetto dei varii tributi immaginabili, ed il secondo di analisi degli effetti dei medesimi tributi attuati, piacciono agli economisti. Essi sono capitoli di economia pura; e qualcuno è giustamente collocato tra i gioielli di questa bellissima tra le scienze. Gli economisti non aspirano, quando analizzano concetti o indagano effetti di tributi, all’ammirazione ed al seguito immediati dei giuristi, dei politici, dei finanzieri. Sono certi di non lavorare invano; ché la logica, se logica v’ha, ha una sua virtù incoercibile. Non è vero che sia inutile gittare margaritas ante porcos. Le perle, se sono vere, col tempo saranno ritrovate e splenderanno ad adornamento perpetuo del corpo immacolato della scienza.

 

 

Chi fa l’indagine intermedia, del perché gli istituti tributari siano quelli che sono, del perché i politici li abbiano costrutti poco o molto diversi da quelli che sarebbero conformi alle conclusioni dell’analisi logica del concetto e degli effetti condotta dagli economisti?

 

 

Qui c’è un po’ di baruffa fra talune schiere, differenti sovratutto per temperamento, di rispettabili studiosi.

 

 

Non parlo dei giuristi, il compito dei quali è nettamente diverso da quello dell’economista o del ricercatore dei perché. Il giurista parte dal tributo quale è regolato nelle leggi vigenti. Tuttalpiù – ma non è necessario – risale ai principii informatori della legge, quali furono dichiarati dal legislatore medesimo. In caso di dubbio, parla la legge medesima. Il giurista la interpreta, per quel che essa dice, al lume della logica giuridica propriamente detta. Il giurista la critica, non però sulla base di ragionamenti politici od economici o sociologici, bensì ed esclusivamente sulla base della imperfezione interna della legge tributaria, delle sue contraddizioni o del contrasto di essa con altre leggi ugualmente vigenti. L’opera del giurista, che sia veramente tale, può essere, come fu ed è in altri campi, feconda di frutti stupendi anche nel campo tributario.

 

 

La baruffa, di cui parlo, ha luogo tra gli indagatori del perché delle decisioni assunte dal politico e poscia tradotte nelle leggi. Si dice che un tale sistema tributario è quello che è:

 

 

a)    per ragioni di indole politica. Il politico, ossia il governante – uomo singolo o gruppo politico o parlamento o una delle tante mescolanze empiriche riscontrabili nella storia di governo dell’uno, dei pochi o dei molti – vuole ottenere certi fini di potenza, di cultura, di benessere, di innalzamento di questa o quell’altra classe. Il sistema tributario si informa ai fini del politico;

 

b)    per ragioni di indole sociologica. Il politico non è arbitro dei fini da lui voluti. Egli ubbidisce ad interessi sentimenti ed idee dei ceti e delle classi le quali sono dominanti nel paese. Altra è la finanza dei paesi nei quali prevalgono le classi proprietarie, altra quella dei paesi in cui sono prevalenti i ceti industriali e mercantili; e tutte differiscono da quella dei paesi in cui tendono a prevalere classi più ampie dei lavoratori; ed anche qui occorrerà distinguere fra i gruppi dei contadini, con o senza terra, degli artigiani, dei lavoratori della grande industria, degli impiegati, ecc. ecc. Solo un’analisi compiuta sociologica ci può consentire una spiegazione ugualmente compiuta del sistema tributario vigente in un paese. Solo un’analisi degli avvicendamenti storici dei ceti dirigenti spiega le vicende della politica tributaria. I nuovi ceti, i quali giungano al potere, trasformano, insieme con gli altri, anche gli istituti tributari in conformità dei nuovi miti e dei nuovi ideali a cui essi hanno dovuto la loro ascesa.

 

 

Tutto ciò può essere molto bello, quando non sia di maniera. Dico può essere, perché sinora la disputa non è andata più in là del capitolo introduttivo, nel quale si espone quel che si desidererebbe fare e si butta giù alla brava uno schizzo delle variazioni dei fini politici e delle ragioni sociologiche di quelle variazioni le quali hanno operato sulle variazioni degli istituti tributari.

 

 

240. Umilmente dico che lo scrittore, se non ha fatto un quadro di maniera, ha compiuto opera di storico. Nessun fatto si ripete tale quale, nessun istituto tributario di un tempo di un paese è uguale ad un altro qualsiasi istituto tributario di altro tempo e di altro paese. Chi ha spiegato il sistema tributario del decennio cavourriano in Piemonte, dicasi 1850-59, e le sue variazioni, ha spiegato quel sistema e quelle variazioni nel Piemonte del 1850-59 e non il sistema tributario borbonico o toscano o pontificio dello stesso tempo; e non il sistema contemporaneo del terzo Napoleone in Francia o quello di poco prima di Roberto Peel in Inghilterra. Chi pensi a quel che non sappiamo di ognuno di quei sistemi rabbrividisce quando sia improvvisamente posto innanzi alla oltracotanza di chi, impavido, scopre analogie e differenze, uniformità e difformità, leggi evolutive di quel che non si conosce o si conosce assai mediocremente.

 

 

Anche colui il quale scriverà la storia del sistema tributario in Piemonte durante il decennio cavourriano dovrà forzatamente dai moltissimi fatti astrarre quelli che a lui, guidato da certe idee generali, sembreranno più significativi o rilevanti, dovrà scegliere, tra i tanti fatti, antecedenti e susseguenti, quelli che a lui parranno legati assieme da relazioni di causa ed effetto o di interdipendenza. Nessuna storia è compiuta e compiutamente probante; ma quale differenza fra il quadro vivo concreto parlante di uomini e di idee e di ceti e di interessi operanti in un decennio e in un paese alle scialbe generalizzazioni di fatti e di legami astratti dalle storie di tutti i tempi e di tutti i paesi!

 

 

241. Tuttavia, poiché tanti peccano, mi decido a peccar anch’io. Poiché tanti costruiscono schemi atti a spiegare i sistemi e gli istituti tributari, costruirò schemi anch’io.

 

 

Per schemi tributari intendo le tabelle di distribuzione della ricchezza posseduta dagli individui che si può immaginare potrebbero essere dedotte dai principali tipi immaginabili di stato (vedi sopra par. 235). Poiché la tabella mengeriana non serve, quali tipi principali di tabelle hanno costruito gli «stati» – ossia gli uomini deliberanti come «stato» – in luogo di essa, utilizzabile per i beni pubblici? Chiamerò d’ora innanzi tabelle «politiche» i tipi creati dagli stati in sostituzione di quelle che sarebbero costruite dagli uomini se essi fossero perfettamente consapevoli dell’importanza dei fini pubblici; politiche perché attinenti alla polis, alla città, alla cosa pubblica. Quali siano i principali tipi di tabelle politiche è domanda che, oltre a Pantaleoni, aveva posto De Viti[5] in un celebre saggio.

 

 

Amendue sono partiti da una astrazione. Hanno supposto l’esistenza di questo o di quel tipo di stato: De Viti ha pensato il tipo di stato monopolistico, in cui il governante pensa al vantaggio di sé e della classe di cui egli è a capo e guarda al vantaggio della classe governata solo entro lo stretto limite della necessità di non suscitare reazioni atte a danneggiare se stesso e la classe governante; – ed il tipo dello stato cooperativo, in cui il governante è il delegato dei governati e cerca di interpretare, nel modo migliore a lui possibile, il desiderio e gli interessi della maggioranza dei governati.

 

 

Pantaleoni ha assunto come punto di partenza il governo del tempo nel quale scriveva, col parlamento quale era, col governo e coi ministri quali egli conosceva, primo tra essi Agostino Magliani ministro delle finanze ed ha indagato come di fatto si costruivano i bilanci, si equilibravano entrate e spese, si sceglievano le spese da fare e si scartavano le altre, si deliberavano imposte.

 

 

Tutti tre gli schemi: quello monopolistico e quello cooperativo di De Viti, quello parlamentaristico di Pantaleoni sono consaputamente schemi, astrazioni, però utili alla interpretazione dei fatti che possono rientrare in quegli schemi. Nessuno schema è capace di fornire leggi generali, valide per tutti i tempi e tutti i paesi. Tutti tre sono utili a fornire un filo conduttore, uno strumento per ordinare classificare semplificare ed orientarsi frammezzo alla complicazione dei fatti reali. Nessuno schema può avere pretese più alte. Arnese provvisorio di interpretazione e di orientamento è soggetto ad essere abbandonato e ripreso a seconda dei fatti che si tratta di interpretare e di ordinare. Metto le mani avanti e dichiaro che i miei schemi non hanno alcuna pretesa di dettare qualsiasi legge generale degli istituti tributari. Offro qualche provvisorio e parziale strumento di interpretazione di taluni tipi di sistemi tributari. Nessun inconveniente nascerà se, ove non giovi, lo schema sia buttato. Ho tratto dalla storia antica greca e da quella del risorgimento italiano i fatti da ridurre a schema. Invece di costruire astrazioni della mente, ho cercato riassumere i tratti, che a me parvero caratteristici, di talune esperienze storiche finite. È vero che esse non hanno attinenza con esperienze presenti. Ma, volendo solo offrire modelli di indagine, era necessario riferirsi ad esperienze ben chiuse.

 

 



[1] Si fa così un po’ di torto a Geremia Bentham; ché questi vide subito (cfr. sopra, la nota al par. 168, p. 169) l’assurdità delle deduzioni che si potevano ricavare dal suo ragionamento. Ma poiché il ragionamento è suo e, se non andiamo al di là dell’individuo singolo, si chiarì fecondo, così pare corretto intitolare la tabella al suo nome.

[2] I trattatisti provvedono a rendere rigorosa la dimostrazione parlando di uguaglianza dell’utilità marginale ponderata, ossia dividendo la unità di ogni bene, comunque essa sia conformata, grossa o piccola, per il numero delle unità di numerario occorrenti per acquistare quella unità. L’uguaglianza dell’utilità marginale si riferisce al quoziente di siffatta divisione. Gli espedienti descritti nel testo hanno per iscopo di rendere l’operazione più evidente a primo tratto.

[3] Fondamentali sono qui i saggi di Maffeo Pantaleoni intitolati Contributi alla teoria del riparto delle spese pubbliche, in «Rassegna Italiana» del 25 ottobre 1883 e Teoria della pressione tributaria, Roma 1887, ambi ripubblicati in Scritti vari di economia, prima serie, Sandron, Palermo 1904, ed ora in Studi di finanza e di statistica, Zanichelli, Bologna 1938.

[4] Amilcare Puviani, Teoria della illusione finanziaria, Sandron, Palermo 1903.

[5] I saggi di Pantaleoni sono citati sopra in nota al par. 226; quello di Antonio De Viti De Marco, Il carattere teorico dell’economia finanziaria (Roma 1888) fu poscia rielaborato e nelle parti essenziali si legge nel capitolo primo del libro primo dei Principi di economia finanziaria, Einaudi, Torino 1939.

La scienza italiana e la imposta ottima

La scienza italiana e la imposta ottima

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 210-235

 

 

 

 

200. Giustizia e sicurezza furono congiunte insieme, ad attuare l’imposta adatta alla città terrena, in Italia nel secolo XVIII. Narrai altrove[1] la storia di quell’invenzione ed i suoi risultati. Volle Maria Teresa, padrona dello stato di Milano, porre termine ai disordini derivanti dai privilegi e dagli arbitrii invalsi durante il dominio spagnuolo (cfr. sopra paragrafi 195-98).

 

 

Fu incaricato nel 1718 il napoletano Don Vincenzo De Miro di presiedere una prima giunta del censimento (catasto) e nel 1739 il toscano Pompeo Neri di sopravegliare alla seconda, e dopo il 1748 di curare l’attuazione del catasto. Questi insigni uomini non indugiarono in ragionamenti sottili di giustizia perfetta, ma commisero «a quattro dei più accreditati ingegneri di proporre un metodo, acciò tale operazione restasse eseguita con tutta la giustizia, e con tutti i riflessi convenienti alla generale uguaglianza, che per lo scopo del censimento si doveva stabilire». Ingegneri stimatori pratici, non dottrinari, ebbero il carico di fissare i criteri con cui I’imposta doveva essere ripartita, ed ingegneri e pratici guardando attorno a sé, applicando criteri di stima usati forse da secoli, videro con occhi chiari il punto di incontro della perequazione verso lo stato, della sicurezza dei contribuenti e della prosperità pubblica.

 

 

Se si volesse riassumere in una definizione il contenuto del concetto di rendita imponibile osservato dagli stimatori milanesi, non si saprebbe trovarne altra migliore di quella del codice: Hoc fructuum nomine continetur quod justis sumptibus deductis superest (VII-51-1). Dal pensiero degli stimatori milanesi è assente qualunque accenno a distinzioni del reddito in varie parti od a derivazioni indipendenti di queste parti del reddito da certe forze produttive del terreno (ad esempio, dal terreno per sé; dai capitali fissi, dal capitale circolante o dal lavoro). Lo stimatore conosce solo i «frutti» del suolo o la «cavata» o la «rendita», che sono tutte parole sinonime, usate ad indicare il prodotto lordo della terra. Dal prodotto lordo devono essere dedotte «tutte» le spese, nessuna esclusa. Come il prodotto deve essere calcolato nella sua interezza, così le spese devono essere valutate in modo da rendere la cavata netta «del tutto pura». Le spese possono essere di lavorazione, di semente, di riparazione agli edifici, di perdite per infortunii.

 

 

La cavata netta, o rendita imponibile o parte dominicale si identifica con quella porzione di frutto che di netto va al padrone, dedotte cioè dalla cavata lorda «la parte colonica» e le altre spese che sopra furono indicate. Lo stimatore concepisce cioè il frutto lordo del fondo diviso in due parti, di cui una sono le spese, principale fra esse la quota colonica, ed il resto quod superest è la parte dominicale che va al padrone ed è oggetto della imposta fondiaria. Ancor oggi l’articolo 2 della legge 1 marzo 1886 dichiara che «rendita imponibile è quella parte del prodotto totale del fondo che rimane al proprietario netta dalle spese e perdite eventuali».

 

 

Tutti i calcoli sulla cavata o rendita lorda, sulle spese e sull’«ordine» del lavorerio, ossia sui metodi di conduzione, se a mezzadria (colonato) o ad affitto o ad economia, sui prezzi da usarsi per le varie specie di terreni e di frutti, devono essere condotti secondo «ciò che venga costumato in ogni sito», osservando «in tutto il costume del paese», seguendo «la pratica comunemente dalli stimatori ricevuta e regolata nel modo più mite e più benigno e più favorevole al paese».

 

 

quali istruzioni furono dappoi sapientemente riassunte nell’art. 2 della nostra legge fondamentale, secondo cui i fondi devono essere «considerati in uno stato di ordinaria e duratura coltivazione, secondo gli usi e le consuetudini locali», né si deve tener conto «di una straordinaria diligenza o trascuranza». Le quali ultime non sarebbero invero conformi a quel «costume del paese» a cui deve lo stimatore riferirsi sempre nei suoi calcoli di prodotti e spese.

 

 

Semplici norme, dettate con parole ingenue. Seguire il costume del paese, le pratiche comunemente ricevute, osservare lo stato di ordinaria e duratura coltivazione, non tener conto di straordinaria diligenza o trascuranza sono precetti che istintivamente, per illuminazione proveniente dalla visione chiara della realtà, abiurarono l’errore massimo della finanza dottrinaria, la quale misura il diritto dello stato secondo il merito altrui. Gli italiani che redassero le norme del catasto milanese videro che lo stato doveva in ogni modo ricevere la sua quota del prodotto comune; riceverla negli anni buoni e negli anni cattivi, perché la macchina statale non può mai interrompere il suo operare continuo; epperciò l’imposta non deve essere basata nel reddito effettivo variabile di ogni anno ma sul medio reddito di un bastevole lasso di anni. Videro che lo stato non poteva abbandonare le sue sorti alla mercé dei risultati ottenuti dai singoli contribuenti, abili o nulli, laboriosi o poltroni; videro che esso non doveva premiare i ritardatari e multare gli intraprendenti e giunsero naturalmente ovviamente alla grande idea dell’ordinarietà, del reddito medio, conforme agli usi del paese.

 

 

201. Traggo dalla memoria già ricordata su La terra e l’imposta alcune pagine nelle quali riassumevo i frutti ottenuti dalla attuazione dell’idea che gli economisti chiamati dai reggitori dello Stato di Milano a riordinare le imposte avevano rinvenuta nella pratica estimativa secolare ed avevano fatta propria. Dopo aver descritto la miseria del contado di Lodi dove «crudeli appaltatori erano arbitri della roba e delle persone: un povero bracciante pagava fino a 20 scudi di annua taglia; i piccoli proprietari, non bastando loro i frutti a pagare la metà delle gravezze, abbandonavano i poderi o li vitaliziavano a potenti privilegiati, che non pagavano tasse e non temevano tribunali», Carlo Cattaneo scolpisce il rivolgimento operatosi in brevi anni colle seguenti parole lapidarie:[2]

 

 

Il nuovo governo chiama successivamente a cooperare alla grande rinnovazione della Lombardia le belle e generose intelligenze di Pompeo Neri, di Gianrinaldo Carli, di Cesare Beccaria, di Pietro Verri.

 

 

Si stabilì un nuovo censimento, che mirava a collocare l’imposta sul valore fondamentale del terreno, anziché sul variabile annuo reddito, e sulla personale condizione dei possessori. Il nuovo catasto, decretato nel 1718, ritardato con infiniti artifizii da molte magistrature e da molte classi privilegiate, ottenne il sacro vigore di editto perpetuo all’1 gennaio 1760. Il suo principale effetto fu di pesare sull’inerzia ed alleviare l’industria; poiché, ferma stante la proporzione della tassa all’estimo una volta pronunciato, le migliorie successive rimangono esenti; e il fondo, quanto meglio è coltivato, viene a pagare una tanto minor quota del frutto. Non passarono dieci anni, che vasti tratti sterili si videro coperti di ubertose messi. Alla fine del secolo il valor venale fondiario dell’agro lodigiano era già raddoppiato!

 

 

Prima che da Carlo Cattaneo, i mirabili effetti del censimento milanese erano stati messi in luce da Gianrinaldo Carli, il quale, giunto alla chiusa del classico rendiconto dell’opera compiuta da lui e dai suoi antecessori, sotto il titolo di Conseguenze felici così scrive:[3]

 

 

Ma si ottenne ancora di più, cioè un incoraggiamento grandissimo per l’agricoltura, il che ordinariamente sfugge dall’occhio degli osservatori comuni. Questo incoraggiamento consiste non solo nella sicurezza della giustizia, nel pagamento della vera e reale quotizzazione del tributo, ma altresì nella provvida agevolezza per cui i miglioramenti delle terre, sia per nuova coltura delle incolte, sia per nuove piantagioni di gelsi ed altre utili piante, sono esenti da ogni aumento di censo, cosicché quel terreno, che è stato posto in estimo come incolto e però aggravato da minima tenue porzione di carico, divenendo colto e fruttifero seguita a pagare senza aumento alcuno il medesimo carico di prima. All’incontro que’ terreni i quali al tempo della stima si sono ritrovati colti, se mai per incuria o per negligenza divengono di peggiore condizione, rimangono senza diminuzione alcuna sotto il medesimo tributo. Così con una operazione sola si punisce l’inerzia e si premia l’industria; il che è stato sempre presso i politici un problema di difficile soluzione. Quanto abbia prodotto di bene questo sistema è incredibile. Nel solo Lodigiano a’ tempi della generale stima si son trovate incolte pertiche circa 23.000, ed ora non ve ne saranno cento. Infatti nel 1733 si numerarono, secondo la relazione del notaio Masera, caselli, ossiano bergamine ove il formaggio si fabbrica, num. 197; nel 1767 se ne sono contate num. 236, ognuna delle quali comprende vacche circa 120, fabbrica forme grandi formaggio 290 circa. Sicché di quel tempo in qua sono aumentati caselli num. 39 nel Lodigiano, ossiano vacche num. 4680, e formaggi num. 11.310, i quali nella provincia formano un ingresso intorno a Lire 848.250. Così in tutte le città le case sono raddoppiate, perché anche in questa classe l’alzamento ed ingrandimento non porta aumento di tassa.

 

 

Poiché la ripetizione giova, quando il medesimo concetto sia nuovamente esposto da penne sovrane, riprodurrò ancora due brani che si leggono in opere giustamente celeberrime di Carlo Cattaneo. Nell’introduzione al saggio famoso presentato agli scienziati italiani convenuti a congresso a Milano nel 1844, il Cattaneo noverò il nuovo catasto tra i fattori precipui del rifiorimento economico lombardo:[4]

 

 

S’intraprese il censo di tutti i beni, dietro un principio che poche nazioni finora hanno compreso. Si estimò in una moneta ideale, chiamata scudo, il valor comparativo d’ogni proprietà. Gli ulteriori aumenti di valore che l’industria del proprietario venisse operando, non dovevano più considerarsi nell’imposta; la quale era sempre a ripartirsi sulla cifra invariabile dello scudato. Ora, la famiglia che duplica il frutto de’ suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d’imposte, alleggerisce d’una metà il peso, in paragone alla famiglia inoperosa, che paga lo stesso carico, e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso all’industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti. Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmi l’ubertà d’un campo, che posseder due campi, e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece sì che col corso del tempo e coll’assidua cura il piccolo podere pareggiò in frutto il più grande; finché a poco a poco tutto il paese si rese capace d’alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne alimenta una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio, al paragone di quelle barbare tasse che presso culte nazioni si commisurano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò riescono vere multe proporzionali, inflitte all’attività del possessore!

 

 

Più ampiamente, lo stesso Cattaneo, nelle lettere in cui trasse argomento dall’esperienza lombarda per proporre riforme utili a sollievo dell’Irlanda, così additava allo studio degli stranieri il memorando canone di tassazione scoperto dai censitori milanesi:[5]

 

 

Il censo è quella descrizione generale del paese, nella quale ogni campo è designato nelle sue dimensioni e nella sua forma, e classificato giusta la condizione nella quale era al tempo in cui fu censito e il valore che allora aveva. E un’istituzione che influì oltremodo nel miglioramento perenne delle terre, perché provocò un indefinito investimento di capitali. In altri paesi la tassa fondiaria e le altre imposte su le proprietà (Land-tax) per lo più sono assestate sul reddito presente effettivo del podere, e crescono o diminuiscono col reddito. Questa proporzione degli aggravi alla ricchezza, ossia alla forza di sopportarli, sembra un atto di giustizia; ed è un errore d’economia.

 

 

Infatti: se il lavoro delle terre altamente coltivate corrisponde alla quantità del capitale investito; se il capitale in tal modo investito produce ben tenue interesse, cioè un tenue aumento di reddito; se all’aumento di reddito corre dietro un’imposta proporzionale: è assai facile che l’interesse tenue diventi tenuissimo, diventi nullo. Mancherà dunque nel proprietario ogni spinta ad aggiungere altri capitali, e la tassa proporzionale nell’improvvida e ignara sua giustizia arresterà il miglioramento. Questa profonda verità fu avvertita nello scorso secolo dai grandi economisti, che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti del nostro paese. Essi vollero adunque che nel censo fosse numerato e contrassegnato ogni campo, secondo il suo valore, ossia col numero degli scudi che esso valeva. La tassa fondiaria si riparte ancora oggidì sopra l’estimo allora stabilito. Quindi la provincia di Milano essendo estimata circa 24 milioni di scudi e quella di Cremona 14, le tasse si distribuiscono fra queste due province nella proporzione di 24 a 14. In ciascuna provincia poi e in ciascun comune ogni campo vi contribuisce in ragione del numero degli scudi a cui fu estimato. Ciò vale anche per le sovrimposte comunali (parish rates), che servono a sostenere in parte le spese delle strade, delle scuole, del medico, ecc. In un comune che ha per esempio l’estimo di venti mila scudi, se si mettesse una sovrimposta di due mila lire, risulterebbe nella proporzione di un centesimo per ogni scudo; e un campo estimato 70 scudi pagherebbe 70 centesimi, e così discorrendo. Due campi d’eguale superficie, ch’erano d’egual valore al tempo in cui furono censiti, cioè un secolo fa, sostengono una parte d’imposta fra loro eguale, benché l’uno d’essi siasi nel frattempo migliorato e dia reddito maggiore. Così l’aumento industriale del reddito rimane franco d’imposta. Quindi ognuno è spinto ad aumentare il reddito anche col più tenue impiego del capitale.

 

 

Aggiunger parole a queste pagine memorande di uomini davvero grandi sarebbe irriverente. Al pari di coloro che, ignoti all’Europa, reggevano le oscure sorti della Lombardia, i reggitori degli stati moderni debbono ricordare ognora che l’imposta sui sovraredditi (rendite positive e negative) non solo è una impossibilità tecnica, ma sarebbe una sciagura economica.

 

 

Debbono anche ricordare che la ordinarietà del reddito da assoggettarsi all’imposta non vuol dire catasto «perpetuo». Su ciò i moderni legislatori si discostano dalle affermazioni dei creatori del catasto milanese; bastando, a conseguire i benefici effetti della ordinarietà «un intervallo più o meno lungo di tempo e che giova sia determinato da principio». Così il Messedaglia, il quale poi seguita:[6]

 

 

Si tratta di un reddito di lenta e travagliata formazione; i capitali impiegati in imprese agricole non rendono generalmente che a lontane scadenze, e importa in sommo grado di poter misurare fin da principio i carichi da cui possono andarne gravati; importa ad ogni modo che gli aumenti eventuali di carico non vengan che tardi, e quando il maggior reddito sia per essere definitivamente conseguito e consolidato.

 

 

Vi è un interesse maggiore di economia nazionale di corrispondere a cosifatta esigenza, di lasciar respirare l’agricoltura, di non turbarla o versarla con estimi ripetuti a troppo brevi intervalli, di promuoverne i miglioramenti col premio di una temporanea immunità. I possibili deterioramenti si verificano, alla loro volta, in via ordinaria, alquanto a rilento, e possono perciò consentire, senza eccessiva sofferenza, una revisione a qualche distanza di tempo, purché questa non sia eccessiva.

 

 

Per altra parte, ogni operazione, anche di semplice revisione o rettifica generale di un catasto, è affare lungo, dispendioso, difficile, che s’incontra in ostacoli di ogni guisa, e ingenera perturbazioni che interessa di provocare il meno frequentemente che sia possibile: e ne abbiamo noi stessi la dimostrazione questo momento.

 

 

Il modo medesimo e la norma secondo cui si procede in un catasto alla determinazione della materia imponibile, non si accordan bene che col concetto di una ragionevole stabilità, e ne sono la naturale conseguenza. Si cerca un reddito relativamente costante, calcolato bensì sullo stato attuale, ma per un adeguato, che comprenda in termini di alquanta larghezza tutte le ordinarie vicende della coltivazione. I due concetti vanno perciò necessariamente connessi, e l’uno è il naturale correlativo dell’altro.

 

 

Bensì è stata già fatta l’osservazione che oggi si è assai meno inchinevoli ad una troppo lunga durata degli estimi, e propensi invece ad abbreviare i termini prestabiliti per la loro revisione periodica. Vi si ravvisa il vantaggio di proporzionar meglio l’imposta, in un’epoca sopratutto come la nostra, dove le mutazioni sono comparativamente forti anche a non lungo intervallo di tempo, e di moderare le resistenze che possono altrimenti conseguire da troppo inveterati interessi o rapporti. Anche ad altre epoche noi non abbiamo presente alcun caso in cui la stabilità del catasto sia stata espressamente garentita per la perpetuità.Si faceva calcolo di un termine assai lungo e non prestabilito, che poteva anche protrarre indefinitamente l’eventualità di una revisione; ma non si andava più in là.

 

 

Il lungo intervallo di tempo tra una lustrazione e l’altra, ché a tanto si riduce la «perpetuità» degli estimi agrari, è cagione di un altro benefico effetto. L’agricoltore, stimolato dall’esenzione dei sopraredditi oltre l’ordinario reddito catastale per i rimanenti anni a correre del trentennio, migliora la tecnica agricola, cresce la produttività dei campi. Gli sperimenti di novità, prima isolati, si moltiplicano. In capo al trentennio la terra è trasformata; e son diversi i metodi culturali, i prodotti, gli uomini. Quel che era prodotto «ordinario» al momento della lustrazione precedente è divenuto l’infimo ricavo degli agricoltori più ignoranti o meno capaci. L’agricoltore medio, buon padre di famiglia si trova spinto più in su nella scala della produttività; ed il prodotto «ordinario» è ora uguale a quello che trent’anni prima era il sogno degli sperimentatori più ardimentosi. Ecco d’un tratto la finanza raccogliere il frutto della sapiente sua prudenza nel perseguire i redditi eccezionali. Ecco dimostrato che l’adeguare l’imposta ai frutti effettivi non è solo, come esclamava Carlo Cattaneo, un barbaro errore economico, ma è anche un gravissimo errore finanziario.

 

 

202. La scoperta degli economisti italiani del ’700 si riassume in due idee semplici: oggetto dell’imposta sono i frutti che ogni anno nascono crescono e maturano nel fluire perenne del fiume della produzione; non i frutti effettivi che ogni uomo ottiene in ragione delle sue singolari attitudini e fatiche, bensì quelli che egli può ragionevolmente ottenere, nel luogo in cui egli vive e col sussidio delle istituzioni politiche, giuridiche e culturali le quali rendono possibile la sua vita economica, quando egli applichi una media intelligenza ed una ordinaria volontà di lavoro agli strumenti produttivi da lui posseduti. Non le astrazioni contabili, non i risultati di misteriose bilance intese a pesare numeri inconfrontabili perché separati dal trascorrere del tempo, forniscono la base all’imposta; bensì la realtà della vita che ad ogni istante fa perennemente giungere dinanzi agli occhi dello spettatore, il quale si collochi nel punto che divide simbolicamente la produzione dal consumo, nuovi beni e nuovi servizi. Ma lo stato non assume questi beni e questi servizi per quel che sono caso per caso per ogni individuo contribuente. Indagare quel che l’individuo di fatto produce di anno in anno è opera invidiosa e pericolosa. Invidiosa perché spinge l’individuo a guardare il vicino ed a spiare ed emulare la attitudine di costui a frodare; pericolosa perché spegne ed attenua la fiamma che induce l’uomo ad affaticarsi ed a progredire. Perché lo stato dovrebbe curarsi di sapere quel che l’uomo in effetto produce, giovandosi dei servizi che lo stato gli ha reso, dell’ambiente di giustizia, di libertà, di cultura e di elevazione spirituale che lo stato ha creato? Lo stato ha creato per tutti ugualmente; e chiede a tutti, in ragione di quel che esso ha dato.

 

 

203. Il problema posto dagli scienziati italiani della seconda metà del ’700 non toccava la ripartizione dell’imposta. Quegli uomini avevano certamente convinzioni precise in argomento. Lottavano contro l’arbitrio dei grandi e dei privilegiati, i quali tentavano ogni via per rigettare l’onere dell’imposta sui deboli e sui plebei; epperciò chiedevano l’uguaglianza oggettiva del tributo. Paghino le cose per quel che valgono, per quel che fruttano, senza riguardo alla persona che le possiede: nobili e plebei, ecclesiastici e secolari, tutti siano chiamati a pagare imposta in ragione delle cose possedute. Fu la grande conquista del secolo dei lumi; e se ne diede poi il merito agli uomini della rivoluzione francese, i quali la estesero all’Europa. Ma gli uomini di governo di Vittorio Amedeo II e quelli di Maria Teresa avevano già attuata l’idea in Piemonte ed in Lombardia.

 

 

La battaglia contro i privilegi era tuttavia cosa diversa da quella contro l’incertezza; e l’una va tenuta nettamente distinta dall’altra. Nel secolo XIX i privilegi assunsero altri nomi e la distribuzione dell’imposta ebbe tendenza a diventar nuovamente personale. Nel presente capitolo non si discorre di distribuzione dell’imposta bensì di accertamento e valutazione della materia imponibile. La scoperta italiana del «reddito normale» riguarda esclusivamente il problema di accertamento e valutazione della materia imponibile. Si può aver risoluto il problema di valutazione nel senso voluto da Vincenzo De Miro, da Pompeo Neri, da Gianrinaldo Carli e da Carlo Cattaneo, si può cioè abbracciare il partito di accertare e valutare i redditi «normali» invece di quelli «effettivi»; e si può nel tempo stesso distribuire, su questa base, l’imposta con criteri di personalità e non di realità, sul patrimonio e non sul reddito, con aliquote a base variabile crescente e non a base costante.

 

 

204. Il sacerdote della giustizia tributaria afferma che la proposizione: «l’imposta produce effetti definibili come buoni quando essa è ragionata in funzione del reddito normale delle cose possedute dal contribuente» è strumento inventato dai ricchi e dai loro giannizzeri per combattere la progressività dell’imposta.

 

 

A proposito d’altro, ho già protestato (par. 192) contro le illazioni le quali si volessero dalle tesi sostenute in questo saggio ricavare contro la progressività o la personalità dell’imposta. Poiché in quel punto ero occupato a dimostrare la vacuità di certe proposizioni le quali paiono vive e sono ombre sperdute nel limbo, non occorreva dir altro. Qui la posta è più grossa. Odio il mestiere del progettista; e perciò mi sono limitato, dopo tanto scrollare di falsi idoli, a porre una piccola modestissima tesi, teoretica e normativa nel tempo stesso: teoretica perché dice che l’imposta repartita in un certo modo, in funzione del reddito medio o normale o ordinario del gruppo o categoria di contribuenti produce effetti convenzionalmente definibili come desiderabili (incremento di reddito per i contribuenti e di materia imponibile per lo stato), laddove l’imposta repartita in un certo altro modo, in funzione del reddito effettivo variabile dell’individuo produce effetti convenzionalmente definibili come non desiderabili (vessazioni per i contribuenti, scoraggiamento di questi, remora all’incremento sostanziale o forse anche riduzione della materia imponibile); ma nel tempo stesso normativa perché l’uomo di stato può trarre da essa una norma di azione, diversa a seconda che egli voglia ottenere gli effetti detti desiderabili ovvero quelli definiti non desiderabili.

 

 

Bisogna riconoscere però che se la proposizione in discorso, oltre a raggiungere gli effetti desiderabili segnalati dal ragionamento e dall’esperienza, avesse altresì l’effetto di servire ai ricchi e disservire i poveri ed i mediocri, scemerebbe assai il suo valore normativo. L’uomo di stato potrebbe riconoscere che il concetto del reddito normale di categoria è preferibile a quello del reddito effettivo individuale se si desidera incoraggiare l’incremento dei redditi individuali, piccoli e grossi; ma potrebbe rimanere dubbioso intorno alla convenienza di accoglierlo quando egli voglia far servire l’imposta allo scopo di scemare le disuguaglianze esistenti fra ricchi e poveri o anche sia semplicemente persuaso, per qualsiasi ragione, della giustizia e convenienza di tassare più i ricchi che i poveri.

 

 

205. Il dubbio non avrebbe ragion d’essere. L’uomo di stato il quale si sia persuaso della preferibilità del concetto del reddito medio di categoria su quello del reddito effettivo individuale, non deve lasciarsi sopraffare dallo scrupolo di far cosa dannosa ai poveri ed ai mediocri. I problemi sono diversi. Ripeto che qui discuto esclusivamente il problema dell’accertamento della materia imponibile non l’altro, ben diverso, della ripartizione dell’imposta sulla medesima materia imponibile. Siano i soliti Tizio, Caio e Sempronio, forniti dei seguenti redditi e tassabili secondo i seguenti due criteri:

 

 

      Tizio Caio Sempronio Totale

 

Secondo il criterio del reddito effettivo individuale

 

 

Redditi

da

terreni

40

60

350

450

»

»

fabbricati

25

40

210

275

»

»

industrie e commerci

55

100

155

»

»

professioni

120

200

520

1080

520

1400

Secondo il criterio del reddito medio di categoria

Redditi

da

terreni

30

90

300

420

»

»

fabbricati

20

60

200

280

»

»

industrie e commerci

50

150

200

»

»

professioni

100

300

500

1000

500

1400

 

 

Ho costruito i due schemi in modo da mettere innanzi tutto in chiaro che il diverso metro di valutazione non influisce sul gettito dell’imposta a pro dell’erario. La base imponibile è, in ambi i casi, uguale a 1400 unità. Non v’ha ragione plausibile perché, qualunque sia la scala delle aliquote adottata, il rendimento dell’imposta varii apprezzabilmente a seconda del sistema di valutazione scelto.

 

 

Il criterio del reddito medio di categoria ha bensì, vuolsi notare subito per eliminare una critica irrilevante, la tendenza ad attardarsi nel tempo. Può darsi cioè che, se si accertano valori medi si corra un po’ meno nelle valutazioni di quanto si farebbe accertando immediatamente i valori effettivi. Dico che il vizio del ritardo è momentaneo; ché, se il sistema produce l’effetto suo logico e necessario di spingere all’aumento i redditi, l’erario si rivarrà del ritardo al momento della prima revisione.

 

 

Suppongasi tuttavia il peggio; e che per inettitudine della finanza a seguire le variazioni dei valori medi – ma perché supporre inettitudine solo rispetto ai valori medi e non anche a quelli effettivi? – questi si indugino costantemente al disotto dei valori effettivi. E che perciò? Il sistema è fondato sulla normalità delle valutazioni rispetto agli individui contribuenti e sulla loro temporanea costanza nel tempo, non sulla invariabilità delle aliquote. Se il criterio del reddito medio fornisse – facciasi un’ipotesi esagerata – una base imponibile di sole 700 unità invece delle 1400 unità fornite dal criterio del reddito effettivo, basterebbe applicare nel primo caso aliquota doppia di quella che si applicherebbe nel secondo. I proprietari di terreni in Italia sono tassati, ove si tenga conto dei centesimi addizionali comunali e provinciali, con aliquote le quali per lo più giungono al 100% della rendita imponibile e spesso la superano. Né essi hanno, per ciò, ragione di lagnarsi né si lagnano, salvoché per ignoranza. Le valutazioni della base imponibile non hanno lo scopo di scoprire la verità assoluta rispetto ai redditi. Questa è ricerca, oltreché vuota di contenuto, di mera curiosità estetica. Esse hanno invece per iscopo di accertare indici comparativi utili alla ripartizione del tributo. Che agli indici si diano per Tizio, Caio e Sempronio valori 100, 300 e 1000 come nello schema, ovvero i valori 10, 30 e 100, ovvero ancora 1000, 3000, e 10000 è perfettamente indifferente alla costruzione di un buon sistema tributario. Importa, se tale è il fabbisogno dello stato, ripartire equamente 400 lire d’imposta; non importa affatto ripartirle su una base imponibile totale di 1400 o 140 o 14000 unità.

 

 

Teoricamente si potrebbe persino rinunciare all’uso dell’unità monetaria lira o franco o sterlina ed usare numeri astratti, come ottimamente si faceva nei vecchi catasti. L’uso di numeri astratti aventi valore puramente comparativo avrebbe l’inestimabile vantaggio di evitare il ricorso ad unità monetarie soggette, nei tempi odierni e chissà per quanto tempo ancora, a variazioni imprevedibili.

 

 

Oggi, ripartendo il tributo su lire effettive si ottengono gettiti in eccesso o in difetto ogni qualvolta l’unità monetaria muti. Il legislatore aveva stabilito in 6000 lire o franchi un certo minimo di esenzione quando ogni lira equivaleva a 0,3 grammi di oro fino? Se il peso della lira è ridotto a 0,1 od a 0,05 grammi, ecco l’esenzione scemare di importanza reale e, pur restando sempre fissata in 6000 lire o franchi nominali, ridursi in realtà ad una cifra corrispondente a 2000 od a 1000 delle lire o dei franchi che in origine il legislatore aveva avuto in mente. Col metodo dei numeri astratti, concepibile però solo quando si apprezzino valori medi, le incongruenze oggidì frequenti sono eliminate.

 

 

206. Se dagli effetti per l’erario passiamo a quelli riguardanti i contributi, il sistema della tassazione in ragione del reddito medio di categoria che cosa dice? Caio possiede mezzi produttivi i quali in complesso sono tre volte più fecondi, in mani ordinarie, di quelli di Tizio; epperciò il suo reddito è assunto come triplo. Sempronio ha mezzi, di capitale e lavoro, decupli di quelli di Tizio ed il suo reddito è assunto come decuplo. Queste tre: 100, 300 e 1000 sono la base imponibile più conveniente, dal punto di vista del vantaggio privato e pubblico, per la ripartizione dell’imposta. Accade poi che Tizio e Sempronio, in proporzioni diverse, cavino dai mezzi posseduti più di quanto ne trarrebbe il contribuente normale, laddove Caio, poltrone od incapace, sta al disotto del normale. E v’ha chi sostiene che oggetto imponibile debbano essere le quantità 120, 200 e 1080. Chi ciò sostiene, invoca non il vantaggio dei singoli e del tutto, ma una misteriosa dea detta giustizia tributaria. Sul punto ho oramai disputato abbastanza per non dovervi tornar sopra.

 

 

Sia chiaro però che, fatta la scelta tra le due soluzioni, resta impregiudicata la questione della ripartizione dell’imposta.

 

 

V’ha chi preferisce il riparto con aliquota costante? Costui tasserà col 10%, ad esempio, medesimamente 120, 200 e 1080 (redditi effettivi) ovvero 100, 300 e 1000 (redditi medi), nell’insieme o nelle parti singole o un po’ nell’insieme ed un po’ nelle parti singole.

 

 

V’ha chi vuole il riparto con aliquota moderatamente progressiva? Ed egli tasserà, ad esempio, col 5% il 120 (effettivo) o il 100 (medio) di Tizio, col 7% il 200 od il 300 di Caio, col 9% il 1080 od il 1000 di Sempronio.

 

 

Se altri preferisca la progressione rapida, può gravare col 5% il 120 od il 100 di Tizio, col 10% il 200 od il 300 di Caio e col 20% il 1080 od il 1000 di Sempronio.

 

 

Ognuno, studioso o progettista o uomo di governo, può sbizzarrirsi a piacimento colla scala delle aliquote, con la tassazione separata o riunita, qualunque sia il metodo scelto per la valutazione della base imponibile. Trattasi di due scopi diversi da raggiungere: una buona scelta della base imponibile ha per iscopo e per effetto di spingere all’insù quei redditi che poi il tassatore colpirà a seconda dei suoi gusti in materia di riparto. Qualunque siano codesti gusti, sembra in ogni caso preferibile spingere innanzitutto la massa dei redditi all’insù, creare forze le quali elevino il contribuente medio e preparino la elevazione, in un momento successivo, della base imponibile.

 

 

V’ha chi vuol far servire lo strumento dell’imposta a combattere la grande proprietà e la grande impresa commerciale? Nessuno vieta a lui di essere un uomo di cattivo gusto e di far ragionamenti economici da bottegaio; ed, essendo bottegaio di cattivo gusto, di usare l’arma della progressività dell’imposta rispetto ai soli redditi i quali, malauguratamente per essi, hanno attirato la sua attenzione. Costui, ad esempio, si attaccherà ai terreni e colpirà i Tizii col 5, i Caii col 10 ed i Sempronii col 20%. Sarebbe strano che, in sede di discussione scientifica, si pretendesse di vietare agli invasati di attuare, quando afferrino il potere, le loro idee più o meno bislacche. Qui mi limito ad augurare che, nel regno degli ugualitari, i legislatori preferiscano tassare i terreni, con le aliquote che verranno loro in mente, piuttosto su 30, 90 e 300 che su 40, 60 e 350. Abbandono, non potendo farne a meno, in loro mano l’arma onnipotente dell’aliquota. La gente frenetica della giustizia ha, con essa, mezzo per battere sulla testa preferita di turco dei piccoli, dei medi o dei grandi, senza uopo di impacciarsi anche a mettere a sacco ed a fuoco la tecnica delle valutazioni e degli accertamenti.

 

 

Ho detto sopra (capo settimo) le ragioni dell’abbandono. Finora non esiste una teoria seria della proporzionalità o della progressività; non esistono regole scientifiche ossia logiche per dimostrare che una qualunque scala di aliquote sia più bella o più brutta di una qualunque altra. Vale, in siffatta materia, più un’oncia di prudenza e di buon senso che tonnellate di carta stampata. Gli uomini riuniti nei consigli chiamati a decidere le scale delle imposte siano saggi e prudenti, guardino all’insieme dei tributi e non ad uno solo, conoscano la ripartizione dei redditi nel luogo e nel tempo considerati, valutino adeguatamente le ripercussioni dei trasporti forzati di ricchezza dall’uno all’altro gruppo sociale, tendano all’elevazione dei più evitando il danno dei meno e del tutto!, ecco il pochissimo che si può dire a nome della scienza delle imposte. È certamente poco; ma qual colpa ha essa se la psicologia non sa fornirle i ponti di passaggio tra l’uno e l’altro essere senziente, e se la scienza politica è tuttora nell’infanzia?

 

 

207. Supponiamo dimostrata la proposizione teoretica che l’imposta produca effetti definibili come buoni quando sia ragionata in funzione del reddito normale delle cose possedute dal contribuente. Sia perciò accettata la norma la quale comanda a colui il quale possiede copia maggiore di strumenti produttivi, terre più ampie e bene situate, case più ambite, macchine e stabilimenti meglio costrutti o più potenti, di pagare di più di colui che è meno dotato; ma se due uomini posseggono strumenti produttivi uguali comanda altresì che essi debbano solvere uguale imposta, anche se l’uno ne cavò un frutto di 10 e l’altro di 20. Qual colpa ha lo stato dello scarso successo del primo e qual merito di quello notabile del secondo? Lo stato diede a tutti, per quanto toccava ai suoi compiti, uguali agevolezze; ed amendue debbono pagare ugualmente su quindici, se tale è il frutto che il contribuente ordinario può prudentemente essere reputato capace di cavare dai mezzi da lui posseduti.

 

 

208. La fecondità di quest’idea semplice, epperciò respinta dai moderni legislatori oltremontani che Carlo Cattaneo chiamava barbari, non è limitata al reddito del proprietario della terra. Nel ricordato saggio su La terra e l’imposta ho dimostrato che l’idea giovava a risolvere il groviglio della tassazione delle varie specie di redditi derivanti dalla terra: dominicale del proprietario, industriale dell’affittuario, del colono, del proprietario conduttore o coltivatore delle terre proprie, manuale del bracciante obbligato od avventizio. Se 100 è il frutto che ogni anno esce dalla terra, 100 e non più e non meno è il valore della somma dei redditi dei diversi partecipanti alla produzione, purché ogni reddito sia valutato contemporaneamente ad ogni altro reddito e col medesimo criterio. Altrimenti il totale sarà 50 ovvero 200, con offesa al buon senso ed alla logica. La distinzione fra prodotto lordo e redditi netti è un altro dei vani fantasmi i quali hanno turbato la mente del legislatore tributario, e l’hanno condotto ad errori funesti di somma e di sottrazione. Tutto il prodotto è composto di redditi netti di qualcuno. Quel che è reddito per Tizio è spesa per Caio; e il reddito di Caio è spesa per Tizio. Non di rado i legislatori hanno, oggi, inventato metodi differenti per valutare i diversi redditi netti nascenti dallo stesso ceppo di prodotto lordo; e di qui sono nati la confusione delle lingue e l’accavallamento dei tributi terrieri l’uno all’altro sovrapposti. Fa d’uopo ritornare alla fresca fonte del luminoso settecento, del gran secolo della ragione e delle idee chiare; e riaffermare che tutto e solo quel che nasce dalla terra è tassabile, che tutto deve essere valutato con ugual criterio e che il buon senso comanda di dare allo stato una parte del frutto che la terra dà in ugual misura a tutti coloro che la coltivano con diligenza ordinaria secondo i metodi consigliati dall’uso del tempo.

 

 

209. La fecondità dell’idea non è limitata alla terra. Altrove[7] ho anche discusso il problema dell’applicazione del concetto dell’ordinarietà alla tassazione dei redditi industriali commerciali e professionali.

 

 

Prima che dai dottrinari e dai legislatori, il problema è stato in questo campo affrontato e spesso risoluto dai pratici, contribuenti e procuratori alle imposte. Costoro si sono trovati di fronte al comando del legislatore, il quale ordinava di accertare per ogni contribuente, singolarmente considerato, l’uno indipendentemente dall’altro, ad ogni volgere di anno o di biennio o di quadriennio, il reddito vero effettivamente ottenuto. Si deve accertare il vero effettivo individuale di Tizio, sia 100 o 150 o 200, senza preoccuparsi del quantum di tassazione per Caio. Lo stesso sistema adoperandosi per Caio e per Sempronio e Mevio, e tassandosi tutti sul vero, giustizia è resa a tutti.

 

 

Il principio del vero effettivo individuale conduce logicamente a guardare piuttosto le differenze che le somiglianze, il particolare piuttostoché il generale. Il problema non è: quanto possono guadagnare in media i negozianti che hanno bottega nella tal via ed hanno tale giro di affari? Ma invece: quanto guadagna o quanto perde di fatto il negoziante A o il negoziante B o quello C? L’indagine deve quindi insistere non tanto sulle cause per cui da un dato giro d’affari deve risultare un dato reddito, quanto sulle cause per cui da quel dato giro d’affari, da quella data situazione, da quei coefficienti di produzione – tutte cose per fermo preliminarmente utilissime ad appurarsi – Tizio con intelligenza ed abilità è riuscito a ricavare un reddito netto di 100, Caio con intelligenza ed abilità minori un reddito di 50 e Sempronio, avventato od inesperto, ne trasse una perdita di 30.

 

 

210. Contro l’ideale del reddito vero effettivo individuale, scritto nella legge e accettato dalla dottrina, quella che si chiama comunemente «pratica» e che è l’insieme delle consuetudini di fatto osservate, delle norme seguite negli uffici finanziari ha condotto a poco a poco, non so se in molti o pochi casi, ad un risultato opposto, non scritto, non legalizzato, lamentato spesso, subito per lo più con rassegnazione per la difficoltà di fare meglio: ed è il metodo del vero presuntivo medio.

 

 

I funzionari delle imposte, trovatisi innanzi alle difficoltà concrete degli accertamenti, si sono persuasi presto che la ricerca del vero effettivo individuale poneva un ideale assai alto, tanto alto da non poterlo per lo più attuare. Nessuna nozione è così elastica, così difficile ad essere precisata come quella del reddito netto effettivo. Se il concetto del reddito è controverso nella dottrina, sì da aver dato luogo ad una letteratura amplissima ognora crescente, tanto più è controverso l’appuramento concreto del reddito effettivo delle imprese od economie individuali. L’impiegato che riceve in una data unità di tempo 100 lire di stipendio, il capitalista che riceve 5 lire di interesse sul capitale dato a mutuo possono credere che in tutti gli altri casi l’appuramento del reddito sia ugualmente agevole; ed a prescindere che anche per essi esistono problemi di epurazione, certo è che per i commercianti, gli industriali, i professionisti la bisogna è di una complicazione assai maggiore: quale valore daremo ai rischi, alle quote di deperimento e di ammortamento, alle esistenze di inventario, ecc. ecc.? Quale valore alle registrazioni dei libri di commercio e, dove questi non esistono, alle allegazioni degli interessati? C’è in fondo al concetto del reddito vero effettivo individuale, un pericolo, di cui i funzionari delle imposte avvertono immediatamente la portata gravissima per la finanza: il pericolo degli accertamenti di perdite. Se si vogliono appurare i redditi positivi individuali, giocoforza è ammettere che in certi casi e sovratutto in certi anni o periodi, i redditi siano stati negativi, ossia si siano verificate perdite. Quante volte, i funzionari non si saranno sentiti dai contribuenti muovere questa obiezione: noi saremmo ben disposti a pagare a fin d’anno sul reddito che nell’anno abbiamo di fatto ottenuto, purché l’accertamento di quell’anno non faccia testo per l’anno seguente e se il nuovo esercizio si chiuderà in perdita, questa sia riconosciuta? Il funzionario vede subito l’abisso dietro a queste parole, pur ragionevoli, anzi sacrosante, per chi parta dall’ideale di tassare tutto e solo il reddito effettivo. Vede l’abisso della moltiplicazione dei casi di perdita, non appena si apra uno spiraglio alla loro ammissione. Raccontano le storie che, in non so qual contrada, una legge fiscale ammise un giorno come motivo di esenzione da una imposta la stupidità o cretinismo. Improvvisamente, fioccarono sul tavolo dei funzionari esterrefatti, a migliaia, i certificati medici di cretinismo e le anticamere non bastarono a contenere la folla delle facce stupide che venivano a reclamare l’esenzione dall’imposta! Così, se sul serio si vuol cercare il vero effettivo individuale, il funzionario teme che la massa dei contribuenti, composta di gente media, faccia il tentativo di confondersi nella minoranza dei veri inetti o disgraziati. Perciò i funzionari riparano nella trincea del «medio», nella difesa inespugnabile del non poter ammettere che un professionista, il quale ha studio aperto, che un negoziante il quale ha bottega su via non guadagni almeno quel tanto che ogni persona media deve essere in grado di guadagnare in quella professione o in quel commercio. Se un contribuente non è capace di lucrare almeno il 5 o il 10% sul suo giro d’affari, se non è in grado di far rendere almeno 10.000 lire nette una bottega per cui paga un fitto di 5.000 lire, se non è in grado di cavare dal suo lavoro o dal suo capitale o da amendue almeno quel tanto che basti a far vivere la famiglia secondo la sua posizione sociale, perché continua egli a fare quel mestiere? Perché non chiude bottega e non mette un punto fermo alle perdite, acconciandosi a fare l’impiegato al soldo altrui, come fa lui, funzionario delle imposte?[8]

 

 

211. Logiche riflessioni, inspirate a buon senso ed al giusto desiderio di salvaguardare le ragioni del tesoro, che troppo pericolo correrebbe se dovesse subire l’alea delle disgrazie, vere o configurate, dei contribuenti. Di qui, il ripiegamento di fatto di ambe le parti, amministrazione e contribuenti, sulla posizione del reddito presuntivo medio. Quasi senza avvedersene, nella generalità dei casi, tra finanza e contribuenti, la discussione viene portata non su ciò che è, ma su ciò che deve essere. Il reddito effettivo individuale viene tacitamente lasciato in disparte come un mero concetto scritto da non occuparsene troppo; e si discute sul giro degli affari e sulla percentuale media di utile netto sul giro degli affari in questo o quel commercio. Si fanno concordati o si viene ad intese, fra ispettori superiori e rappresentanze dei contribuenti sul reddito medio per bacinella, per fuso, per telaio, per tale o tale altra unità di coefficiente di produzione usata in questa o quella industria. Il contribuente si adatta a pagare anche quando perde, perché, quando guadagna, non è tassato sulle punte individuali, di un anno o della sua ditta, ma sul medio reddito che le imprese della sua categoria sono reputate fornire. Anche i proprietari di fabbricati non sono sempre tassati sul reddito minore o maggiore ottenuto nei rapporti coi singoli inquilini, ma piuttosto in rapporto al reddito normale che fabbricati così e così, vecchi o nuovi, posti a mezzogiorno o a mezzanotte su questa o quella via, dotati di tali altri comodi, ecc. ecc., devono dare. Le discussioni sono ridotte al minimo; nasce una norma generalmente seguita, che risparmia attriti ed esagerazioni in un senso o in un altro. La finanza fa affidamento su un provento meno oscillante e gradatamente crescente; il contribuente si sente più tranquillo nel dare incremento alla sua impresa per il tempo per cui l’accertamento, fondato su criteri medi, è destinato a durare.

 

 

212. Qui si tocca una delle differenze fondamentali tra i due sistemi. Facciamo per il momento astrazione dalle applicazioni concrete; e supponiamoli amendue applicati in pieno, senza reciproche contaminazioni. Il metodo che tassa il reddito effettivo individuale non può, se vuole tassare il vero, dar remora al contribuente. Quando il reddito è 100 deve tassare 100; e se, essendoci una perdita di 50, deve astenersi dal tassare ed anzi dovrebbe concedere una detrazione corrispondente nell’anno successivo, deve però tassare 150 o 200, quando il reddito balza a 150 od a 200. Perciò il contribuente vive in continua inquietudine ed è trattenuto dal mettere in evidenza e talvolta impiegare capitali se teme che da ciò gli possa derivare un aumento di imposta. Sa che l’aumento è certo; mentre dubita sul condono immediato della imposta in caso di perdita.

 

 

Il metodo del reddito presuntivo normale rimedia alla difficoltà. In esso è implicita la deduzione delle perdite, perché non si tassano le punte eccezionali ed individuali dei redditi. Con esso la finanza non ha urgenza di revisioni annue, perché, se possono di anno in anno mutare le condizioni particolari dei singoli contribuenti, non muta altrettanto rapidamente il rendimento medio di una branca di industria o di commercio. Con esso, la finanza non è danneggiata, ma anzi trae grande vantaggio dall’attendere a tassare alla fine di un più lungo periodo l’aumento di reddito verificatosi dopo una revisione. Il farsi piccolo prima del concordato e, subito dopo, impiegare nuovi capitali e nuove iniziative nella propria impresa, così da godere per quattro anni (adotto, a scopo di esemplificazione, l’intervallo tra due revisioni un tempo usato in Italia) indisturbato l’aumento di reddito, è la conseguenza necessaria del metodo del reddito presuntivo medio. Necessaria e, nel tutt’insieme, assai più vantaggiosa alla finanza che ai contribuenti. Rari sono infatti i casi di imprese temporanee le quali durino solo per i quattro anni per cui la finanza non può variare l’imponibile e poi si squaglino.

 

 

Normalmente l’impresa dura anche oltre, sicché la finanza, alla fine del quadriennio, può elevare l’imponibile, ed elevarlo tanto più sicuramente in quanto è già trascorso il periodo iniziale di prova e di lanciamento dei nuovi capitali investiti.

 

 

213. Che i pratici, contribuenti e procuratori alle imposte, siano per tentativi giunti alle medesime conclusioni alle quali erano arrivati i grandi economisti italiani del ’700 fa onore non piccolo alla agilità mentale con la quale essi hanno saputo interpretare il comandamento letterale della legge tributaria. Essi hanno, attenendosi alle presunzioni ed ai criteri del reddito medio o normale di gruppo o categoria, scelto la via buona; ma poiché la lettera della legge assume a base della tassazione il concetto del reddito effettivo individuale, dal dissidio fra il comando letterale del legislatore e la applicazione pratica di esso sono purtroppo sorti compromessi eccezioni derivazioni contingenti e discordi. È cosa sostanzialmente saggia derivare, come si fa, il reddito imponibile dal numero dei fusi, delle bacinelle e dei telai, dal valore locativo, dal giro degli affari; ma poiché ciò si fa per applicazioni particolari, con criteri contingenti e variabili da industria ad industria e da luogo a luogo, le sperequazioni sono inevitabili; né possono essere rimediate dalle conferenze periodiche degli ispettori superiori alle imposte. In quel dato caso singolo, anche se la norma direbbe di accertare 100, ma soccorrono dati certi sul reddito effettivo, si accerta 120; in quell’altro, visti gli stessi dati certi, si accerta 70. Di qui sperequazione, poiché ognuno dei due sistemi, del reddito individuale effettivo e del reddito normale di categoria, può funzionare, a condizione che sia sempre in tutti i casi applicato lo stesso criterio; non a volta a volta quello del reddito medio o quello del reddito effettivo a seconda che l’uno o l’altro meglio giovi alla finanza o sia difeso con abilità dallo scaltrito contribuente.

 

 

214. Dal contrasto fra la lettera della legge e la pratica amministrativa non si esce se non trasformando gradatamente e prudentemente in legge quella che è opera dell’amministratore. Importa all’uopo che teorici legislatori e pratici, costretti a scegliere fra i diversi criteri di distribuzione delle imposte, si liberino del ridicolo senso, da cui si sentono oppressi, di rispetto umano di fronte alla boria dei dottrinari. Avrei scritto invano il presente saggio, se esso non fosse riuscito a dimostrare che dietro a quella boria c’è il vuoto. Il ministro alle finanze, il procuratore alle imposte, il contribuente debbono guarire dalla malattia del «complesso di inferiorità» da cui essi invincibilmente sono afflitti in cospetto dei sacri principii della scienza delle imposte. Non esistono sacri principii in materia di imposte. Non esiste il «vero» reddito; non esiste la «vera» giustizia; non esiste il «vero» principio di tassazione. Chi afferma l’esistenza di questi sublimi «veri» in una materia così concreta, così grossamente contingente è un contastorie. Esistono solo la logica, il buon senso, la analisi dei risultati che derivano dalla applicazione dell’uno e dell’altro dei tanti veri che si fanno concorrenza per attirare su di sé l’attenzione dei legislatori.

 

 

215. Non ho voluto offrire al legislatore la ricetta di nessun principio di giustizia per se stesso più vero di altri principii. Affermo soltanto che il «vero» detto reddito ordinario, è fecondo di risultati migliori dell’altro «vero» detto reddito «individuale effettivo». Dico che esso soddisfa meglio alla condizione di dare allo stato quel che spetta allo stato, laddove il «vero» detto reddito «individuale effettivo» dà allo stato quel che è proprio del contribuente o viceversa. Soddisfar «meglio» non vuol dire soddisfare «in tutto». Poiché non conosciamo il criterio perfetto per dare allo stato quel che è dello stato è giuocoforza contentarci di quel criterio il quale meno, di gran lunga meno dei suoi concorrenti, offende il buon senso. Dico che i pratici, contribuenti e procuratori alle imposte, dopo aver fatto i dovuti salamelecchi al «vero» dottrinario del reddito individuale effettivo, si attaccano al «vero», segnalato dalle necessità e dal buon senso, del reddito medio ordinario. Dico che essi non debbono vergognarsi affatto di avere infilato la buona via e, smettendola coi salamelecchi, debbono sentirsi orgogliosi di averla trovata. Aggiungo che essi non dovrebbero essere lasciati soli lungo l’arduo cammino. Teorici e legislatori debbono sforzarsi di andare a fondo delle ragioni per le quali la strada seguita in concreto è diversa da quella insegnata dalla cosidetta dottrina e dalla lettera della legge. Io sono convinto che la strada seguita in pratica conduce alla verità ragionevole, che in queste cose è quella che concilia, meglio che si possa, il vantaggio dell’erario e quello dell’economia pubblica. Sono convinto che su quella strada è possibile giungere, ad esempio, alla unificazione dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile degli industriali e dei commercianti e di quei suoi figli spuri che si chiamano, a seconda dei paesi, imposte sul giro degli affari o sugli scambi e sono contraffazioni mal riuscite delle imposte sui redditi industriali e commerciali, doppioni purtroppo oggi resi necessari dalla insufficienza dell’imposta madre. Poiché l’imposta di ricchezza mobile tende a colpire il giro degli affari e poiché la tassa scambi è anche un’imposta sul giro degli affari, perché non guardar in faccia alla realtà e, buttando dalla finestra le vane stupide parole di redditi netti, di redditi veri, analizzare il contenuto effettivo delle imposte quali sono state foggiate oramai da una lunga fruttuosa esperienza? Le imposte quali sono state costrutte dai contribuenti, dai funzionari e dai magistrati perfezionano i principii che settanta anni fa furono posti da legislatori sapienti e prudenti, ed ancora oggi riassunti, senza tener conto del concreto accrescimento avvenuto, nei trattati dei dottrinari. Una legge d’imposta è dapprincipio uno strumento affidato ai contribuenti affinché essi possano lottare invidiosamente l’uno contro l’altro. Tocca all’esecutore della legge strappare a poco a poco all’imposta il virus dell’invidia, adeguando tutti dinnanzi alla necessità della cosa pubblica.

 

 

216. Perché non strappare fin dall’inizio delle leggi tributarie il maledetto vizio originario dell’invidia reciproca tra contribuente e contribuente, vizio espresso nella assurda ricerca della «verità» tributaria assoluta immacolata immanente e sostituirvi l’ossequio alla «verità» pratica la quale tenta di far pagare ad ognuno quel che egli deve allo stato in ragione dell’opera compiuta dallo stato per creare l’ambiente giuridico e collettivo, entro al quale ognuno è chiamato a lavorare? Invece di guardarsi intorno per confrontare il maggior carico comparativo proprio con quello, asserito minore, altrui, ognuno guardi a sé ed allo stato; ognuno vegga se, dati gli strumenti di lavoro e di capitale da lui posseduti, egli abbia contribuito la quota, stabilita con uguaglianza universale, del prodotto che egli normalmente fu messo in grado di ricavare dalle cose sue sotto l’egida dello stato.

 

 

217. Questo dissero in sostanza Don Vincenzo De Miro, Pompeo Neri, Gianrinaldo Carli e Carlo Cattaneo: voi, o contribuenti, non dovete pagare l’imposta per quel che valete. A questa stregua, nessuno di voi dichiarerà il proprio valore e tutti affermeranno che il valore altrui è maggiore del proprio. Voi, invece, dovete pagare in ragione del valore degli strumenti di capitale e di lavoro che son vostri. Capitale e lavoro a nulla varrebbero senza il conforto dell’opera di protezione e di elevazione compiuta dallo stato. Perciò lo stato ha diritto di pretendere una quota del prodotto che dalle cose vostre si può normalmente, nelle condizioni esistenti di luogo e di tempo, ottenere. La quota prelevata dallo stato non è tolta a voi, perché senza di lui voi non avreste nulla. Ma quel di più che col vostro ingegno, colla vostra fatica, colle vostre rinunce voi otterrete in confronto al presunto prodotto ordinario, sarà tutto vostro. Vostro fino al giorno in cui, grazie al perfezionamento, vostro e dello stato insieme, il prodotto ordinario ed il fabbisogno dello stato non siano medesimamente cresciuti e da un gradino più alto si possano prendere le mosse verso una meta più luminosa.

 

 

218. Noi chierici della scienza, mancheremmo al nostro dovere se ci stancassimo dall’additare al disprezzo degli uomini pensanti il virus dell’invidia tributaria ed alla loro osservanza il principio del dovere verso lo stato, il quale servendoci ci innalza.

 

 

Mancheremmo al nostro dovere se ci stancassimo dal guardar dentro alle vanità le quali si sono travestite da teoremi scientifici. La lunga analisi dei fantasmi, dei miti, dei paradossi e della superbia dottrinaria in materia d’imposte richiede un atto di umiltà. Rendiamo omaggio alla scienza astenendoci dal pronunciarne il nome invano.

 

 

Riconosciamo di non possedere il metro invariabile della giustizia tributaria, al quale l’umanità debba inchinarsi. Lo cerchiamo da secoli; ma non l’abbiamo ancora trovato. Dinnanzi alla maestà dello stato non invochiamo a gran voce giustizia per trarne pretesto a confronti invidiosi. Nessuno voglia essere da meno e di più del vicino e dell’amico posto nelle stesse condizioni. Rendiamo a Cesare quel che è di Cesare, diamo allo stato quel che ad esso è dovuto in ragione di ciò che ha creato a nostro favore. L’invidia non ci spinga a dire: non posso perché, pur possedendo gli stessi mezzi, non riuscii come il vicino come l’amico. Lo stato mi aiutò ad alzarmi in piedi ed a camminare; epperciò, non perché io abbia saputo camminare molto o poco, gli debbo tributo.

 

 



[1] In La terra e l’imposta, nel primo quaderno degli «Annali di economia» dell’Università commerciale Bocconi di Milano 1924. Ivi è ricordata la bibliografia essenziale. Si aggiunga qui che la relazione Messedaglia, allora praticamente irreperibile, è stata oggi rimessa a disposizione degli studiosi a cura del nipote Luigi Messedaglia col titolo Angelo Messedaglia, Il catasto e la perequazione, Cappelli, Bologna 1936. Lo scritto La terra e l’imposta fu ristampato, coll’aggiunta di una Appendice (pp. 201-306), nel vol. II della serie prima di una prima raccolta, in tre volumi delle «Opere», Einaudi, Torino 1942, raccolta oggi sostituita dalla presente.

[2] In Notizia economica sulla provincia di Lodi e Crema, estratta in gran parte dalle memorie postume del colonnello Brunetti, in «Il Politecnico», vol. 1, 1839, pp. 153-55. La notizia oggi è ripubblicata in Saggi di economia rurale di Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1939, pp. 85-114.

[3] In Relazione del censimento dello Stato di Milano, nella raccolta di Scrittori classici italiani di economia politica del barone Custodi, parte moderna, vol. XIV, 1804, pp. 315 sgg.

[4] In Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano 1844, Introduzione, p. XCV; ristampata nel vol. IV delle Opere edite ed inedite di C. C. raccolte da Agostino Bertani, p. 267. Il brano è riprodotto nei citati Saggi di economia rurale, p. 34.

[5] Di alcune istituzioni agrarie dell’Alta Italia applicabili a sollievo dell’Irlanda, lettere a Roberto Campbell regio vice console in Milano. Lettera quarta dell’1 marzo 1847, in Opere citate, vol. IV, pp. 334 sgg. Le lettere sono ripubblicate per intero nei Saggi di economia rurale cit., pp. 133-204. Il brano riprodotto nel testo si legge a pp. 183-84.

[6] Relazione della commissione… sul disegno di legge «Riordinamento della imposta fondiaria». Atti parlamentari, leg. XV, prima sessione, doc. n. 54-A, p. 173.

[7] In Ancora la sperequazione e le evasioni nell’imposta di ricchezza mobile, in «La Riforma Sociale» del gennaio-febbraio 1929, e di nuovo in Saggi, pp. 168 sgg.

[8] In un articolo riprodotto da l’«Informazione industriale» ne «Il giornale dei ragionieri» del 31 gennaio 1928 l’avv. Luigi Sertorio riporta «Il ricordo di un caso specifico» in cui il funzionario avrebbe allegato al contribuente «che se anche l’azienda è in perdita, non è questo motivo convincente per escludere che l’imposta di ricchezza mobile debba pagarsi, perché non è giusto creare ad un dato contribuente una condizione industriale più favorevole di quella dei suoi concorrenti che pagano l’imposta di ricchezza mobile». Il Sertorio riferisce il ricordo a guisa di critica. Si vedrà subito, per le cose dette nel testo, che l’allegazione del funzionario ha un fondamento dottrinale di grande peso.

Sì, se da imposta si fa taglia

Sì, se da imposta si fa taglia

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 202-209

 

 

 

 

193. L’imposta ottima, alla quale i legislatori aspirano, sappiamo già essere quella che non grava, che non pesa, che non preleva nulla, anzi cresce la ricchezza dei contribuenti. E questa non si può chiamare imposta. Inversamente, è vera imposta quella che sul serio grava preleva taglieggia; quella prelevata dallo stato che porta via assai e poco restituisce ai cittadini. E questa la chiameremo «taglia».

 

 

194. Nei tempi moderni gli uomini quasi non conoscono più che cosa sia la vera taglia. Bisogna risalire agli scrittori del decimosettimo e del decimottavo secolo per leggere qualche pagina viva su di essa.

 

 

Un secolo innanzi alla rivoluzione La Bruyère descriveva il contadino francese:

 

 

Si veggono, sparsi per la campagna, neri, lividi e bruciati dal sole taluni animali salvatici, maschi e femmine, asserviti alla gleba che essi frugano e rimuovono con invincibile ostinazione. Costoro hanno quasi una voce articolata e, quando si alzano in piedi, dimostrano una faccia umana, ed in verità sono uomini. Durante la notte si ricoverano in tane ove vivono di pane nero, d’acqua e di radici. Poiché essi scansano agli altri uomini la fatica di seminare, di arare e di mietere per vivere, costoro meritano di non mancare di quel pane che hanno seminato.

 

 

Delle cause le quali avevano persuaso Saint-Simon a dire del più gran re d’Europa che egli era anche il re des gueux, una è messa in risalto da Alessio di Tocqueville : l’incertezza arbitraria dell’imposta.

 

 

L’esattore a cui tocca la mala ventura di ripartire la taglia fra i contribuenti del suo comune è nel tempo stesso tiranno e martire. Poiché egli è responsabile con tutta la fortuna per il versamento della somma assegnata al comune, ognuno schiva il carico ruinoso e tutti sono chiamati a forza a sostenerlo a turno. «L’ufficio – afferma Turgot – è cagione di disperazione e quasi sempre di rovina per coloro ai quali è affidato; tutte le famiglie agiate del villaggio sono così ridotte ad una ad una alla miseria». Ridotto egli alla rovina, tiene in pugno la rovina di tutti. «La preferenza per i suoi parenti – diceva nel 1772 l’assemblea provinciale dell’alta Guienna – per gli amici e per i vicini, l’odio, la sete di vendetta contro i nemici, il bisogno di un protettore, la paura di recar dispiacere a un cittadino agiato che fornisce lavoro, lottano nel suo cuore col sentimento della giustizia». Il terrore toglie all’esattore ogni senso di pietà. In talune parrocchie l’esattore non va in giro se non accompagnato da soldati e da uscieri. Nessun contribuente tuttavia paga se prima i soldati non hanno preso stanza a casa sua. Il contadino aspettando, come l’asino, di essere battuto prima di pagare, è politico fino. «Per fuggire alle imposte violente ed arbitrarie, il contadino francese, in pieno secolo XVIII, agisce come l’ebreo del medio evo. Egli si fa vedere in apparenza miserabile, anche se per avventura non lo sia in realtà. L’agiatezza esteriore a gran ragione lo impaurisce. La società d’agricoltura del Maine narra nel rapporto per il 1761 di avere accarezzato per un momento l’idea di distribuire bestiame a titolo di premio ed incoraggiamento. Ne fu dissuasa dal pensiero delle conseguenze dolorose che una bassa gelosia avrebbe potuto attirare a danno dei premiati, soggetti a vessazioni di cresciute imposte negli anni seguenti».[1]

 

 

Il contribuente, temendo di vedersi domani cresciuta l’imposta, ove pagasse puntualmente, preferisce sopportare la spesa dell’esecuzione forzata piuttostoché farsi vedere in grado di pagare.

 

 

Ognuno, – esclama l’assemblea provinciale del Berry – teme di mettere in vista le proprie ricchezze; si rinuncia a mobilio, a vestiti, a cibo ed a tutto ciò che è soggetto alla vista altrui». Il signor di Choiseul Gouffier voleva far coprire a proprie spese con tegole le case dei suoi contadini esposte ad incendio. Costoro lo ringraziarono per la bontà, supplicandolo però di lasciare nel loro stato le capanne, ché, se fossero state coperte di tegole invece di paglia, gli esattori avrebbero cresciuto la taglia. Se io guadagnassi di più, esclama un contadino, lavorerei a profitto dell’esattore.[2]

 

 

Le Pesant de Boisguilbert un secolo prima della rivoluzione aveva veduto nettamente le cause del male. La rovina della Francia è sovratutto dovuta

 

 

alla incertezza della taglia, la cui tariffa, essendo in tutto arbitraria, vanta questa sola certezza: che più si è poveri, più si paga… Il minor danno della taglia, è, per il popolo, dover pagare qualcosa al re; la sua perfezione è tanta da ruinare nel tempo stesso chi, schiacciato dal peso, cade e chi riesce a schivarla… Il numero dei tagliabili diminuisce ogni giorno; ed oggi bisogna pagare in trenta quel che ieri si sopportava in sessanta… Poiché importa scansare qualsiasi mostra di ricchezza; non si osa, per paura di pagare il doppio d’imposta, possedere, anche quando si potrebbe, il necessario bestiame, senza il quale non si ingrassano i terreni, come pur si vorrebbe da chi sa essere gli ingrassi l’anima dell’agricoltura e della cerealicoltura.[3]

 

 

195. L’arbitrio aveva prodotto i medesimi effetti in Italia. Leggiamo le pagine solenni della Relazione dello stato, in cui si trova l’opera del censimento [catasto] universale del Ducato di Milano nel mese di maggio dell’anno 1750, il documento di maggior sapienza che la storia della finanza vanti in Italia e fuori d’Italia.

 

 

Contro il detto del legislatore romano:

 

 

Is vero, qui agrum in alia civitate habet, in ea civitate profiteri debet, in qua ager est; agri enim tributum in ea civitate debet levare, in cuius territorio possidetur,

 

 

ossia contro la regola di universale tassazione delle cose nel luogo dove erano situate, le classi privilegiate condussero lunga guerra, vittoriosa per esse, disastrosa alla cosa pubblica.

 

 

Dalla legge del territorio, legge chiara e immutabile, non si può recedere senza cadere in mille assurdità, e in un mare di incertezze; poiché volendo descrivere e censire i beni, non secondo la regola del sito, dove sempre sono stati e in eterno staranno, ma secondo qualunque altra regola fondata nelle qualità personali del possessore, ogni regola resta turbata dalle variazioni giornaliere, che seguono in queste qualità personali e nel passaggio dei beni da un nome all’altro, sicché il catasto resta sempre vacillante e si privano le comunità di quel naturale patrimonio, da cui nei loro bisogni devono ricevere aiuto (p. 30).

 

 

196. Litigi infiniti sorsero in Lombardia tra il 1559 ed il 1718 a causa dell’arbitrio proprio del criterio dell’imposta personale: cittadini contro rurali, rurali contro cittadini, città le quali, colla pretesa di tassare i cittadini per tutto il loro reddito, da qualunque fonte ricavato, rubavano, per quel che tocca l’imposta, la terra ai villaggi; comuni rurali i quali per resistere alle conseguenze dello spopolamento, a sua volta dovuto alle imposte vessatorie ed arbitrarie, fingevano subietti immaginari di imposta ed, attraverso a quelli, si accanivano contro i subietti vivi e veri. Ignoro se nella letteratura finanziaria si legga una pagina che possa paragonarsi a questa, classica, che Pompeo Neri dettò nella relazione del censimento milanese:

 

 

Siccome tali pratiche arbitrarie [nel riparto delle imposte sui beni, sulle persone e sulle bocche, che allora distinguevansi variamente le une dalle altre] hanno per lo più inclinato all’aggravio delle persone, talché in qualche luogo, parte per il rigore delle tasse e parte per altre disgrazie è seguita la spopolazione, così per rimediare alla mancanza, che facevano i fuggitivi fu inventato un rimedio, che certamente non ha mai servito a popolare verun paese, e questo fu d’immaginare, che dove le persone non erano vi dovessero essere, e che quelle pertiche di terreno, che servivano ordinariamente al lavoro e mantenimento di una testa, cioè di un capo di famiglia, dovessero costituire una simil testa, che fu detta Testa morta, obbligata a pagare quel che nell’annue comunali imposte tocca a pagare a una testa viva e a due bocche vive. E di tal pagamento della testa morta furono incaricati i padroni del terreno, che oltre al trovarselo derelitto dagli agricoltori, se lo trovarono fecondato di questa nuova gabella, la quale fu creduto, che dovesse incitare i padroni a tener conto con maggior cura degli agricoltori, e che dovesse rimediare all’avarizia di alcuni, che per evitare la tassa personale facevano lavorare i proprii terreni a sua mano per mezzo di lavoranti forestieri; ma quando gli agricoltori abbandonano il terreno, o per incursioni militari, o per esorbitanza di tasse, come è seguito più volte in questo dominio, l’esperienza ci ha fatto conoscere, che il paese non si ripopola a forza di teste morte, e che senza dar loro un modo di vivere, le teste vive non tornano più (pp. 45-46).

 

 

197. L’arbitrio guastava, durante il dominio spagnuolo, tutto il sistema d’imposta. Il principe urgeva lo stato, lo stato si rivolgeva alle province e queste ai comuni. Purché la somma chiesta fosse versata all’erario, nessuno curavasi di vegliare ai modi della ripartizione e del pagamento.

 

 

Il metodo oscuro e disuguale di ripartire… somministra agli amministratori delle comunità una occasione di nascondere nelle imposte la verità delle somme convenienti al preciso bisogno, poiché i comunisti non potendo sapere con notizie certe la quantità del loro contingente, non si possono accorgere se siano sopraccaricati e bisogna che corrano ciecamente la fede dei loro amministratori… L’obbligazione solidale, che ha la comunità di corrispondere per i non solventi, il che non può fare senza sovrimporre per loro sopra i solventi, dà loro il pretesto di fare tali soprimposte a loro talento, pretesto, che non può essere disturbato dai contribuenti, perché sanno lamentarsi che il carico è grave, ma non sanno mai fare il conto perché sia ingiusto, e non può essere disturbato dai superiori, a cui si porta il denaro perché la giustificazione del gravame è troppo difficile, e perché a chi porta il denaro si stima un atto di prudenza e di giustizia l’accordare tutte le agevolezze, per metterlo assieme senza difficoltà (pp. 72-73).

 

 

Contingenti, solidarietà, ripartizione fatta dagli interessati sono parole le quali ritornano di moda. Chi le riaffaccia ricorda le ombre che le accompagnarono nel passato? Il procuratore alle imposte, funzionario di stato, è forse un imperfetto sostituto del magistrato. In lui, accanto all’animo del giudice, vive il vecchio animo del rappresentante del fisco regio, il quale non solo difende il suo patrimonio contro gli assalitori, ma lo vuole ad ogni costo e con ogni mezzo crescere a danno del privato. In fondo all’animo fiscale vive però la consapevolezza dell’interesse pubblico e nasce il germe dell’imparzialità con la quale il giudice attribuisce il suo allo stato ed al privato. Importa rafforzare i germi buoni e farli crescere; importa attribuire la definizione ultima di tutti i litigi tributari, di fatto e di diritto, al magistrato indipendente, ed importa che egli, non avendo nulla da temere né da sperare dagli uomini e sapendo di dover solo rendere conto dell’opera propria alla coscienza ed a Dio, si senta e sia davvero indipendente. Attribuire ai confratelli, ai consorti, sia pure riuniti in associazione, il compito, – gelosamente riservato al padre, al capo, al re e da questi delegato al magistrato che, pur incarnandoli, è tenuto ad ubbidire ai loro comandi solo quando siano tradotti nel verbo della legge – di ripartire le imposte, sarebbe un ritornare indietro di centinaia d’anni, un abbandonare le bilance della giustizia in mano ai forti ed agli astuti, con inenarrabile iattura dei deboli e degli onesti.

 

 

198. Don Vincenzo De Miro, presidente della prima giunta del censimento scelse a caso ottanta comuni, dieci per ciascuna delle otto province dello stato e calcolò quanto ammontasse il gravame delle imposte «regie» supponendo che per tre quarti cadesse sui fondi e per un quarto sulle persone.

 

 

Disuguaglianze meravigliose furono osservate. Lo scudo di valor capitale dei terreni e degli altri beni catastati apparve soggetto a balzello variabilissimo nella stessa provincia e più tra province diverse. Fu constatato che nel contado di Milano i terreni del comune meno tassato pagavano in media solo 8 denari e 5 punti per scudo, laddove quelli del comune più tassato pagavano 2 soldi, 5 denari e 3 punti, il che vuol dire quattro volte tanto; che nel contado di Cremona il minimo carico era di 6 denari e 5 punti ed il massimo di 4 soldi, 7 denari e 9 punti, con un divario di più che da 1 ad 8; e che nell’intiero stato milanese il comune meno tassato tra gli ottanta scelti a caso pagava solo 1 denaro e 9 punti, laddove quello più tassato soggiaceva ad un carico di 13 soldi 5 denari e 1 punto per scudo di estimo, più che 92 volte il carico minimo.

 

 

Disuguaglianze non minori si osservarono nel «carico personale», le quali si possono riassumere dicendo che la testa media del comune meno tassato pagava 13 soldi, 11 denari ed 1 punto, laddove la testa media del comune più tassato soggiaceva ad un onere di 36 lire e 9 punti, più di 51 volte tanto.

 

 

Prudentemente, il presidente De Miro osserva: «Le sproporzioni e disuguaglianze osservate in detti ottanta comuni hanno luogo anche in tutti gli altri dello stato, e ve ne saranno molti, nei quali si darà più grave sbilancio di quello si è notato nei suddetti» (p. 49). Come potrebbero le disuguaglianze essere minori, se si tenta di riassumere la descrizione che con animo indignato di giureconsulto il De Miro tracciò del disordine e dell’oscurità di quei metodi di riparto dei tributi?

 

 

Bocche e teste, bocche e mezze bocche, metà e quarti di testa di femmine, di muti e di storpiati, teste vive morte e finte, teste di massari e teste d’ottava colonica, teste diversificate in ragion della santa comunione o del matrimonio, teste di famigli, di capi di casa, di ammogliati, di uomini sciolti, di vedove, pertiche civili ecclesiastiche e forensi, punti di pertiche, di uomini e di fuochi; ecco il linguaggio che nei gridari milanesi si usava ad attuare la «giusta» ripartizione delle imposte. Fatti i conti e ridotti i risultati ad unità semplici di misura, testa d’uomo o scudo d’estimo, accadde che Don Vincenzo De Miro riscontrasse diversità da 1 a 51 sulle teste e da 1 a 92 sugli scudi d’estimo. Siamo davvero sicuri che nei perfezionatissimi sistemi personali di distribuzione delle imposte acclamati nei tempi moderni non si sia giunti, sempre in ossequio alla dea giustizia, a disuguaglianze di gran lunga più gravi e meno spiegabili di quelle che stupivano il giureconsulto del ’700?

 

 

199. Perciò il grido di tutti gli scrittori di finanza nei secoli XVII e XVIII più che giustizia era certezza. Si voleva giustizia sovratutto ad assicurare i popoli contro il danno dell’arbitrio. Quando dettava la sua seconda massima:

 

 

L’imposta che ognuno deve pagare dovrebbe essere certa e non arbitraria. Il tempo del pagamento, il modo del pagamento, l’ammontare dovuto, tutto dovrebbe essere chiaro e semplice sia per ogni contribuente, come per qualsiasi altra persona. Là dove così non si opera, ognuno il quale sia soggetto all’imposta è posto nella balia più o meno stretta dell’esattore, il quale può gravar la mano sui contribuenti sgraditi ovvero estorcere, colla minaccia dell’aggravio, qualche regalo o mancia a proprio vantaggio. La incertezza dell’imposta incoraggia la insolenza e favorisce la corruzione di una categoria di uomini, la quale è impopolare per se medesima, anche quando i suoi membri non siano né insolenti né corrotti. La certezza dell’ammontare che ognuno è chiamato a pagare è affare di così grande importanza in materia di imposta che un grado assai considerevole di disuguaglianza sembra essere, ove si giudichi secondo l’esperienza universale dei popoli, un danno di pochissimo conto in confronto ad un piccolissimo grado di incertezza (Wealth of Nations V, II, II, II).

 

 

Lapidariamente, come soleva, Adamo Smith riassumeva in breve sentenza la esperienza dei secoli. Il secolo XIX e più forse il secolo XX dimenticarono quell’insegnamento e corsero dietro al mito della giustizia assoluta. Per gran tratto del cammino giustizia e sicurezza non contrastano l’una l’altra ed anzi l’una giova all’altra, potendosi riscuotere più agevolmente con minore opposizione del contribuente l’imposta equa che quella iniqua. Giunge tuttavia il momento in che la ricerca della giustizia, affinandosi, passa il segno e diventa incompatibile con la certezza. La giustizia nella distribuzione dell’imposta si misura con la bilancia grossolana dell’occhio e della mano, non con quella delicata dell’orafo. Quando il legislatore tenta di adoperare bilance sottili, bisogna ricordargli la conclusione solenne smithiana: «un grado assai considerevole di disuguaglianza sembra essere, ove si giudichi secondo l’esperienza universale dei popoli, un danno di pochissimo conto in paragone con un piccolissimo grado di incertezza». L’incertezza distrugge la materia imponibile. Il comando: pereat mundus, sed fiat justitia non giova qui dove si tratta di far giustizia allo scopo di serbare in vita, coll’imposta, la città terrena.

 

 



[1] Taine, L’ancien regime et la revolution, pp. 192 sgg.

[2] Ibid., pp. 464 sgg.

[3] La France ruinée sous le règne de Louis XIV. Par Qui et Comment. Avec

les moyens de la retablir en peu de tems. A Cologne 1696.

Esiste l’imposta?

Esiste l’imposta?

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 192-201

 

 

 

 

183. La domanda può parere paradossale e non è. Dissi già che debito pubblico (paragrafi 134 e 135) ed imposta (paragrafi 15-18) talvolta paiono vivi e son morti. Sono le vendette della realtà contro la boria dei giustizieri. Questi vorrebbero che gli uomini soffrissero l’imposta e continuamente paragonassero i sacrifici dell’uno ai sacrifici dell’altro e sommassero sacrificio a sacrificio e proporzionassero sacrificio a piacere; o vorrebbero che l’imposta portasse via ogni anno una parte, costante o variabile, di una certa misteriosa entità di bilancio chiamata saldo utili. La realtà si ride dei piani dei giustizieri e li scompiglia di continuo. Non appena il dottrinario ha immaginato un sistema, in base al quale tutti coloro i quali si trovano in una data situazione debbono pagare, ad esempio, 1.000 lire di imposta su 5.000 lire di reddito, ecco che inesorabilmente, giorno per giorno, l’ala del tempo cancella l’opera del dotto legiferatore. Tizio paga, per qualche anno, le 1.000 lire sulle 5.000 lire di reddito della casa e ne soffre, come il giustiziere voleva. Come per tutti i dolori umani, anche il dolore dell’imposta col tempo si attenua, e l’abitudine lo fa parere minore. Giunge il momento nel quale Tizio vende la casa e se ne va con dio provveduto delle 80.000 lire, prezzo di mercato al 5% di una casa che rende nette 4.000. Egli ha sofferto l’amputazione di 20.000 lire sulle 100.000 che la casa avrebbe potuto valere se l’imposta non fosse mai esistita. Forse, se il tempo non ha ancora attutito il ricordo dei redditi e dei prezzi che furono, egli è il solo il quale oramai soffra la imposta delle 1.000 lire. Ma a lui che ha venduto nessuno pensa quando si parla dell’imposta di 1.000 lire gravante sulla casa. Egli è un camminante, perso nella nebbia dell’orizzonte, il quale va verso altre imposte, dimentico di questa che lo ha addolorato in passato. L’acquirente soffre dolore quando paga il tributo annuo delle 1.000 lire? No, perché egli riceve il 5%, 4.000 lire annue di reddito, dal capitale di 80.000 lire investito nella casa. L’imposta c’è, il tesoro dello stato la incassa e nessuno sente il dolore. Benvenuto Griziotti in un suo scritto ha trovato una immagine luminosa per enunciare il fatto: l’imposta è simile ad un raggio il quale colpisce oggi la pupilla del nostro occhio e par vivo; ma viene da una stella lontanissima morta da secoli. Il raggio ha camminato nel firmamento per anni e per secoli e finalmente è giunto a noi e ci fa vedere come fosse viva la stella che invece è spenta. Così è di certe imposte. Paiono vive: gli uomini compiono il rito di pagarle e di riscuoterle, ma chi le soffrì forse è morto da anni o da secoli e più non sente. E nessuno soffre in vece sua. Gli scrittori hanno detto «ammortizzate» queste imposte le quali hanno cagionato una perdita od ammortamento di valore capitale nella cosa colpita. Non so la derivazione linguistica della parola «ammortamento»; ma dico che per caso gli scrittori hanno scelto la parola espressiva. L’imposta ammortizzata è l’imposta morta nel cuore degli uomini, la quale non desta più in esso nessuna sensazione di dolore e di rimpianto. Molte imposte sono morte.

 

 

184. Il paradosso dell’imposta morta irritò i giustizieri. Parve un’offesa alla giustizia. Bisogna abolire le imposte che non sono più sentite dagli uomini viventi. Un’imposta la quale ad ogni istante non fa sentire all’uomo il dolore della condanna divina: lavorerai col sudore della fronte per pagare imposta, non adempie alla sua missione. Importa creare un sistema in virtù del quale il dolore dell’imposta sia necessariamente perpetuo e lancinante. Confesso di non riuscire ad entrare in così perfetto stato di satiriasi tributaria. Il paradosso dell’imposta morta mi ha indotto invece a pensare se non forse il dominio della parola vuota di senso non abbia pesato ancor più gravemente di quanto finora ho messo in luce. Che forse ci siamo lasciati trascinare dal vuoto suon delle parole? Imposta fa nascere l’idea di qualcosa che è messo sopra e pesa. Imposta sul reddito o sul capitale par sia cosa che logicamente grava, decurta, diminuisce reddito o capitale o tutte due insieme.

 

 

185. Gli economisti ebbero nel secolo scorso il torto di aggravare la propensione ad interpretare la parola «imposta» nel senso di peso o di dolore con la malaugurata collocazione che essi fecero, per ragioni di euritmia architettonica, della discussione delle imposte nella quarta parte dei loro trattati. Produzione, distribuzione, circolazione e consumazione della ricchezza: ecco la classica quadripartizione del dramma economico messa in onore da Gian Battista Say. I primi tre atti del dramma erano gli atti creativi: gli uomini faticando commerciando distribuendo creano ricchezza. Nell’ultimo atto si assisteva alla distruzione di ciò che s’era creato. Gli economisti di quel tempo non avendo scoperto le leggi dell’utilità e del marginalismo e non avendo ancora imparato a rovesciare l’ordine delle nozioni, erano disperati. Avendo un po’ di scrupolo a riempir le pagine del trattato della consumazione con insegnamenti cavati dai trattati del buon governo della famiglia di Agnolo Pandolfini (o Leon Battista Alberti?), essi non sapevano davvero cosa ficcare nella quarta parte. Non c’era euritmia nell’architettura dell’edificio scientifico. Tre ali del palazzo erano alte e ricche; ma la quarta? Vennero in soccorso le imposte. Poiché i consumi privati offrivano poca materia, si discorse ampiamente dei consumi pubblici. Le imposte furono così idealmente legate all’idea di consumo, di distruzione. Nel sistema del dramma economico quadripartito, gli uomini producevano trasportavano commerciavano distribuivano la ricchezza. Poi, veniva il diluvio. Il consumo distruggeva; e nell’atto di consumo aveva luogo una lotta internecina fra gli uomini i quali pretendevano di consumare tutto quel che avevano prodotto e lo stato il quale voleva portarne via loro una parte per provvedere ai consumi pubblici.

 

 

Due idee-forza si sprigionarono da questa architettura accademica: che l’imposta sia distruzione e che essa sia distruzione di quel che altri, l’uomo privato, ha creato.

 

 

186. L’architettura trattatistica di Gian battista Say è tramontata. Nessun trattato moderno di economia è costrutto su quel tipo. Durano le idee-forza nate da quello che era un mero spediente di esposizione scolastica della scienza.

 

 

Se rimonto ai miei ricordi di gioventù, fra il 1890 ed il 1900, balza viva l’immagine di modi di parlare, rassomiglianti a questi tributari, allora comunemente usati. Diceva allora l’industriale: «io, che do pane a cento, a mille operai…»; ed il suo modo di parlare sembrava ovvio ai più e parevano «ingrati» gli operai i quali dimostravano malcontento verso i loro benefattori. Oggi l’industriale forse pensa ancora, talvolta, così nell’intimissimo foro della sua coscienza; ma non osa più manifestare apertamente il suo pensiero; né questo parrebbe ragionevole agli ascoltatori. Né l’operaio fa vivere il datore di lavoro, né questi l’operaio; nessuno fa l’elemosina all’altro. Ognuno vive dei frutti del proprio lavoro e della propria creazione. Il lavoro di amendue è fecondato dalla collaborazione reciproca; ma dal collaborare amendue traggono vantaggio. Dire che l’operaio è mantenuto dall’industriale è altrettanto grottesco quanto dire che il fornaio mantiene il cliente, perché gli fornisce il pane. Come v’è equivalenza fra pane e moneta, così v’è equivalenza tra lavoro prestato e salario. Amendue devono essere l’uno all’altro grati, perché l’unione ha consentito all’operaio di produrre un salario più alto e all’imprenditore un profitto più vistoso.

 

 

Costo e compenso sono due facce del medesimo fenomeno. L’amministratore di un giornale del tempo innanzi al 1900 si lamentava ogni giorno del costo crescente della carta consumata dalle rotative. Tutti noi si rideva, perché quello era l’indice della fortuna crescente del giornale. Il girar dei rotoli di carta era, per lui, un atto di distruzione, per noi era la premessa della creazione.

 

 

187. Così è l’imposta. È falso e grottesco dire che essa significhi distruzione. Essa è il mezzo con cui lo stato crea valori nuovi: di sicurezza, di giustizia, di difesa e grandezza nazionale, di cultura, di sanità del corpo, di unità degli uomini viventi sul territorio della patria. Mercé l’imposta lo stato crea l’ambiente giuridico e politico nel quale gli uomini possono lavorare organizzare inventare produrre. Che cosa sarebbero gli uomini se non fosse lo stato? Miserabili selvaggi, vaganti sulla terra, senza difesa contro le belve feroci, malsicuri del cibo e della vita, gli uni contro gli altri armati. Non perciò si afferma che tutto il prodotto sociale, tutto il reddito nazionale sia di spettanza dello stato. Si afferma soltanto che esiste una distribuzione del reddito nazionale annuo che è l’ottima fra tutte: una distribuzione grazie alla quale lo stato riceve l’imposta, il lavoratore il salario, il risparmiatore l’interesse, l’imprenditore il profitto, e il proprietario la rendita; ed ognuno riceve quel che è suo, quel che fu creato da lui, quel che è necessario egli abbia affinché la sua partecipazione all’opera comune sia la massima e la più efficace.

 

 

188. Nella distribuzione ideale, lo stato ideale o perfetto non grava perciò su nessuno. Riceve il suo, tutto il suo, tutto e nulla più del suo. L’idea che l’imposta sia un prelievo su qualche cosa che l’uomo creò è radicalmente profondamente erronea. Uomo e stato, o, per parlar concretamente, l’uomo operante nelle varie maniere a lui offerte, come individuo singolo, come associato liberamente con altri (associazioni e società) e come associato coattivamente con tutti gli altri (stato) producono insieme, attraverso un complicatissimo meccanismo, un flusso perenne di nuovi beni. Quel flusso diminuirebbe se facesse difetto una qualunque delle maniere di operare umano: quella individuale, quella collettiva volontaria o quella collettiva coattiva. Gli individui ed i corpi i quali partecipano alla produzione del flusso dei nuovi beni hanno diritto di partecipare al godimento del flusso e di ricavarne i mezzi per rinnovare continuamente i loro sforzi e quindi il flusso e quindi la partecipazione al godimento di esso.

 

 

Mercier de La Rivière aveva già scritto:

 

 

a gran malincuore do alle entrate pubbliche il nome di imposta: parola la quale è sempre presa in mala parte, la quale annuncia un gravame da sopportare; laddove l’entrata pubblica al contrario… non ha nulla di affliggente; e risalendo alle sue origini si vede che essa è il frutto della sua utilità. (L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques, 1767, II, 40).

 

 

E Dupont de Nemours:

 

 

[nella sua forma perfetta] l’entrata pubblica massima possibile, ogni giorno crescente, è la più vantaggiosa possibile a tutti i membri della società; e non è onerosa ad alcuno, non costa niente ad alcuno, non è pagata da alcuno e non preleva nulla dalla proprietà di chicchessia. (De l’origine et des progrès d’une science nouvelle, 1768, ediz. 1910, 28).

 

 

Parole dimenticate, che erano state rinnovate da chi scrive,[1] innanzi di aver meditato sulle pagine dei fisiocrati; e dalle quali importa trarre l’ultima illazione logica.

 

 

189. La quale è la condanna definitiva dei tentativi che sono stati fatti da tanti e con tanto scarso successo per scoprire la regola perfetta assoluta immarcescibile dell’imposta «giusta» sulla base del «vero» «dolore» sentito dagli uomini nel pagar tributo.

 

 

Utilitaristi e contabilisti – sono le due grandi branche in cui si dividono le innumerevoli sette dei giustizieri tributari – invano si sono affaticati a cercare l’imposta perfetta. Entrati in un vicolo cieco, non potevano trovare la via d’uscita.

 

 

Quando l’operaio chiede il salario che a lui sembra «giusto» dice forse: la misura della giustizia è per me il guadagno del principale? Se questi guadagna molto, il mio salario deve essere alto, se poco basso; se egli perde, io devo rassegnarmi a lavorare per niente? C’è, in lui, viva l’idea che il salario debba aumentare se l’industria prospera: ma sotto quest’idea e più radicata di essa, c’è un’altra che il salario gli deve essere dato perché egli lavora e in proporzione al merito del suo lavoro. Ognuno è la misura di se stesso. Salari, interessi, profitti sono la remunerazione del lavoro, del capitale, della funzione imprenditrice; e sono commisurati al valore dell’apporto del lavoro, del capitale e dell’impresa. A nessuno viene in mente l’idea irragionevole di pagare l’operaio in funzione del valore dell’apporto del capitalista, questi in funzione del valore dell’apporto del lavoratore e l’imprenditore in funzione del valore dell’apporto degli altri due e del proprietario degli agenti naturali della produzione. Si discute sul modo di misurare il valore dei diversi apporti; ma nessuno ha tentato di rimescolare le carte proponendo di remunerare l’un fattore in proporzione del valore dell’apporto di qualcuno degli altri fattori.

 

 

Eppure, l’idea, che se fosse enunciata nelle faccende ordinarie della vita parrebbe grottesca e risibile, è accolta come oro in barra quando gli uomini cominciano a discorrere e a farneticare delle cose di stato. Invece di pagare lo stato per quel che lo stato fa, per il valore del suo apporto alla cosa comune, si ritiene naturale, ovvio di pagarlo in ragione di quel che fanno gli altri; non in ragione della perfezione maggiore o minore dell’opera sua, ma in ragione del successo maggiore o minore dell’opera altrui. Al poltrone ed all’incapace l’imposta deve chieder poco perché, poveretto lui, non ha voluto o non è stato in grado di produr molto; all’operoso ed al valente l’imposta deve chieder molto perché volle e poté produrre molto. Questo è capovolgimento del buon senso. Che cosa si direbbe del fornaio, il quale regalasse il pane a tutti i pezzenti che si presentassero nella sua bottega, lo facesse pagare 50 centesimi al chilogrammo ai malvestiti o provveduti di certificato di povertà e 5 lire ai ricchi? Si sarebbe d’accordo nel riconoscere che il fornaio è uscito matto e finirà decotto all’ospizio di carità. Il buon pane è, se gli uomini non sragionano, pagato come buon pane da tutti, allo stesso prezzo. Persino nelle città e negli stati assediati l’uso è di razionare il pane, per farlo durare a lungo, ma di venderlo, a qualità uguali, a prezzo uguale. Così lo stato fornisce beni morali e spirituali di grandissimo pregio per tutti coloro i quali si trovano in situazione opportuna per trarne partito. Qual colpa ha lo stato se Tizio e Caio, provveduti degli stessi mezzi economici, sanno trarre partito diversamente dall’opera ugualmente fornita a favor di amendue dallo stato? Perché, se l’uno guadagna e l’altro perde, lo stato deve far pagare il primo e lasciar immune il secondo? Codesta non è condotta illogica incomprensibile? Lo stato ha fatto il dover suo, ha adempiuto il suo ufficio quando ha creato l’ambiente di pace, di giustizia, di istituti sociali coordinatori, di cultura entro il quale i due possono utilizzare i mezzi che essi posseggono in ugual misura. La logica ed il buon senso impongono che lo stato faccia pagare ad amendue ugualmente i proprii servigi. Il successo o l’insuccesso delle imprese dei due contribuenti non lo riguarda. Perdano o guadagnino, perdano molto o guadagnino assai, questo è fatto che non lo tocca. Come l’operaio vuole essere ugualmente pagato, a lavoro uguale, dai due imprenditori, come il risparmiatore esige uguali interessi se ha ad amendue mutuato ugual capitale, così lo stato, che ha reso uguali servigi, vuole essere pagato ugualmente.

 

 

190. Badisi che l’uguaglianza del salario, dell’interesse, dell’imposta a parità di opera prestata dall’operaio, dal risparmiatore e dallo stato è condizione necessaria di ordine, di progresso e di prosperità sociale.

 

 

Se l’imprenditore dovesse pagar salari alti quando guadagna e bassi quando perde, se dovesse pagare il 10% sul capitale preso a mutuo in caso di successo ed avesse diritto a non restituire il capitale in caso di perdita, vedremmo prossimo il caos e la rovina della società. Perché sforzarsi ad essere intraprendenti e prudenti, laboriosi ed attenti se chi riesce dovesse vedere crescere a proprio danno salari ed interessi ad annullare il compenso dovuto al merito? Quale sanzione percuoterebbe l’inetto e pigro, se quanto più egli perde e fa male tanto più gli scemino i costi di salario, di interesse, e, perché no, di materie prime?

 

 

Orbene, quella condotta che nelle faccende comuni della vita appare a primo tratto pazzesca e rovinosa, diventa inesplicabilmente giusta ovvia indiscutibile quando si passa alle faccende di stato. Lo stato deve, insegnano a gara utilitaristi e contabilisti, farsi pagare i proprii servigi in ragione del reddito e del capitale altrui, deve cercare di commisurare le imposte ai godimenti, ai benefici di cui gli altri fruiscono. Sempre si guarda a quel che fanno, a quel che godono, a quel che soffrono gli altri, non mai a quel che dà lo stato. Dall’insana norma di condotta derivano, come si avrebbero per i privati, conseguenze funeste. Lo stato, il quale agisca a norma di questa dottrina, premia gli ignavi, gli inetti, i caduti, perseguita i laboriosi, i capaci, i saliti.

 

 

191. Le società non sono ancora andate alla deriva, perché i legislatori e gli amministratori della finanza pubblica sono stati di fatto più sapienti dei dottrinari giustizieri. Hanno prestato ossequio di parole ai principii sommi della giustizia inventati da costoro; hanno recitato le preghiere di rito dinnanzi all’altare dell’uguaglianza di sacrificio, della proporzionalità costante o crescente al reddito o al capitale; e poi hanno operato come potevano, come dettava l’istinto della necessità di governare, di fronteggiare le spese e di non rendere malcontenti o troppo reattivi i contribuenti. Per quanto incerta ed oscillante, l’opera dei legislatori val di più dell’insegnamento dei giustizieri.

 

 

Bisogna decidersi a fare un passo avanti: a sfrattare i mali consiglieri della cosidetta giustizia tributaria dal tempio dello stato. Bisogna avere il coraggio di dire che le cosidette norme supreme del sacrificio, con le logiche illazioni della proporzionalità al reddito della personalità e della globalità, sono scatoloni vuoti, parole prive di buon senso, prive anzi di qualsiasi significato logico. Bisogna prendere a frustate i sacerdoti del nulla che par verbo.

 

 

192. I sacerdoti grideranno che io voglio che le imposte siano pagate nella stessa misura numerica monetaria da ricchi e da poveri e che io voglio risuscitare il testatico. Falso. In tutto ciò che è stato scritto in queste pagine non v’è parola che autorizzi siffatta interpretazione.

 

 

Si disse e si dimostrò soltanto:

 

 

  • che l’imposta non può razionalmente essere ripartita applicando uno qualunque dei principii del sacrificio, perché non si può applicare un principio di cui è ignoto il significato (cfr. paragrafi 159-62);

 

  • che l’imposta non può razionalmente essere applicata in proporzione al reddito «effettivo» dei singoli contribuenti, perché una tale ripartizione del tributo è illogica e perniciosa (cfr. paragrafi 187-89).

 

 

Nelle proposizioni ora enunciate non v’ha parola che possa far supporre che l’imposta debba essere uguale per ricchi e per poveri. L’imposta ripartita secondo le regole anzidette non può pretendere di esser razionale. Essa tutt’al più può vantarsi di seguire i dettami della ragion raziocinante, che vuol dire sragionante. Se, usando modestia, invece di affermarsi la sola razionale confesserà di essere un espediente consigliato dal buon senso, dal sentimento di solidarietà fra classe e classe, dal canone dell’economicità e simili diventerà espediente non dissimile da altri espedienti, rivaleggianti con essa su piede di uguaglianza, epperciò degna di esame sereno. Prima, giù la boria.

 

 



[1] In Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, in «Atti della reale accademia delle scienze di Torino», vol. 54, 1918-19, cap. II, par. 6; ora in «Opere», serie I, vol. I, secondo dei Saggi sul risparmio e l’imposta.

E quella della ricerca contabilistica della base imponibile

E quella della ricerca contabilistica della base imponibile

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 172-191

 

 

 

 

171. Accanto ai cercatori della «giustizia», fondata su principii «razionali», della giustizia applicabile con formule sicure, vi sono, ugualmente importuni, i cercatori della «verità». La lotta tributaria è descritta come una lotta della verità contro la bugia, della schiettezza contro la frode. Ed è lotta santa, se condotta da uomini di buon senso; invidiosa distruttrice se guidata da fanatici persuasi di possedere la chiave della verità assoluta.

 

 

Quid est veritas? interrogava Pilato (Joannes 18, 38). Chiediamo anche noi: che cosa è la verità rispetto all’imposta?, e rispondiamo umilmente: nescio.

 

 

172. Non sempre l’ignoranza nostra è invincibile. Pesare e noverare quintali di caffè che entrano nello stato, numero di sigari o pacchetti di sigarette vendute al fumatore, quintali di zucchero immessi dalle fabbriche nel consumo sono operazioni tecniche le quali vertono su quantità fisiche, composte di unità ben definite e sommabili. È più difficile stimare il prezzo delle cose mobili od immobili, dei titoli o valori i quali cadono in un contratto od in una donazione o successione; ma non è impresa assurda. Trattasi di fatti riferiti ad un momento certo nel tempo, accaduti indipendentemente dal giudizio dello stimatore e che questi deve limitarsi ad accertare nella misura del loro accadimento. Quella casa, posta nel tal luogo, venduta in quel giorno fu negoziata per tale somma. Astrazion fatta dall’uso che dalla conoscenza della verità si voglia fare, le difficoltà le quali si frappongono a quella conoscenza sono empiriche, di fatto, sormontabili con la consueta approssimazione ritenuta bastevole nelle umane cose.

 

 

173. Purtroppo, la conoscenza della verità di fatto è bastevole solo per imposte, sui consumi e sugli affari, che i sacerdoti della giustizia tributaria «tollerano» come dolorose necessità fiscali, a cui giova rassegnarsi a cagione dei bisogni crescenti degli stati moderni. Poiché – gemono i sacerdoti – le esigenze pubbliche impongono la conservazione di imponenti gruppi di imposte le quali, per la medesima natura del loro oggetto – atti di consumo ed atti di scambio – non possono essere ripartite equamente e colpiscono, checché si faccia e si rimedi, proporzionatamente più i poveri che i ricchi, fa d’uopo con somma cura osservare che le imposte giuste, le sole giuste, sui redditi sui patrimoni sulle successioni, siano fondate sull’accertamento della verità vera, della verità piena ed assoluta.

 

 

È universale, non propria ad alcun paese, la lagnanza: se tutti dichiarassero il vero, quanto più miti potrebbero essere le imposte e quanto più largo il provento per l’erario! Nessuno eleva siffatta lagnanza rispetto ai dazi di dogana, alle imposte sulla fabbricazione dello zucchero, dello spirito, del gas luce, a quelle di consumo sulle carni e sul vino. Il contrabbando o la frode sono qui meri fatti empirici, che il perfezionamento della tecnica di investigazione gradatamente tende a ridurre al minimo.

 

 

La lagnanza diventa alta non sui fatti, ma sulle idee, non su quel che è, ma su quel che dovrebbe essere. Ha scarsa importanza agli occhi di costoro conoscere di un podere la composizione agrologica, la divisione in seminativo vigneto oliveto, il grado tenuto dalle diverse particelle nella gerarchia della produzione, ed il loro contributo alla produzione totale dell’impresa agraria; tutte nozioni le quali consentono di valutare egregiamente la attitudine comparativa del podere a pagar tributo. Quel che monta è conoscere il reddito «vero», i] reddito «effettivo» ottenuto da questo o da quell’agricoltore. L’imposta non può attardarsi alle cose esteriori; essa deve mirare alla conoscenza della verità assoluta. Non monta conoscere, di una fabbrica, tutti gli indici delle produttività: forza motrice, area dei saloni di lavoro e dei magazzini, numero e qualifiche degli operai e degli impiegati, quantità dei combustibili e delle materie gregge. Tutto ciò è nulla, se manca la conoscenza precisa del reddito netto, realmente ottenuto in quella unità di tempo, da quell’imprenditore.

 

 

Quel che si vede, quel che si manifesta agli occhi, quel che gli uomini dimostrano apertamente di possedere o di godere perché lo consumano o ne fanno oggetto di contrattazione, non è la verità vera, sostanziale, quella che gli amatori della giustizia tributaria vogliono conoscere. Al di là dei segni esteriori, costoro cercano la verità profonda, la verità compiuta. L’anima di un sistema tributario «giusto» non sta nelle imposte sui segni consumi od atti, che sono legato di epoche barbare; sta nelle imposte sul reddito e sul patrimonio con le quali si mira a far contribuire il cittadino alle spese pubbliche in proporzione alla sua sostanziale capacità a pagare. Finché non si sia conosciuto il reddito, tutto il reddito, finché non si siano accertati e tassati i redditi occulti, come dei titoli al portatore, o incerti, come quelli professionali o commerciali, o saltuari come quelli speculativi, finché oltre i redditi non siano accertati e colpiti i guadagni dovuti al caso, alla fortuna, alle circostanze sociali, gli incrementi patrimoniali i quali maturano in virtù del mero passare del tempo, noi non avremo conosciuto la verità e non avremo instaurato il regno della giustizia nella imposta. Al di là degli espedienti dei segni delle approssimazioni importa perseguire la verità, la conoscenza della quale soltanto consente di attuare la giustizia.

 

 

174. Quid est veritas? Purtroppo, l’ideale che i seguitatori dell’imposta giusta perseguono è un fantasma, un mito procreato da una assai rozza varietà della ragion ragionante, quella contabilistica. Non vorrei, adoperando quest’aggettivo, dir cosa spiacevole ad un rispettabile e necessario ed utilissimo ceto di professionisti. Il contabile o ragioniere, il quale redige bilanci secondo le regole additate dalla disciplina sua, materiata di secolare esperienza e di raffinati ragionamenti, non deduce da essi illazioni estranee al suo campo proprio; che è di rendersi ragione delle variazioni verificatesi durante un dato intervallo di tempo nelle attività e nelle passività della sua impresa. Il contabile, di cui io discorro, è colui il quale dagli accertamenti eseguiti trae conclusioni ultra vires intorno al significato delle cifre accertate. Non solo possono essere, come si dirà subito, compilati, per la stessa impresa e per lo stesso intervallo di tempo, bilanci diversi, e tutti ugualmente veri, a seconda degli scopi ai quali si mira; ma i risultati ottenuti debbono altresì essere interpretati diversamente, e sempre in modo ugualmente vero, a seconda degli usi – liquidazione dei rapporti tra i soci durante la vita dell’impresa o al momento della liquidazione, o tra coeredi o tra proprietari e finanza – ai quali quei risultati debbono servire.

 

 

Il contabile veramente perito dell’arte sua, conosce i trabocchetti senza numero che si presentano sulla sua via e li supera tenendo conto delle circostanze varie di ognuno di essi. Il contabile dottrinario, invece, ha attribuito alle parole da lui usate di capitale, saldo utili ecc. un significato univoco e dalla definizione data trae illazioni certe. Quando perciò qui di seguito parlerò male del «contabile», le critiche debbono intendersi rivolte non al contabile raziocinante secundum quid, al «ragioniere» che «ragionando» giustifica il proprio titolo, bensì soltanto al contabile «dottrinario», meglio direi «definitorio».

 

 

La varietà «definitoria» non è particolare al ceto dei «contabili», sì bene universale. In ogni campo scientifico v’ha colui, il quale avendo data una definizione, che è sempre arbitraria, immagina di poter ricavare da essa deduzioni sostanziali, dimenticando che le definizioni sono meri strumenti rivolti alla scoperta della verità; e che se con una data definizione la verità non si scopre, fa d’uopo mutare non il fatto definito, che è quel che è, ma la definizione data del fatto.

 

 

Adunque il contabile «ragioniere» redige inventari riferiti a dati momenti nel tempo e compila conti di profitti e perdite negli intervalli i quali corrono fra quei momenti. Se l’intervallo è l’anno e se l’anno economico, al pari di quello solare, è chiuso fra il 1 gennaio e il 31 dicembre, queste sono le date dei due inventari di principio e di fine d’anno ed i dodici mesi dal 1 gennaio al 31 dicembre sono l’intervallo durante il quale accadono le variazioni registrate nel conto profitti e perdite. Riducendo i fatti all’essenziale, i tre documenti fondamentali potrebbero essere riassunti così:

 

 

 

 

Inventario al I° gennaio

 

 
  Attività

 

 

Passività

 

Totale attività

50000000

A terzi

20000000

 

50000000

A capitali e riserve

30000000

50000000

   

Conto profitti e perdite dell’anno

 

  Perdite

 

 

Profitti

Spese diverse

25000000

  Incassi per merci vendute e sopravvenienze diverse

30000000

Utile

5000000

30000000

 

50000000

   

Inventario al 31 dicembre

   
  Attività

Passività

 
Totale attività

57000000

A terzi    

22000000

    A capitale      
    –       e riserve  

30000000

 
    Saldo utile  

5000000

 
 

 

 

A pareggio  

35000000

35000000

 

57000000

     

57000000

 

 

Il contabile ragioniere si contenta di concludere che i tre documenti da lui compilati sono necessari alla retta intelligenza dei fatti accaduti durante l’anno e sono utilissimi a guidare per l’avvenire il gestore dell’impresa.

 

 

Il contabile definitorio è non solo fermamente convinto che nei tre documenti si riassuma la vita dell’impresa durante l’anno considerato; egli sa anche che la cifra di salda utili, che egli ritrova uguale in milioni di lire in due dei suoi tre conti parificati, è il vero «reddito», è il criterio incontrovertibile in base al quale si deve calcolare il debito d’imposta dell’impresa o dei suoi azionisti. Perciò egli, volendo mettere in chiaro il quantum su cui cade il debito d’imposta, e vivendo in uno stato nel quale, in conformità alle regole della giustizia fondata sulla conoscenza della realtà, l’imposta viene prelevata a fine anno sui risultati precisi dell’esercizio chiuso, non ha incluso le imposte nelle spese diverse dell’anno. Il saldo utili, in 5 milioni di lire, dovrà essere diviso fra gli aventi diritto, secondo il comando della legge e le deliberazioni dell’assemblea degli azionisti. Così:

 

 

Allo stato per imposte

Lire

1.000.000

Agli azionisti

»

2.500.000

Agli amministratori, ai dirigenti ed ai fondi di previdenza fra impiegati e operai

»

500.000

A fondo riserva

»

1.000.000

 

Lire

5.000.000

 

 

175. Tutte le operazioni di stima sono state compiute correttamente, secondo scienza e prudenza. I valori d’inventario all’1 gennaio erano quali risultavano dalla contabilità per le partite certe (debiti a fornitori, obbligazioni, azionisti, riserva, depositi in banca e titoli) e da stime prudenziali per le partite opinabili (immobili, macchinario, scorte, magazzino). Nel conto profitti e perdite gli incassi per merci vendute, le perdite per fallimenti, le erogazioni per materie prime, lavorazioni e spese generali risultano dalla registrazione di fatti accaduti. Le quote di deperimento degli immobili e del macchinario sono quelle che l’esperienza di lunghi anni consigliò ad amministratori avveduti. Nell’inventario a fine d’anno le valutazioni delle attività tengono conto delle quote di deperimento, dei nuovi investimenti e della consistenza reale delle scorte e del magazzino valutati con la necessaria prudente oculatezza. Nessun azionista o funzionario delle imposte, sia pure di occhio linceo, riuscirebbe a scovrire il più piccolo neo nei documenti; esemplati al millesimo sui libri sociali, registranti in modo inappuntabile la verità conosciuta da uomini ossequenti al dovere verso lo stato, gli azionisti, i collaboratori e l’avvenire dell’impresa.

 

 

176. So bene che, immaginando un così perfetto amministratore, capace a registrare la verità vera univoca, ho immaginato un portento, il quale sa quel che a nessuno fu è e sarà mai possibile conoscere. Se il demagogo fa il suo mestiere quando eccita le moltitudini, repugnanti a pagar tributo, contro i ricchi o capitalisti o proprietari o professionisti supposti meglio provveduti ed accusati di falso in bilancio per non pagar l’imposta dovuta; perché il chierico economista dimentica tanto volentieri che il teorema fondamentale in materia fu da Pantaleoni così formulato: «Il fine o lo scopo o l’ufficio, che dir si voglia, in vista del quale un bilancio viene redatto, è quello che unicamente ed intieramente attribuisce un significato alle valutazioni che ne costituiscono l’attivo ed il passivo»?.[1]

 

 

Non esiste la verità sola univoca rispetto al saldo utili di un bilancio. Perché il contabile aveva indicato in 5 milioni di lire l’utile dell’esercizio dell’anno? Perché aveva scritto in 30 milioni la cifra dei profitti ed in 25 quella delle spese. Le spese così si componevano:

 

 

Salari, stipendi

Lire

12.000.000

Materie prime, carbone, elettricità

»

7.000.000

Spese generali diverse, comprese le spese di manutenzione e riparazione degli impianti

»

3.000.000

Crediti inesigibili, fallimenti, ecc.

»

500.000

Quote di ricostituzione degli impianti: edifici, macchinari, strumenti, ecc.

»

2.000.000

Ammortamento finanziario del capitale

»

500.000

 

Lire

25000000

 

 

Le cifre sono esemplificative e mutano per ogni impresa. Alcune di esse, particolarmente le prime tre, possono essere, così come furono accertate, considerate bastevolmente conformi a verità che il perito calcola secondo scienza e coscienza. Si tratta di fatti accaduti e debitamente a loro luogo registrati: tante buste paga distribuite a fine settimana o quindicina, tante tonnellate di carbone acquistate nell’anno e risultanti da fatture, tante bollette dell’impresa fornitrice dell’energia elettrica. Sulle cifre non cade dubbio. Sicura è anche la cifra che talvolta si deve scrivere per l’ammortamento finanziario del capitale, in aggiunta a quella per la ricostituzione e la conservazione in perfetto stato dei valori in cui il capitale fu investito. L’aggiunta si deve fare quando l’impresa esercita, ad esempio, un acquedotto, un gasometro, una tramvia con le clausole della consegna, al termine della concessione, degli impianti all’ente concedente, per es. il comune, senza compenso alcuno. In questo caso gli azionisti debbono essere, entro quel termine, rimborsati per il capitale investito; e ciò indipendentemente dall’obbligo di riconsegnare al comune gli impianti in perfetto stato. Qui è noto l’importo del capitale investito dagli azionisti; è noto il termine della concessione, è convenuto il saggio di interesse ed è certa l’annualità.

 

 

È altrettanto sicura la iscrizione di perdite per crediti inesigibili, per fallimenti, naufragio insolvenze di ogni sorta? Il contabile non può registrare solo fatti accaduti; deve anche prevedere. Se una cambiale del cliente non è scaduta ed è scritta per 100.000 lire; ma egli sa che il cliente è male in gambe e prevede che la cambiale sarà protestata, è lecito a lui scrivere imperturbabilmente 100.000 lire? Scriverà 70.000 o 40 o 20.000 manderà tutto l’importo a perdite? Il suo buon giudizio è sovrano in materia e può essere fallace. Il che vuol dire che, invece di 500.000 lire per crediti inesigibili ecc ., si potrebbe scrivere 300.000 o 700.000 lire e queste altre cifre potrebbero essere ugualmente reputate conformi a realtà.

 

 

Il contabile ha scritto 2 milioni di lire a titolo di accantonamento necessario per la ricostituzione degli edifici, degli impianti, dei macchinari, degli utensili e di tutto ciò che è il capitale vivo dell’impresa. L’accantonamento deve farsi, perché ogni cosa muore, per logorio fisico e per logorio economico. L’edificio, oggi modernissimo, dopo 20 anni o 50 od alla più lunga dopo 100 anni, è antiquato e conviene, anche se le mura stanno in piedi, abbatterlo per ricostruirlo nuovo fiammante. La macchina di nuovissima invenzione potrebbe resistere 20 anni al mero logorio fisico; ma, se dopo 10 anni un’altra macchina è messa sul mercato e riduce notabilmente i costi, chi esiterà a buttare la vecchia macchina tra i ferravecchi? anche se in apparenza ancora sanissima e perfetta? L’accantonamento che si dovrà fare per ricostituire il valore dell’edificio entro 20 anni invece che entro 100 anni è assai più alto: 4% invece di quasi zero. Accantoneremo il 5 ovvero il 10% per riavere il capitale investito entro 20 od entro 10 anni? Il risultato sulle cifre da scrivere nel conto spese varia a seconda l’ipotesi preferita dal contabile: 1 o 2 o 3 milioni di lire.

 

 

Ma più variano quelle cifre a seconda delle ipotesi sul quantum da ricostituire. Si devono ricostituire i valori di costo o quelli di ricostruzione? Un impianto è costato 100 milioni di lire e si presume la sua durata sia di venti anni? Basterà iscrivere tra le spese 5 milioni all’anno per venti anni a titolo di quota di ricostruzione? Alla fine dei vent’anni avremo in mano 100 milioni di lire; bastevoli se l’impianto, equivalente anche se diverso, costerà, rifatto, fra 20 anni gli stessi 100 milioni di lire. Se, invece, per la svalutazione dell’unità monetaria, l’impianto dovesse costare 1 miliardo, ecco l’impresa avere perso 900 milioni del patrimonio, forse tutto. Eppure, il contabile nello stabilire la quota di ricostituzione degli impianti aveva assunto le regole sacrosante della scienza contabilistica, almeno di quella setta contabile la quale si ostina ancora adesso a ritenere che i costi da ammortizzare siano quelli originari e non quelli di ricostruzione.

 

 

Nella colonna delle attività, l’inventario al 31 dicembre ci dà un totale di 57 milioni di lire, perché, fra le attività, figurano 10 milioni di scorte di materie prime, materie in lavorazione, combustibili e provviste diverse, tutte diligentemente valutate ai prezzi correnti al 31 dicembre, data di chiusura dei conti. Nessun appunto si può muovere al contabile; essendo ben ragionevole che le scorte siano valutate ai prezzi correnti nel giorno di chiusura del bilancio. Se, inoltre, il contabile ha fra le spese calcolato una quota di rischio per l’eventualità di dover vendere i prodotti finiti ad un prezzo diverso e minore di quello corrente al 31 dicembre, la sua coscienza è in una botte di ferro. Basta la precauzione? Perché il contabile, invece che il 31 dicembre, non ha scelto la data del 30 aprile che è quella della presentazione del bilancio all’assemblea degli azionisti e non si è fondato sui prezzi correnti alla data più vicina a quella dell’assemblea? Se la tendenza dei prezzi era al ribasso, la prudenza non avrebbe forse consigliato di tener conto della tendenza per non rischiare di calcolare utili maggiori di quelli probabili? O non sarebbe stato anzi più prudente, iscrivere quei prezzi che prudenzialmente si può presumere saranno ricavati a suo tempo dalla vendita dei prodotti finiti, sotto detrazione ovviamente dei costi di trasformazione della materia prima?

 

 

I risultati del conto profitti e perdite possono variare dalla notte al giorno, in conseguenza della diversità di apprezzamento delle diverse partite di bilancio. Il saldo utile di 5 milioni di lire può crescere a 12 milioni o trasformarsi in una perdita di 10 milioni; pur rimanendo sempre nel campo, che è quello proprio della materia tributaria, di una impresa viva, operante. Utili maggiori o minori ovvero perdite sono tutti veri. Non esiste una verità sicura in materia opinabile.

 

 

Se noi supponiamo di trovarci dinnanzi ad una impresa in liquidazione, il contabile sarà forse costretto ad usare criteri di vendita coatta, con probabilità di perdite. Quali criteri adotteremo nella formazione di un bilancio per divisione familiare? Qui conta l’equità, non la esattezza delle valutazioni. Se i valori sono uniformemente valutati in modo assai prudente e forse inferiore a quelli di mercato, che monta? Perché tutti i valori sono ugualmente attenuati, nessuno dei consorti può lagnarsi. Avremo valori diversi da quelli di rendiconto agli azionisti ed alle finanze; e da quelli di liquidazione; ma ugualmente veri.

 

 

Tutte queste valutazioni sono vere, ciascuna appropriatamente al fine che si vuole raggiungere costruendo il bilancio. Il demagogo sconciamente vociferante contro la falsità dei bilanci «costruiti dai contribuenti allo scopo di frodare la finanza» si è mai posto l’unico problema che in sede di accertamento dei redditi è lecito porre: quali sono i criteri i quali dovrebbero essere adottati per costruire bilanci al fine di determinare l’ammontare dell’imposta dovuta allo stato? Probabilmente, se il quesito fosse posto, dovrebbe essere risoluto nel senso che la costruzione dei bilanci e la determinazione del saldo utili nel modo tenuto consuetamente siano un fuor d’opera, che non interessa menomamente lo stato (cfr. par. 189).

 

 

177. Il teorema di Pantaleoni deve essere integrato da un corollario: qualunque sia il fine al quale è ordinato il bilancio, il risultato al quale si arriva rispetto al «saldo utili» ha valore meramente formale. Il «saldo» è una cifra astratta, utile a conoscersi a certi scopi, ad esempio di pareggiamento dei conti, di controllo sulla gestione, di guida al futuro indirizzo di essa. Il contabile ragioniere non pretende lavar la testa ai cani, ossia insegnare al principale la maniera ottima di usare i saldi da lui calcolati. Egli non dice: quel saldo è «reddito» e lo puoi spender tutto; od è «riserva» e lo devi conservare. L’anno venturo, egli terrà conto dei fatti nuovi sopravvenuti, di condotta spendereccia o risparmiatrice del principale, e, rammostrandogli il nuovo saldo, offrirà l’ottimo e il solo commento che a lui sia consentito e doveroso fornire. Il contabile definitorio invece si accanisce a dire che quel saldo è il «vero» utile; e che, perciò, economicamente, esso ha questo e quel significato. Corre obbligo di dire che il significato economico della cifra del saldo utili è invece grandemente incerto.

 

 

178. Il principio sul quale è fondato il calcolo del saldo utili deve invero esser negato sotto due aspetti.

 

 

Già dissi (cfr. 83) che in primo luogo la divisione del tempo in intervalli finiti, ad es., l’anno dall’1 gennaio al 31 dicembre, è un artificio. Necessario, ma artificio. Supporre che la vita di una impresa possa essere spezzata in esercizi finiti annui è supporre l’assurdo. Non si può sapere se una impresa ha fornito ai suoi proprietari profitti ovvero perdite se non quando essa è morta e tutte le sue attività sono state liquidate. Paragonando allora gli incassi e le spese, ridotti a valori attuali ad un dato momento, potremo giudicare dell’esito dell’impresa. Finché essa rimane in vita ed opera, il giudizio è provvisorio. Andrà ingoiata la riserva da perdite future? Basterà a fronteggiarla?

 

 

Nel dividere il tempo in intervalli annui e nel redigere conti riferiti distintamente ad ognuno di quegli intervalli, i contabili obbediscono alla necessità (già illustrata nel citato 83) di orientarsi, di avere una norma per l’avvenire, di sapere se il successo arride o non all’impresa, di non sentire, nell’atto di prelevare fondi a fini di spesa privata, rimorso di aver recato nocumento alla vita di essa. Se anche, per ipotesi inverosimile, il possessore dell’impresa potesse astenersi da prelievi sino alla liquidazione finale, non potrebbe astenersene lo stato, le cui spese sono continue nel tempo e debbono essere continuamente fronteggiate da entrate ugualmente distinte nel tempo.

 

 

Ma dalla necessità in cui gli uomini sono di dividere il tempo in intervalli finiti non discende la razionalità della frantumazione e dei calcoli che su questa si istituiscono. Trattasi di meri espedienti empirici, che i contabili definitorii, solo perché necessari, pretenderebbero di trasformare in regole di ragione, atte, esse soltanto, ad attuare la giustizia tributaria. Se l’un espediente sia da preferirsi all’altro è materia opinabile, da discutersi secondo opportunità contingenti, senza ostentazione di stupida boria dell’uno verso l’altro spediente. Non esiste «il» criterio che solo possa dichiararsi razionale, solo atto a servir di metro alla giustizia. Degnasi taluno di guardare, con sopportazione ad altri criteri, diversi da quello del saldo di bilancio, di determinazione del reddito delle persone, come ad esempio il criterio dell’indice della spesa, o del reddito normale od ordinario, quasiché soltanto questi fossero spedienti, tollerabili per benevola sopportazione in confronto a quello contabile. Se gli uni sono frutto di qualche artificio logico, altrettanto deve dirsi dell’altro; e forse più.

 

 

179. Il criterio del saldo di bilancio non patisce soltanto per il vizio della divisione del tempo continuo in intervalli finiti artificiosi,  ma più per il paragone che per giungere al risultato finale detto «saldo utili» esso istituisce fra quantità riferite a momenti temporali diversi. Anche qui, non si nega la necessità dell’artificio; ma si chiede la confessione dell’essere quello artificio e per giunta artificio, il quale nulla ci dice intorno al significato economico dell’importo, così ottenuto, del saldo utili.

 

 

Il contabile, il quale, redigendo, a distanza di un anno l’uno, dall’altro, due inventari, constata che il patrimonio netto sociale, il quale era all’1 gennaio di 30 milioni di lire, al 31 dicembre è divenuto di 35 milioni di lire (30 capitale e riserve, preesistenti all’1 gennaio e 5 utili lucrati nell’anno) è tratto a concludere: il reddito dell’anno fu di 5 milioni di lire. Conclusione rafforzata da quella identica del conto profitti e perdite.

 

 

Si obliteri quest’ultimo conto, il quale, registrando fatti accaduti nell’anno, mette in rilievo una differenza, detta saldo utili, tra incassi ed erogazioni. Che la differenza sia davvero un saldo utili non risulta, nell’opinione dei contabili, dal conto intermedio (detto dei profitti e perdite), ma esclusivamente dalla coincidenza dei risultati di questo conto intermedio e dell’inventario di fine anno paragonato con quello ad inizio d’anno. I 5 milioni di utile del conto profitti e perdite sono uguali alla differenza in più fra l’attivo netto sociale al 1° gennaio di 30 e l’attivo netto al 31 dicembre di 5 milioni di lire. Che 5 sia la differenza aritmetica fra 30 e 35 è certo; ma è certissimo altresì che quella operazione di paragone fra 1 gennaio e 31 dicembre ha senso puramente formale aritmetico, perché i termini di essa sono comparabili solo numericamente. I 30 milioni sono una quantità numerica di lire riferite all’1 gennaio; laddove i 35 sono un’altra quantità numerica di lire riferite al 31 dicembre. Le unità componenti quelle due masse non sono ad una ad una equivalenti perché riferite a tempi diversi. Non si può dire che l’una unità sia maggiore dell’altra, sì come è impossibile dire che un cavallo sia maggiore di un cammello. Esse non possono essere sommate o sottratte o moltiplicate o divise l’una all’, o dall’, o per l’altra. L’inventario al 31 dicembre reca in sé un vizio insanabile. Al passivo scrive:

 

 

A terzi

Lire

22.000.000

A capitale e riserve

Lire

30.000.000

Saldo a pareggio

»

5.000.000

A pareggio

»

35.000.000

»

35.000.000

 

Lire

57.000.000

 

 

La appostazione di 22 milioni di lire per debiti a terzi è logica perché quei debiti sono riferiti al 31 dicembre. Ma che senso ha scrivere a capitale e riserve 30 milioni di lire quando questa spesa è una cifra valutativa riferita all’1 gennaio, anzi trasportata di peso, senza alcuna variante, dall’1 gennaio al 31 dicembre? È logico immaginare che le cose le quali valevano 30 a una data valgano le stesse 30 a un anno data?

 

 

Non dico che i contabili possano, nel compilare inventari, adottare un espediente diverso. Dico che, si tratta di un mero spediente e non di un principio di ragione; ed aggiungo che dall’uso di meri spedienti non si può dedurre argomento di boria o di superiorità qualsiasi verso i tanti altri espedienti, i quali possono essere immaginati od adoperati nel calcolare redditi. Gli uomini, per necessità di intendersi reciprocamente nel discorrere sono costretti a porre definizioni e premesse; e fanno benissimo. I contabili fanno benissimo, per cavarsela nel calcolare i «saldi a Pareggio» nell’inventario di fine anno, a porre la premessa di valutare capitale e riserva nella stessa cifra del principio d’anno. Non elevino però questa premessa arbitraria definitoria a principio di ragione; ché il salto sarebbe mortale. La cifra di «saldo a pareggio» al 31 dicembre non dimostra, col fatto della sua stessa presenza, di essere il «vero» reddito. È un numero, che pareggia i conti. Nient’altro. Che cosa voglia dire quel numero è un altro discorso.

 

 

180. In realtà il contabile al 31 dicembre conosce questi quattro soli fatti certi:

 

 

1)    che le attività dell’impresa possono a quella data correttamente essere valutate in 5 milioni di lire;

 

2)    che le passività dell’impresa verso terzi sono alla stessa data valutabili in 22 milioni di lire;

 

3)    che la differenza a saldo fra attività e passività è perciò al medesimo 31 dicembre valutabile in 35 milioni di lire;

 

4)    che siffatta differenza è di proprietà dei padroni dell’impresa.

 

 

Il resto: che i 35 milioni si dividano in 30 milioni capitali e riserve e in 5 milioni utile è un arzigogolo definitorio del contabile; ma non ha alcuna caratteristica delle verità di ragione.

 

 

Per paragonare i 30 milioni e i 35 milioni riferiti a momenti diversi separati dall’intervallo di un anno gli uomini ricorrono all’espediente del riporto dal principio alla fine o dello sconto dalla fine al principio dell’anno dei 30 o dei 35 milioni mercé l’applicazione di un saggio di interesse o di sconto (vedi sopra par. 89).

 

 

Il saggio di interesse comunemente usato per il riporto è quello corrente sul mercato per impieghi di capitale della medesima specie.

 

 

Se noi supponiamo che il saggio di interesse corrente sia il 5%, noi sappiamo che:

 

 

35 milioni al 31 dicembre = 30 al 1° gennaio + 1,50 interesse di riporto al 5% dei 30 al 31 dicembre + 3,50 saldo differenziale al 31 dicembre.

 

 

Ma poiché noi possiamo invece assumere ad arbitrio un qualunque altro saggio di interesse, ove suppongasi che sia corrente quello effettivamente guadagnato nell’impresa, che è del 16 2/3% avremo:

 

 

35 milioni al 31 dicembre = 30 al 1° gennaio + 5 interesse di riporto al 16 2/3 % dei 30 al 31 dicembre.

 

 

Il segno di uguaglianza (=) posto nell’una e nell’altra proposizione significa che la quantità 35 milioni di lire al 31 dicembre è equivalente, nell’uno e nell’altro modo di calcolo, a 30 milioni all’1 gennaio, più gli 1,50+3,50 ovvero i 5 aggiuntisi durante l’anno ai 30.

 

 

Razionalmente, ossia sulla mera base del ragionamento fin qui condotto, noi sappiamo soltanto che le due quantità 35 alla fine dell’anno e 30 al principio + 5 differenza sono equivalenti. La quale proposizione dice quel che dice e nulla di più. Ossia dice, ripetasi, che le due quantità separate dal segno = sono equivalenti; e non dice affatto, sino a prova contraria, che le 1,50+3,50 ovvero le 5 siano il reddito delle 30. La natura di reddito nelle 5 lire (o nei 5 milioni di lire del bilancio) non è cioè dichiarata dalla impostazione delle cifre nel bilancio o dall’equivalenza in seguito dichiarata. Quella natura di reddito è il risultato di un’altra operazione mentale che, sulla base dei risultati sinora raggiunti, noi facciamo e che prende la seguente forma: facciamo la convenzione di chiamare «reddito» o «perdita» il «saldo» necessario ad aggiungersi col segno più o col segno meno per rendere equivalenti due quantità numeriche riferite l’una al principio e l’altra alla fine dell’anno.[2]

 

 

181. Questa è una mera definizione, la quale non ha in se stessa alcuna virtù probante. Le definizioni, dirò ancora una volta, non provano nulla. Sono utili, se chiariscono le idee, dannose se le imbrogliano. Può darsi che la definizione ora data del reddito, una delle tante, sia stata più dannosa che utile, in conseguenza della curiosa affezione contratta per essa dai contabili definitori e dai giustizieri. Se, invece di lasciarci sopraffare dalla passione amorosa, noi guardiamo a quella definizione del reddito come ad un mero spediente usato per comodità di conteggio, subito vediamo che essa non è «il» criterio infallibile della giustizia tributaria.

 

 

Il ragionamento:

 

 

a)    l’imposta deve essere distribuita secondo giustizia;

 

b)    la ripartizione secondo giustizia significa proporzionalità al reddito dei contribuenti;

 

c)    reddito è la differenza fra gli attivi netti iniziale e terminale del contribuente nel periodo considerato;

 

d)    la giustizia vuole dunque che l’imposta sia proporzionale alla differenza così definita:

 

 

si compone di un assioma a), evidente solo perché nessuno a priori si dichiara contrario alla giustizia, anche quando non si conosce in che questa consista, di una deduzione d), valida entro i limiti della validità delle proposizioni precedenti, di una definizione c) e di un mistero b). Perché la giustizia voglia la proporzionalità al reddito dei contribuenti, è un mistero, del quale, a somiglianza di altri misteri, i quali hanno parimenti a proprio favore il consenso dei popoli, varie sono le facce: sono tutti o alcuni i contribuenti quelli di cui il reddito deve essere considerato? la proporzionalità è costante, crescente o decrescente? Gli elementi componenti il reddito sono omogenei? Come poi sia accaduto che una definizione (c) sia diventata il segnacolo in vessillo della verità in argomento di definizione del reddito; e che tutti gli altri espedienti che, con ostinazione degna di miglior successo, i legislatori la consuetudine l’uso immemorabile hanno messo innanzi: la quantità dei beni consumati, gli indici del godimento, il tenor di vita, il flusso normale di frutti derivanti dalle cose materiali ed immateriali, siano stati guardati con degnazione dai sacerdoti della giustizia, pesati con sospetto e rigettati perché calanti in cospetto dell’archetipo assunto dal contabile ad immagine dell’unica verità, questo è in verità il mistero vero e maggiore della cosidetta teoria della giustizia tributaria.

 

 

Posti dinnanzi ad alquante definizioni del reddito:

 

 

a)    reddito è quella ricchezza che in un dato intervallo di tempo entra, netta da spese, nella economia del contribuente, in aggiunta al capitale posseduto dal contribuente medesimo all’inizio di quel medesimo intervallo di tempo;

 

b)    reddito è quella ricchezza che, netta da spese, in un dato intervallo di tempo, il contribuente distacca a guisa di frutto naturale o civile, dalle cose da lui possedute: terreni, case, imprese, professioni, impieghi, mutui ecc.;

 

c)    reddito è quella ricchezza che, in un dato intervallo di tempo, il contribuente effettivamente, consumandola, gode: quasi tutti gli scrittori hanno guardato alle definizioni b) e c) partendo dalla premessa che la definizione vera fosse quella a). Dio perdona agli innocenti e li ammette più volentieri dei ragionatori nel regno dei cieli. Non v’ha dubbio però che qui ci troviamo dinnanzi ad un caso di pia innocenza inetta ad intuire che nessuna delle tre sopra elencate e nessuna delle altre definizioni che potrebbero essere immaginate ha in sé la virtù di provare la propria verità. Le definizioni sono convenzioni che gli uomini fanno tra di loro allo scopo di intendersi nel discorrere. Sono espedienti, utili come l’alfabeto, le regole grammaticali o sintattiche. A certi scopi scientifici può essere utile definire il reddito in un certo modo; per altri scopi in un secondo modo; e così in tanti modi. Solo la fecondità della definizione adottata, la ragionevolezza delle illazioni che se ne traggono, la bontà dei risultati ottenuti possono consigliare ad usare ora piuttosto l’una e ora piuttosto l’altra delle definizioni. Ogni definizione sta nuda in cospetto del tribunale della ragione. Nessuna può pretendere di scomunicare le altre.

 

 

182. La definizione contabilistica (quella α del par. 82 ed a del par. precedente) ha un privilegio sovra le altre: di essere stata accettata come la prima, l’unica, come quella che si impone per la sua evidenza alla coscienza umana. Un privilegio così grande è proprio solo degli assiomi e dei miti. La definizione α non è un assioma. L’assioma si impone per la sua evidenza all’uomo, posto dalla conformazione stessa del suo cervello nella impossibilità di negarlo; ed invece la definizione à è reputata vera solo perché siamo abituati a ripeterla senza renderci conto del suo contenuto meramente definitorio. Essa è dunque il mito.

 

 

Forse, anche le altre definizioni sono un mito. Pare di no, perché coloro che le usano hanno l’aria di vergognarsene. In ogni caso la definizione à, nella gara dei miti, ha vinto la prova. Essa è il mito dei miti, il mito sacro, i cui fedeli si esaltano nella contemplazione di cifre cabalistiche scritte in certi evangeli detti «bilanci». Sembrerebbe incredibile, se non fosse vero.

 

 

Durante il secolo XIX e in questo primo terzo del secolo XX gli uomini hanno adorato il mito, hanno combattuto per esso; hanno sperimentato e costrutto. Hanno anche condannato al rogo i contravventori. Anche nell’umile campo delle imposte non la ragione, ma il mito guida gli uomini. I miti, creati dagli eroi che guidano i popoli lungo la via del destino, persuadono gli uomini ad agire perché tratti dal profondo dell’animo umano. Fanno appello al sentimento, alla fede, al dovere, all’eroismo, all’amore, al mistero. Ma che gli uomini siano mossi ad agire da un mito contabile, da un numero astratto adottato per la sua comodità avrebbe dell’incredibile se quel mito non fosse lo strumento di un sentimento profondamente radicato nell’uomo: l’invidia.

 

 

«Chi sta sopra di me non paga il dovuto» è la reazione spontanea dell’uomo all’imposta. Nessuno confessa di non voler pagare. Tutti dichiarano di voler pagare se altri paghi il dovuto. Homines, esclamava già Tommaso Hobbes, [non tantum] onus ipsum, quam inaequalitatem graviter ferre solent. Maxima enim ambitione de immunitate certatur et in eo certamine minus felices magis felicibus tanquam victi invident. Pagare e frodare non contano, se taluno paga di meno o froda di più. Se l’imposta è però sull’atto singolo di consumo o di scambio l’invidia non può operare. Manca il termine di confronto fra uomo e uomo. Il confronto è fra cose: chilogrammo e chilogrammo di zucchero o spirito, sigaro o sigaretta, caffè o cicoria. Manca la materia sentimentale del discutere del pretendersi gravato in confronto agli altri. Tutti i contratti di compra-vendita di case sono simiglianti l’uno all’altro; e non v’ha modo di attaccarsi all’essere la casa piccola in confronto all’altra vasta per pretendere di pagare imposta minore per ogni 100 lire di valore. La casa è morta, non parla; le pietre ed i mattoni e la calce di cui è composta non reagiscono contro l’imposta più alta. La casa diventa viva e reattiva solo se la si vede attraverso l’uomo che la possiede.

 

 

Il campo uguale all’altro campo non reagisce se è tassato in ugual misura; reagisce invece quando l’uno essendo posseduto dal ricco e l’altro dal povero, al povero balena l’idea che il suo campo, tuttoché ugualmente produttivo, debba sopportare minor imposta di quello del vicino ricco, che egli invidia e i cui beni vorrebbe fare suoi. In quel momento il contadino si muta istintivamente in filosofo utilitarista ammantato in un paludamento contabile. L’invidia, che non può far muovere le cose, muove gli uomini che posseggono le cose, inventa il sistema personale di distribuzione delle imposte e crea il mito contabilistico del reddito, anima della finanza moderna. Forse non è dimostrabile la razionalità del tassare il campo il tabacco il vino la vettura il palco a teatro; ma è certamente arbitraria, perché avente origini puramente definitorie, la tassazione del saldo di bilancio assunto ad unico criterio di reddito. Naturalmente, siccome a pro della tassazione delle cose mute esiste il beneficio del dubbio, laddove è certa l’arbitrarietà della tassazione del saldo di bilancio, gli uomini proclamano sola razionale quest’ultima. Ed anche questa è proprietà caratteristica del mito.

 

 



[1] Maffeo Pantaleoni, Alcune osservazioni sulle attribuzioni di valori in assenza di formazione di prezzi di mercato, in Scritti varii di economia, serie seconda, Sandron, Palermo 1909, pp. 86 sgg; ed ora in Teoremi di economia, Laterza, Bari 1925, vol. II, pp. 201 sgg.

[2] La infondatezza del preteso primato del concetto contabilistico del reddito non discende dalla eterogeneità delle lire disponibili in tempi diversi, ma dalla natura meramente definitoria della qualifica di reddito data ai saldi di bilancio necessari a rendere equivalenti gli importi monetari di principio e di fine d’anno. Sui concetti di eterogeneità, uguaglianza ed equivalenza, cfr. Ulisse Gobbi, Equivalenza economica, omogeneità, uguaglianza, in «Scritti varii di economia», Giuffrè, Milano 1934, pp. 282 sgg. ed Osservazioni sul confronto dei valori nel tempo, in «Rivista italiana di scienze commerciali», n. 3 del 1938, pp. 2-9 sgg.

La vuota boria dei sommi principii utilitaristici dell’imposta

La vuota boria dei sommi principii utilitaristici dell’imposta

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 154-171

 

 

 

 

152. Alla radice dell’idea della giustizia tributaria sta la seguente massima dell’oratore che nel consiglio grande di Firenze parlò in difesa della imposizione della decima scalata[1] proposta all’epoca della guerra di Pisa.

 

 

Quella gravezza s’ha a chiamare eguale, che grava tanto el povero quanto el ricco; perché, e quando uno povero paga in comune una decima delle entrate sue ed uno ricco paga una decima, ancora che la decima del ricco getti più che quella del povero, pure molto più si disordina el povero di pagare la sua decima, che el ricco la sua. Però la egualità di una gravezza non consiste in questo, che ciascuno paghi per rata tanto l’uno quanto l’altro, ma che el pagamento sia di sorte, che tanto si incommodi l’uno quanto l’altro.

 

 

«L’incommodo»di Francesco Guicciardini ebbe nome di «sacrificio» da Geremia Bentham, capo degli utilitaristi; ed all’idea dell’incommodo risalgono le spiegazioni che in varie forme si danno dell’imposta moderna. Alla radice di questa sta il concetto di un sacrificio a cui il cittadino è chiamato a pro dello stato. La bontà o giustizia dell’imposta non è saggiata dal confronto fra le quantità di moneta pagata dai cittadini; ma dal confronto fra l’incommodo o sacrificio o pena o dolore sofferto dai cittadini in conseguenza del pagamento di date quantità di moneta. Non perché ciascuno paghi 1000 lire, o il 20% del proprio reddito o l’1% del patrimonio dovrà dirsi giusta l’imposta; ma perché la somma pagata, qualunque sia, cagiona ad ognuno un sacrificio od incomodo che sia uguale e proporzionale a quello di ognun altro. Lo stato, per fermo, non incassa sacrifici, bensì moneta. Ma il criterio di decidere sul giusto quantum di moneta da prestare è l’incomodo che quella prestazione monetaria reca al cittadino.

 

 

L’introspettivo psicologico è la premessa del concreto esteriore monetario.

 

 

153. Attraverso Bentham, Edgeworth, Cohen Stuart ed altri insigni la teoria dell’oratore fiorentino ha assunto una forma la quale potrebbe essere divulgata così:

 

 

Schema I

 

 

VI

5

V

6

6

IV

7

7

7

III

8

8

8

II

9

9

9

I

10

10

10

Tizio

Caio

Sempro

nio

 

 

Sia la consueta società perfetta di tre individui Tizio Caio e Sempronio, provveduti rispettivamente di 6, 5 e 4 unità di ricchezza. Siano le unità di ricchezza, per ipotesi, tutte fisicamente uguali l’una all’altra o, con qualche espediente, configurate in modo da essere dagli uomini fatte uguali alle unità di un bene di paragone o numerario. Ognuno attribuisce alle successive unità di ricchezza un pregio di utilità decrescente, che nel diagramma è indicato con i numeri astratti 10, 9, 8, 7, 6 e 5.

 

 

154. L’imposta può essere prelevata sulle tre dramatis personae, a norma di tre differenti significazioni che possono attribuirsi al concetto del sacrificio.

 

 

155. Il sacrificio può essere uguale; il che significa dovere ognuno dei tre contribuenti pagare tal somma monetaria d’imposta, qualunque sia, la quale cagioni ad ognuno di essi un sacrificio uguale a quello sofferto da ognun altro. Se, pagando una – evidentemente l’ultima o VI – dose fisica o monetaria di ricchezza, Tizio subisce perdita misurata, in termini di sacrificio, col numero 5, Caio deve pagare cinque sesti della sua V unità, perché così anche il suo sacrificio sarà misurato con 5 e Sempronio deve pagare cinque settimi della sua IV unità, allo scopo sempre di misurare col numero 5 la perdita da lui sofferta. La verità del principio dell’uguaglianza è assiomatica. In una società di uomini uguali, chi oserebbe sostenere la disuguaglianza della imposta?

 

 

156. Il sacrificio può essere minimo; il che significa dovere ognuno dei tre contribuenti pagare tal somma monetaria di imposta, qualunque sia, la quale cagioni alla collettività dei tre un minimo di sacrificio. Se il fabbisogno dello stato e di una unità fisica o monetaria di ricchezza, quell’una unità deve essere tutta prelevata su Tizio. Quale altro metodo farebbe, invero, subire alla collettività un sacrificio minore di 5? Se il fabbisogno dello stato fosse di 3 unità, 2 (la V e la VI) dovrebbero essere offerte da Tizio, ed I (la V) da Caio. Il sacrificio della collettività sarebbe di 5 + 6 + 6 = 17; ed ogni altra distribuzione dell’imposta darebbe luogo ad una somma di sacrificio maggiore. Anche il principio del sacrificio minimo è assiomatico. Se lo stato deve toccare una meta, ottenere un vantaggio pubblico, compiere l’ufficio suo, perché la società dovrebbe all’uopo sostenere un sacrificio maggiore del minimo pensabile? È conforme alla logica che se un risultato può essere ottenuto con un sacrificio totale 17 (5 + 6 sopportati da Tizio, 6 da Caio) non debba ottenersi con un sacrificio totale 18 (5 sopportato da Tizio, 6 da Caio e 7 da Sempronio) o con qualunque altro sacrificio totale maggiore di 17.

 

 

Il principio del sacrificio minimo va più innanzi. Poiché l’opera dello stato, nella mente degli utilitaristi, è intesa a procacciare la massima felicità possibile del massimo numero possibile dei componenti la società – ed anche siffatta proposizione è per essi assiomatica, per la impossibilità di asserire il contrario – l’imposta non è esaurita coll’esaurirsi del fabbisogno proprio dello stato. Se anche, per ipotesi, il fabbisogno fosse già od altrimenti coperto, si dovrebbe tuttavia nello schema 1 prelevare o continuare a prelevare da Tizio la VI unità di ricchezza cagionandogli un incommodo uguale a 5, per darla a Sempronio, il quale da questa, per lui V, unità ricaverebbe un commodo uguale a 6. La felicità od il commodo collettivo per tal modo crescerebbe di una unità, obbedendo all’imperativo della massima felicitazione collettiva. Se le fortune sono meglio differenziate, cosicché invece dello schema [1] si abbia lo schema [2], il teorema del sacrificio minimo dice che bisogna togliere a Tizio le ultime tre dosi di ricchezza che per lui hanno l’indice di utilità 5, 4 e 3 per darne una a Caio, a cui si fa acquistare 6 e due a Sempronio a cui si fa acquistare 7 e 6. La felicità o commodo totale della collettività dei tre passa da 52+34+27=113 a 40+40+40=120. Il massimo commodo sociale si raggiunge quando l’utilità o commodo marginale della ultima (per tutti ora la V) dose di ricchezza posseduta è uguale per tutti i componenti la società, ad esempio è misurata dall’indice 6.

 

 

Schema II

 

 

VIII

3

VII

4

VI

5

V

6

6

6

IV

7

7

7

III

8

8

8

II

9

9

9

I

10

10

10

Tizio

Caio

Sempro

nio

 

 

A questo punto cessa la ragione dello stato di prelevare e redistribuire.

 

 

Il principio del sacrificio minimo dicesi perciò anche del livellamento delle fortune o del taglio delle teste degli alti papaveri.

 

 

157. Il sacrificio può essere proporzionale; il che significa dovere ognuno dei tre contribuenti pagare tale somma monetaria, qualunque essa sia, la quale cagioni ad ognuno di essi un sacrificio il quale sia l’identica proporzione della felicità che essi prima traevano dal possesso della ricchezza.

 

 

Sia che la felicità di Tizio sia misurata (schema 1) coll’indice 45 (10+9+8+7+6+5 quella di Caio con 40 e quella di Sempronio con 34 ovvero che la felicità di Tizio sia misurata (sempre nello schema 1) coll’indice 30 (5 indice della utilità della ultima unità di ricchezza posseduta moltiplicato per il numero, 6, delle unità possedute) quello di Caio con 30 (6×5) e quello di Sempronio con 28 (7×4), ognuno paghi tanta moneta quanto occorre perché il sacrificio di ognuno sia uguale, ad esempio, ad un decimo della felicità che avrebbe goduto in assenza dell’imposta. Anche il principio del sacrificio proporzionale è assiomatico, per la impossibilità di asserire il contrario. Su qual fondamento logico poggiare la pretesa che l’uno debba perdere la decima, l’altro la quinta ed il terzo la ventesima parte della propria felicità?

 

 

158. I tre principii, ugualmente assiomatici ad un primo sguardo, sono tuttavia significativi? La domanda non è impertinente. Solo l’analisi può dichiarare se una proposizione, la quale sembra per se stessa evidente, abbia un contenuto. I tre principii del sacrificio avrebbero invero un senso logico soltanto se noi potessimo supporre:

 

 

1)    che le unità di beni o di moneta considerate siano finite e le une alle altre uguali e fungibili o sostituibili. Noi saremmo grandemente imbarazzati se ci trovassimo dinnanzi ad una miscellanea di beni diversi: case mobilio vivande vestiti terreni navi azioni. Pur trattandosi di mera difficoltà concreta è bene che il calcolo delle unità sia compiuto su unità monetarie, ad esempio lire, tutte uguali le une alle altre e bastevolmente piccole per poter approssimativamente affermare che ogni particella della medesima unità.

 

2)    Che ogni individuo sia in grado di misurare i commodi delle varie dosi o unità delle proprie ricchezze e l’incommodo dell’esserne privati dall’imposta.

 

3)    Che per ogni individuo e a partire da un certo punto, l’unità delle successive doti di ricchezza sia decrescente, cosicché il commodo prestato da una lira, sia minore del commodo prestato dalla lira immediatamente precedente (99a) e maggiore di quello della lira (101a).

 

4)    Che si possa postulare la esistenza di uno strumento introspettivo, il quale fotografi le reazioni psicologiche quantitative di ogni uomo di fronte all’acquisto o alla privazione delle successive unità di ricchezza.

 

 

Schema III

 

VI

5

V

6

10

IV

7

15

1

III

8

25

4

II

9

20

7

I

10

5

12

Tizio Caio Sempro

nio

 

 

 

Non si può escludere la possibilità di individui così conformati: Tizio, uomo regolo e medio, Caio, eccitabile ai godimenti solo a partire da un certo punto e facilmente stanco, poi, della immaginata felicità, Sempronio, dai pochi bisogni e privo di sensibilità al vantaggio dell’acquisto di nuove dosi di ricchezza. Coll’aiuto dello psicoscopio, lo stato potrebbe agevolmente repartire l’imposta monetaria, in guisa da soddisfare ai requisiti dei tre principii del sacrificio uguale, minimo o proporzionale. Non rifaccio i calcoli, che si riducono a meri esercizi di aritmetica elementare.

 

 

Poiché le premesse concorrenti del sacrificio uguale o minimo o proporzionale sono tutte e tre, per ragionamento ab absurdo, assiomatiche:

 

 

  • se fossero note le curve della utilità della ricchezza per i singoli;

 

  • sarebbe possibile calcolare, per ognuno dei componenti la società, l’imposta che egli dovrebbe pagare soddisfacendo alla condizione che ogni contribuente subisca un sacrificio uguale o proporzionale o la collettività dei contribuenti un sacrificio minimo.

 

 

Noi potremmo chiamare razionale l’imposta così costruita, perché fondata su assiomi (a), su constatazioni di fatto (b) e su deduzioni logicamente ineccepibili da a e da b.

 

 

159. Condizione necessaria per la costruzione di questo tipo di imposta razionale è l’esistenza del sopralodato psicoscopio.

 

 

Lo psicoscopio non esiste, né lo possiamo sostituire con il metodo della confessione auricolare al procuratore alle imposte. Essendo incontrollabile, per la sua indole interna, se non dinnanzi al tribunale di Dio, la confessione dinnanzi al tribunale degli uomini non avrebbe alcun valore. È necessario perciò che lo stato sostituisca una sua valutazione a quella dei singoli. Ma dovendo lo stato essere imparziale, la sua valutazione non può essere arbitrariamente diversa da uomo a uomo. Lo stato deve necessariamente assumere un uomo medio, fornito di medie ordinarie comuni reazioni psicologiche di fronte all’acquisto od alla perdita delle successive dosi di ricchezza. Dovrebbe essere ed è di fatto immaginato un qualche schema, del tipo dello schema 1, nel quale si faccia l’ipotesi che la curva della decrescenza dell’utilità delle successive dosi di ricchezza sia di una data forma e questa sia uniforme per tutti i componenti la società.

 

 

Il tipo dell’imposta così costruita è del tutto diverso da quello che sopra fu detto razionale. Restano ferme, è vero, le tre premesse assiomatiche della ripartizione dell’imposta a norma del principio del sacrificio uguale ovvero minimo ovvero proporzionale. Ma, in luogo della conoscenza delle curve effettive della utilità delle successive dosi di ricchezza per i singoli componenti la società, noi conosciamo una curva inventata dal legislatore, una curva che il legislatore suppone propria di una astrazione detta uomo medio. C’è chi si contenta e, ragionando filato, giunge a costruire tipi di imposta i quali sono presentati al colto pubblico e all’inclita guarnigione come l’incarnazione della giustizia tributaria. In verità si è compiuto solo una elegante esercitazione scolastica, forse utile a mettere in evidenza l’attitudine del discente a scoprire e dello studente ad imparare le proprietà di certe curve dal punto di vista della geometria e del calcolo.

 

 

La sostanza economica dell’esercizio, sia detto con sopportazione, è zero. Allo stato attuale delle conoscenze, nessuno è riuscito a varcare il ponte fra le valutazioni individuali, disformi una dall’altra ed inconoscibili, della curva dell’utilità della ricchezza e la uniforme valutazione statale.

 

 

Stringi, stringi, che cosa è quest’ultima? La convinzione che ogni singolo studioso si è formato intorno a quel che egli crede sia la sensibilità dell’uomo medio rispetto alle dosi successive di ricchezza. Sono sentimenti, sono passioni, sono sogni, sono strumenti di lotta dei poveri contro i ricchi, dei lavoratori contro i capitalisti, dei prodighi contro gli avari. Sentimenti, passioni, sogni, strumenti di lotte sociali sono oggetto degnissimo di studio per lo storico. Fondare su di essi una teoria della ripartizione dell’imposta è per il teorico un fondarla apertamente sull’arbitrio.

 

 

Il problema dell’imposta si riduce al seguente: quale è l’imposta la quale soddisfa alla condizione di essere dedotta logicamente da quella curva della decrescenza della utilità delle successive dosi della ricchezza che sia posta uniformemente per tutti i cittadini dal legislatore? Poiché il legislatore può scegliere ad arbitrio fra un numero indefinito di curve tanto val dire che il problema comporta infinite soluzioni, ossia è solubile solo quando si parta dalla premessa che è vera quella soluzione la quale sia voluta dal legislatore.

 

 

Se le cose stanno così, a che la solenne costruzione derivata dal sommo principio utilitaristico? Questo darsi l’aria di grandi scienziati, spregiatori dei volgari pasticci sentimentali e costruttori di edifici logici derivati con lusso di equazioni da assiomi indiscutibili non è, per caso, polvere negli occhi della buona gente? Guardando in fondo, si vede che la costruzione poggia tutta sulla scelta arbitraria fatta dal legislatore, e per lui dallo studioso, di un criterio qualunque di distribuzione dell’imposta consigliata dal buon cuore, dall’opportunità politica, dalla prevalenza di certi sentimenti o di certi interessi. Non è meglio confessare che la signora scienza non ha nulla a che fare con l’applicazione del sommo principio utilitaristico alla distribuzione della imposta; e che si tratta di mere esercitazioni di calcolo più o meno sublime?

 

 

Non escludo affatto che con l’andar degli anni – siamo per ora lontanissimi da un qualsiasi avvicinamento alla meta – si possa costruire un qualche strumento il quale indirettamente si avvicini al miracoloso auspicato psicoscopio. Coll’esame di un numero sufficiente di bilanci di famiglia, distinti per classi di reddito, di professione, di origine sociale, di dimora, in rapporto alle variazioni dei prezzi, potrà forse qualche futuro ufficio statistico costruire indici misuratori, soggetti a revisioni continue, delle reazioni psicologiche alle variazioni della ricchezza. Non oso porre le esigenze della fantastica impresa. Mi contento di affermare che per ora dentro ai tre principii c’è il vuoto assoluto.

 

 

160. Se poi si discorra dei soli due principii, del sacrificio uguale e del sacrificio minimo, che sono anche, come è naturale, quelli maggiormente di moda, alla assurdità già osservata un’altra se ne aggiunge, notissima e distruttrice. Ambi i principii richieggono invero si possa affermare la proposizione: essere un dato sacrificio di Tizio uguale maggiore o minore di un dato sacrificio di Caio o di Sempronio, nell’un caso per potere far sì che il sacrificio dell’uno sia uguale a quello dell’altro e nel secondo caso perché la somma dei sacrifici di tutti sia un minimo. Ossia, i due principii richieggono che si possano paragonare i dolori ed i piaceri sentiti dall’un uomo ai dolori ed ai piaceri sentiti dall’altro uomo. Hic Rhodus, hic salta. Non esiste il ponte di passaggio dalla coscienza di uno a quella di un altro uomo. Tizio, nell’intimo foro della sua coscienza, stima che la I unità della ricchezza gli dia una soddisfazione come 10 e la II come 9. E così fanno Caio e Sempronio (schema I). Ciò vuole semplicemente dire che ognuno dei tre, per conto suo ed, aggiungasi, per miracolo, stima la II dose uguale a nove decimi della I. Ma 10 e 9 sono due valutazioni individuali, due numeri astratti che servono a raffrontare, distintamente per ognuno dei due contribuenti, due sensazioni successive. Potrebbero essere 20 e 18, 40 e 36 ed il rapporto rimarrebbe uguale. Il 10 di Tizio è però uguale al 10 di Caio? Nessuno lo sa; e nessuno potrà mai saperlo, sino all’invenzione dello psicoscopio, il quale sia capace di registrare con la medesima unità di misura le reazioni individuali disgiunte e contemporanee di tutti i componenti la società. Perciò i due principii del sacrificio uguale e minimo sono due giochetti buoni per costringere gli scolari a fare esercizi inutili di sedicente edonimetria tributaria. Mera perdita di tempo, buona per fare venire, in nome della scienza, la pelle d’oca ai papaveri dalla testa alta.

 

 

161. Per conto mio, non ho nessun bisogno di ricorrere all’argomento della pelle d’oca per buttare dalla finestra i due principii derivati dal canone supremo dell’utilitarismo. Basta pienamente l’argomento razionale del salto logico. Quando un ragionamento è illogico, non ha senso seguitare a sfaccettarlo, a trarne partito, e a dire che no e che sì e che la coscienza politica di qua e la coscienza collettiva di là ecc. ecc … Non ha senso e basta. Non ha senso dire che il sacrificio 10 di Tizio e il sacrificio 10 di Caio sono uguali; perché nessuno al mondo sa in che cosa consiste quella uguaglianza. Non ha senso dire che il sacrificio di Tizio della VI, VII e VIII unità essendo di 5+4+3=12 unità (schema II) è un minimo per la società dei tre contribuenti e quindi deve essere scelto, perché nessuno al mondo sa se quel sacrificio sia, per la lodata società dei tre, un minimo o qualcosa di diverso dal minimo. I sacrifici di Tizio, Caio e Sempronio, riferendosi ad esseri senzienti diversi, non sono commensurabili e quindi non sono addizionabili. Se siano più o meno grossi, grossi tanto o tant’altro noi non sappiamo e nessuno sa. Non c’è altro da dire. Se qualcuno ha qualcosa da dire, si faccia avanti e dica il fatto suo in modo chiaro, comprensibile a noi miserabili contribuenti che prima di pagare consapevolmente – a pagare senza sapere il perché non c’è bisogno di essere aiutati da professori di scienza delle finanze; basta l’avviso dell’esattore, con le comminatorie delle multe per ritardato pagamento, pignoramento mobiliare ed esecuzione forzata immobiliare – desideriamo capire le ragioni che ci si raccontano. Coloro che in questa faccenda piana parlano calcolo infinitesimale o infilzano frasi su coscienze politiche, punti di vista superiori collettivi ecc. vivono in un mondo troppo sublimato perché noi si possa attingere alle loro vette. Per noi uomini ordinari, sino a prova contraria la spiegazione razionale dei principii dell’uguale e del minimo sacrificio non esiste, ed esiste invece la presunzione del loro nulla logico.

 

 

162. Il principio del sacrificio proporzionale non soffre invece di salto logico. Non è illogico dire che Tizio, Caio e Sempronio debbano pagare, ciascuno di essi, tanta imposta quanta equivale ad un decimo della propria felicità. Qui non si fanno paragoni somme e sottrazioni. Ognuno dei nostri tre eroi sta esposto, per conto suo, ai colpi dell’imposta. Ognuno dà un decimo di se stesso; e poiché ognuno conosce se stesso e per conoscersi non ha bisogno di conoscere altrui, l’operazione è logica.

 

 

Con una piccola riserva, già fatta, che qui ripeto ad nauseam per ficcarla nella testa di coloro che ci scivolano sopra, senza avvedersi o facendo finta di non avvedersi della portata sua grandissima. Ognuno conosce se stesso e può dichiarare quale è la somma di imposta che, pagata da lui, gli cagiona un sacrificio o incommodo uguale ad un decimo della felicità o commodo procuratogli dalla ricchezza da lui posseduta. Dichiarerà ognuno quel che potrebbe?

 

 

Chi suppone di sì, accetta di trasformare il sistema delle imposte in un sistema di oblazioni volontarie. Il dilemma è preciso: o si crede senza discutere nella verità delle confessioni dei contribuenti ed abbiamo un sistema di oblazioni volontarie; o si discutono e il principio del sacrificio proporzionale va colle gambe all’aria. Nessun ministro delle finanze passato presente o futuro ha accettato od accetterà mai il primo corno del dilemma. Sulle oblazioni volontarie nessuno stato vive. Se non si vuole che tutti si facciano piccoli e dolenti e che le entrate dello stato cadano dalle decine di miliardi alle unità di milioni, è necessario discutere la confessione del contribuente. Se si discute, si sostituisce all’apprezzamento individuale dei commodi ed incommodi, che è il solo reale, un apprezzamento medio statale, irreale e privo di significato. Bisogna che lo stato dica: suppongo che i cittadini non abbiano la sensibilità che hanno in effetto per le successive dosi della ricchezza; ma una sensibilità media, da me configurata. La prima dose di ricchezza avrà per essi tutti l’indice di utilità 10 o 100; la seconda 9 o 99, la terza 8 o 98 e così via. E poi porterò via ad essi quel tanto di ricchezza che dia luogo ad un prelievo di utilità che sia un decimo dell’utilità quale fu da me calcolata. Ben so che l’utilità da me calcolata non è quella che i contribuenti sentono; che il decimo da essi immaginato non è il decimo; ma come fare, se gli uomini non confessano il vero?

 

 

163. Come fare? Piantarla lì con tutti questi ghirigori di pseudo-ragionamenti con cui, volendo persuadere gli uomini a lasciarsi portar via tot lire, ci si sente l’obbligo di imbrogliar loro la testa con parole solenni di utilità, sacrificio, uguaglianza, proporzionalità. Gratta gratta e sotto c’è il vuoto.

 

 

C’è il retore che vuole épater le bourgeois e farlo restare a bocca aperta.

 

 

164. Per ora il vile borghese ha ragione di restare terrorizzato dalle illazioni che dai principii utilitaristici si possono ricavare. Se, come ragionano gli utilitaristi,

 

 

a)    scopo della legislazione è la massima felicità del numero massimo possibile dei componenti la collettività;

 

b)    se la utilità delle dosi successive di ricchezza è decrescente;

 

c)    se si deve supporre, per ragioni di minimo arbitrio, che la scala della decrescenza è decrescente in modo uniforme per tutti: 10, 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2, 1, …;

 

d)    se l’indice di utilità apposto dai componenti la collettività alle successive dosi di ricchezza consente di far paragoni fra uomo e uomo, è logicamente incontestabile che lo stato deve portar via a chi le possiede le dosi di ricchezza le quali hanno una utilità più bassa per darle a chi, ricevendole, ne ricava una utilità maggiore, e che il processo deve continuare fino a che l’utilità marginale della ricchezza sia uguale per tutti. A questo punto non conviene seguitare perché, se la utilità marginale è per tutti 6, a togliere ancora una dose a Tizio gli si fa perdere 6, laddove a darla a Caio gli si fa guadagnare solo 5.

 

 

Non importa qui discutere se la premessa a sia accettabile; e con quali riserve – specie sul punto d’inizio della decrescenza – possa accettarsi la b. Il punto decisivo è che la c è un’ipotesi intieramente disforme dalla realtà (la scala della decrescenza non è uniforme bensì variabile e variabile secondo regole non conosciute o conosciute in modo così imperfetto da non consentire alcuna misurazione), e che la d non ha senso (il piacere o dolore di Tizio è un affar suo individuale non paragonabile al piacere o dolore di Caio).

 

 

Il vile borghese può fare a meno di farsi venire la pelle d’oca; ché la teoria utilitaristica dell’imposta è, per ora, una vecchia baracca crollante. Chi vivrà vedrà se qualcuno riuscirà a cavarne qualche costrutto.

 

 

165. Per ora il costrutto migliore che se ne può cavare è negativo: bisogna farla finita con principii che si danno l’aria di guardare tutto il mondo dall’alto in basso, come se tutto ciò che non si avvicina alla loro «sommità» sia vile empirismo, roba superata, vecchiume rancido. Abbasso la boria dell’imposta personale progressiva globale totale complessiva eccetera eccetera! La progressività la personalità la globalità la totalità la complessività sono derivazioni teoriche dai «sommi» principii utilitaristici. Senza di questi non se ne può dare una spiegazione razionale; epperciò al par di questi sono, oltreché orrende parole in lingua italiana, roba qualunque, che vale né più né meno, forse meno che più degli opposti canoni della proporzionalità, della realtà, della particolarità. Meri spedienti da usarsi con la cautela e il fiuto dell’uomo di stato il quale deve tener conto di mille e mille circostanze contingenti non teorizzabili. Naturalmente, l’uomo di stato invocando quei canoni farà appello alle grandi parole, ai sommi principii e farà bene, ché si tratta di convincere i restii a pagare. Ma noi, che siamo semplici studiosi, non possiamo lasciarci imporre dalle parole piene di vuoto e dobbiamo assumerle per quel che sono: roba qualunque, buona o cattiva a seconda dell’uso che se ne fa.

 

 

166. Direi, data la voga che dal 1870 in poi hanno preso le parole di progressività personalità globalità complessività totalità, occorre piuttosto aver l’occhio fisso ai malanni che ne possono derivare che non all’uso eventualmente buono che se ne può fare.

 

 

Dove è il limite all’operare logico del principio del minimo di sacrificio? Se prudenza e buon senso non soccorrono, il limite si tocca solo quando si sono livellate le fortune. Se Tizio ha 100 e Caio 50, Caio, utilitarista, conoscitore per istinto della teoria della decrescenza dei gradi di utilità della ricchezza, rifiuta di pagare sinché Tizio non è stato spogliato di tutto il supero oltre i 50 posseduti da lui. Forseché le unità fra 51 e 100 non hanno, tutte, una utilità progressivamente minore di quella posseduta dalle unità fra 1 e 50? Paghi dunque Tizio fino a livellarsi a lui, ché il sacrificio sociale sarà il minimo. Paghi anche se lo stato non ha urgenza di entrate, perché il togliere unità a Tizio cagiona a costui un danno minore del vantaggio che avrebbe Caio ricevendole. Una società, in cui ognuno dei due ha 75 unità, gode di una massa totale di felicità maggiore di quella in cui l’uno ha 100 e l’altro 50.

 

 

C’è un solo piccolo inconveniente all’operare del congegno. Chi obbliga Tizio a produrre 100 quando sa che il supero oltre 75 gli verrà inesorabilmente portato via dalla logica del principio del sacrificio minimo? Conseguenza necessaria del principio è togliere lo stimolo a produrre ricchezza oltre la media che si prevede destinata a rimanere in possesso del produttore. Se l’imposta livellatrice riduce i redditi di 100 a 75 e porta quelli di 50 a 75, Tizio produce solo più 75 e Caio resta con i suoi 50, perché i 25 destinati a lui sono sfumati.

 

 

Ma il virus infernale del principio del sacrificio minimo non ha finito di agire. Se i due posseggono 75 e 50 unità, conviene, a massimizzare la felicità collettiva, togliere 12,50 a Tizio e darli a Caio, cosicché ognuno abbia 62,50. Ma Tizio riduce allora nuovamente la produzione a 62,50, ché sarebbe a lui inutile produrre di più. E così via distribuendo e riducendo giunge, per differenze sempre più piccole, il momento in cui amendue producono le stesse 50 unità. In quel punto, Caio, il quale si era illuso di rigettare tutta l’imposta su Tizio, si avvede che la deve pagare anch’egli nella stessa misura. Non forse ha egli la stessa ricchezza?

 

 

167. Al punto critico si giunge presto se l’imposta livellatrice si applica ai redditi di lavoro, perché il lavoratore manuale ed intellettuale subito capisce la inutilità di continuare a lavorare quando il frutto ulteriore della sua fatica sia avocato dall’imposta allo stato. Ma vi si giunge ugualmente per i redditi di capitale. Solo il volgo crede che i denari bisogni prenderli dove ci sono. Residuo bruto di brute credenze adoratrici dell’oro. Tutto il capitale, terre case macchine strade ponti ferrovie, muore se continuamente non lo si rinnova. Tutto il capitale del mondo è nuovo. Anche San Pietro di Roma si ricrea di ora in ora. Se non lo si ricreasse sarebbe da gran tempo un mucchio di rovine. Supporre che un qualunque capitale concreto duri in media vent’anni è probabilmente ipotesi dettata da accesa ottimistica fantasia. Ci deve essere qualcuno che ricrea il capitale. Se non è lo stato, se cioè non viviamo in una organizzazione comunista in cui la funzione del produrre risparmio è un ufficio pubblico – ma allora è anche inutile discorrere di imposte – se il compito del risparmiare è compito di privati, importa che il risparmiatore speri qualcosa dall’atto suo. Può egli contentarsi di poco; ed in tempi di sicurezza nell’avvenire, di libere iniziative, di tranquillo possesso si contenta di pochissimo. Ma il nulla, ma l’avocazione completa al di là di un certo punto stronca il motivo del risparmiare. La produzione del risparmio, caratteristica dei tempi e dei popoli civili, ha termine.

 

 

168. Sento abbaiare:[2] «e quale pazzo mai spinse la progressività ad estremi così assurdi? La progressività è principio ragionevole il quale vuole soltanto far gravare l’imposta un po’ di più sui ricchi un po’ meno sui mediocri e ancor meno sui meschini; ma non intende espropriare i ricchi, né togliere, in nessuno stadio della ricchezza, l’incitamento al lavoratore ed al risparmiatore a lavorare ed a risparmiare. Negare l’imposta progressiva solo perché ad un pazzo sragionante può venire in mente di mutarla in confisca livellatrice è sofisma inammissibile».

 

 

169. Sia chiaro che:

 

 

1)    il solo ragionamento condotto a spiegazione della progressività è proprio quello del pazzo sragionante. Tiriamo via le premesse dell’utilità decrescente della ricchezza, e dell’uguaglianza, del minimo e delle proporzionalità del sacrificio d’imposta e manca alla progressività qualunque base razionale;

 

2)    e questa non esiste perché quei tali principii del sacrificio sono di significato ignoto.

 

 

L’abbaiamento può finire in un mugolio. La tesi qui sostenuta è che la progressività dell’imposta, il che vuol dire considerazione del reddito o del capitale intero globale complessivo posseduto dal contribuente in relazione alle sue condizioni personali di famiglia, di celibato, di malattia, di età, di condizione sociale, di natura di reddito può essere una bella o una brutta concezione. Personalità e progressività sono due cose qualunque, né belle né brutte, inesistenti teoricamente. Sono manifestazioni di sentimenti. Buoni, ossia tali da rafforzare la compagine sociale, se si tratta del senso di solidarietà che spinge quei che possono a pagare di più per il bene comune. Pessimi, ossia tali da distruggere la società, se l’invidia spinge il povero a spogliare con la progressiva colui che sta al di sopra. Anche la realità e la proporzionalità dell’imposta sono la espressione di sentimenti, sovratutto di quello della certezza. L’imposta la quale colpisce le cose per sé, ugualmente in rapporto al loro frutto o valore, assicura gli uomini contro arbitrii e privilegi; e può incoraggiarli grandemente a risparmiare ed a lavorare.

 

 

170. L’uomo di stato è chiamato a pesare e confrontare sentimenti ed azioni; e ad attuare quella combinazione di personalità e di realità, di progressività e di proporzionalità che nel suo giudizio è atta a produrre quel migliore risultato che a lui pare desiderabile. Francesco Guicciardini già ammoniva il lodatore della decima scalata od imposta progressiva che «se si fussi ricordato che [il] magistrato fu trovato per conservare la libertà e la pace della città e la quiete di ognuno, non per essere autore di discordie e di leggi ed ordini pestiferi, avrebbe forse raffrenato più la lingua sua» (loc. cit., p. 208).

 

 

Raffrenino gli studiosi moderni l’istinto che li spinge a rammostrare all’uomo di stato le vie della «vera» giustizia tributaria. La smettano con la boria di scoprire ed insegnare i principii «scientifici» della distribuzione «giusta» dell’imposta. La signora «scienza» ha perso troppo tempo nel correre dietro al vuoto idolo dell’uguaglianza di sacrificio. Più presto ci persuaderemo che la giustizia tributaria non è materia di «alta» scienza ma di accurati modesti ragionamenti intorno agli effetti concreti dei diversi tipi possibili di imposta sulla condotta umana e meglio sarà.

 

 



[1] Decima scalata era parola la quale significava «che chi aveva cinque ducati o manco di decima, pagassi una decima (10%); chi aveva dieci ducati di decima pagassi una decima ed un quarto (12,50%); chi n’aveva quindici, pagassi una decima e mezza (15%); e così successivamente per ogni cinque ducati che l’uomo aveva di decima, si moltiplicava uno quarto più (250% in più), non potendo però passare, per uno, tre decime (30%)». Cfr. Francesco Guicciardini, Dialoghi e discorsi del reggimento di Firenze, Discorsi III e IV su la decima scalata, pp.196-98, Laterza, Bari 1932.

[2] Così abbaiarono alle calcagna di De Viti il quale nei Principi di economia finanziaria (Einaudi, Torino 1934, pp. 165 sg.) aveva dimostrato la natura autofaga della imposta progressiva. Ed avrebbero potuto abbaiare alle calcagna di Bentham perché, dopo avere nitidamente posto i principii della decrescenza della utilità delle successive dosi della ricchezza:

 

 

  1. «Caeteris paribus, ad ogni particella di beni – ricchezza corrisponde una dose di felicità;

 

  1. «Per quel che tocca la ricchezza, se due persone hanno fortune disuguali, colui che ha più ricchezza deve dal legislatore reputarsi goda maggior felicità;

 

  1. «Ma la quantità della felicità non cresce in modo proporzionale al crescere della ricchezza; diecimila volte la quantità dei beni – ricchezza non vuol dire diecimila volte la quantità di felicità; potendosi dubitare persino che il possesso di diecimila volte la quantità di beni – ricchezza raddoppi in generale la felicità;

 

  1. «L’efficacia dei beni-ricchezza nel cagionare felicità scema a mano a mano che aumenta la differenza fra la ricchezza dell’uno in confronto a quella dell’altro; in altre parole la quantità di felicità provocata da una dose di ricchezza (ogni dose essendo di grandezza costante) scema a mano a mano aumenta il numero delle dosi; la seconda cagionando minor felicità della prima, la terza della seconda e così via»;

 

 

ed, avendone discusso sottilmente a lungo le logiche illazioni, aver concluso che:

 

 

«nell’ipotesi dell’entrata in vigore di una nuova costituzione fondata sul principio della massima felicitazione del maggior numero dei cittadini, sarebbe, in punto di ragione, bastevolmente dimostrata la norma per cui i beni-ricchezza debbono essere sottratti ai più ricchi e trasferiti ai meno ricchi, sinché le fortune di tutti siano diventate uguali, od almeno così poco diverse dalla perfetta uguaglianza, da non valer la pena di calcolare le differenze»;

 

 

dalla gravità della conclusione era subito tratto a tener conto di fattori non considerati in prima approssimazione ed a soggiungere che:

 

 

«alla massimizzazione della felicità sottentrerebbe l’universale annichilamento in primo luogo della felicità ed in secondo luogo della esistenza medesima. L’annichilamento della felicità deriverebbe dalla universalità dell’allarme e dal trascorrere dell’allarme in certezza; l’annichilamento della esistenza dalla certezza di non godere i frutti del proprio lavoro e quindi del venir meno di ogni spinta a lavorare».

 

 

Sicché il Bentham così chiudeva il discorso:

 

 

«Il piano di distribuzione dei beni-ricchezza che è più favorevole alla sussistenza universale e quindi alla massimizzazione della felicità è perciò quello in virtù del quale mentre la fortuna del più ricco, e cioè di colui il quale è collocato al sommo della scala sociale, è la massima, il numero dei gradini fra la fortuna del meno ricco e quella del più ricco è pure massimo, il che vuol dire che la ricchezza deve essere distribuita con gradazione regolare e quasi insensibile».

 

 

I brani sovrariportati, nei quali è riassunta la teoria iniziale e finale di colui il quale è considerato il creatore della teoria dell’imposta progressiva livellatrice, si leggono a carte 228 a 230 dei Pannomial Fragments di Jeremy Bentham nel vol. III dei Works (Edinburgh 1843), curati dal suo esecutore testamentario John Bowring su manoscritti forse databili dal 1831. Nel peculiare linguaggio del Bentham, «pannomial» significa «riassuntiva completa compilazione di leggi».

 

 

I brani riprodotti nella presente nota si leggono ora, in uguale testo, a carte 113-16 del primo volume dei tre in cui W. Stark ha raccolto in una nuova edizione critica dalle stampe precedenti e più da manoscritti inediti tutti gli scritti economici del Bentham (Jeremy Bentham’s Economic Writings, Burt Franklin, New York 1952-54). I brani non fanno più parte, come nell’edizione Bowring, dei Pannomial Fragments ma di un’opera parimenti inedita The Philosophy of Economic Science.

 

 

Il Bentham scrisse molto su finanze ed imposte; e molto fu tormentato dal contrasto e anzi dalla incompatibilità fra i suoi due ideali: la sicurezza che vuol dire libertà e l’uguaglianza. A lui parve di aver trovato una soluzione al problema della imposta, che egli considerava «il male» per definizione con il ritorno al sistema medievale dell’escheat o, all’incirca, devoluzione allo stato dei patrimoni, nel caso di estinzione della linea diretta. Grazie all’edizione critica dello Stark, oggi il pensiero economico del Bentham può essere fatto oggetto di serio studio.

Esistono vere esenzioni d’imposta?

Esistono vere esenzioni d’imposta?

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 90-114

 

 

 

 

78. La pratica tributaria è piena di trabocchetti verbali. Forse, dopo quella del doppio d’imposta, la parola più equivoca è esenzione. Non fu forse scritto in un testo legislativo che il sovraprezzo delle azioni era esente da imposta sui redditi? Ciò che non fu mai reddito può forse logicamente essere soggetto ad un tributo il quale ha assunto il reddito ad oggetto suo specifico?

 

 

La società emette una prima serie di 10000 azioni da 1000 lire l’una per procacciarsi il capitale iniziale di 10 milioni di lire necessario all’impresa. Per merito o fortuna – ma il cervello di chi non ha merito non crea fortuna, né gli occhi suoi la vedono – le cose sociali prosperano, sicché il dividendo distribuito agli azionisti cresce da zero nei primi anni a 30, a 50 ed a 120 lire. A questo punto, previsioni fondate persuadono dirigenti ed azionisti che il dividendo di 120 lire possa considerarsi consolidato, sicché esso si capitalizza ad un saggio di interesse, il 6%, un po’ più alto di quello del 4 o 5% corrente per impieghi di tutta sicurezza ed un po’ più basso di quello usato per impieghi industriali. La fondata previsione di costanza nel reddito futuro e la speranza di un possibile aumento, consigliano quel saggio di capitalizzazione ed il mercato lo fa suo. A 2000 lire l’una la valutazione delle 10000 azioni diventa di 20 milioni di lire, che nei libri sociali è in parte contabilizzata al passivo in 10 milioni di lire capitale nominale versato e in 4 milioni di lire riserva scritta[1] e in parte non è scritta ma potrebbe dar luogo ad una partita di 6 milioni di lire intitolata «valore dell’avviamento sociale».

 

 

79. L’uomo della strada a questo punto può dire: la finanza, la quale ha già tassato i distribuiti ed i 4 milioni di riserva scritta[2] a mano a mano che essi maturavano, e non può tassare i 10 milioni versati, perché questi sono capitale, tassi i 6 milioni di «valore dell’avviamento sociale»perché questi sono un vero incremento patrimoniale, che ognuno dei soci può intascare vendendo l’azione al prezzo di 2000 lire, di cui 1000 capitale intassabile e 400 riserva già tassata. Può essere alquanto complicato accertare il guadagno: ma è difficoltà pratica, non di principio.

 

 

Noi sappiamo che il ragionamento dell’uomo della strada è sbagliato, perché la tassazione degli incrementi patrimoniali dà luogo ad un doppio di tassazione non spiegabile logicamente (cfr. sopra paragrafi 33 sgg.). La finanza non si attenta invero a tassare gli incrementi di valore delle azioni vecchie dal valore 1400 intassabile o già tassato al valore 2000; ma si appiglia al peggiore dei partiti: attendere che la società ritenga opportuno aumentare il capitale da 10 a 20 milioni di lire, emettendo nel pubblico 10000 nuove azioni. La società non può, in questo caso, vendere al pubblico ossia a terzi le nuove 10000 azioni al prezzo di 1000 lire. Le nuove azioni, non essendo per nulla diverse dalle vecchie, vanterebbero uguali diritti sul patrimonio sociale, composto di 10 milioni capitale vecchio, 4 milioni riserve, 6 milioni valor dell’avviamento e 10 milioni capitale nuovo, totale 30 milioni che divisi per le 20000 azioni darebbero un quoziente di 1500 lire. I vecchi azionisti, i quali possedevano un patrimonio uguale a 2000 lire per azione, se lo vedrebbero ridotto a 1500; i nuovi, versando 1000 lire, ipso facto diventerebbero padroni di una quota sociale di 1500 lire. Non può immaginarsi che i vecchi azionisti si acconcino a regalare altrui metà delle riserve e dell’avviamento accumulato per rinuncia e merito proprio. Se i nuovi azionisti vogliono entrare a far parte di una società, di cui le quote di capitale valgono 2000 lire, paghino anch’essi 2000 lire di cui 1000 a titolo di capitale e 1000 a titolo di sovraprezzo atto a compensare, con uguale apporto, il valore delle riserve e dell’avviamento che è l’apporto dei vecchi.

 

 

Qui, la finanza italiana gridò: le 1000 lire di sovraprezzo sono un reddito e perciò deve essere tassato! Reddito di chi? Non dei vecchi azionisti, i quali riescono al più, con siffatto avvedimento di conguaglio, a conservare intatto il patrimonio, che già possedevano, di 2000 lire. Non dei nuovi, i quali versando 2000 lire ricevono un’azione, la quale dà diritto ad una quota di ugual valore del totale patrimonio sociale: 10 milioni capitale vecchio +4 milioni riserve +6 milioni avviamento +10 milioni capitale nuovo+10 milioni sovraprezzo, che messi in monte fanno 40 milioni, i quali divisi per 20000 azioni, dan luogo ad un quoziente di 2000 lire. Non della società la quale non è, dal punto di vista patrimoniale, nulla più di uno strumento giuridico-tecnico-economico per gerire gli apporti dei soci.

 

 

80. La finanza si persuase che sotto al sovraprezzo non v’era reddito, quando vide che i vecchi azionisti, fatti accorti del pericolo di perdere, a causa dell’imposta scorretta, parte dei proprii conferimenti di denaro, di risparmio e di merito, si decisero a non consentir più a terzi di sottoscrivere alle nuove azioni; ma, volendo aumentare il capitale da 10000 a 20000 azioni, se le ripartirono esclusivamente fra di sé al prezzo di 1000 senza sovraprezzo. Perdevano così 500 lire sulle vecchie che discendevano da 2000 a 1500, ma guadagnavano 500 lire sulle nuove che crescevano subito dalle 1000 versate a 1500. Come prima, essi non guadagnavano né perdevano; ma, non essendo nato sovraprezzo, mancava la materia della tassazione. A questo punto, la finanza si decise a dichiarare esenti da imposta i sovraprezzi delle azioni di nuova emissione.

 

 

I commentatori ripetono che il legislatore esentò non perché riconoscesse di avere immaginato un reddito in fatto inesistente, ma perché, per contingenze momentanee, desiderò «favorire» le società, «incoraggiare» l’incremento dell’impresa e simili. Parole vuote di senso, le quali spiegano la odierna repugnanza dei giuristi a dar peso alle motivazioni «scritte» nei preamboli o nei lavori preparatori alle leggi. Sebbene essi diano alla loro repugnanza spiegazione più sottile, io dico in parole volgari che preamboli e motivazioni vanno assunti con le molle perché non di rado i legislatori non sanno il perché razionale delle loro azioni od hanno interesse a non pregiudicarsi enunciando principii. Epperciò caso per caso scelgono un pretesto. Nel caso presente il pretesto[3] fu la voglia di render favore ed incoraggiamento alle società, il motivo razionale era la inesistenza della materia imponibile.

 

 

81. La parola esenzione ha le braccia larghe come la misericordia di Dio. Chiamasi esenzione quella concessa agli interessi dei titoli di debito pubblico e chiamerebbesi esenzione quella che fosse concessa, secondo le vedute sopra esposte, (cfr. sopra paragrafi 13 sgg.) agli stipendi dei pubblici impiegati; sebbene ambe le esenzioni si possano spiegare solo colla previsione di pagare interessi e stipendi netti minori di quelli che farebbero altrimenti carico all’erario. Chiamasi esenzione persino quella accordata alle somme mandate a riserva matematica delle imprese di assicurazione sulla vita, sebbene a nessuno possa venire in mente di considerare come reddito dell’impresa quella che non è affatto reddito dell’impresa, bensì somma accantonata per far fronte al pagamento futuro delle somme dovute agli assicurati in caso di morte o di sopravvivenza.

 

 

Chiamasi esenzione quella concessa ai redditi delle società di mutuo soccorso, sebbene sia chiaro che le quote versate dai soci di quelle società, come di qualsiasi altra associazione di cultura, di divertimento, di assistenza, siano conferimenti di capitale; e sebbene sia ugualmente chiaro che il frutto di quelle quote, eventualmente accantonate per fronteggiare eventi sfavorevoli nella vita dei soci, diventi reddito solo quando prenda la figura di pensioni o sussidi ai soci, nel quale caso, esso è pienamente tassabile. Sicché l’esenzione vuoI dire semplicemente volontà di non tassare due volte il medesimo reddito, una volta quando è prodotto presso la società ed una seconda volta quando è distribuito ai soci bisognosi malati o vecchi od alle loro famiglie per sovvenire alle spese di sepoltura.

 

 

Chiamasi esenzione quella concessa alle case rurali, escluse dalla tassazione sia sui fabbricati come sui fondi rustici; quasiché la casa rurale fosse nulla più di uno strumento o coefficiente di produzione del fondo rustico, e quasiché essa desse un reddito autonomo, separato da quello del fondo. Dell’incremento che la casa dà alla produzione agricola si tiene già necessario conto negli estimi fondiari, poiché ogni particella catastale si considera istrutta, ossia provveduta di strade, di piantagioni, di canali di scolo e di irrigazione e di costruzioni secondo gli usi e le consuetudini locali. Nelle zone agrarie sprovvedute di case rustiche le spese di produzione risultano necessariamente più elevate per maggiori spese di trasporto degli uomini, degli animali da lavoro, delle sementi, dei concimi, dei prodotti agricoli da e al mercato, di quanto non accada nelle zone dove le case rustiche sono frequenti e insistenti su ogni fondo rustico, anche piccolo. Così e non altrimenti la cassa rustica cresce il reddito del fondo. Tassarlo sarebbe vera duplicazione; ed è improprio attribuire l’attributo di esenzione a quella che è mera esclusione per mancanza di materia imponibile. Improprio e pericoloso in questo e in tutti i casi consimili; poiché consente rimanga o sorga l’idea trattarsi qui di vera esenzione e cioè di favore e privilegio e cioè, ancora, di istituto tollerato, in sé dannabile e destinato a scomparire alla prima occasione propizia.

 

 

82. Se sia o non sia esenzione propria quella accordata in Italia per 25 anni alle case nuove è problema più complesso la cui risoluzione è connessa con quella data al problema più generale della cosidetta esenzione del risparmio. Ci troviamo qui di nuovo dinnanzi al quesito: chi sceglie, dinnanzi al tribunale della ragione, le premesse del ragionamento, quando queste non posseggono l’evidenza intuitiva dell’assioma? Poiché il giudice infallibile, in quel tribunale, non esiste, limitiamoci a riconoscere che le premesse sono in sostanza le due dianzi già poste (cfr. paragrafi 34 e 36):

 

 

  • reddito tassabile con una imposta x (ad es. 20% del reddito) in ogni intervallo di tempo (anno finanziario) è quella ricchezza che in quell’intervallo di tempo entra nella economia del contribuente, netta da spese di produzione, in aggiunta al patrimonio posseduto dal contribuente medesimo all’inizio di quel medesimo intervallo di tempo (premessa α);

 

  • reddito tassabile ecc. ecc. è ecc. ecc. (tutto come sopra) a condizione che in quell’intervallo di tempo il contribuente non subisca un danno superiore a quel qualunque sia x scelto dal legislatore come misura del sacrificio imposto al contribuente (premessa β).

 

 

83. Espongo il problema in questi termini allo scopo di affermare subito che il legislatore è libero di assumere una qualunque delle due premesse. La premessa à si potrebbe chiamare anche la premessa intuitiva del buon senso, se buon senso ed intuizione vogliono dire adattamento alle abitudini mentali e al modo di pensare proprio degli uomini in generale. Gli uomini sono abituati a dividere il tempo a fette, chiamate anni ed a dire che reddito è quella ricchezza ecc. ecc. come è detto sopra. La mezzanotte avanti all’1 gennaio e la mezzanotte dopo il 31 dicembre sono paraocchi che gli uomini si sono messi per non essere disturbati, nel camminare e nel decidersi, dal ricordo di quel che è successo prima e dalla previsione di quel che succederà dopo, e per potere far i conti senza troppi dubbi e troppe inquietudini.

 

 

Gli uomini hanno mille ragioni di mettersi i paraocchi; ogni tanto, se si vuole procedere innanzi, bisogna fermarsi, riflettere al passato, calcolare se le cose sono andate bene o male e perciò avere un punto di riferimento, un prima e un poi per sapere quel che è successo nel frattempo. L’abitudine, essendo sensata, è divenuta siffattamente sangue del sangue degli uomini, che questi, anche se sono economisti o finanzieri illustri, si inquietano quando taluno li tira per la coda della giacca e dice: badate che l’abitudine, ragionata a certi fini, non è una verità di fede; è un semplice strumento di condotta, mero espediente utile ad orizzontarsi nel tempo che è senza termine né di inizio né di fine. Si inquietano e ripetono: reddito è quella ricchezza ecc. e chiunque dice il contrario, sia scomunicato. Di fronte alla quale conclusione non c’è rimedio od obbiezione. Se il legislatore vuole adottare la premessa α, nessuno glielo può impedire. È soluzione comoda, che si raccomanda al consenso universale, perché adatta all’abitudine universale di concepire il tempo diviso ad anni.

 

 

84. È lecito però di immaginare che esista un legislatore il quale alla definizione corrente a aggiunga la condizione contenuta nella premessa β? E lecito immaginare che vi sia un legislatore, il quale avendo deciso di far subire a tutti i suoi contribuenti il sacrificio d’imposta x (suppongasi x uguale al 20% del reddito) non vuole che in qualche inavvertito misterioso modo, per uno dei soliti tiri logici di cui è fecondo il calcolo economico, qualcuno dei contribuenti subisca un sacrificio ? L’ipotesi che esista un legislatore il quale non voglia far subire a qualcuno dei contribuenti la perdita  quando sua volontà precisa è che tutti subiscano solo la perdita x è forse bizzarra, non è certamente insulsa. Quindi è premessa lecita del ragionamento. O meglio di un raccontino, a cui tanti anni addietro, visto che altri economisti si erano dimenticati di ricordare il nome dell’autore, io ho dato il nome di teorema dell’esenzione del risparmio di Giovanni Stuart Mill. Gravemente errai ad aggiungere la parola esenzione. L’avevo fatto innocentemente, solo per mettere in chiaro che il teorema imponeva fosse scritta una norma che, in conformità alle abitudini verbali d’allora e d’oggi, sarebbe stata detta nei testi legislativi di «esenzione». Mal me ne incolse; ché tutti gli sfaccendati cominciarono a gridare: perché esentare il risparmio, perché dare un privilegio a coloro i quali possono e vogliano risparmiare? Ed assai altre parole incomprensibili in aggiunta. Faccio umilmente atto di contrizione e dico che il teorema di Mill deve essere propriamente chiamato della doppia vista del risparmio.

 

 

85. Dice il raccontino o teorema:

 

 

Tizio ha nell’anno considerato un reddito di 20000 lire. Suppongasi, per semplicità, che egli ne consumi la metà e risparmi l’altra metà. Suppongasi che l’imposta sia del 10%. Sulle 10000 lire consumate, Tizio paga 1000 lire d’imposta; e tutto finisce lì. Non ci sono code o strascichi. Sulle 10000 lire risparmiate egli comincia a pagare le solite 1000 lire d’imposta, che riducono il risparmio disponibile a 9000 lire. Impiegate al 5%, quelle 9000 danno luogo ad un reddito di 450 lire all’anno in perpetuo. Queste sono decurtate, dalla solita imposta del 10%, di 45 lire all’anno. Quindi il contribuente che ha già pagato subito 1000 lire, pagando di nuovo una imposta annua perpetua di 45 lire, è come se pagasse altre 900 lire d’imposta.

 

 

La differenza di trattamento è chiara: sulle 10000 lire consumate o godute, lo stato preleva 1000 lire; sulle 10000 lire risparmiate il prelievo è . Se l’aliquota dell’imposta fosse, come in taluni paesi è agevolmente per talune classi di alti redditi, per esempio di 1 milione di lire, del 50%, le 500000 lire consumate pagherebbero 250000 lire in tutto, laddove le 500000 lire risparmiate comincerebbero a pagare subito 250000 lire e poi le 12500 lire all’anno, reddito al 5% delle residue 250000 lire, pagherebbero ancora 6250 lire d’imposta annua, uguali oggi a 125000 lire. In tutto la parte risparmiata pagherebbe 375000 lire invece di 250000.

 

 

Quindi, ove non si voglia far subire al risparmio un trattamento differenziale, occorre escluderlo, perché non tassabile – esentarlo secondo l’impropria terminologia corrente – dal pagamento dell’imposta o prima o dopo, o quando è 10000 lire o quando è il reddito annuo, 500, di 10000 lire.

 

 

Se invero lo escludiamo subito, Tizio paga, per la parte consumata, 1000 10000. Per la parte risparmiata dapprima non paga nulla ed è in grado perciò di investire tutte le 10000 lire. Queste gli fruttano 500 lire all’anno, sulle quali egli paga 50 lire d’imposta in perpetuo. Ma pagare 50 lire annue in perpetuo equivale a pagare 1000 lire oggi, ossia precisamente quanto ha pagato sulla quota consumata.

 

 

86.[4] Siano: 

Rc

la quota consumata nell’anno del reddito ottenuto nell’anno medesimo; 

Rr

la quota risparmiata nell’anno del reddito ottenuto nell’anno medesimo; 

a

il numero (reciproco dell’aliquota dell’imposta) per cui deve essere diviso il reddito R per ottenere l’ammontare dell’imposta; 
 

 

 

 

la serie infinita dei redditi ottenuti, negli anni successivi a quello considerato, dall’investimento della quota risparmiata del reddito già depurato dall’imposta

 

 

 

 

 

la serie infinita dei redditi ottenuti, negli anni successivi a quello considerato, dall’investimento della quota risparmiata del reddito non depurata, perché esclusa, dall’imposta.

 

 

 

Sia

 

La quantità

 

 

 

 

 

con n tendente all’infinito ossia la serie infinita dei redditi annui derivanti dall’investimento di scontata al momento attuale ha il valore  ovvero . Ognuno di questi valori può essere indifferentemente scritto invece dell’altro.

 

 

Partendo dalle sovraindicate definizioni, nel sistema α l’imposta sulla quota consumata del reddito è

 

 

 

 

 

l’imposta sulla quota risparmiata del reddito è:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

dunque

 

 

Dunque nel sistema α non è osservato il canone dell’uguaglianza.

 

 

Perché, dato il canone della uguaglianza, fosse corretto che , occorrerebbe potere scrivere:

 

 

 

 

 

Ma questa disuguaglianza non si può scrivere perché la quantità

 

 

 

 

 

non ha senso, essendoché il secondo membro non è aggiuntivo ma alternativo al primo.

 

 

Poiché, invece, per definizione:

 

 

 

e poiché:

 

 

 

 

 

essendo, per ipotesi, a costante, abbiamo:

 

 

 

 

 

la quale equazione può essere chiamata ell’uguaglianza del’imposta e si osserva nel sistema β.

 

 

87. Attraverso ad un rigiro di parole, la sola obbiezione sostanziale al ragionamento ora fatto è la seguente.

 

 

Non vi è dubbio che, nel sistema α, l’imposta 1000 sulla parte consumata, 10000 lire, del reddito è minore dell’imposta (valore attuale della serie infinita di lire annue) sulla parte risparmiata, 10000 lire, del reddito; ma la diversità non viola il canone dell’uguaglianza perché anche le due parti o quote del reddito sono disuguali.

 

 

La quota consumata del reddito è semplicemente 10000 lire e quindi l’imposta è corretto sia

 

 

Invece la quota risparmiata dal reddito è 10000 lire oggi, più 450 lire all’anno in perpetuo, equivalenti a 9000 lire subito, con un totale di 19000 lire.

 

 

Quindi l’imposta sulla quota risparmiata deve essere:

 

 

 

 

 

O sui valori attuali:

 

 

 

 

Nel caso del reddito consumato vi è un reddito solo (10000 lire) e quindi vi deve essere un’imposta sola: 1000 lire.

 

 

Nel caso del reddito risparmiato vi sono due specie di redditi: 10000 lire oggi ed una serie infinita di 450 lire all’anno in avvenire, equivalenti a 9000 lire oggi. Epperciò vi devono essere due specie di imposte: 1000 lire oggi sul reddito di 10000 d’oggi; ed una serie infinita di 45 lire all’anno in avvenire, sui redditi di 450 lire all’anno avvenire, equivalenti a 900 lire in oggi.

 

 

Che cosa v’ha di strano che le imposte siano parecchie quando i redditi sono parecchi? L’imposta sul consumato è una sola, perché il reddito si consuma una volta sola; l’imposta sul risparmiato si ripete all’infinito, perché dopo il primo reddito padre 10000 ci sono i figliuoletti redditi 450 all’infinito.

 

 

88. Quel che è strana sul serio è l’allucinazione di chi vede doppio nei redditi e dalla sua doppia vista trae argomento per moltiplicare le imposte.[5] Riduciamo l’esempio alla sua nudità scheletrica: 100 lire di reddito risparmiato oggi e 5 lire di redditi futuri del risparmio 100 divenuto capitale. Chi dice che il risparmiatore ha prima le 100 e poi le 5 all’anno ogni anno, dice che le  sono diverse ed aggiuntive, che il risparmiatore possiede e gode ambe le quantità. Pura allucinazione, ripeto. Certamente il risparmiatore non gode le due quantità. I due godimenti sono «alternativi» e non «aggiuntivi». L’uno esclude l’altro. Chi gode le 100 lire, non può godere la serie delle 5 lire. Chi vuoI godersi la serie delle 5 lire deve rinunciare a godere le 100 lire.

 

 

Possiede egli forse due quantità?

 

 

Tizio nell’anno I ha guadagnato 100 lire. Alla fine dell’anno I egli possiede 100 lire e le risparmia. Nell’anno II egli guadagna il frutto 5. Alla fine dell’anno II egli possiede . La somma  è logica, se riferita alla fine dell’anno II, trattandosi di due quantità 100 e 5, amendue esistenti nel medesimo istante, fine dell’anno II. In quell’istante, Tizio possiede 105 lire e ne può fare quell’uso che egli reputa migliore: godersele, ossia consumarle; risparmiarle; o fare un po’ l’una e un po’ l’altra cosa. Ma non è lecito dire che Tizio possiede 100 lire alla fine dell’anno I e 5 lire alla fine dell’anno II e dire che le due quantità si sommano o sono aggiuntive l’una all’altra, perché si direbbe, così parlando, cosa senza senso. Non ha significato sommare quantità riferite a due tempi diversi. Tenti il signor Tizio di possedere sul serio ossia di godere le 100 lire alla fine del I anno; e si accorgerà se alla fine del II anno avrà le altre 5 lire. Sberleffi sì, ma lire punte!

 

 

89. La verità, che ha senso, è tutta diversa; Tizio ha rinunciato alla fine del tempo I al possesso di 100 per avere il possesso di 105 alla fine del tempo II. I due possessi sono alternativi ed equivalenti:

 

 

 

 

I due possessi sono equivalenti perché l’atto di risparmio è un atto di scambio. Si scambia 100 attuale con 105 futuro; e lo scambio avviene fra questi due beni sul mercato, come per qualunque altro scambio, fra equivalenti. Se l’equivalenza, al rapporto di 100 attuale contro 105 futuro, non ci fosse, il rapporto sarebbe diverso: di 100 presenti contro 104 o 106 futuri. Se il saggio di interesse fosse zero, l’equivalenza sarebbe fra 100 attuali e 100 future. Ad equilibrio raggiunto, il fatto dello scambio avvenuto prova che vi fu equivalenza fra le quantità scambiate.

 

 

L’imposta può indifferentemente colpire 100 alla fine del tempo I ovvero 105 alla fine del tempo II. Come sono equivalenti le quantità imponibili, così sarebbero equivalenti le due imposte. Con la terminologia usata non si vuol dire né che sia «giusto» che 100 lire oggi equivalgano a 105 lire fra un anno, né che le 100 lire oggi partoriscano o producano in un anno 5 lire. Non so che cosa sia giusto in tema di parti economici e non so nemmeno se esistano codesti parti. Constato unicamente il fatto che il mercato considera equivalenti quelle due quantità 100 oggi e 105 fra un anno, senza traccia di più o di meno.

 

 

90. Coloro i quali ingenuamente suppongono di tassare tutto e solo il reddito proponendo di tassare 100 alla fine del I tempo e 5 alla fine del II tempo, che cosa fanno? Prelevano, al 10%, 10 alla fine del I tempo e 0,50 alla fine del II tempo e dicono; la quantità  non è forse il decimo delle 105 che il contribuente possiede alla fine del II tempo? Si dimentica così che Tizio se volle possedere 105, dovette aspettare un anno e rinunciare per un anno a godere, a palpare, a guardare le sue 100 lire. Che cosa è possesso, se non guardare palpare e godere? Aspettino anch’essi un anno, i signori tassatori, a prelevare l’imposta e nessuno si querelerà di lesa uguaglianza tributaria[6] quando prelevino poi 10,5. Ma non si può prelevare 10 oggi e 0,5 alla fine di un anno e dire di essere in regola. Per sommare le 10 d’oggi con le 0,5 di un anno dopo, è necessario aggiungere alle 10 prelevate oggi l’interesse medesimo del 5%, riportandole così in 10,5 alla fine dell’anno. Che se alla fine dell’anno si torna a prelevare 0,5 (o meglio 0,45 poiché il reddito delle  imposta fu solo 4,50) d’imposta, il totale fa 10,95, il che è più del 10% che si voleva prelevare sulle 105 lire del possesso della fine dell’anno II.

 

 

91. In questa faccenda si assiste veramente al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Bisogna tassare 100 e poi 5 e 5 e 5 all’infinito perché si tratta di redditi diversi? Se sono diversi si dovrebbe poterli valutare paragonare e quindi sommare. Una serie di redditi di 5 lire annue all’infinito equivale, al saggio di sconto del 5%, e su ciò non cade ombra di dubbio, a 100 lire attuali. Dire che Tizio ha oggi un reddito di 100 lire e poi una serie infinita di redditi di 5 lire annue equivale a dire che Tizio ha o possiede 100 lire ed il valore attuale in 100 lire di quella tal serie infinita ecc. ecc. Dunque Tizio possederebbe .Dunque, ancora, basterebbe decidersi oggi a risparmiare 100 lire perché di punto in bianco le 100 diventassero 200 lire? Non è questa pura allucinazione manicomiale?

 

 

Prendasi in mano un titolo di stato chiamato rendita perpetua 3,50%. Esso è composto di una parte centrale, che possiamo chiamare capitale e di due strisce laterali, frazionate in cedolette semestrali del valore di 3,50 lire annue. Le striscie laterali essendo, quando siano esaurite, perpetuamente rinnovabili, sono la immagine cartacea di una serie infinita di redditi. Chiameremo frutti le due strisce laterali.

 

 

Pongasi che Tizio, uscendo di senno, immagini che il capitale sia un possesso (o un godimento) diverso, a se stante, dai frutti. Dona altrui le strisce laterali e il diritto alla loro perpetua rinnovazione. Resta egli forse con possesso qualsiasi? Mai no. Il suo pezzo di carta centrale, come ché ben pitturato, vale zero, è un possesso zero, perché separato dal possesso delle strisce di cedolette. Le cedolette ossia gli interessi annui non sono un’altra cosa, diversa dalla cosa detta capitale. Sono la stessa cosa; sono la sostanza medesima del capitale, senza di cui questo – possesso, godimento, toccamento, contemplazione ecc. ecc. – non esiste.

 

 

La penna esita a scrivere queste che sono verità banalissime volgarissime evidentissime che soltanto gente ipnotizzata dalla assiomaticità indiscutibile della premessa a rifiuta di vedere.

 

 

Che cosa è l’albero fruttifero senza frutta? L’albero vale perché dà frutti, ed i frutti sono tutto il valore dell’albero. Diventi l’albero sterile; e diventerà mera legna da bruciare, dedotte le spese dello spiantarlo spaccarlo e portarlo a casa.

 

 

92. C’è chi – ma sono le risorse della disperazione – non potendo negare che il risparmio è nei suoi frutti, che le 100 lire d’oggi non si possono godere e possedere se si vogliono godere o possedere le 5 e 5 e 5 ecc. ecc. lire del domani dice: esiste però, all’atto del risparmio, un piacere del risparmio, diverso ed aggiuntivo al vantaggio dell’interesse. Ammettasi pure che l’albero stia nei frutti, che la casa sia la stessa cosa dei suoi fitti, che la cartella sia un tutt’uno coi fogli di cedolette, che il 100 d’oggi sia equivalente al 105 del domani; ma accanto ai frutti naturali o civili, c’è nel possesso del capitale qualcosa di più: il piacere dell’avaro nel contemplare palpeggiare e far rotolare i marenghi, il piacere del proprietario di stare nella casa propria, la amorosa passione del contadino per la terra, la mania del collezionista per le monete, i francobolli, i libri rari, la contemplazione dei dipinti della quadreria da parte dell’amatore. Sia vero che i frutti siano la stessa cosa del capitale ed il capitale la stessa cosa dei frutti, sicché tassando l’uno si tassi contemporaneamente l’altro ed a tassar amendue si tassi ripetutamente la stessa cosa; ma il tintinnio dei marenghi d’oro, il senso degli avi e dei figli nella casa propria, il sapore del pane casalingo fabbricato col frumento nato sulla terra cento volte arata e contemplata, la gioia del possesso del pezzo unico o del quadro di autore, tutto ciò non si tassa tassando i frutti naturali e civili, e se si vuol tassare, come si deve per uguaglianza di trattamento, fa d’uopo raggiungerlo attraverso il capitale, ossia attraverso il reddito, innanzi che esso sia investito (risparmiato) in tesori aurei, in case, in terre, in libri, in quadri.

 

 

93. Il problema a questo punto non è di principio ma di applicazione. Si afferma che 100 lire oggi sono equivalenti a 100 lire fra un anno, più interessi, più una quantità non valutabile monetariamente di soddisfazioni diverse.

 

 

94. Chiamando  l’ammontare del reddito risparmiato oggi,  il medesimo ammontare fra un anno,  l’ammontare dell’interesse o frutto naturale o civile dell’anno, ed l’ammontare, in qualche modo valutato in denaro, delle altre soddisfazioni ricevute dal proprietario durante l’anno si ha:

 

 

 

 

 

Si ammette che si debba tassare  ovvero ; ma si osserva che, ove si scelga la tassazione del secondo membro  non basti tassare , ma occorre tassare .

 

 

95. Non ho obbiezione di principio, in base al canone della uguaglianza, all’imposta sul tintinnio dei marenghi per l’avaro, sui valori di affezione per l’amatore della casa avita e della terra ereditata e per lunghi anni covata collo sguardo, sulla contemplazione dei libri, delle collezioni di francobolli e delle quadrerie. Constato che l’imposta su queste entità impalpabili ed imponderabili, sarebbe di ardua odiosa e grottesca applicazione.

 

 

96. Demolito il concetto del duplo nel risparmio e nei frutti del risparmio, resta dimostrato che la tassazione del risparmio offende la premessa β del legislatore ossia la condizione posta, se fu posta, dal legislatore a se stesso di non cagionare al contribuente un danno maggiore di quello da lui voluto.

 

 

97. Siccome non ho intenzione di ridiscutere il problema della doppia tassazione del risparmio, così non sento il bisogno di perseguirlo attraverso il groviglio di argomentazioni, per nove decimi inutili, in cui esso si è arenato a scopo di esercitazione accademica. Coloro, ad esempio, i quali si preoccupano della possibilità che in un mondo di avari, lo stato perda quasi tutta la sua materia imponibile, o che in un mondo di evasori legali, gli uomini si compiacciano a risparmiare per non pagare imposte, o che in un mondo di azzardosi il risparmio vada perduto e perciò si perda l’imposta su di esso e anche sui frutti suoi non venuti alla luce, possono attaccarsi a due soluzioni: 1) alla premessa α secondo cui lo stato si mette i soliti paraocchi contabili. Purché sia noto che così si fa, colla complicità non solo di certi contabili ai quali mettersi paraocchi è congenito, ma di giuristi economisti e finanzieri, niente di male. Ognuno è libero di fare le leggi che crede, a condizione di non pretendere che la legge fondata sulla premessa a sia anche fondata sulla premessa β. La sola cosa che a me dà noia non è la tassazione del risparmio, ma la pretesa che, col tassarlo, non si faccia comparire due volte dinnanzi allo schermo dell’imposta la stessa cosa; 2) alla affermazione della impossibilità o difficoltà pratica di accogliere il principio della esclusione del risparmio, ovvero, alternatamente, a scelta, dei frutti del risparmio dall’imposta. Su questo terreno delle difficoltà, gli oppositori della esclusione (cosidetta esenzione) del risparmio possono scorrazzare a piacimento. Essi dovrebbero però avere la finezza di non immaginare di avere ragionato un problema quando a malapena hanno girato attorno alle sue difficoltà, e sovratutto non dovrebbero supporre sfacciatamente di avere essi scoperte le difficoltà medesime. Esse erano state tutte enunciate dallo Stuart Mill prima e da chi ne sviluppò il teorema poscia; ma a costoro non cadeva certamente in mente di confondere grossolanamente il ragionamento di principio con lo studio delle applicazioni concrete del principio. La fecondità di un principio non si misura dalla immediatezza delle applicazioni; ma talvolta e più dalla gravità dei contrasti che esso suscita, i quali mettono in luce altri principii od altri punti di vista dei quali pure occorre tener conto. Del che appunto si passa subito a discorrere, in conformità ai canoni elementari non si dice neppure della logica ma della bene ordinata costruzione di un qualunque componimento letterario. Forse anzi il peccato più grave dei critici del teorema della esclusione del risparmio dall’imposta non è l’offesa alla logica. Ai legislatori e quindi agli espositori delle teorie legislative in materia di imposta non è necessaria la logica; basta la chiarezza nel dare o spiegare le norme legislative, qualunque siano. Il confondere principii ed applicazione, ragionamento e sentimento, il ragionare su una premessa ed immaginare di restare attaccati ad un’altra, non è neppure difetto di logica (scomoderemmo per troppo poco una dottrina così austera), è semplicemente difetto di ordine nello stendere il componimento scolastico.

 

 

98. Un teorema logico non deve necessariamente tradursi in norma scritta obbligatoria. Il legislatore ha l’obbligo di tener conto di altre verità, di altri teoremi, e delle contingenti variabilissime difficoltà le quali contrastano l’attuazione piena di un qualunque principio teorico. L’ostacolo principale è quello della natura invincibilmente fraudolenta dell’uomo contribuente. Se un legislatore ingenuo dicesse: tu che hai un reddito di 20000 lire e ne risparmi 2000 sarai tassato su 18000; non varrebbe fosse richiesta la dimostrazione dell’avvenuto risparmio. Ben saprebbero i contribuenti inventare dimostrazioni plausibili ed ineccepibili di aver risparmiato non 2000 ma 5000 o 10000 lire. Invece del caro vita, i contribuenti discorrerebbero sorridenti con i funzionari delle imposte di sapienti accorgimenti usati dalla moglie per ottenere pietanze succulente e nutrienti con poca spesa, della benevolenza del padron di casa, delle ineffabili delizie dei risparmiatori, e delle agevolezze di buoni impieghi senza rischio. Per tener testa ai contribuenti, negli uffici delle imposte si dovrebbero impiantare libri mastri minuziosi sulle quotidiane variazioni delle fortune, degli investimenti e dei risparmi dei contribuenti. Poiché la finanza non è fatta per dar lavoro ai contabili, bensì miliardi all’erario, è chiaro che non si può discorrere di sancire in una legge la norma: «il risparmio od i suoi frutti sono esenti dall’imposta».

 

 

99. Perché dunque, perdere tempo a discorrere? Potrei rispondere: per lo stesso motivo per il quale nei libri di scienza economica si pongono problemi aventi un addentellato ancora più remoto con il concreto, con la cosidetta vita pratica. Noi non possiamo prevedere se un teorema non possa oggi o domani dimostrarsi fecondo. Bisogna correre una certa alea nel porre problemi e fermare teoremi. Spesso si tratta di teoremi veri, ma stupidi. La loro utilità è limitata a quella non spregevole a cui soddisfano i temi di esercizio scolastico in genere: costringere la mente dello scolaro a compiere un ragionamento corretto. Compito noioso sempre, spesso stupido; non però inutile.

 

 

Fra i tanti teoremi veri, ma noiosi e stupidi, spunta fuori qualche volta il teorema fecondo appassionante. Il teorema che, a pena di doppia vista, il risparmio debba essere escluso dall’imposta, pare appassionante, se ha suscitato tanto consumo di inchiostro. Poiché l’inchiostro potrebbe tuttavia essere stato sprecato, è più importante il connotato della fecondità. L’essersi ficcati in testa il teorema della esclusione del risparmio dall’imposta giova sicuramente a dare una spiegazione razionale a certi fatti i quali altrimenti parrebbero inesplicabili.

 

 

100. So bene che taluno tiene in non cale le spiegazioni razionali dei fatti finanziari. Giova ripetere. Quando costui legge, ad esempio, che il legislatore di un dato paese ha esentato dalla imposta i redditi delle società di mutuo soccorso e, compulsando relazioni, discussioni parlamentari, articoli di giornale, voti e ordini del giorno di associazioni e simili, ha creduto di constatare che il legislatore è venuto in quella determinazione di esentare ecc. ecc., perché animato da benevolenza verso le classi operaie o perché persuaso dalla crescente pressione elettorale delle classi medesime o desideroso di favorire la formazione di abitudini di previdenza attraverso ad associazioni volontarie, quel taluno è contento e non cerca altro. Quella è la spiegazione dell’esenzione, da elaborarsi in apposita teoria. Nessun dubbio trattarsi di esenzione. Non è stata quella la ragion del decidere del legislatore?

 

 

Vive però talun altro, al quale tutto ciò pare al più raccontino storico, del solito tipo a sfondo economico sociologico, a schemi noti, marionette di filantropia, patronato, lotta di classi, combinazioni, derivazioni ecc. ecc. che hanno, a seconda delle scuole, trasformato lo scrivere storie in noiosi esercizi scolastici a rime obbligate. Costui parte dal principio che una norma di legge è quella che è, ed ognuno ha diritto di analizzarla con la sua testa per valutarne e conoscerne il contenuto.

 

 

Lavori preparativi, opinioni di coloro che vollero o combatterono la norma sono dati rispettabili, di cui si deve tener conto, nei lieti in cui essi hanno un significato definibile. Se, analizzata, la cosidetta esenzione delle società di mutuo soccorso si rivela non essere affatto una esenzione, ma una esclusione dall’imposta per mancanza di materia imponibile, fa d’uopo riconoscere trattarsi di esclusione e non di esenzione e spiegare la esclusione con la mancanza della materia imponibile. I motivi dei lavori preparativi, le spiegazioni del legislatore rimangono eventuale materia di studio per le diverse specie di storici delle illusioni tributarie, per i ricercatori dei fatti rilevanti nella vicenda delle cose umane ed anche per gli avvocati di parte i quali non possono azzardarsi a cercare le ragioni vere delle norme dinnanzi a magistrati propensi a contentarsi di ragioni all’incirca, più semplici ad afferrarsi e già usate altra volta con successo.

 

 

101. Fioriscono istituti che il legislatore ha spiegato a se stesso con qualcuno o con parecchi di quei pretesti di cui è feconda la storia tributaria. C’è forse bisogno che il legislatore faccia il ragionamento dell’esclusione dall’imposta, per vizio di doppia vista, del risparmio, quando vuole spiegare a se stesso:

 

 

  • le imposte sui consumi;

 

  • le esenzioni delle case nuove;

 

  • » » dei nuovi impianti;

 

  • » » delle migliorie in genere;

 

  • le esenzioni delle somme mandate a riserva;

 

  • » » dei premi di assicurazione sulla vita;

 

  • le diversificazioni del reddito rispetto all’imposta; e simiglianti istituti che affiorano permanentemente e sporadicamente nel fiorito giardino tributario?

 

 

No, non occorre affatto che il legislatore ragioni secondo le regole della logica le quali comandano di preferire la ragione semplice a quella complicata, la ragione prima a quella derivata, la generale alla particolare, la propria ai sinonimi, la ragione nuda a quella sentimentale; né occorre affatto che ragionino logicamente i suoi sistematori e teorizzatori. Se l’uno o gli altri, anzi, facessero il ragionamento semplice: l’imposta non c’è perché non esiste materia imponibile, andrebbero incontro a due difficoltà forse insuperabili. In primo luogo quella di fare apprezzare la premessa b a chi è persuaso istintivamente, dalle proprie abitudini mentali, a ritenere vera la premessa a, quella tale del paraocchi; ed in secondo luogo quella di credere che gli uomini possano essere persuasi da un mero ragionamento astratto inteso a dimostrare che la premessa a consente e la b esclude il doppio di vista.

 

 

Per conto mio, quando discorro all’uomo della strada e gli voglio spiegare perché le imposte sui consumi ecc. ecc. (voglio dire i casi elencati sopra) sono faccende che vanno abbastanza bene, non mi attento a partire dal teorema della doppia vista, dalle premesse a e b e relativi ragionamenti. Dopo cinque minuti, l’uomo della strada sbadiglierebbe, perderebbe il filo del discorso e se ne andrebbe persuaso che gli economisti sono una nuova razza di filosofi squinternati.

 

 

No, faccio quel che fanno legislatori e commentatori: infilo la prima storiella (se non erro Pareto le chiama derivazioni) che mi viene in mente e con essa l’uomo della strada se ne va con dio soddisfatto. Gli racconto, a cagion d’esempio, esser opportuno esentar le case, per incoraggiare le costruzioni quando di case c’è per qualche ragione penuria; essere bene incoraggiare, con premi tributari, i nuovi impianti o le migliorie quando industria od agricoltura languono; doversi promuovere, esentando le riserve, il fortificarsi delle società e l’onestà nei conti, ovvero lo spirito di previdenza coll’esentare i premi di assicurazione; essere comodo tassare i consumi perché i contribuenti non si accorgono di pagare tributo e pagano a pezzi e bocconi, quando hanno i denari, conservando l’illusione di pagare volontariamente. Non dirò, come dice o diceva il legislatore inglese, che si diversifichi a favore dei redditi di lavoro in confronto a quelli di capitale, perché i redditi di lavoro sono guadagnati e gli altri no, perché la storiella mi ripugnerebbe; ma dirò, per sbarazzarmi del curioso, che i guadagni di lavoro sono più faticosi o sono temporanei ed occorre ricostituirli. Il che, appartenendo alle verità d’osservazione, è vero apprensibile e soddisfacente.

 

 

Ma le sono storielle, da raccontare a scopo di tener buono e mandare via soddisfatto l’uditorio. L’interprete di una norma scritta non ha bisogno di persuadere se stesso e gli altri con pizzicotti sentimentali. Fra le tante argomentazioni le quali si presentano alla mente per spiegare un fatto esiste una gerarchia: alla argomentazione particolare è preferibile la generale, alla contingente quella permanente, ai conforti di vantaggio, di comodità, di opportunità fa d’uopo anteporre il convincimento tratto dalla ragione; al bric-à-brac del caso per caso buono per fare il solletico all’epidermide delle persone sensibili, la deduzione da una regola fondamentale assunta come guida. Quella che ho chiamato premessa b non sarà un portento, né una verità di fede, né un assioma. Può essere perfezionata. L’ho messa innanzi come un criterio provvisorio per orientarsi nel classificare i fatti. Ci sono i fatti che soddisfano alla condizione della premessa b; e quelli che vi contraddicono. Non dico che i fatti contraddicenti debbano essere scomunicati. Agli occhi di taluno possono anche sembrare più belli o simpatici o preferibili. Importa solo affermare che sono diversi da quelli che vi si conformano.

 

 

102. Dirò perciò:

 

 

  • che le imposte sui consumi hanno la proprietà di non soffrire del peccato di doppia vista, perché un oggetto, ad es. un sigaro o un bicchiere di vino, non può essere consumato e perciò tassato due volte;

 

  • che la esclusione dall’imposta dei redditi delle case nuove, dei nuovi impianti, delle migliorie in genere soddisfa alla condizione la quale richiede, se si vuole evitare la doppia vista, non siano tassate le 100000 lire di redditi risparmiate nell’anno I e poi di nuovo il reddito delle case, degli impianti industriali e delle migliorie agricole in che furono investite le 100000 lire. Se il periodo di esclusione dall’imposta è abbastanza lungo (25 anni per le case nuove secondo i provvedimenti detti eccezionali del dopoguerra e 30 anni per le migliorie secondo l’implicita norma del catasto Messedaglia del 1886) esso quasi si confonde con la esenzione perpetua ed evita il doppio quasi in tutto. È un guaio non piccolo che per la impossibilità quasi certa di fare entrare nella testa del pubblico grosso il teorema di Mill sia necessario ricorrere alla piccola commedia dell’incoraggiamento che lo stato deve dare a destra e a sinistra alle iniziative benemerite. Smorfie fra auguri. Importa che il legislatore ubbidisca, consapevolmente o non, al comando di non doppiare, ossia di non scoraggiare. Non esenzione ma esclusione dal campo tributario di quel che non esiste;

 

  • che le somme mandate a riserva dalle società anonime od i premi di assicurazione sulla vita non sono tassabili, perché la loro tassazione farebbe doppio con quella dei redditi che la società ricaverà dalle somme mandate a riserva ossia risparmiate o che l’assicurato ed i suoi eredi ricaveranno dai capitali assicurati e riscossi quando l’evento si verifichi;

 

  • che le diversificazioni del reddito rispetto all’imposta, in virtù di cui il reddito di lavoro paga meno del reddito di capitale sono un espediente per trattare un po’ meglio il reddito che non esiste da quello che esiste. L’espediente è per fermo grossolanissimo e difettosissimo; e, per farlo accettare, c’è inoltre, bisogno di dire che il professionista deve essere trattato meglio del capitalista, perché il primo può diventar malato vecchio inabile al lavoro e deve provvedere alla vedova ed ai figli, laddove, il capitalista nei limiti del capitale posseduto a tutto ciò, per definizione dell’esser suo capitalistico, già provvide. È conveniente ed è onesto usare versioni plausibili e semplici e virtuose della nuda verità essenziale: che il professionista il quale guadagna 100 e mette da parte 30, oggi gode e possiede solo 70. Le altre 30 né le gode né le possiede oggi perché vi ha rinunciato in scambio della promessa di ricevere qualcosa in avvenire, quando ne avrà maggior bisogno, per es. una pensione annua vitalizia di 10 lire a partire dal 65esimo anno di età. Egli non ha 100 oggi, più dieci lire all’anno domani (65esimo anno); ma ha 70 oggi e 10 annue domani. Tassarlo oggi su 100 e di nuovo domani su 10 annue è, entro il limite di 30 lire in oggi, commettere errore di doppia vista. Per la teoria dell’imposta, ciò basta. Non occorre altro. Per il buon pubblico, che perde il latino in cose semplicissime, come beni presenti e beni futuri, sconto di valori futuri a valori attuali, occorre confortare il ragionamento astratto con esempi, argomentazioni concrete, esortazioni, commozione di affetti ecc. ecc. È ragionevole e umano che la commozione di affetti tenga gran luogo nei motivi delle leggi. Il legislatore è uomo tra uomini; e se li vuol governare a fin di bene, occorre far vibrare le corde all’uopo opportune. Non confondiamo però l’arte del persuadere con la logica del convincimento, che soltanto interessa noi! Può essere opportuno abbreviare il discorso parlando di esenzione; ma, dove non esiste la materia imponibile, quel modo di parlare, in sede logica, è improprio.

 

 

103. In verità, io credo che vere e proprie esenzioni ragionate non esistano. Se si può dimostrare che esse hanno un fondamento, esse possono essere ricondotte sempre all’altro concetto della «esclusione» per inesistenza di materia imponibile.

 

 

Le vere esenzioni sono poche e sono privilegi.

 

 

La principale, rimasta nella legislazione moderna, è quella dovuta alla maestà della corona. Il sovrano, fonte della legge, tutore supremo dell’ordine nazionale, non è assoggettabile all’imposta. Qui non si fa un ragionamento. Si constata una impossibilità morale fra l’assegnare una dotazione alla corona, affinché essa compia l’ufficio suo nello stato, e lo sminuirla subito coll’imposta. La dotazione fu fissata nella somma data, perché quella e non altra fu reputata propria all’ufficio.[7]

 

 

Un tempo, nobiltà e clero avevano parte nell’esercizio della sovranità. Il nobile difendeva lo stato con la spada, il sacerdote con la preghiera, il plebeo con il denaro. Quando il fatto rispondeva alla massima, l’imposta sul nobile e sul sacerdote sarebbe stata un doppio coll’onere del servizio pubblico reso da costoro. Mutati gli ordini sociali, nobili e sacerdoti, non adempirono più, come tali, ad uffici di stato. La esclusione dell’imposta era divenuta tra il XVII e il XVIII secolo una vera esenzione ossia immunità o privilegio. E perciò fu abolita.

 

 

Sarebbe un privilegio la esenzione che oggi fosse concessa ai proletari od agli operai come tali. Essi possono chiedere con ragione l’esclusione dall’imposta in quanto cadono in talune categorie caratterizzate in modo generale da mancanza di reddito imponibile. Il contribuente può pretendere l’esclusione dall’obbligo di imposta non perché egli sia proletario od operaio; ma perché il suo reddito è inferiore alle 2000 lire e alle 6000 lire; ed in Italia si giudica che coloro i quali posseggono redditi inferiori a quegli ammontari non debbono pagare rispettivamente imposta sui redditi di ricchezza mobile od imposta complementare sul reddito, perché si reputa che il reddito sia siffattamente basso che, se fosse tassato, cadrebbe al disotto dell’indispensabile alla vita. Né lo stato può tassare se la tassazione ha per effetto di distruggere la vita, che è invece ufficio dello stato perfezionare ed esaltare. Si ritiene anche che i percettori di redditi minimi abbiano già soddisfatto largamente al loro debito tributario pagando imposte sui consumi. L’argomentazione essenziale è una sola: esiste materia imponibile? Fu già assoggettata ad imposta nella misura voluta per tutti? Se la materia imponibile non c’è o fu già tassata, non si devono largire privilegi o favori; ma riconoscere l’esclusione. Esenzione è parola che dovrebbe essere bandita dal vocabolario tributario.

 

 


[1] Si suppone che non esista riserva nascosta in aggiunta a quella palese scritta. L’ipotesi non cambia nulla al ragionamento, ché una riserva nascosta, se esistesse, avrebbe la stessa natura logica della partita «valore dell’avviamento».

[2] La tassazione di questi 4 milioni mandati a riserva costituisce doppio di tassazione. Finché restano nella cassa della società, non sono reddito di nessuno. Gli azionisti, veri padroni dell’impresa, hanno la scelta fra conservare i milioni nella riserva sociale e goderne i soli frutti; ovvero milioni e rinunciare ai frutti. Non possono avere e godere nel tempo stesso riserva e frutti. Eppure i legislatori di tutti i paesi unanimi tassano riserva e frutti della riserva. Il grosso problema è un caso specifico del genere tassazione del risparmio e dei frutti di esso (cfr. paragrafi 82 sgg.).

[3] Su questa piatta tecnica interpretativa insisto, più malignamente, sotto nei paragrafi 100-1.

[4] Il par. 86, come pure quello 94 seguente, meramente abbrevia quel che è detto nel testo e può dal lettore essere saltato senza che il filo del discorso sia rotto.

[5] Naturalmente, ragiono di doppia vista rispetta agli uomini contribuenti. Le cose non vedono e non sentono; epperciò, se discorriamo di imposte sulle cose e sui frutti o prodotti delle cose, possiamo, con opportuni avvedimenti, moltiplicare le imposte senza mai incorrere nella taccia di doppio. Diedi esempio di ciò sopra (paragrafi 25-30), discorrendo delle imposte sul reddito del fondo e di nuovo sul reddito del mutuo ipotecario garantito dal fondo. Chi, dopo essere espressamente o tacitamente partito dalla premessa – né par possibile immaginarne altra – che le imposte siano pagate dagli uomini, scivola inavvertitamente a negare che esista doppio quando l’imposta colpisce il prodotto 100 del fondo nell’anno primo e poi di nuovo il prodotto 10 ottenuto nell’anno secondo dall’investimento del 100 dell’anno precedente, sposta il problema e vorrebbe applicare agli uomini concetti proprii delle cose. Sull’errore di non vedere il doppio quando si ragioni di cose e dei loro prodotti, cfr. del resto i capitoli secondo e terzo del mio Contributo alla ricerca dell’«ottima imposta». (Ristampato ora nella serie I, vol. I delle Opere).

[6] La parola «uguaglianza tributaria» è adoperata qui nel senso, comunemente usato in questa materia. Qui, dove si parla di uguaglianza oggettiva riferita a lire, si intende osservato il canone dell’uguaglianza quando le quantità di lire pagate nei due casi sono equivalenti. Quindi il segno di uguaglianza nel testo è assunto nel senso di equivalenza.

[7] Oggi sono esenti da imposta l’assegno personale del presidente della repubblica e le indennità dei deputati e dei senatori. Entro quali limiti l’argomentazione propria della dotazione al sovrano sia applicabile ai redditi ora indicati può essere materia di elegante indagine (Nota 1957).

Il mito dei sovrappiù

Il mito dei sovrappiù

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 61-89

 

 

 

 

44. In sede di discussione logica il solo problema è: vi è ragion di tassare le eccedenze di reddito di più dei redditi – base? Discutendo il problema così posto, discuteremo senz’altro anche l’altro problema: vi è ragione di tassare le eccedenze di capitale di più dei capitali base? Se tassando il reddito si tassa il capitale, resta escluso che l’una tassazione sia concettualmente diversa dall’altra e che si possa discutere dell’una tassazione come qualche cosa che può esistere in assenza dell’altra. Credere sul serio di riuscire, tassando il capitale od i suoi incrementi, a colpire qualcosa che non sia stato raggiunto o non possa raggiungersi con la tassazione del reddito o degli incrementi di reddito è pura illusione di doppia vista. Il legislatore il quale voglia prelevare il 20% del reddito ha parecchie vie aperte dinnanzi a sé:

 

 

  • tassare il solo reddito col 20%. Riducendo il reddito da 5 a 4, egli avrà nel tempo stesso tassato i capitale nella stessa misura, riducendolo, ove il saggio di interesse sia del 5%, e cioè il moltiplico o denaro sia 20, da 100 ad 80;

 

  • tassare il solo capitale col 20%. Riducendolo da 100 ad 80 avrà nel tempo stesso ridotto il reddito da 5 a 4;

 

  • tassare il reddito col 10% e in aggiunta il capitale coll’11,11%. La prima tassazione riduce il reddito da 5 a 4,50; e quindi il capitale da 100 a 90. La seconda riduce il capitale da 90 a 80 e quindi il reddito da 4,50 a 4;

 

  • combinare in altre svariate maniere la tassazione sul reddito con quella sul capitale, in guisa che l’imposta totale riduca serre l’uno e l’altro del 20%.

 

 

Ma il legislatore non può dire: voglio tassare reddito e capitale col 20%, in modo che i contribuenti perdano tutto e solo il 20% nel complesso dell’uno e dell’altro; epperciò tasso separatamente il reddito col 20% e il capitale col 20%. Ciò dicendo, dice cosa insensata, la quale conduce ad un risultato non voluto. L’imposta sul reddito riduce il reddito da 5 a 4 e quindi il capitale da 100 ad 80. L’imposta aggiuntiva del 20% sul capitale, che dal mercato è oramai valutato 80, lo riduce a 64 e riduce perciò il reddito a 3,20. Il legislatore voleva ridurre il reddito e il capitale rispettivamente da 5 e 100 a 4 ed 80 ed invece li riduce balordamente a 3,20 ed a 64. Poiché fa d’uopo teoricamente escludere nel legislatore la attitudine alla bugia ed all’ipocrisia (vedi sopra par. 32), giuocoforza è concludere che il doppio di imposta è tutt’uno col balordo d’imposta.

 

 

45. Se non si vuole il balordo, occorre partire dal presupposto che la tassazione del reddito significa tassazione sul capitale e viceversa. L’una è l’altra.

 

 

La scelta tra le due tassazioni o il contemperamento fra l’una e l’altra non è un problema di principio, ma di metodo, di opportunità, di precedenti storici.

 

 

46. Discorrendo in generale, ritengo preferibile l’imposta sui redditi (siano redditi-base, o normali, od incrementi di redditi, o redditi non guadagnati o di congiuntura) all’imposta sui relativi capitali (capitali base, incrementi di capitali, arricchimenti ecc.). Qualunque sia il nome o la specie, la degnità o la indegnità, la necessità o la inutilità, il merito o il demerito del reddito, esso presenta, per quanto riguarda l’attitudine a patire imposta, taluni vantaggi notabili in confronto dei corrispondenti capitali ugualmente degni o indegni, necessari o inutili, meritati o rubati.

 

 

47. Il reddito è fatto primo concreto misurabile accertabile, il capitale è frutto di un calcolo, proiezione che il mercato o l’attuario fa del futuro nel presente. Nel constatare i fatti, è inevitabile un minimum di errori; ma è inutile crescere per pura libido tributaria le cagioni di errore. La tassazione sul capitale ha talune prerogative rispetto all’attuazione del principio della esclusione del risparmio dall’imposta, le quali furono da me altra volta esposte.[1] Ma quell’attuazione suppone l’attitudine negli organi amministrativi finanziari a seguire le variazioni dei prezzi capitali delle terre, delle case, delle azioni ed obbligazioni ed a far variare l’aliquota dell’imposta patrimoniale nello stesso senso delle variazioni del saggio dell’interesse. La quale ipotesi sembrando in concreto lontana della realtà, il vantaggio del metodo – che sarebbe di far variare l’ammontare dell’imposta automaticamente in rapporto al maggiore o minore contributo del capitale puro alla formazione del reddito e di eliminare, pure automaticamente, la tassazione delle quote di rischio – pare anch’esso di arduo raggiungimento.

 

 

48. Il reddito può essere analizzato, frazionato a piacere. Il legislatore che sia punto dalla tarantola del differenziare può moltiplicare all’infinito le qualità del reddito: di lavoro o di capitale o misti; misti con diverse dosature dei componenti: piccoli o grossi, normali o ultranormali.

 

 

Quanto più si differenzia, tanto più è facile commettere errori e cadere nell’arbitrio. Gli errori sono tuttavia conoscibili e, forse, eliminabili. Non è assurda speranza, tassando i redditi, quella di riuscire a tener conto, entro certi limiti, della possibilità di traslazione del tributo dal contribuente legalmente colpito al contribuente di fatto inciso; ed aggiustare in corrispondenza la tassazione.

 

 

49. La tassazione dei capitali pone altri problemi sottili, praticamente insolubili. Quali relazioni esistono in realtà fra redditi e valori capitali? Nessuno è riuscito sinora a trovare una spiegazione soddisfacente, che non sia un gioco di parole, della imposta sui trasferimenti a titolo oneroso, tipica fra le imposte sui capitali. Dove c’è il guadagno delle due parti, quando la premessa logica del trasferimento è la uguaglianza di valore fra bene ceduto e prezzo pagato? Il guadagno è psicologico, da valutazione individuale interna. Come si misurano i guadagni psicologici? ed è opera di buon senso tassarli? ossia tassare le speranze di immaginazione? Si vuol tassare il capitale a scatti, invece che regolarmente ogni anno? Quale probabilità vi ha che gli scatti si verifichino nei singoli casi con regolarità tollerabile? e non nascano diseguaglianze stridenti da contribuente a contribuente? Questa è critica efficacissima altresì contro le imposte successorie, altra branca illustre della tassazione dei capitali.[2]

 

 

50. L’imposta sui redditi segue la base imponibile a mano a mano che questa si produce. Il contribuente paga l’imposta sul frutto dei terreni o delle case o delle industrie o delle professioni colla stessa moneta che egli ricava dalla vendita di quei frutti e nella stessa unità di tempo. Non esistono divergenze fra il metro con cui si misurano i redditi e il metro con cui si misurano le imposte. Quel metro invero non è una lunghezza assoluta, ma una percentuale. Se l’aliquota è del 10% del reddito e lo svilimento della moneta rialza prezzi e redditi, si paga il 10% di 11000 invece che di 10000 lire; se il rincaro della moneta ribassa prezzi e redditi, si paga il 10% di 9000 invece che di 10000 lire. Vi può essere bensì un ritardo nell’adeguare le valutazioni fiscali alla realtà di 11000 o 9000 lire; ma è ritardo momentaneo, inevitabile in qualunque sistema tributario. Per un anno, forse per due, il contribuente paga ancora su 10 quando il reddito è già salito ad 11 mila lire. Non vi è sperequazione fra contribuenti; bensì, per tutti, minorazione del carico tributario.

 

 

51. Il vizio è più grave nelle imposte sui capitali. Oltreché a quella delle variazioni monetarie, il gettito delle imposte è soggetto ad altre influenze. Invariato il reddito in 5000 lire, l’imposta sul reddito lo colpisce in misura costante. Ma se il saggio dell’interesse ribassa dal 5 al 4% o rialza dal 5 al 6%, ecco i valori capitali del reddito invariato salire da 100000 a 125000 o ribassare ad 83,333 lire. Salvo ad arrampicarsi sugli specchi, v’ha qualche ragione perché l’imposta, all’1%, muti, fermo rimanendo il reddito in 5000 lire, da 1000 a 1250 od a 833,33 lire, solo perché essa fu ragionata in rapporto al capitale? Se l’imposta colpisce gli incrementi od eccedenze di reddito, essa cadrà sull’eccesso eventuale 1000, oltre le 5000 lire supposte normali, ove il reddito sia cresciuto a 6000. Il concetto sarà discusso in seguito; ma c’è in esso quel che i giuristi chiamano il fumus boni juris. Le 1000 lire in più, a metro monetario invariato, sono un qualche cosa di tangibile, di sostanziale. Ma se, a reddito invariato 5000, il valore capitale, a cagion del ribasso nel saggio dell’interesse dal 5 al 4%, sale da 100000 a 125000 lire, che cosa sono quelle 25000 se non fumo? Il contribuente sensato non ardisce spenderle, per non distruggere quel che egli aveva. Normalmente quell’incremento che, di solito, appunto perciò, ha dimensioni minori, è il segnale annunziatore della riduzione futura del suo reddito da 5000 a 4000 per l’abbondanza di risparmio nuovo contento di frutto minore. Che significato ha la tassazione di un qualcosa che non è destinato a durare ed è foriero di futuri disgusti di minor reddito?

 

 

52. Più frequentemente che non quelle sui redditi, le imposte sui capitali presuppongono un confronto fra valori accertati in epoche diverse. Imposte di miglioria, imposte sugli aumenti di valore di aree fabbricabili, imposte sull’eccesso del patrimonio posseduto ad una data in confronto a quello posseduto in data anteriore, imposte sull’eccesso del patrimonio abbandonato in punto di morte in confronto a quello ereditato dal defunto medesimo; tutto ciò implica confronti di valori in tempi diversi. Nove volte su dieci trattasi di confronti fra quantità eterogenee. Il milione di unità monetarie del 1939 non è cosa diversa dalle 100000 unità del 1914; anzi il milione d’oggi ha una potenza d’acquisto minore delle 100000 di un tempo; eppure paiono cose diverse e talun legislatore propose di infierire contro la differenza come fosse vero incremento. Ossequienti, i giuristi delle corti supreme sentenziarono che un dollaro è pur sempre un dollaro; sicché guadagna chi è fatto passare dai pochi dollari lunghi ai molti corti.

 

 

53. La tassazione sui capitali ha campo più ristretto di quella sui redditi, poiché lascia fuori tutti i redditi ai quali non corrisponde alcun capitale valutato come tale dal mercato; principalissimi i redditi di lavoro, i quali in ogni paese sono la quota maggiore del reddito nazionale e, non essendo l’uomo negoziabile, non sarebbero tassabili se si tassassero solo i valori capitali. Il metodo di tassazione dei redditi, se non vieta al legislatore di sbizzarrirsi a suo piacimento nella tassazione delle varie qualità di reddito, ha il pregio di alimentare un po’ meno l’ingenua illusione alla quale egli soccombe quando, avendo immaginato un nuovo nome di imposta, crede di avere scoperto una nuova materia imponibile. La gravezza espropriatrice dell’imposta successoria italiana tra il 1918 ed il 1922 e quella attuale dell’imposta successoria britannica sono in notabile misura dovute all’illusione che nella quota o nell’asse ereditari vi sia una materia d’imposta a sé stante e si possa quindi senza pericolo spingersi all’insù nel tassare; laddove unica, sebbene di forme cangianti, è la fonte dell’imposta, ossia il flusso corrente continuo del reddito. Giova, per la chiarezza e la onestà tributaria, usare un solo metro per la misura del tributo; sicché ognuno possa far la somma della gravezza subita. Nuoce la moltiplicazione dei nomi delle imposte sul reddito; ma più nuoce la ulteriore moltiplicazione di nomi d’imposte sul reddito e sul capitale, ognun nome dotato di proprie caratteristiche e criteri di misura; sicché al contribuente riesca fastidiosa l’addizione delle varie imposte, ed al legislatore più agevole crescere il peso tributario serbando l’aria distratta innocente di chi mantiene, per ogni nome d’imposta, moderate le aliquote.

 

 

54. La rinuncia al metodo di tassazione dei capitali è in paragone peccato venialissimo. Non esistendo quasi capitale al quale non corrisponda un reddito, ove si tassino i redditi non v’ha quasi capitale il quale sfugga alla tassazione. Pare che soltanto i capitali privi di reddito monetario possono fruire di immunità. Val la pena di creare una macchina costosa d’imposta soltanto per tassare le collezioni di quadri, di oggetti d’arte, di libri, i luoghi di delizie, i parchi, i castelli e le ville e simili beni di consumo durevole, improduttivi di reddito monetario e fecondi di spese di conservazione di importo non inferiore al valore della soddisfazione ordinaria che la comune degli uomini ricava dal loro possesso? La tecnica tributaria ha inventato, per tassare siffatte cose, l’ottimo espediente della finzione di un reddito uguale a quello offerto dall’uso migliore alternativo che ordinariamente possa farsi del terreno o dell’edificio così sottratto ad utilizzazione economica. Tassare un di più vorrebbe dire tassare quelli che si chiamano valori d’affezione, «imponderabili» fatti di ricordi, di sentimenti, di comandamenti tramandati dagli avi. Soltanto la ragion ragionante ugualitaria può reputare convenga creare uno strumento costoso più dello sperabile provento allo scopo di distruggere idiotamente quei valori spirituali che sopravvivono, con vantaggio definitivo della collettività, nelle abitudini patrimoniali di una piccola aristocrazia di tradizionalisti e di uomini colti. Di tassare siffatti valori capitali privi di reddito non si usa invero decentemente parlare; ed anzi i più dei legislatori si affrettano ad esentare dall’imposta od a valutare con benignità particolare collezioni d’arte, suppellettili librarie e monumenti storici quando la sorte vuole che essi cadano sotto il martello dell’imposta.

 

 

55. La pretesa necessità di tassare capitali privi di reddito è addotta, con baccano fastidioso, a proposito d’altro. Il caso più rimarchevole, forse il solo concretamente notabile è quello delle aree fabbricabili. Pochi altri casi, economicamente assai meno importanti, possono in parte essere assimilati a questo più visivo. Come tassare, si domanda, l’area fabbricabile la quale di anno in anno cresce di valore, se non si tassano i capitali? L’area non dà reddito, salvo il minimo reddito proprio del terreno usato a scopi agricoli. Ai margini della città, il terreno agricolo passa gradatamente da un valore di 2 lire al mq (20000 lire all’ettaro, massimo valore, per ipotesi, del terreno agricolo e già tassato come tale) a 5, a 10, a 100, a 1000 lire al mq. In lire svalutate le cifre salgono a 10000, a 100000, a 1000000; ma, per non dare fastidio agli occhi, non le scrivo; ed il ragionamento corre ugualmente. A mano a mano che la fabbricazione protende tentacoli nella campagna, l’area vede scemare la sua capacità di reddito agricolo. Quando il valore giunge alle 100 lire, l’area non fa più parte di un podere coltivabile; è un terreno nudo chiuso fra edifici e cantieri, praticamente ridotto a campo di gioco per i ragazzi del vicinato. Per coltivarlo bisognerebbe cingerlo di mura o di alti reticolati ed il costo supererebbe il probabile reddito. Non perciò, si dice, l’area cessa di dar reddito. Il reddito consiste nell’aumento di valore da 2 a 5, a 10, a 100, a 1000 lire al mq. Si tiene l’area per ottenere quello speciale frutto che dicesi incremento di valore capitale dell’area. Se non si colpisce questo, un guadagno, certamente esistente, sfuggirebbe al tributo.

 

 

56. Al solito, siamo dinnanzi ad un caso di doppia vista. Perché l’area edilizia passa dal valore due al valore 1000 per mq? Perché il proprietario vede profilarsi nel futuro un reddito annuo tratto dalla utilizzazione edilizia dell’area. Se un reddito edilizio non fosse, fra 10, 20 o 30 anni, previsto, l’area non sarebbe edilizia ed avrebbe il puro valore agricolo. Se noi supponiamo che il passaggio dallo stadio agricolo allo stadio edilizio avvenga con velocità gradatamente ridotta ed il saggio dell’interesse corrente per impieghi analoghi del risparmio sia del 5% conviene evidentemente conservare l’area allo stato nudo finché, tale rimanendo, il valore dell’area cresce ogni anno almeno del 5% in confronto al valore acquistato alla fine dell’anno precedente. Il momento nel quale l’incremento di valore diventa ed è preveduto rimanere, ad anno, minore del 5% è quello della perfetta maturità dell’area. Fino a quel momento l’impiego di capitale sotto forma di area nuda era preferibile a qualunque altro impiego, perché fruttifero almeno del 5%. Da quel momento in poi è preferibile la fabbricazione perché il capitale area, trasformato coll’aggiunta del capitale casa, frutta per ipotesi il 5%, laddove serbato nudo frutterebbe soltanto, a cagion d’esempio, il 4,75%. Sarebbe antieconomico costruire sia prima che dopo.

 

 

Se noi supponiamo che l’area passi dal valore 2 al valore 1000, ciò vuol dire, ad esempio, che il capitale è stato impiegato all’interesse composto medio del 10% per arrotondati 33 anni. Il saggio di incremento, altissimo nei primi anni, si è gradatamente attenuato sino a toccare nel 330 anno, anno di indifferenza, il 5%. Prevedendosi per il 34esimo anno un saggio di incremento minore del 5%, vien decisa la fabbricazione. Supponiamo, ad evitare complicazioni superflue di calcolo, che la fabbricazione sia decisa ed attuata ad un attimo; cosicché la casa costruita, del costo di 4000 lire per mq (casa centrale, di -o piani ad uso misto di abitazione, uffici e negozi) sia produttiva di reddito al I° gennaio del 34° anno.

 

 

Essa, per mq, produce due redditi:

 

 

a)    il 5% sulle 4000 lire di costo di costruzione della casa: 200 lire. Se un’imposta del 5% lo colpisce e se il saggio corrente di interesse è del 5%, è chiaro che il costruttore, il quale nel momento decisivo possiede il capitale sotto forma liquida, non si deciderà ad investirlo nella costruzione se i fitti non aumentano da 200 a 250 lire in modo che, prelevando dalle 250 il tributo del 20 % in 50 lire, restino nette lire 200 al costruttore per ogni 4000 lire impiegate;

 

b)    il 5% sulle 1000 lire di valore dell’area: 50 lire. Se un’imposta del 20% lo colpisce, e se il saggio corrente di interesse è del 5%, il proprietario dell’area è sprovveduto di rimedio e deve rassegnarsi a vedere falcidiato il reddito da 50 a 40 e perciò anche il valor capitale da 1000 ad 800. Gli converrebbe forse, a scopo di reazione, tener l’area vuota, che è la sola alternativa offertagli? Pare di no; ché 40 lire annue di reddito per mq sono sempre una quantità maggiore di zero, reddito dell’area vuota.

 

 

La riduzione, all’alba del 34° anno, del reddito netto dell’area da 50 a 40 e del valor capitale da 1000 ad 800 reagirà all’indietro; ché il proprietario dell’area non può valutare ugualmente al momento zero quel che dopo 33 anni vale solo 800 e quel che invece vale 1000.

 

 

Il valore attuale (al momento zero) di un mq di area fabbrica bile, il quale alla fine del 330 anno varrebbe 1000 se non esistesse l’imposta e vale 800 a causa di un’imposta del 20%, è razionalmente calcolabile soltanto se si suppone che il mercato preveda esattamente i due valori futuri 1000 e 800 e li sconti al saggio corrente di frutto del 5%. In questo caso i valori attuali sono 62,50 in assenza e 50 in presenza dell’imposta. Il valore 2 è il valore agricolo; ma la concorrenza fra speculatori previdenti fa subito balzare il prezzo da 2 a 62,50 od a 50, sicché ai nuovi prezzi l’investimento in aree edilizie frutti il saggio sufficiente del 5%.

 

 

57. Non occorre quindi tassare I’incremento di valore da 2 a 1000 per ridurre del 20% il guadagno dello speculatore in aree fabbricabili. L’imposta del 20% prelevabile a partire dal 34esimo anno sul reddito annuo di 50 lire dell’area è sufficiente all’uopo.

 

 

 

In assenza di imposta

 

Supposta l’imposta del 20%

 

Reddito

Valor capitale

Reddito

Valor capitale

 

Momento zero

62,50

50

Principio del 34° anno

50

1000

40

800

 

 

L’imposta annua del 20% sul reddito perpetuo di 50 lire all’anno a partire dal 34esimo anno riduce nel tempo stesso il valor capitale futuro da 1000 ad 800 e per ripercussione quello presente da 62,50 a 50. Se si aggiungesse a quella imposta un’altra pure del 20% sull’aumento di valore da 50 ad 800, si riducerebbe ulteriormente, il guadagno da 800 – 50 = 750 a 600. Ossia la perdita del contribuente non sarebbe quella voluta dal legislatore, che è del 20%, da 1000 ad 800, ma, per il gioco della doppia vista, l’altra da 1000 prima ad 800 e poi a 600, ossia del 40%. Tutto può statuire il legislatore; ma il presupposto della sua azione è un ragionamento, non il quia nominor leo. Quale sia il ragionamento in virtù del quale un 20 deve diventare un 40% o qualsiasi altra proporzione diversa da quella voluta espressamente dal legislatore rimane un mistero.

 

 

58. Siamo così ricondotti dai doppi di vista delle tassazioni degli incrementi di capitale al quesito veramente fondamentale già posto: vi è ragion di tassare le eccedenze di reddito più dei redditi base?

 

 

Ancora una volta, prima di affrontare il problema essenziale, siamo costretti a girargli attorno per vederlo nettamente fuor dei miraggi che non più la doppia vista ma la fata morgana fa sorgere dinanzi agli occhi del camminante nel deserto.

 

 

59. Vi sono innanzi tutto le eccedenze «apparenti» di reddito. Tipiche quelle da svalutazione. Se il metro monetario si riduce della metà o dei due terzi, quel che era 100 col metro lungo 100 centesimi diventa 200 se il metro si scorcia a 50 centesimi, 300 se a 33,33 centesimi. Ecco create eccedenze oltre il 100 definito normale, di 100 o 200 avocabili, secondo la parola inventata in Italia nel 1920, all’erario. Una finanza ragionata, la quale intenda colpire guadagni realmente ottenuti, non può fondarsi su variazioni nominalistiche.

 

 

A tassare le eccedenze «apparenti»  di reddito occorre fare altro ragionamento: col metro monetario lungo 100 centesimi, i redditi dei gruppi A, B, C di contribuenti erano 1000, 1000 e 1000, ed in totale 3000 unità. Dopo lo scorciamento a 50, i redditi, espressi nella nuova unità di misura, non aumentarono tutti a 2000; ma, per la loro diversa natura, l’uno fisso e gli altri diversamente variabili, divennero 1000, 2000 e 3000 ed in totale 6000 unità. Il reddito totale di tre gruppi raddoppiò; ma il totale fu distribuito variamente fra i tre gruppi: il gruppo A rimanendo fermo, quello B raddoppiando e quello C triplicando. Il gruppo A, percettore di redditi a prezzi in cifra fissa, rimase invariato; il gruppo B, i cui prezzi di vendita raddoppiarono, passò a 2000; il gruppo C, i cui prezzi aumentarono più della media, giunse a 3000. Poiché B e C «guadagnano» 1000 e 2000 oltre il reddito base 1000, siano tassati. Ragion vuole che, guardando alla realtà, si riconosca che, misurati con l’antico metro, i nuovi redditi equivalgono a 500, 1000 e 1500. Quindi A perse 500, B rimase allo stesso punto e solo C guadagnò effettivamente 500; epperciò solo queste 500 unità di C, se tassabili per altre ragioni come sovrareddito (vedi sotto), dovrebbero essere colpite.

 

 

Chi voglia tassare le 1000 unità nuove di B e le 2000 pure nuove di C perché eccedenti le 1000 vecchie deve partire da altra premessa: poiché A, rimanendo a reddito costante 1000, in realtà perdette 500 delle 1000 unità vecchie, si consideri «guadagno» per ogni contribuente quel che ognuno di essi «conservò»oltre il minimo rimasto al gruppo più danneggiato di contribuenti. Poiché A, B e C possedevano ognuno 1000 unità vecchie e posseggono ora 1000, 2000 e 3000 unità nuove equivalenti a 500, 1000 e 2500 unità vecchie, sia considerato guadagno quel che ognuno conservò, oltre le 500 unità vecchie conservate dal più sfortunato. B non avendole perdute, si suppone abbia «guadagnato» 500 vecchie (1000 nuove); C si suppone abbia guadagnato 1000 vecchie (2000 nuove) non perché le abbia guadagnate tutte, ma perché riuscì a «non perderne» 500 ed a veramente lucrarne 500.

 

 

Il ragionamento è testimonianza elegantissima della fecondità della logica egualitaria. Perché soltanto le «non perdite» dovute a variazione monetaria dovrebbero essere assunte come guadagno? Sono ben numerose le ragioni per le quali gli uomini sono sfortunati nelle loro esperienze economiche! Guadagno è tutta l’eccedenza di reddito o di patrimonio che i contribuenti conservano in confronto all’imprenditore il quale senza sua colpa – e chi mai, confessando di essere in colpa, non attribuirà la propria sventura al fato, alla concorrenza estera, alla crisi mondiale ecc. ecc.? – perdette l’intiero capitale investito, al professionista il quale non riuscì a trovar clienti, al lavoratore perennemente disoccupato.

 

 

Al limite della pazzia tributaria raziocinante, il buon senso si riafferma. Tutto ciò che supera la perdita, è eccedenza di reddito. Quindi non esiste più reddito. Tutto è eccedenza. Il problema della tassazione delle eccedenze di reddito sfuma per mancanza di oggetto. Non si può distinguere, tutto essendo eccedenza, fra le varie altitudini del reddito. Il che torna a dire che tutto il reddito deve essere trattato alla stessa stregua, come se tutto fosse reddito normale e niente fosse eccedenza.

 

 

60. Vi sono in secondo luogo eccedenze «necessarie». Il concetto di «eccedenza» è avvolto in una invincibile incertezza; ma un connotato pare sicuramente suo: che l’eccedenza del reddito oltre il normale non sia richiesta per la continuazione dello sforzo umano, dell’atto del risparmio, della produzione. Se un salario di 10 lire al giorno per un determinato genere di lavoro è giudicato necessario per indurre quell’operaio a lavorare, 10 lire sono il normale e solo l’eccesso oltre le 10 lire è un sovrareddito. Se un profitto (interesse sul capitale investito più compenso d’intrapresa) dell’8% è definito normale ossia necessario per indurre capitali ed imprenditori all’investimento industriale – assumo per minore arbitrio la definizione del legislatore italiano del tempo di guerra – reddito tassabile è solo il supero oltre l’8%. E così via. Il linguaggio adoperato è orripilante per le orecchie anche mediocremente raffinate dell’economista; ma se questo è il linguaggio corrente nella finanza non mia è la colpa. Che cosa è il necessario? Pare ovvio che un salario o un interesse o un profitto possono essere detti necessari se soddisfino alla condizione di invitare al lavoro, al risparmio, all’impresa quel tanto di lavoratori, di risparmiatori o di imprenditori che occorre per rispondere alle richieste dei consumatori, quelle tali richieste che esistono dati i prezzi correnti quali sono.

 

 

Può darsi che il 5% sia il saggio corrente di interesse bastevole a provocare quella fabbricazione di risparmio che il mercato chiede. Ma può anche darsi che un frutto di 1 milione per ogni 10 lire investite sia insufficiente a provocare il desiderato investimento in biglietti da 10 lire, se l’investimento ha nome biglietti di lotteria. Se il banditore della lotteria vuol vendere biglietti per l’ammontare di 10 milioni di lire, può darsi occorra promettere un primo premio di 2 milioni, due secondi premi da 1 milione e dieci premi di consolazione da 100000 lire l’uno. il banditore guadagna, lorde di spese di pubblicità e di gestione, 5 milioni di lire. Il premio di 2 milioni è un guadagno percentualmente altissimo per il vincitore in confronto al capitale investito di 10 lire. L’esperienza può tuttavia avere dimostrato che, se si offrono premi minori, non conviene esercitare l’impresa della lotteria. Il guadagno di 2 milioni di lire non è dunque altrettanto «necessario» quanto il salario di 10 lire giornaliere al manovale?

 

 

61. Di questo tipo sono molte industrie e professioni. Il ritrovamento di un filone d’oro meraviglioso, che rende il 1000 per 1 in un anno è condizione necessaria per l’esercizio di quella pazza industria che chiamasi aurifera, pazza perché, ad eccezione di un caso unico nella storia del mondo, è, tenuto conto del tempo fatica e rischi corsi dal complesso degli avventurieri mossi alla ricerca dell’oro, in media passiva.

 

 

Il caso unico nella storia del mondo è quello delle miniere del Transwaal dove fu possibile creare un’industria solida di giacimenti auriferi estesi su vasta superficie e mineralizzati sino a notevole profondità. Fu dimostrato, con accuratissime indagini, dal professore S. H. Frankel, dell’università di Witwatersland (cfr. Return to capital invested in the Witwatersland Gold Mining Industry 1877-1932, in «The Economic Journal», marzo 1935) che il reddito medio netto delle miniere d’oro del Transwaal dal 1887 al 1932 fu del 10,5%, supponendo che gli scopritori delle miniere, coloro che, scopertele, le misero in valore conducendole sino al punto di essere consegnate mature alle società esercenti, fossero, per tutto ringraziamento, messi fuor della porta senza un soldo di compenso. Se invece si suppone che agli iniziatori si sia dato un compenso proporzionato, secondo le ordinarie valutazioni del mercato, al pregio dell’opera loro, il rendimento netto scema al 3,8 od al 4,9%, secondo le varie ipotesi attuariali del calcolo.

 

 

Dicesi «unico» il caso del Transwaal perché dappertutto altrove l’oro si trovò e si trova nelle alluvioni od in piccoli filoni occasionali.[3] Non si tratta di industria ma di avventura; nel correre dietro alla quale le migliaia di cercatori muoiono di stenti o si ammazzano a vicenda, pochissimi arricchiscono e le centinaia di migliaia, disperati, si danno all’agricoltura, alla pastorizia od al commercio. Il popolamento di terreni vuoti, e non l’oro, è il vero grande reddito fornito dalle miniere d’oro. Il miraggio dell’oro spinse i disperati e gli avventurieri d’Europa fin nell’Australia e nella California. Non trovarono l’oro; ma popolarono quelle regioni e fecero sorgere nuovi stati.

 

 

Il ragionamento è vero in molti altri campi della vita, meno strani della ricerca dell’oro. Sinché sia mutato, più di quanto lentissimamente oggi non accada, il movente delle azioni dell’uomo, è necessario che talun avvocato di grido o medico o chirurgo o scrittore o pittore od architetto od artista famoso ottenga compensi altissimi, se si vuole che il mercato possa scegliere fra un numero sufficientemente grande di aspiranti a professioni, incapaci ad offrire nulla più che remunerazioni in media troppo modeste ai loro cultori. Il grosso compenso dei pochi fortunati è miraggio necessario per provocare un afflusso bastevole di giovani valorosi a compiti troppo aleatori per fare appello alla gente amante del quieto modesto vivere.

 

 

62. L’eccedenza deriva dal possesso di brevetti, da protezioni doganali, da leggi di limitazione a nuovi impianti industriali o negozi o pubblici esercizi? Ma il legislatore volle quei brevetti, quelle protezioni e quelle limitazioni non a scopo di arricchimento di privilegiati, ma di pubblico vantaggio. Reputò cioè necessari quegli istituti allo scopo di promuovere le invenzioni industriali, il fiorire di industrie nuove od urgenti alla difesa nazionale o di prevenire crisi dovute a concorrenza reputata irrazionale. Il legislatore non può nel tempo stesso volere la causa e negare gli eventuali effetti, che sarebbero le eccedenze di reddito, anch’esse volute per ottenere ed affrettare il raggiungimento del fine. Si può dubitare che il mezzo scelto sia adatto ad ottenere l’effetto; ma se il legislatore non dubitò e non dubita e vuole ottenere l’effetto con quel mezzo, deve rassegnarsi al connotato inseparabile dell’eccedenza di reddito; non può illudersi di tassare questa e ottenere, ciononostante, i risultati desiderati.

 

 

63. L’eccedenza deriva dallo sfruttamento da parte dei privati di circostanze volute dallo stato per ragioni non economiche, per esempio una guerra? Facciasi astrazione dal caso più generale in fatto: i sopraprofitti di guerra dovuti a variazioni del metro monetario, la cui tassazione era, come si disse sopra, irrazionale. Per la quota residua, che sia eccedenza effettiva, quale è la via da scegliere? Evitare che i sopraprofitti di guerra nascano o tassarli dopo creati? La tendenza prevalente nel dopoguerra è di preparare in pace metodi di mobilitazione industriale che tolgano agli imprenditori possibilità di guadagnare sopraprofitti dovuti alla guerra. Si ottiene così un risultato morale altissimo durante la guerra e si tronca alla radice ogni stimolo negli industriali a provocar guerra per ignobile scopo privato di arricchimento, la guerra dovendo essere determinata esclusivamente da ragioni supreme nazionali. La scelta fra il tassare e il reprimere non è dubbia: lo stato tassatore si fa quasi complice di guadagni immorali; laddove lo stato repressore rivendica esclusivamente a sé la condotta della guerra.

 

 

64. Fuor di questi casi, in cui la tassazione delle eccedenze di reddito cade su fantasmi, o su quantità necessarie alla produzione o su lucri intassabili perché considerati immorali e degni di soppressione, resta il campo variopinto dei redditi detti di monopolio e di quasi monopolio, di rendite e quasi rendite. Inchiniamoci reverenti dinnanzi ai grandi nomi di Gossen e di Walras; ma riconosciamo che essi furono vittime di un’illusione. Il finanziere, il quale si lasciasse attrarre dall’insidioso terreno fiorito, vedrebbe affondare la pubblica finanza nel risucchio inesorabile del nulla.

 

 

65. Che cosa è il sovrappiù, la rendita, il reddito di monopolio? Quale è il metro atto a misurare il normale al quale si deve raffrontare la realtà, per sapere se e di quanto essa lo superi? Accertare una quantità determinata, detta reddito, avente una certa parentela o rassomiglianza con fatti reali è impresa difficile; ma quanto più difficile è definire ed accertare la «differenza» fra un fatto concreto o quasi concreto, reale o simile al reale quale è la quantità di reddito netto entrata nell’economia del contribuente in un dato intervallo di tempo, l’anno finanziario, ed una astrazione, ossia la quantità di reddito che in determinata ipotesi teorica «avrebbe dovuto» entrare nella medesima economia!

 

 

Badisi che il «normale» del quale qui si discorre è altra cosa al «normale», che sarà la materia del capitolo decimo. In questo, il concetto del «normale»  si identifica con quello del «medio» od «ordinario», di quel reddito cioè che è in media ottenuto in un dato tempo, in una data regione agricola, in un dato tipo di conduzione, secondo i comuni metodi agrari dell’agricoltore ordinario il quale non si discosta né in bene né in male dal tipo dominante nel paese. Il reddito normale, così inteso, è un fatto comunemente osservato ed accertabile. Esso ha un contenuto concreto, non poggia su distinzioni fra reddito e rendita. Sono da questo punto di vista, ugualmente normali il reddito 100 del terreno cattivo, quello di 150 del terreno mediocre e quello di 300 del terreno ottimo. L’agricoltore ordinario può con metodi ordinari coltivare tutte tre le specie dei terreni.

 

 

Il concetto di «normale»dal quale partono i tassatori dei sovrappiù, è tutt’altro. Esso è un concetto astratto, definito sulla base dell’ipotesi teorica della piena concorrenza. I connotati sono noti:

 

 

  • i beni esistenti sul mercato siano ripartiti fra più possessori in modo tale che la quantità posseduta da ognuno di essi sia piccola rispetto alla quantità totale;

 

  • l’azione dell’un possessore di beni non influisca apprezzabilmente sull’azione dell’altro ed ognuno sia disposto ad offrire nei limiti della sua convenienza la massima quantità possibile del bene posseduto per non essere eliminato nello scambio dai concorrenti;

 

  • le unità del bene posseduto siano le une alle altre uguali e fungibili;

 

  • le unità dei beni abbiano dimensioni tali che l’aggiunta di una unità non produca una variazione apprezzabile sul mercato;

 

  • non esistano ostacoli alla mobilità dei fattori produttivi e dei beni prodotti;

 

  • non esistano ostacoli alla moltiplicazione delle unità di beni a costi costanti;

 

  • non esistano ostacoli alla libertà di contrattazione e di ricontrattazione di ogni contraente con qualsiasi altro contraente.

 

 

Tanto val dire che la piena o libera concorrenza è un archetipo ideale fabbricato dagli economisti a scopo di analisi. Feconda analisi; ma incapace a dar lume a quei poveri diavoli che si chiamano funzionari delle imposte o contribuenti, i quali nell’ipotesi più favorevole conoscono i fatti accaduti nella loro umile veste effettiva, che è una veste scombiccherata irrazionale lontanissima dalla semplicità astratta. Quale è il bene, il quale, se seguitiamo ad aumentarne la produzione, non incontri, ad un momento dato, l’ostacolo della impossibilità per l’imprenditore di procurarsi ulteriori dosi di qualcuno dei fattori produttivi a costo costante? A quel punto, la limitazione del fattore si fa sentire e la nuova unità invece del costo di concorrenza x può essere ottenuta solo al costo x + y. Ecco che, per la legge di indifferenza, il prezzo di tutte le unità precedenti del medesimo fattore, che sono costate x, si sposta verso x + y ed ecco nata la rendita differenziale y. Nel mondo reale, la limitazione, l’ostacolo, il frazionamento in unità non piccolissime, la impossibilità di muoversi senza attrito sono la regola. Il mondo reale è un mondo di monopoli o monopoloidi. Non esiste forse nessun reddito al quale si possa guardare come al campione della normalità logicamente e ciò astrattamente intesa di reddito di concorrenza. Questo è una fictio logica; i redditi reali sono tutti redditi monopolistici, attivi o passivi (questi conosciuti più comunemente col nome di perdite), al disotto o al disopra della linea immaginaria tracciata in base all’ipotesi di concorrenza. Come prendere a base di un sistema di tassazione un concetto, del quale non si ha e non si avrà probabilmente mai alcuna esperienza concreta?

 

 

66. I fautori della tassazione delle eccedenze e dei sovrappiù hanno appuntato perciò il loro sguardo su due redditi di monopolio acclamati per le dimensioni particolarmente vistose: la cosiddetta rendita della terra ed i guadagni dei grandi consorzi od organismi monopolistici.

 

 

Alla terra, alle sue qualità naturali ed indistruttibili, hanno guardato i fisiocrati ed i riformatori che, al seguito di Enrico George, si ostinano a denunciare nel monopolio della terra il grande unico ostacolo alla scomparsa della miseria. Ma, nonostante l’aiuto potente dei Gossen e dei Walras, la voce degli avocatori della rendita terriera allo stato è divenuta sempre più fioca. Oggi nessuno crede che da quella fonte possano ricavarsi non che i miliardi neppure le centinaia di milioni necessari a far vivere uno stato moderno. I giardini del mondo, ed in Italia noi vantiamo le marcite lombarde, i roseti della Liguria e gli agrumeti della Conca d’oro, sono una faticosa creazione dell’uomo, non un dono della natura. La natura donò all’uomo paludi boschi rocce e sabbie; e l’uomo le trasformò, attraverso secoli di lavoro, in giardini. Se oggi si volesse andare alla cerca di una rendita nei più bei terreni d’Italia, con tutta probabilità si dovrebbe accertare che il reddito netto è inferiore al frutto che al saggio d’interesse corrente si dovrebbe ottenere dai capitali che oggi dovrebbero essere razionalmente impiegati per recare quel terreno dalla condizione originaria di palude o di roccia allo stato attuale di meraviglia della tecnica agricola. Sottorendita, non rendita è la realtà, spiegabile soltanto con l’amore appassionato dell’uomo verso la terra, con la pietà verso il fondo avito, con il prepotere di sentimenti posti fuori dell’economia. Aggiungeremo ai redditi economici, i redditi sentimentali, i ricordi del passato, la pietà degli avi e la speranza dei nepoti per creare un sovrareddito tassabile? Facciamo sosta, ché siamo arrivati al margine della pura follia tassatrice.[4]

 

 

67. Dalla nebbia che avvolge il concetto del sovrareddito non si salva il caso, addotto ad esempio tipico di gratuità, delle rendite fondiarie edilizie. Avendo sulla coscienza qualche peccato di gioventù, ben presto implicitamente confessato ed analizzato,[5] non scaglio pietre contro nessuno. Il racconto tante volte letto del fondatore della dinastia dei Vanderbilt, il quale compra per pochi barili di liquori la rocciosa isola di Manhattan e, addormentatosi, dopo tanti anni lui od i suoi figli si veggono padroni del suolo sul quale è stata edificata la città di New York e, senza far nulla, sono diventati miliardari, è suggestivo ma è di maniera. Furono in molti a scoprire le virtù del terreno su cui poi sorse New York e furono pionieri. Anche oggi, sotto i nostri occhi, in tutte le città d’Italia sono operosi gli avventurieri o pionieri dell’industria edilizia. Se essa non è frastornata da limitazioni e vincoli nei canoni di affitto e da diritti di insistenza di inquilini, è una industria la quale sta contenta a remunerazioni poco diverse e per lo più inferiori a quelle sperabili da titoli pubblici di tutto riposo. Se ne contenta perché spera nell’incremento della rendita di posizione e quindi del valore capitale dell’area edilizia. Quell’1 o 2% di cui in media, sì o no, forse aumenta annualmente il valor capitale dell’area è dunque gratuito? o non è, almeno in parte, l’integrazione necessaria del compenso altrimenti troppo modesto di un’industria in se stessa povera? Ognuno ricorda i casi delle zone favorite dalla moda, dalla fortuna e dalle condizioni favorevoli opportunamente sfruttate; ma si dimenticano i disinganni di coloro che costruirono in altre zone e lungo le vie le quali apparivano propizie e poi di fatto non si chiarirono tali.

 

 

68. L’imposta è strumento grossolano per raggiungere in questo caso tipico il fine suo vero che è di dare a Cesare quel che Cesare creò. Essa cade con furia differenziata sui risultati positivi delle iniziative dei pionieri fortunati dimenticando che l’insuccesso è compagno e condizione della fortuna. L’ente pubblico può, se crede, farsi pioniere in luogo dei privati; e con ben maggiori probabilità di riuscita. Sono in sua potestà la costruzione dei piani regolatori, e più la assegnazione delle aree fabbricabili poste attorno alle città a zona di abitazioni signorili civili operaie industriali e commerciali; ed, ancora, la limitazione delle altezze e degli spazi liberi per strade e giardini. L’ente pubblico può espropriare ai prezzi correnti le aree utili allo sviluppo edilizio della città, senza offesa al diritto di proprietà di nessuno; e può, ideando un piano di città bella al luogo dei consueti disordinati affastellamenti di case qualunque insieme mescolate a casaccio, creare valori nuovi, che sarebbero suoi perché da esso creati. L’imposta sulle cosidette rendite edilizie è un alibi costruito dalla pigrizia di amministratori pubblici privi dell’immaginazione necessaria a creare quelle rendite che essi invidiosamente vorrebbero carpire senza sforzo a chi ha saputo intuirle e sollecitarle.

 

 

69. Guadagni di monopolio delle imprese di cosidetti servizi pubblici, dei grandi consorzi trusts sindacati empori magazzini e simili giganti? Concetti vaghi che, analizzati, rivelano la loro inconsistenza. Se è vero che i giganti lucrano guadagni giganteschi, quale la causa? Oggi è fuor di moda ricordare verità elementari. Un tempo, quando la gente non si pasceva di parole vaghe: il mondo che va verso i giganti, verso le concentrazioni, il capitalismo divorato dal supercapitalismo, la morte della concorrenza uccisa dagli accordi, dai consorzi, gli economisti avevano ancora l’abitudine di analizzare le cause della gigantomania, del consorzialismo, del monopolismo, del supercapitalismo; e quasi sempre, giunti al termine dell’indagine, forte sospettavano che non il fato, il quale, secondo la novissima filosofia economica della storia, pare trascinare le turbe umane a superare oramai tramontati ideali, ma qualcosa di più semplice, di più umano spiegasse il prevalere, quando prevalevano, dei giganti monopolistici. In fondo al gigante, essi vedevano quasi sempre un qualche accorgimento umano: un dazio doganale alla frontiera, un privilegio legale negli appalti, un divieto, legale o di fatto, al sorgere di concorrenti, una sovvenzione governativa, un premio dato agli uni e negato agli altri. Oggi, agli antichi fattori gigantomachi e monopolofili si sono aggiunti i dazi variabili senza vincolo di tariffe convenzionate, i contingentamenti, le limitazioni legali al sorgere di nuove imprese, la sicurezza del salvataggio offerto ai grossi e negato ai piccoli, la dipendenza di tutte le imprese private in tutti i paesi del mondo dalla autorizzazione, dal permesso, dalla licenza del potere politico centrale. Solo i grossi, solo coloro i quali, per avere toccata una certa dimensione, possono sopportare il costo di una organizzazione posta a Washington, a Londra, a Parigi, a Berlino, a Roma od a Ottawa, solo costoro superano gli ostacoli frapposti dai contingentamenti, dai dazi variabili, dalle limitazioni, dalle licenze, dai premi e dai salvataggi e ne traggono profitto. La plutocrazia grossa e gigantesca trionfa a danno dei piccoli e dei medi imprenditori liberi; ma il suo è un trionfo dovuto all’artificio. Siano tolti i contingentamenti i dazi i premi le licenze ed i salvataggi, e l’edificio del colossale del monopolismo e del consorzialismo crolla.

 

 

Lasciato a sé, il gigante economico ha i piedi d’argilla. Non esiste alcun fato misterioso, alcun superamento storico che lo faccia vivere. Vivono di forza propria solo quei giganti dietro i quali sta un uomo o un gruppo d’uomini. Durano una generazione, forse due; e poi si afflosciano. Finché durano, guadagnano più dei concorrenti perché sanno lavorare a costi più bassi. Esistono i genii organizzatori e guadagnano i milioni e le centinaia di milioni. Guadagnano con vantaggio altrui, sono pochi e passano come meteore. Il genio organizzatore non trapassa nei figli, nei generi e negli impiegati fatti soci. Giova, finché, ripeto, il movente dell’operare economico non sia mutato, togliere coll’imposta differenziata a questi pochi il guadagno di eccezione che essi temporaneamente lucrano? No; poiché è vero che quel lucro è ottenuto col vendere a più basso, non a più alto, prezzo dei concorrenti. Se si vuole accaparrare quel lucro a vantaggio della collettività non bisogna adoperare l’imposta, strumento stupidamente repressivo, ma l’emulazione gli onori la lode. Giova creare l’atmosfera nella quale il ricco giudichi se stesso disonorato e sia dall’opinione pubblica considerato con spregio se non consacri in vita e in morte parte rilevante dei suoi redditi a scopi di pubblica utilità: a fondare e dotare scuole ospedali parchi stadi. Nei secoli più splendenti della Atene di Pericle e della Roma repubblicana ed imperiale il cittadino, il quale desiderava onori o fama o amore, impiegava parte della sua fortuna a vantaggio pubblico. Non dobbiamo forse alla munificenza privata molti dei maggiori monumenti ereditati dall’antichità?

 

 

Queste sono eccezioni. La regola è il gigante il quale lavora a costi alti e vive di latrocinio pubblico. Guadagna assai sfruttando artifici da lui provocati. Neanche qui l’imposta è strumento adatto ad eliminare il soprareddito. Salderebbe meglio le catene al piede della gente inarticolata che il gigante ha ridotto in suo servaggio. Farebbe lo stato complice del latrocinio. Se è vero che i redditi privilegiati monopolistici esistono, il mezzo adatto a distruggerli è la eliminazione dei privilegi, dei vincoli, degli artifici, voluti o tollerati dal legislatore, i quali ne sono la fonte. Se quei guadagni sono considerati un male dal legislatore, l’abolizione delle norme che hanno favorito il sorgere del male o la statuizione di norme per l’assenza delle quali sorge il male sarà sempre più agevole ed efficace che non il reprimere con imposte il male già effettuato. Il gigante privilegiato possiede mille mezzi per mettere in salvo parte del bottino.

 

 

70. Più complesso è il problema dei monopoli i quali nascono da quella che in mancanza di miglior formulario chiameremo la «natura delle cose»: ferrovie, tranvie, imprese di pubblica illuminazione, di acqua potabile, di produzione di energia elettrica e simili cosidetti servizi pubblici. Il problema è più complesso perché il grado e l’esistenza medesima del monopolio è spesso contestabile: si pensi al crollo del monopolio delle ferrovie dinnanzi all’avvento dell’automobilismo, ed agli sforzi che in tutti i paesi si vanno facendo, oltre quel che è richiesto dall’uguaglianza di trattamento fra ferrovie e trasporti automobilistici rispetto all’uso della strada ferrata, per puntellare con artifici legislativi il barcollante monopolio ferroviario. Se poi sia vero che un monopolio o monopoloide esista, il problema che si tratta di risolvere non è quello di far partecipare lo stato ai suoi profitti; ma di ordinare norme atte ad eliminare i profitti monopolistici, instaurando un regime di prezzi pubblici che si avvicini il più possibile a quello che sarebbe, se potesse esistere, un regime di prezzi di piena concorrenza. Il problema è di ardua soluzione ed al più si può sperare di giungere ad una approssimazione più o meno grossolana. Ma non ha senso imbrogliare le carte facendo partecipare lo stato ai guadagni monopolistici e togliere così stimolo all’unico sforzo che val la pena di tentare a tutela del consumatore.

 

 

71. Fatte le quali eliminazioni, nessuno può immaginare che la tassazione del sovrappiù possa alimentare in guisa autonoma la finanza di uno stato moderno. Briciole, di cui importa tener conto, perché lo stato non può abbandonare nulla di quel che è suo; ma briciole.

 

 

Se il concetto del sovrappiù deve prendere forma corporea, io non saprei immaginarlo se non sotto due forme: il sovrappiù oltre il previsto ed il sovrappiù oltre un minimo. Del primo si può dire che è impalpabile, del secondo che è indefinibile.

 

 

72. Tutto ciò che è previsto, cessa ipso facto di essere un sovrappiù. I piani di Gossen e di Walras di tassazione delle rendite fondiarie, si fondavano sul concetto che esistesse una forza ineluttabile la quale tendesse ad aumentare le rendite della terra dall’attuale livello x a livelli ognora più alti x + y e poi x + y + z, ecc. ecc. Gli uomini conoscono il livello presente x e prevedono l’aggiunta y. Di queste lo stato non si può appropriare. Chi oggi possiede quelle rendite, le ha pagate a pieno prezzo. Egli non si trova in una situazione la quale menomamente differisca da quella di chi ha acquistato sul mercato, invece di rendite sovrappiù, redditi normalissimi ordinarissimi minimissimi. Appena l’uomo conosce o prevede un reddito, minimo o sovrappiù che sia, esso diventa un minimo. Esso è negoziato e passa sul mercato di mano in mano, in guisa che l’acquirente ottiene dal suo possesso, in confronto al capitale speso, nulla più del frutto normale di mercato. Tizio ha pagato 1000 lire al mq tanto l’area che gli frutta 50 lire all’anno quanto la costruzione elevata sull’area stessa che gli frutta ugualmente 50 lire annue. Per lui i due redditi sono ugualmente costosi. Tassar l’uno e non l’altro, o più l’uno che l’altro urterebbe il buon senso e il senso di giustizia.

 

 

Il piano di Walras è tutto fondato sulla terza quantità z, ossia sull’imprevisto. Lo stato espropria le terre ad un prezzo uguale alla capitalizzazione al saggio corrente d’interesse dei redditi presenti x e dei redditi futuri previsti y. Se il reddito rimanesse al livello x + y, lo stato perderebbe. Rimarrebbero a suo carico le spese di gestione, in eccesso su quelle private, del patrimonio acquistato. Ma vi è lo z non previsto, che lo stato non ha pagato. Quando lo z viene fuori, a poco a poco lo stato acquista un reddito libero, il quale prima copre le spese proprie di gestione e poi consente di ammortizzare il capitale impiegato nell’acquisto dei redditi x ed y. Quando l’ammortamento sia chiuso, tutto il reddito x + y + z diventa libero e può essere destinato a provvedere alle spese pubbliche propriamente dette. Comincia allora l’era del millennio tributario, durante la quale nessuno paga imposte, perché a tutto provvide il colpo di genio, che ha fatto passare all’erario i redditi futuri (z) imprevisti.

 

 

73. Taluno, preoccupato della grossa macchina la quale dovrebbe essere costrutta per espropriare e gestire l’intiero demanio terriero (agrario ed edilizio) nazionale, sostituirebbe all’espropriazione con compenso per i fattori x e y, la avocazione allo stato, con l’imposta, del solo elemento z.

 

 

Il metodo è davvero meno complicato? L’imprevisto non è la differenza fra l’attuale ed il futuro; bensì fra il totale reddito futuro e quell’ammontare che nei successivi anni avvenire sarà uguale alla somma dei seguenti elementi:

 

 

a)    il reddito (x) attualmente esistente, prima dell’imposta, tradotto nell’equivalente di potenza d’acquisto dei successivi anni avvenire. Se il reddito attuale è 50 lire e se questo è l’ammontare che non è sovrappiù e non è quindi imponibile dall’imposta di cui si discorre, non basta in avvenire sottrarre 50 lire, ma fa d’uopo sottrarre quella qualunque somma la quale nei successivi anni sia l’equivalente delle soddisfazioni che oggi gli uomini possono procurarsi con 50 lire. Basta enunciare l’esigenza, perché si veda la impossibilità concreta della sua traduzione logica in termini monetari. Che cosa è un equivalente quando gli uomini i quali dovrebbero paragonare monete, potenze d’acquisto e soddisfazioni sono diversi e, col trascorrere degli anni, diventano sempre più dissimili?

 

b)    il reddito futuro (y) attualmente previsto è già capitalizzato nel prezzo capitale attuale. Oltre agli insolubili problemi sovra posti, dovrebbe essere risoluto quello di sapere se il prezzo attuale 1000 si riferisca alle sole 50 lire del reddito attuale od anche a qualcosa d’altro. Ossia: quale saggio di interesse fu adoperato per capitalizzare i redditi attuali? Alto o basso per tener conto di rischi o speranze presunte? Che cosa vuol dire alto e basso e qual è l’archetipo saggio a cui occorra paragonare i saggi effettivi?

 

c)    il reddito degli investimenti compiuti dopo il momento iniziale nella terra: migliorie agricole e costruzioni edilizie. Chi pensa, senza rabbrividire, alla contabilità che sarebbe necessario di impiantare per tener conto degli investimenti e relativi deperimenti od ammortamenti?

 

 

Puro abracadabra, sollazzo intellettuale di progettisti finanziari, con cui l’uomo di governo sensato e preoccupato di portar denari e non chiacchiere all’erario non può volere aver nulla da spartire. Meglio l’avventura dell’espropriazione e conseguente gestione statale di tutta la terra del paese piuttosto che una tassazione che instaurerebbe l’arbitrio più sfrenato quando, per lassitudine degli esecutori, non si convertisse in una burletta. L’avventura finirebbe ben presto, come sono finite avventure di questo tipo, in un atto di forza dei proprietari espropriati ridivenuti proprietari soggetti solo all’onere del pagamento di un fitto, col tempo divenuto riscattabile a guisa di un canone enfiteutico. Meglio l’atto di forza che il rischio dell’arbitrio tributario.

 

 

74. Resta il sovrappiù oltre un minimo. Dissi già che non si sa che cosa sia il minimo; ossia non si può sapere quando ad una qualunque quantità, grossa o piccola, faccia difetto l’attributo del necessario, che è aggettivo sinonimo a quello di minimo.

 

 

Il concetto di un minimo intassabile, al disopra di cui comincerebbe il sovrappiù, non è però soltanto indefinibile e quindi inservibile. Vi ha di più. I concetti indefinibili, quando sono fatti strumenti di governo economico, creano rovine e distruzioni.

 

 

75. Il legislatore, quando durante la guerra ha dovuto definire il minimo, è stato costretto a cercare una formula semplice chiara. L’imposta non può essere prelevata con formule nebulose complicate. Bisogna trovare una linea netta di distinzione fra quel che rimane al contribuente e quel che spetta allo stato.

 

 

I legislatori, con commovente unanimità, decisero che il sovraprofitto tassabile od avocabile fosse l’eccedenza oltre una percentuale, suppongasi 18%, del capitale investito.

 

 

Taluni aggiunsero che se l’impresa era preesistente alla guerra, fosse considerato ordinario o minimo intassabile il già guadagnato prima. L’aggiunta, che recò con sé talvolta diaboliche complicazioni, può essere trascurata nell’analisi di un sistema permanente di tassazione sui sovrappiù, perché nessuna impresa è perpetua. Ogni cosa vecchia è destinata a scomparire, se giorno per giorno non è ricostruita.

 

 

In capo ad x anni tutto il capitale investito è nuovo e può essere trattato alla stessa stregua dall’imposta.

 

 

76. Lasciamo da parte le complicazioni, anch’esse diaboliche, della definizione del capitale investito, sebbene capaci di mandare a picco qualunque sistema concreto di imposta; perché è bene andar subito al nocciolo del problema e badare solo a questo.[6]

 

 

Il nocciolo è che definire sovrappiù l’eccedenza oltre l’8% del capitale investito è andar contro non solo ad una fondamentale legge economica ma ad una fondamentale legge cosmica. Vuol dire essere falso che gli uomini debbono ottenere il massimo risultato con un dato sforzo o compiere il minimo sforzo per ottenere un dato risultato e vero che invece gli uomini debbono agire in modo da compiere il massimo sforzo per ottenere il risultato voluto od ottenere il risultato minimo con lo sforzo dato.

 

 

L’imposta la quale esenta colui il quale guadagna solo l’8% e colpisce colui il quale guadagna di più, portandogli via tutto o parte dei sovrappiù, dice all’uomo: tu fai male ad organizzare con sapienza tecnica, con abilità commerciale, con esperienza di uomini la tua impresa, ottenendo un massimo profitto dal capitale che hai investito. Hai operato male ad ottenere 10, 16 o 20 dalle tue 100 lire. Importa invece che tu non ottenga più di 8; e se non puoi, perché il tuo genio organizzatore, la tua capacità tecnica e commerciale ti fanno guadagnare contro voglia 10, 16, 20 tu devi sforzarti ed io creo interesse a che tu ti sforzi ad aumentare il capitale investito da 100 a 125 a 200 od a 250 affinché il 10, il 16 ed il 20 guadagnato che, paragonato a 100, darebbe luogo a percentuali del 10, del 16 o del 20%, ossia a sovrappiù tassabili del 2, dell’8 e del 12%, paragonato invece a 125, a 200 od a 250 non superi l’8% che è il minimo intassabile.

 

 

77. Pare uno scherzo; ma in tutto il mondo, i legislatori, divenuti d’un tratto inetti al ragionamento, pretesero mutare nel tempo della guerra ultima le leggi del cosmo e predicarono, colla virtù del comando tributario, la dottrina del massimo sforzo, dell’investimento per l’investimento, dello spreco di capitali. Forse è difficile rintracciare negli annali tributari un esempio di norma così entusiasticamente approvata e così follemente distruttiva. La fine della guerra segnò, per avventura, il tramonto dell’imposta; non la fine dei danni da essa prodotti. Risalgono a quell’epoca le dilapidazioni del reddito – sovrappiù in stipendi e paghe che montarono la testa a dirigenti ed operai, creando nei primi la psicologia dell’arrembaggio alle rapide fortune e nei secondi la mala contentezza propria di chi vede inopinatamente crescere i proprii guadagni e, mentre prima era contento del poco, ora paragona invidiosamente il proprio di più col maggior di più altrui. Perché non dilapidare quel sovrappiù che sarebbe altrimenti stato prelevato dal tributo? Risalgono a quell’epoca gli investimenti dei guadagni di guerra in impianti superflui, in doppioni, in allargamenti, che furono tanta parte nella lunga crisi che venne di poi. Perché non investire in doppioni, in impianti nuovi quando in tal modo si abbassava la proporzione percentuale del reddito al capitale investito e si sottraeva reddito al tributo?

 

 

I risultati economicamente e socialmente spaventevoli dell’imposta sui sopraprofitti di guerra spiegano le tendenze odierne, a cui sopra si accennò, le quali mirano a sopprimere, non a tassare, i guadagni di guerra, e dimostrano come non si possano impunemente violare le leggi fondamentali dell’operare umano. Al comandamento divino: tu ti procurerai il pane col sudore della fronte, non si può aggiungere: tu devi ad arte lavorare in modo sia abbondante il sudore della tua fronte e che il pane che tu guadagnerai con esso sia scarso e cattivo.

 

 

Dio, che è buono, non può aver dato all’uomo comando così inutilmente malvagio.

 

 

Il legislatore, il quale deve tradurre in norme obbligatorie la parola di Dio, non può prendere a guida un principio che è un’offesa all’invincibile tendenza degli uomini al loro perfezionamento. Non può dire: se tu sei pecora e secondo l’uso delle pecore fai quel che le altre fanno, non ti tasserò. Se tu ambisci e cerchi di sollevarti dal volgo e non riesci, non ti tasserò. Ma se tu ti sollevi e voli, farò quanto mi sarà possibile per raggiungerti a colpi d’imposta e farti ricadere nel fango comune.

 

 



[1] Nel saggio Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema d’imposte sul reddito consumato, in Memorie della reale accademia delle scienze di Torino, serie II, tomo LXIII (cap. IX, prova seconda);

ristampato come saggio primo nel volume Saggi sul risparmio e l’imposta, in queste Opere, serie I, vol. I.

[2] Vedi la critica che dell’imposta successoria ha efficacemente scritto Mauro Fasiani in Problemi tributari inglesi, in «Annali di economia», Università Bocconi, Milano, vol.X, n. 2, par. 10.

[3] Oggi si afferma l’esistenza di un secondo caso, negli Urali russi. Che cosa accada in verità in Russia, noi non sappiamo; essendo ignote le basi dei calcoli di costi e di convenienza di quei singolari tipi di imprenditori che sono i comunisti.

[4] La municipalisation du sol dans les grandes villes, in «Devenir Social» del gennaio-febbraio 1898.

[5] L’imposta sulle aree edilizie, in «La Riforma Sociale», 1900, p. 757 e Questioni intorno all’imposta sulle aree edilizie, ibid., 1900, p.890.

[6] Sui problemi concreti nascenti dall’applicazione dell’imposta sui sopraprofitti di guerra discorsi a lungo nel cap. IV (pp. 129-230) di un mio libro La guerra e il sistema tributario italiano che fa parte della serie italiana della «Storia economica e sociale della guerra mondiale», Laterza, Bari 1927.

Il mito dei doppi d’imposta

Il mito dei doppi d’imposta

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 38-60

 

 

 

 

19. I doppi di imposta: ecco, dopo quella dei fantasmi, un’altra ossessionante comparsa propria della scena finanziaria. Così ossessionante, che i più la vedono dove essa in realtà non esiste.

 

 

20. È forse un doppio d’imposta l’essere chiamati a pagare all’erario dello stato prima l’imposta sui terreni e poi quella complementare sul reddito, e poi ancora i balzelli sui beni di consumo acquistati con lo stesso reddito? Mai no, perché il legislatore ha piena ragione di prelevare 100 lire ad un sol colpo, ovvero spezzettarne il pagamento in tre o n quote, chiamando l’una imposta sul reddito dei terreni, l’altra imposta complementare sul reddito e la terza, o l’insieme delle terze, imposte sui diversi beni di consumo tabacchi sale pane gas luce caffè spiriti vetture ecc. ecc. acquistati dal contribuente. Qui non v’ha doppio; bensì mero frazionamento fra parecchi titoli di prelievo di un unico carico di imposta, frazionamento voluto per comodità della finanza ed a più agevole allettamento a pagare del contribuente. Colui, il quale si inquieterebbe se gli si chiedesse 100 sol perché egli è proprietario di fondo rustico, meglio si contenta se per tal ragione gli si chieggono solo 30 lire, laddove altre 20 gli son chieste perché ha un dato reddito complessivo da spendere e 50 perché le ha spese nel rifornirsi di tali e tali altri beni. Per questi ultimi egli ha persino l’illusione che, se avesse voluto, egli avrebbe potuto astenersi dal consumo e quindi dall’imposta.

 

 

21. Non è parimenti un doppio il pagare, per lo stesso titolo, ad esempio di possesso di terreni, imposta allo stato, alla provincia, al comune, al consorzio irrigatorio o stradale, all’associazione sindacale, all’istituto di assicurazione per gli infortuni agricoli ecc. ecc. È forse un doppio provvedere, con lo stesso reddito, ai ricevuti dal fornaio, dal macellaio, dal sarto, dal calzolaio, dal padron di casa e via senza fine dicendo? Per la stessa ragione, non è un doppio provvedere a pagare, con quell’unico reddito, con il quale si acquistano a decine od a centinaia i desiderati beni privati, anche i servigi diversi delle varie qualità di enti pubblici, i quali hanno diritto d’imposta. Lo stato provvede alle vie di grande comunicazione; la provincia a quelle intercomunali, il comune a quelle estese al territorio comunale, il consorzio alla piccola strada vicinale. Perché non si dovrebbe pagare tributo ai quattro enti?

 

 

22. Taluno si lamenta di doppi interstatali. Ma, ragionando in logica pura, perché Tizio il quale possiede beni in Argentina e ne consuma il reddito in Italia, non dovrebbe pagar imposta in ambi i paesi? Lo stato argentino non rende forse servizio a lui come proprietario di beni e lo stato italiano di nuovo a lui come residente?

 

 

23. La parola «doppio» è qui usata impropriamente. In verità, i contribuenti non si lamentano del «doppio», bensì del «troppo». Essi talvolta sentono di pagare più di quanto gli enti tassatori danno a lui come singolo e come membro della collettività; e, per manco di analisi, protestano contro i molti che lo spogliano. Potrebbe essere uno solo l’ente tassatore, e la querela sarebbe valida se il tributo fosse eccessivo. Non importa se il 100 sia frazionato in tre o quattro o più quote singole; importa assai se il 100 sia moderato od eccessivo. Il problema vero è di valutazione comparativa delle spese ed entrate pubbliche distintamente per ciascun ente tassatore e nel loro complesso, non di conteggio del numero degli appelli diversi fatti alla borsa del contribuente. Il conteggio degli appelli ha importanza notabile; non razionale, ma empirica. E più agevole eccedere, quando, invece di domandare al contribuente una somma data, 100, in unica soluzione, gli si chieggono, a varii titoli, da enti diversi ed in momenti diversi, parecchie quantità minori, 10, 20, 15 e così via. Accade che il totale ecceda agevolmente il 100 e diventi eccessivo.

 

 

24. La ricerca del vero doppio è assai più sottile ed è un lavorio logico fondato sull’accettazione di determinate premesse. Il doppio esiste o non esiste a seconda della fatta premessa.

 

 

25. Suppongasi che l’imposta debba essere pagata dalla «cosa», da tutte le «cose» produttive di reddito, senza riguardo alla persona del possessore della cosa ovverosia del percettore del reddito. Sia un fondo rustico, fecondo di un reddito netto di 5000 lire, su cui l’imposta del 20% preleva 1000 lire. Sia un capitale di 50000 lire dato a mutuo al 4%, con ipoteca sul fondo rustico di dianzi e fruttifero di un reddito di 2000 lire, su cui, al 20%, cade imposta di 400 lire. Poiché, secondo la premessa fatta, l’imposta è pagata dalla cosa, qui non v’ha doppio. Il fondo rustico frutta, sì o no, 5000 lire nette? Dalla «cosa» fondo non nasce forse il frutto annuo di 5000 lire? Non è quel nascimento un fatto oggettivo, visibile anche cogli occhi del corpo? Sì. Epperciò l’imposta di 1000 lire è dovuta. Il mutuo non è anch’esso una «cosa» produttiva di un frutto civile di 2000 lire nette all’anno? Può dubitarsi che quel frutto di interesse non sorga da quella causa produttrice «mutuo»? No. Quindi, al 20%, l’imposta 400 è anch’essa fuor d’ogni dubbio dovuta.

 

 

26. Suppongasi ora che l’imposta sia dovuta dalla persona del possessore della cosa: da Tizio proprietario del fondo rustico e da Caio proprietario del capitale fornito a mutuo a Tizio. Mutata la premessa, mutano le conseguenze. La terra paga imposta per quel che frutta, 5000 lire; Tizio paga su quel che ha, che sono 5000 tratte dalla terra meno 2000 interesse dovuto al capitalista suo creditore. Sarebbe assurdo che egli fosse chiamato a pagare sulle 2000 lire, le quali gli scivolano, in fuga, tra le dita senza recargli alcun giovamento. Al 20% l’imposta dovuta sulle 3000 lire sue è di 600 lire. Caio riceve e gode 2000 lire di interesse e su queste, al 20%, è ovvio debba pagare 400 lire.

 

 

27. La differenza fra i due sistemi, l’uno dei quali nei trattati di pubblica finanza è invalsa l’abitudine di dire «reale» e l’altro «personale», può essere riassunta così:

 

 

 

 

A

Sistema

reale

 

 

Reddito

 netto

Aliquota

Gettito

 Della

 imposta

Fondo rustico

5000

20%

1000

Mutuo

2000

7000

20%

400

1400

 

        Sistema personale  
 

Reddito

netto

 

B

Ad aliquota

invariata

   

C

A gettito invariato

 
   

%

 

Gettito
della
imposta

%

 

Gettito
della
imposta

Tizio, proprietario del fondo rustico

 

3000

20

600

28

840

Caio, capitalista mutuante

2000

5000

 

20

400

1000

28

560

1400

 

D

Sistema reale, modificato coll’eliminazione della finzione

 di un «nuovo» reddito di mutuo

 

 

Reddito netto

 

Aliquota

Gettito

della
imposta

Reddito rimasto al proprietario

3000

28%

840

Reddito trasferito, gravato della relativa imposta, al mutuante

2000

28%

560

Reddito totale del fondo

5000

28%

1400

 

 

Mantenendo costante l’aliquota del 20% il gettito dell’imposta si riduce nel sistema personale a 1000 lire. Volendo conservare il gettito in 1400 lire si deve aumentare l’aliquota al 28%. Se per maggiore chiarezza, si fa il confronto tra i due sistemi A e C a gettito uguale, si vede che la differenza consiste in una diversa distribuzione del peso dell’imposta. A parità di incasso dell’erario in 1400 lire, è preferibile attribuirne 1000 al fondo e 400 al mutuo ovvero 840 al proprietario rustico e 560 al capitalista mutuante?

 

 

28. La ragione del decidere si trova guardando in faccia alla realtà. Un «sistema», sia detto reale ovvero personale, è una definizione, un’ipotesi, uno strumento di analisi della realtà. Definizioni, ipotesi, strumenti sono preziosi per la ricerca della verità; ma non devono imporsi alla nostra mente in guisa da farci arrivare a conclusioni assurde.

 

 

Perché la conclusione a cui giunge il sistema «personale»ci appare, quasi per evidenza, preferibile? Perché esso non urta contro la osservazione semplice della realtà. Noi sappiamo che Tizio riceve bensì 5000 lire di reddito, ma di queste 2000 sono subito date via, sicché egli rimane con 3000. Tassarlo su 5000 perché l’oggetto tassato è il fondo rustico, significa far passare la «definizione», il «sistema» al di sopra della realtà, del fatto oggettivo quale è. Ripugna tassare prima 5000 reddito terriero e poi anche 2000 reddito del mutuo, perché ciò fa quasi supporre che nella realtà esista un reddito totale di 7000 lire, laddove noi sappiamo che quel reddito non esiste, che quella operazione di addizione  è assurda, perché l’uno degli addendi, 2000, è parte dell’altro, è cavato fuori dall’altro.

 

 

Giuocoforza è riconoscere che, se si vuole adottare, per qualche ottima ragione che qui non occorre esaminare, il sistema «reale», importa far sì che il «sistema» adottato non porti all’errore, all’incongruenza logica sostanziale. Analizzando, si scopre che la cosa mutuo ha ragione di possedere, a certi fini, una autonomia necessaria «a quei fini» non ha la virtù di mutare la fisionomia propria, una figura giuridica autonoma; ma che la «realtà». L’autonomia della cosa mutuo giova a far passare 2000, delle 5000 lire fruttate al netto dal fondo rustico, dal possesso e godimento di Tizio al possesso e godimento di Caio; ma non serve a creare, accanto al reddito terriero di 5000 lire, un nuovo addizionale reddito di 2000 del mutuo. La creazione, necessaria, della figura giuridica della «cosa» mutuo giova a spezzare il totale effettivo reddito di 5000 in due parti 3000 spettanti al proprietario e 2000 al creditore; ma non serve alla moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito era di 5000 prima e resta di 5000 dopo il mutuo. La somma 5000 + 2000 = 7000 non si può scrivere, perché illecita.[1] Il risultato dell’operazione ne dimostra la illogicità. Con quale argomentazione, all’infuori di quella del sic volo sic jubeo, si può spiegare nel sistema reale una divisione del totale fabbisogno statale di 1400 lire nelle due quote: 1000 gravanti su chi ha 3000 e 400 su chi ha 2000 lire? La virtù della formula la forme prime le fond trova un limite nell’offesa al senso comune. Non possiamo fare della «realtà» dell’imposta un feticcio da porre sugli altari. È uno strumento, utile nei limiti suoi proprii.

 

 

Se si vuole conservare il sistema reale – ed io sono per la sua conservazione – nulla vieta (sistema D) di far pagare l’imposta, tutta intiera, al fondo rustico in 1400 lire; dando diritto al proprietario di esso di rivalersi sul creditore del mutuo per la quota parte (560 lire), spettante al mutuo proporzionatamente all’importanza rispettiva in cui il reddito del mutuante e quello residuo a favore del proprietario entrano a comporre l’unico reddito totale di 5000 lire. Questa cifra – 5000 lire – è la realtà infrangibile della quale ogni sistema, qualunque siano la sua definizione e la sua logica formale, deve tener conto. La logica formale definitoria deve piegarsi dinnanzi alla realtà.

 

 

29. A questo punto possiamo spiegarci in che consista veramente e solamente il doppio d’imposta. Il doppio non sorge quando si paga due volte sullo stesso reddito, o a due enti diversi. Qui, forse, c’è il troppo. Il doppio sorge quando le mort saisit le vif, quando la forme prime le fond, quando la logica formale si sovrappone alla logica sostanziale, quando il legislatore si lascia trascinare dalla logica apparente di una definizione, di un sistema, di uno strumento ad immaginare la esistenza di un qualche cosa che non esiste nella realtà o, se esiste, ha dimensioni minori di quelle immaginate. Il troppo può essere imposto dalla necessità ed essere consaputamente ragionatamente voluto. Il doppio è figlio dell’errore. Anche l’errore può essere voluto; ma è voluto finché non si scopre essere errore. Il legislatore può immaginare che le 2000 lire reddito del mutuo siano una quantità addizionabile alle 5000 reddito del fondo rustico, per ottenere una materia imponibile totale 7000 ma non può mai fare che le 7000 lire esistano sul serio. Finché il legislatore dice: intendo prelevare 1400 invece di 1000 lire sulle 5000 lire di reddito totale esistente, dice cosa che è in poter suo ordinare. Così facendo, egli eleva l’aliquota dell’imposta dal 20 al 28%. Ma non è in poter suo dire: Voglio incassare 1400 lire e mantener l’aliquota al 20%; perché egli non può far sì che il 20% di 5000 sia 1400 lire, né che le 5000 si convertano in 7000 lire. Se vuole mantenere l’aliquota del 20%, il gettito totale dell’imposta in lire 1400 e configurare un reddito totale di 7000 lire, il risultato ottenuto sarà soltanto di prelevare 1000 lire sulle 3000 residuate al proprietario del fondo rustico (aliquota reale 33 e 1/3 %) e 400 lire sulle 2000 passate al creditore (aliquota reale 20%).

 

 

Forse, invece di doppio d’imposta, si potrebbe parlare di un incongruo od illogico d’imposta; ma l’uso della parola «doppio» è anche appropriato perché giova a far vedere che a base dell’errore sta un gioco visivo per cui lo stesso reddito, la stessa cosa, mutato aspetto, compare dinnanzi agli occhi del legislatore due o più volte, facendogli scambiare un fantasma giuridico per una realtà sostanziale.

 

 

30. Quando il legislatore vede doppio, il contribuente cerca di creare la nebbia intorno a sé. Quale è la ragione per la quale la categoria A dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile[2] è la meno produttiva fra le categorie in cui si divide quella colonna maestra del nostro ordinamento tributario? Si sono moltiplicate le esenzioni a favore degli interessi delle cartelle di credito fondiario ed agrario, di assai obbligazioni emesse da società industriali, di mutui concessi ad enti e per scopi svariatissimi. Formalmente, i motivi dell’esenzione sono particolari ad ogni caso; sostanzialmente si riconosce di fatto quel che non si vuole ammettere in diritto, essere cioè vano irrito e dannoso pretendere di tassare sotto la forma propria di interessi di mutuo quel che è già tassato sott’altra forma, incluso in qualche altro reddito, a cui non si concede la corrispondente detrazione. Se il doppio non esiste, o non è facile scoprirlo, come per i titoli di debito pubblico, statale e locale, si esenta, perché (cfr. sopra par. 5) la tassazione sarebbe cagione alla pubblica finanza, di più grave danno o di minor beneficio dell’esenzione.

 

 

L’esenzione è uno spediente col quale si eliminano doppi e fantasmi tributari. Se esenzione non v’ha, il contribuente si nasconde: preferisce il mutuo cambiario, il chirografario non registrato all’ipotecario pubblico. Esiste formalmente la frode fiscale; ma ad eliminarla non converrebbe che prima il legislatore eliminasse i doppi, che i contribuenti sentono anche quando non sanno chiaramente rendersene ragione? A che titolo paga quel piccolo ammontare (piccolo in confronto alla gran massa degli interessi esenti o non tassati) di interessi la quale cade entro le maglie della tassazione? Anche a chi non voglia tentare una analisi della traslazione dell’imposta sugli interessi dei capitali, appare evidente che la imposta limitata alla minor parte degli interessi esistenti è un qualcosa la cui parentela con una imposta la quale veramente colpisca ed incida sui percettori degli interessi è assai vaga. Colpisce costoro o non piuttosto penalizza i debitori? In che misura il saggio di interesse dei capitali nuovi si risente della tassazione che si verifica solo per accidente o per sfortuna? Quei debitori, di solito disgraziati incapaci di ricorrere a forniture di capitali esenti da tributo, sono le persone più atte a sopportare un carico differenziale di imposta? Val la pena risolvere così sottili quesiti per ridare linfa vitale a quello che oramai e divenuto un ramo secco dell’albero tributario? Non forse la A è meritevole della stessa sorte che abbiamo augurato alla categoria D dei pubblici impiegati, ossia il taglio netto del ramo secco?

 

 

31. Talvolta il doppio di imposta è grossolano ed a tutti apparente; talvolta è sottile e nascosto. Forse il doppio più grossolano è quello della ricomparsa dello stesso reddito prima sotto specie di reddito della società commerciale (categoria B della italiana imposta di ricchezza mobile) e poi di reddito degli azionisti della stessa società.

 

 

Naturalmente, non è un doppio il tassare il reddito della società coll’imposta di ricchezza mobile e poi il reddito degli azionisti coll’imposta complementare sul reddito. Qui sono due imposte diverse ed ognuna di esse tassa una sola volta lo stesso reddito, la prima sotto una specie e l’altra sotto un’altra.

 

 

Non è, parimenti, un doppio tassare prima il reddito della società e poi, di nuovo, quella parte del reddito che sia distribuito alle azioni al portatore. Ché questa seconda non è vera imposta, bensì espediente immaginato allo scopo di persuadere gli azionisti ad iscrivere le proprie azioni al nome; cosa che il legislatore può giudicare vantaggiosa alla finanza per il più facile accertamento dei redditi e dei patrimoni ai fini, in Italia, delle due imposte personali dette complementare sul reddito o di successione. Il fine voluto dal legislatore sarebbe raggiunto quando tutti i titoli fossero iscritti al nome e non esistessero più titoli al portatore sui quali la seconda imposta potesse cadere.[3]

 

 

Non è, anche, un doppio tassare prima il reddito della società e poi, a volta a volta, la quota di esso distribuita agli azionisti al disopra di un certo livello di dividendo definito «normale» (Italia e Germania), ovvero la quota mandata a riserva (Stati Uniti). Nel primo caso il legislatore vuole persuadere gli amministratori a crescere le riserve, nel secondo a tenerle basse. Qui non giova discutere il perché di cosiffatte contrastanti ideologie economiche; basti contrastare che se gli amministratori seguono il consiglio del legislatore, mandando nel primo caso tutto l’utile eccedente il normale a riserva, ovvero, nel caso opposto, distribuendolo tutto, senza mandare nulla a riserva, essi non pagano la seconda imposta.

 

 

L’imposta sui redditi dei titoli al portatore, se si esentino i titoli nominativi, quella sui dividendi eccedenti, se si esentino gli utili mandati a riserva e quella sugli utili mandati a riserva, se si esentino gli utili distribuiti, non sono imposte propriamente dette del tipo ordinario intese a fornire entrate all’erario pubblico; sono imposte multe od imposte premio, le quali vogliono incitare gli uomini a fare o non fare qualcosa, senza preoccupazione di un qualsiasi provento per l’erario, anzi con il dichiarato e tacito scopo di non fruttar nulla al fisco.

 

 

Il doppio vi sarebbe – ed in talun paese c’è – se la stessa imposta tassasse prima il milione di reddito della società e poi lo stesso milione diviso in quote di 50 lire l’una distribuite ai portatori di ognuna delle 20000 azioni della società; argomentando unicamente dal fatto che la società commerciale è una persona distinta dalle persone dei soci; e che quindi prima la persona società riceve il reddito e poi ne fa quell’uso che più le aggrada, fra cui si novera talvolta la distribuzione ad altre persone dette azionisti, fornite perciò anch’esse di reddito tassabile. La goffaggine dell’argomentazione sarebbe troppo grossa, essendo chiaro che la creazione di una persona detta «società commerciale» può essere legittima a certi fini, ma non ha in sé la virtù di trasformare in due milioni il reddito che, si creino quante persone si vogliano, è di un solo milione. Si può tassare un milione due volte, ma non si può pretendere, con un colpo di bacchetta magica, che i milioni diventino due. Perciò alla troppo goffa argomentazione della sufficienza della creazione di una o due o più persone a legittimare una o due o più tassazioni supplementari, se ne sostituisce di solito un’altra: che il produrre milioni di reddito sia una faccenda non so se più comoda o più fina, certo più passibile di imposta quando è affare di certe persone giuridiche dette società commerciali che non quando è affar di privati. Badisi che non si dice né si vuole o si può dire che la società fabbrichi, a parità di sforzi o di capitali o di altro indice assunto a norma del merito, più facilmente milioni del privato, poiché l’argomento complicherebbe stranamente il problema. Il legislatore può avere già ammesso, per motivi buoni o cattivi, che, se 1 milione deve essere tassato col 20%, 2 milioni debbono essere tassati col 40%. L’ha ammesso, eventualmente, per tutti i contribuenti, privati o società commerciali. Qui si aggiunge, in più, ed è il solo punto da esaminare, che se due contribuenti, industriale singolo e società commerciale, hanno ambedue lucrato un milione, il milione del privato deve essere tassato come uno ed invece il milione della società deve essere tassato come due. Il pretesto addotto – il milione unico passa attraverso due persone distinte, società e azionista – è pacificamente ammesso essere un errore di doppia vista; pur si afferma che, al disotto del miraggio del doppio, esiste un vero: il milione è guadagnato più agevolmente dalla società che dal singolo.

 

 

32. Come si dimostri tal immaginato vero è ignoto. L’osservazione di buon senso parrebbe portare alla conclusione opposta: che cioè un industriale privato, non imbrogliato da consigli di amministrazione, pareri di colleghi, necessità e pubblicità di bilanci o rendiconti, sia, a parità di mezzi, in grado di guadagnar di più di una società. Se le società guadagnano di più, ciò accade perché sono più grosse, perché accolgono maggior massa di mezzi, perché, essendo più grosse, dominano meglio il mercato e riescono più facilmente ad avvicinarsi a posizioni di monopolio. Ciò tocca il confronto fra i due milioni e l’un milione, non fra l’uno e l’uno, ed a ciò il legislatore, per ipotesi, ha già, bene o male, provveduto, tassando più i due milioni che l’uno, e, tassando già i due più che l’uno, non può far differenza fra il grosso singolo ed il grosso società, se ambedue guadagnano due invece che uno. Se, con ugual capitale o mezzi in genere, taluno guadagna due invece di uno, potrà tal fatto autorizzare talun legislatore a tassare maggiormente il guadagno eccedente, ma non si capisce perché, se il maggior guadagno esiste, esso debba essere tassato solo presso la società e non presso il singolo.[4]

 

 

Che ci siano al mondo paesi, ostrogoti od americani, dove cotali fattacci accadano e dove i soliti azzeccagarbugli abbiano inventato una qualche loro giustificazione non monta. Non basta dire che la società è passibile in se stessa, per la sua dichiarata indole di società, di imposta maggiore di quella propria dei privati, i quali lucrano altrettanto. Non basta dire che la società per azioni ha nel mondo moderno, di alto o di basso, di imperversante o di decadente capitalismo, acquistato siffatta importanza da renderla particolarmente atta a pagare imposte. Tutte queste sono chiacchiere, forse «politiche» se con questo aggettivo vogliamo significare concetti che non si sanno o non si osano manifestare apertamente. Noi chierici abbiamo il dovere intellettuale di sollevare il velo e chiedere: che cosa sta sotto al garbuglio? Qualche volta mera invidia bottegaia verso la grande impresa societaria. Tal altra, astuzia di finanziere che vorrebbe gravare su tutti col 40% e, non osando, infligge un secondo 20% su coloro che possono essere denunciati alla folla come l’incarnazione del capitalismo, la sanguisuga del popolo. Quando si vuol portar via a taluno il doppio dell’ordinario, è facile procacciarsi il plauso dei non colpiti, inventando etichette di infamia per gli spogliati.

 

 

Se si vuol mondare l’imposta sui dividendi dalla taccia di doppio, uopo è che il legislatore francamente dica: a me le società per azioni dispiacciono e piacciono invece le imprese individuali. Perciò tasso il reddito delle prime al doppio di quello delle seconde. L’eccesso dell’imposta nel primo caso diventa imposta multa contro le società anonime e premio a favore delle imprese individuali.

 

 

Ma affermare o lasciar credere che il reddito 100 è passibile di imposta doppia (più alta) solo perché prodotto da una società per azioni invece che da un imprenditore singolo è commettere reato di doppio. Il doppio è connesso con la bugia (uno è uguale a due) o con l’ipocrisia (vedo il due sotto la specie dell’uno). Al chierico non è lecito essere consapevolmente bugiardo od ipocrita.

 

 

Comunque la si rivolti, la tassazione del reddito della società ed, inoltre, degli azionisti è un doppio grossolano, se contemporaneamente l’industriale singolo, a capo di impresa provveduta di uguali mezzi e feconda di ugual reddito è tassato una volta sola. Il doppio esiste non perché il legislatore non possa tassare, se crede, due volte, ma perché esso non tassa due volte tutti coloro i quali si trovano in quella medesima situazione, in virtù di cui uno dei tanti è tassato due volte.

 

 

33. Talvolta, il doppio di imposta non ha origini così tonte. Sottile è la specie del doppio che nasce dalla distinzione fra capitale e reddito. Mevio, negoziante, Inizia l’impresa con 100000 lire. Dapprima il reddito è negativo, sicché per qualche anno Mevio vive consumando parte del fondo iniziale delle 100000 lire; ed anche questa parte, logicamente dal punto di vista suo, è compresa nel capitale dell’impresa. Come questa potrebbe costituirsi e durare, se il fondatore non potesse vivere? Poi, il reddito nasce ed a poco a poco cresce: da 3000 va a 5000, a 6000, a 10000, a 20000 lire. L’imposta (nel sistema italiano di ricchezza mobile, di cat. B) colpisce annualmente le 3000 e poi le 5000 e così via sino alle 20000 lire; e le decurta del 20%. Contemporaneamente Mevio capitalizza il reddito e negli inventari di fine anno calcola quale sarebbe il valor capitale dell’impresa se egli si decidesse a venderla. All’uopo egli usa un saggio di interesse, più alto, ad ipotesi, di quello del 5% che è, in quel tempo e luogo, usato per capitalizzare redditi di capitale puro. Nel caso suo, il reddito è invero frutto di capitale ed insieme di lavoro. Non converrebbe a lui impiegare capitale e lavoro se il frutto fosse quello soltanto ricavabile dal mero impiego di capitale. Suppongasi perciò che il saggio di interesse adoperato per la capitalizzazione del reddito sia del 10%, uguale al moltiplicatore, un tempo dicevasi al denaro dieci. Il calcolo fatto nei tempi successivi dà i seguenti risultati:

 

 

 

Valor capitale dell’impresa al denaro dieci calcolato alla fine di ogni intervallo di tempo sulla base del reddito netto

Intervalli di tempo

Reddito netto durante l’intervallo di tempo contro indicato

Imposta del 20%

sul reddito

Reddito netto depurato dall’imposta

 

depurato dall’imposta

(colonna d)

lordo

di imposta

(colonna b)

a

b

c

d

e

f

I

zero

II

3000

600

2400

24000

30000

III

5000

1000

4000

40000

50000

IV

10000

2000

8000

80000

100000

V

12500

2500

10000

100000

125000

VI

15000

3000

12000

120000

150000

VII

20000

4000

16000

160000

200000

VIII

25000

5000

20000

200000

250000

IX

20000

4000

16000

160000

200000

X

15000

3000

12000

120000

150000

XI

30000

6000

24000

240000

300000

XII

40000

8000

32000

320000

400000

 

 

I tempi considerati possono non essere consecutivi; e sono un intervallo, che qui implicitamente si suppone essere l’anno. I valori capitali sono calcolati alla fine di ogni intervallo, fatta l’ipotesi che il contribuente immagini, come per lo più fanno gli uomini, che l’ultimo reddito conseguito sia destinato a durare in perpetuo. Il calcolo di capitalizzazione è fondato sull’uso del denaro dieci, il quale comprende, oltre all’interesse del capitale e al salario dell’imprenditore, la opportuna quota di rischio.

 

 

Mevio si sforzerà di non vendere l’impresa prima del tempo V, perché egli non vuole liquidare in perdita; e spera, dall’avvio crescente degli affari, di potere, aspettando, ottenere un profitto. Nonostante temporanee crisi, l’impresa prospera. Al tempo XII, Mevio, ancora nel pieno vigore delle forze fisiche ed intellettuali, ma già avanzato negli anni, preferisce non correre il rischio della vecchiaia e della decadenza e vende. Il reddito, netto da tributo, dell’impresa, essendo di lire 32000, egli può alienarla al prezzo capitale di 320000 lire. In confronto delle 100000 spese, Mevio consegue un lucro di 220000 lire.

 

 

Sono le 220000 lire un lucro tassabile alla pari della serie (colonna b) dei redditi crescenti, con qualche passeggero indietreggiamento, da 3000 a 40000 conseguiti da Mevio nei tempi successivi dal I al XII?

 

 

34. La risposta, come molte in finanza, dipende dalla premessa posta dal legislatore.

 

 

Può darsi che questi si preoccupi esclusivamente di constatare quel che esce dall’impresa in ogni successivo intervallo di tempo, ed entra nell’economia del contribuente in aggiunta al rimborso del capitale iniziale versato dall’impresa.

 

 

Se questa è la premessa, è indubitato che Mevio dal momento iniziale a quello terminale incassò redditi netti periodici di 3000, 5000 ecc. sino all’ultimo di 40000 lire; ed alla fine incassò nuovamente lire 320000, deducendo dalle quali le 100000 iniziali investite, risultano guadagnate lire 220000 nette. Perciò è chiaro che, data la fatta premessa, l’imposta deve dapprima colpire, in ogni intervallo di tempo i redditi periodici di 3000, 5000, …sino a 40000 e poi al termine dell’impresa di Mevio le lire 220000 di buona uscita.

 

 

La più parte degli scrittori non dubita che questa sia la sola premessa possibile. Per quanto ho potuto capire, il fondamento della credenza, agli occhi di quegli scrittori inoppugnabile, è unicamente quello stesso che sta a base dell’accettazione delle verità assiomatiche, l’evidenza intuitiva. La credenza appare siffattamente ovvia ed universalmente ammessa che il negarla sembra cosa assurda e contraria all’ordine naturale del mondo.

 

 

35. Esiste tuttavia una qualche differenza fra l’assioma tributario e quelli che comunemente sono accettati come assiomi. La verità che la retta sia la linea più breve congiungente due punti è un assioma sul serio perché realmente gli uomini non saprebbero, comunque ragionassero, concepire la verità del contrario. Invece la premessa che lo stato debba prelevare imposta su tutte le somme le quali entrano nette nell’economia del contribuente in aggiunta al rimborso del capitale investito è una pura affermazione non provata e non provabile. Non basta dire che siffatta norma è giusta od è reputata giusta dai legislatori di tutti o molti tempi o paesi. Si recita così un atto di fede nella parola scritta, nella voce pubblica, nella parola del legislatore. Non si prova nulla. Non affermo che quella premessa sia erronea; ché tutte le premesse di ragionamento sono lecite se ragionate poi correttamente. Affermo che quella non è la sola premessa lecita.

 

 

36. Taluno potrebbe invero partire dalla premessa che l’imposta, voluta dal legislatore nella misura del 20% di ciò che entra nell’economia del contribuente al di là del rimborso del capitale investito, non produca al contribuente un danno superiore al 20%. Badisi che la misura del 20% non ha nulla di sacro. Potrebbe essere del 10 o del 30, a seconda del fabbisogno pubblico calcolato dal legislatore. La premessa dice solo che, qualunque sia la misura del sacrificio fissata dal legislatore, il sacrificio non sia poi, in virtù di qualche misterioso congegno od accadimento, maggiore o minore. Pare, con sopportazione degli scrittori aderenti all’opinione corrente, che anche questa sia una premessa lecita. Sembra anzi assiomatico ammettere che se il legislatore vuole bianco non voglia invece nero; se vuole 20 non voglia 30.

 

 

37. Orbene, è certo che la soluzione corrente viola la premessa. Non si discute dell’imposta (col. c) la quale colpisce i redditi ottenuti negli intervalli successivi di tempo (col. b). Essa è, ineccepibilmente, riscossa nella misura del 20% voluta dal legislatore. Ma l’imposta, di 44000 lire riscossa sul guadagno finale di 220000 lire, differenza fra la buona uscita di 320000 lire e il capitale investito di 100000 lire? Aritmeticamente, 44000 lire sono il 20% di 220000 lire. Mevio non subisce tuttavia, per fatto dell’imposta, un danno assai maggiore?

 

 

Guardisi all’ultimo rigo delle due ultime colonne. La buona uscita è di fatto di 320000 lire perché il mercato capitalizza al 10% (denaro o moltiplico io) il reddito di 32000 lire già depurato dall’imposta annua periodica. Se, però, l’imposta annua del 20% non esistesse, Mevio non solo otterrebbe un reddito di 40000 invece di quello di 32000 lire, ma potrebbe vendere l’impresa al prezzo di 400000 lire (col. f) invece che a quello di 320000 lire (col. e). Quindi l’imposta, cosidetta del 20% e voluta dal legislatore nella misura del 20%, in verità arreca a Mevio, rispetto all’eventuale guadagno di buona uscita, un danno assai maggiore. Così:

 

 

Valor capitale dell’impresa alla fine dell’intervallo di tempo XII che sarebbe stato ottenuto se non fosse esistita l’imposta del 20% sui redditi annui

Lire 400000

 

Valore capitale effettivamente ottenuto nel medesimo momento, esistendo la sovradetta imposta

320000

 

Danno subito dal contribuente a causa dell’imposta

 80000

 

Imposta del 20% pagata sulla differenza fra il

prezzo di buona uscita ed il capitale investito

44000

Totale danno del contribuente

124000

 

 

 

Qualunque siano i termini ai quali si voglia raffrontare il danno di 124000 lire subito dal contribuente, siano le 220000 effettivamente guadagnate o le 300000 (400000 prezzo di vendita in caso di assenza di imposta, meno le solite 100000 investite), la percentuale del gravame non è quella del 20% voluta dal legislatore, ma un’altra: del 56,36% se il ragguaglio si fa sulle 220000, o del 41,33%, se il ragguaglio si fa sulle 300000 lire. Perché il 56,36% o il 41,33% od una qualunque altra proporzione a scelta invece del 20% voluto dal legislatore?

 

 

38. Il perché non esiste, non essendoci perché atti a spiegare fatti incongrui. Ma la spiegazione dell’incongruenza è ovvia. Coloro i quali pongono la premessa corrente cadono nell’errore di credere che reddito e capitale siano non solo entità formalmente«distinte», che è premessa lecita del discorrere chiaramente, ma inoltre diverse ed «aggiuntive» l’una all’altra, che è affermazione arbitraria e grottesca. Perché esisterebbe, alla fine del tempo XII, un capitale di lire 400000 se non ci fosse imposta e perché, data l’imposta esiste invece un capitale di 320000 lire? La risposta è nota: in assenza di imposta, dinnanzi agli occhi del possessore e dell’eventuale acquirente dell’impresa si profilerebbe una serie infinita di redditi annui di 400000, ed invece, data l’imposta, la serie è soltanto di 32000 lire all’anno. Le due cose, capitale e reddito, non sono soltanto l’una in funzione dell’altra, ma sono due facce della stessa cosa, sono la medesima cosa riguardata da due punti di vista diversi. Se badiamo alle 40000 od alle 32000 lire annue future noi diciamo di vedere «reddito»; se accorciamo quelle visioni del futuro e le concentriamo, per così dire, nel momento presente, noi diciamo di vedere «capitale». Ma vediamo sempre la medesima cosa. L’imposta di 8000 lire annue che colpisce le 40000 e le riduce a 32000 lire annue colpisce nel medesimo istante il capitale; scorciando il reddito da 40000 a 32000, scorcia il capitale da 400000 a 320000. L’imposta che colpisca l’un nome della cosa colpisce ipso facto l’altro nome della stessa cosa. Un’imposta del 20% sul reddito è anche un’imposta del 20% sul capitale; e viceversa un’imposta sul capitale è un’uguale imposta sul reddito. Immaginare di poter stabilire un’imposta sul reddito o sul capitale senza che essa sia (dicesi sia e non si ripercota) altresì un’imposta sul capitale o sul reddito è illusione infantile.

 

 

39. Rispetto grandemente coloro che ritengono essere le 320000 lire capitali una entità diversa dalle lire 40000 reddito; ma sarebbe bene che essi chiarissero in che cosa consiste l’affermata diversità, e come quella eventuale diversità basti a spiegare le due tassazioni separate ed aggiuntive. Frattanto resta vero che capitale e reddito sono due entità o concetti forniti delle seguenti curiose proprietà : – se l’una scompare o varia, l’altra scompare o varia nello stesso senso;[5] – l’una non può essere goduta senza rinunciare al godimento dell’altra. Se si vuole godere il reddito, non si può anche ed inoltre godere il capitale; se si vuol godere il capitale non si può altresì godere il reddito; – l’una non può essere falcidiata dall’imposta senza che automaticamente l’altra non sia altresì falcidiata.

 

 

Dinanzi alle quali constatazioni di fatto non è stato possibile a coloro che sostengono doversi, dopo la riduzione delle 400000 a 320000, tassare ancora quel che nelle 320000 vi è in aggiunta alle 100000 investite, continuare a ripetere assiomaticamente: «dio ha comandato che dovesse esser tassato tutto ciò che in ogni successivo momento entra di nuovo nell’economia del contribuente»; perché anche i pappagalli, i quali non siano resi ottusi dalla predicazione secolare delle medesime parole senza senso, hanno la vaga impressione che dei comandamenti divini occorra nella piatta materia finanziaria rendersi conto. Gli ordini di dio o del legislatore entrano nel cuore degli uomini colla persuasione dell’evidenza o della ragione. Come sperare, tuttavia, ragionamenti dai cocoriti i quali da trent’anni mi rinfacciano, ogni volta che tiro fuori questa faccenda dei veri doppi d’imposta, l’offesa a dio il quale ordinò che base sola unica immarcescibile perpetua dell’imposta sia quanto, in ogni successivo intervallo di tempo, entra nell’economia del contribuente in aggiunta al capitale iniziale versato? Verrebbe la voglia di scalpellare il cranio dei ripetitori per vedere come è fatto un cervello inetto a capire che qualunque premessa definizione proposizione (come dire?) è arbitraria provvisoria valida solo nei limiti della sua utilità ragionarci sopra ed a trarne conseguenze. È o non è vero che dall’una definizione nascono gravami di tributo differenti per redditi che il legislatore ha voluto trattare ugualmente? E vero o non è vero che dall’altra definizione tali disuguaglianze non nascono? E vero o non è vero che il dibattito non è tra definizioni, che sarebbe stupidissimo dibattito, ma se si voglia o non quel tale risultato di diversità di peso?

 

 

40. Taluno, che vede l’assurdità del trincerarsi dietro una definizione, prende il toro per le corna e dice: «sì, la tassazione degli incrementi di capitale (col. e) dà luogo ad un maggior onere (56,36 ovvero 41,33% ovvero qualche altra proporzione percentuale) subito dal contribuente in confronto al 20% che il legislatore deliberò in generale. L’errore però non sta nel maggior onere, ma nel non dire apertamente che per l’appunto esso è voluto o dovrebbe essere voluto dal legislatore».

 

 

Questa è una tesi logica. Il legislatore ha piena podestà di tassare l’un reddito col 20% e l’altro col 40 o col 60 od anche col 100%. Si aggiunga solo che i legislatori saggi usano dar ragione di siffatto loro diverso comportamento. Nel caso presente, a spiegare la maggior tassazione, malauguratamente nascosta e che giustamente si vuole fatta palese, si adduce una proprietà che avrebbero gli incrementi [di capitale] in confronto ai redditi e sarebbe la propensione maggiore degli «incrementi»a patire imposta in confronto dei «redditi». Ho messo le parole «di capitale» fra parentesi quadre ad indicare che l’accento deve mettersi sul concetto «incremento», che sarebbe il genere, più che su quello «di capitale», che sarebbe un semplice qualificativo del genere. Esisterebbe cioè negli incrementi una qualche proprietà, una specie di magnetismo che li spingerebbe, quasi attratti da una forza irresistibile, ad abbracciare con maggiore affetto l’imposta, di guisa che il peso di un 40% sull’incremento equivarrebbe, a cagion d’esempio, a mala pena ad un peso del 20% sul reddito.

 

 

41. In che cosa consista la proprietà magnetica filo-tributaria del puro incremento è per altro alquanto misterioso, ove si paragoni, come si deve, il puro incremento di capitale (eccesso oltre l’investito) al puro reddito.

 

 

Non può trattarsi di una maggiore facilità o minor merito di guadagnar incrementi di capitale che non di reddito. Capitale e reddito sono due fratelli siamesi, due facce del medesimo fatto. Se è facile che il capitale passi da 100000 a 400000 ciò accade soltanto perché e purché sia ugualmente facile che il reddito passi da 10000 a 40000. Non si può affermare che occorra, a cagion di presunta maggiore agevolezza di guadagno, tassare più del normale l’incremento di capitale da 100000 a 400000, senza affermare nel tempo stesso la ragionevolezza di tassare altresì nella stessa maggior misura dei normale l’incremento di reddito da 10000 a 40000. Come dimostrare che, se i redditi ed i loro incrementi (col. b) sono tassabili col 20% (col. c), i relativi incrementi di capitale (col. e od f) non più facili o più difficili ad ottenersi degli incrementi di reddito debbono essere tassati con aliquota percentuale due o tre volte maggiore? Nessuno, che io sappia, ha dato una risposta, decentemente presentabile e comprensibile, al quesito.

 

 

42. Per la stessa ragione non può trattarsi – ma è solo un altro modo di esprimere lo stesso concetto – di una maggiore imprevedibilità dell’incremento, sicché questo sia come un bolide piovuto dal cielo, un qualcosa che lo stato può occupare senza danno, perché il contribuente non se l’aspettava, e, non facendovi assegnamento, non sente vivo il dolore della sua privazione a cagion dell’imposta.

 

 

Di nuovo, l’incremento di capitale è la conseguenza dell’incremento di reddito. Il primo è impreveduto se e nella stessa misura in cui non è preveduto il secondo. Se il contribuente prevede l’incremento di reddito da 10000 a 40000, prevede ipso facto l’incremento di capitale da 100000 a 400000. Quindi se si giudica che il «preveduto» o «prevedibile» sia un fattore differenziale d’imposta, l’imposta deve essere maggiore del normale 20% tanto per l’incremento di reddito quanto per l’incremento di capitale. 43. Gira e rigira, la tassazione dei guadagni od incrementi è un qualcosa di più in confronto alla tassazione normale e di esso non si vede ragione per i soli incrementi di capitale. Se il qualcosa di più è ragionevole, è tale per ambedue: reddito e capitale; ed anche in tal caso il qualcosa di più deve essere applicato soltanto sull’uno ovvero sull’altro, non su ambedue, o, se si vuole distribuirlo un po’ sull’uno e un po’ sull’altro, occorre che la somma dei due oneri sia uguale al prefissato «qualcosa».

 

 

Suppongasi vero che, se il reddito – base o reddito – normale, ad ipotesi 20000 lire, è tassabile col 20%, le eccedenze sulla base o sul normale debbano essere tassate col 40%. Ecco senz’altro colpite altresì col 20 e col 40% le proiezioni attuali dei redditi futuri a cui si dà il nome di capitale.

 

 

 

Reddito netto prima dell’imposta

 

Aliquota dell’imposta

 

Ammontare dell’imposta

 

Reddito netto depurato dell’imposta

 

 

 

Valore capitale corrispondente, al denaro dieci, al reddito netto

 

Perdita di valore capitale conseguente all’imposta sul reddito

prima dell’imposta

depurato dall’imposta

Reddito base

20000

20%

4000

16000

200000

160000

40000

Eccedenza

20000

 

40%

8000

12000

200000

120000

80000

Reddito totale

40000

12000

28000

400000

280000

120000

 

 

L’imposta del 20% sulle prime 20000 lire di reddito e quella del 40% sulle ulteriori 20000, supposte od immaginate più facili o più impreviste ad ottenersi delle prime, più manna o più bolide piovuti dal cielo dove si confezionerebbero i redditi, produce nel tempo stesso automaticamente due effetti inscindibili: riduzione dei redditi normali da 20000 a 16000 e dei redditi eccedenza od incrementi di reddito da 20000 a 12000 e riduzione dei capitali corrispondenti da 200000 rispettivamente a 160000 e a 120000 lire. Il contribuente, pagando 4000 e 8000 all’anno d’imposta su due ammontari identici di reddito, distinti per la sola circostanza del venire l’uno prima e l’altro dopo, soffre perciò anche, senza uopo di nessun altro pagamento, la perdita di 40000 e 80000 lire sui due corrispondenti identici valori capitali. Come potrebbe essere diversamente se i valori capitali altro non sono se non la capitalizzazione al momento attuale dei redditi futuri?

 

 

Non occorre affatto tassare in aggiunta il contribuente sulle 120000 di incremento netto di capitale corrispondente all’eccedenza netta di 12000 lire sul reddito-base per fargli entrare nella testa l’idea che gli incrementi di capitale meritano di essere tassati di più dei capitali. Quell’idea è già penetrata, purtroppo per lui, nel vivo della sua tasca. Quella che gli sarebbe, ora, inculcata sarebbe un’altra diversa idea: dopo avere già sofferto, a causa della sua abilità ad acchiappare la manna nel deserto o della sua incapacità a prevedere il futuro, un 40% invece che un 20% di imposta, egli meriti di pagare un altro aggiuntivo 20 o 40% su quel che gli resta di incremento di capitale. Egli chinerà la testa, sapendo che, se chiedesse ragione della disgrazia che gli tocca, la risposta potrebbe essere solo: quia nominor leo. Risposta perentoria nel mondo reale, non in quello delle dispute teoriche.

 



[1] Perciò nella tabellina del testo quella cifra fu scritta in corsivo e tra parentesi quadre.

[2] Poiché non è necessario che le persone colte conoscano il significato delle lettere dell’alfabeto nel gergo fiscale, giova notare, sebbene si tratti di cosa notissima, che la lettera A indica i redditi di capitale puro (interessi di mutui, pubblici e privati), la B i redditi misti di capitale e lavoro (redditi industriali e commerciali ottenuti da società e da privati), la C1 i redditi incerti e variabili di lavoro (onorati e compensi di esercenti professioni liberali), la C2 i redditi in cifra determinata di lavoro (stipendi, assegni e pensioni di impiegati privati), la D i medesimi redditi di lavoro di impiegati pubblici.

[3] Nel testo si parla di un istituto-imposta sul reddito dei titoli al portatore – il quale aveva per iscopo di persuadere i possessori di azioni di iscriverle al nome, nel qual caso l’imposta non era dovuta. Era sistema ottimo, oggi venuto meno, per l’abolizione delle azioni al portatore [Nota del 1958].

[4] Dicesi «potrà» per ragioni di ipotesi, che qui non si vuol né discutere, né ammettere, ma solo accennare per rigor di distinzione logica di concetti distinti.

[5] Ovviamente la proposizione ora affermata non diventa erronea solo perché mutando qualche altra circostanza, per esempio il saggio di capitalizzazione, alla variazione dell’una cosa in un senso corrisponde una variazione nello stesso senso ma con intensità diversa o addirittura in senso diverso dell’altra cosa. Bisognerebbe poter dimostrare che la variazione di quell’altra circostanza e logicamente legata e in qual modo con la causa di variazione del reddito o del capitale – imposta – che nel caso specifico si considera.

Il mito del contribuente che paga fino all’ultimo centesimo

Il mito del contribuente che paga fino all’ultimo centesimo

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 21-37

 

 

 

 

1. Don Chisciotte combatteva contro i mulini a vento. Chi in realtà non paga imposta grida sovra ogni altro perché egli è convinto di pagare più che ogni altro. I bilanci degli stati moderni sono aduggiati da miti, dietro ai quali c’è il vuoto.

 

 

Potentissimo fra i miti tributari contemporanei è quello dell’imposta pagata fino all’ultimo centesimo dall’impiegato pubblico. Ho riflettuto a lungo sul pro e sul contro dell’imposta sul reddito dell’impiegato; ed ho concluso che il pro è calante di peso. Giova, per la sua nitidezza, cominciare da quest’ombra feconda di rancori.

 

 

2. Nessun reddito, dice il canone dell’uguaglianza, – unico canone conosciuto in materia d’imposta, per l’assurdità propria dell’ammettere disuguaglianza deve andar esente da imposta. Quindi lo stipendio dell’impiegato, essendo reddito, deve pagare imposta al par di ogni altro reddito della medesima specie. Offenderebbe la giustizia, creerebbe una classe privilegiata chi mandasse esenti gli impiegati dall’imposta che tutti pagano. Perché il privilegio? Se ogni altro reddito simile paga l’8%, ed anche quello dell’impiegato paghi il medesimo 8%. Importa che l’impiegato non si senta estraneo alla vita dello stato, importa che, pagando tributo, egli sappia per esperienza che per lui lo stato non significa solo il vantaggio dello stipendio, non è solo una vacca da mungere, ma è l’ente collettivo al cui mantenimento bisogna provvedere con sacrificio proprio. Quand’anche l’imposta fosse per lui pura forma, importa che l’impiegato sappia ad ogni fin di mese che egli avrebbe ragion di riscuotere stipendio di 100 lire se l’imposta di 8 non glielo decurtasse a 92. Quella cifra e quella sottrazione sono, per lui e per gli altri, il simbolo della sua partecipazione alla vita collettiva. Questo è il peso che grava sulla bilancia del sì ed è peso, il cui valore morale è certo altissimo.

 

 

3. Valore puramente morale, ché il valore economico dell’imposta per l’erario pubblico è nullo, anzi, sia pure per importo trascurabile, negativo. Trattasi di mera partita di giro, il cui ufficio è esclusivamente di moltiplicare le scritturazioni sui pubblici libri contabili. Invece di scrivere e pagare gli stipendi in lire 92 nette, occorre scrivere 100, configurare una ritenuta di imposta di 8 e, dopo congrua scritturazione ripetuta per milioni di partite, pagare 92. Il rigiro di scritture non inganna nessuno. Nessun impiegato, in nessun momento della carriera, all’inizio, nel suo progresso, entrando in quiescenza, presta la minima attenzione alla cifra lorda dello stipendio; tutti occupandosi solo del netto. Il simbolo dell’imposta pagata disturba per le frazioni di lira a cui dà origine.

 

 

4. Il valore economico dell’imposta sull’impiegato è tuttavia, si afferma da taluno, effettivo per quanto tocca l’avvenire. E indifferente ricevere 100 meno 8, uguale a 92, ovvero 92; non è indifferente sapere che l’8 d’imposta può crescere a 10 o diminuire a 6. Lo stato può aver ragione di volersi riservare il diritto di far partecipare gli impiegati all’onere cresciuto od al vantaggio della diminuzione delle pubbliche spese in funzione del reddito nazionale. Quando tutti gli altri contribuenti debbono sottostare ad un sacrificio maggiore, perché non gli impiegati?

 

 

5. Allo scopo di valutare con esattezza il peso economico dell’alea di aumento o diminuzione dell’imposta nell’avvenire, si avverta che quel peso fu spesso ritenuto calante nel caso analogo degli interessi del debito pubblico. Anche qui si presentò il quesito: 5 lordo meno 1 d’imposta, uguale a 4 interesse netto per ogni 100 lire nominali del capitale del debito statale, ovvero 4 netto da qualunque imposta presente e futura? In Italia e, nella più parte dei casi, in Francia si concluse per il 4 immune da tributo, sovratutto, si osservi, perché l’immunità garantisce il sottoscrittore dal rischio di aumento futuro di imposta. Se il sottoscrittore è disposto a pagare 100 lire un 4% perpetuo, netto da qualunque imposta, non è altrettanto propenso a pagare ugual somma per un 5% lordo di imposta. Oggi l’imposta è del 20% del reddito e diffalca 1 lira dal reddito lasciando un resto uguale a quello ottenuto nell’altro caso. Ma il risparmiatore, il quale ha il coltello per il manico, perché il suo risparmio ha tuttora forma liquida di denaro, dubita che il 20% rimanga costante. Chi dubita, non pensa che l’aliquota possa diminuire al 18%; teme, ed è persuaso a temere dall’esperienza passata, che l’imposta cresca al 22%. Chi teme, esagera il pericolo temuto. Il rischio di aumento che, secondo la probabilità storica, dovrebbe in quel paese e in quel tempo essere limitato ad un 2%, è dall’immaginazione cresciuto al 4%. Si sconta, invece del 20% attuale e del 22% possibile, un 24% immaginario; e si capitalizza, suppongasi al 4%, in 95 lire il reddito di 5 meno 1,20 imposta immaginaria, ossia 3,80 nette previste. Lo stato, il quale oggi ha la scelta fra il vendere a 100 un 4% netto od a 95 un 5 lordo che, dedotta 1 lira di imposta attuale, importa un onere effettivo di 4 lire, sceglie il 4 netto. Il maggior prezzo capitale di 5 lire riscosso subito lo indennizza largamente per la rinuncia ipotetica al diritto di aumentare l’imposta in un caso di necessità futura e incerta che forse non si verificherà mai. Del resto lo stato non assume, di fatto, impegni eterni. Scadono i debiti a tempo, si convertono, alla prima occasione favorevole e legalmente utilizzabile, i prestiti perpetui. Nel momento della novazione, lo stato, nel fissare le condizioni del prestito, tien conto del diverso, maggiore o minore, onere di imposta e fissa il saggio di interesse in modo da trarre nuovamente vantaggio dall’offerta di un titolo netto invece che di un titolo lordo. In argomento di debito pubblico, il vantaggio economico «per l’erario pubblico» è dunque il fattore dominante della decisione. Lo stato non si attarda a riflettere se da un punto di vista morale o politico giovi dare l’impressione che anche i portatori dei titoli di debito pubblico paghino l’imposta. Lo stato sa che quella è una impressione contabile, la quale non ha nessun rapporto con la realtà; e passa sopra all’impressione, preoccupato solamente di fare il «proprio» vantaggio.

 

 

Il «gran tesoriere» o ministro delle finanze non geme sotto l’incubo dei miliardi di lire di titoli di debito pubblico immuni dal tributo. Dissimile da quel granduca di Toscana, del quale si favoleggia dicesse: sì il granducato è mio, ma la terra è dei preti e frati e monache, che non pagano imposte!, il moderno tesoriere dello stato s’è fatto pagare in anticipo il prezzo dell’immunità largita; e si farà pagare opportuni nuovi acconti di prezzo ad ogni volta il contratto di mutuo, giunto a scadenza, sarà novato. Esiste forse un comandamento divino, il quale obblighi ad esigere il balzello ad ogni anno piuttostoché decupla somma ad ogni dieci anni?

 

 

6. Perché lo stesso ragionamento non deve applicarsi allo stipendio degli impiegati pubblici? La scelta non potrebbe essere fra il pagare 100 lordo meno 8 d’imposta uguale a 92 nette ed il pagare 90 nette da qualsiasi imposta presente e futura? Gli impiegati non preferirebbero forse, a gran maggioranza, un 90 assicurato contro qualsiasi variazione di imposta ad un 92 incerto? Né lo stato sarebbe legato al 90 in perpetuo. Mutando notevolmente l’onere del tributo, lo stato potrebbe, ferme rimanendo le condizioni pattuite per i vecchi impiegati, fissare per i «nuovi» lo stipendio netto in 88 od in 92 lire. Poiché il fato degli impiegati è quello di morire, ancor prima che alla vita, all’impiego, la variazione, anche se riferita soltanto ai «nuovi» finirebbe a poco a poco con l’estendersi a tutti. Perché l’immunità dall’imposta non dovrebbe essere feconda, nel caso degli impiegati, del medesimo vantaggio per il pubblico erario che è sua caratteristica per il debito pubblico? L’immunità agirebbe sull’immaginazione con potenza maggiore del suo valore reale. Non è forse risaputo quanta virtù possedesse in passato, quando essa era un raro privilegio, la prospettiva della pensione, a procacciare allo stato servitori fedeli laboriosi capaci e contenti di stipendio inferiore ai guadagni possibili nelle attività private? Oggi il miraggio della pensione opera meno, perché sta diventando universale, grazie alle leggi sociali di previdenza per la invalidità e la vecchiaia. L’immunità dell’imposta sarebbe un ottimo sostituto di quel miraggio e sarebbe feconda per lo stato di non minore risparmio di spesa.

 

 

7. Sarebbe feconda altresì di un vantaggio morale, non suscettibile, come ogni altro fatto morale, di misura quantitativa, di peso non però piccolo; ed è il mancato stimolo all’invidia. Dove lo stipendio dell’impiegato è tassato, il suo è il metro della giustizia tributaria. Poiché egli è tassato sull’intiero reddito e neppure un centesimo del suo reddito sfugge al tributo, ogni altro contribuente è frodatore se il suo reddito non sia tassato altresì sull’intiero reddito e questo non è misurato con i medesimi criteri con cui sono misurati gli stipendi.

 

 

Non monta osservare che una parte soltanto dei redditi nasce ed entra, al par dello stipendio dell’impiegato, nella economia dei contribuenti in cifra fissa, determinata in quantità certa legalmente dovuta, laddove la gran massa dei redditi sorge ed entra in quantità variabili ed incerte, mal note allo stesso contribuente; e quindi ragionevolmente diversi debbono essere i criteri di misurazione.

 

 

Non monta, ché gli impiegati hanno sempre pronti ragionamenti atti a dimostrare che i loro redditi sono più belli, ossia più agevolmente accertabili, di ogni altro. Se si tratta di redditi anch’essi certi, come gli interessi dei capitali dati a mutuo, eccoli osservare che gli interessi, accertati con sicurezza, dei mutui ipotecari o delle obbligazioni ecc., sono una quantità trascurabile in confronto agli interessi dei mutui chirografari o cambiari non registrati, i quali sfuggono all’accertamento. Addosso perciò a chi paga per fargli subire il fio delle colpe del frodatore! Non vale constatare che, oggi, gli impiegati privati non possono nascondere gratificazioni, mance, indennità, e che è praticamente impossibile l’accordo illecito a danno del fisco, fra datori di lavoro ed impiegati. Corre negli uffici pubblici la leggenda che l’impiegato privato non paghi ed è leggenda divenuta dogma incrollabile.

 

 

Se si tratta di redditi incerti e variabili di industriali e commercianti, oggi tassati in Italia col 14% dal solo stato e col 20% circa in complesso dallo stato, dagli enti locali e dagli altri enti aventi diritto di imposizione, o di professionisti tassati col 12% dal solo stato e col 16% almeno in complesso, l’invidia produce risultati assai più perversi. Poiché, come si disse dianzi, il solo canone universalmente ammesso e pacifico di tassazione è il canone di uguaglianza, le tre aliquote diverse di tassazione dell’8% sugli impiegati pubblici, del 16% sui professionisti e del 20% sugli industriali si conformano evidentemente a quel canone solo se si ammetta che, laddove si tassino gli industriali sull’intiero reddito, i professionisti meritino di essere tassati sui quattro quinti di esso e gli impiegati pubblici su due quinti. Un rapporto di tassabilità come fra 100 ed 80 fra redditi industriali e professionali pare approssimativamente corretto. Ambi sono incerti e variabili, ambi dipendono dalla vita e dalla capacità di lavoro del contribuente. Ma l’uno, quello dell’industriale, vive anche oltre la vita produttiva di lui, sia pure di vita ridotta e destinata a spegnersi ben presto se non lo conforti nuovo lavoro di altro contribuente. Ma il figlio, la vedova, l’erede dell’industriale può, liquidando l’impresa, trarne un capitale capace di produrre un reddito, più scarso bensì, talvolta assai più scarso, ma perpetuo. Laddove il reddito del professionista muore con lui e, salvo casi rari, la cessione dell’avviamento non ha quasi importanza. Queste son le ragioni, persuasive al buon senso ed all’opinione media, le quali dicono che, se si vogliono tassare tutte le cento lire del reddito dell’industriale, è corretto tassare solo 80 lire sulle 100 del reddito del professionista, ovvero, il che fa lo stesso, se si tassano col 20% le 100 lire del primo, fa d’uopo tassare soltanto col 16% le 100 lire del secondo.

 

 

8. Sono ugualmente persuasive le ragioni le quali dicono che, se è corretto tassare col 16% il reddito del professionista, si deve in ossequio al canone dell’eguaglianza, tassare coll’8% lo stipendio dell’impiegato pubblico? Limitiamo il confronto a queste due categorie; che avendo ammessa la correttezza del rapporto da 100 ad 80 fra industriali e professionisti, ove si ammetta per corretta la proporzione da 2 ad 1 fra la capacità di pagare dei redditi professionali e di quelli impiegatizi, risulterebbe dimostrata anche la correttezza del rapporto istituito fra impiegati ed industriali.

 

 

Dire che il guadagno del professionista merita di essere tassato col 16% e lo stipendio dell’impiegato pubblico coll’8% equivale a dire, secondo il canone dell’uguaglianza, il quale impone che due redditi uguali debbono essere tassati ugualmente, che se il reddito del professionista è tassato col 16% sull’intero suo ammontare, il reddito dell’impiegato deve essere tassato del pari col 16% sulla metà del suo ammontare.

 

 

Risponde la norma al comando del buon senso applicato all’osservazione dei fatti reali? Non pare, ove si parta dalla premessa, logicamente necessaria, che qui si confrontano unicamente redditi uguali. Si paragonano cioè tra loro due redditi di 500 o due di 1000 o due di 3000 lire al mese; non un reddito di 500 di impiegato con altro di 3000 di professionista. Paragonare 500 con 3000 significa discutere non della specie del reddito ma del suo ammontare. E di ciò si può discutere, qualunque sia la specie del reddito, ma non ha importanza per il problema qui esaminato. Se i redditi dei professionisti sono in generale più vistosi saranno colpiti con aliquota più elevata nella sede (in Italia la complementare) scelta a colpire di più i redditi grossi dei minuti. Non perciò è lecito confondere il più grosso col diverso.

 

 

9. A parità di ammontare, i due redditi come si distinguono dunque l’uno dall’altro?

 

 

 

Reddito di impiegato

Reddito professionale

 

È legalmente dovuto fin dall’inizio. È sperato.

 

È in somma certa. È in somma incerta.

 

È in somma fissa. È in somma variabile.

 

È dovuto durante i congedi di vacanza periodici. Non è accumulabile, se non in parte, durante i congedi contro descritti.

 

Dà luogo a pagamenti totali durante le malattie brevi o parziali e durante più lunghi periodi di aspettativa per ragioni di salute.

 

 

Non dà luogo ad alcun pagamento in tempo di malattia o di assenza per ragioni di salute.

 

Dà luogo ad un trattamento di pensione.

 

Non esiste diritto a pensione.

 

La pensione è parzialmente riversibile alla vedova ed ai figli. Non esistendo pensione non esiste riversibilità.

 

 

 

Il reddito dell’impiegato, a parità di ammontare, vale di più di quello del professionista. Se l’impiegato può ragionevolmente spendere tutte le sue 100 lire, il professionista che facesse altrettanto, si comporterebbe imprudentemente. Le sue 100 lire sono godibili solo in parte. Quale sia questa parte è impossibile dire con certezza. Approssimativamente, si potrebbe dire che il professionista è al sicuro se si limita a spendere la metà, è imprudente se spende più dei tre quarti del suo reddito. Il resto non è reddito, è accantonamento per bisogni futuri, simile al contributo del 6% che l’impiegato pubblico versa in Italia al fondo pensioni e su cui pacificamente non cade imposta. Perciò, ancora, la logica vorrebbe che se l’impiegato è tassato su 100, il professionista debba, all’incirca, essere tassato soltanto su 60, ovvero che se l’impiegato deve una imposta dell’8% il professionista ne debba una del 5%. S’intende, dell’8 e del 5% rispettivamente «in complesso» allo stato, province, comuni ed altri enti tassatori, poiché impiegati e professionisti si giovano ugualmente, in quanto tali, dei servigi di tutti gli enti centrali, locali e di categoria. Invece del 5%, i professionisti pagano suppergiù il 16%, più del triplo.

 

 

10. Se si chiede la ragione della discrepanza fra il ragionamento e la realtà, si odono risposte vaghe incerte. Poiché non si può arguire dal fatto nudo che gli uni sono impiegati e gli altri professionisti, ché tanto varrebbe arguire dal fatto che gli uni sono simpatici e gli altri antipatici, gli uni hanno i capelli neri laddove gli altri li hanno biondi, si sussurra vagamente che il maggior peso comparativo – più del triplo – gravante sui professionisti, è la difesa dell’erario contro la frode fiscale. I professionisti occultano gran parte, si dice, del loro reddito; epperciò se basterebbe far loro pagare un 5%, ove pagassero su 100, fa d’uopo invece paghino il 16%, poiché essi si industriano a pagare solo su 30 lire ogni 100 del loro vero reddito. L’argomentazione, in verità, non è esposta in siffatta aperta maniera; ché sarebbe troppo indecente. Coloro che la sussurrano, non osano affermare che il legislatore compia un atto di giustizia (16 invece di 5) allo scopo di ovviare alle conseguenze di una frode (denuncia da parte di contribuenti professionisti di 30 invece di 100). Se frode esiste, lo stato non può abbassarsi quasi a legittimarla dicendo: «so che voi frodate; prendo atto della frode e la elimino tassandovi con peso triplo del giusto». Il legislatore, il quale usasse linguaggio tanto grossolano, inviterebbe senz’altro anche i contribuenti onesti alla frode. Né il legislatore ha mai così parlato.

 

 

II. I difensori dell’aliquota tripla di quella corretta girano perciò la posizione ed affermano che, nei riguardi del professionista, i funzionari della finanza tengono conto di fatto delle caratteristiche precarie incerte terminabili del reddito del professionista e lo valutano al di sotto della realtà. Non si tratta di frode, ma di equità. Si sa che il professionista ha reddito incerto variabile, il quale cessa durante le ferie e le malattie, scema e scompare in vecchiaia e non dà luogo a pensioni riversibili. Perciò i funzionari sono equi e abbassano il reddito imponibile al disotto di 100. Chi oserebbe tuttavia affermare che essi lo abbassino da 100 a 30 circa, quanto sarebbe necessario perché l’aliquota legale del 16% diventasse di fatto del 5%, quale dovrebbe, per il canone dell’uguaglianza, essere? Corrono esagerazioni grossolane intorno all’occultamento o, come altri dice, al benigno apprezzamento dei redditi professionali. Salvo casi eccezionali, i quali non possono erigersi a norma di giudizio, le due quantità del reddito effettivo e del reddito accertato si sono a poco a poco avvicinate singolarmente; e non sarebbe da far meraviglia che in anni di depressione nei redditi, le cifre accertate siano rimaste non di rado «al di sopra» delle cifre vere. Accanto a qualche mezza dozzina di professionisti principi nelle grandi città, rispetto ai quali una certa benignità di trattamento può darsi sia fatto reale, per la grande maggioranza vale il vecchio proverbio: denari e santità metà della metà. Salvoché nelle chiacchiere delle botteghe di caffè, dove si compilano dagli sfaccendati le liste dei pingui redditi altrui, la media dei redditi professionali accertati non sta troppo al di sotto della media dei redditi effettivi.

 

 

12. Il punto essenziale è che, sia pure ridottissima di fatto in confronto all’immaginazione, ogni benignità di fatto negli accertamenti è inammissibile. Due metodi possono essere adottati dal legislatore per tassare equamente l’impiegato ed il professionista, se egli sia persuaso che, per le caratteristiche inferiori del suo reddito, il professionista debba pagare una imposta uguale ai cinque ottavi di quella pagata dall’impiegato:

 

 

 

Primo metodo: imponibile uguale ed aliquota differenziata:

 

  Impiegato Professionista

 

Reddito effettivo

100

100

Reddito imponibile

100

100

Aliquota %

8

5

Imposta pagata, lire

8

5

 

Secondo metodo: imponibile ridotto ed aliquota uguale:

Reddito effettivo

100

100

Reddito imponibile

100

62,50

Aliquota %

8

8

Imposta pagata, lire

8

5

 

 

 

Il primo metodo fu adottato dal legislatore italiano del 1923, il secondo da quello del 1864. Ambi sono corretti, e producono effetti uguali, purché alternativi. Scelto l’un metodo dal legislatore, esso deve essere applicato con rigidità; e non innalzare l’aliquota sui professionisti dal 5%, che sarebbe dovuta per uguaglianza di peso al 16% per il motivo o pretesto che il reddito imponibile, invece di essere 100, di fatto è 30. Su qual testo di legge si fonda una stima presunta tanto inferiore al vero? In verità, non è esatto affermare che la stima sia 30; essendo probabile che essa oscilli, a seconda dei casi e degli anni, fra un 30 ed un 120, con un centro di gravità empiricamente valutabile a forse 80; cosicché, se queste intuizioni sono vere, il professionista paga dal 12 al 14% del suo reddito effettivo invece del 5 che gli spetterebbe. Sperequazione meno grave di quella da 16 a 5, ma tuttavia fortissima.

 

 

13. Dalla sperequazione vi è una via di uscita: togliere di mezzo l’ingombrante pietra di paragone, ossia l’imposta sugli impiegati. Improduttiva anzi costosa per l’erario, l’imposta sul reddito degli impiegati pubblici eccita l’ira e l’invidia di questi, i quali seguitano a ripetere fastidiosamente noi paghiamo su tutte 100 (e non è vero, poiché pagano su 93 circa, che sono le 100 meno i contributi pensioni e sussidi) e gli altri pagano su 80, su 70, su 60 ecc. ecc. Non v’ha impiegato il quale nell’intimo foro della sua coscienza non sia convinto che gli «altri», tutti gli altri, industriali, agricoltori, professionisti, impiegati privati, operai frodino a man salva e non paghino che su una frazione irrilevante del loro reddito. Ah! se tutti pagassero, non vi sarebbe bisogno di far pagare tanto!; ah! se tutti pagassero, quante spese si potrebbero affrontare!; ah! se tutti pagassero, – come paghiamo noi, si sottintende – i ministri delle finanze non sarebbero travagliati dallo spettro del disavanzo! Il grottesco di tutto ciò è che tutti pagano, in realtà o in apparenza, assai; e, se nessuno pagasse, non si capirebbe donde vengano in Italia i più che 25 miliardi di imposte sacrosantamente ogni anno versati nelle casse statali e locali da un reddito nazionale totale che solo qualche statistico dotato di gran buon cuore estimativo osa spingere sino a 120 miliardi. Tra i fantasmi, di cui «in parte» si compongono quei 25 miliardi, e senza i quali quei 25 miliardi non potrebbero sul serio essere pagati, il più impalpabile di tutti è il fantasma dell’imposta sugli impiegati, mero giro contabile, sotto cui non sta alcuna sostanza.

 

 

Taluno, forse, paventa la tracotanza dell’impiegato fatto immune dal tributo? Dicesi che in qualche paese forestiero la superbia propria dei pochi che, tardi di intelletto ed investiti di una minima particella del potere di coazione, tiranneggiano il pubblico dietro uno sportello ufficiale, sia stata cresciuta dall’immunità tributaria. A me sembra di non dover temere, per tal motivo, incremento di superbia. I più tra gli impiegati ben sanno che il loro ufficio sta nel rendere servizio e non nel recar noia al pubblico; e sui pochi tonti potrà più la preoccupazione di perdere l’immunità, la quale è privilegio, che non il desiderio di menarne vanto, che potrebbe offendere e provocare l’abolizione del privilegio.

 

 

14. Io non so se l’imposta gravi su qualcuno, impiegato o non impiegato. L’idea che l’imposta sia un qualcosa che gravi su qualcuno è un sottilissimo inganno da cui gli uomini sono presi e che li spinge ad assaltarsi l’un l’altro con gran rabbia. In attesa di analizzare (nel capitolo ottavo) le fila di cui l’inganno è tessuto per tutti, sciogliamo uno dei suoi groppi più aggrovigliati, abolendo l’imposta sugli impiegati e rendendo a questi la serenità. Ridotti gli stipendi da 100 lordi a 90 netti,[1] gli impiegati, guardandosi attorno si persuaderebbero facilmente che le loro remunerazioni sono superiori alla media delle remunerazioni private[2] per lavori di ugual pregio e non persevererebbero nell’accanimento di universali immaginarie presunzioni di frode verso i contribuenti. Chi fosse o fosse reputato in condizione di privilegio, anche se il privilegio fosse voluto dall’interesse dello stato, non oserebbe moralmente gridare contro i non privilegiati. Colui che fosse immune da imposta non avrebbe veste per accusare altrui di frode. La equità o perequazione fra i paganti potrebbe essere così meglio osservata, senza interferenze emotive perturbatrici da parte di chi, non pagando, oggi immagina stravagantemente di essere solo a pagare.

 

 

15. Il fantasma dell’imposta sugli stipendi degli impiegati interessa forse più degli altri perché intorbida l’intelletto e l’animo di uomini vivi, esagitandoli contro altri uomini vivi. In altri casi, l’evidenza del fantasma è così chiara, che gli uomini incontrandosi dovrebbero al più ammiccar tra loro come auguri, sorridendo. Eppure il fantasma, se è d’imposta, ha la virtù di esasperare sempre, sovratutto se a torto. A volta a volta, i proprietari di terre, di case, di valori mobiliari montano in furia a cagion del peso d’imposta che li grava. Può darsi che il balzello li schiacci davvero; ma non è raro il caso che esso sia un mero ricordo di cose che furono ed oggi non toccano più gli uomini viventi. Tizio ereditò un fondo rustico, quando fruttava nette 5000 lire, gravate da 1000 lire d’imposta. Nella sua testa e nell’apprezzamento del mercato, il reddito netto non fu mai diverso da 4000 lire nette ed, al saggio di interesse del 5%, il capitale corrispondente non fu mai diverso da 80000 lire. Quand’egli, da rustico fattosi cittadino, si decise a vendere la terra e riscosse il prezzo di 80000 lire, Tizio non pensò ad imposte. Egli ed intorno a lui il mercato, composto di mezzani faccendieri e di aspiranti compratori, contrattarono il prezzo capitale in 80000 lire sulla base del reddito netto di 4000 lire annue. Gli doleva che il padre gli avesse tramandato il fondo gravato di un onere da imposta di 1000 lire annue? Certamente sì; ma non più di quanto gli dolesse che il fondo, in conformità ai sapienti disegni della divina provvidenza, non avesse l’abitudine di ararsi seminarsi curarsi mietersi o vendemmiarsi da sé, sicché convenisse abbandonare al mezzadro la metà del prodotto. Il rincrescimento per queste ed altre disavventure le quali riducevano il reddito del fondo dalle 12000 lorde alle 4000 nette era alquanto attutito dal trascorrere del tempo e dalla lunga consuetudine delle generazioni che avevano assuefatto gli uomini a considerare la vicenda come rispondente all’ordine naturale delle cose. Forse, se, durante il tempo del suo possesso, per il crescere delle imposte da 500 a 1000 lire e l’incremento delle spese di coltivazione da 6000 a 7000 lire, il reddito netto si fosse ridotto da 5500 alle odierne 4000 lire, egli avrebbe sentito più vivace il dolore della perdita recente delle ultime 1500 lire. L’accaduto non poteva, tuttavia, essere posto nel nulla: non gli incrementi di imposta e non le «conquiste» dei coloni. A che pro indugiarsi nei rimpianti del: se non esistesse l’imposta, se i coloni non fossero montati in superbia, se non fosse giunto il flagello della peronospora o della fillossera, se quinci e se quindi, io avrei 8000 o 10000 o 20000 lire di reddito, invece di 4000!? Di fatto son 4000 annue e nulla più, uguali ad un valore capitale attuale di 80000 lire. Tizio, che dalla campagna è andato in città con le 80000 lire da investire, continua a pagare od a sentire l’effetto delle 250 lire di imposta ché pagava suo nonno, delle 250 lire in più che pagò il padre suo e delle 500 lire che si aggiunsero durante la sua vita rustica? Sì o no; ma non più di quanto egli senta e racconti ai figli suoi i ricordi delle tante altre cose belle che allietavano gli antichi in confronto delle tante brutte che angustiano gli sventurati viventi. Continua egli a pagare o a sentire il pagamento delle 20000 lire di capitale che egli avrebbe in più se sulla terra venduta non avesse gravato il sedimento stratificato delle 1000 lire annue di imposta?

 

 

16. L’erario pubblico incassa dunque le 1000 lire; ma è dubbio se qualcuno vi sia al mondo che senta il dolore del pagamento. L’imposta, per il rustico che se ne va in città, è diventata un’ombra, un fantasma, un rimpianto, l’occasione di racconti che si farebbero, se in città vi fossero ancora inverni e focolari, nelle serate d’inverno accanto alla fiamma del focolare, ai figli ansiosi di sapere come era fatto il mondo nella campagna dove vivevano gli avi. Al rustico succeduto nel possesso del fondo quelle 1000 lire di imposta che egli pagherà ogni anno recano un mero affanno di ostentazione. Egli ha pagato il fondo 80000 lire in relazione alle 4000 lire di reddito netto presunto. Se l’imposta non fosse esistita, egli avrebbe pagato 20000 lire in più, in rapporto alle 1000 lire di maggior reddito; così come avrebbe pagato altre 100000 o 200000 lire in aggiunta se, invece di acquistare il fondo in questa trista terra dove vivono mezzadri ed altre fonti di spesa, egli l’avesse fatto suo nel paese di Bengodi, dove il latte scorre nel letto dei fiumi, le fonti dan vino e dagli alberi pendono salsicce cotte. Nel qual regno di Bengodi, del resto, nessuno probabilmente ti pagherebbe nulla per aver terra. Egli non ha ragione di querelarsi delle imposte, più che degli altri flagelli di dio ai quali è abituato e di cui ha tenuto conto nel contrattare il prezzo d’acquisto. Forse col tempo, poiché il rustico è invincibilmente querulo ed a tratti perde la memoria, accadrà che egli si scordi di avere contrattato il fondo al prezzo di 80000 lire ad occhi bene aperti, dopo considerata ogni cosa, e ricominci a dolersi delle 1000 lire di imposta. Dapprima non oserà manifestare il dispiacere, poiché sa che tutti nel vicinato conoscono il prezzo da lui pagato e gli chiederebbero: «Forseché le 4000 lire non ti bastano sul capitale di 80000 lire da te spese?; col pretendere di tenere per te le 1000 lire dovute allo stato non chiedi l’altrui?» Col passar del tempo, accompagnati all’ultima dimora gli ultimi non immemori amici, le lagnanze prenderanno corpo; e, quando morirà, i figli saranno fatti persuasi, dal ricordo delle sue querele, che essi e non altri pagano le 1000 lire di imposta, le quali invece son roba dello stato, non foss’altro perché i proprietari attuali non ne hanno pagato il prezzo.

 

 

17. A porla dal verso dell’inurbato, punge la fitta del pensiero che, se quelle tali imposte non fossero esistite ed egli avesse potuto inurbarsi con 100000 lire in tasca invece di 80000 egli avrebbe potuto acquistare un appartamento del valore di 100000 invece che di 80000 e sarebbe stato lieto di pagare 100000 lire per la stessa ragione per la quale egli avrebbe potuto vendere il fondo a 100000 lire, ossia per l’assenza dell’imposta di 1000 lire all’anno che oggi gli riduce il reddito netto dell’appartamento da 5000 a 4000 lire? Quanti e se! Dimostrano, tutti questi e e se, che le 1000 lire d’imposta sulla terra venduta o sulla casa acquistata sono lire di un genere assai singolare. L’inurbato, se avesse preferito allogarsi in casa altrui, avrebbe dovuto pagare un canone di fitto di 6000 lire all’anno, ché a tal prezzo corrono gli appartamenti del tipo da lui preferito. Se acquista, egli deve rinunciare al reddito di 4000 lire che avrebbe potuto ottenere dall’impiego della somma posseduta, pagare 1000 lire di imposta all’erario e 1000 lire in ragione delle spese di gestione del fabbricato posseduto in condominio.

 

 

Forseché il pagamento dell’imposta di 1000 lire gli arreca dolore? Non certo a causa di un minor reddito del suo capitale; ché nessun altro impiego gli avrebbe dato più di 4000 lire. Non a cagion di un costo troppo alto dell’appartamento; ché il valore corrente del canone sul mercato è 6000 lire ed egli non paga più di tanto. Egli si può lamentare dell’imposta in astratto; potendo darsi che, se imposte non esistessero al mondo, gli appartamenti di quella fatta correrebbero forse sul mercato per 5000 anziché per 6000 lire all’anno; ma correrebbero per 4000 se, in aggiunta, non esistessero spese di condominio e per 3200 se, ancora, il saggio di interesse fosse del 4 anziché del 5%. Cosicché, di nuovo, l’imposta per Tizio, rustico inurbato, si riduce ad un generico rimpianto di non essere venuto al mondo nell’epoca del paradiso terrestre. Dallo stato di umbratile rimpianto l’imposta riacquista corpo a mano a mano che, invecchiando, egli perde la memoria dello stato di piena soddisfazione in cui egli visse quando investì le 80000 in un appartamento fruttifero di un canone lordo di fitto di 6000 e di un reddito netto di 4000 lire. La perdita della memoria economica è talvolta affrettata dal sopravvenire di tempi nuovi nei quali egli avrebbe potuto investire, se li avesse avuti liberi, i suoi denari al 6 od al 7%; e, non amando gli uomini analizzare i fatti spiacevoli, il nostro uomo, per inerzia mentale, trovò comodo dar colpa alla imposta del reddito decurtato da 5000 a 4000 lire. La leggenda o confusione mentale trapassando nei figli, questi si fanno agevolmente persuasi di soffrire solo perché non hanno diritto di trattenersi le 1000 lire, che il loro autore non acquistò mai, perché non ne pagò mai il prezzo. Può dirsi imposta o peso o gravame sostanziale una persuasione fatta di immaginari ricordi e di confusioni di calcolo?

 

 

18. Prendiamo nota del fatto: esiste un vasto campo nel quale l’imposta è ombra, fantasma irritante per chi in apparenza la paga, sa che essa è da lui pagata senza danno e frattanto si irrita di non potersela appropriare mentre passa per le sue mani. Curioso dolore quello di non potersi appropriare la roba d’altri; e siffatto da mettere in una luce insospettata il dolore che gli uomini affermano di sentire quando pagano imposte venerande come quelle sui terreni e sulle case o moderne come quelle sugli interessi e dividendi dei titoli pubblici e privati. Chi paga l’imposta quando non si conosce nessun uomo vivo che ne sia danneggiato ed un calcolo edonimetrico per uomini morti appare alquanto più difficile di quelli che con tanto scarso successo si istituiscono intorno agli uomini vivi?

 

 



[1] O ad 84 od 83 per eliminare l’altro fantasma, che non interessa il nostro problema, della ritenuta del tesoro per il servizio delle pensioni e dei sussidi di quiescenza o morte. Anche questo è un fantasma contabile, il quale cresce, senza costrutto, le cifre dei nostri bilanci.

[2] Perché nessuno statistico ha tentato di fare un calcolo, anche approssimativo, del modo in cui il totale reddito nazionale (ad ipotesi, 120 miliardi di lire annue) si distribuisce fra questi italiani, i quali traggono redditi dai bilanci pubblici e gli altri che li traggono dai bilanci privati? Il calcolo sarebbe certo spaventevolmente intricato; ma anche grandemente istruttivo. Uno scandaglio compiuto, anni or sono, da Maffeo Pantaleoni (La curva dei redditi degli impiegati dello stato, in «L’Economista», Firenze, 18 gennaio 1914) conforterebbe l’impressione di chi scrive essere il quoziente medio spettante a chi vive sui bilanci pubblici superiore al quoziente spettante a chi trae i proprii redditi da fonti private. L’impressione o voce corrente è notoriamente diversa; ma non sarebbe la prima volta che la voce pubblica è difforme dalla realtà.

Introduzione – Miti e paradossi della giustizia tributaria

Introduzione

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 10-20

 

 

 

 

Sono stato a lungo incerto intorno al titolo che più appropriatamente avrei dovuto dare a questo saggio. Non sarebbe stato del tutto malvagio un titolo che dicesse: In difesa dello stato contro i dottrinari; ché invero in tutto il mondo conosciuto la confraternita dei dottrinari sta diventando il pericolo «numero uno» per la pubblica finanza. Gli amministratori pubblici, coloro i quali, ministri delle finanze o direttori dei grandi servigi fiscali, governano la finanza degli stati contemporanei, debbono difendere accanitamente i sistemi vigenti, che bene o male funzionano e gittano miliardi, contro la mania riformatrice dei dottrinari che, andando in cerca della giustizia e non contenti della giustizia semplice grossa, che è la sola concretamente possibile, vogliono la giustizia perfetta, che è complicata e distrugge dieci per incassare uno.

 

 

I dottrinari sono quella certa gente la quale continuamente perlustra le leggi correnti nei paesi forestieri per segnalare al governo del proprio paese le imposte nuove, non conosciute in patria e, reputando sorpassato quel che è paesano ed antico, hanno sempre in bocca l’oltremontano ed il moderno. Rispetto assai la legislazione comparata, a condizione che chi se ne fa paladino conosca la legge nazionale, sappia le vicende e le ragioni della sua formazione e sia curioso della norma forestiera sovratutto e per lo più soltanto per riuscire a conoscere perché quella norma è adatta al paese in cui nacque e richiederebbe invece modificazioni profonde se la si volesse introdurre nel nostro. Il dottrinario è colui che, appena scorge un istituto, il quale gli paia buono, scritto nelle leggi russe o neozelandesi o peruviane, subito freme: osiamo noi rimanere indietro sulla via del progresso fiscale in confronto a popoli venuti al mondo tanto tempo dopo di noi? Il dottrinario legge in un libro qualunque o immagina egli stesso una scala nuova delle aliquote dell’imposta sul reddito, che gli par più bella e più razionale di quella vigente, meglio suffragata da una lunga dimostrazione in simboli algebrici ed illico pretenderebbe che il ministro delle finanze la facesse sua.

 

 

I dottrinari sono una delle sette piaghe d’Egitto ed, in punto di perniciosità pubblica, vengono dopo soltanto a quell’altra pestilenza detta in lingua italiana dei «periti» e più conosciuta nel linguaggio internazionale ginevrino sotto il nome di «esperti». Dottrinari e periti sono congiunti strettissimi, perché afflitti dal medesimo vizio mentale, che è la convinzione di essere chiamati da dio a risolvere «problemi»: il problema dell’imposta sul reddito o quello dell’imposta sui redditi o incrementi o guadagni di fortuna (conosciuti nel solito barbaro linguaggio moderno sotto il nome di guadagni di congiuntura o incrementi o redditi non guadagnati), il problema dell’oro, quello delle materie prime, o della svendita del vino francese o della seta italiana o del cotone e dei porci nord – americani. Per ogni qualsiasi problema, dottrinari e periti hanno pronto un infallibile rimedio. Il quale è, necessariamente, un impiastro su gamba di legno; ché non esistono «problemi», ma un problema solo, ad aspetti cangianti e numerosi, nessuno dei quali può essere mutato senza che tutti gli altri aspetti del mondo economico e sociale mutino in senso che, se è forse prevedibile al ragionamento, è offensivo alla «sapienza» del dottrinario ed alla «perizia» dell’esperto. Il dottrinario, avendo accarezzato col pensiero la sua bella imposta nuova, la quale «deve» colpire tale e tanta materia imponibile sinora sfuggita al dovere tributario, la deve colpire a tot per cento, ben graduato da tot coll’indice uno a tot coll’indice dieci, e «deve» fruttare mezzo miliardo, si indigna nel vedere che il nuovo giocattolo rende solo cento milioni, o, se frutta il previsto, un’altra vecchia imposta frutta seicento milioni di meno. I dati e calcoli non sono forse precisi ed inoppugnabili? Può darsi. Il sapiente uomo si era dimenticato soltanto che l’uomo contribuente è uno e che se può in complesso pagare100 non si può indurlo a pagare 120 con il pretesto che il 20 di più dovrebbe essere soluto con un’imposta dal nome nuovissimo.

 

 

Non ho scelto tuttavia di parlar male nel titolo dei dottrinari per non far supporre che volessi dir male dei professori. Se nella nostra confraternita si è talvolta intrufolato qualche dottrinario, fa d’uopo rivendicarci perlomeno un merito: quello di essere accessibili al dubbio. Anche se fummo, in un qualche momento della vita, sicuri di noi, anche se per un istante abbiamo formulato un nostro progetto, piccolo o grosso, di riforma tributaria, abbiamo poi finito per dubitare. Non si fa impunemente lezione e non si scrivono indarno libri e articoli. Giunge il momento in che quella la quale ci era parsa dapprima verità indiscutibile chiara intuitiva assume un contorno sfumato. L’interrogazione che si legge negli occhi dello studente non persuaso, la difficoltà improvvisa di mettere in carta il pensiero che avevamo esposto dinanzi con piena fiducia pongono nel nostro spirito il germe del dubbio. Il ripensare che facciamo intorno ai teoremi che ieri ci erano parsi veri ci insegna la modestia e ci persuade a non dar consigli a ministri, a direttori generali ossia a gente che, se anche ieri non sapeva niente delle cose al cui governo è stata preposta, oggi è costretta a tener conto della tradizione ricevuta dal passato, codificata nella norma di legge, divenuta azione viva nella pratica quotidiana amministrativa, ed insieme delle esigenze concrete della realtà, che gli studiosi non possono scoprire od inventar da sé. Divenuti modesti, i professori conoscono di aver un solo privilegio in confronto degli amministratori della cosa pubblica: il disinteresse intellettuale, che mette in grado di applicare lo strumento della logica, che essi forse coll’uso hanno raffinato, alla critica degli ordinamenti esistenti e di quelli che si offrono a sostituirli, per raggiungere tale o tale altro fine.

 

 

Poiché, col trascorrere degli anni, mi parve che l’uso di quello strumento mi conducesse ad attribuire un pregio singolare, sempre più alto, agli istituti fondamentali del sistema tributario italiano, ho pensato anche per un momento di dare al libro il titolo: In difesa o in lode della tradizione italiana. Ed in verità nel penultimo capitolo ricordo le memorande parole che Carlo Cattaneo, economista e patriota, scrisse nell’epoca del risorgimento in lode dei principii tributari che taluni grandi economisti italiani esposero a mezzo il settecento e che anche oggi ritengo superiori ai principii a torto umilmente ricevuti da una dottrina adorna di paludamenti cosiddetti scientifici. Finii per non accogliere quel titolo sia perché a quella lode ho consacrato soltanto le poche pagine di un capitolo, sia perché non intendo attrupparmi nella folla di coloro che nei paesi più diversi attendono alla inelegante fatica di rivendicare primati nazionalistici, come se la verità conoscesse confini territoriali e non fosse il frutto della collaborazione degli spiriti liberi di ogni tempo e luogo. Il titolo mi parve, inoltre, non accettabile, perché avrebbe fatto supporre che il libro volesse, commettendo il peccato medesimo di problemismo e di progettismo rimproverato ai dottrinari, presentare qualche soluzione concreta a problemi particolari, laddove invece esso intende dimostrare il vuoto, la illogicità, l’equivoco che si annidano in principii accettati, in frasi correnti, in dimostrazioni od affermazioni tramandate da un libro all’altro per inerzia mentale, per ossequio non ragionato a sentimenti a miti ad ombre pallide di cose che mai non furono o sono oggi morte.

 

 

La finanza cosiddetta moderna, la finanza, per intenderci, dell’imposta generale progressiva sul reddito totale o globale o complessivo, la finanza dell’imposta successoria pure progressiva a norma della fortuna del defunto o degli eredi o della quota ereditaria, la finanza alla quale i dottrinari del mondo universo vorrebbero far inchinare tutti gli istituti tributari, anche quelli che più vi ripugnano, è fondata, ricordiamolo, sul principio della massima felicitazione del massimo numero possibile degli uomini componenti la collettività. Se essa non si richiama a quel principio, resta senza capo. C’è un balbettio, ci sono parole sconnesse, si odono mozioni di affetto. Manca il ragionamento. Dal capo non si va alla coda. Anzi non c’è né capo né coda.

 

 

Orbene, havvi una verità sicura; ed è che al principio utilitario è impossibile assegnare oggi, in argomento di imposta, un significato(vedi il capitolo sesto). Un manipolo di dotti cerca da anni di scoprirlo. Ammiro quegli sforzi e li dichiaro degni di uomini veramente dotti. Ma non ammiro nient’affatto i dottrinari che si affrettano, innanzi che il significato sia scoperto, a sbandierare a destra ed a sinistra il sommo principio utilitario, a cavarne comandamenti precisi di fabbricare il sistema tributario così o cosà e ad insolentire tutti coloro che non si affrettano a buttare a mare le vecchie imposte per adottare quelle nuovissime fondate su parole che sinora sono il nulla assoluto.

 

 

Quando sapremo che cosa il sommo principio utilitario vuol dire, ragioneremo e dedurremo. Per ora, credo lecito insolentire a mia volta i dottrinari suoi adepti. Nel libro le insolenze contro i dottrinari, distinti nelle due categorie dei giustizieri (utilitaristi consapevoli o non) e degli aritmetici non sono poche. E sono volute e ripetute. Non ho trovato mezzo migliore per rifare il verso ai pappagalli, i quali ripetono le consuete frasi fatte, senza curarsi di analizzarne il significato, anzi senza chiedere a se stessi se le parole che essi ritualmente pronunciano abbiano un senso qualsiasi. Allo scopo di mettermi nello stato di grazia antidottrinaristica, ho chiuso, mentre scrivevo ed anzi qualche tempo innanzi di mettermi a scrivere, tutti i libri della scienza finanziaria, interdicendomi di consultarli per citazioni e riferimenti, eccetto quando intendevo ricordare qualche nome a titolo d’onore. Il dottrinario da me insolentito non è perciò nessuno in modo particolare; è un composito da me fabbricato ad arte dell’uomo colpevole di tutte quelle che a me paiono perversioni intellettuali nel campo della finanza. Non appartiene all’Italia più che alla Francia od all’Inghilterra o alla Germania. È il cittadino del mondo, il quale talvolta ha letto troppo ed ha letto male, talaltra non ha letto nulla ed espone le idee che gli sono venute in mente per rigenerare l’umanità fiscale; è un composito di professore, di uomo della strada, di riformatore, di demagogo; è colui che non ha pace se non fa scendere la giustizia sulla nostra miserabile terra afflitta da tante imposte antiquate fruste sperequate; è l’incudine, innocente nella sua ingenua aspirazione verso il perfezionamento universale, sulla quale è piacevole battere col martello della critica.

 

 

La fabbricazione del fantoccio dottrinario oggetto delle premeditate insolenze del libro non è in verità impresa difficile. Basta guardare in fondo alla nostra coscienza. Chi non si è sentito talvolta un impulso irresistibile a rompere la testa all’avversario per avere pronta ragione in una disputa? I freni mentali che l’abitudine del discutere ha educato in ogni studioso spengono subito la fiammata intollerante. Chi non si è sentito dottrinario in qualche momento della vita? Chi non ha formulato un bel progetto per risolvere questo o quel problema urgente?[1] Di nuovo, il freno della critica, lentamente perfezionato, consiglia a dubitare, a riflettere alle ripercussioni del rimedio proposto; ed il progetto sfuma od assume altra forma.

 

 

La tentazione che ci spinge al dottrinarismo talvolta è fortissima. Nella realtà della vita spesso la scelta non è fra il bene ed il male; ma fra il male maggiore ed il male minore. Quando lo studioso ha superato la prima ripugnanza verso il male minore, egli scivola irresistibilmente lungo la china del dottrinarismo puro. Lo studioso, il quale si persuade che, se un dato congegno, in sé cattivo, non approdi, altri congegni peggiori saranno escogitati ed attuati, finisce per dare opera zelantissima alla costruzione di quell’istituto che, nel profondo della sua coscienza, non può approvare.

 

 

Bisogna riconoscere che, nonostante la umana assoluzione dei più, siamo qui di fronte ad un caso di trahison des clercs. Lavorare su premesse altrui, per allontanare il male maggiore, può essere, anzi è, doveroso per l’uomo politico; è illecito per il chierico della scienza. L’uomo politico ha la responsabilità dell’operare che è sempre una scelta fra parecchie soluzioni, una risultante di molti fattori. Il chierico ha la responsabilità del pensare e deve unicamente pensare la verità. All’uomo politico spetta attuare o non le conclusioni del ragionamento. Il chierico assolverà il politico anche se questi, tenuto conto di contingenze di fatto, di contrasti tra forze opposte, non ha attuato in tutto il vero. Ma, chierico, egli deve assolvere esclusivamente all’ufficio suo che è di pensare rettamente, nei limiti delle sue forze intellettuali, ed esporre i risultati genuini della sua meditazione.

 

 

Al chierico – e per chierico intendo colui il quale ha assunto, senza che da nessuno fosse costretto, il compito di addottrinare altrui colla parola o collo scritto – non è lecito esporre verità condizionata, subordinata ad un dato punto di vista. Non è lecito discorrere di imposta straordinaria patrimoniale, partendo dalla premessa che la sua istituzione debba considerarsi un postulato dell’indagine, perché il governo del tempo, ad esempio quello del 1920-21, l’aveva dichiarata necessaria. Per il chierico non esiste nessuna premessa necessaria, né questa né l’opposta del ministro italiano del 1924, che nell’aula del Senato dichiarò «stupidissima» quell’imposta. L’abolizione dei titoli al portatore, proposta in Italia nel 1920 o l’obbligo del libretto delle cedole (carnet des coupons) messo innanzi in Francia, ambi per evitare le evasioni dei titoli al portatore, non sono premesse necessarie per il chierico della scienza. Il «punto di vista» che altrimenti si dice «opportunità o necessità politica del momento» non esiste per il chierico. Non già perché non sia fattore importantissimo di avvenimenti e perciò degnissimo di studio, ma perché esso, così formulato, non si sa che cosa sia. O noi siamo in grado di dare al punto di vista, alla ragion politica, alla conformità al regime vigente in un paese un contenuto preciso, siamo cioè capaci di elencare con parole precise i fini che si vogliono raggiungere con una data imposta, per esempio quella straordinaria patrimoniale e descrivere la struttura che a questa si vuol dare, ed il chierico potrà in primo luogo studiare se quel fine o quei fini si possano raggiungere e, se possibili, siano desiderabili e per quali persone, gruppi di persone o ceti sociali siano desiderabili; in seguito indagare se lo strumento scelto  (imposta) si possa creare e, se costrutto nei varii modi possibili, esso sia mezzo adatto od il più adatto a raggiungere il fine od i fini voluti; e finalmente ricercare quali risultati coincidenti o contradditori col fine postulato sia probabile derivino dalla sua attuazione. O noi non siamo in grado di così definire e precisare mezzi e fini e ci limitiamo ad affermare che la coscienza popolare, le correnti politiche ed ideali dominanti, i tempi nuovi o moderni, il sistema politico vigente vogliono quel mezzo e quei fini; e dinnanzi all’atto di fede il chierico si inchina e si ritira. Egli ha qualcosa da dire dinnanzi al tribunale della ragione; deve tacere dinnanzi al comandamento imposto dalla fede.

 

 

Il politico non ha interesse a chiedere la collaborazione dei chierici se non entro i limiti logici proprii del loro ufficio di studiosi. A lui non servono i ripetitori, sibbene giovano moltissimo critici, i quali, senza giudicarle, chiariscono, definiscono, riducono al nucleo essenziale le premesse che i politici pongono alla propria azione e ragionano logicamente intorno alle illazioni che se ne possono trarre ed ai risultati che ne possono derivare. Al politico il quale agisce giova la collaborazione dello studioso il quale constata le diverse vie che si possono seguire per raggiungere un fine (ad esempio imposta a od imposta b o c ecc.), ne esamina il diverso contenuto e tenta di prevederne i differenti risultati. Questa collaborazione serve al politico il quale ha differenti fini dinnanzi agli occhi e desidera conoscere i risultati probabili dei diversi mezzi all’uopo a lui offerti. Non giova invece la collaborazione offerta dal dottrinario il quale all’imposta a dà il nomignolo di liberale o reazionaria o democratica o socialistica o corporativa e senz’altro la condanna o la esalta a seconda del nomignolo appiccicato. Questa è pura confusione di lingue. L’imposta a è l’imposta a e nient’altro. Essa produrrà effetti non in funzione dell’aggettivo o nomignolo con cui ci compiacciamo di qualificarla, ma esclusivamente in ragione di quella che è la sua materia imponibile (reddito dei terreni o dei fabbricati o reddito totale definito così e così o unità di peso di zucchero o di frumento od unità in numero di sigarette e simili), di quelli che sono i contribuenti soggetti dell’imposta (persone fisiche o persone giuridiche o tutte due insieme o negozianti importatori o industriali fabbricanti), di quella che è la misura e la scala della sua quantità (tariffa o aliquota costante o variabile e come variabile), di quelli che sono i metodi di accertamento (per dichiarazione, con giuramento, per valutazione d’ufficio individua o per classi ecc.). Se si conoscono questi ed altri connotati precisi si può compiere l’esame critico dell’imposta offerta all’uomo politico. Se no, il chierico non ha niente da dire; e può tranquillamente abbandonare il campo alla boria ariosa e sufficiente del dottrinario.

 

 

La differenza fra il dottrinario e lo studioso puro e semplice è notissima nelle scienze da tempo costituite, le quali sono riuscite ad esporre postulati e teoremi sicuri; è bastevolmente nota nella scienza economica, la quale vanta circa due secoli di esistenza; è ancora contestata nella scienza finanziaria, che pure risale, come raccolta di notizie e di regole, più indietro nel tempo della sua maggior consorella. Nella nostra scienza non si seppe ancora uscire fuor del campo delle regole, dei consigli, dei servizi resi ai governanti. Essa è tuttora il territorio di caccia preferito dal dottrinario, il quale è fecondissimo e felicissimo in partorir progetti consigli regole. Finché rimanga a coltivar scienza finanziaria chi è persuaso che le premesse del discorso siano norme che il ricercatore deve, senza discutere, accettare dal politico, la scienza non può essere elaborata e da essa il politico non può ricavare alcun costrutto. I consigli utili, le regole feconde possono esclusivamente essere date dallo studioso il quale non si propone di dare alcun consiglio e di suggerire alcuna regola. La scienza non ha e non può avere fini pratici. Appena essa tenta di proporseli, isterilisce. Lo studioso è un venturiero, il quale va alla ricerca della verità. La premessa, il punto di vista, l’ideale sono per lui meri strumenti provvisori di lavoro. Se, adoperando uno di quegli strumenti, egli riesce a ricavarne illazioni importanti, continua a servirsene. Se no, lo butta via e ricorre ad un altro strumento, per saggiarne la qualità e la fecondità. Nessun principio tributario è sacro ed inviolabile dinanzi al tribunale della ragione. Tutti sono chiamati a dar ragione di sé e, se trovati calanti, restituiti al nulla dal quale provengono.

 

 

Tre quarti del saggio sono destinati a misurare e trovar calanti certi solenni cosidetti principii di giustizia tributaria. Per lo più codesti principii sono meri sofismi. Frequentissimo è il sofisma dello scambio fra mezzo e fine.

 

 

Si voglia tassare un gruppo di contribuenti con un’imposta sul reddito ad aliquota variabile crescente dal minimo dell’1% al massimo del 10%. Questo è il fine da raggiungere.

 

 

I mezzi adottati per raggiungere il fine possono essere diversi. Il primo, che si dice dell’imposta progressiva sul reddito globale del contribuente, chiama a raccolta i contribuenti stessi e li invita a dichiarare, prima negli addendi singoli e poi nel totale, il loro reddito. Si scopre ben presto o si crede di scoprire che parecchi o molti contribuenti non dichiarano tutti gli addendi ed in particolare modo tacciono del reddito ricavato dai titoli al portatore. Il dottrinario giustiziere si indigna e, con minaccia di severe sanzioni, escogita norme severissime: obbligo di giuramento, schedario nazionale, investigazioni di polizia, divieto alle banche e casse di pagamento delle cedole di interessi e dividendi a chi non si presenti munito di libretto da ostendersi agli uffici delle imposte.

 

 

Vi ha un secondo metodo, che talun osservatore o studioso non afflitto da satiriasi tributaria si ostina a reputare meno fastidioso per il contribuente e più redditizio per lo stato. Vi ha chi crede vantaggioso tenere i titoli nella forma al portatore? Li tenga e si vada con dio, assolto da ogni obbligo di dichiararli agli effetti dell’imposta complementare progressiva sul reddito globale ecc. ecc. Ma stato province comuni società ed ogni altro ente il quale abbia emesso titoli al portatore, trattengano all’atto del pagamento degli interessi e dividendi un’imposta surrogatoria alla sullodata sul reddito complessivo ecc. ecc. in misura uguale al massimo dell’aliquota: 10%. Anzi, a controbilanciare il danno eventuale che l’erario potrebbe soffrire per i pochissimi posti nei gradi più alti, i quali dovrebbero, se denunciassero tutto il reddito, pagare, a cagion d’esempio, il 10% ed invece, col denunciare soltanto parte, cadono, anche per la parte del reddito non proveniente da titoli al portatore, in classi soggette all’aliquota inferiore dell’8% e riescono forse a non pagare o a non far pagare ai loro figli od eredi certe minori imposte, pure personali, come l’imposta sui celibi e quella di successione, le cedole siano colpite da una trattenuta del 15%.

 

 

Niun dubbio che il secondo sistema è vantaggioso a tutti: all’erario, il quale riscuote certissimamente su tutti i titoli al portatore, senza la minimissima possibilità di frode, il 15%, ossia più del massimo che riscuoterebbe da taluni pochissimi contribuenti; ed ai contribuenti i quali, in compenso del più cospicuo, astrattamente indebito, tributo assolto, hanno il vantaggio di possedere il titolo nella forma al portatore, preferita per la comodità di vendere, di far denari con riporti ed anticipazioni e per il vantaggio di non far sapere alla moglie, ai figli, ai parenti, ai curiosi i fatti proprii. Mai no! inorridisce il giustiziere tributario. Scopo di un buon ordinamento tributario non è di far pagare le imposte col massimo rendimento per lo stato e col minimo fastidio dei contribuenti. Una imposta non è «moderna», non sente i tempi nuovi alla moda mondiale, se non è congegnata in maniera da far riempire al contribuente grandi moduli, da fargli correre ad ogni momento il rischio di pagare qualche multa, da rendergli infelice la vita con minuti fastidi e con la privazione delle comodità che egli si è procurato attraverso a lunga esperienza e che non fanno male a nessuno. Tra l’esigere 15 senza noie, con una mera trattenuta, senza entrare nei segreti della vita di nessuno, e l’esigere 5 e forse meno a prezzo di fastidi indicibili, la scelta non è dubbia. Il giustiziere dottrinario preferisce il 5. Scopo dell’imposta non è di procacciar fondi all’erario, bensì di recar noia al contribuente. Se questi offre 15 pur di essere lasciato tranquillo, gatta ci cova. Perché costui non vuol farti sapere i fatti suoi, tutti i fatti suoi? Certo, ragiona il giustiziere fronte popolare francese, costui appartiene alle 200 famiglie che ieri erano annidate nella Banca di Francia ed oggi cospirano al discredito dello stato ed alla rovina del franco.

 

 

Dinanzi a codesti energumeni della giustizia tributaria, i legislatori e gli studiosi hanno talvolta la debolezza di compiere qualche rituale genuflessione. Pure tenendosi fermi al 10 al 15 sicuro, l’uomo di governo sente talvolta il bisogno di dire: «La teoria vorrebbe …, la giustizia esigerebbe… che tutti i contribuenti fossero obbligati sotto pena di multe gravissime – talun ossessionato socialista o comunista è disposto ad andare sino al carcere ed alla fucilazione – a pagare il dovuto 5% dopo veridica dichiarazione, anche del reddito dei titoli al portatore. Per semplicità, dati i bisogni dell’erario, ci contentiamo di far pagare il 15% senza dichiarazione, intercettando l’imposta all’origine, prima che il reddito raggiunga il contribuente. Chiediamo umile venia per tanto delitto, che, appena i tempi volgeranno tranquilli, cercheremo di non più commettere».

 

 

È necessario dire chiaramente che la scienza la teoria la giustizia non richieggono nulla di quanto pretendono i dottrinari? Gli uomini di governo facciano tranquillamente gli sberleffi a codeste scienza teoria giustizia piene di vento. Nessuna scienza, nessuna teoria e nessuna giustizia comandano di compiere atti senza senso. Alla geenna, i dottrinari che si innamorano di una imposta, la complicano, la perfezionano, la sfaccettano, la cesellano e finiscono a persuadersi che sia scienza quella certa cosa che serve a creare gingilli fragilissimi invece che a semplificare strumenti concreti di tassazione. Alla geenna, i dottrinari i quali costruiscono od accettano dai contabili una definizione del reddito la quale ha significato meramente aritmetico e su questa base, di cui non si conosce (vedi il capitolo settimo) il contenuto sostanziale, additano al disprezzo pubblico i frodatori dell’imposta; laddove basterebbe mutare la definizione del reddito, perché i pretesi frodatori diventassero cittadini ossequentissimi alla legge. Il quesito vero posto all’uomo politico è: le definizioni a quale scopo sono create? Intendono essi a moltiplicare il numero dei frodatori, a creare occasioni e stimoli a malfare, ovvero ad eliminare attriti, conducendo gli uomini a pagare volenterosamente quel che devono pagare? Poiché il legislatore è arbitro di scegliere la definizione che a lui meglio piaccia, poiché nessuna legge umana o divina gli comanda di seguire l’una via piuttosto che l’altra, poiché dinanzi al tribunale della ragione l’una definizione val l’altra ed anzi la definizione aritmetica (cfr. il capitolo settimo) ha valore meramente aritmetico, nullo ai fini tributari e la definizione inventata da certi italiani nel secolo XVIII (vedi il capitolo decimo) o quella elaborata dagli inglesi durante il secolo XIX sono state create a bella posta a fini tributari, par lecito conchiudere che il legislatore possa scegliere, facendo le fiche ai dottrinari, la seconda o la terza definizione piuttosto che la prima, senza che la signora «scienza» vi possa trovare nulla a ridire.

 

 

La signora «scienza» delle finanze ha un solo dovere: quello di cercare la spiegazione logica degli istituti tributari. Quando lo storico ha indagato le origini di una imposta ed ha precisato le forze politiche fiscali e sociali che condussero alla sua istituzione, entrano in campo due personaggi: il giurista e l’economista. Il giurista ricostruisce la norma vigente; ne interpreta il comando alla luce dei principii generali di diritto e della mente del legislatore. Egli interpreta questa mente, in parte fondandosi sulle ragioni addotte dal legislatore; ma se queste ragioni contrastano con il chiaro significato proprio della specifica norma scritta e delle altre norme alle quali nel sistema essa deve essere coordinata, egli la interpreta secondo le regole della ermeneutica giuridica, partendo dalla premessa che quella norma vive in un sistema, per quanto è possibile, armonico e coerente. Il giurista interpreta, non critica il legislatore. Il giurista parte dalla premessa che la sola causa dell’imposta è la legge. Il cittadino è obbligato a pagare imposta non perché lo stato abbia reso o non reso servizi, ma perché tale è il comando della legge. Il cittadino non può arrogarsi il diritto di rifiutare il pagamento dell’imposta perché lo stato, a parer suo, invece che servizi, gli ha reso disservizi. Paghi e non fiati. Quando la legge esiste, ci vuol poco a capire che il contribuente non ha d’uopo di cercare altro; egli paga perché tale è l’ordine del legislatore.

 

 

L’economista invece non ha limiti alla sua curiosità. Il suo mestiere «specifico» è quello di indagare il perché della legge. Del resto, neppure il giurista limita il suo ufficio a quello dell’interprete. Interpretando, eccita il legislatore a modificare le norme vigenti, quando esse siano imperfettamente formulate o contrastino con altre norme, pure vigenti, le quali paiano preminenti. La preminenza è determinata talvolta dalla circostanza che il legislatore ha formulato «nuove» norme le quali contrastano con le «antiche»; sicché ambe non possono operare al tempo stesso. Mettendo in luce il conflitto, il giurista costringe il legislatore a meglio dichiarare la sua mente, sia revocando la norma nuova, se questa fu dovuta a circostanze contingenti, sia modificandola per adattarla al sistema antico, sia riformando via via questo per rinnovarlo. Anche nel diritto tributario, il giurista, interpretando, crea o stimola a creare un nuovo diritto. L’economista, tuttavia, non è sottoposto ai vincoli proprii del giurista. La mente, la volontà del legislatore non ha valore per lui se essa non sia razionale; se cioè lo strumento creato dalla norma legislativa non sia adatto a raggiungere il fine voluto; se lo strumento creato a dare 100 allo stato reca al contribuente il danno di 150; se lo strumento creato per colpire Tizio in realtà cade su Caio. Le motivazioni, le spiegazioni, le norme medesime non sono testi da interpretare; sono meri fatti da spiegare, di cui si ricerca la connessione con altri fatti e con gli effetti prodotti. Agli occhi dell’economista non basta si dica con aria compunta: così vuole la norma di legge. Se quella volontà è razionale, le norme scritte in seguito a quella manifestazione di volontà devono essere analizzabili e le definizioni, le premesse ed i comandamenti che in quelle norme sono contenuti devono potersi ridurre a proposizioni rigorose.

 

 

Il rigore della proposizione non balza fuori sempre nitido dalle pagine degli economisti, specie di quelli i quali attendono allo studio della pubblica finanza, perché essi, antichi e moderni, si fanno non di rado trascinare dalla passione ad esporre teorie sotto forma di consigli. La tentazione che spinge a dire: l’imposta deve essere congegnata così o cosà è spesso troppo forte perché tutti sappiano resistervi. Consiglio un po’ di carità cristiana quando ci si imbatte in pseudo-consigli. È vero che la scienza non ha per compito di formulare precetti di condotta, di dire ciò che si deve fare. Essa spiega i fatti, ragiona da premesse, connette gli effetti alle cause, deduce i probabili effetti dalle premesse poste, osserva le interdipendenze dei fenomeni; e lascia poi che gli uomini gli statisti facciano a lor talento, paga di constatare che se operano in un dato modo nasce un dato effetto e se operano in altro modo nasce effetto diverso. Il dottrinario, come dissi sopra, si distingue dallo studioso appunto perché egli è sempre occupato a formulare progetti ed a dar consigli; laddove lo studioso predilige la ricerca degli effetti delle azioni umane. Tuttavia la boria con la quale cotal verit… divulgatissima è ripetuta mi è sommamente antipatica. Cominciò, purtroppo, Pareto, che era un grande scienziato, a trattare con sussiego gli economisti detti letterari, i quali imperfettamente avevano posto in linguaggio volgare quei teoremi che altri, fra cui Walras e lui stesso, riesposero poi rigorosamente e perfezionarono; o, discorrendo, usavano la terminologia normativa invece di quella teoretica. Pur ammirando coloro i quali, quasi distaccati dal mondo, sanno conservare la terminologia rigorosa o teoretica dal principio alla fine dei loro saggi o libri, considero ingiusto, anzi indecente, il disprezzo facile con cui taluno di loro guarda ai poveri diavoli – talvolta questi poveri diavoli si chiamano Galiani o Smith o Ricardo o Ferrara! – i quali non sapevano di matematica od, appassionandosi alle cose terrene, uomini tra uomini, trascorrevano dal linguaggio puro teoretico a quello normativo e davano consigli, offrivano ricette di buona condotta agli uomini e tracciavano programmi di azione. Giù la boria! Quel che monta non è la veste con la quale una verità è espressa, ma la verità medesima. Spesso basta sostituire un modo, un tempo, un aggettivo e la proposizione da normativa diventa teoretica. Si leggano le seguenti proposizioni:

 

 

Normative

Teoretiche

 

Tesi A:

 

 
Il legislatore deve promuovere i contratti a termine perché essi assicurano ai produttori prezzi costanti.

 

I contratti a termine sulle merci

hanno per effetto una maggiore

costanza dei prezzi nel tempo.

 

 

Tesi B:

 

 
Il legislatore deve mettere in galera gli speculatori a termine come nemici dei produttori. I contratti a termine sulle merci

hanno per effetto di ribassare i

prezzi.

 

 

 

La disputa veramente feconda dal punto di vista scientifico non è quella tra formulazione teoretica e formulazione normativa. Qualunque studente, che sia stato soggetto ad un tirocinio anche mediocremente rigoroso, è capace di meritarsi un bel voto svolgendo, come esercizio di scuola, il tema della versione dall’una all’altra formulazione. La seconda è intuitivamente preferibile alla prima, perché aiuta a pensar bene. Tutto ciò però non deve farci dimenticare che il vero dissidio, quello sostanziale, quello che interessa scientificamente non è fra il normativo e il teoretico, che è forma, ma fra le due tesi A e B. Quale delle due tesi è vera, ossia atta a spiegare la connessione fra contratti a termine e prezzi delle merci? Od è vera una terza tesi C, quella che, se non ricordo male, l’amico Bresciani-Turroni confortò, anni fa, con riprove statistiche sapientemente raccolte e interpretate, essere per ora non dimostrata la connessione esistente fra i contratti a termine ed i prezzi delle merci, od almeno non dimostrato il rapporto fra le variazioni dell’un fatto e quelle dell’altro fatto? Qui è il terreno fecondo della disputa, non l’altro, delle frasi che adopereremo per formulare la verità dimostrata. Useremo ad ogni volta la terminologia più conveniente a seconda dello scopo che ci proporremo: se vorremo, ad esempio, battere sul testone di un professore incaponito nel difendere la tesi B, per ipotesi dimostrata falsa, adopreremo la veste teoretica; se ci toccherà combattere un demagogo ansioso di mandare in galera i suoi nemici, adopreremo la veste normativa. Saremo in ambi i casi sul terreno scientifico; s’intende ove prima si sia dimostrata la verità della tesi A. Se qualcuno darà, adoperando la forma normativa, la dimostrazione rigorosa della verità della proposizione A, noi faremo a lui tanto di cappello; e tratteremo da pirata presuntuoso colui che, venuto dopo, si limitò a tradurre con gran cipiglio in linguaggio teoretico la già nota dimostrazione; e, per accattar dolosamente dai semplici fama di scopritore, cominciò col dire vituperi contro chi, giunto prima a formular la verità, fu reo del delitto capitale di scrivere in linguaggio normativo.

 

 

Importa, qualunque sia il linguaggio, che l’indagine chiarisca il significato delle parole adoperate e delle definizioni date, deduca rigorosamente dalle premesse poste le illazioni di cui esse sono feconde, dimostri quali effetti derivino da determinate cause. Quel che il ricercatore mosso dal puro culto della scienza odia è l’indistinto, il confuso, l’emotivo, l’imponderabile. Che sono, anche essi, oggetto degnissimo di studio; ma si deve sapere che sono l’indistinto, il confuso, l’imponderabile. Segnalabile, fra le parole di questo tipo, è la coppia «capacita contributiva» la quale tiene così gran posto nei trattati di finanza. Quella coppia di parole sfugge tra le dita, sguscia inafferrabile e ricompare ad ogni volta inaspettata e persecutoria. Il significato varia a seconda dei tempi, dei luoghi, degIi scrittori, delle pagine differenti del medesimo libro. Con essa si spiega tutto; si fa entrare nel od uscire dal concetto di reddito o di capitale tutto ciò che si vuole. L’economista, il quale non sarebbe tale, se non fosse loico, odia perciò quelle come tante altre parole prive di senso; e volentieri le abbandona allo psicologo, al politico ed allo storico. Chiedo venia sin d’ora per quei peccati che, involontariamente, trascinatodall’andazzo di tanti, commetterò nel seguito del libro usando inavvedutamente parole le quali paiono corpo e sono ombra vana.

 

 



[1]Dottrinario a cagion d’esempio, poteva essere definito l’autore del presente volume quando scriveva, tra il 1900 ed il 1901, articoli raccolti in opuscolo col titolo Per la giustizia tributaria (Torino 1901). Il contenuto – imposta sul reddito concepita come strumento per abolire asfissianti dazi protezionistici e per dare elasticità al bilancio – rientra, oggi come ieri, nel quadro della buona finanza. Il titolo scritto sul frontespizio non comporta definizione, la quale non sia dottrinaria.

Prefazione – Miti e paradossi della giustizia tributaria

Prefazione

Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1967, pp. 1-9

 

 

 

 

Rileggendomi dopo tanti anni, confesso di essermi divertito.

 

 

Non mi sembrò di leggere pagine di quelle scritture in fondo noiose le quali formano il succo delle trattazioni intorno all’imposta; e poiché, come è naturale, mi volli spiegare i mancati sbadigli, credetti di aver trovato la risposta giusta: il libro è un trattato dell’imposta, ma non se ne dà l’aria e forse non lo è. Che cosa è un trattato, nelle nostre discipline? Dico nelle nostre, perché sono persuaso che in molte altre discipline e principalmente in quelle matematiche, fisiche, naturali, tecniche, giuridiche fa d’uopo che lo studente abbia modo di conoscere lo stato della scienza in un certo momento e l’insegnante dia modo agli uditori di apprendere anche le nozioni che la brevità del tempo non ha consentito di approfondire nella scuola. Nelle nostre discipline e massimamente in quelle umanistiche – e tra esse orgogliosamente colloco quelle economiche – quale significato ha il trattato, il manuale, il compendio? salvo quello, in tutto volgare e talvolta contennendo, di aiuto mnemonico alla formazione dello sputo con il quale certe nozioni sono dal giovane appiccicate alla memoria per il solo giorno degli esami? Gran voga hanno, all’uopo, i compendi dei compendi, le sinossi, le tabelle con graffe e sottograffe, grazie a cui il giovane riesce a mettersi in testa «tutta la materia» per quella sola mattinata degli esami.

 

 

Gran nemica dei buoni studi la superstizione della materia! A cominciar dal liceo, ne siamo ossessionati, discenti e docenti; ed è ossessione che a poco a poco scema l’agilità mentale e la attitudine alla simpatia degli insegnanti verso gli scolari e li riduce, senza avvedersene, dopo dieci anni, a monotoni ripetitori di nozioni tante volte esposte, le quali un po’ per giorno, inavvertitamente, perdono quel che c’era in esse di vivo e ne rimane la foglia secca arida al tatto ed all’intelletto. Dai Principii di Pantaleoni, dove ogni parola è un concetto, è uno stimolo, è una illuminazione si passa ai Sunti di Cossa, dove tutto è perfetto, dove le parole sono pesate con la bilancia dell’orafo, ma sono tutte insipide e, se falla la memoria, è impossibile ricordarle. A distanza di qualche decennio, venuta meno la generazione da cui erano nati, chi si ricorda dei trattati? salvo dei pochi che nacquero perché l’autore aveva bisogno di creare il capolavoro? e questi pochi certamente non avevano dato fondo alla «materia».

 

 

La superstizione della «materia» avvelena la vita accademica molto al di là della scuola ed aggrava il danno di questa. Quante volte, nelle discussioni per la scelta dei concorrenti a cattedre universitarie, non abbiamo, esterrefatti, sentito o letto: il candidato è bravo, è costruttore, espone idee non comuni; ma si è occupato solo di un capitolo, di una parte della materia messa a concorso; od ha dato prova di valentia scientifica in una terra di confine, che non è quella propria della disciplina nostra. Auguri per quando avrà scritto qualcosa per dimostrare che è padrone dei campi principali della disciplina. Frattanto, passi avanti l’uomo ordinario che ha scritto un po’ di tutto. Per lo più, l’argomentazione è mero pretesto per mettere fuori combattimento chi non appartiene al gruppo dominante dei giudici del concorso; e, fortunatamente, non sempre riesce: ché di fronte all’uomo di valore, la compiutezza della ricerca nella intiera materia è messa da parte e prevale l’altro principio del semel abbas, semper abbas; chi ha dimostrato di possedere l’unghia del leone in un campo anche piccolo, anche in terra nullius, leone resta, anche se per avventura non ha dimostrato di aver ficcato l’unghia dappertutto.

 

 

Quante parole per dire che questi miei Miti e paradossi sono, a parer mio, un trattato anzi meglio di un trattato dell’imposta! Migliori, perché meno noiosi, meno sistematici, assai meno compiuti; e perché lasciano nell’ombra la maggior parte degli argomenti solitamente svolti nella disciplina tributaria! Ma, in compenso, discutono taluni dei problemi essenziali; cercano di mettere in chiaro come i più dei principii pacificamente accettati non sono affatto «inconcussi»; anzi non sono nemmeno il principio di veri principii, sono idee qualunque, le quali hanno acquistato diritto di cittadinanza fra studiosi, legislatori e pubblico, per semplice prescrizione ab immemorabile. Tutti credono di sapere che cosa è il reddito e si ergono accusatori contro coloro i quali non denunciano il reddito vero, l’unico, l’immarcescibile reddito; che, viceversa, nessuno sa che cosa veramente sia, perché i redditi «veri» sono tanti quanti sono i fini per i quali si costruisce il bilancio dell’impresa e quante sono le ipotesi, tutte legittime, legittimissime, in base a cui si possono fare le valutazioni delle singole partite attive e passive del bilancio.

 

 

Che cosa è un doppio d’imposta? La più parte di quelli che sono detti doppi non sono tali, se non per l’innocenza di chi ne parla; ed i pochi veri casi di doppio sono raffinati e complicati e per lo più negati dai periti.

 

 

Perché si grida «raca!» alle imposte sui consumi e si lodano quelle sul reddito? Perché si bada ai caratteri secondari dell’istituto, alle sue modalità di applicazione e non alla sostanza.

 

 

Perché la «giustizia» è, per molti, propria esclusivamente della progressività, specie se confiscatrice? Perché si fanno ipotesi indimostrabili sulla possibilità di paragonare, addizionare e sottrarre le sensazioni di due o più uomini e si pongono ipotesi arbitrarie ed uniformi sulla decrescenza delle utilità delle successive dosi di ricchezza possedute da due o più uomini.

 

 

Che cosa è un sovrappiù, un aumento di valore capitale oltre al valore detto originario? È la proiezione al momento presente delle quantità crescenti di reddito le quali fluiranno da una data fonte; quantità le quali sono destinate ad essere colpite dalle imposte normali. La gente frettolosa immagina invece di avere scoperta materia nuovissima di tassazione; e giù imposte sui sovrappiù, che sono doppi di quelle che già si pagano e si pagheranno sui redditi.

 

 

Perché definire «esenzioni» quelle che sono invece mere dichiarazioni di non esistenza del reddito, il quale, non esistendo, non può essere tassato? L’uomo «fiscale» il quale ha abbrancato la preda e vede che questa gli sfugge, preferisce attribuire al suo animo misericordioso la largita franchigia dall’imposta; non volendo riconoscere mai che sua era la malefatta del tassare ingiustamente.

 

 

E così via: nella materia tributaria l’analisi critica deve prendere inizio dalle parole usuali: a partire dalla prima fra tutte, quella medesima di imposta. Alla quale fa d’uopo togliere di dosso la taccia di qualcosa che «pesa», che «grava», che «porta via». L’imposta, se propria di uno stato organizzato per il servizio dei consociati, non pesa, non grava, non porta via nulla; anzi aumenta il reddito, cresce la quantità delle cose buone che gli uomini cittadini hanno o ricevono, cresce il reddito nazionale totale. L’imposta pesa, grava, porta via, diventa taglia se i governi sono tirannici, oppressivi; se, rispettate le forme legali, la somma delle cose è caduta nelle mani del tiranno, di una oligarchia, anche se tiranno ed oligarchia professano di governare in nome dei più e questi «più» sono, per scherno, detti lavoratori o proletari e dichiarati signori delle ricchezze esistenti nel paese.

 

 

Quanto male si usa dire del debito pubblico! Anch’esso pare qualcosa che gravi, che pesi, che schiacci le generazioni presenti e future per colpe commesse dagli uomini del passato, i quali si distrussero a vicenda e mandarono in rovina il paese per le loro manie di rivoluzioni e di guerre; ed invece sovente il debito pubblico è un fantasma, di cui nessuno sente l’onere; è un nugolo di pezzi di carta, i quali circolano senza tregua, e danno luogo a scritturazioni senza fine e senza altro risultato, fuor di quello di occupare gli amanuensi chiamati a scrivere qualcosa sui «gran» libri del debito pubblico.

 

 

Forseché la critica delle parole senza senso, o stortamente adoperate o ingannatrici non è dunque la introduzione necessaria dei trattati sulla materia tributaria? Non è forse l’ironico sorriso opposto alla solennità delle pagine, nelle quali si continuano ad usare parole e concetti, che forse sono ombre che mai non furono, luci vive di mondi morti da millenni?

 

 

Perciò in queste mie «Opere» non collocherò un trattato o principii di scienza finanziaria che pure scrissi tant’anni addietro e colloco invece questi che sono i «prolegomeni» all’ideale trattato che vorrei avere scritto. Poiché di capolavori, tra i «principii» ne viene fuori uno forse ad ogni voltar di secolo, il mio non è certamente, nemmeno per i suoi tempi, il vagheggiato ideale. In qualità di prolegomeni, i «miti e paradossi» giova invece a me sperare tengano un onorevole luogo e siano atti a divertire, insieme con me, altri lettori.

 

 

La presente edizione è praticamente la ristampa della seconda edizione del 1940, la quale a sua volta era esemplata, con l’aggiunta degli ultimi due capitoli, sulla prima del 1938. Una sola non aggiunta, ma amplificazione, allungò alquanto il par. 176, parso, alla nuova lettura, alquanto scarno ad un autore il quale si ostina a credere, forse contro il vero, che il lettore preferisca vedersi spiegato per filo e per segno di ogni argomento la rava e la fava. Non è un’aggiunta, ma il mero ristabilimento del testo genuino, con la indicazione della fonte, la citazione del brano essenziale di Geremia Bentham in materia di progressività (par. 168). Nella edizione precedente, la citazione era chiaramente fatta a memoria.

 

 

Non ci sarebbe stato davvero altro da aggiungere o mutare dopo tant’anni? Non dico un elenco di altri equivoci verbali e di altre parole vuote, da pigliare con le molle. Grosse novità in proposito non mi pare siano comparse sull’orizzonte tributario. Si è seguitato a parlare di riforme tributarie; i soliti giustizieri hanno aggiunto all’arsenale delle armi inutili che l’amministrazione già possiede, taluni articoli vessatori, di cui divenuto famoso quello che porta il numero 17; ma si tratta di aggeggi. Il compianto Vanoni perfezionò il sistema, introducendo e facendo applicare un modulo di dichiarazione, il quale obbliga il contribuente a fare ogni anno l’esame delle proprie entrate ed uscite, con risultati, i quali dovrebbero essere vantaggiosi anche per lui. Tutto sommato, gli antichi miti ed i tradizionali paradossi continuano ad essere venerati nel tempio dedicato ai consueti riti della verità e della giustizia tributaria. I falsi doppi si sono moltiplicati per le aggiunte di centesimi addizionali a pro di vecchi e nuovi enti, ai quali era ed è attribuita la potestà tributaria. Si conosce sempre meno il significato delle cifre scritte nei bilanci e nei rendiconti dello stato, nessuno potendo valutare il valore delle imposte pagate agli enti di assicurazione e di previdenza sociale, agli enti economici forniti della facoltà legale di vendere a prezzi di monopolio merci e servizi, agli enti dotati del privilegio di esercitare l’industria dei giochi d’azzardo o delle lotterie a pro di sedicenti fini pubblici. Nessuno dei doppi di imposta denunciati nelle pagine che seguono è stato abolito; e qualcuno se n’è aggiunto, sotto colore di apprendere redditi di società anonime che la fervida immaginazione dei giustizieri ha supposto spropositatamente essere «nuovi» o forniti di capacità di pagare nuova imposta, oltre a quelle normali.

 

 

L’imposta Giolitti sulle aree fabbricabili, abolita per la sua incapacità a fornire provento apprezzabile all’erario, è stata nuovamente riesumata da chi, in beata innocenza, suppone di riuscire a tassare nell’aumento di valore delle aree fabbricabili un valore non mai prima scoperto e tassato; che è errore grossolano di doppia vista, qui (ai paragrafi 55, 56, 57, 67, 68) ed altrove (passim nei Saggi sul risparmio e l’imposta) ripetutamente denunciato e dimostrato. L’innocenza non è giustificata dall’occasione sua, che fu la mala volontà dell’amministrazione municipale romana a compiere il dover suo di apprestare un buon piano regolatore. Capovolgendo le responsabilità, i demagoghi non osano riconoscere che la speculazione «antisociale» – la quale fa crescere i valori delle aree fabbricabili, fa costruire case immonde, alveare di abitatori infelici, distrugge parchi e giardini necessari alla vita cittadina, fa, al luogo di antiche nobili costruzioni, adatte alla statura dell’uomo, crescere edifici dei dieci piani, rumorosi e fatiscenti innanzi di diventare vetusti – è frutto esclusivo della incapacità dei pubblici amministratori locali e dei loro sorveglianti statali ad imporre norme acconce all’altezza delle case, alla larghezza delle vie, alla distribuzione dei quartieri cittadini, alla sistemazione della rete stradale attorno al centro storico delle città, serbato intatto nel suo tradizionale aspetto.

 

 

Incapaci ad attendere al loro dovere, i demagoghi risuscitano il frusto strumento dell’imposta sulle aree fabbricabili, creata in odio (così correva la terminologia dei tempi quando usavano le parole appropriate) ad una classe particolare di contribuenti già, ad ogni fine, tassabili al pari di ogni altro contribuente.

 

 

L’imposta reprimerà, sì, un tipo di speculazione, quella feconda, vantaggiosa all’interesse pubblico, quella che ritarda la fabbricazione al momento della maturità economica dell’area. L’imposta sedicentemente nuova provoca la fabbricazione anzi tempo delle aree, copre di cemento i giardini superstiti nel centro delle città, crea, colla distruzione apparente di valori, ossia col loro trasferimento da talun proprietario a coloro che approfittano del latrocinio pubblico per innalzare grattacieli e sconcezze edilizie, la possibilità per gli speculatori di ricostruire, a proprio vantaggio, valori, che sono insopprimibili, perché voluti da una domanda di case derivante dal crescere e dall’arricchire della popolazione e sono ingigantiti dalle erronee direzioni date alla edilizia da amministratori imprevidenti. Il legislatore crede di essere partito in guerra contro gli speculatori; ed il risultato dell’opera sua è soltanto quello di sostituire allo speculatore costretto a secondare lo sforzo di saggi amministratori a pro della città soleggiata, bella, bene distribuita, rispettosa del passato e desiderosa di emularlo in avvenire, taluni inverecondi trafficanti, pronti a trarre buon partito dalla mala condotta di amministratori inetti, forse involontariamente, ad indirizzare la città verso un avvenire non indegno del passato. Vano è predicare contro il male, come a lungo tentai di fare nei Saggi sul risparmio e l’imposta (vol. primo di questa serie) e nei presenti Miti e paradossi. Sia consentito tuttavia di dire a giustizieri ed a demagoghi, a dottrinari e ad esperti, che il già scarso rispetto, dimostrato nel testo verso di essi, è purtroppo scemato nei venti anni corsi dalla pubblicazione del mio scritto.

 

 

Se non nel campo infecondo della inventività fiscale, gli studiosi teorici dell’imposta non hanno offerto in tanti anni nuova materia di meditazione intorno ai massimi problemi tributari? La risposta è affermativa ed è ragione di sperare in ulteriori avanzamenti nella ricerca scientifica. Essi hanno compiuto tentativi ragguardevoli proprio nel campo che sta a fondamento della trattazione tributaria. Parecchi e valorosi economisti hanno affrontato il problema del no-bridge, della non confrontabilità delle soddisfazioni sperimentate da persone diverse. Lo stimolo non è venuto dal desiderio di dare un significato a quella che nel testo ho detta tabella benthamiana della distribuzione ugualitaria dell’imposta su due o più contribuenti (par. 219); ma dal desiderio di guardare più in fondo a quello che oggi da molti è reputato il problema primo della teoria e della politica economica: l’economia del benessere. Gli uomini, i politici, i riformatori prima hanno «fatto» politica del benessere; hanno cercato di aumentare la ricchezza o, meglio, il benessere degli uomini, del più degli uomini. Hanno smussato le disuguaglianze sociali; hanno instaurato un sistema di assicurazioni sociali, sugli infortuni, le malattie, la invalidità, la vecchiaia, la disoccupazione; hanno costruito case popolari, hanno distrutto abituri indegni della convivenza umana; hanno rese meno frequenti le crisi; anzi le hanno nell’ultimo quarto di secolo, con una saggia politica di banca e di tesoro, praticamente abolite. La disoccupazione è scomparsa, nei paesi moderni civili. Non è grande il trionfo? Non è legittimo il vanto di avere accresciuta la quantità di quella entità misteriosa, non agevolmente definibile, che si chiama «benessere»; e non si compone della sola «ricchezza» misurabile e sommabile, traducibile mentalmente in moneta. Il «benessere» è diverso ed è qualcosa di più della ricchezza; è un composito di ricchezza, di contento, di buone relazioni sociali, di governo ordinato, di famiglie, anche se piccole, salde, di mancanza di invidia e di odio fra ceto e ceto, al cui posto si afferma la emulazione che eleva i mediocri e non abbassa moralmente i grandi.

 

 

In fondo all’animo dei politici operanti è tuttavia sempre rimasto un’interrogazione: che cosa abbiamo fatto? si può tentare di conoscere se ed in quale misura abbiamo realmente aumentato il benessere dei molti, dei più, di tutti? Se con imposte ad aliquote fortissime sugli alti gradini di reddito, noi abbiamo scemato la ricchezza dei pochi, di quanto è stato ridotto il benessere di questi pochi e quale relazione ha la riduzione con l’aumento del benessere dei più? La domanda rende testimonianza di una coscienza elevata da parte della classe politica la quale, dopo avere operato a vantaggio, a suo parere, della collettività, sente il dovere di porsi il quesito: quanto bene e quanto male ho fatto? Il primo supera e di quanto il secondo? Domande ansiose, alle quali non si dà risposta, sinché di mezzo sta l’ostacolo del no-bridge, la mancanza di un ponte estimativo di comunicazione tra le soddisfazioni, tra i piaceri e le sofferenze di ogni uomo e quelle di ogni altro uomo.

 

 

A costruire il ponte, si sono accinti studiosi insigni e raffinatissimi; e la loro opera, se non ha toccato nè sta per toccare la meta, non è stata vana. Federico Caffè ha raccolto a vantaggio dei lettori italiani (Torino 1956, Edizioni Scientifiche Einaudi) una silloge preziosa di Saggi sulla moderna economia del benessere in cui uomini insigni come A. C. Pigou, N. Kaldor, T. Scitowsky A. Bergson, H. Hotelling, I. R. Hicks, I. M. Little, K. I. Arrow, P. A. Samuelson tentano di giungere alla soluzione del problema, forse il più difficile e il più solenne dell’oggi, delle confrontabilità interpersonali.

 

 

Anche se la soluzione non è in vista, anche se il vigoroso assalto contro il concetto dell’utilità posto a base della scienza economica condotto dal Robbins (An Essay on the Nature and Significance of Economic Science, 1932) sembra serbare intero il suo valore, anche se nella prefazione alla silloge preziosa il Caffè reputa «difficile non condividere l’avviso di M. W. Reder secondo il quale “lo stadio attuale dell’economia del benessere è del tutto insoddisfacente”»; sono d’accordo col curatore della silloge nel condannare l’eccessivo scetticismo che fa propendere taluno a considerare quasi esercizi accademici o scolastici i saggi consacrati allo studio del problema. Forse, l’ostacolo maggiore all’avanzamento verso la scoperta di nuovi veri in questo campo è la virtuosità elegante degli indagatori, i quali si indugianonello scavare a fondo dentro a problemi i quali ad un certo momento per la sottigliezza degli escavatori paiono fin troppo evanescenti. Chi legga il volume, il quale per ora è non solo il più ampio ma anche il più meditato, A Critique of Welfare Economics (1950) del Little non può non formulare il voto che nuovi studiosi, i quali sappiano resistere alla tentazione delle esercitazioni accademiche raffinate, con scambi senza fine di «componimenti» (papers) fra insegnanti, assistenti ed aspiranti assistenti, con inserzioni di esercizi matematici di giovani valorosi estranei a qualunque interesse economico propriamente detto; affrontino il problema del no-bridge con l’aiuto della logica normale e col proposito di dare un contributo alla soluzione di problemi economici propriamente detti su cui essi abbiano a lungo meditato; non si può non formulare il voto che essi ci dicano una parola, se non definitiva, la quale per la natura stessa dei problemi economici o sociali in genere non potrà venire mai, tuttavia illuminante e chiara.

 

 

Per ora, la conclusione che io traggo dallo stato odierno degli studi sul problema del no-bridge è quello della prudenza pratica. Ne quid nimis.

 

 

Questo libro sarebbe stato scritto invano se non desse un contributo a gettare scherno e vilipendio sulla boria dei dottrinari e ad insegnar prudenza ai teorici in materia di imposte. Disprezzo per i giustizieri i quali esaltano l’Inghilterra solo perché vagamente si sono persuasi essa abbia toccato il sommo della giustizia quando ha colpito col 98 o col 99% gli scalini altissimi di redditi e così facendo gli scalini sono, per la loro inutilità per i percettori, presto distrutti; e consigli di prudenza ai teorici i quali stanno doverosamente affaticandosi intorno alla determinazione di una scala di aliquote atta nel tempo stesso a ridurre le altezze massime dei redditi e serbare forte lo stimolo al lavoro ed al risparmio. Sovratutto i teorici, quelli seri, non invasati dallo spirito di una giustizia fondata su premesse dottrinali arbitrarie, siano consigliati a prudenza dal pensiero che l’imposta non è un mero fatto economico. Il rigore dell’analisi economica, il rispetto della logica interna propria di ogni istituto tributario sono la premessa, il punto di partenza; ma la conclusione sul pro e sul contro delle novità ogni giorno offerte sul mercato delle riforme tributarie non può essere soltanto dedotta dal calcolo monetario. Il bene stare di un corpo politico non è fatto solo di beni materiali. Le azioni, i regni, gli imperi crescono o decadono per ragioni sovratutto morali e spirituali. Anche l’imposta è un fattore di stabilità o di decadenza; ed il momento nel quale essa da fomento di stabilità diventa provocatrice di decadenza è decisivo per l’avvenire dello stato. La rovina dell’impero romano d’occidente apparve inevitabile, non quando mancarono le distribuzioni di frumento nella capitale del mondo e non giunsero più nei circhi belve e gladiatori e cristiani in numero bastevole al divertimento della plebe, ma ben prima quando nei municipii delle province gli uomini tremarono di essere chiamati ad assumere la responsabilità, come decurioni, del versamento delle imposte allo stato ed affannosamente cercarono di addirsi a mestieri vili ed infami, pur di sottrarsi all’obbligo del tributo solidale con gli altri cittadini, e alla fine disperatamente chiesero rifugio ai barbari.

 

 

Noi siamo lontani ancora dal punto critico; e giova sperare che l’aspirazione ansiosa degli studiosi verso la creazione di un bene stare sempre migliore dei popoli non si ristringa ad un bene stare materiale, che potrebbe significare e provocare invidia, odio e decadenza, ma sia anche e sovratutto un bene stare morale e spirituale e significhi emulazione di individui, compattezza di famiglie e saldo ordinamento di ceti e di ordini sociali; che sono i sentimenti dai quali nascono gli stati grandi.

La predica della domenica (III)

La predica della domenica (III)

«Corriere della Sera», 5 febbraio 1961

Le prediche della domenica, Einaudi, Torino 1987, pp. 9-11[1]

 

 

 

 

Professori e studenti concordi hanno protestato contro le condizioni nelle quali si svolge la vita universitaria italiana. Se fosse lecito tradurre in termini economici fatti attinenti alla vita spirituale, si potrebbe dire che le università offrono:

 

 

  • lezioni in aule, nelle quali cento studenti possono apprendere e comprendere ed assimilare idee; avvicinare ed interrogare ed obbiettare ad insegnanti; ed invece accade che in talune università e facoltà vi siano corsi con mille iscritti; e le lezioni diventerebbero vociferazioni in pubblico comizio, quando non soccorresse provvidenzialmente l’assenza della più parte degli studenti, in altre faccende occupati o sprovvisti dei mezzi opportuni a frequentare le lezioni;

 

  • esercitazioni e discussioni dinnanzi a gruppi di studenti, in numero non superiore a venti, chiamati a redigere e leggere scritti o relazioni o progetti su problemi posti dall’insegnante;

 

  • biblioteche speciali, laboratori, gabinetti nei quali, ad ogni studente, dovrebbero essere forniti, sul suo tavolo di lavoro, libri e strumenti di ricerche;

 

  • cliniche, nelle quali allo studente fosse assicurata la possibilità di studiare, sotto l’occhio del professore o dell’assistente, il malato. Invece si sa che le biblioteche, i laboratori e le cliniche, che potrebbero essere efficacemente attrezzate per una ventina di studenti, sono disadatte alle esigenze di centinaia di giovani.

 

 

L’università offre cioè un servigio che non può effettivamente fornire se non ad una parte, spesso piccola, degli aspiranti. Lo offre a prezzi ridicolmente bassi in confronto al costo. È ovvio ed è corretto che il prezzo di offerta debba mantenersi inferiore al costo totale del servigio; perché l’università, accanto all’insegnamento utile ad ogni singolo studente, produce un bene generale, che è la formazione di un ceto dirigente di studiosi, professionisti, amministratori, politici, il cui costo deve essere sopportato dalla collettività, a mezzo delle imposte. Se si suppone che il costo totale debba essere diviso, in mancanza di una regola migliore, a giusta metà fra lo studente, il quale gode il vantaggio diretto specifico della formazione professionale, ed i contribuenti i quali debbono essere chiamati a pagare imposte per compensare i benefici generali prodotti dall’università, si deve constatare che le tasse ed i diritti attuali sono ridicolmente inferiori alla metà del costo totale. Cresce così inutilmente il numero di coloro che richiedono il servigio offerto sotto costo; e non è consentito perciò ai consigli universitari di assegnare tante borse di studio quante consentirebbero ai meritevoli di coprire, oltre le tasse, le spese di residenza e di frequenza.

 

 

È moralmente lecito offrire a mille quel servigio che l’università sa di non poter fornire se non a cento? Perché i miliardi, che si chiedono allo stato, non siano perduti, è necessario che l’università abbia il dovere di scegliere quel numero di scolari a cui sa di poter fornire sul serio i suoi servigi, tenendo conto della scuola di provenienza, del profitto risultante dai certificati di studio, dei colloqui (non esami) personali con gli studenti; e nessuno di questi ed altri criteri abbia una valutazione precisata in alcun articolo di regolamento; ma siano il compendio di un giudizio personale di chi gode la fiducia dell’autorità accademica.

 

 

Poiché in Italia gli studenti universitari dagli attuali 150 mila circa dovranno in qualche decennio giungere al milione, sarà d’uopo, senza gonfiamento di quelli esistenti, crescere gradualmente il numero degli istituti universitari dai 20 o 30 attuali a 50 e poi a 70 e poi a cento e più. Né, con un milione di studenti e con cento istituti universitari, crescerà la disoccupazione falsamente detta intellettuale; anzi diminuirà, perché non si è mai visto che il possesso del sapere – cosa ben diversa dal possesso del pezzo di carta – cresca la difficoltà di trovar lavoro.



[1] Col titolo La crescita dell’università [ndr]

Prefazione

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Prefazione

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Prefazione

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. IV, Einaudi, Torino, 1961, pp. XIII-XXXV

 

 

Il volume è tutto composto di articoli del tempo di guerra. Scrivevo (p. 281) :

 

 

Di fronte alle necessità della guerra cessa il diritto alla critica. Chi di noi oserebbe lamentarsi di fronte anche alla scomparsa totale del naviglio marittimo dal mercato dei trasporti non bellici quando, per ipotesi, ciò fosse necessario per la vittoria?

 

 

Ebbero perciò gran luogo negli articoli del giornale e nel volume sono solo in minor parte riprodotti, per evitare le assai frequenti, allora necessarie, ripetizioni – gli inviti a sottoscrivere ai prestiti che venivano, gli uni dopo gli altri, emessi a procacciar denaro allo stato.

 

 

Chi, tra i risparmiatori italiani, vorrà più tardi incorrere nel muto rimprovero che i suoi figli gli muoveranno di non aver compiuto ogni sforzo possibile, nell’ora solenne, per fare cosa utile ad essi ed insieme alla patria? (p. 108).

 

 

Ad incoraggiare l’afflusso del denaro nelle casse dello stato, plaudivo alla scoperta, (nel 1916), della forma «al portatore» dei buoni ordinari da sei a dodici mesi (p. 356). Fino allora i buoni ordinari erano tutti nominativi; e parve gran novità avere deliberato che essi potevano essere emessi anche al portatore, anche se «per ora» la novità non era estesa ai buoni più brevi, a tre mesi. Si vide poi che i buoni al portatore erano assai meglio accetti al pubblico dei buoni nominativi, i quali in pratica erano acquistati principalmente dalle banche e da enti e non potevano sorpassare una modesta somma (300 milioni di lire) fissata ogni anno nella legge di bilancio per sopperire alle momentanee esigente di cassa del tesoro. Presto si giunse ai miliardi e divenne, quella dei buoni ordinari, la maniera di sopperimento più importante in guerra ed in pace. A promuovere il risparmio, necessario da un lato per ridurre i consumi secondari o superflui e dall’altro lato a fornire allo stato i mezzi per i consumi bellici, divulgai (p. 370) in Italia, fin dal 1916, il metodo primamente usato in Inghilterra dei buoni o certificati, rimborsabili in qualunque momento a richiesta del risparmiatore, fecondi di frutto progressivamente crescente e retrodatato al momento dell’emissione, sicché il detentore avesse interesse, pur conservando la piena continua disponibilità del denaro, a serbarli in portafoglio per il maggior tempo possibile. I buoni furono, col nome di buoni fruttiferi postali, introdotti presto in Italia ed ebbero successo notabilissimo, sicché oggi sono lo strumento preferito di impiego dei risparmi della piccola e media gente, particolarmente nelle campagne.

 

 

In argomento di prestiti, pur riconoscendo che l’Italia non aveva toccato l’ideale, che sarebbe stato quello di coprire il fabbisogno bellico esclusivamente con il provento di nuove imposte e col ricavo di prestiti – ché in tal caso la spesa bellica sarebbe stata fatta con mezzi antichi, ossia con rinuncia ad altrettanti consumi privati e non sarebbe stato necessario stampare biglietti a vuoto, davo lode (p. 526) ai ministri del tesoro e delle finanze di avere

 

 

stabilito nuove imposte a mano mano che l’onere del bilancio cresceva a cagione dei debiti contratti.

 

 

In tal modo la pratica italiana, sebbene meno austera di quella inglese, la quale con le imposte copriva almeno una parte delle spese belliche, stava ben al disopra delle pratiche seguite in Germania, in Francia e nell’impero austro-ungarico, dove si era rinunciato apertamente a confessare ai cittadini che la guerra non si poteva vincere senza sacrificio (pp. 235 sgg. ). Il dott. Hellferich, ministro germanico delle finanze, nutriva, in verità,

 

 

fiducia di far coprire gran parte delle spese germaniche di guerra con le indennità dei paesi nemici vinti (p. 231).

 

 

La tesi, che era politica, gli consentiva di rinunciare a chiedere ai suoi il sacrificio di nuove imposte; ma la esigenza economica lo costringeva ad emettere prestiti grandiosi i quali erano stati, a parer mio, «un trionfo genuino». Riconoscevo che le accuse mosse a lui

 

 

di aver creato casse di credito pubbliche solo per mutuare biglietti a coloro i quali dovevano diventare i sottoscrittori dei suoi colossali prestiti (p. 229)

 

 

erano ingiuste, e, pur essendo egli nel campo avverso, osservavo che la tecnica seguita da lui nell’emissione dei due primi prestiti era perfetta. La testa di turco contro cui battevo più frequentemente e duramente era il torchio dei biglietti. Fin dal luglio 1915 notavo dolorosamente che (p. 98)

 

 

ancor oggi si incontrano persone, le quali reputano un beneficio le emissioni abbondanti di carta moneta e non sanno capacitarsi del perché gli stati si affannino tanto a contrar prestiti onerosi al 4,50 o 5% quando potrebbero farsi imprestare gratuitamente dai cittadini quante somme volessero, semplicemente stampando biglietti e pagando con essi tutti i propri creditori.

 

 

E snodavo la litania, oggi divulgatissima, degli effetti e dei danni delle emissioni sovrabbondanti di biglietti.

 

 

In quel tempo era divenuta popolare una critica rivolta contro gli alleati ed i neutrali:

 

 

essere uno scandalo che gli svizzeri vogliano lucrare 50 o 55 lire per ogni 100 dei loro franchi; che i francesi guadagnino il 30% e che gli inglesi ci vendano le loro sterline per 36-37 lire nostre invece che per 25 lire. Passi per i neutri, i quali non hanno nessun vincolo verso di noi; ma gli alleati dovrebbero moralmente essere obbligati ad accettare la nostra moneta alla pari e dovrebbero resistere alla tentazione di lucrar il 30 od il 40% a nostre spese.

 

 

La querela era esposta in articoli giornalistici ed in discorsi parlamentari in un tempo in cui per comprare un franco svizzero bastava spendere 1,50 lire italiane e per avere una lira sterlina si davano non più di 36 lire italiane. Non sono sicuro che nella testa di qualcuno in Italia non si nasconda un residuo del sofisma antico, oggi che per avere un franco svizzero occorre dare circa 150 lire italiane e per avere una lira sterlina fa d’uopo spendere 1750 lire italiane: e del pari 625 lire per ottenere quel dollaro, che prima del 1914 si cambiava con 5,25 lire nostre! Non ne sono sicuro, perché il sofisma nasce da un sentimento proprio dell’uomo, il quale attribuisce la responsabilità di un malanno che lo incolga non mai a se stesso, ma ad altri, al parente, all’amico, al collega, al concorrente, all’avversario. Se poi la colpa può essere data allo «straniero» , il ragionamento, anche se sbagliato, diventa senz’altro corretto, anzi incontrovertibile e chi lo smaschera è reo di leso-patriottismo. Nelle pagine del testo (da 433 a 438) il sofisma è a lungo confutato, più a lungo di quanto meritasse la evidenza dell’errore. Chi riscuoteva allora, per merce venduta agli inglesi, le 37 lire italiane invece della pari di 25 lire? Non gli inglesi, i quali pagavano nulla più e nulla meno che la solita lira sterlina; ma i venditori italiani della merce, i quali ricevevano allora 37 ed oggi riceverebbero 1750 lire; ed, apparentemente, «guadagnavano» 12 e guadagnerebbero oggi 1725 lire. Ma è tutta apparenza, ché per la abbondanza di segni monetari circolanti, le 37 lire di allora e le 1750 lire di oggi comprano o comprerebbero né più né meno delle 25 lire di prima del 1914. Il che voleva dire trattarsi di un affare interno, nazionale, fuor di ogni responsabilità straniera, di cui siamo responsabili noi che volemmo o consentimmo o tollerammo che i nostri governanti, per conseguire taluni fini pubblici (vittoria contro il nemico nel 1915-18, ed oggi strade, rimboschimenti, impianti ferroviario-portuali, lotta contro la palude o la malaria) o pseudo-pubblici (ferrovie inutili, palazzi superflui, impiegati esuberanti ecc. ecc.), invece di togliere denari preesistenti ai cittadini sotto forma di imposte o di prestiti, fabbricassero denaro nuovo e così crescessero i cambi esteri e svilissero la moneta nostra. Oggi, che di queste verità elementari tutti sono persuasi ed il pericolo sembra venuto meno, può parere inutile ristampare articoli del tempo in cui il sofisma correva ed il pericolo era attuale e si dimostrò in seguito distruttivo dell’assetto sociale. Ma, sicuro non sono che il sofisma non informi ancora il convincimento di troppi italiani. Il modo di dire, per fermo, rimane; e da esso è breve il passo al modo di pensare.

 

 

Correva nei giornali e nelle relazioni di governo o di commissioni parlamentari una teoria, la quale attribuiva l’aumento progressivo dell’aggio sull’oro e sulle monete straniere al disavanzo della bilancia commerciale. Ed era vero che

 

 

dallo scoppio della guerra europea alla fine di luglio 1917 – scrivevo il 15 dicembre 1917, a p. 456 – le importazioni di merci eccedettero le esportazioni per circa 8 miliardi e mezzo di lire,

 

 

somma suppergiù equivalente – vedi l’avvertenza a p. 792 di questo volume – a 12.750 miliardi di oggi.

 

 

Prima di affermare che la causa dell’aggio, ossia del deprezzamento della lira, sia il disavanzo della bilancia commerciale – ma si intendeva sempre parlare dello sbilancio totale o dei pagamenti – bisognava dimostrare che lo sbilancio esisteva. Orbene, a tacere dei guadagni della marina mercantile italiana, delle rimesse di emigranti e di altre sopravvenienze attive, le quali, anche negli anni di guerra, seguitavano ad arrivare,

 

 

non è forse vero che lo stato italiano ha esportato all’estero per miliardi di lire di titoli di debito? Far debiti all’estero è lo stesso che vendere od esportare all’estero nostri titoli di debito … È probabile che i debiti fatti dall’Italia in Inghilterra e negli Stati uniti siano stati sufficienti per coprire lo sbilancio tra importazioni ed esportazioni. Sì, noi comprammo 8 miliardi e mezzo di lire – carta di più di merci di quante non ne vendemmo all’estero; ma questi 8 miliardi e mezzo li pagammo con i crediti che ci furono aperti all’estero … Se questo è vero, come è possibile affermare che l’alto cambio derivi da una eccedenza che non esiste? … Se il cambio alto potesse concepirsi derivante da questa causa, noi avremmo il cambio alla pari. Un oculato e forte governo del tesoro e degli istituti di emissione – allora si parlava al plurale, perché accanto alla Banca d’Italia, avevano diritto di emettere biglietti anche i Banchi di Napoli e di Sicilia – basterebbe non solo a far scomparire le oscillazioni del cambio, ma l’aggio medesimo al disopra della pari (pp. 456-57).

 

 

Il sofisma assumeva così una forma meno grossolana di quella esaminata dianzi dell’attribuire senz’altro allo «straniero» la colpa di qualche nostra disgrazia; bensì l’altra di attribuirlo alla guerra, allo stato di necessità in cui la guerra ci aveva posto, di dovere fare spese di gran lunga superiori alle normali e di dovere perciò approvvigionarci all’estero in misura superiore alle nostre possibilità di pagamento. Che era un discolparsi apparentemente plausibile. Ma plausibile non era, perché si dimenticava che, in un mondo di uomini ragionanti, cittadini e governanti avrebbero visto che non si conduce guerra grossa, se non ci si sobbarca a grossi sacrifici di imposte nuove e di prestiti offerti mercé il risparmio ossia con la rinuncia a consumi anche ordinari. Ma nessuno, nemmeno nei paesi più ricchi, ebbe il coraggio della rinuncia. Piaceva lasciar credere che la guerra non avrebbe turbato troppo l’assetto normale della economia pubblica e privata; e sebbene noi, come osservai sopra, ci si fosse comportati abbastanza bene, non si ebbe il coraggio di aumentare le imposte come sarebbe stato necessario e si dovette perciò ricorrere, in misura notabile, agli indebitamenti coll’estero. Poiché questi non bastavano, si ebbe ricorso, per fronteggiare le spese interne, al torchio dei biglietti. Che fu la causa vera dell’aggio, del deprezzamento della lira e delle conseguenze politiche e sociali che ne derivarono.

 

 

Il bello si fu che quei debiti verso l’Inghilterra e gli Stati uniti non furono, se non in minima parte, rimborsati. Ma di ciò si discorrerà nel quinto volume, dove sono riprodotti gli articoli scritti a pro della tesi che quei debiti non dovessero essere rimborsati, essendo le spese state sostenute nell’interesse comune. Tesi la quale fu, dopo la vittoria comune, accettata, se non in principio, di fatto dagli alleati.

 

 

Continuava, ché la tradizione era antica, il metodo, opposto a quello seguito nel primo decennio dopo la unificazione e nella rinnovazione del catasto, delle sciabolate tributarie (p. 536), come un giorno le aveva acconciamente definite il Daneo, ministro delle finanze nel gabinetto Salandra. A chi tocca, tocca; pur che si faccia denaro: centesimi di guerra, sugli esenti dal servizio militare, imposta militare, sui canoni enfiteutici, ecc. ecc. Tipico il decreto del 3 febbraio 1918, il quale col pretesto della perequazione, aggiungeva un’altra alla vecchia e tuttora esistente sperequazione della doppia tassazione degli interessi dei debiti ipotecari. Se il proprietario di un fondo rustico tassato coll’imposta (e colle sovrimposte locali) fondiaria sul reddito di 100.000 annue, contrae un mutuo di un milione di lire al 5%, fruttifero di 50.000 lire annue a favore del mutuante, il fisco colpisce presso il proprietario il reddito di 100.000 lire che il fondo o la casa gli dà, e presso il capitalista mutuante gli interessi a suo favore di 50.000 lire; ed il totale reddito tassato è di 150.000 lire. Il doppio di imposta è evidente; ché il reddito è uno solo: quello di 100.000 lire fornito dal fondo. Il fatto che, prima del mutuo tutte le 100.000 lire fossero percepite dal proprietario e, dopo il mutuo, per 50.000 lire da lui e per 50.000 lire dal suo creditore, non produce l’effetto miracoloso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Il reddito rimane in tutto di 100.000 lire (50.000 + 50.000) e non diventa di 150.000 lire per ciò solo che il proprietario dal reddito di 100.000 lire deve prelevarne 50.000 lire e trasmetterle al creditore. Eppure, la sperequazione si perpetua, traendo pretesto dal fatto che l’imposta non colpisce le persone, ma le cose: il fondo e il mutuo. Il fondo dà o non dà un reddito di 100.000 lire? il mutuo non è forse fruttifero di interessi di 50.000 lire? epperciò paghino. Il sofisma è grossolano; perché i redditi sono goduti da persone e non da cose; e nessun arzigogolo può trasformare in 150.000 quello che è un ammontare di 100.000 lire.

 

 

Dal danno si era miracolosamente salvato, sino al 1918, un reddito, per il quale il doppio d’imposta era troppo chiaro per passare inosservato: i canoni enfiteutici. Esiste infatti nel nostro sistema di diritto, un istituto detto della enfiteusi. Sorto nel medio evo, esso sdoppiava la proprietà della terra: il vecchio proprietario pieno diventava proprietario eminente o domino del fondo e lo concedeva ad un coltivatore detto utilista, in compenso di un canone fisso in denaro o in derrate agrarie. Il «domino», rimanendo titolare della proprietà, fissava, ad esempio, il reddito da lui percepito in 1.000 lire all’anno; e l’«utilista», iscritto come colono enfiteuta nei libri catastali, riscuoteva il residuo prodotto del fondo. Il contratto di enfiteusi aveva per iscopo di incoraggiare la messa a cultura di terreni boscosi ed incolti; ché il colono, migliorando, avrebbe goduto di tutto il sovrappiù oltre le 1.000 lire dovute al proprietario. Col passar del tempo e con le migliorie, il sovrappiù era diventato maggiore del canone, e spesso questo, anche a causa della svalutazione della moneta, era divenuto irrilevante. Supponendo che l’enfiteuta incassasse 3.000 lire di reddito netto, accertato in catasto, era chiaro che il reddito era di 3.000 lire in tutto, delle quali 1.000 erano dall’enfiteuta versate al «domino» e 2.000 da lui trattenute. Per antica consuetudine era stipulato sempre che le 1.000 lire erano pagate al netto da pesi e tributi, sicché questi gravavano tutti sulle 2.000 lire dell’enfiteuta. L’immunità era stata convenuta dall’origine, ed era divenuta col trascorrere del tempo, ognora più ovviamente ragionevole, ché tutto l’incremento di reddito, oltre le 1.000 lire, spettava all’utilista. Saltava agli occhi che il reddito era uno solo, di 3.000 lire, ripartito in due parti a due persone, amendue iscritte come proprietarie del fondo, l’una col nome di domino e l’altra con quello di utilista. Epperciò, si era pacificamente sempre tassato il solo reddito delle 3.000 lire accertato in catasto, in conformità all’atto di creazione dell’enfiteusi, al nome dell’utilista. Durante la guerra, all’occhio linceo di un funzionario, occupato nel rintracciare materia nuova imponibile sfuggita all’imposta, parve di aver scoperto nei canoni enfiteutici l’araba fenice del cespite esente dall’imposta; ma la ingiustizia o sperequazione non era vera, ma dedotta dal fatto che, in altro caso, quello degli interessi ipotecari, pacificamente si commetteva la scorrettezza del doppio, tassando 150 quando il reddito totale era solo 100. Se la sperequazione nell’un caso è pacifica, perché non sperequare anche nell’altro caso? Così è della maggior parte delle ingiustizie alle quali si provvede creando imposte nuove: non si tratta di scoprire e tassare un vero reddito nuovo; non già di tassare qualcosa che sia veramente esente; ma solo di colpire quel che è tassato di meno o meno ferocemente di altri redditi o quel che appare esente, laddove invece è già tassato, ma non ancora due volte, al pari di altro disgraziato simigliante cespite. A nulla valsero le critiche mosse (cfr. pp. 533 sgg.) allo sconcio; il quale rimase, sinché, in un momento posteriore alla guerra, esso poté essere tolto.

 

 

La caccia alle ingiustizie ed alle sperequazioni fiscali da abolire è uno dei passatempi favoriti dei riformatori tributari; e già sin d’allora (29 novembre 1915 e qui a p. 272) mettevo in guardia contro le imposte demagogiche, fruttifere di «parole» invece che di «centinaia di milioni e miliardi di lire effettive» di cui ha urgenza il tesoro degli stati; e ricordavo il «famoso» bilancio del 1909 del signor Lloyd George, il quale, avendo fatto approvare un sistema di imposte sulle aree fabbricabili, ne aveva ricavato sino al 31 marzo 1914

 

 

l’unico costrutto di aver costato circa 55 milioni di lire italiane e di aver reso poco più 15 milioni di lire.

 

 

Sicché anche qui, a case calme, l’intiero edificio perequativo fu smantellato e raso a terra.

 

 

Spesseggiarono anche tra noi, le invenzioni infruttifere ed inapplicabili come le imposte sugli esenti dal servizio militare o quella sull’assistenza civile. Le successive chiamate dei riformati rendevano instabili i ruoli delle imposte; e le quote di sei lire si erano palesate quasi tutte inesigibili e causa di dispendio per la finanza invece che di entrata (pp. 529 sgg.). Sinché non fosse stata istituita la imposta complementare sul reddito, proposta dall’on. Meda, vana era la speranza di colpire i redditi esenti. I tentativi erano a vuoto e sempre si ricadeva nel solito risultato di sovratassare i già tassati (pp. 531 sgg.).

 

 

Ero scettico sui risultati delle nuove imposte sui sovraprofitti di guerra (p. 277); e criticavo l’incitamento che l’imposta dava, per l’indole del suo meccanismo, a crescere gli impianti inutili e le spese superflue allo scopo di sottrarre legalmente al tesoro la materia imponibile. In generale tutte le imposte che sovratassano l’eccedente su un reddito definito normale hanno effetti dannosi di spreco di capitali e di lavoro. Recando l’esempio all’estremo – ma è un estremo al quale ci si avvicina progressivamente durante la guerra e fu raggiunto dopo il 1919 con la cosidetta «avocazione» totale dei profitti di guerra – se si tassa con l’imposta normale, suppongasi, del 20% il reddito sino all’8% del capitale investito e con il 100% il supero oltre l’8%, quale mai interesse ha il contribuente a produrre il supero? Anzi, se le contingenze del momento procacciano un supero, egli ha interesse a sprecarlo: ad assoldare operai ed impiegati inutili, a distribuire stipendi ad amici e familiari. Giova procacciarsi clientela di amici e di impiegati, più che non pagare imposte. Ed ha interesse a compiere impianti superflui, pur di crescere la cifra «legale» del capitale investito. Se questo è di 100 milioni, l’imprenditore tiene per sé otto (8% su 100 milioni di capitale) sugli eventuali 20 milioni di reddito conseguito ed il resto deve versarlo all’erario. Se egli perciò cresce l’investimento a 150 milioni, non occorre che i 50 milioni in più di impianti e di scorte fruttino alcunché. Egli può tenere per sé, all’8% 12 milioni, versandone solo 8 invece di 12 allo stato. Se egli riesce a spingere, purtroppo di fatto e non solo per scritturazione contabile, gli investimenti a 200 o 250 milioni di lire, egli può tenere per sé, assoggettati alla sola imposta normale, 16 o 20 milioni rispettivamente e finire di non versare più nulla allo stato. Fu, in misura progressivamente crescente, l’esperienza degli anni dal 1917 al 1920. Il capitale superfluo, per il meccanismo dell’imposta, fruttava, non perché fosse realmente produttivo, ma perché risparmiava, a vantaggio del contribuente, il versamento delle imposte crescenti sull’eccedente. Il danno per la collettività era certo; ma l’imposta confiscatrice era popolare e riscuoteva plauso generale (pp.559, 628); e riscuote ancor oggi, ogni qualvolta il principio, in forme nuove, venga accolto, plauso rinnovato. A nulla giovano, ad impedire gli sprechi, le facce feroci, i giuramenti fiscali, le minaccie di galera; ché l’errore fiscale offre la giustificazione «morale» alle evasioni di difesa ed aggiunge «pretesti» a coonestare le frodi sostanziali.

 

 

Lo stato di guerra diede luogo a speranze, le quali poi si dimostrarono ingiustificate; ché la scarsità dei beni rese inutili talune delle salvaguardie protettive che a poco a poco erano state stabilite a favore delle industrie. Innanzi alla guerra, il produttore di zucchero nazionale era soggetto ad una imposta di fabbricazione di 76,15 lire al quintale per lo zucchero raffinato; e poiché l’importatore avrebbe dovuto pagare 99 lire per quintale, il produttore nazionale godendo di un margine protettivo di lire 22,85, viveva sicuro di dominare intieramente il mercato italiano. La guerra, rialzando i prezzi e provocando con i razionamenti e le distribuzioni ai soldati, un aumento dei consumi, consigliò a ridurre gli ostacoli alla importazione straniera. Il che, alla fine del 1916, si conseguì decretando una sovratassa di guerra sulla produzione nazionale di 17 lire per quintale. Temporaneamente il margine protettivo si riduceva così da 22,85 a 5,85 lire al quintale, in conformità alla norma generale della convenzione di Bruxelles (pp. 374 sgg.). Me ne rallegravo nella speranza che

 

 

al ritorno della pace fosse conservato il regime fiscale fortunatamente consigliato dalle esigenze di guerra …, il margine protettivo di lire 5,85 essendo largamente sufficiente ad una industria, già ricca prima e rafforzatasi vieppiù durante la guerra (p.376).

 

 

Speranza fallace, ché gli zuccherieri seppero poscia riconquistare il perduto privilegio.

 

 

Lo stato di guerra aveva costretto, sin dal 18 ottobre e dal 1 dicembre 1914 a ridurre temporaneamente il dazio sul frumento da 7,50 a 3 lire al quintale; che non erano veramente tali, perché, non consumandosi frumento in granella, ma frumento trasformato in farina da pane e da paste alimentari, il dazio effettivo era quello sulle farine, ridotto solo da 11,50 a 5,25 lire al quintale. Perciò dichiaravo nel gennaio del 1915 necessaria la immediata abolizione di ambo i dazi sul frumento e sulle farine (p. 52). Che fu cosa fatta subito; ma non ebbe effetto, perché ben presto la situazione si invertì ed il governo, con calmieri, requisizioni e tesseramento per il frumento e gli altri cereali inferiori, credette dover mantenere il prezzo del pane ad un livello politico con perdita crescente per l’erario. Le pagine del presente volume sono consacrate spesso al problema del pane (cfr. per i primi anni il gruppo di articoli da p. 45 a p. 82); e sulle forme del pane (unico o di due tipi?) A favore dei due tipi si adduceva che, lasciando ai consumatori completa libertà di scelta tra il tipo ordinario, alla resa dell’8%, di forma grossa e di ottima sostanza, quello un tempo detto «di munizione» perché distribuito ai soldati, calmierato a 50 e poi 65 centesimi al chilogrammo ed i tipi detti fini, sempre alla resa dell’8%, in forme libere ed a prezzi di mercato, il grosso dei consumatori avrebbe preferito il pane grosso, a prezzo politico basso; laddove i più agiati e raffinati abituati a forme più piccole ed apparentemente più allettevoli, avrebbero pagato prezzi più alti e crescenti. Prevalse, sino alla fine della guerra ed ancor dopo, il partito del pane unico; perché, si disse, i poveri ed i lavoratori avrebbero tenuto in dispregio il pane grosso e guardato con odio e invidia i ricchi, i quali meglio forniti di moneta avrebbero consumato i tipi fini e cari. A noi la roba destinata ai porci; ai ricchi quella per i palati fini. Né si può negare che, in un momento nel quale si doveva contare sulla concordia nazionale, la tesi del pane di forma unica non fosse ben ragionata. Non pareva accettabile la proposta del prof. De Viti De Marco (p. 60) di accordare un sussidio ai poveri che non fossero in grado di pagare il prezzo di mercato; ché il pericolo di favoritismi, di falsi poveri iscritti nelle liste delle congregazioni di carità e di costi crescenti di amministrazione del congegno distributivo era chiaro. Il metodo dei due tipi, osservava talun difensore dell’erario, avrebbe chiarito che i più avrebbero preferito consumar pane di forme fini a prezzo libero crescente, abbandonando l’uso del pane grosso ai buongustai, ai ceti impoveriti degli impiegati, dei pensionati, dei redditieri ad interesse fisso e ad una minoranza residua di vecchi veri poveri. La svalutazione della lira provocava un gran tramestio negli ordini sociali, sicché i confini tra poveri agiati e ricchi si mischiavano in maniera confusa e facevano preferire ai governi il principio della parità di trattamento che, astrazion fatta della sua sostanziale applicazione, e pur sempre proprio dello stato, particolarmente quando si vive in una piazza assediata, come era allora l’Italia, dove i capi politici destinati agli approvvigionamenti vivevano in ansia quotidiana di affondamenti di sottomarini e di rivolta di popoli timorosi di restare senza pane.

 

 

L’esperienza del tempo dal 1915 al 1918 crebbe l’antipatia, che già esisteva, verso gli interventi dello stato nelle faccende non sue. Mi era accaduto di dirmi favorevole e addirittura di proporre, non per scemare l’altezza, ma soltanto per ridurre le punte delle oscillazioni dei corsi dei cambi, l’istituzione di un ufficio centrale dei cambi (p.446). Mi ero illuso che ciò potesse farsi senza un apparato amministrativo, per decisione personale di poche persone, sovratutto del ministro del tesoro e del direttore generale della Banca d’Italia, senza «burocrazia» che è parola impropria per riassumere regolamenti, norme e circolari che sono ingredienti necessari per l’azione di un qualsiasi intervento dello stato. Quando poi fu istituito l’Istituto centrale dei cambi, che pur non era diventato quella cosa grossa con più di mille impiegati che divenne durante la seconda guerra, mi persuasi ché la mia, delle poche persone competenti pronte all’azione, agili nella trattazione degli affari, adusate a parlare e decidere per telefono, era una illusione. Ma in quella illusione durai a lungo; e le pagine di questo volume recano traccie numerose di critiche alle commissioni, ai comitati interministeriali incaricati di dare unità di azione ai ministeri chiusi nella fortezza delle competenze, in lotta continua contro le pretese concorrenti dei ministeri affini. Si passi sopra ai pareri dei consigli, delle commissioni; si incarichi, per decidere sui problemi del carbone, del frumento, della marina mercantile, dei prezzi, dei noli, degli approvvigionamenti una persona sola, competente, tratta dai ceti industriali e mercantili, posta al disopra delle beghe dei funzionari governativi, desiderosa di ritornare alle occupazioni sue professionali, ai negozi consueti, e di liquidare al più presto l’istituto o l’organo istituito per provvedere ad una esigenza immediata del tempo bellico; ma poi vidi che il competente, pronto a servire lo stato temporaneamente col salario di una lira all’anno, che si narra sia esistito in altri paesi, non si trovò o non si fece innanzi; e che si moltiplicavano invece gli istituti e gli interventi pronti a frastornare l’attività dei privati e degli enti, i quali di fatto dimostravano di recar vantaggio al pubblico e di saper soddisfare ai bisogni quotidiani della collettività. Manca il pane o la farina in una zona del paese? Ed ecco, nonostante le circolari contrarie del ministro Raineri (p. 468) i prefetti emanare decreti di divieto per le esportazioni di cereali da una provincia all’altra.

 

 

Provincie prive di mulini, le quali supplicano prefetti, ministri, commissari generali ai consumi affinché sia data licenza di importare farine da provincie, dove le farine ridondano ed i mulini sarebbero pronti ad inviarne carri a decine. Ministri e commissari che fanno l’indiano o consigliano di rivolgersi ai consorzi granari locali, i quali hanno provviste irrisorie ed affatto insufficienti ai bisogni locali.

 

 

L’opinione pubblica commossa dalle notizie di esportazioni di derrate alimentari, attraverso la Svizzera, ai paesi nemici, invoca ed ottiene l’emanazione di decreti i quali vietano indiscriminatamente l’esportazione di qualsiasi derrata o merce alla Germania e all’Austria, anche se si tratti di beni i quali non hanno nulla a che fare con la capacità di resistenza bellica; ed il divieto è tassativo quando l’esportazione avrebbe condotto ad un aumento di prezzi a danno dei consumatori nazionali (p. 223). Non v’era dubbio che talune esportazioni, ad esempio del cotone, della lana, del frumento, del riso o di ogni altra derrata o merce atta ad alimentare, equipaggiare od armare soldati e civili dei paesi nemici dovevano essere del tutto vietate. In molti altri casi, tuttavia, di merci di lusso o superflue, la esportazione al nemico avrebbe dovuto invece essere incoraggiata, come quella che avrebbe fornito a noi valuta, utile per importare beni necessari ed impoverito il nemico. Anche se qualche volta fosse stato ridotto il consumo interno, il problema doveva essere risoluto confrontando il danno del prezzo aumentato per i consumatori nazionali ed il vantaggio di potere, colla vendita, acquistare derrate o merci mancanti in Italia e più necessarie alla alimentazione di quelle esportate (p. 225). Ma prevalse la vociferazione contro gli speculatori i quali si arricchivano, esportando, in contrabbando, merci che, anche se indifferenti per la condotta della guerra, erano o parevano in qualche modo abbisognevoli a talun consumatore.

 

 

Talvolta la mania dei divieti tocca l’assurdo.

 

 

Un giorno si legge sui giornali che alla frontiera si arresta un Tizio il quale tentava di esportare in Svizzera cedole di titoli nemici. Un altro giorno si legge un comunicato di colore ufficioso, il quale annuncia gravi pene contro coloro i quali negoziano titoli stranieri nemici. Ed è notorio che la censura militare impedisce l’invio all’estero di titoli nemici (p.639).

 

 

Non giovò osservare che i titoli, particolarmente austriaci, erano stati acquistati da cittadini italiani quando l’Austria era nostra alleata e l’acquisto era lecito. Non giovò dire che la vendita avrebbe procacciato ai venditori italiani un valsente in valuta negoziabile e che in tal modo, contro un’uscita di pezzi di carta inservibili in paese, si sarebbe ottenuta la disponibilità, ad esempio, di franchi svizzeri i quali sarebbero rifluiti sul mercato nostro ed avrebbero consentito di rifornirci di beni economici ben più importanti dei titoli cartacei esportati. Se si fosse preveduto l’avvenire si sarebbe potuto aggiungere che la vendita eseguita per tempo (scrivevo il 24 marzo 1918) avrebbe salvato il possessore italiano della perdita del proprio capitale in conseguenza della svalutazione totale della corona austriaca, seguita alla sconfitta della monarchia austro-ungarica.

 

 

Mutare un andazzo invalso nel mondo politico e nella opinione pubblica era allora ed è oggi impresa disperata; anche se chi tentava correggere taluno degli andazzi più pericolosi poteva parlare da una assai divulgata tribuna. Talché, giunto quasi al termine della guerra (25 luglio 1918), mi cadeva l’animo dinanzi alla onnipotenza dello stato, fatto persona fisica vivente nei suoi funzionari:

 

 

Ministero vuol poi dire pochi commissari e funzionari, la cui presunzione va crescendo di giorno in giorno. Nei ministeri gonfiatissimi di oggi gli italiani si sono scaldati una serpe in seno che darà molto filo da torcere all’industria italiana nel dopo guerra. Sono venuti su alcuni tiranni i quali vogliono spadroneggiare, disciplinare, sorvegliare, indirizzare; e contro di cui sarà assoluta necessità lottare animosamente se si vuole che l’industria non sia rovinata. Ma dovrà essere una lotta a coltello, ben più costosa e dura di quella che dovrà essere combattuta contro la risorta concorrenza germanica, contro il dumping e contro tutti i più famosi spauracchi dell’ante guerra (p. 628).

 

 

Non erano ancora sorti i dittatori economici, onesti, convinti, capaci, ai quali saranno destinate parecchie pagine del volume quinto; ma già l’«industria», che nel mio linguaggio di allora significava i ceti industriali, bancari e commerciali italiani, si difendeva nel modo che poi usò quando venne sul serio il tiranno, «coll’astuzia e colle blandizie» (p. 628). Al luogo della libertà, che poteva essere consentita senza pericolo nei casi nei quali non era in gioco la salvezza del paese dal nemico, si ebbe l’arbitrio ministeriale. Lo stato di guerra giustificava gli abusi; ma il male stava nel consentire diventassero abusi quelli che erano forse il legittimo uso di diritti misconosciuti dalla tirannia ministeriale.

 

 

Alla inframettenza presuntuosa dei funzionari ministeriali forniti di potere sulla condotta politica, economica ed, ahimè !, spirituale dei cittadini fa d’uopo concedere la venia dovuta al prevalere di errori radicati da secoli nella pubblica opinione. Qual meraviglia se prefetti, ministri, deputati invocano e decretano calmieri, requisizioni, in multe e carcere contro i profittatori del mercato nero, divieti di esportazione di beni non necessari a noi e inutili alla condotta della guerra, proibizioni al commercio fra provincie abbondanti e provincie manchevoli, imposte distruttrici su coloro i quali ottengono lucri. eccedenti il livello normale, perché sanno organizzare bene i mezzi produttivi e tenui su coloro i quali guadagnano poco o perdono perché capaci solo a sprecare capitale e lavoro; se parlamenti approvano imposte sulle aree fabbricabili congegnate in modo da costringere a venderle a buon mercato ed a utilizzarle perciò malamente in costruzioni scarsamente redditizie quando l’interesse collettivo avrebbe richiesto che le aree medesime fossero «speculativamente» ossia «razionalmente» serbate vuote in attesa del futuro momento adatto all’ «ottima» utilizzazione; qual meraviglia che peggio non accada, quando l’errore è voluto, imposto dal clamore della opinione pubblica e la tirannia ministeriale detta «burocratica», altro non è se non il braccio secolare il quale esegue la sentenza pronunciata dalla pubblica opinione?

 

 

Il tempo di guerra è terreno particolarmente propizio alla seminazione degli errori. Le pagine di questo volume recano assai critiche alle farneticazioni protezionistiche di coloro che, preoccupati dell’avvento della pace, invocavano proibizioni o dazi altissimi contro le importazioni dai paesi nemici e particolarmente dalla Germania, che dicevasi agguerritissima, pronta ad iniziare subito una lotta distruttiva a danno delle industrie dei paesi alleati, a base di svendite a sotto costo, di pagamenti a lunga scadenza e di premi alla esportazione. Avere essa ammortizzato, cogli utili bellici, gli impianti esistenti, sicché questi lavoravano a costi minimi o nulli per interessi ed ammortamenti. Che è grossa fandonia, la quale è ripetuta (p.625) anche in tempo di pace per i paesi vecchi. Si immagina che certi paesi, detti vecchi, possano muovere concorrenza vittoriosa ad altri detti nuovi o, con parola nuovissima divenuta oggi di moda, sottosviluppati, perché i loro impianti industriali sono oramai nei libri contabili valutati a zero e non costano perciò interessi ed ammortamento. Come se l’esperienza posteriore alle due grandi guerre non avesse dimostrato che gli impianti vecchi, sedicentemente ammortizzati, lavorano ad alto costo e provocano la decadenza delle imprese, i cui dirigenti si addormentano nella falsa credenza dei costi nulli; laddove la fortuna economica degli Stati uniti è «anche» data dalla prontezza con la quale gli impianti vecchi, anche se fisicamente ancor nuovissimi, ammortizzati o non, sono buttati nei ferrivecchi non appena macchinari nuovi, metodi produttivi diversi lavorino a costi minori; e il rifiorimento della Germania e dell’Italia non sia «anche» dovuto alle distruzioni belliche degli impianti vecchi cosidetti ammortizzati ed alla necessità nella quale le imprese si trovarono di rinnovare, con o senza l’aiuto americano, stabilimenti ed impianti in modernissima perfetta maniera; questi, sì, lavoranti a costi bassi. Tant’è ; nell’elenco delle ragioni o pretesti per cui gli industriali nazionali invocano protezione contro le importazioni straniere, sempre figura la voce: «costi bassi stranieri per impianti vecchi ammortizzati» ; laddove la voce dovrebbe essere rovesciata e messa nell’elenco delle disgrazie altrui, con il titolo di “costi alti stranieri per l’uso di antiquati impianti detti ammortizzati».

 

 

Nella state del 1918 si ebbe il primo accenno in Italia di una mutazione nella struttura delle banche commerciali, la quale col tempo provocò poi un’altra mutazione, assai più radicale e pericolosa, di esse in banche di stato. Lamentavamo, innanzi al 1914, che le grandi banche ordinarie italiane, a differenza di quelle inglesi e ad imitazione del modello tedesco, oltre alle operazioni brevi di sconti e di anticipazioni per la fornitura del capitale circolante delle industrie e dei commerci, prendessero troppa parte alla fornitura all’industria del capitale di investimento a lunga scadenza. Dicevasi che le banche in tal modo diventassero padrone dell’industria e tendessero a persuadere i dirigenti di questa ad occuparsi non tanto della produzione a costi decrescenti di beni economici, quanto del promuovere l’aumento del prezzo delle azioni emesse dalle società ed accolte nel portafoglio delle banche in attesa di poterle collocare profittevolmente, a prezzi cresciuti nelle borse, sul mercato dei risparmiatori-investitori. La guerra, arricchendo le imprese dell’industria pesante, fornì ai loro dirigenti i mezzi per dare inizio alla pratica opposta: non più le banche padrone dell’industria; ma i grossi gruppi industriali, intesi ad acquistare le azioni delle banche, così da diventare padroni del pacchetto di maggioranza – e bastava per lo più una maggioranza relativa in un’assemblea di minori azionisti disorganizzati – e pronti a nominare consiglieri ed amministratori delegati ligi ai loro interessi. Il pericolo era grave: che pochi uomini disponessero dei depositi delle banche a vantaggio delle proprie intraprese (pp. 683-87). Per quella volta, il ministro del tesoro Nitti credette di aver risoluto il problema (art. del 2 luglio 1918, pp. 688 sgg.) col persuadere le quattro maggiori banche commerciali – Banca italiana di sconto, Banco di Roma – a stipulare tra di loro un accordo di difesa contro l’assalto dei capi dell’industria pesante. Fin d’allora, la costituzione di un cartello delle banche era veduta con sospetto da chi dettava le presenti cronache (p. 689); e non dovevano passare molti anni perché le immobilizzazioni dei depositi a favore di talune grosse imprese industriali procacciassero dapprima la crisi della Banca italiana di sconto, gli interventi di salvataggio dello stato e poi la nazionalizzazione del sistema bancario italiano.

 

 

L’idea storta che governava i provvedimenti con cui si intendeva risolvere ad uno ad uno i problemi, i quali si presentavano, con urgenza, all’attenzione ed all’ansia dei cittadini, era che in verità esistessero «problemi» economici l’uno distinto dall’altro. L’idea non è morta; anzi rigermina vigorosa ogni volta dalle sue ceneri. Ogni giorno si legge che «un problema è sorto e deve essere risoluto»; quasi esistessero problemi singoli e questi potessero essere risoluti ad uno ad uno. La manifestazione più comica della problematica si ebbe nell’estate del 1918 quando pareva ed era imminente la fine gloriosa per l’Italia e per gli alleati, della guerra e tutti si ponevano il problema: che cosa si farà poi? come costringeremo la Germania ed i suoi accoliti a pagare le indennità sacrosantamente dovute per gli ingiusti danni di rovine e di impoverimento a noi recati ? Come, pur costringendola a pagare indennità sufficienti e perciò grandiose, ne schiacceremo la capacità di concorrenza a nostro danno, le impediremo di vendere a noi i suoi beni a prezzi rotti? Come la necessità di riparare con lo sforzo di tutti all’impoverimento determinato dalle rovine belliche sarà contemperata con le promesse di distribuire buone terre appoderate ed attrezzate ai reduci, e di aumentare il reddito medio delle moltitudini meno provvedute? Il frutto del nobile proposito di risolvere la quadratura del circolo fu la nomina di una mastodontica commissione, presieduta dall’on. Pantano, detta del dopo guerra; che, per cominciare, fu composta di seicento membri (cfr. art. del 16 luglio, del 25 settembre e del 16 novembre, pp. 692-708). Approdò quella commissione, con gran dispendio, ad una relazione dell’on. Pantano, che nessuno lesse e fu presto dimenticata. Non poteva approdare a nulla; perché seicento pareri contrastanti per origine ideologica, per tradizione di partiti o di classi, per interessi economici non formano un’idea, una politica capace di risolvere il problema, che è unico ed inscindibile, dell’avanzamento della nazione.

 

 

Dalla considerazione particolaristica dell’unico problema economico non può non nascere la torre di Babele, con la connessa confusione delle lingue. Il problema vero fondamentale che si trattava di risolvere era questo: vogliamo che prosegua nel dopo guerra l’attuale tendenza bellica, forse inevitabile per necessità assolute di guerra, verso la gestione di stato degli affari economici, verso il dominio della amministrazione o vogliamo il ritorno, sia pure graduale, verso libere maniere di attività private, con interventi statali limitati ai soliti casi ammessi nei tempi ordinari? … Nella commissione nessuno è incaricato di risolvere il problema generale; sicché si avrà una collezione di precetti, così cari al dilettantismo fantasioso dell’on. Pantano, celeberrimo per avere in tasca, come del resto parecchi suoi colleghi di sottopresidenza, piani «completi» ed «organici» e «geniali» per rimediare in quattro e quattr’otto ad ogni malanno dell’Italia e dell’umanità (pp. 695-96).

 

 

Nel giorno della vittoria, chi scrive osa guardare in alto e spera che alla vittoria sul nemico straniero segua la vittoria sul nemico che è in noi:

 

 

Per non cadere nel disfacimento che è la conseguenza fatale dei tentativi di attuare programmi millenari che è il terreno fecondo su cui soltanto i Lenin d’Italia possono sperare di mietere, bisogna anche per il dopo guerra ritornare alle nostre vecchie e grandi tradizioni del risorgimento. Il ritorno a Mazzini ha contribuito, oramai tutti lo vedono, a far vincere a noi la guerra, poiché ha distrutto la compagine statale del nostro nemico. Per vincere il dopo guerra, per emergere più saldi, più forti, più ricchi moralmente e materialmente dalla grande prova civile che ci attende, bisogna ritornare alle audacie del conte di Cavour: alle audacie di chi odia i programmi vuoti, le parole retoriche, le promesse aventi un puro e basso scopo elettorale, alle audacie fredde, ragionate di chi sa la meta a cui vuoi giungere, scarta i mezzi inadeguati e sceglie la via che può essere percorsa senza pericolo di cadere nell’anarchia e nella reazione. Cavour, che la lettura dei suoi scritti rivela essere stato uno dei maggiori economisti d’Italia, non fu l’uomo di un’idea unica. Fece costruire allo stato ferrovie e porti, sussidiare linee di navigazione, impose tasse durissime; ma mentre faceva far molto allo stato dove giudicava l’azione sua vantaggiosa, gli toglieva compiti, come quelli di regolare e proteggere l’industria, di fissare i calmieri del pane, laddove credeva che l’aria libera fosse meglio atta a promuovere lo sviluppo della ricchezza ed il buon mercato della vita. Finiva di abolire le corporazioni d’arti e mestieri; ma fondava una cassa di assicurazione per la vecchiaia degli operai e voleva renderla universale. Così egli condusse il Piemonte dal 1850 al 1860 ad un alto grado di forza economica (pp. 704-5).

 

 

Le pagine qui raccolte hanno dunque, pur nel clima di consenso doveroso all’opera delle autorità politiche e militari nel tempo di guerra, indole sovratutto critica. Troppi furono gli errori inutili, le improvvisazioni, l’ossequio alle pretese irrazionali dei danneggiati dalle esigenze belliche, perché la critica potesse tacere. Spesso si passò il segno nella arrendevolezza verso le richieste di vantaggi momentanei a pro di questo o di quell’altro ceto o città o regione, verso il clamore disordinato contro gli arricchimenti dei provveditori di cose belliche, degli accaparratori e profittatori del mercato nero; troppo si indulse a provvedimenti dettati da buone intenzioni frettolose, ma intesi a conseguire effetti contrari al bene comune; troppi imbrogli demagogici furono aggiunti al sistema tributario vigente, dall’usura del tempo già fatto decadere dalla prima semplicità razionale; sicché il volume ha in gran parte sostanza di critica quotidiana a malefatte di legislazione e di amministrazione. Giova sperare che le sue pagine non appaiano, come non erano nelle intenzioni, di scarso apprezzamento degli uomini di valore i quali, se pur commisero taluni errori economici pratici, servirono validamente e devotamente il paese e condussero la patria alla vittoria. La critica era anch’essa doverosa, se talvolta giovava a smussare le punte degli errori ed a gittare il germe di una diversa condotta, che era assurdo pretendere in tempi fortunosi, per il tempo auspicato della pace.

 

 

Una tregua nell’incessante susseguirsi di problemi incalzanti si può forse scorgere nelle pagine da 138 a 184 nelle quali, in articoli scritti fra il 15 marzo 1915 ed il 5 dicembre 1916, studiai la crisi del carbone e l’ingombro del porto di Genova. Rileggendo quelle pagine, ricordai i giorni nei quali interrogavo facchini del porto, organizzatori operai, capi del consorzio, commercianti in carbone e in cotone, industriali dell’interno desiderosi di materie prime; e cercavo di formarmi un quadro preciso dei grossi problemi dalla cui soluzione, empiricamente cercata giorno per giorno, ora per ora, dipendeva la vita dell’industria e delle popolazioni nella grande pianura padana ai cui confini operava e combatteva l’esercito italiano. Risento ancor oggi il rimpianto non ci sia stato mai nessuno il quale scrivesse il beI libro di economia viva che poteva ed ancora può essere dettato a narrare ed analizzare il congegno vario e ricco e miracoloso del maggior porto italiano. Credo di avere già scritto altrove come a scriverlo dovrebbero collaborare un economista ed un romanziere; un Pantaleoni ed un Balzac. Il Pantaleoni scrisse quel capolavoro che si intitola alla Caduta del Credito mobiliare, nel quale sono narrate, da chi le aveva rivissute, le vicende della grandezza e della decadenza della maggior banca di investimenti del tempo suo; laddove il Balzac, forse per avere, anch’egli, provate le speranze e sofferte le delusioni dello speculare economico, seppe creare tipi di banchieri, di negozianti, di sfaccendati giocatori di borsa, uomini e donne, di geni e di sprovveduti quali nessun economista seppe immaginare e descrivere. Quale stupendo stimolo all’analisi economica il porto di Genova; dove arrivano navi e merci e uomini da ogni paese del mondo e si dipartono merci ed uomini per le fabbriche del Piemonte e della Lombardia; dove a tratto a tratto dominava il padrone della chiatta e riscuoteva taglia su chi doveva scaricare dalla nave e non sapeva dove collocare la merce scaricata, e poi scompariva nei tempi di magra o di servizi abbondanti e bene organizzati; dove si scontrano gli interessi degli importatori di frumento, di carbone e di merci varie con quelli delle industrie consumatrici del nord; dove le calate, i pontili, gli scali ferroviari sono strumenti gli uni agli altri coordinati; dove l’intermediario, il commissionario, l’agente, che maneggia miliardi in uno «scagno» di pochi metri quadrati in un vicolo di basso porto, lavorano attorno alle grandi banche e regolano sulla parola affari colossali in borsa e per la strada; dove le organizzazioni operaie hanno sostituito i «confidenti» di un tempo; e dove il consorzio del porto, la Camera di commercio, il capitano del porto, l’ispettore di pubblica sicurezza, il municipio gestore del punto franco si incontrano, si sovrappongono, si accordano. Nasce nel porto un mercato, un grande mercato, dove si formano i prezzi e dove è possibile analizzare costi, costi veri, i quali, confrontati con i prezzi, danno luogo a perdite ed a guadagni. Auguro che le analisi di costi da me condotte in quel tempo persuadano taluno amante dei fatti economici analizzati nella realtà operante, a scrivere quel libro sul porto di Genova, che da tanti anni immagino ed invoco.

 

 

Ho raccolto nell’ultima parte del volume (pp. 748-90) scritti i quali dal 18 gennaio del 1915 al 16 ottobre 1918 furono dedicati a problemi non economici: la teoria tedesca della decadenza dell’impero britannico, quella inglese dell’equilibrio europeo e sulla necessità che la guerra finisca in una sconfitta della dinastia tedesca. Quest’ultimo iniziò sul «Corriere della sera» la serie degli articoli i quali recavano non la mia firma, ma quella di uno pseudonimo «Junius» e furono poi raccolti dall’editore Laterza in un volumetto dal titolo Lettere politiche di Junius. La sigla era quella stessa che nel Settecento era stata usata per un volume di scritti politici divenuti celebri, anche per la controversia sorta intorno alla persona dell’autore. Adottai per quegli articoli lo pseudonimo e l’uso di indirizzarli, quasi fossero una vera lettera, al «signor direttore» ; e cercai di serbare il segreto intorno alla persona dell’autore, per scemare ai lettori la noia di vedere troppo spesso ripetuto in calce agli articoli il mio nome e per il piacere di ascoltare da amici e conoscenti giudizi critici, che, vista la firma, non sarebbero stati dichiarati in mia presenza.

 

 

Nel gruppo degli articoli politici si inseriscono anche due articoli storici, l’uno sulla conquista del confine naturale delle Alpi occidentali compiuto lungo duecento anni di guerre e di lotte da Casa Savoia e l’altro sulla cavalleria con la quale nel Sei e Settecento si conducevano le guerre in Piemonte confrontate con i casi di barbarie moderne, che parevano già biasimevoli durante la prima guerra mondiale e divennero durante la seconda terrificanti per i trasferimenti forzati di intere popolazioni e per la tentata distruzione del popolo ebraico.

Prefazione

Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol.III, Einaudi, Torino, 1960, pp. XI-XXXVI

 

 

 

 

Le cronache contemplano in questo terzo volume gli anni dal 1910 al 1914. Dei cinque anni, tre appartengono al gabinetto Giolitti, dal 30 marzo 1911 al 19 marzo del 1914; undici mesi a quello Luzzatti, dal 31 marzo 1910 al 2 marzo 1911; un po’ meno di quattro mesi al gabinetto Sonnino, dall’11 dicembre 1909 al 31 marzo 1910; circa otto mesi, dal 21 marzo al 5 novembre 1914 al primo gabinetto Salandra, al quale succedette il secondo ministero dello stesso Salandra, non compreso però nel tempo degli articoli qui riprodotti. Sono gli anni della conquista della Libia e della neutralità italiana all’inizio della guerra mondiale; un anno di governo di uomini, Sonnino e Salandra, che possono essere detti di opposizione, un anno di Luzzatti e tre anni dominati da Giolitti.

 

 

Nonostante che per tutti i cinque anni la maggioranza dei deputati fosse ognora di ubbidienza giolittiana, non si può affermare trattarsi di dittatura. L’opposizione si faceva sentire liberamente alle camere; i critici scrivevano apertamente sui giornali; ed una parte notabile degli articoli qui raccolti suonano critica a provvedimenti o propositi ministeriali. Talvolta sembrava che gli oppositori dovessero avere partita vinta, tanto efficaci erano le loro argomentazioni; ma la maggioranza silenziosamente votava. La “palude” ubbidiva volonterosamente ai desideri del “presidente”, divenuto tale per antonomasia. La sudditanza volontaria, mossa da sentimenti di ossequio per favori chiesti o soddisfatti, di riconoscimento della riconosciuta capacità del capo di saper governare gli uomini, di soddisfazione dei rappresentanti di fedi politiche e sociali dette avanzate, non pareva foriera di pericoli. Nessuno, tra il 1910 e il 1914, immaginava sarebbe venuto il tempo in cui la palude avrebbe tutto sommerso e si sarebbero visti, nell’aula di palazzo Madama, senatori piegare il ginocchio quando passavano dinnanzi al seggio del duce impassibile. Nessuno immaginava che, dopo la caduta del fascismo, sarebbero venuti giorni nei quali al luogo di una sola palude se ne sarebbero vedute tre o quattro; e deputati e senatori avrebbero disciplinatamente votato provvedimenti, forse sgraditi ai più, al cenno venuto da un segretario di partito, estraneo come tale al parlamento.

 

 

Le Cronache di questi anni sono quasi interamente dedicate a problemi economici. Di rado discorrevo di problemi attinenti alla cultura ed alla politica generale. Cadde in mente ad un Tonelli, rettore della università di Roma, di avere risposta autentica al quesito se i professori universitari dovessero prestare giuramento, come era richiesto dalla legge generale vigente per gli impiegati dello stato. Il giuramento, innocuo, era caduto in desuetudine; ma era pericoloso e Carlo Somigliana ricordò che il sacerdote Domenico Chelini, professore di meccanica, era stato nel 1864 sfrattato da Bologna e nuovamente nel 1871 da Roma perché si era rifiutato di prestare un giuramento che egli giudicava contrario alla sua fede cattolica. Se ieri si espellevano i cattolici, perché non domani i socialisti? Francesco Ruffini, rettore a Torino, rifiutò di far prestare giuramento ai colleghi; altri ricordò che il giuramento era in contrasto con la legge Casati, la quale riconosceva agli stranieri il diritto di salire, se chiamati e parecchi furono – ad una cattedra italiana. Ministero, consigli superiori e consigli di stato adempirono correttamente alla cerimonia rituale della lavatura delle mani; e la cosa cadde, per allora (articoli del 7 e del 9 dicembre 1910, qui alle pp. 166-72) per essere risuscitata in tempi tristi di vera dittatura.

 

 

Gustavo Haenel, eruditissimo editore di antichi testi ed emerito amatore della roba pubblica altrui, era riuscito ad acquistare per pochi soldi dal canonico archivista della curia di Udine un esemplare, unico al mondo, della Lex Romana Raetica Curiensis, da lui depositato nel 1888 nella biblioteca universitaria di Lipsia. Federico Patetta aveva documentato il latrocinio, ed io lo denunciai pubblicamente. Paiono ancora oggi attuali gli articoli che il 21 aprile ed il 18 maggio 1913 (qui alle pp. 501-14) scrissi contro gli orari lunghi delle scuole medie. La lunghezza era ed è causata dall’errore di credere che la scuola debba “insegnare” certe cose dette “materie”, a norma di certe altre vanità dette “programmi” e non ad “educare” ragazzi e giovani a ragionare. Di qui la moltiplicazione degli insegnamenti e degli orari, il caleidoscopio degli insegnanti, i quali di ora in ora si susseguono dinnanzi ad una scolaresca, dopo le primissime ore, stanca e disattenta. Invece di un unico professore formativo, il quale segue per tutte le discipline, ad eccezione delle scienze matematiche, lo scolaro per almeno i tre anni del ginnasio inferiore (ora – scuola media), i due di quello superiore e i tre del liceo, costui è costretto a trangugiare frammenti di nozioni ad orari spezzettati, da quattro o cinque professori diversi, occupati a completare l’orario minimo, obbligatorio secondo il regolamento, racimolando ore aggiunte in sezioni o scuole diverse, con noia e scarso frutto di scolari raccogliticci.

 

 

Costruivo perciò uno specchio comparativo degli orari lunghi, con la dimostrazione del loro alto costo, del cresciuto numero degli insegnanti, delle necessarie paghe basse e lo confrontavo con il vantaggio degli orari brevi: scolari attenti, insegnanti ridotti di numero e meglio scelti e stipendi più elevati, non onerosi per l’erario. Reputo che siffatte riflessioni siano ancor oggi ragionate, sebbene non siano state, con disdoro della scuola, malcontento degli insegnanti e scarso profitto degli scolari, tenute in alcun conto.

 

 

Il trattato di Losanna con la Turchia, in virtù del quale il territorio della Libia era stato ceduto all’Italia, era stato male accolto dai nazionalisti, sospettosi di quel che sopravviveva della sovranità religiosa del sultano turco in veste di califfo dei mussulmani. Quelle residue vestigia erano invece, a parer mio, gran pregio del trattato, il quale in siffatto modo riconosceva agli arabi diritti propri autonomi, i quali facevano bene auspicare per la collaborazione dei due popoli, italiano ed arabo, reputati pari in diritto. Se altri errori non fossero stati commessi nel frattempo, non avremmo, neppure con quel riconoscimento, salvato la Libia; ed oggi ce ne andremmo ugualmente via, come fanno dappertutto gli europei e come facciamo noi in Somalia; ma anche in Libia ce ne andremmo con bel garbo, con la nomea di precursori e con gli onori militari e civili (articolo dell’1 novembre 1912, qui alle pp. 446-54).

 

 

Ammonitore è, in proposito, l’articolo scritto (2 marzo 1913, qui alle pp. 467-74) su la creazione della terra nella zona di Tripoli; articolo provocato dal fastidio di dover leggere su fogli quotidiani declamazioni grottesche sulla fertilità dei terreni tripolitani, sui grappoli colossali di uve prelibate, sul frutto copioso di tre quattro o cinque raccolti ottenuti su minimi giardini. Erano tutte fandonie; che il ministro Nitti saviamente aveva distrutto spedendo sul luogo un scelto manipolo di agronomi e geologi veramente periti e sapienti. I quali dimostrarono – e le loro pagine sono ancor oggi stupende e degne di essere meditate nei brani da me riprodotti ad ammaestramento di coloro che farneticano riforme agrarie atte a rapidi risultati su terre, cosidette deserte, poste in Italia – che i giardini dell’oasi tripolina si estendevano ad appena 5.244 ettari, divisi in forse 7.333 poderi, di una superficie media di 7.153 metri quadrati l’uno. In tutto, comprese anche le altre oasi fuori di Tripoli, le terre a giardino erano estese a scarsi 200 chilometri quadrati circa sui 16.000 del territorio tripolitano a cultura estensiva e saltuaria. Anche nella Libia la conquista della terra è faticosa e lunga e non ha mai termine. La terra è sabbia, è duna mobile, la quale deve essere difesa ogni giorno dall’assalto del vento, il quale trasporta la sabbia del deserto, dalle frane degli argini, dall’inaridimento provocato da un sole di fuoco, il quale tutto distrugge, se il contadino non veglia, giorno e notte ad estrarre l’acqua dal sottosuolo, con lento metodo frutto di esperienza millenaria. La terra tripolitana non è terra vergine la quale attende ansiosa l’aratro del pioniere; è terra antichissima, nella quale il contadino italiano non ha nulla da insegnare all’indigeno arabo, e molto da imparare. Lodavo perciò il ministro, il quale, risparmiando agli italiani le delusioni, altrove provate da colonizzatori troppo fidenti nei raccolti di meraviglie scritti da gazzetteri da caffè, aveva incaricato alcuni uomini probi e periti di esporre ai contadini nostri la durissima verità propria dell’eldorado libico.

 

 

Talvolta lo scrivente, pure indurito dalla esperienza, si persuade a patrocinare un qualche rimedio a talun grosso malanno della vita pubblica italiana; sicché, inquieto per il crescente numero, salito all’1 luglio 1910 a 508.809, dei dipendenti civili e militari (esclusi i soldati) dello stato, si dimostra, in talun articolo del tempo (in Ruoli chiusi o ruoli aperti?, del 26 aprile e 30 maggio 1911, qui alle pp. 316 – 27), favorevole al metodo dei ruoli aperti in confronto a quello dei ruoli chiusi. Ancora oggi, che il numero è più che raddoppiato e non par vi sia limite alla moltiplicazione, il ruolo aperto è in verità preferibile a quello chiuso. Ecco però l’on. Saporito, terribile e temibile spulciatore di cifre, ammonire in una relazione di minoranza della giunta del bilancio della camera dei deputati, che se, nel sistema dei ruoli chiusi, invariato rimanendo il numero dei funzionari, si faceva scemare il numero dei segretari e crescere quello dei capi sezione, così nel sistema dei ruoli aperti, fermo rimanendo il numero totale degli stipendiati, (vedasi l’esempio denunciato dal Saporito qui a p. 323) scemano i numeri scritti nei quadri degli stipendi minori e crescono i numeri scritti nei quadri degli stipendi medi e alti; sicché alla fine quando troppi sono in alto e pochi in basso, appare disdicevole che gli alti stipendiati assolvano uffici minori e conviene crescere il numero dei subordinati. La spassosa vicenda continua oggi, tuttoché, a parer mio, l’esperienza debba, tutto sommato, dare la preferenza al sistema dei ruoli aperti, che meglio soddisfa le esigenze degli anziani, li fa meno invidiosi del successo altrui ed attenua alquanto gli impulsi sanguinari dei giovani contro gli anziani. A ciò provvedono i limiti di età, i quali, in un clima bio psicologico di incremento della vita media, tenderebbero, per ragioni politiche, ad abbassarsi dai 70 ai 65 anni, ai 60, ai 55, ai 50 anni, se non lo vietasse la vaga consapevolezza dello squilibrio sociale verso il quale procede una società dove si gonfiano progressivamente e proporzionatamente le classi dei giovani, a cui si fa provvido divieto di lavorare non più a 9, ma a 12, 15 e presto saranno 18 e 21 anni, e dei vecchi, ai quali si fa uguale stolido divieto a partire da età troppo basse e tutto l’onere della vita sociale cade sul gruppo delle età di mezzo, oggi 15-65 e domani 18-65 o 21-60, gruppo destinato a diminuire progressivamente e proporzionatamente di numero. Vedremo un giorno la rivolta delle età mature contro la oppressione delle età giovani ed anziane?

 

 

Un motivo di critica frequente nel primo decennio del secolo, ha, anche in questo volume, eco ripetuta. Invece di lodare l’eroico contribuente, come è costume secolare dei relatori dei bilanci e dei disegni di legge di aumento di imposte, eccitavo i contribuenti alla resistenza contro le male imposte (p. 94). Lodavo l’imposta sugli spiriti che volevo in ogni caso alta, perché volutamente rivolta a diminuire il consumo delle bevande alcooliche (p. 523); condannavo (pp. 636 e 719) la proposta di aggiungere al tributo bene ragionato, detto dell’imposta di successione; un mostro di sperequazione che definivo imposta sul morto; giudicavo vana e dannosa l’imposta sul reddito dei titoli di stato: vana perché è indifferente per l’erario vendere il titolo di debito pubblico 4% netto a 100 lire, ovvero allo stesso prezzo il titolo 5% lordo gravato da imposta del 20% (e quindi fruttifero altresì di 4 lire nette); e dannosa all’erario perché, oltre il non irrilevante costo del registrare pagamenti di 5 lire, e poi trattenute, a titolo di imposta, di 1 lira e compiere pagamenti netti di 4 lire (che è sollazzo contabile, applicato del pari agli impiegati pubblici ai quali si dice di pagare 100 e poi se ne trattengono, a titoli diversi, supponiamo 10, sicché il pagamento vero è 90; e gli impiegati si vantano, a causa di quella scritturazione di 10, di essere i soli in Italia a pagare le imposte sul vero reddito, sino al centesimo; vanteria non vera perché quella delle 10 lire su 100 è mera scritturazione, eseguita per dar lavoro ad un certo numero di scritturali ed è priva di qualsiasi contenuto sostanziale), il tributo apparente del 20%, agisce come uno spauracchio agli occhi dei risparmiatori. Questi, che hanno le 100 lire ancora in mano, pagherebbero volentieri 100 lire per ricevere un 4% sicuro da ogni balzello, ma posti dinnanzi ad un 5% lordo, gravato da un’imposta del 20%, anche se il netto è sempre 4, scuotono la testa: e chi garantisce – chieggono – che l’imposta stia ferma al 20%? Era nel 1894 del 13,20% e la portarono al 20% ma potrebbero domani recarla al 30 per cento. Così, dubitando e temendo, essi riluttano al 5% lordo e si dispongono a pagarlo solo 95 a titolo di salvaguardia contro il timore dell’aumento futuro dell’imposta. Ecco il danno per l’erario, danno nato dall’ossequio letterale al comando dell’imposta uguale per tutti (pp. 611 – 12). Se frequenti erano le critiche contro l’altezza “insopportabile”, “inverosimile” delle aliquote nominali delle imposte italiane, provocatrice di frodi – ma allora l’incomportabile giungeva appena al 20! -; più gravi e ragionate erano le critiche alla mala distribuzione dei tributi. In un gruppo di articoli scritti nel 1953 (qui, pp. 578 a 609) affermavo che un carico tributario di circa 2.400 milioni di lire su un reddito nazionale lordo, calcolato allora, con la approssimazione propria di siffatti sondaggi sull’ignoto, in circa 12.000 milioni, era alto; ma la gravezza era inasprita dalla cattiva distribuzione. Allora come oggi, il giudizio dei più partiva dalla constatazione che i consumi erano tassati assai più dei redditi; reputandosi che la “giustizia” nelle imposte stesse nel colpire i contribuenti “direttamente” sul loro reddito, piuttosto ché “indirettamente” sugli atti e sui consumi da essi compiuti. Allora, oggi non più, ché le esigenze degli amatori di giustizia sono cresciute, si additava ad esempio il bilancio inglese, per il quale il grande Gladstone aveva fissato il comandamento “pratico” di giustizia nel rapporto detto del fifty fifty, metà alle imposte dirette e metà alle imposte indirette. Io non sapevo, come non so adesso, cosa fossero le imposte distinte con quei vocaboli; guardavo con diffidenza al più dei calcoli giornalistici e politici, i quali spesso sommavano cifre eterogenee, alcune nette ed altre lorde (ad esempio, delle 100 lire spese per il tabacco, imposta sono solo le 75 lire dell'”utile fiscale”) o trascuravano le imposte comunali e provinciali, quasi che il contribuente non fosse uno solo e pagare allo stato od al comune non dipendesse dalla convenienza del distribuire i compiti pubblici fra l’ente statale e quelli locali, e non si trattasse sempre di un unico tributo obbligatoriamente pagato per fini pubblici; mi reputavo inetto, allora come oggi, ad immaginare dove, in conseguenza delle regole della traslazione dei tributi, questi andassero effettivamente a cadere. Perciò riclassificavo alla meglio, come potevasi, le cifre dei tributi statali e locali, le depuravo da ciò che non era imposta, ma pagamento, ad esempio, di servizi speciali resi al singolo contribuente o di merci a lui vendute dall’ente pubblico, e giungevo alla conclusione che la proporzione fra le imposte gravanti sul reddito (nelle loro varie parvenze di redditi di capitali o di trasferimenti di questi) e sui consumi era suppergiù quella famigeratamente classica del fifty fifty, 1.200 milioni sui redditi e 1.200 sui consumi.

 

 

Meritavamo perciò la promozione con la lode da parte del signor Gladstone? Io ho l’impressione che anche oggi non ci dobbiamo scostar molto dalla osservanza della regola un tempo detta aurea; certamente assai più vicini al 50% che certi grotteschi 20 o 25% che sulle gazzette e nei parlamenti si usano attribuire, con parole di ribrezzo, al peso delle imposte sui redditi in confronto al carico tributario totale gravante sui contribuenti italiani.

 

 

Non perciò, oggi come ieri, potremmo trarre dalla constatazione il grido panglossiano di trionfo: viviamo nel migliore, sia pur pratico, dei mondi tributari possibili! Il problema, sia pure rozzo, di calcolo del peso comparativo dei tributi si risolve pienamente col paragonare e depurare e classificare con ogni diligenza le cifre brute delle imposte pagate? Anche se si riconosce la impossibilità assoluta di tradurre in cifre le regole ed i corollari e le detrazioni consigliate da quella dottrina della traslazione che è la ricerca più elegante e raffinata ed entusiasmante aperta a noi cultori della scienza tributaria, si ha il dovere di fare un tentativo, purtroppo grossolanissimo ed incertissimo, per calcolare alcune grosse cifre di somme che lo stato rimborsa a certi contribuenti e non a certi altri. Se lo stato, col dazio sul grano e sulle farine, consente a “taluni” proprietari di terreni a grano di riscuotere un prezzo del frumento maggiore del prezzo di mercato, non è forse, con quell’espediente, il proprietario di terre a grano posto in grado di pagare tutta o parte dell’imposta sui terreni? Allora era relativamente meno disagevole calcolare l’importo del rimborso, poiché si sapeva che il dazio sul grano era di lire 7,50 al quintale. Oggi non c’è dazio, ma esiste un monopolio statale del commercio estero del grano e ci sono altre diavolerie di contingenti e di vincoli a mulini ed a consorzi; ma il rimborso, più difficile ad essere calcolato, esiste anche oggi. Del pari si sapeva che i consumatori di zucchero rimborsavano agli zuccherieri sotto forma di differenza fra l’imposta pagata all’interno sullo zucchero nazionale ed il più alto dazio pagato alla frontiera, – e quest’ultimo determinava il prezzo di mercato, – l’imposta di lire 27,85 per quintale su ognuno dei 1.650.000 quintali allora consumati in Italia. Gli zuccherieri riscuotevano perciò un rimborso di circa 46 milioni di lire sulle imposte sullo zucchero nominalmente da essi pagate. Non tutti i possessori di ricchezza o di redditi ricevevano rimborsi e non tutti pagavano dazi privati. Grosso modo però calcolavo che i contribuenti pagatori di 1.200 milioni di imposte sui redditi e sui capitali, ricevevano 300 milioni di lire di rimborso di dazi; cosicché l’onere complessivo del gruppo dei pagatori di imposte sul reddito si riduceva, deducendo i 300 milioni di rimborso, da 1.200 milioni a 900 milioni; laddove l’onere dei pagatori di imposte sui consumi aumentava, tenendo conto di ciò che non tutto l’onere dei dazi protettivi andava a vantaggio di qualche gruppo di contribuenti redditieri, di 500 milioni di lire, passando da 1.200 a 1.700 milioni.

 

 

L’onere complessivo delle imposte versate all’erario restava suppergiù uguale; ma invece di dividersi, secondo l’aurea regola gladstoniana del fifty fifty, in 1.200 e 1.200, si divideva in 900 a carico dei pagatori delle imposte sui redditi e sui capitali e 1.700 a carico dei pagatori delle imposte sui consumi.

 

 

Quel che gli inglesi chiamano il villain of the piece, il colpevole dell’imbroglio, non era dunque la mala distribuzione “nominale” delle imposte; le quali avevano molte colpe, che cercavo di analizzare negli articoli, ma il colpevole più grosso era il rimborso, “invisibile ma reale”, eseguito a favore di taluni contribuenti alle imposte sui redditi dell’importo dei dazi doganali protettivi, gravanti sui consumatori. Il calcolo, degno di revisione, perché compiuto con larghissima approssimazione, meritava tuttavia una qualche attenzione. Allora, come oggi, in tempi di piena libertà di stampa, il sipario del silenzio cadde sull’accusa; la quale disturbava perché vera; ed il tacere era consigliabile.

 

 

La protezione doganale non era accusata in se stessa. Sarebbe stato allora rimprovero ingiusto contro gli uomini i quali avevano voluto dare all’Italia uno degli strumenti ritenuti da essi necessari per la creazione di una forte industria. Dopo l’inchiesta doganale del 1885-1886 si era affermata in Italia l’opinione che, per consentire alle industrie nascenti se di fatto non erano nuove nemmeno allora, acquistavano in quel tempo dimensioni non mai prima sperimentate – di resistere alla concorrenza estera, formare le ossa, trasformare i contadini in operai, invogliare i risparmiatori a correre rischi di investimenti industriali, fosse d’uopo introdurre una protezione temporanea. Col trascorrere del tempo, acquistata esperienza, educate le maestranze, resi fiduciosi i risparmiatori, superato il costo dei tentativi, le nuove o rinnovate industrie sarebbero vissute con le forze proprie, avrebbero lavorato a costi internazionali ed avrebbero potuto sopportare il colpo del ritorno alla libertà, quando, trascorso il ragionevole tempo della giovinezza, si fosse proceduto alla doverosa levata delle dande protezionistiche. Avrebbe forse sorriso per tanta illusione il conte di Cavour, del quale taluno ricordava la risposta ai corregionali agricoltori querelantisi per il dazio troppo tenue sul grano: “sei d’burich! siete dei somari; fate come me che, a Leri, tentando, rischiando, sperimentando vendo il frumento con guadagno!” Era tuttavia quella della protezione alle industrie nuove, nascenti, bambine, bisognose di un po’ di serra, al riparo dai venti inglesi e francesi, una dottrina rispettabile. Federico List aveva insegnato che, in terra di agricoltori, non nasce nessuna industria; occorrere un clima propizio di iniziative sparse, a poco a poco crescenti; clima che lo stato può creare con dazi alla frontiera, con premi di incoraggiamento, con concessioni di aree gratuite, con privilegi di privative agli industriali, con immunità agli operai. Creato il clima, le iniziative non più troppo rischiose, si moltiplicano e crescono. Lo stato agricolo si è trasformato in industriale. La dottrina era antica ed era quella di tutto il settecento e della prima metà dell’ottocento. Ma il List l’aveva rinnovata in pagine calde, vigorose, talora entusiasmanti. Giovanni Stuart Mill l’aveva teorizzata in una pagina famosa dei Principii sulle industrie giovani. Su quelle pagine, uomini di dottrina e di azione, i quali credevano in quello che pensavano, avevano tentato la gran prova di favorire con una qualche protezione la nascita ed il rafforzamento dell’industria paesana. Il tentativo prende oggi il nome di aiuto, di protezione, di intervento dello stato nelle zone depresse; o siano quelle del mezzogiorno d’Italia o le assai più estese regioni sommerse dell’India, del Pakistan, dell’Indonesia, dell’Egitto e di tanta parte dell’America centrale e meridionale. Oggi si vuol salvare quella gran parte della terra dalla lebbra comunista e si deliberano aiuti cospicui e si approntano piani di redenzione economica e sociale in territori antichissimi e poveri. Il problema non è di principii, sibbene di metodi di applicazione, dei quali taluni sono corruttori e deprimenti, altri sani e redentori. Nell’ultimo quarto del secolo XIX la nuova e cresciuta protezione doganale parve ad una parte rispettabile della classe politica italiana fosse lo strumento adatto a consentire all’industria italiana di superare il punto morto dell’infanzia, bisognosa di aiuto, allo scopo di giungere alla maturità rigogliosa di vita autonoma propria.

 

 

Quel tempo, negli anni dal 1910 al 1914, ai quali attiene il presente volume, era, a parer mio, trascorso. Di qui i parecchi articoli che si leggono alle pp. 643 – 75 e 716 – 20. Non ricordai allora l’altro celebre brano di Stuart Mill, nel quale il grande economista illustrava l’ingenuità del proposito, che era stato anche suo, di limitare la protezione al periodo di infanzia delle industrie nuove. Non esistono, egli dovette poi riconoscere, industrie nuove, ché non esiste “l’industria”. Esistono “imprese”, che ogni giorno nascono ex novo e, nascendo, paiono, per definizione, bambine. Esistono le imprese bambine nate nel 1870, nel 1880, nel 1890, nel 1910 ecc. ecc. ed ogni impresa ha bisogno dei suoi 20 anni per farsi le ossa; e così, nella convinzione dei neonati, la protezione diventa di fatto perpetua. La argomentazione spiegava, non giustificava affatto il perpetuarsi della protezione; ché essa era data non alle imprese, ma al clima, all’ambiente; voleva, come diceva il List, creare il terriccio fecondo sul quale avrebbero potuto nascere e crescere le industrie nuove e giovani. Ma una volta creato il terriccio, formato l’ambiente propizio al rischio industriale il compito dello stato era chiuso. Così come una volta costruito un canale d’irrigazione o una strada non la si disfa e rifà di continuo per dar lavoro ai disoccupati, ma si passa ad altro canale, ad altra strada, che, forse, in seguito al successo delle prime riuscite iniziative di canali e di strade, si palesano necessarie ed utili, così, creato il clima propizio all’idea del rischio è d’uopo rivolgersi ad altri metodi atti a promuovere la creazione di quel che non c’è.

 

 

Negli articoli del tempo dal 1910 – 1914 volli saggiare a diversa cote, che non fosse quella del semplice tempo trascorso, la legittimità della continuazione della protezione doganale. Se, dissi, i propositi degli instauratori della politica protezionistica si fossero avverati, come era ragionevole attendersi accadesse dopo che la industria aveva goduto per venti, trent’anni e talora più (quella zuccheriera vantava dazi dal 1867 e, osservo io sommessamente, godeva protezione dal giorno dell’editto napoleonico di Milano del 1810 che creava in Italia in odio all’Inghilterra l’industria dello zucchero da barbabietole) di una bastevole, spesso larga protezione doganale; oggi gli industriali italiani dovrebbero vendere i loro prodotti a prezzi internazionali di concorrenza. Mai no! gridano essi; i dazi vigenti sono bassi e dovrebbero essere cresciuti. Replicavo: anzi, i dazi operano in guisa da dimostrare a chiare note che gli industriali protetti si accordano allo scopo di mantenere i prezzi interni al livello dei prezzi esteri, coll’aggiunta dei dazi. Che cosa sono i sindacati dei concimi chimici, dello zucchero, del ferro e dell’acciaio, dei cotoni, se non intese rivolte ad impedire che la concorrenza interna faccia ribassare i prezzi al disotto del limite consentito dalla protezione doganale? Essendo i prezzi alla frontiera 10, ed il dazio di entrata 4, gli industriali, riuniti in sindacati trusts cartelli unioni o con qualunque altro nome si intitolino (oggi la moda è di dirli tutti “monopoli” con vocabolo improprio, ché in Italia di monopoli vi sono soltanto quelli pubblici e privati creati dalla legge), si accordano per non ribassare i prezzi al disotto di , e così usufruire per intiero del margine protettivo accordato dalla legge. La condotta è illecita, perché i 4 di protezione furono concessi affinché gli industriali diminuissero a poco a poco gli alti costi della giovinezza da 14 a 10, e si mettessero in grado di vendere a prezzi di concorrenza coll’estero ossia di soddisfare alla condizione essenziale a cui era subordinato il beneficio delle 4 lire. Perché lo stato dovrebbe gravare sui consumatori col sovraprezzo di 4 lire se non fosse la speranza che, trascorsi gli anni della adolescenza e della giovinezza, giunta la maturità, l’industria potesse, divenuta forte, vendere al prezzo internazionale? Non si incoraggia una industria destinata a rimanere eternamente bambina, già vecchia rimbambita prima di nascere. L’esistenza del sindacato è la prova palmare che il fine voluto dal legislatore di creare un’industria forte, vigorosa, capace di rendere servizi utili non è stato raggiunto o non si vuole raggiungere; epperciò fa d’uopo abolire od almeno gradatamente ridurre i dazi.

 

 

Questa la tesi, nella quale mi trovai di fronte a contradditori valorosi, come Ettore Candiani presidente della Super (fertilizzanti concimi chimici), Adriano Aducco, direttore dell’Unione Zuccheri, il marchese R. Ridolfi, presidente della Ferro ed acciaio, e Giorgio Mylius presidente dell’Associazione cotoniera italiana. Le loro osservazioni e le mie repliche si possono leggere a loro luogo; ed io non le riassumerò ché sarebbe ripetizione inutile.

 

 

Aggiungo solo due osservazioni. La prima si è che questa mia battaglia antiprotezionista fu condotta col pieno consenso di Luigi Albertini, direttore allora del «Corriere della sera»; e mi piace il ricordo, perché è una delle tante prove della possibilità di condurre un giornale fuor di ogni dipendenza dagli interessi padronali ed operai, che non so quale dei due sia oggi, qua e là nei diversi paesi del mondo, più potente e più contrario al bene comune. Il «Corriere della sera» era indiziato come asservito, per ragioni di proprietà, agli interessi dei cotonieri; e i miei articoli dimostrano il contrario. Fa d’uopo che il direttore sia contrattualmente libero da ogni ingerenza e che intenda giovarsi dei suoi diritti. Poiché, così facendo, il giornale da passivo o scarsamente attivo, diventerà fecondo di utili crescenti, nessuno, ad eccezione della forza del tiranno, lo caccerà via.

 

 

La seconda osservazione è che la polemica in conformità alle tradizioni del giornale ed all’indole dello scrivente, fu sempre sia con gli uomini di parte industriale, sia, in altre occasioni (in articolo su Leghe operaie, produttività del lavoro e problema delle abitazioni; qui alle pp. 29-50) con quelli di parte operaia, informata alla premessa che tutti discutessero con la convinzione di difendere una tesi reputata giusta. Se si parte dalla premessa che l’avversario sia un poco di buono, un ladro del pubblico denaro, un corruttore della burocrazia, si fa polemica sbagliata. Del resto a partire dalla premessa della buona fede dell’avversario, ero persuaso dalla esperienza delle conversazioni con uomini appartenenti ai più vari ceti. Se discorro con un contadino, non mi giova rammostrare a lui di non essere persuaso che egli è il solo “che lavora”. So bene che egli, vedendomi per ore seduto al tavolino a scrivere o leggere, non opina che “io lavori”, so bene essere egli persuaso che solo la fatica sua del vangare, del potare, dell’arare, del sarchiare è vero lavoro; e che il mio è “un far niente” da “signore”. A che gioverebbe trarlo dall’errore? Se la persuasione dell’essere il solo a lavorare, nel senso di produrre qualche bene (grano o vino) che prima non c’era, giova a far di lui una persona viva, a dargli l’orgoglio di quel che fa, gli si può perdonare il compatimento per l’opera altrui, grazie al contento per l’opera propria. Se egli poi discorre delle cose che sa e fa, qualcosa di buono si impara sempre sui vantaggi o svantaggi delle cose fatte e del modo di farle. Il contadino chiamato a dar giudizio su un qualche accidente che gli è capitato per volere altrui, su una legge o su un decreto che lo tocca sul vivo, quasi sempre dice parole degne di essere meditate; particolarmente se egli non è lettore di giornali e se non è afflitto da reverenza per le parole “stampate nel ferro”.

 

 

Per anni molti, fin quando insegnai alla Bocconi di Milano, dovevo andare e tornare una o due volte la settimana sul treno Torino – Milano; e, se imparai poco da pubblicisti o politici, imparai molto tutta volta potei attaccar discorso con negozianti, industriali, banchieri, uomini d’affari.

 

 

Osservavo la regola di lasciar parlare altrui, – non contraddicendo agli errori detti in materie generali, od a proposito di quel che il governo avrebbe dovuto fare o non fare per risolvere questa o quella spinosa questione, – sulla condotta da osservare nella industria o nel commercio o in uno specifico affare. Se l’interlocutore, tuttavia, si accalorava nel parlare delle faccende sue proprie, quello era tant’oro colato. Ciascuno, parlando delle cose sue, dice verità di osservazione, di cui gli economisti teorici hanno gran torto a non far tesoro. Non sarà sempre la bocca della verità e dominerà non di rado l’interesse personale. Forseché non è necessario conoscere tutte le facce di un problema? principalmente se chi parla è uomo che ha l’aria di non aver perduto il suo tempo. Bisogna levarsi il cappello dinnanzi a chi guadagna; e diffidare di chi, per il bene dell’umanità, invoca provvidenze dallo stato. Leggasi a carte 143 il paragone vivo scritto da Nitti fra il proprietario individualista e il proprietario “sociale”.

 

 

Il primo vive in generale sulla terra od almeno per la terra; si occupa poco dello stato e teme solo le imposte nuove. Tenta per conto suo, organizza come meglio può la produzione, non crede o non dà importanza al credito agrario e tratta, per convenienza economica, meglio che può i lavoratori. Il proprietario sociale vive poco in campagna, si occupa molto di politica, è apostolo dei benefici del credito, deplora sempre l’azione presente dello stato, attende uomini politici con nuovi orizzonti. Segni caratteristici: in generale ha debiti.

 

 

Sento parlare da almeno due terzi di secolo di crisi del vino e di svendita delle uve. Non ho mai imparato nulla da quel che si legge in articoli di giornalisti generici, che di vino si intendono, più no che sì, soltanto a tavola e discorrono di difficoltà di trovare vino non falsificato; ché il vino genuino i contadini debbono venderlo tutto a prezzi rotti e non si sa dove vada a finire; ed ho imparato sempre qualcosa da chi, compiaciuto, fa assaggiare all’ospite il vino della sua cantina, non obbietta a chi gli discorre della crisi, ma non racconta di perdite sue. Da lui imparo come fa a fare il vino buono, delle vendite a clienti, cresciuti a poco a poco, da sé, per avere assaggiato il suo vino alla tavola dell’amico, e rimasti fedeli. Volentieri parla o ascolta dei fastidi delle imposte, delle tante cartacce che occorre compilare per gli uffici pubblici, dello spopolamento delle campagne, della fuga dei contadini nelle città; ma non vedo egli abbandoni la partita e cessi di produrre vino buono, serbevole, e perciò venduto a prezzi che, sì, potrebbero essere migliori, ma frattanto di fatto sono tali che non conviene fare un altro mestiere.

 

 

Amo discorrere anche con artigiani ed industriali protetti da dazi o da provvidenze governative. I più non sono tra coloro che hanno chiesto protezione od aiuto; li accettano perché sembra facciano parte dell’ordine naturale delle cose. Non sanno che protezioni ed aiuti sono tutto un tirare ad imbrogliarsi a vicenda: tu mi aumenti il prezzo degli aratri, delle trattrici, dei concimi chimici, dello solfo e del solfato di rame ed io cercherò di venderti frumento e granturco e bestie da macello a prezzi in qualche modo artificiosamente cresciuti. L’uomo protetto vive in un ambiente economico che non ha creato lui e dal quale non può fare astrazione. Per lo più dice sciocchezze quando invoca, con pretesti di pubblico vantaggio, divieti contro lo straniero, protezioni e sussidi più sostanziosi, nell’inconsapevole tentativo di difendersi contro chi lo deruba con protezioni di tipo inverso; ma è divertente e proficuo discorrere con lui ed ascoltarlo quando novera ad una ad una le ragioni ottime che ha di lagnarsi dei latrocinii altrui e delle estorsioni di un fisco, dal quale non riceve servizi o questi sono per lui così evanescenti e costosi da non essere avvertiti.

 

 

Disfare il groviglio delle norme da cui nasce il male è impresa quasi disperata, meglio giovando risalire alla causa del male e quella abbattere. Ho sempre dubitato (per il 1952, cfr. qui le pp. 441 – 42) della possibilità di ottenere risultati rapidi dalle severe leggi nord americane contro i sindacati (accordi, trusts, cartelli, monopoli) fra industriali; ed ancora parmi che le buone leggi sulla pubblicità dei bilanci delle società per azioni e sull’obbligo di fornire dati precisi e particolareggiati se i loro titoli vogliono essere ammessi alle quotazioni in borsa e, continuando ad essere quotati, ottengono, in paesi dove amministrazione e giustizia funzionino rigorosamente, di essere collocati più largamente e sicuramente, dando così frutti più copiosi e pronti. La battaglia da me condotta mezzo secolo addietro per mettere in chiaro il nesso fra sindacati e protezione doganale, mi ha persuaso che a salvaguardia della concorrenza ben più gioverebbe allo stato non porre, esso stesso, le condizioni dalle quali necessariamente nascono gli accordi, i patti e le norme di condotta contrarie alla libertà della produzione. Quando penso alle montagne di documenti, di comparse conclusionali, di verbali di udienza, di interrogatori che si accumulano durante i defatiganti processi che per anni ed anni durano nelle cause iniziate dalla “Interstate Commerce Commission”, dalla “Federal Communication Commission”, dalla “Federal Trade Commission”, e dal Dipartimento federale di giustizia per far dichiarare nullo tale o tal altro accordo fra giganti dell’industria, quando penso al tempo più lungo, forse assai più lungo ed al dispendio di ingegno e di fatica che in un paese di legisti come è l’Italia dovrebbe compiersi per ottenere dai tribunali una decisione sulla legalità di una pattuazione economica, sono indotto a concludere: nulla si otterrà mai se non con procedura rapida a mezzo di magistrature straordinarie costituite con uomini adatti e decisi ad operare anche al di fuori delle norme volute dalla procedura. Ma questa è denegata giustizia; e questi sono tribunali speciali; che sarebbe, sotto la dominazione delle più varie parti politiche, fonte di corruzione morale e politica spaventosa.

 

 

Ribatto perciò il chiodo antico, sul quale insistevo durante la campagna sui sindacati e protezione del 1913, e, dopo tanti anni, nuovamente chiedo: sono o non sono sepolcri imbiancati quei legislatori i quali presentano leggi, più o meno feroci e più o meno negatrici del diritto di ricorso ai tribunali ordinari e fomentatrici perciò di corruzione amministrativa e politica e non insistono nella richiesta di una severa legislazione sulle società per azioni e sulle borse e sulla costituzione, in luogo della vigilanza puramente formale di delegati governativi e di sindacati di agenti di cambio di un valido competente ed indipendente corpo del tipo della “Securities and Exchange Commission”, fornita di poteri di inchiesta e di decisione, che negli Stati uniti rende utilissimi servigi; sono o non sono sepolcri imbiancati coloro i quali non ristanno dal volere di fatto la continuazione delle norme le quali favoriscono politiche contrarie alla libertà della concorrenza? Chi vuole la protezione doganale crea, promuove, vuole i sindacati fra industriali a danno del pubblico. Era la tesi del 1913 ed è tesi sempre vera; ipocrita colui il quale vuole conservati i dazi di frontiera, i vincoli di tempo contro le importazioni stagionali, i contingenti geografici, colui, il quale invoca contro dazi a reprimere le cosidette svendite da parte dello straniero, cosidette perché di difficilissima constatazione in mercati, nei quali i prezzi differenziati sono, pure in regime di concorrenza, imposti dalla necessità della sopravvivenza. Accanto e prima delle leggi contro i sindacati fra industriali, non promoveteli, non favoriteli, non createli voi stessi con leggi di protezione e di vincoli a tutela della produzione nazionale; e vi accorgerete che, tolta la causa, l’effetto verrebbe meno. Rimarrebbero vivi casi singoli, forse grossi, ma visibili ad occhio nudo e più facili da combattere. In quei casi, una S.E.C. italiana vieterebbe facilmente l’introduzione e la quotazione in borsa delle società nocive. In quegli anni che paiono lontani, ebbi occasione di dimostrare come la lebbra protezionistica avesse macchiato il nostro paese più di quel che si poteva supporre; sicché prima io a Torino (qui alle pp. 15-21 il 24 gennaio 1910) e poi l’amico Giuseppe Prato in altre città d’Italia (qui alle pp. 227-30 l’11 aprile 1911) scoprimmo che le tariffe daziarie municipali contenevano clausole evidenti di protezione ai fabbricanti entro cinta ai danni non dell’odiato “straniero”, ma dal concittadino dell’oltre cinta o dell’italiano vivente in altri comuni dello stato. Leggere, per credere, i brani da me riprodotti nei quali gli industriali in legno, ferri, metalli, marmi, pietra e cemento scongiuravano la giunta torinese a non ridurre il margine di sicurezza offerto dalla differenza fra i dazi bassi o nulli per le materie prime ed i dazi alti sui manufatti e ad evitare così la jattura che la industria torinese debba “necessariamente perire soffocata” dalla concorrenza degli “stranieri” di Moncalieri, di Susa, di Milano, di Monza ecc. (pp. 15-16). Non mancavo di osservare che il dazio protettivo favoriva le intese fra i produttori dell’entro cinta a danno dei consumatori concittadini.

 

 

Non pensavo però che nel 1959, quasi mezzo secolo più tardi avrei dovuto ripetere, nonostante l’abolizione, avvenuta nel frattempo, delle cinte daziarie murate, il medesimo grido di allarme contro il protezionismo municipale e contro l’incoraggiamento così fornito alle intese tacite fra i pochi produttori interni a danno dei concittadini (cfr. Prediche inutili, quinta dispensa alle pp. 263-305). Ahimè! che l’astuzia degli uomini supera ogni freno posto dalla legge e si giova di accorgimenti che il legislatore suppone disegnati a tutela dell’erario, per trarre argomento di latrocinio pubblico!

 

 

Cresceva in me in quegli anni la diffidenza verso gli interventi, proposti od invalsi, a sedicente pro di qualche industria detta sofferente e bisognosa di aiuti o freni o regolamento; e verso le richieste volte a “disciplinare” quel che dicesi guasto dalla concorrenza sfrenata, disordinata e dannosa fra produttori ciechi di fronte ai loro “veri interessi”. Era parso, a cagion d’esempio, a talun politico dovesse essere fatto cessare il delitto di vedere i vitellini di età inferiore ad un anno sacrificati sull’altare delle mense dei ricchi desiderosi di carne bianca tenerissima o su quello dell’ingordigia dei caseifici bramosi di togliere subito ai vitellini il latte che essi reputavano fosse più opportunamente riservato alla produzione del burro e del formaggio. Quanti vitelloni di meno, promettitori di carni meglio nutrienti e più abbondanti! Quanti buoi tolti al lavoro dei campi, con pericolo del ritorno della terra al pascolo ed al bosco! L’amico contadino mi aveva, invece, parlato con disprezzo dell’amore sviscerato dei chiacchieroni da caffè per i vitelli di tre mesi, quasiché il calcolo non dovesse essere fatto fra il valore del latte consumato ogni giorno dai vitelli ed il valore dell’incremento di peso della carne del vitello nello stesso periodo di tempo e non fosse carità mal riposta tenere in vita il vitello quando il costo del suo mantenimento superava il maggior valore dell’incremento del suo peso e quasiché i soli vitellini si condolessero per la loro morte prematura e non anche i vitelli adulti ed i buoi vigorosi. Scrissi perciò su La strage degli innocenti (il 12 gennaio 1911 e qui alle pp. 189 – 96) alcune pagine forse ancora degne di essere rammostrate ai “sapienti di tavolino” i quali vogliono insegnare alla gente del mestiere come debbono comportarsi nelle loro private faccende. Il solfato di rame fa un balzo? I viticultori sono presi alla sprovvista da piogge insistenti, alternate con giornate di afa e si avvedono che non hanno scorte sufficienti di solfato? I rivenditori profittano per aumentare il solito prezzo? Ecco i soliti sfaccendati invocare lo stato; lo stato deve provvedere, produrre solfato di rame a prezzo giusto, costante, salvare i viticultori dalle estorsioni dei produttori coalizzati ecc. ecc. In Stato ramaiolo (articolo del 15 aprile 1912, e qui alle pp. 414 – 21) dimostro che il monopolio di stato del solfato di rame sarebbe una grossa avventura, che la materia prima del solfato di rame ha nome di rame, che il rame un metallo notoriamente capriccioso; e che lo stato ramaiolo, se voglia tenere i prezzi costanti, dovrebbe essere capace, più dei privati produttori, di comprare rame nei momenti giusti, evitando i momenti di punta. Poiché siffatta attitudine particolare appariva inverosimile, fu facile a uomini periti di cose agricole, d’accordo con la federazione italiana dei consorzi agrari, allora a Piacenza e calmieratrice sul serio dei prezzi delle cose utili all’agricoltura, dimostrare che la proposta statizzazione o nazionalizzazione del solfato di rame era una pazzia pericolosa; sicché dello stato ramaiolo non ho sentito parlare più; insino a questi anni recentissimi quando, a proposito di monopoli, si tornò a proporre di nazionalizzare l’industria chimica in generale e quindi anche di quella produttrice dei prodotti chimici utili all’agricoltura.

 

 

Dovevo trovarmi in quel particolare stato di grazia che di tanto in tanto, in momenti ahi! troppo rari, assiste i pubblicisti politici, se potei scrivere (in I cavalli di stato del 15 maggio 1911, qui alle pp. 328-36) talune osservazioni malvagie a proposito di una legge Rava, relatore Chimirri, la quale aveva fissato in 800 l’organico normale dei regi depositi di cavalli stalloni, segnando, così auspicava il legislatore, l’inizio del risorgimento equino italiano. Il bisogno di portare almeno ad 800 il numero degli stalloni di ruolo, era in verità vivamente sentito; ché il numero delle cavalle coperte era salito, con andamento non interrotto, da 19.103 nel 1892 a 41.615 nel 1910; e quello delle cavalle coperte, per ognuno, dai regi riproduttori era nel tempo stesso aumentato progressivamente da 37,32 all’anno nel 1892 a 56,54 nel 1910, giungendo a 62,46 nel deposito di Crema, a 64,53 in quel di Reggio Emilia ed a 66,62 a Ferrara. Erano, quando scrivevo, ben 100.000 le cavalle ansiose di convolare a giuste nozze ed appena 74.615 avevano potuto essere soddisfatte, sia pure rinforzando i 736 stalloni governativi in attività di servizio con 755 stalloni privati, approvati dopo soddisfacente esame. Nella sola Reggio Emilia si erano dovute respingere dal salto ben mille cavalle. Urgeva rinforzare l’organico dei regi riproduttori recandolo, con incrementi di 50 posti all’anno, gradatamente in 5 anni da 800 a 1.200. La proposta appariva ragionevole; ché l’aumento da 32 a 57 all’anno di cavalle coperte per ogni stallone pareva cosa ben più grave e la mala soddisfazione di ben 20.000 cavalle non coperte pareva, a ragion veduta, un danno ben più grave del malcontento del pubblico dinnanzi all’ingrossamento delle scartoffie per mancanza di posti negli organici dei segretari e dei giudici di tribunali.

 

 

A frenare l’entusiasmo per la proposta, veniva la notizia del divario fra il rendimento, a 12 lire per volta, di 720 lire l’anno di ogni stallone ed il suo costo, per interessi, rischi, ammortamento, spese generali, di personale e di foraggi, di 2688 lire e 31 centesimi; ed i dubbi crescevano con la lettura di taluni calcoli di Vincenzo de Carolis, titolare della cattedra ambulante di agricoltura di Cremona. In verità, a differenza di altri regi impiegati assai impazienti dinnanzi a certi striminziti loro organici, gli stalloni governativi si contentavano “di mangiare alla greppia dello stato osservando un religioso silenzio”. Di star zitti avevano ben ragione codesti regi stalloni, ché, fruttando essi una perdita netta di 2.000 lire nette circa all’anno, erano necessariamente in media soggetti di scarsa qualità e potenza, affinché l’onorario di 12 lire per ogni salto non risultasse troppo stravagantemente inferiore al costo della prestazione. Né la prestazione del soggetto valoroso poteva essere valutata maggiormente di quella del soggetto scadente; alla diversità delle tariffe essendo contraria la norma del “tutti uguali dinnanzi alla tassa di monta” propria degli scritti agli organici statali, dai professori universitari ai riproduttori delle stazioni di monta. Accadeva ovviamente che le cavalle invocassero gli stalloni migliori; ma se fu possibile limitare nel 1909 ad una media di 40 – 42 cavalle il lavoro dei soggetti ordinari, non si poteva evitare che gli stalloni di razze da tipo pesante dovessero assoggettarsi a coprire oltre 73 cavalle ciascuno; né è improbabile che a qualche stallone di pregio distaccato nella zona cremonese fossero state presentate nell’anno 120-130 cavalle e più. Se poi si pensa che, se allo stallone privato è lecito preferire le cavalle più belle, disposte a solvere tariffa elevata, appare ovvio, sebbene perturbante, lo spettacolo di nobili cavalle costrette a ricorrere ai servigi di riproduttori scadenti e di stalloni di razza fatti inabili a rifiutarsi di giacere con cavalle “ignobilissime”. Tariffa uniforme (a 12 lire nessuno può rifiutarsi di lavorare); e fecondità scarsa (47% in Italia contro 80% nel Belgio); ecco i risultati della nazionalizzazione della riproduzione equina. Gli amatori del cavallo, ed i periti zootecnici invocavano l’abolizione dei regi depositi e con essa la scomparsa della concorrenza sleale, a sottoprezzo, all’industria privata. Non so che cosa sia accaduto dopo il 1911; e forse le due guerre, la scomparsa dell’arma di cavalleria, la vittoria degli autocarri e dei trattori hanno dato il colpo di grazia all’allevamento dei cavalli in genere. Non mi meraviglierei che qualche residuo di organico nei depositi governativi sussista; ed ho il ricordo di lotte sostenute in anni non troppo lontani e posteriori alla seconda guerra per strappare una parte dei terreni ormai inutili ad una grande tenuta occupata un tempo dai cavalli di stato e dagli ufficiali che li amministravano.

 

 

La scarsa benevolenza verso le proposte e le attuazioni di sperimenti di nazionalizzazione, statizzazione, socializzazione avevano radice nella persuasione in cui vivevo e tuttora vivo, che dovendo adoperare le parole “reazione” e “conservazione” “rivoluzione” e “progresso”, esse, sebbene per se stesse prive di alcun significato, lo acquistassero se fatte sinonime le prime, “reazione” e “conservazione”, di “socialismo”, “corporativismo” “protezionismo” e le seconde e cioè “rivoluzione” e “progresso” con “liberalismo”, “sindacalismo” “nonconformismo”. Epperciò, tutta volta mi imbatto in pagine mie antinazionalizzatrici, ancor oggi mi rallegro.

 

 

La campagna antinazionalizzatrice da me condotta con maggior fervore, fu quella contro il monopolio delle assicurazioni sulla vita proposto nell’aprile 1911 dall’on. Giolitti, presidente del consiglio e dall’on. Nitti, ministro di agricoltura. Gli articoli qui riprodotti sono undici e vanno dal 13 aprile all’11 luglio di quell’anno (qui per 77 pagine, da pp. 231 a 307); e poi di nuovo, dopo l’inizio della guerra libica, due del 22 e 28 febbraio 1912 (qui, da pp. 394 a 405). La polemica insistente, particolareggiata, indirizzata anche contro amici carissimi, come Attilio Cabiati, e riuscì ad un risultato non piccolo contro il conformismo della maggioranza giolittiana e le tendenze demagogiche espropriatrici rivolte contro un gruppo numericamente piccolo e socialmente distinto per l’appartenenza ad un ceto tradizionalmente maneggiatore di denaro. La battaglia fu imperniata su alcuni caposaldi principali. Essere fantastiche non solo le cifre dei profitti delle imprese assicuratrici, italiane ed estere, immaginate da talun membro della palude parlamentare giolittiana in 40 milioni all’anno, ma anche quelle di 25-30 milioni di lire supposte dal Cabiati, e che il ministro proponeva dovessero essere devoluti ad una “Cassa pensioni per la vecchiaia”, la quale allora conduceva vita grama con le quote volontarie degli iscritti; le più versate dai datori di lavoro e pochissime dai lavoratori medesimi. Poiché i milioni di utili sarebbero stati assai meno, era illusoria la speranza fatta balenare ai lavoratori italiani di conseguire, senza sacrificio per l’erario, una ragionevole pensione di vecchiaia o di invalidità. Se le società assicuratrici nazionali e straniere, operanti in Francia lucravano 28 milioni di lire su un capitale assicurato di 5 miliardi e 200 milioni e su una somma di rendite assicurate di 119 milioni di lire, quanto si può immaginare potessero guadagnare le compagnie italiane che in tutto dispongono di 1 miliardo e 600 milioni di capitale assicurato e 6 milioni e mezzo di rendite promesse?

 

 

Né i redditi derivanti dall’assicurazione sulla vita sono prodotti senza sforzo. Poggiavano e poggiano su due elementi, ed in primo luogo sulla differenza fra il saggio di interesse calcolato per la fissazione delle tariffe e quello effettivamente lucrato dalla compagnia. Questa riceve, ad esempio, dall’assicurato un premio annuo e si obbliga a pagare al momento della morte una data indennità. La compagnia deve lucrare almeno il 4% all’anno sui premi versati dall’assicurato, perché ha promesso di rimborsare all’assicurato un’indennità in ammontare fisso, qualunque sia il numero delle annualità di premio pagate dall’assicurato. Se la compagnia, mettendo a frutto i premi, lucra il 4%, fa pari e patta; se lucra il 4,25% ha un guadagno del 0,25% annuo sui premi ricevuti; se lucra il 3,75%, perde il 0,25%. La compagnia corre il rischio del più o del meno; ma il più, se c’è, è di frazioni.

 

 

La compagnia, inoltre, tiene conto del rischio che corre promettendo di pagare l’indennità intera anche a chi muore presto, dopo aver versato i premi fors’anco solo per un anno o due; e contro il rischio sta l’alea favorevole di vedere l’assicurato sopravvivere a lungo e versare tanti premi da superare, con gli interessi composti l’importo dell’indennità pagata al momento della morte. Se la compagnia ha calcolato bene il numero degli anni di vita probabile dell’assicurato e gli assicurati muoiono a tempo giusto, la compagnia né lucra né perde; se essa ha calcolato che gli anni di sopravvivenza per assicurati di una certa età sia di trent’anni, ed in media costoro muoiono dopo 25 anni, essa perde; se invece muoiono dopo 35 anni guadagna. Il lucro delle compagnie dunque aleatorio e dipende dal lucrare sui premi un interesse maggiore di quello calcolato per fissare l’indennità agli assicurati e dall’avere compiuto calcoli esatti sulla sopravvivenza degli assicurati. Non certo che gli investimenti siano sempre lucrosi, né che gli assicurati vivano più a lungo del previsto; né su questa incertezza poteva fondarsi l’illusione di poter istituire un sistema di pensioni operaie, gratuite per lo stato, i datori di lavoro ed i lavoratori.

 

 

Né il monopolio attribuito allo stato poteva essere promettitore di larghi maggiori affari in confronto all’esercizio privato. Il pubblico correrà ad accendere polizze di assicurazione sulla vita perché il monopolio godrà del credito dello stato, che è sicuro ed alto? Oggi, che i privati in molti paesi del mondo ottengono credito a condizioni migliori dello stato, la pretesa parrebbe senz’altro fuor di luogo. Anche allora era dubbio che i risparmiatori dimenticassero che dietro lo stato assicuratore c’è lo stato tassatore, al quale non si desidera far sapere i fatti propri e del dubbio si giovavano i critici, i quali rinfacciavano al disegno di legge di voler contenere le spese di gestione, autorizzando gli ufficiali postali, i segretari comunali e gli agenti delle imposte a farsi, nelle ore libere, produttori di assicurazione. Se gli assicuratori hanno fama di scocciatori vitandi e di profeti lugubri di morte anzi tempo, quanto più antipatici gli assicuratori di stato, genti regie vitande a doppio titolo, come seccatori nati e come presunti referendari agli uffici delle imposte.

 

 

I grossi profitti dei 40, 30, 25 e 20 milioni immaginati dai fautori del monopolio erano illusori non solo per l’ammontare loro, ma perché si dimenticava la distinzione essenziale dei profitti palesati dai bilanci delle compagnie di assicurazione, in utili industriali ed utili patrimoniali. Diconsi invero utili industriali, quelli che una compagnia di assicurazione sulla vita ottiene lucrando di fatto dai propri investimenti più del saggio di interesse promesso agli assicurati e fruendo di una mortalità minore (o sopravvivenza più alta) dei propri assicurati in confronto a quella calcolata per la compilazione delle tariffe dei premi e delle indennità. La compagnia versa i premi ricevuti in un fondo detto della riserva matematica, di spettanza degli assicurati, aggiungendo gli interessi al saggio convenuto e deducendo le indennità pagate. Periodicamente si rifanno i conti e se il fondo risulta superiore a quello che dovrebbe essere in rapporto ai calcoli teorici, trasferisce la differenza, suppongasi un milione di lire, al conto utili industriali. Il milione invero utile, perché supera la somma che in quel momento la compagnia deve possedere, nel fondo detto di riserva matematica, per soddisfare agli impegni di indennità dovute, a lor tempo e scadenze, agli assicurati.

 

 

Ho imparato, ad occasione della polemica del 1912, che gli utili industriali sono solo una parte dell’utile totale che figura nei rendiconti delle compagnie di assicurazione sulla vita. Dei 28 milioni lucrati nel 1906 da tutte le compagnie nazionali e straniere in Francia solo 13,5 milioni erano infatti utili industriali, ottenuti cioè dall’esercizio dell’industria propriamente detta. Il resto cos’era? Imparai allora essere usanza pacifica, non di rado secolare – alcune delle compagnie di assicurazione più solide nacquero invero nella prima metà del secolo scorso – di non distribuire agli azionisti alcuna parte delle somme derivanti dagli utili industriali, ripartendo soltanto tra di essi il reddito o parte del reddito del patrimonio privato a poco a poco costituito dalla compagnia. Seguendo per decenni e talvolta per un secolo una condotta prudente di questa fatta, mandando cioè a patrimonio “tutto” il reddito dell’industria e distribuendo solo il reddito o parte del reddito del patrimonio privato, estraneo all’industria propriamente detta, qualunque società od ente riuscirebbe a cumulare riserve patrimoniali, superiori e talvolta parecchie volte superiori al capitale inizialmente versato dagli azionisti o dai fondatori dell’ente per la costituzione originale della società. Ma la riserva patrimoniale, estranea alla riserva matematica di spettanza degli assicurati, non ha nulla a che fare con l’industria della assicurazione sulla vita e con i diritti degli assicurati; un affare privato di chi industriosamente risparmia e, vivendo a lungo, cumula un patrimonio. Il risparmio così costituito ha preso diversi nomi nel gergo economico moderno: risparmio collettivo, formato dagli amministratori delle società per conto degli azionisti, o forzato, perché gli azionisti non di rado avrebbero preferito mangiarsi caldi caldi gli utili industriali senza cumularli a vantaggio degli eredi di seconda o terza o quarta generazione, i quali oggi godono i frutti della parsimonia indotta o forzata di buona o mala voglia da amministratori lungimiranti. La condotta sparagnina non e un attributo esclusivo delle imprese assicurative ed anche imprese siderurgiche o meccaniche o tessili o cartarie la possono adottare; e perciò talvolta taluna di esse diventa con il tempo potente. Sta di fatto però che gli amministratori di società hanno l’abitudine di invecchiare e morire; ed i figli e nipoti non hanno sempre le attitudini dei vecchi; sicché l’impresa decade ed i fondi di riserva impiegati in impianti, in fabbricati, in macchinari antiquati si consumano anch’essi ed occorre ringiovanirli con capitali freschi venuti dal di fuori. Accade invece non infrequentemente che i fondi patrimoniali propri, industriali, delle compagnie di assicurazione sulla vita sono investiti non in impianti industriali, ma in titoli ad interesse fisso – e questi possono capitar male – o in case, in terreni, in azioni ed accadde che talvolta gli investimenti si salvarono attraverso il lungo tempo. Accadde anche che gli amministratori, costretti dalla necessità di serbare le riserve matematiche in importi sempre pronti a fronteggiare gli impegni verso gli assicurati, acquistassero l’abito dell’investitore professionale, pronto a variare gli investimenti, e a compensare i rischi, anche al di là dei confini dello stato, e finissero per essere annoverati nella numerata schiera di coloro che nel mondo hanno acquistato meritata fama di dominatori di mercati finanziari. Ancor oggi, quando scorro coll’occhio i riassunti dei bilanci delle compagnie di assicurazione sulla vita, mi diverto a constatare che, dopo tanti anni, la regola aurea di non distribuire nemmeno un soldo degli utili industriali e ripartire solo il reddito delle riserve patrimoniali, accumulate in tanti anni di accantonamento, osservata dalle meglio organizzate compagnie ed ancora oggi procaccia dividendi graditi e capitalizzazioni persino troppo forti, che la speranza non infondata di crescenti dividendi futuri fa nascere nell’animo degli investitori in azioni assicurative.

 

 

Gli ignari o smemorati, i quali approntarono il disegno di legge per il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita, immaginavano di poter confiscare senza indennità, compiendo un atto di rapina pubblica, in nulla diverso dagli atti di rapina su pubblica strada, non solo il reddito dell’industria, ma anche quello dei fondi patrimoniali privati delle imprese assicuratrici. Il proposito, in tempi nei quali l’opinione pubblica ancora rifletteva alle ripercussioni delle espropriazioni senza indennità, parve, quando fu chiarito, scandaloso; e l’arguta invenzione dell’on. Nitti di mascherare la confisca sotto colore di noncuranza indifferente, suscitò dubbi. Le compagnie esistenti e lavoranti non erano invero espropriate. Erano semplicemente ignorate. A partir da un certo giorno avrebbero dovuto cessar di lavorare; ed il diritto di mietere nel campo delle assicurazioni sulla vita sarebbe passato al monopolio. Nessun assassinio. Le compagnie avrebbero liquidato i loro affari antichi; avrebbero incassato i premi convenuti e pagato le indennità dovute; e buona notte. Dove ove la espropriazione senza indennità? Lo stato non può, volendo, nazionalizzare, assumere imprese, negandone l’esercizio ad altri?

 

 

Fu la resa dei monopolisti. Avvocati, ingegneri, medici rifletterono: domani si dirà altrettanto di noi. Si costituiranno uffici legali, edili, ospedali e ambulatori di stato; e si attribuirà a questi soli il diritto di dar pareri legali, far progetti visitare malati e dar consulti. I vecchi professionisti non saranno ammazzati; si arrangeranno; faranno un altro mestiere. Dov’è la confisca? Dov’è il terreno, la casa, l’impianto rapinato dallo stato?

 

 

Su quella via, non si sapeva dove si andava a finire. Si dovettero inventare compromessi; giungendosi a poco a poco alla situazione attuale, nella quale l’Istituto nazionale per le assicurazioni sulla vita diventato quello che è oggi; un Istituto fra parecchi, che lavora in concorrenza con le compagnie private; e gode, se non erro, di un solo privilegio, quello di avere il diritto di riassicurare una parte, suppongo il 10%, delle polizze stipulate dalle compagnie concorrenti. Cotal diritto va, del resto, riducendosi col tempo e un giorno avrà termine. Di che pochi si dorranno, perché la concorrenza pone un limite all’utile industriale che si può ricavare dalla assicurazione sulla vita e non val la pena di insistere per portar via al concorrente quella libbra di carne che è possibile procacciarsi altrimenti.

 

 

Né i risultati finanziari ottenuti in un quasi mezzo secolo di vita furono tali da inorgoglire, se fossero vivi, i proponenti della grossa avventura. Dubito assai che l’Istituto abbia versato all’erario, a pro delle pensioni operaie di vecchiaia – per altre vie nate e fatte operare con ben diversi sacrifici – somme apprezzabili. Oggi la contesa morta; ed io non ho letto senza commozione l’undicesimo articolo dell’11 luglio 1911, nel quale davo l’annuncio della vittoria antimonopolista, lieto che la campagna avesse potuto essere chiusa bene, nonostante le accuse rivolteci di difensori dei privilegi degli assicuratori, di prezzolati pennaioli al soldo dei finanzieri privati e simiglianti lordure.

 

 

Rimase quella che era la sostanza dell’assunzione da parte dello stato, sia pure in concorrenza, di un nuovo strumento di raccolta del risparmio nazionale. Esistevano già la “Cassa depositi e prestiti” divenuta, senza che il pubblico se ne fosse accorto, la più grande banca italiana con i suoi tre miliardi di depositi dei quali due forniti dalle casse postali di risparmio; e la “Cassa nazionale di previdenza per la invalidità e la vecchiaia degli operai”, i cui fondi si aggiravano sui 150 milioni di lire. Coll’aggiunta dell'”Istituto nazionale delle assicurazioni”, i cui incassi secondo la ragionata opinione dell’on. Nitti non dovevano essere inferiori ai 70 milioni di lire all’anno, lo stato già oggi disponeva di una massa di manovra di oltre 3 miliardi di lire destinata in un lungo volgere di anni, (un decennio?) a raddoppiarsi. Già allora (qui pp. 561 sgg., in un articolo del 14 ottobre 1913 su L’assorbimento del risparmio nazionale a pro degli enti pubblici) i dubbi miei erano parecchi. Giova allo stato assumere l’ufficio dell’impiego di somme tanto imponenti? Investire vuol dire scegliere fra gli investimenti quello più profittevole; ché ogni scelta diversa significa rinuncia a scegliere gli investimenti che danno il massimo rendimento comparativo. Se si investe un milione al frutto netto del 5%, ciò vuol dire che fra i tanti impieghi i quali si offrono a gara si sceglie quello capace di fruttare almeno il 5% netto, dopo aver retribuito, al saggio del mercato, il rischio dell’imprenditore, il lavoro dei dirigenti dei tecnici e degli operai. Se invece si sceglie l’impiego che offre solo il 4% chiaro che la scelta caduta su un impiego il quale fecondo di un prodotto minore e non può pagare remunerazioni uguali ad un ugual numero di imprenditori, dirigenti, tecnici ed operai. La collettività dei collaboratori alla produzione subisce un danno. Vero è – e l’osservazione ovvia, antica, pacifica e la sua formulazione teorica risale agli scritti del Dupuit della metà del secolo scorso – che lo stato può avere interesse a preferire l’investimento al saggio di interesse del 4 ed anche del 3 e persino, quando non si voglia arrivare alle quantità negative, dello zero per cento. Forseché il rimboschimento non frutta allo stato, oltre il modestissimo reddito forestale netto, il risparmio delle spese per inondazioni, per riattamento delle strade e delle linee ferroviarie, per indennità ai danneggiati ed il frutto di maggiori imposte sui terreni delle valli e della pianura bonificati e rinsaldati?

 

 

Forseché le strade e le scuole e i risanamenti dei quartieri poveri inabitabili ecc, ecc. non fruttano allo stato vantaggi indiretti di cresciuta produzione a causa della cresciuta commerciabilità dei prodotti agricoli, della maggiore istruzione e quindi della maggiore attitudine degli operai e dei contadini a più adeguata remunerazione, della minore mortalità e della sanità pubblica migliorata; sicché i vantaggi per la collettività appaiono maggiori della perdita per il minore rendimento monetario degli impieghi scelti.

 

 

La teoria, vera e sacrosanta, ha un limite ed è quello imposto dalla legge della utilità decrescente di tutte le quantità economiche. Giunge un punto, determinabile solo empiricamente, nel quale il vantaggio, che è tutto indiretto, della nuova strada e quello economico monetario dell’impiego in migliorie agricole o in nuovo o cresciuto impianto industriale si equilibrano. A quel punto, indifferente investire nell’una o nell’altra maniera. Al di là, prolungare od allargare ancora la strada, frutta meno del compiere una trasformazione agricola o del sostituire una macchina nuova ad una antiquata. E così del rimboschimento, delle bonifiche, della scuola, della casa. Poiché i mezzi esistenti sono limitati e l’essere essi a disposizione dello stato invece che dei privati non li fa crescere, se non per eccezione rarissima, configurabile forse in astratto, ma non di fatto, uopo è che somma cura sia posta nel calcolare in modo tollerabilmente corretto i vantaggi indiretti non monetabili in confronto di quelli diretti espressi in lire soldi e denari. Qui è il pericolo massimo della teoria ovvia e pacifica e antica; che la scelta fatta dallo stato sia una scelta politica, compiuta con criteri estravaganti diversi da quelli del vantaggio collettivo. Poiché l’utilità collettiva un concetto vago, nel quale si può far entrare molta merce di contrabbando, ecco farsi avanti le ferrovie inutili, le strade su cui non passerà mai nessuno; ecco i sussidi per rimboschire colli agevoli e fecondi invece di montagne dirupate; ecco moltiplicarsi fastose stazioni, alti palazzi di governo (prefetture) e case di giustizia, nelle quale i giudici non hanno aule bastevoli per giudicare e per deliberare; ecco le scuole, nelle quali le aule giungono ai cinque metri di altezza e non sono riscaldabili; ecco le vie delle città ogni giorno sossopra per motivi diversi e non coordinati nel tempo e nella esecuzione. Talché aveva senso il dubbio mio (qui a p. 565) se fosse conveniente assegnare i mezzi della Cassa depositi e prestiti a favore dei comuni desiderosi di compiere un’opera pubblica. Non era opportuno che i comuni bisognosi di credito si dovessero normalmente rivolgere al mercato? Tal città, bene amministrata, con un passato noto di impegni di interessi osservati, di capitali rimborsati a tempo giusto, avrebbe trovato credito al 4%; altre, con men perfetto ricordo del passato, avrebbero dovuto pagare il 5 od il 6%, ed altre infine sperperatrici e fallimentari non avrebbero trovato credito affatto. Il problema, vivo mezzo secolo fa, è divenuto angoscioso oggi, quando i depositi presso gli istituti pubblici di risparmio e di assicurazioni sociali sono giunti alle migliaia di miliardi; quando praticamente tutte le grandi banche, che il pubblico immagina essere private, sono invece banche di stato o dipendenti dallo stato o amministrate da delegati dello stato.

 

 

Per avventura, il pericolo non è oggi manifesto; ché le grandi banche e gli istituti pubblici di credito sono ancora governati da uomini, nati in un mondo non ancora statizzato e osservano ancora le regole di buona condotta bancaria, divenute a poco a poco, grazie anche alle disavventure passate ed alla disciplina da queste imposta, sangue e carne viva degli uomini appartenenti allo stato maggiore creditizio vivente. Che cosa accadrà, quando, venendo meno gradatamente la generazione attuale degli uomini di banca, i politici, irregimentati nei partiti, si accorgano che essi possono nominare uomini ligi ai loro voleri ai posti di presidenti, amministratori delegati, dirigenti di nove decimi dell’apparato bancario del paese? La mente si rifiuta di scrutare a fondo un’ipotesi tanto raccapriccia; e si rifugia nella speranza della diffusione dell’educazione economica e del rispetto morale per istituzioni fatte venerande dal tempo. Delle quali speranze la seconda, pur tenuissima, sembra più fondata della prima. Il giudizio sulla classe politica italiana, sarebbe, per quanto tocca alle cose economiche e sociali anche per il tempo dal 1910 al 1954, sostanzialmente negativo. Un solo grande problema fu posto, quello del Monopolio delle assicurazioni sulla vita; ed era, come dianzi già narrai, problema artificiale, non tratto da qualche malanno sociale a cui riparare ed inteso invece a dare una qualche soddisfazione nella camera ai deputati radicali socialisti, i quali chiedevano di “andare avanti” nella legislazione Sociale; chiedevano, fra l’altro, diventassero obbligatorie quelle pensioni agli operai che, essendo volontarie, avevano ottenuto scarso successo presso la parte imprenditrice e nessuno da parte operaia. Poiché si era impreparati alla bisogna e non si osava impegnare il tesoro per importi incerti e vistosi, si era cercato il diversivo del monopolio delle assicurazioni vita, il quale presentava il vantaggio di dare addosso ad un ceto ristretto di gente particolarmente doviziosa, sospettata di avere accumulato patrimoni insigni esercitando usura sul timore di morte sentito dai giovani padri di famiglia e sulla credulità della gente inesperta nel modo di impiegare i risparmi con prudenza e coraggio. Che i profitti poi ci fossero o non a pro dell’erario e delle pensioni operaie, l’avrebbe palesato l’avvenire. Frattanto si sarebbe fatto opera popolare, sociale e democratica e sottomano si sarebbero votate le contestatissime leggi delle convenzioni marittime, con le quali si consacrava con leggerezza lo spreco di assai milioni per far esercire, a spese pubbliche, non solo le linee necessarie, ma anche quelle inutili, create a sfoggio di una bandiera italiana navigante a pescar premi e quelle superflue, perché esercite dalla marina libera, senza uopo di nessun sussidio governativo (cfr. qui alle pp. 346-53, l’articolo Il problema marittimo e il diversivo della cabala assicurativa del 16 luglio 1911). Mentre così si risolvevano, in sedute deserte, i problemi grossi della protezione alla marina sussidiata largendo piccoli regali a piccoli interessi privati assunti alla dignità di interessi di classe (operai occupati in cantieri navali) od a località secondarie (porti a cui si intendeva dar vita con approdi moltiplicati ed inutili) si cercava di conservare, nonostante la costosa guerra di Libia, l’apparenza nel pareggio del bilancio; emulando gli espedienti che avevano procurata fama non bella a quell’insigne manipolatore di bilanci, che aveva nome di Agostino Magliani.

 

 

Si volevano assegnare 255 milioni in più alle costruzioni della marina di guerra? I milioni dovevano essere spesi subito nell’esercizio in corso (1912-1913) e in quelli immediatamente successivi; e in bilancio le somme disponibili erano impegnate sino al 1914-1915. Faremo le spese subito; e le imputeremo agli anni dal 1915/1916 sino al 1921-1922 (qui alle pp. 442-45, articolo dell’11 dicembre 1912). Così la spesa non figurava nel bilancio dell’anno in cui la spesa era eseguita; ma era, a fette, distribuita in esercizi di là da venire, quando i ministri responsabili sarebbero stati altri. Si ponevano precedenti, che poi fruttificarono stranamente e fruttificano oggi bilanci, costretti a provvedere a spese antiche ed incapaci a sostenere gli oneri d’oggi. Il metodo del gioco dei bussolotti imperversa. Rimase celebre il caso di certi 125 milioni di lire, depositati a garanzia dei 500 milioni di lire in biglietti da 5 e da 10 lire emessi direttamente dallo stato. Fu proposto di passarli dalla riserva di cotali 500 milioni a quella di circa 2.255 milioni di biglietti emessi dagli istituti di emissione. Il trucco era sottile.

 

 

L’oro rimaneva intatto: passava solo dalle casse dello stato a quella della Banca d’Italia, rimanendo proprietà dello stato. I biglietti di stato rimanevano invariati in 500 milioni. Ma nasceva, per virtù della legge vigente, la facoltà nella Banca d’Italia, venuta in possesso di 125 milioni di lire d’oro, di aumentare la emissione di suoi biglietti di altrettanti 125 milioni. Nulla si mutava nella legge; e con un piccolo passaggio da cassa in cassa si otteneva il risultato di lasciare invariati i 500 milioni dei piccoli biglietti da 5 e da 10 lire, di cui nessuno sentiva il bisogno di averne di più e si dava facoltà al governo di farsi anticipare senza interessi dalla Banca d’Italia altri 125 milioni di biglietti suoi.

 

 

Se si fosse speso l’oro, nulla sarebbe accaduto. Si sarebbero avute merci estere in cambio d’oro e forse i prezzi di quelle merci sarebbero alquanto ribassati. Invece, crescendo la quantità dei biglietti, si sarebbero acquistate merci sul mercato interno (per acquistarle all’estero si sarebbe dovuto dar qualcosa in cambio, che il trucco del passaggio da cassa a cassa non faceva davvero nascere); e il prezzo sarebbe aumentato, grazie alla maggiore abbondanza di biglietti fabbricati ed offerti (cfr. qui, le pp. 455-59, in Il prelievo dei 125 milioni del 2 dicembre 1912). Piccoli trucchi per nascondere il fatto dell’aumento effettivo della circolazione. L’on. Sonnino, fornito alla pari dell’on. Saporito, di acuti occhi indagatori, ne denunciò un altro che disse dell’avanzo girante. Con stupefazione dei numerati leggitori del conto del tesoro, ci si era accorti che più andava innanzi la guerra di Libia, più crescevano i saldi attivi del credito del tesoro verso terzi. Come mai il miracolo di uno stato di guerra che frutta crediti invece di debiti? Alla fine il ministro del tesoro, on. Tedesco dovette confessare che al 31 dicembre 1913 sui 707 milioni di crediti diversi, ben 373,5 erano crediti del tesoro verso i ministri della guerra, della marina e delle colonie per le spese della Libia e 136 milioni di crediti verso i ministeri della guerra, della marina e dei lavori pubblici per anticipi sui futuri esercizi (qui alle pp. 624-27, l’articolo Per un rendiconto patrimoniale del 16 febbraio 1914). Era alle porte la grande guerra, durante la quale le scritturazioni nei crediti delle spese belliche acquistarono dimensioni di miliardi; ma oramai il significato delle scritture era noto ed esse non ingannavano più nessuno.

 

 

Una qualche mala contentezza affiora qua e là in fatto di politica generale. Il suggerimento dato al re dall’on. Giolitti di invitare l’on. Bissolati a dar parere sulla situazione politica, invito “destinato – secondo taluni commentatori giolittiani – a rimanere nella storia … come quello che precorreva i tempi nuovi ed incalzava su nuove vie la politica ed il movimento sociale del tempo”, non era parso a me né innovatore né precorritore e tanto meno destinato ad iniziare l’elenco degli avvenimenti destinati a rimanere nella storia, elenco che poi si allungò oltremisura ed ancora oggi troppo si allunga (cfr. qui le pp. 215-20 in Sono nuove le vie del socialismo? del 29 marzo 1911). Già allora era chiaro a me che quello del socialismo non era un ideale nuovo; bensì una predicazione vecchissima e frusta. Oggi l’hanno compreso i socialisti o laburisti germanici ed anglosassoni i quali cercano ansiosamente di trovare le vie nuove lungo le quali gli ideali socialisti possono trovare feconde attuazioni, vie diverse da quelle delle statizzazioni, nazionalizzazioni, socializzazioni, che dove furono attuate non furono causa di apprezzabili vantaggi ai ceti più numerosi della popolazione. Il tentativo di districarsi dall’antico luogo comune di un socialismo identificato con la pratica della socializzazione lungo e faticoso; né si vede che i Gaitskell in Inghilterra e gli Ollenhauer in Germania siano sicuri di vincere la resistenza della vecchia guardia fossilizzata nella contemplazione di parole e di frasi morte; ma l’augurio che essi possano riuscire alla meta ed, emulando l’agile condotta veramente moderna dei capi del movimento operaio nordamericano, riescano a tener lontana la lebbra russa, del socialismo di stato pianificato, accentratore, tirannico viva oggi come profonda era ieri la persuasione che le vie additate dal Giolitti e dal Bissolati non fossero né nuove né vantaggiose.

 

 

Non facevano difetto le testimonianze che in Italia il movimento operaio soggiacesse a quel processo di irrigidimento che l’hanno condotto, qua e là da noi, per effetto della degenerazione fascistica, e altrove, come in Inghilterra a causa del dominio crescente dell’apparato burocratico, a diventare una delle maggiori forze monopolistiche e conservatrici dell’economia moderna. A Roma, in seno al Consiglio superiore del lavoro, dominava la tendenza ad affidare la rappresentanza dei lavoratori ai sindacati, che non fossero né gialli (repubblicani nella Romagna) né neri (leghe cattoliche), ossia a quelli che dicendosi aperti a tutti, erano in verità colorati in rosso (ed affiliati di fatto al partito socialista).

 

 

Nelle provincie si affermava la pratica di limitare il numero degli apprendisti e quello degli addetti ad ogni macchina, e la quantità del lavoro compiuto nella unità di tempo (obiezioni al lavoro a cottimo). Ma ancora si discuteva a mente aperta ed i miei allarmi erano seguiti da lettere cortesi di organizzatori e di operai (cfr. le lettere riprodotte per intiero nel giornale ed ora qui, le pp. 29-50, in Leghe operaie, produttività del lavoro e problema delle abitazioni del 4 e 6 febbraio e 19 giugno 1910), i quali davano ragione di talune pratiche che nelle intenzioni delle leghe non erano, sebbene a me fossero parse, restrittive; e riconoscevano di altre gli inconvenienti per l’incremento della produzione. All’amico Alessandro Schiavi, il quale aveva iniziato la discussione, offrivo le pagine della mia rivista «La riforma sociale» perché egli vi potesse pubblicare le conclusioni di una sua inchiesta sulle cause del rincarimento del costo di costruzione delle nuove case. Era una cortese partita d’armi, forse non infeconda. Non vedevo buio nell’avvenire, non prevedevo i risultati ultimi delle allettative lusinghiere della politica giolittiana verso i capi socialisti invitati a far parte del governo e quindi a trasformare in interventi statali le lotte, disturbatrici della concordia apparentemente più operosa, fra organizzatori operai e contadini da una parte ed organizzatori industriali e capi agricoltori dall’altra. Ancora ero ottimista e guardavo con compiacimento agli uomini che lottavano tra di loro (sicché poi, nel 1924, potei mettere insieme, nelle edizioni Gobetti, un volume intitolato Le lotte del lavoro); e, scrivendo (il 24 maggio 1911, in Il congresso della resistenza. Organizzati ed organizzatori in Italia, qui alle pp. 340-45) potevo esclamare: il tono passionale del discorso dell’on. Rinaldo Rigola, segretario generale della Confederazione del lavoro, piace anche a chi sta fuori del movimento e procura di osservare, coll’occhio dello studioso, l’impeto del discorso, la fede nell’avvenire del movimento, la fiducia in se stessi che si rivela nelle parole di questi organizzatori. In fondo tutti costoro si rassomigliano: cambia la causa che si è disposata, mutano le forze sociali che si vogliono dirigere; ma la sostanza la medesima; Rigola e Quaglino e Reina, per le confederazioni del lavoro e le leghe operaie; Craponne (che poi l’on. Giolitti espulse dall’Italia, ad occasione di lotta particolarmente vivace, col pretesto che era straniero; ma era il capo riconosciuto degli industriali piemontesi) e Olivetti per la Confederazione dell’Industria e le leghe di imprenditori; Cavazza, Carrara e Sturani per la Confederazione nazionale agraria e le diverse “agrarie”, parlano tutti lo stesso linguaggio maschio, aggressivo. Sono uomini che si mostrano i pugni, ma sono uomini e non marionette. In fondo sentono di essere fratelli spirituali; e, pur litigando tra di loro, cooperano alla formazione di una nuova e giovane e ardita classe di imprenditori, di agricoltori, di operai, che non spereranno più tutto dallo stato, ma avranno molta fiducia in se stessi, nella forza della propria educazione tecnica e morale, nella virtù della propria organizzazione. Per chi creda che nulla vi sia di più corrompitore che lo sperare la propria salvazione dal di fuori, dall’aiuto dello stato, dalla spogliazione altrui col mezzo delle imposte, questo ritorno al classico motto del Self help, dell’aiutati che Dio t’aiuta, questo allontanarsi dalle morte vie del socialismo e della reazione statale, è rinfrescante e bene augurante.

 

 

Ragion di speranza mi veniva altresì dal ricordo del passato. I servi datarono poi il rifiorimento economico sociale e spirituale dell’Italia dall’inizio dell'”era nuova” fascistica; ma vent’anni dopo si videro le rovine cagionate dal regime. Fu ed è di moda far rimontare al decennio giolittiano (1903/1913) l’epoca della prosperità economica e della rinnovazione sociale italiana. Gli uomini del 1910 constatavano invece che il cammino percorso verso l’ascesa era stato lungo e faticoso (qui, alle pp. 221 – 26, l’articolo Cinquant’anni di vita italiana dell’1 aprile del 1911). Sobriamente Bodio forniva i dati, dai quali risultava che l’ascesa era cominciata fin dal 1862, quando fu presentato al parlamento italiano il nostro primo bilancio. Terribili anni quelli nei quali le entrate a malapena toccavano la metà delle spese. Attraverso a sacrifici duri, si giunse finalmente nel 1875 al pareggio; che era stato il gran sogno di Quintino Sella. La meta raggiunta e quelle più alte toccate nel primo decennio di questo secolo erano state, sì, per la minor parte, il frutto dell’opera dei governanti nel tempo giolittiano, ma più degli sforzi, degli errori e del coraggio di coloro che avevano governato l’Italia dopo il 1860.

 

 

Nel primo decennio del secolo si era avverato il fatto forse più significativo della storia moderna italiana; e fu l’avvento del Mezzogiorno. Che non avvenne per virtù di governanti italiani e dei ceti dirigenti meridionali, bensì in conseguenza di un fatto antico, che solo al principio del secolo aveva acquistato impeto e forza grandiosi e fu l’emigrazione, la fuga dalle terre desolate meridionali (qui, le pp. 131-44, in La grande inchiesta sul Mezzogiorno, del 2 e 22 ottobre 1910; e le pp. 359-68, in Mali secolari ed energie nuove del 12 e 16 agosto 1911). Il Mezzogiorno rifioriva ad opera dei contadini, che, reduci dagli Stati uniti con modesto peculio, portavano via, pagandola, la terra ai signori, si costruivano la casa, la volevano pulita e bella; ed avendo imparato a proprie spese, in anni di vita durissima, quali fossero i danni dell’analfabetismo, volevano che i figli andassero a scuola e che la scuola ci fosse e che i maestri sapessero insegnare.

 

 

La rivoluzione sociale e morale era opera dei cafoni meridionali, divenuti, nel crogiuolo di un mondo nuovo, in continua libera trasformazione, cittadini. Non era opera né di politici né di ceti dirigenti. Non era opera neppure dell’insegnamento degli economisti. Scrivevo, e mi piace, di su le pagine di or è mezzo secolo, dire la mia convinzione d’oggi:

 

 

“Noi abbiamo avuto il torto di predicare troppo spesso che gli uomini sono il trastullo delle cieche forze economiche; che gli uomini sono quali li formano l’ambiente, la ricchezza acquisita, il mestiere, la povertà della famiglia, la classe sociale in cui si è nati. Abbiamo con queste dottrine alimentato l’odio contro quelli che stanno in alto, la credenza che sia impossibile elevarsi, schernite e dichiarate vane le energie vive, le forze più preziose che l’uomo possegga. Il male compiuto dalle nostre predicazioni non fu per fortuna grande come avrebbe potuto essere; perché gli operai, mentre usavano l’arma della lotta di classe, hanno anche fatto sforzi meritori per organizzarsi, per istruirsi e sono divenuti meritevoli di quel maggior benessere che la lotta di classe da sola non avrebbe saputo procurare loro; perché le classi dirigenti hanno dovuto, sotto la pressione che veniva dal basso, istruirsi, perfezionare i loro congegni produttivi, diventare più virili e salde. L’ascensione, finora ristretta al settentrione, si estende ai contadini ed ai proprietari del mezzogiorno. bisogna che anche noialtri, cultori della scienza della ricchezza, abituati a veder solo il lato economico dei problemi, diciamo ben forte che la speranza del rinnovamento economico potrà avverarsi solo se prima l’uomo si sarà rinnovato. L’uomo come somma di energie spirituali, morali, come forza che si oppone alla natura da secoli impoverita, al governo corruttore, all’ambiente torpido, alla miseria circostante; e vuole colla sua volontà, colla sua energia, colla religione della famiglia e della patria creare un nuovo mondo, più bello e più ricco, al posto del vecchio mondo ereditato dai secoli scorsi”.

 

Prefazione

 Prefazione

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. II, Einaudi, Torino, 1959, pp. XIII-XL

 

 

In questo secondo volume ha inizio la collaborazione del «Corriere della Sera», la quale proseguirà sino alla soppressione della libertà di stampa nel novembre del 1925, epperciò alla mutazione dei giornali in bollettini ufficiali. La collaborazione al «Corriere» è quasi unicamente «economica»; sicché nel titolo delle Cronache dovrebbero essere tolte le parole «e politiche»; ma furono conservate perché un ragionamento economico intorno alle «questioni del giorno» non può fare astrazione dall’indole dei governanti e degli amministratori della cosa pubblica. Ne danno testimonianza le critiche rivolte al ministro Nasi per la baraonda da lui creata in materia di regolamenti universitari (p. 97); la condanna dell’usanza giolittiana di scansare i problemi grossi rinviandoli col pretesto di volerli meglio studiare, senza alcun affidamento sul modo da tenere nello studio (p. 744); l’accenno al metodo farraginoso tenuto dal legislatore nel dettare norme improvvisate sotto l’assillo di pretestuose urgenze (p. 780).

 

 

La collaborazione quasi esclusivamente economica non è ancora combattiva, come diverrà poi, ma è certamente tenace. Il merito, se c’è, è in gran parte dovuto alla volontà di Luigi Albertini di fare del suo giornale un organo di formazione dell’opinione pubblica. Perciò egli la voleva informata; e consentiva a me di imperversare nella trattazione di taluni problemi che mi sembravano rilevanti, anche se tali non apparivano a tutti. Epperciò, a costo di infastidire, ritornavo assai volte sull’argomento della tassazione delle aree fabbricabili, all’incirca per cinquanta delle 833 pagine del volume; consacravo una cinquantina di pagine alla discussione del problema ferroviario ed una settantina a quella connessa del porto di Genova e della direttissima fra Genova e Milano; e più di centoventi ad analizzare la urgenza o la inutilità di definire più o meno prontamente i capisaldi delle nuove convenzioni marittime. Anche potevo insistere ripetutamente, a proposito di Torino (per circa trenta-quaranta pagine), sui piani regolatori, sull’abolizione del dazio murato, sulla scelta fra riduzione del dazio consumo ed istituzione di una nuova imposta sul reddito e concludere non di rado col ricordo del vecchio istituto torinese dell’imposta dei tre quinti della maggior valenza delle aree della contrada di Po, allo scopo di caldeggiare l’istituzione od il maggior uso del contributo sulle migliorie promosse dall’opera dei comuni. Anche sulla riforma tributaria in genere e non solo per le città desideravo fossero informati i lettori, discorrendone per una trentina di pagine, e insistendo a parte (quindici pagine) sulla necessità, per non dilapidare, come si faceva, gli avanzi di bilancio, di costituire un «fondo sgravi»; rimedio empirico utile ad imbrigliare la propensione dei deputati a spendere per futili fini. Né difettavano le ripetizioni a pro della riduzione progressiva del dazio sul grano e delle farine e della abolizione degli abbuoni di tasse sugli spiriti, a danno del tesoro ed a sedicente vantaggio dei viticultori. Ma la trentina di pagine, consacrate tra il 1903 ed il 1909 a combattere l’errore, non vietarono che oggi il problema del grano e degli spiriti sia tuttora vivo ed anzi ne sia cresciuta la malignità. Tenevano ancora il campo, e qui per più di cinquanta pagine, i problemi del lavoro, che tanto luogo avevano avuto nel primo volume di queste cronache. Non mancano i lieti avvenimenti nelle cronache economiche del tempo; e fu sovratutto memoranda la conversione della rendita del 1906; augurata e discussa in circa quaranta pagine del volume.

 

 

Luigi Albertini tollerava tanta lungaggine nella trattazione di noiosi

problemi economici, soltanto perché era convinto il giornale dovesse

servire a formare l’opinione dei suoi lettori, istruendoli pacatamente, in

linguaggio non partigiano, sui problemi correnti, l’occhio rivolto non al

vantaggio immediato, sì a quello permanente, anche se lontano, del paese. Perciò egli consentiva persino alle tabelline di cifre e di statistiche, che ognun sa come riescano ostiche e la solo loro vista faccia saltare di pié pari al lettore infastidito le tabelline e con esse la prosa che vorrebbe illustrarle. Batti e ribatti, accadde che anche le statistiche finirono per parere leggibili al pubblico; il quale divenne per tal modo familiare con articoli i quali, pur non recando in fine l’annotazione, ad ogni costo vitanda, del continua, erano l’un l’altro collegati. «Vitanda», sì e ad ogni costo, perché, al solo scorgere la mala parola, chi legge il primo articolo, pensa: lo leggerò quando vedrò il fine; ma poi, quando l’articolo conclusivo arriva, il primo od i precedenti più non sono a portata di mano o la lettura è troppo lunga e la si rimanda a miglior tempo, e questo non giunge mai. Col non parlar mai di «continuare», poterono essere pubblicati sul porto di Genova studi che, nella presente nuova veste, durano rispettivamente ventitre e quarantadue pagine; quest’ultimo una vera monografia, che rilessi non senza frutto, ed era il succo di chiacchierate con ogni sorta di gente a lungo vissuta sul porto e di assai relazioni e statistiche pubbliche e private; e ricordo in specie la illustrazione che a viva voce l’amico Federico Ricci faceva delle statistiche contenute nella sua «Rivista carboni», rimasta poi la sola rassegna di cose economiche meritevole di essere letta da coloro i quali, in regime fascistico, desideravano essere informati sobriamente e sicuramente sugli accadimenti del giorno.

 

 

Se io sia riuscito, come era intendimento del direttore, ad informare con sobrietà ed esattezza, i lettori del «Corriere della sera», sugli accadimenti economici di quegli anni, non io debbo dire. Forse, per ossequio alle regole, osservate sin dai tempi di Torelli Viollier, discutevo, quasi fossero serie, anche proposte chiaramente balorde, come fu quella di importare contadini settentrionali in un mezzogiorno disertato a ragione dai suoi abitanti (cfr. pp. 423 sgg.); od indulgevo all’abito nello scrivere quotidiano propizio a dare importanza indebita a fatti del giorno; epperciò taluni giri di vite tributari, che erano mere scalfitture in confronto di quelli che vennero di poi, assumevano aspetti apocalittici (cfr. i casi di condotta di contribuenti tipici immaginati alle pp. 824 – 31); ovvero ancora consentivo senza riflettere alle richieste, anche allora volontieri accolte in tempo di svendita delle uve e dei vini, dovessero essere spiantate le vigne nei terreni di pianura (cfr. p. 723). Ma erano assenze momentanee in cose minime.

 

 

Può essere invece ragione di giusto rimprovero quel che, dando inizio alla prefazione del primo volume della presente raccolta, scrissi: «a rileggere di sé antichi scritti, par di conversare con un altro uomo»? Se avessi voluto dire, così scrivendo, che il trascorrere del tempo aveva mutato la sostanza del mio modo di ragionare, la mia concezione della vita; se da espositore delle idee di libertà economica mi fossi fatto seguace di dirigismo; se da difensore della libertà di sciopero e di coalizione per i lavoratori mi fossi mutato in seguace delle proposte di arbitrato obbligatorio e di divieto di scioperi e di serrata; se da contrario fossi divenuto favorevole ai dazi sul frumento e sul ferro ed acciaio; se da critico dei monopoli industriali fossi divenuto fautore dei monopoli statali, il rimprovero di mutazione ad ogni spirar di vento politico sarebbe giusto. Così non è, afferma l’amico Ernesto Rossi, il quale recensendo sul «Mondo» il primo volume di questa silloge di articoli, ha affermato, con benevolenza, della quale gli sono grato, pochi esempi di continuità di pensiero lungo un sessantennio potersi noverare accanto al mio. Non vorrei tuttavia si potesse ritenere non avere io mutato in nulla le opinioni intrattenute su problemi economici particolari; ché, in materia di imposte, le mutazioni sono parecchie e grosse; ed il presente volume ne reca tracce non poche. Dopo sessant’anni, invece di pensare e di scrivere, come allora facevo, intorno alla giustizia tributaria ed alla riforma radicale del nostro sistema d’imposte nella stessa maniera che si usa oggidì dai più, sono giunto a dubitare che il concetto stesso di giustizia, in materia di imposte, sia suscettivo di definizione ed a negare che esista un principio logico atto a guidarci nelle riforme. Rileggendo quel che scrivevo parmi davvero di contemplare un altro uomo e non mi dolgo di essere mutato.

 

 

L’esempio tipico della mutazione si contempla a proposito dell’imposta sulle aree fabbricabili. Credo davvero di essere stato in Italia colui che primamente discusse il problema dell’aumento di valore delle aree fabbricabili e si fece promotore della sua tassazione. Dopo un saggio sul «Devenir social» nel 1898, gli articoli miei sull’argomento si susseguono sino al 1925 senza tregua: cfr. qui, le pp. 25 (10, 20 aprile e 4 maggio 1903), 133 (26 maggio 1904), 516 (20, 24, e 25 maggio 1907) e 535 (28 maggio 1907). Nelle relazioni ministeriali e parlamentari odierne sui rinnovati disegni di legge intorno allo stesso problema, rivedo le mie argomentazioni di un tempo: aumento dei valori delle aree dovuto a cagioni collettive e sociali, accaparramento delle aree da parte di speculatori monopolisti, ritardo artificioso nelle costruzioni ed aumento dei fitti, necessità di devolvere coll’imposta l’aumento di valore a favore comuni e di «stroncare» così l’opera della speculazione, con vantaggio della finanza locale e nel tempo stesso dei consumatori del bene «casa».

 

 

Negli articoli qui raccolti ha già inizio, dopo l’apologia, la critica; la quale si appunta tuttavia non sul «principio» dell’imposta, ma sulle erronee applicazioni che se ne andavano facendo in Italia: l’imposta non proporzionata all’«aumento» di valore, come la ragion ragionante voleva, ma sul valor capitale delle aree, con offesa alla «giustizia» tributaria, la quale avrebbe richiesto la tassazione delle aree in aumento e non di quelle stazionarie o calanti; l’imposta, per tal modo erroneamente distribuita, guastata ancor più dal suo inasprimento al 3% del valor capitale; le dichiarazioni di valore rese fisse per tempi definiti, persino di 25 anni e, grazie al diritto dei comuni di espropriare ai prezzi dichiarati, rese feconde di confisca a sotto prezzo e persino con rifatta da parte del contribuente espropriato senza indennità.

 

 

La critica tuttavia si appuntava sui particolari di applicazione, non sul principio medesimo dell’imposta. Epperciò, in ubbidienza all’antico broccardo, non era pertinente; che, eliminando i vizi di applicazione, il principio rimaneva valido. Spetta ad anni posteriori al 1909 il passaggio dalla critica delle applicazioni alla critica di fondo. Probabilmente, le ripetute esperienze dei mali effetti di un principio reputato «giusto» contribuirono a persuadere la necessità di una analisi più raffinata del principio medesimo. Il principio informatore dell’imposta consisteva in un ragionamento reputato chiarissimo e persuasivo: è vero o non è vero che l’area fabbricabile produce, al pari della terra coltivata, un reddito? La terra coltivata produce frumento, uva, olive, ortaggi, erba ed altri diversissimi frutti; ed i frutti, ridotti al netto, ognuno riconosce debbano essere tassati. L’area fabbricabile, oltre ai minori frutti agricoli, praticamente minimi, tassati coll’imposta fondiaria, non produce forse un reddito peculiare, detto «aumento del suo valore», reddito aggiuntivo a quello agrario; e non colpito da alcuna imposta? Esiste qualche motivo per il quale un reddito, comunque nato o denominato, non sia colpito da imposta? No; ché il principio antico, accettato, tradizionale e punto rivoluzionario, della uguaglianza di tutti i redditi dinnanzi al dovere tributario, esige che quel reddito sia soggetto ad imposta. Se gli aumenti di valore delle aree fabbricabili, a causa della loro scarsa importanza, non furono sinora colpiti da veruna imposta; oggi che sono divenuti, nelle città tentacolari, apprezzabili, siano tassati da un tributo creato a bell’apposta, detto sulle aree fabbricabili. Se già, nella seconda metà del Seicento, a Torino, l’imposta era stata stabilita col titolo di «tre quinti della maggior valenza dei siti della nuova contrada di Po», a che tardare ad istituirla oggi? Erano fin dall’inizio del secolo e sono tuttora, evidenti i vizi delle leggi di applicazione; ma pareva, e pare oggi ancora ai più, valido il principio.

 

 

La critica al principio venne poi, in una memoria presentata nella seduta del 23 giugno 1912 della «Accademia delle scienze di Torino» col titolo Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema di imposta sul reddito consumato (riprodotta nei Saggi sul risparmio e l’imposta a carte 1-159 e particolarmente a carte 119-30 del primo volume della serie di queste «Opere») e fu riaffermata in Miti e paradossi della giustizia tributaria (nel capitolo secondo del secondo volume della serie prima). Non è qui il luogo di dimostrare nuovamente che la sequenza logica dei fatti deve essere capovolta. L’aumento di valore delle aree fabbricabili non è il fatto primo, ma l’ultimo della sequenza. Il fatto primo, senza il quale nulla accade, è il reddito dell’area fabbricabile giunta al momento della sua maturazione economica. Come il bosco non dà reddito se non al momento del taglio, così l’area non dà reddito se non al momento della sua maturazione. E quel reddito ha nome di fitto o frutto della casa fabbricata ed insieme dell’area su cui la casa insiste. Il reddito netto della casa, suppongasi 100, comprende 50 reddito della costruzione e 50 reddito dell’area? Chi tassa il 100, tassa quindi, oltrecché il reddito della costruzione, anche il 50 reddito dell’area. Una imposta del 30% sulle 50 del reddito dell’area, riduce il reddito da 50 a 35; e se noi supponiamo che i redditi si capitalizzino al 5%, l’area che, senza l’imposta esistente da tempo immemorabile sui fabbricati, avrebbe reso 50 lire e si sarebbe capitalizzata in 1000 lire, in conseguenza della stessa già esistente imposta sui fabbricati, rende solo 35 lire e si capitalizza in 700 lire. Imposta sul reddito ed imposta sul capitale sono lo stesso, stessissimo fatto, sono le due faccie della medesima medaglia. È stravagante dire che occorre una nuovissima imposta sulle aree perché esse danno un reddito esente da imposta, ché l’imposta c’è ed è quella che colpirà il reddito dell’area costrutta. Cotale verità palmare non vedevo io in principio del secolo e non vedono oggi gli ingenui, i quali immaginano di aver scoperta una materia imponibile mai prima veduta e miracolosamente sfuggita agli occhi indagatori del fisco. Forseché non è doveroso mutar sentenza quando gli occhi si aprono e si vedono i fatti diversamente da come si vedevano in cecità? Il che non vieta che sarebbe doveroso mutare nuovamente opinione se fosse dimostrata erronea la tesi che reddito e capitale sono la stessa cosa e se si tassa l’uno si tassa medesimamente al tempo stesso anche l’altro. Sinora, in cinquant’anni di discussione, la dimostrazione non è venuta.

 

 

Gli anni corsi dal 1903 al 1909 sono ricordati per lo più come quelli dell’età d’oro giolittiana: incremento dell’attività economica, avanzi nel bilancio dello stato, conversione della rendita, imparzialità nelle lotte fra capitale e lavoro, allargamento del suffragio e crescente partecipazione dei lavoratori alla vita pubblica, ampliamento della legislazione sociale, favore dato alle municipalizzazioni dei servizi pubblici, passaggio da quello privato all’esercizio di stato delle ferrovie, sostituzione ad un consorzio privato britannico di un consorzio pubblico semi-statale per gli zolfi siciliani, istituzione dell’imposta sulle aree fabbricabili, avviamento della riforma tributaria nei comuni con l’attenuazione del dazio consumo e con i primi saggi di progressività nella imposta di famiglia. Alla politica giacobina e audace di Crispi ed a quella conservatrice dei Di Rudinì, dei Pelloux e dei Saracco segue la politica finanziariamente prudente e socialmente innovatrice di Giolitti. Il settennio dal 1903 al 1909 è dominato dalla figura dell’uomo di stato piemontese. Salvo i dodici giorni di Tittoni dal 16 al 27 marzo del 1905, i dieci mesi di Fortis, dal 28 marzo 1905 all’8 febbraio 1906, i centodieci giorni di Sonnino dall’8 febbraio al 27 maggio 1906, i sette anni sono segnalati dai due ministeri Giolitti, dei quali il primo, cominciato il novembre 1901 durò sino al 12 marzo 1905 ed il secondo andò dal 29 maggio 1906 al 10 dicembre 1909. Del resto, il brevissimo gabinetto Tittoni e quello Fortis parvero surrogati di quelli Giolitti ed al ministero dei centodieci giorni di Sonnino fu consentito quasi soltanto di presentare disegni di legge, poi ritirati o fatti propri, sotto nuove spoglie, dal presidente piemontese, il quale godeva del favore sicuro della camera.

 

 

È certo che nel primo decennio del secolo, dominato in Italia dalla figura politica del Giolitti, le condizioni economiche e sociali del nostro paese grandemente migliorarono. L’on. Giolitti, ministro dell’interno dal 1901 al 1903 e presidente del consiglio poi, visse e resse l’Italia in un tempo nel quale agiva sul mondo un fattore misterioso di progresso ed era l’incremento della produzione dell’oro (cfr., qui, l’articolo L’inondazione dell’oro alle pp. 450-55 del 25 dicembre 1906). Da 815 milioni di lire nella media del 1890-95, la produzione era salita a 1 miliardo e 285 milioni nella media del 1896 – 1900 e, via via sempre crescendo, era giunta a 2 miliardi e 250 milioni nel 1906. Popoli e governi ne erano allarmati, ché i prezzi erano contemporaneamente cresciuti (indice Dun, cfr., qui, a p. 453) dall’indice 72,5 all’1 gennaio 1897, al 79,9 l’anno dopo, e via via a 95,3 all’1 gennaio 1900, a 100,1 il 1904, a 104,5 l’1 gennaio 1906 ed a 106,7 l’1 novembre del 1906. All’allarme, per il crescere dei prezzi, dei popoli si accompagnavano gli studi ed i libri degli economisti, i quali confermavano, indagando col metodo delle differenze le cause della situazione sopravvenuta, che i prezzi crescevano, probabilmente in notabile parte, grazie all’incremento nella produzione dell’oro, da cui nasceva un generale incremento nei mezzi monetari circolanti; sicché, non crescendo nella stessa proporzione la produzione dei beni e dei servizi, i prezzi logicamente dovevano crescere. Non certo nella misura terrificante in cui aumentarono poi durante e dopo le due grandi guerre mondiali; pur tuttavia, un incremento generale dei prezzi in un decennio del 50% circa appariva ed era grandioso. Presto però i popoli ed i governi si accorsero che non tutto il male viene per nuocere; e che se i prezzi bassi giovavano ai consumatori di pane e di panni, il «ribasso» dei prezzi durato all’incirca dal 1872 al 1897 non giovava, scoraggiando gli imprenditori, alla attività economica, e nuoceva alla occupazione degli operai. Sicché nell’ultimo decennio dell’ottocento erano cresciute la disoccupazione e la miseria; ed in Italia si erano osservati tumulti e rivolte in Sicilia, nelle Puglie, nelle Alpi Apuane ed a Milano. Col volgere del secolo l’ondata dei prezzi mutava al rialzo e dappertutto nel mondo l’attività economica riprendeva, i salari crescevano, diminuiva la disoccupazione. Crispi, Sonnino, Di Rudinì, Pelloux e Saracco avevano dovuto subire le conseguenze dell’avverso andamento del ciclo economico in cui erano capitati a governare e avevano dovuto subire il fio di colpe, delle quali non pochi economisti facevano risalire la responsabilità all’avarizia delle vecchie miniere della California e dell’Australia, le quali dopo il 1848 avevano fornito, facendo crescere per qualche tempo i prezzi dei beni e dei servigi, ragion di allegria al mondo fino al 1873. Alla fine dell’Ottocento, il posto delle stanche miniere australiane e californiane era stato finalmente preso dalle nuovamente scoperte miniere dell’Alaska e più del Transvaal. Di seguito od a causa delle crescenti masse di oro – fondamento universale in quei tempi della circolazione monetaria – i prezzi crescevano, gli industriali, dopo il lungo digiuno, riprendevano fiato, gli operai guadagnavano di più, ed i disoccupati diminuivano in tutto il mondo. Diminuivano anche in Italia e Zanardelli e Giolitti ne traevano giustamente profitto, perché è ovvio e giusto che i popoli non vadano per il sottile e non siano pronti a collegare taluni fatti, accaduti in paesi diversi quasi ignoti come il Transvaal e l’Alaska, con le migliori condizioni di vita in Italia; epperciò furono e sono frequenti le lodi date ai governanti del 1903-906 per l’aumento dei salari, la diminuzione della disoccupazione, il fiorire dell’industria e dei commerci, il crescere del traffico nei porti. Che furono anche dovuti in qualche parte all’opera dello stato; ma forse avrebbero potuto, quegli incrementi, essere più rimarchevoli, se l’opera dei governi non fosse stata in troppa parte negativa.

 

 

Il trionfo maggiore della finanza pubblica in quel decennio fu la conversione della rendita, operazione per quei tempi grandiosa, grazie a cui otto miliardi di debito pubblico venivano convertiti dall’interesse del 4 a quello del 3,50%. Chi scrive non si associò allora, se non in parte, alle lodi date al governo del tempo. Il titolo stesso, apposto all’articolo celebrativo (del 30 giugno 1906, qui riprodotto alle pp. 382 sgg.) dell’avvenimento davvero segnalato nella storia della finanza italiana: Dodici anni dopo, ricordava che il merito primo e maggiore della conversione risaliva ad un discorso memorando pronunciato dal ministro del tesoro Sonnino il 21 febbraio 1894 dinnanzi alla camera italiana. In quel discorso il Sonnino annunciava i duri provvedimenti necessari a rimettere l’ordine in un bilancio nel quale si prevedeva per l’esercizio 1904-905 un disavanzo di 155 milioni, si constatava che il saldo passivo del conto del tesoro presso l’istituto di emissione era salito a 563 milioni; l’aggio sull’oro, fatto scomparire anzitempo nel 1885 col prestito dei 644 milioni di lire in oro, era ritornato e oscillava fra un minimo dell’11,08 ad un massimo del 15,70%; il consolidato 5%, che nel 1886 era giunto nella borsa di Parigi, sotto l’impressione del prestito per l’abolizione del corso forzoso, a 102,55, scaduto a 72; il commercio coll’estero ridotto a minimi non toccati se non nel 1871 e nel 1878; il prodotto lordo delle ferrovie diminuito da 22,073 lire per chilometro esercitato nel 1883 a 17,346 lire. «L’orizzonte è carico di nubi e la situazione si può davvero, senza esagerazione, dire grave», esclamava Sonnino e proponeva, mascherandola col nome di aumento dell’imposta di ricchezza mobile, la riduzione forzata dell’interesse sul debito pubblico, il taglio sulle spese statali, e primamente sugli stipendi iniziali degli impiegati, l’inasprimento delle tasse di successione, dei dazi sul grano e sugli zuccheri, della tassa sugli spiriti, l’istituzione di nuovi balzelli sui fiammiferi, sul gas, sull’energia elettrica, sul cotone greggio. Una gragnola di imposte buone e cattive, che ancora oggi durano. Lasciando il potere, il ministro del tesoro Luzzatti (nel gabinetto Sonnino dei centodieci giorni) poteva dire invece al successore Angelo Majorana (nel lungo gabinetto Giolitti) che, grazie alla savia condotta dei ministri succedutisi nei dodici anni, i disavanzi nel bilancio avevano lasciato luogo ad avanzi di 65 milioni di lire nel 1900-901 e nel 1901-902, di 86 milioni nel 1902-903 di 49 nel 1903-904, di 64 nel 1904-905; e poteva additare con legittimo orgoglio il corso del consolidato giunto a 105 nelle borse estere, all’aggio sull’oro sostituito da un premio di quindici-venti centesimi per cento lire della carta italiana sull’oro; alla consistenza ordinaria dei buoni ordinari del tesoro inferiore di 130 milioni al massimo di 300 milioni consentito dalla legge; alle partite immobilizzate dei tre istituti di emissione (Banche d’Italia, di Napoli, di Sicilia) ridotte da 625 milioni nel 1894 a 167 il 30 aprile del 1906.

 

 

Frutto splendido della migliorata situazione finanziaria ed economica fu la conversione della rendita (debito pubblico consolidato) dal 4% netto al 3,75% per cinque anni ed al 3,50 in seguito. Dopo un secolo e mezzo l’Italia riprendeva la nobile tradizione della Repubblica di Venezia e di Carlo Emanuele III re di Sardegna che nel 1753 e rispettivamente nel 1763 convertivano, con l’adesione volontaria dei creditori, il loro debito pubblico dal 4,50 e 4% al 3,50%.

 

 

Si avverò l’augurio dell’articolista (cfr., qui, p. 386): «che i governanti non indulgessero al vizio di sperperare i frutti della conversione in piccoli favori di cresciuti stipendi e in aumenti di spese inutili; ma sapessero volgerli, con un piano meditato di prudenti e forti riforme tributarie e sociali, a pro dell’economia italiana»?

 

 

Ahimè! che le pagine di questo volume ospitano troppe querele di riforme non predisposte, né attuate e di anni di avanzi di bilanci lasciati trascorrere invano. Fin dal 1904 (23 luglio; Giolitti presidente del consiglio e Luzzatti ministro del tesoro) lamentavo che la ragioneria generale dello stato non tenesse il libro degli impegni assunti con atti e contratti e che il ragioniere generale dello stato fosse ridotto a «raccomandare» ai ministri della spesa, non di evitare le eccedenze di impegni sugli stanziamenti, ma di discernerle e illustrarne le cause, «procurando» di eliminare gli impegni «che non rispondano ad imprescindibili bisogni del servizio» (p. 163); istanze per fermo scarsamente efficaci a procacciare l’osservanza delle norme fondamentali della pubblica contabilità.

 

 

Invano (13 maggio 1904) ponevo la domanda: «sono sinceri i nostri bilanci?» e, lamentando le grosse cifre di residui e di eccedenze, stupivo come fossero frequenti i capitoli dei rendiconti nei quali ad uno stanziamento di 10.000 lire nel preventivo rispondevano nel consuntivo, ad esempio, 6.000 lire pagate e 4.000 da pagare. Come non accade mai di scoprire un capitolo nel quale fossero, per accidente, registrate economie? Accadeva già e forse accade ancor oggi, per importi di milioni invece che di migliaia di lire, che l’amministrazione reputi lo stanziamento una proprietà privata sua, che essa ha diritto nell’anno in corso o in quelli avvenire, di spendere sino all’ultimo centesimo, oggi sino all’ultima lira, sia o non sia la spesa necessaria all’andamento dei servizi pubblici!

 

 

Una contabilità scarsamente chiara non giova a limitare le spese; e già in principio del secolo si avvertivano i danni del fare previsioni prudentissime di entrate ed abbondanti di spese, allo scopo di occultare gli avanzi agli occhi delle camere (p. 480). Delle due scuole, l’una cerca di sminuire il gettito probabile delle imposte e di ingrossare le previsioni di spese, sperando così di non dare alimento a richieste di aumenti negli stanziamenti, e l’altra assevera la necessità di dire sempre il vero, sia esso scuro ovvero lieto. Poiché dominò quasi sempre la scuola del nascondere, fa d’uopo dire che essa mancò allo scopo; ché le sottovalutazioni delle entrate sono cucite a fil bianco ed i postulanti spese si sono adusati a richiedere nuovi stanziamenti fondati sulle eccedenze di entrate, le quali a mano a mano si verificano e debbono essere segnalate in documenti ufficiali; e dal canto loro gli ingrossamenti delle cifre di spese agevolano la industria delle eccedenze di impegni nei capitoli macilenti, eccedenze coperte nelle note di variazione da storni dai capitoli abbondanti.

 

 

Gli avanzi effettivi verificatisi nel primo decennio del secolo, i quali giunsero a 100 milioni di lire e non furono mai inferiori ai 50 all’anno, avrebbero consentito di formulare un piano veramente efficace di riforme tributarie. Avevo immaginato di adoperare, pur facendo uso nel discorso della parola «piano» sebbene non ancora venuta di moda, quella di «fondo sgravi» che mi pareva più accessibile all’intendimento ordinario (vedi gli articoli: Prestito o fondi sgravi? dell’8 gennaio 1907; La politica conservatrice degli sgravi, dell’11 gennaio 1907, e di nuovo Esiste un margine di bilancio? del 29 gennaio 1907); ed avevo cercato di dimostrare che, scegliendo bene le imposte da abolire o ridurre, le riduzioni, pur lasciando un margine di bilancio disponibile per necessari od utili aumenti di spesa, avrebbero consentito, non certamente subito ma in un non lungo volgere di anni, il proprio ricupero. Anche solo dedicando agli sgravi 30 o 40 milioni di lire all’anno, in cinque anni di sgravi metodici ed ordinati ad un fine, si sarebbero potute ridurre imposte per 150 o 200 milioni, il che in un bilancio complessivo di circa 1 miliardo e 800 milioni sarebbe stato un alleggerimento notabile per i contribuenti. Preferivo i perfezionamenti tecnici bene studiati alle grandi riforme apparenti. Inutile istituire una imposta generale e progressiva sul reddito, che sarebbe stata una brutta farsa, se prima non fossero stati perfezionati i mezzi di accertamento. Finché le operazioni catastali erano condotte a rilento, con vecchi estimi e con stime improvvisate, era impossibile conoscere l’ammontare dei redditi fondiari ed agrari; finché l’imposta sui fabbricati poggiava contemporaneamente su stime antiquate di decine d’anni per i fabbricati vecchi e aggiornate per i fabbricati nuovi, era difficile costruire una tassazione sopportabile, invece che oltraggiosamente sperequata; sinché le stime per i redditi mobiliari andavano dalla tassazione piena per taluni redditi di impiegati, pensionati, redditieri pubblici ad accertamenti incerti e inattendibili per i redditi industriali e professionali, era arduo persuadere i contribuenti del dovere di assolvere il debito di imposta.

 

Perciò insistevo (pp. 260, 308, 434, 495, 567, 756, 802, 809) sulla urgenza e priorità delle minute riforme perfezionatrici che, sole, potevano seriamente preparare la maggiore riforma, la quale, venuta su terreno pronto a riceverla, avrebbe dato buon frutto; laddove si preferì presentare disegni di legge, detti progressivi, di imposta personale sul reddito destinati a rimanere sulla carta o, se attuati, a palesarsi niente più che una aggiunta di decimi e di centesimi addizionali baroccamente distribuiti sulle vecchie sperequate imposte fondiarie e mobiliari.

 

 

Quanto alle imposte sui consumi, continuavo (pp. 189, 207, ecc.) a predicare la necessità e la giustizia della riduzione graduale del dazio sul grano, infelice surrogato dell’aborrito macinato, il quale perlomeno non arricchiva i proprietari terrieri a danno dell’erario; ma il dazio fu conservato ed aggravato. Preferivo (p. 500) ridurre l’imposta sul petrolio piuttostoché quella sul sale, perché ad un vantaggio uguale per i consumatori – in quegli anni la spesa per gli automobili era irrilevante ed il petrolio dava sovratutto luce alle campagne ed ai ceti modesti nelle città – la riduzione del prezzo del petrolio aggiungeva la attitudine, inesistente, a causa della rigidità del suo consumo, per il sale, a dare incremento ai modi tradizionali ed impulso a nuove maniere di consumo. Ma non si fece nulla medesimamente né per il sale, né per il petrolio.

 

 

Nessuno si avvide che in quegli anni si studiassero i mezzi di cansare le spese inutili. Invano sin d’allora (15-16 agosto 1903, alle pp. 63 sgg.) ricordavo gli sforzi sostenuti in Inghilterra ed in Francia per limitare il diritto di iniziativa dei deputati a proporre nuove spese od a presentare emendamenti improvvisati alle proposte governative di modificazioni tributarie. Di fronte alle difficoltà di opporre un argine legislativo al malo andazzo, malinconicamente invocavo «una più perfetta educazione politica del paese, un maggior controllo degli elettori sugli eletti, e l’ossequio degli interessi particolari dinnanzi agli interessi generali».

 

 

Tra le spese, le più inutili non erano gli aumenti di stipendi agli impiegati elargiti sotto colore di miglioramento dei pubblici servizi. Poteva darsi – sebbene non sia dimostrato il legame logico necessario tra l’aumento dello stipendio di un funzionario e il diminuito costo del servizio a lui affidato, se l’aumento non sia accompagnato dalla riduzione del numero degli addetti a quel servizio, – che talvolta, invariato rimanendo quel numero, l’aumento significasse effettivo miglioramento del servizio; e ricordavo (il 30 gennaio 1908, cfr., qui, le pp. 573 sgg.) il lodevole sforzo di un gruppo di postelegrafici per chiedere migliorie di stipendio effettivamente collegate con una migliore resa delle loro prestazioni e con una diminuzione del loro numero. Né doveva essere trascurata la probabilità che, anche in tempi di moneta buona, dovessero gli stipendi essere cresciuti con frutto per tener conto del crescente reddito reale nazionale e per ragguagliare gli assegni di alcune categorie di dipendenti statali manifestamente inferiori a quelli di categorie tradizionalmente ritenute maggiori in dignità.

 

 

Il danno dello spreco manifesto del pubblico denaro era quando la spesa avvantaggiava un ceto privilegiato; e fu in quel tempo conclamato il caso della legislazione sugli spiriti. Col pretesto di venir in soccorso alla vitivinicultura, affetta sin d’allora da crisi periodiche, si era obliato il canone classico che le imposte devono servire a procacciare entrate all’erario. Con un sistema ingegnoso di abbuoni sugli spiriti da vino e di favori alla immissione in franchigia di determinate quote dei cognacs invecchiati o magari non invecchiati, non era forse accaduto che il gettito delle tasse sugli spiriti da 52 milioni di lire nel 1905-906 fosse sceso a circa 17 nel 1908-909 e tendesse, se non si poneva riparo d’urgenza, a zero e forse persino si convertisse in una perdita netta? A pro di chi? In apparenza dei viticultori; in verità dei produttori marginali di qualità scadenti di uve; vantaggio momentaneo, annullato dal danno di incoraggiare, coi salvataggi della coltura delle viti in terre disadatte, il ripetersi della sovraproduzione generatrice di crisi periodiche (In Un abisso senza fondo per lo stato e l’aggravarsi della crisi vinicola. 15, 18 e 25 giugno 1909, cfr., qui, le pp. 711-28).

 

 

Su nessun problema la mala soddisfazione di chi scrive è tuttavia più manifesta che nelle pagine consacrate al problema ferroviario (che, già fu notato sopra, giungono qui alla cinquantina, oltre alle settanta consacrate al problema connesso al porto di Genova), ed a quello delle convenzioni marittime (circa centoventicinque).

 

 

Pochi ricordano oggi la frequenza con la quale sui quotidiani appariva la rubrica del «disservizio» ferroviario: ritardi negli orari, consegne irregolari delle merci, furti, danneggiamenti, materiale rotabile vetusto ed inservibile, ingombro permanente delle officine di riparazione. Occorsero anni parecchi dopo l’1 luglio 1905 affinché l’andamento del servizio desse qualche segno di ripresa, nonostante che al timone fossero stati scelti gli uomini migliori che l’Italia vantasse in quel tempo, e nonostante che al passaggio dal sistema privato all’esercizio di stato non fosse mancata la lunga preparazione, vorrei dire di decenni, a partire dal classico libro di Silvio Spaventa sino alle inchieste, alle relazioni ed alle discussioni parlamentari e giornalistiche. Si conoscevano i mali dai quali era affetto l’esercizio privato; massimo la previsione errata fatta nel 1885, quando per i vent’anni dall’1 luglio 1885 al 30 giugno 1905, si stipularono le convenzioni colle società Adriatica, Mediterranea e Sicula. Si era immaginato, durando ancora tra il 1880 e il 1885 la fase favorevole del precedente ciclo economico, che si potesse fare affidamento sull’incremento progressivo dei prodotti del traffico per provvedere all’incremento necessario degli impianti fissi e del materiale rotabile. Poiché il traffico «doveva» crescere, pensassero certe «casse», alle quali veniva devoluto in tutto o in parte quell’incremento, alle spese in conto capitale: rinnovamento e miglioramento degli impianti (stazioni, gallerie, linee, ecc.) e del materiale rotabile. Le società, che erano di esercizio, non avevano né mezzi né interesse a pensarci; lo stato, proprietario, se ne lavava le mani; ci pensassero le casse! Purtroppo, col volgersi del ciclo economico al peggio dopo l’85, le casse rimasero in secco od erano assai scarsamente alimentate; sicché impianti e materiale divennero a poco a poco insufficienti per quantità e fatiscenti per qualità. Le società esercenti non potevano correre il rischio di investire capitali, ottenuti con la emissione di obbligazioni costose, senza la garanzia del rimborso dell’annualità di interessi ed ammortamento da parte dello stato; ed il congegno istituito nel 1885 era tale da sconsigliare investimenti aleatori.

 

 

Infatti conviene all’esercente un’impresa pubblica investire capitali in migliorie se l’aumento del traffico è tale da coprire almeno l’aumento delle spese connesse con l’aumento del traffico. Conviene spendere anche 100, se l’aumento del traffico non è inferiore a 100 e se il maggior prodotto è goduto da quella stessa persona od ente che sopporta le maggiori spese di 100. Le convenzioni del 1885 addebitavano tutte le maggiori spese di esercizio al concessionario; ma dividevano in proporzioni variabili i prodotti fra le società concessionarie, il tesoro e le casse. Le società le quali avrebbero avuto interesse a spendere 100, se ad esse fosse rimasto tutto il maggior prodotto 100 o più; se ne astenevano perché, anche se il prodotto lordo totale giungeva a 100, ad esse ne toccava solo una quota insufficiente a coprire le spese. L’errore era noto e denunciato da tempo in tutte le trattazioni di economia ferroviaria ed anch’io ne avevo subito avvisato, non appena assunto ad insegnare scienza delle finanze, i miei studenti di Torino. Invano, ché l’errore grossolano del chiamare stato o casse sitibonde a partecipare al prodotto lordo invece che a quello netto produceva l’effetto logicamente necessario di scoraggiare i nuovi investimenti.

 

 

Se la partecipazione erariale fosse stata calcolata sul reddito netto, l’effetto dannoso non si sarebbe verificato, perché si sarebbe ripartito solo ciò che fosse eventualmente avanzato dopo coperte tutte le spese, anche quelle per il procacciamento delle maggiori entrate. Ostava a ciò la diffidenza di governi e di parlamenti contro i concessionari sospettati di manipolare i conti per nascondere i guadagni al fisco ed allo stato comproprietario e si preferiva far partecipare l’erario al prodotto lordo, che dicevasi più facile a controllare. Di qui altresì, oltreché dalle avverse condizioni del ciclo economico, il difetto negli investimenti e l’isterilimento dei prodotti del traffico. L’eredità ricevuta dall’esercizio di stato l’1 luglio 1905 fu dunque di gestioni fortemente dissestate; alle quali si sarebbe dovuto provvedere con una coraggiosa politica di prestiti destinati a ringiovanire stazioni, linee, materiale rotabile, ed abbassare i culmini delle gallerie appenniniche, a migliorare l’accesso ai porti, ecc. ecc. Con quanto scarsa longimirante visione del problema si sia provveduto a risolvere i problemi ferroviari in Italia e quelli del massimo porto settentrionale, lo dicono le molte pagine, circa un settimo del volume, consacrate alla discussione di quei problemi; né qui occorre ripetere quel che negli articoli quotidiani era dichiarato in lungo ed in largo.

 

 

Un’altra settima parte del volume è consacrata alla discussione delle nuove convenzioni marittime, che si sapeva da tempo sarebbero giunte alla scadenza. Da tempo, pubblicisti, studiosi, commercianti, industriali parlavano delle vecchie carcasse, dei piroscafi valetudinari, della anzianità persino cinquantennale della flotta posseduta dalla «Navigazione generale italiana» e si affermava l’urgenza di provvedere alla stipulazione di nuove convenzioni marittime; sicché i nuovi concessionari potessero in tempo prepararsi a costruire o ad ordinare navi moderne, atte a sostituire «i pezzi da museo», altrettanto frusti come i carri e le carrozze delle tre società ferroviarie, con i quali la Navigazione generale si industriava ancora a tenere alla men peggio i mari.

 

 

Fin dal 17 gennaio 1901 (cfr. nel primo volume le pp. 315 sgg.) riproducevo le lagnanze della Società mediterranea, la quale dichiarava di non poter far nulla per agevolare il compito del porto di Genova a causa della insufficienza degli impianti portuali e ferroviari, dovuta alle disordinate competenze di pubbliche autorità, atte solo a rinfacciarsi l’un l’altra i malanni dell’esercizio e gli ingombri delle calate del porto e delle stazioni ferroviarie; e qui in un articolo del 21 novembre 1905 (cfr. pp. 275-84) ricordavo che le convenzioni marittime scadevano l’1 luglio 1908 e governo e parlamento con legge del 16 maggio 1901 avevano provveduto alla nomina di una commissione reale incaricata di fare proposte tempestive affinché gli armatori avessero quattro anni di tempo per approntare una flotta moderna al posto di quella esistente forse «buona per un museo di antichità» ma incapace «per almeno i tre quarti a tenere decentemente il mare per conto dello stato». La commissione aveva studiato; ma era passato il 1903, era passato il 1904, stava per passare il 1905 ed il frutto dei lavori della commissione stava tutto in un memorandum di sei paginette in cui erano «elencati» i servizi che la commissione proponeva di istituire, la loro periodicità, la velocità, il tonnellaggio delle navi che avrebbero dovuto essere adibite ai servizi proposti e si riassumevano le norme per il credito navale, per le aste e per la costruzione dei piroscafi. Il ministero della poste e telegrafi competente, a cagion dei servizi postali che erano la ragion d’essere od il pretesto del pagamento delle sovvenzioni, dando notizia delle proposte della commissione, dichiarava però che le conclusioni dei ministeri interessati erano tuttora riservate. Invero un altro ministero, oltre quello delle poste e telegrafi per la marina sovvenzionata, aveva competenza in merito di navigazione, quello della marina (militare), provveduto di una direzione generale della marina mercantile, la quale sopravegliava ai premi di navigazione dati alla marina libera ed ai premi di costruzione concessi ai cantieri navali. Naturalmente i due ministeri erano tra di loro cani e gatti e presentavano, ciascuno di essi, proposte separate non coordinate e contradditorie. La confusione era cresciuta per le richieste, del resto ragionevoli, del ministero di agricoltura di aver bocca in fatto di industrie (cantieri) e di commerci (premi e sovvenzioni), del ministero dell’interno, che aveva la vigilanza dei porti, della guerra e della marina, per l’esigenza che le navi mercantili potessero trasformarsi in tempo di guerra in navi ausiliarie. La lacrimevole storia delle vicende dei disegni di legge relativi a materia tanto delicata si legge nelle molte pagine del presente volume, consacrate alla cronaca ed alla critica di quel che si discusse in argomento. A malapena si arrivò in tempo, innanzi alla scadenza dell’1 lugli0 1908, ad assicurare i collegamenti, oltrecché con le isole minori, tra il continente e la Sicilia, e la Sardegna; e, nell’urgenza di non sapere come cavarsela, si pensò a scaricare l’onere del collegamento con le due grandi isole sulle ferrovie di stato; pensiero in sé ragionevole, ma, attuato in un momento nel quale l’esercizio di stato delle ferrovie stava traversando il tempo del «disservizio», l’innesto del servizio marittimo in dissoluzione su quello ferroviario in crisi non ebbe per allora vantaggiosi risultati.

 

 

Due voci non trovarono ascolto né nei consigli di governo né in parlamento; e la prima era quella di coloro i quali sostenevano la tesi che i premi di costruzione ai cantieri navali potevano essere soppressi, se l’importazione dall’estero dei materiali di ferro ed acciaio fosse fatta immune da vincoli e da dazi. La tesi non era soltanto propria di economisti teorici; ché parecchi armatori, insofferenti dei vincoli, a cui erano astretti dalla legge i cantieri navali italiani, desideravano essere liberi di acquistare navi dovunque le potessero ottenere se adatte ai servizi loro propri a prezzo internazionale; e la scelta delle navi appariva più agevole nel mercato libero mondiale che in quello ristretto obbligatorio italiano. Non fu ascoltata parimenti la voce di coloro, e qui si ricorda particolarmente quella del negoziante Zaccaria Oberti, consigliere della camera di commercio di Genova, il quale sul «Lavoro» (qui citato a p. 740) e in una lettera al «Corriere» (qui riprodotta alle pp. 745 sgg.) sostenne vigorosamente che, essendosi già provveduto alle comunicazioni postali colle grandi e minori isole, le sovvenzioni alle altre linee erano superflue, nei casi nei quali queste fossero già esercite dalla marina libera senza alcun onere per l’erario, ed utili soltanto se le linee fossero davvero scelte in ragione del nuovo traffico che esse sarebbero state capaci di promuovere. Importava non trovasse conferma da noi la diceria diffusa delle navi che solcavano i mari non a trasportare uomini e merci, sebbene a pescar premi.

 

 

Trovò invece favore, a causa della repugnanza di governi e di parlamenti ad assumere la responsabilità di un accordo a prezzo convenuto e fisso, il principio di un periodo iniziale sperimentale, nel quale il concessionario ottenesse garanzie contro le perdite e lo stato partecipasse ai maggiori prodotti. Che fu l’inizio dei metodi, invalsi poi nei tempi di guerra, accolti dai fascisti e non ripudiati dai governi venuti dopo la liberazione; metodi che si possono definire delle concessioni a piè di lista, promettitrici di eventuali profitti e feconde di paurose perdite a carico del pubblico erario.

 

 

Non fu questo il solo caso di preannuncio delle nazionalizzazioni venute poi di moda, ma aveva in comune con gli altri la circostanza che nessuno allora si accorse che a vere e proprie nazionalizzazioni si intendesse giungere. Pareva che i deputati ed i senatori fossero chiamati a discutere dei modi tecnici di calcolare le sovvenzioni alle navi «postali»; ma che cosa è nazionalizzare se non gerire in società un’impresa economica, con i necessari controlli e nomine di dirigenti da parte dello stato, incaricati, sia pure invano, di scansare le perdite a danno dell’erario? Nessuno immaginava che il parlamento fosse chiamato a municipalizzare le aree edilizie nel 1907 quando alla camera fu presentato un disegno di legge nel quale pareva si discorresse solo di modalità di valutazione delle aree edilizie soggette ad imposta, reputata tenue perché limitata al 3% del valore capitale, e apparentemente avvantaggiate da una indennità di esproprio uguale allo stesso valor capitale. Ma le parole usate erano siffattamente congegnate che ben poteva darsi e in talune fattispecie necessariamente accadeva i proprietari non solo non ricevessero alcuna indennità per le aree forzosamente confiscate, ma fossero costretti a versare in aggiunta somme egregie a titolo di azioni di grazie per la avvenuta confisca (cfr., qui, Come avvengono le rivoluzioni sociali in Italia del 28 maggio 1907 alle pp. 535-40). La rivoluzione per allora non approdò in quella maniera surretizia ed in quella materia; ma ben fu attuata, in una breve seduta antimeridiana del luglio 1906, un’altra grossa mutazione negli ordini economici, che non ebbe alcuna eco nella stampa, non suscitò discussioni fra liberisti e socialisti e tuttavia non esitavo ad additare alla pubblica attenzione come «uno dei fatti più importanti nella storia industriale moderna non pur d’Italia, ma del mondo» (in due articoli dal titolo Uno sperimento di intervento dello stato dell’8 e del 9 agosto 1906, qui riprodotti alle pp. 412-22). Volgevano mali passi per l’industria solfifera siciliana, dimostratasi incapace a reggere alla concorrenza dello zolfo della Louisiana; che, per la sua giacitura e la sua ricchezza, pareva si potesse estrarre ad un costo minore della metà, con metodi assai più economici di quelli antiquati usati in Sicilia. Da tempo l’arretratezza dei metodi industriali ed il frazionamento minuto della proprietà mineraria avevano consigliato ai più dei proprietari di affidare la vendita del minerale ad una Anglo-Sicilian Sulphur Company costituita a Londra nel 1896. Ma lo spettro della concorrenza americana aveva persuaso la compagnia inglese a rifiutare la rinnovazione del contratto. Dinnanzi al ribasso inevitabile dei prezzi, alla impossibilità di liquidare, senza perdite gravi, una rimanenza di circa quattrocentomila tonnellate di zolfo invenduto, alla rovina di 200.000 persone interessate nella proprietà, nella coltivazione e nel commercio dello zolfo, ai clamori dell’opinione pubblica siciliana e di tutti gli enti rappresentativi dell’isola, alle minacce di tumulti dei solfatai di Caltanissetta, il governo si decise a proporre e il parlamento ad approvare a furia la creazione di quel Consorzio obbligatorio solfifero che ancor oggi esiste. Già allora si parlava di lotta contro i monopoli; ma, invece di apprestare, ad imitazione di quel che negli Stati uniti già si faceva, i mezzi per combatterli, si iniziava l’esperimento di un monopolio creato, garantito, sussidiato e sostanzialmente amministrato dallo stato. Forse oggi quella, che allora parve a me una novità grossa, un avvenimento memorabile nella storia industriale del mondo, non farebbe più impressione; ché nel nostro paese i monopoli creati o fomentati dallo stato sono tanti e paiono siffattamente ovvii da non destare l’attenzione neppure di coloro i quali propongono norme dirette a vietare, sopprimere o regolare i monopoli in genere. Qui si voleva solo ricordare che i germi di molti istituti, giganteggiati nel tempo fascistico e cresciuti ancora dopo la liberazione, si possono ricondurre agli anni (1903-909) contemplati in questo volume delle Cronache.

 

 

A questi anni risalgono altresì i rinnovati accenni ad una mutazione notabile nella psicologia e nelle aspirazioni del movimento operaio. Alcuni sintomi erano già stati rilevati innanzi al 1903 (cfr. le pp. XXIV-XXV della prefazione al primo volume delle Cronache); ma le preoccupazioni crescono dopo il 1903 e prendono il luogo dell’entusiasmo con il quale era stata salutata ed ancora si ricorda con commozione la svolta creativa verificatasi nei rapporti fra capitale e lavoro negli ultimi anni del secolo XIX.

 

 

La lotta operaia per ottenere il riconoscimento del diritto di coalizione e di sciopero era chiusa e nessuno più contestava agli operai ed ai contadini il diritto di trattare da paro a paro con gli imprenditori. Conquistata la parità tra due parti, politiche o sociali, accade non di rado che gli oppressi di prima non si ristiano e vogliano «procedere innanzi», come se il camminare «sempre» in una direzione non fosse per lo più indice di involuzione e di decadenza. Dalle Cronache non appare che operai e contadini ansiosamente mirassero – salvoché in tumultuose dimostrazioni innanzi a stabilimenti industriali, note nella storia sociale anglosassone col nome di picketing e reputate lecite a meno degenerassero in violenze personali – a sopraffare a loro volta legislativamente la parte padronale. Ma già i politici del tempo anticipavano aspirazioni inesistenti; ed accadeva perciò che l’on. Sacchi immaginasse di fare opera di progresso sociale, annunciando il proposito di presentare un disegno di legge ricalcato su di un analogo vecchio disegno presentato nel 1900 in Francia dagli on. Waldeck Rousseau e Millerand e sepolto con gli onori del rinvio alla commissione del lavoro. Ma il progetto Millerand sanciva l’obbligatorietà dell’arbitrato solo per gli imprenditori e gli operai che avessero accettato di sottomettere ad arbitri le questioni, attinenti al lavoro, tra essi insorte; laddove il progetto Sacchi obbligava le minoranze ad astenersi dal lavoro sempre quando le maggioranze deliberassero lo sciopero (cfr., qui, alle pp. 175-78 Arbitrato e sciopero obbligatori del 13 ottobre 1904). Accanto ai politici, anche i «giuristi dell’imperatore» fiutavano l’odore del vento sociale ed apprestavano ai dominatori dell’avvenire le armi giuridiche utili alla vittoria. Il sostituto procuratore generale della corte d’appello di Roma, Raffaele De Notaristefani, delineava sapientemente ne «La Giustizia penale» la nuovissima figura del reato di crumiraggio. Partendo dal principio, divenuto assiomatico nel tempo fascistico ed accettato oggi dai più, che la libera concorrenza nelle industrie, nei commerci e nei rapporti tra capitale e lavoro fosse oramai superata e fosse a poco a poco sostituita dal principio della solidarietà sociale, il De Notaristefani osservava che la solidarietà è rotta quando, essendo stato deliberato lo sciopero dalla collettività operaia, i crumiri, offrendosi a sostituire gli assenti volontari, fanno abortire lo sciopero. L’atto dei crumiri deve essere reputato di concorrenza illecita e, come tale, deve essere punito dal codice penale. Nel testo del presente volume si possono contemplare le eleganti disquisizioni con le quali il giurista definiva le caratteristiche dello sciopero «giusto», dalle quali si deduceva dirittamente la tesi della punibilità del reato di crumiraggio (articolo del 9 novembre 1904, alle pp. 178-82). Nel testo si contemplano altresì le discettazioni squisitamente raffinate con le quali Giovanni Montemartini, direttore dell’ufficio centrale del lavoro, smantellava il diritto di sovranità del parlamento, nel determinare le spese pubbliche, argomentando: forseché lo stato fissa il prezzo dei carboni acquistati dalle sue ferrovie o non si deve adattare ai prezzi di mercato? Fissi il parlamento l’ammontare dei servizi richiesti alle ferrovie; ma accetti le paghe, le carriere e le condizioni del lavoro che per i ferrovieri son fissate dal mercato; e poiché, in condizioni di monopolio, non esiste un mercato libero del lavoro, accetti le norme stabilite dagli arbitri nominati in conformità della legge (cfr., qui, alle pp. 244-49 L’arbitrato obbligatorio per i ferrovieri del 23 settembre 1905).

 

 

Trattavasi di affermazioni dottrinali di politici, giuristi e periti nelle questioni del lavoro; come fu anche delle discussioni avvenute, grazie al fervido impulso dato ai lavori dall’infaticabile Montemartini, in seno al Consiglio superiore del lavoro a proposito della scelta, libera o coattiva fra diversi tipi di contratti collettivi e di contratti di tariffa (cfr., qui, alle pp. 488 – 506 Contratti collettivi di lavoro o contratti di tariffa? del 25 febbraio 1907).

 

 

Non sembra che l’on. Giolitti abbia prestato molta attenzione ad idee e proposte, che alla sua mentalità semplificatrice dovevano apparire forse «nuove» e certamente complicate ed atte a promuovere incertezze e contese, od almeno nelle pagine delle Cronache non si notano interventi suoi notabili atti a mutare la sua ferma politica di imparzialità nelle controversie fra operai e datori di lavoro. I dubbi verranno poi in anni più fortunosi, non nel tempo dal 1903 al 1909. Qui veggo solo qualche traccia di momentaneo oblio in un progetto presentato da lui e dall’on. Cocco-Ortu per regolare il lavoro nelle risaie. Trattandosi di problemi locali, praticamente interessanti solo le plaghe del vercellese e del novarese, l’on. Giolitti si era lasciato persuadere dal collega dell’agricoltura Cocco-Ortu ad introdurre, accanto a parecchie buone norme, un articolo improvvisato col quale si dava facoltà ad una commissione paritetica, presieduta dal pretore del luogo, di decidere, prima in via di conciliazione e poi con sentenza obbligatoria ed inappellabile «tutte le questioni relative al contratto di lavoro in risaia, alla remunerazione, al pagamento delle mercedi, ai patti speciali di lavorazione, all’abbandono del lavoro, allo scioglimento del contratto». È vero che l’articolo chiudeva «ed in genere alla interpretazione ed applicazione del contratto», dalle quali parole si poteva dedurre che la competenza del pretore a decidere fosse limitata alla interpretazione dei contratti liberamente stipulati tra le parti. Ma la prima parte dell’articolo legittimamente poteva essere interpretata nel senso che il pretore avesse il potere di decidere con sentenza inappellabile sui salari orari e condizioni del lavoro. Era un precedente veramente rivoluzionario; ma fatta rilevare la grossissima novità, la commissione parlamentare mutò senz’altro, senza opposizione del governo, l’arbitrato obbligatorio per sentenza di pretore, in tentativo di conciliazione fra le parti (cfr., qui, alle pp. 507-15, Il progetto di legge sul lavoro nelle risaie: dall’arbitrato alla

conciliazione, del 4 marzo e 17 maggio 1907).

 

 

Non vorrei che quel che scrivo oggi nella prefazione e sovratutto quel che si legge nel testo potesse essere interpretato come un giudizio negativo su tutta l’opera economica e politica dell’uomo che resse la somma delle cose nel primo decennio del secolo. In primo luogo, i problemi economici e sociali discussi nel testo, pure se agli occhi miei rilevantissimi, sono alcuni soltanto di quelli che furono materia di dibattito in quell’epoca. In secondo luogo, delle questioni politiche, militari, religiose, scolastiche, nazionali e internazionali, che affaticavano gli uomini di stato, qui si fa cenno solo di passata.

 

 

Non di tutto quel che accadde nel settennio il merito o la colpa può essere del resto data agli uomini di governo. Anche allora, come in tutti i tempi ed in tutti i paesi, quel che accade non è massimamente, anzi è solo in piccola parte, dovuto all’opera dei governi; e questi, quando si attribuiscono meriti di accadimenti prosperi, fan spesso come le mosche cocchiere, le quali ai buoi aggiogati all’aratro con sicumera comandano: «ariamo». Forseché, se il reddito nazionale cresce in un paese di anno in anno del cinque per cento, è agevole dimostrare, salvoché col sofisma del post hoc propter hoc, che l’incremento è dovuto al governo, il quale aveva per l’appunto pianificato o, meglio, previsto un incremento uguale? Già dissi sopra che gli anni del secolo nuovo erano caduti in una fase del ciclo economico collegata dall’euforia dei cresciuti mezzi di pagamento aurei; sicché del prospero andamento dell’economia mondiale male può essere dato merito ai governanti dei singoli paesi, i quali pur attuavano politiche economiche diversissime.

 

 

Se si bada soltanto a quella che dalle pagine del testo risulta essere stata l’azione dello stato in materia economica e sociale negli anni dal 1903 al 1909, non si trae davvero ragione di conforto sulla sua fecondità.

 

 

Proponevano bensì talvolta gli uomini dei governi giolittiani riforme dette «coraggiose», per esempio in materia tributaria; ma le proposte non erano sostenute a fondo, sicché cadevano volentieri, in seguito a mutazioni di governo o ad elezioni generali. Sotto il suo regime si attuarono talune cose grossissime, come la rivoluzione, la quale sostituisce alla proprietà privata delle miniere di zolfo la gestione da parte di un pubblico consorzio, gestito sovratutto da organi statali; o quell’altra, non condotta a termine, che confiscava, a pro dei comuni, con indennità negativa, la proprietà privata delle aree fabbricabili. Ma le novità grossissime si attuarono in mezzo alla disattenzione universale; laddove altre novità pur grosse, come l’esercizio ferroviario di stato, erano decise tumultuariamente sotto l’urgenza dello scadere delle convenzioni antiche e senza provvedere alle esigenze del grande mutamento.

 

 

Talvolta le incertezze furono lasciate trascinare a lungo, come nel caso di quel nido di vipere quali erano per fermo le convenzioni marittime; ma non si avvertì abbastanza che se la politica, prediletta dall’on. Giolitti, del rinvio riusciva non di rado ad evitare soluzioni affrettate e dannose, talvolta invece aggravava il male. Auguravo, (cfr., qui, p. 743) il 6 luglio del 1909, che l’on. Giolitti, coll’autorità del nome e coll’appoggio della sua fida maggioranza, consentisse a studiare meglio il problema, non nell’intento di aumentare i voti a lui favorevoli, grazie alla concessione di approdi e agevolezze a minimi interessi locali, ma perché lieto di una manifestazione di fiducia del parlamento nella sua capacità a tutelare gli interessi più alti del paese.

 

 

La sua, veramente insigne, capacità di semplificare i problemi, nascondeva forse la insofferenza verso i politici ed i pubblicisti, troppo disposti a dar rilievo a questioni che a lui sembravano ad arte ingrossate e complicate. A lui bastava affrontare i quesiti che ogni giorno la realtà gli poneva, quesiti diversissimi gli uni dagli altri in un paese tanto vario come il nostro.

 

 

Pur avendo dovuto dare, sul fondamento esclusivo e parziale di quel che scrivevo allora, un giudizio non laudativo dell’opera dello statista, debbo dire che dura nell’animo mio la impressione ricevuta quando verso il 1899, nella stanza di Luigi Roux, direttore della «Stampa», con giovanile improntitudine chiesi a lui, non ancora ritornato al governo, ma già capo della opposizione, che cosa bisognasse fare per trarre il paese dai mali passi ai quali si era condotto dopo le giornate del maggio 1898 ed egli rispose nel nostro dialetto vënta gövernè bin. Alla quale regola del dovere di governare bene, nel senso di esatta conoscenza ed opportuna scelta degli uomini, dominio fermo e cortese di essi, conoscenza precisa della pubblica amministrazione, regolarità metodica nelle ore del lavoro, del riposo, dei pasti e della ricreazione; assiduità scrupolosa ai lavori parlamentari; chiarezza e brevità lapidaria nel discorrere pubblico (rimase famosa la risposta ad un deputato novellino suo corregionale, il quale gli chiedeva consiglio sul momento e sul modo opportuni del suo debutto: «quando avrà qualcosa da dire, chieda la parola ed, ottenutala, esponga il suo pensiero. Quando avrà detto il necessario, si segga»); perizia consumata nei dibattiti in assemblea, nei quali eccelleva la sua abilità nel ridurre, passando sopra medesimamente ai grovigli complicati ed alle obbiezioni sostanziali, i problemi al nocciolo più consentaneo alla sua tesi; vita morigerata esemplare, sicché nessuna accusa di indole finanziaria mai poté essere rivolta contro di lui e la modesta fortuna da lui lasciata ai figli fu quella sola che, insieme coll’eredità avita accuratamente conservata, nella lunga vita di ottantacinque anni egli ritenne suo dovere di mettere da parte col risparmio quotidiano e con la prudente maniera, allora possibile, di investirlo. La lode all’uomo pubblico e privato si conchiude con la domanda: visse ed operò in quel tempo altro uomo di stato meglio capace dell’on. Giolitti a governare quegli italiani che allora vivevano e dovevano essere governati? La risposta è necessariamente siffatta da costringere i critici più ostinati di quel tempo ad inchinarsi rispettosamente alla sua memoria.

 

Della fonte del risparmio e della tassazione del reddito normale come approssimazione alla esclusione del risparmio dalla materia imponibile

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1958, pp. 451-468

161. Mentre meditavo, con sommo diletto, come accade per i libri belli, sulle pagine dei Principii del De Viti e cercavo di inseguire colla mente le trasmutazioni dei beni strumentali in beni diretti e le conseguenti vicissitudini tributarie, mi accadde di leggere, nelle ore in cui la mente ama riposare, uno dei più attraenti e meritamente fortunati romanzi d’oltre Atlantico, Maria Chapdelaine, di uno scrittore, ignoto ieri famoso oggi, Louis Hémon, morto giovine innanzi che la gloria del suo unico libro potesse essere oscurata dalla possibile mediocrità di quelli che forse sarebbero venuti di poi[1]. È il poema potente del pioniere nel Canadà francese, la rivelazione del perché un pugno di uomini, non più di 80 000, abbandonati dalla madre patria nel 1763 si sia moltiplicato (circa 2.750.000 nel solo Canadà, senza contare le propaggini numerose degli Stati Uniti), abbia popolato province, e sia oggi divenuto il popolo più prolifico, più compatto, più tradizionale e vivo dell’America settentrionale. Leggendo quel libro, si sentono le ragioni profonde che muovono gli uomini alla conquista della terra, che fanno le famiglie, le razze grandi e durature. Si vedono anche, e perciò ricordo quel romanzo, nitidi, non oscurati da superstrutture monetarie e da convenzioni verbali, i fenomeni del lavoro, del salario, del profitto, del risparmio. La terra si stende vasta, senza limiti, dinnanzi agli occhi del pioniere ma coperta di abeti, di pini, di sterpi e cespugli d’ogni sorta; ma priva di strade, ma intersecata da fiumi, ma sepolta per sette mesi dell’anno sotto una spessa coltre di neve e di ghiaccio. Samuel Chapdelaine è un pioniere, che ha l’istinto dell’ignoto, del lontano. Uno dopo l’altro egli ha dissodato tre o quattro poderi. Solo, con la fedele compagna della sua vita, egli si ferma su un terreno, dove il pascolo gli permetta di alimentare le sue due vacche e dove esista la possibilità di «fare della terra». «Io, dal mattino alla sera, batti e batti colla scure, senza mai tornare a casa eccetto che a pranzo, e lei, lungo tutta la giornata, ad attendere alla casa a curare gli animali, a tenere le chiusure in ordine, a pulire la stalla, faticando senza tregua. Tre o quattro volte al giorno, davanti alla porta, restava un momento a guardare là dove io, giù al limite del bosco, a tutta forza sbarazzavo colla scure il terreno dai cespugli e dai tronchi per farle della terra». Quando in luglio le sorgive attorno alla casa inaridiscono, la donna otto o dieci volte al giorno scende al torrente e a braccia ed a spalle porta su l’acqua per le vacche. Anni ed anni, di duro lavoro e di «miseria» si susseguono; e poi vengono i figli e il lavoro ricomincia su terre nuove, più adatte ai bisogni della cresciuta famiglia. Quando i figli sono ancor piccoli, il pioniere assume un servo di campagna per aiutarlo «a fare la terra»; divenuti capaci al lavoro, il servo non più necessario non è licenziato; ma, d’inverno, quando la terra è coperta di neve, con i due figli maggiori, se ne va a guadagnare il pane come boscaiolo, al soldo di una delle società le quali più in alto ancora «fanno» legna da costruzione e materia prima per le cartiere.

162. Il reddito dove è? È il frumento, è il latte, è il formaggio, è il burro, è la lana, è la carne che ogni anno si trae fuori dalla terra fatta.

Il risparmio dove è? È il «fare la terra», l’abbattere alberi, farne travi ed assi e con quello fabbricare la casa e la stalla e le chiudende.

È l’allevamento di una prima vacca e poi di parecchie che utilizzino i pascoli anch’essi fatti, ripuliti da tronchi, da pietre, divisi in chiudende.

L’imposta su che cosa cade? O meglio in che cosa possiamo noi credere debba cadere l’imposta affinché Samuel Chapdelaine la ritenga equa? Sul frumento, sul latte, sul formaggio, sul burro, sulla lana, sul godimento della casa d’abitazione; sui beni diretti che la famiglia di mano in mano riesce a procurarsi in copia sempre maggiore.

L’imposta non cade sul fare «la terra», sul costruire la casa, sull’allevare vacche e vitelli; perché la terra che si sta facendo, la casa che si costruisce, le vacche che crescono sono beni strumentali; e Samuel Chapdelaine sentirebbe subito che l’imposta lo colpisce due volte; prima nella terra che si fa e poi nel frumento che esce dalla terra fatta, prima nella casa che egli ed i figli mettono su tronco a tronco e poi nel riposo di cui godranno contro le nevi ed i venti del lungo inverno.

163. E il risparmio da dove sorge? Non da un salario non pagato; non dall’avere negato al servo di campagna, il quale da undici anni, ad ogni ritorno dell’estate ritorna anch’egli sul podere, un centesimo di quel che gli è dovuto per il suo lavoro. Viene dalla fatica e dalla «miseria» che Samuel Chapdelaine ed i suoi hanno durato per tanti anni. Viene anche, sebbene egli non ne abbia neppure coscienza, dalla sua capacità di pioniere, dall’amore che egli ha per la terra nuova, mai prima abitata, dall’ambizione di «fare» della terra sempre più bella, dove finalmente i suoi figli possano mettere radici. Altri, suo vicino, non riesce a vivere nemmeno sulla terra «già fatta». Sono arrivati da poco, nei dintorni, tre francesi della Francia, tre uomini dalle mani di cittadini, che parlano un francese ricercato tanto diverso dal semplice francese del secolo XVII e che questi rudi canadesi guardano con stupore ed ammirazione, quasi fossero uomini di un’altra razza. I loro vicini ed essi medesimi sono persuasi che il fallimento li aspetta. La terra, sebbene già fatta, non è in grado di dare neppure un salario a chi non è capace di amarla, di fecondarla, di aspettare. Essa mangerà i risparmi vecchi che i nuovi venuti si sono portati dalla Francia; e li rigetterà sulle vie della città da cui sono venuti.

164. Così è dappertutto. Nello stesso modo come il risparmio non va da sé al pioniere, né egli lo trae da un salario non pagato; né consiste nel frumento, nel latte, nella lana che egli consuma o che vende per procurarsi altri oggetti di consumo; ma viene da un lavoro di fatica materiale, di previsione, di organizzazione per cui si aspetta ancora una remunerazione (frumento degli anni futuri, abitazione per l’inverno prossimo); cosi dall’imprenditore della nostra complicata società il risparmio non si fa con le spese sostenute per acquistare materie prime, per salariare impiegati ed operai, per prendere a nolo il capitale necessario all’impianto della fabbrica. Tutte queste spese l’hanno sostenute anche altri, l’ha sostenute anche il progettista che si è gittato, senza le volute qualità, nella stessa impresa e che dal mercato è costretto a pagare, al paro dell’imprenditore, l’intiero salario all’operaio, l’interesse completo al capitalista, il prezzo pieno delle materie prime al fornitore. Ma l’imprenditore ottiene un profitto e può risparmiare, laddove il progettista perde; ed i profitti ottenuti dagli imprenditori, come le perdite dei progettisti sono disposti lungo una gamma positiva e negativa che va, nei due sensi, dallo zero a limiti non precisabili.

165. Il problema che deve risolvere l’imposta è di una complicazione straordinaria:

— l’imposta deve colpire tutta la massa dei beni diretti che sono prodotti e consumati nell’anno, in proporzione alla quota, netta da spese, con cui ogni contribuente partecipa alla massa comune;

— l’imposta non deve colpire la terra che si fa, il bene strumentale che si crea nel periodo od anno considerato, e che non si è ancora trasformato in beni diretti. La tassazione in questo momento farebbe doppio con la tassazione dei beni diretti in cui i beni strumentali sono poi destinati a trasformarsi;

— l’imposta deve colpire la terra che si disfa, il bene strumentale che si consuma nel periodo od anno considerato; perché il disfacimento della terra, il consumo del bene strumentale vogliono dire la loro trasformazione in beni diretti, senza ricostituzione della frazione consumata. Se non si tassasse, come oggi non si tassa[2] il logorio della terra e dei beni strumentali, una frazione, dei beni diretti prodotti nell’anno sfuggirebbe all’imposta.

166. I soli legislatori, i quali risolsero il quesito nella maniera concretamente la più approssimata all’equità, che si voleva raggiungere, furono[3] quei «grandi economisti che, ignoti all’Europa reggevano nel secolo scorso [XVIII] le sorti della Lombardia». Essi scopersero il metodo della tassazione del reddito normale od ordinario, detto anche catastale, col quale non si cerca la verità di fatto sui guadagni e sulle perdite che hanno i singoli contribuenti; ma si indaga quale sia il reddito che, data quella terra di una certa fertilità e posizione e cultura, o data quella attrezzatura di fabbrica, l’imprenditore normale riuscirebbe ad ottenere. L’imposta colpisce quel reddito normale, che una quantità superiore ai redditi bassi ottenuti dagli imprenditori inabili ed alle perdite dei progettisti, ed inferiore ai redditi alti conseguiti dagli imprenditori abili e fortunati. Altrove[4] ho studiato quali siano le caratteristiche economiche e tecniche del metodo catastale, che lo pongono bene al disopra dei metodi «barbari» (cosi qualificati dal Cattaneo) con cui nelle «colte nazioni» si infliggono multe all’attività dei contribuenti e che oggi son di moda col titolo di imposte sul reddito vero od effettivo. Ed ivi ho anche dimostrato tutti gli inconvenienti e le difficoltà della tassazione dei sovraredditi o dei redditi effettivi individuali.

167. Qui, sviluppando un pensiero accennato in altra occasione, importa mettere in rilievo come il metodo della tassazione del reddito ordinario sia altresì un avvedimento il quale attua mirabilmente le esigenze della tassazione dei soli beni diretti, ad esclusione degli incrementi dei beni strumentali.

Che cosa è invero il reddito ordinario se non quello che è ottenuto dall’imprenditore ed in generale dal contribuente medio il quale utilizza il fattore di produzione, che è suo, secondo le attitudini di un buon padre di famiglia, secondo cioè attitudini medie, normali, non eccellenti e non deteriori? In ogni campo, il reddito normale ottenuto dal contribuente che io chiamerei rappresentativo, se non fosse più chiaro tenersi alla terminologia, oramai tradizionale, di contribuente marginale[5].

Se imprenditore, è contribuente marginale colui il quale paga ai lavoratori il salario corrente, al capitalista l’interesse di mercato, ai fornitori il prezzo corrente per le materie prime e i macchinari e guadagna per sé la remunerazione ordinaria spettante ad uomini dotati della capacità direttiva ed organizzativa richiesta normalmente per la sua funzione.

Se lavoratore, è contribuente marginale colui il quale compie il lavoro normale relativo alle sue attitudini e riceve il salario corrispondente.

Se professionista è contribuente marginale colui il quale utilizza le sue attitudini professionali in modo da ottenere altresì un reddito corrispondente ad esse.

Se proprietario è contribuente marginale colui che mantiene il suo terreno in condizioni di efficienza normale secondo le consuetudini invalse e le norme tecniche generalmente osservate nella sua zona agraria e ne ricava un reddito, variabile da terreno a terreno, ma tale da non eccedere né rimanere al di sotto di quello che ordinariamente sì ottiene in quelle condizioni.

Se capitalista, è contribuente marginale colui che non cerca impieghi particolarmente avventurosi, ma si tien pago del frutto che normalmente si può ottenere dal risparmio impiegato con la sicurezza che si confà alla prudenza propria dei buoni padri, di famiglia.

E così via. Il contribuente marginale è colui che non disfa la terra ma nemmeno la fa; è colui che non cresce la dotazione iniziale in beni strumentali, ma neppure consente che diminuisca per logorio non riparato. È il contribuente conservatore del patrimonio avito, che lo mantiene intatto, che è attento a ricostituire ma non in grado di costruire. Se tutti i contribuenti fossero marginali e ottenessero né più né meno che il reddito necessario a remunerare l’opera loro, sia di lavoro manuale come di lavoro intellettuale, sia di esecuzione come di organizzazione direttiva, sia di impiego di capitale come di utilizzazione delle loro proprietà, la società economica non muterebbe di tempo in tempo. Ogni anno un flusso costante di beni diretti sarebbe messo a disposizione degli uomini e sarebbe consumato; ogni anno una frazione della terra «fatta» ridiverrebbe selvatica, una frazione delle case costrutte crollerebbe, una frazione delle macchine, delle navi, delle strade, delle scorte esistenti si logorerebbe trasformandosi in beni diretti; ed ogni anno, formiche pazienti, gli uomini provvederebbero alla reintegrazione dei fattori distrutti, dimodoché, ferma rimanendo la dotazione di beni strumentali, costante risulterebbe il flusso dei beni diretti.

In questa immaginaria condizione di cose, lo stato preleverebbe ogni anno una frazione di beni diretti annualmente prodotti e rispetterebbe la dotazione, perpetuamente rinnovellata e conservata, dei beni strumentali.

168. La società vera non è uguale alla società immaginaria. V’ha chi sale e chi scende. Vi sono i contribuenti sub-marginali, i quali non giungono a guadagnare il salario normale, l’onorario normale, il profitto d’intrapresa ordinario, il reddito fondiario dominicale ordinario. Siccome i loro bisogni sono però, per ragioni psicologiche di imitazione, per la inconsapevolezza delle proprie loro qualità inferiori alla media del compito che essi si sono assegnato[6], cosi essi consumano più del reddito in beni diretti che realmente producono, disgregando cosi a poco a poco la dotazione di beni strumentali che avevano ereditato da un periodo precedente. E la disgregano altresì perché, non essendo in grado di usarne economicamente, il logorio che il tempo e l’uso producono non è compensato da una produzione sufficiente a fornire quote normali di manutenzione, riparazione e reintegrazione.

E vi sono i contribuenti sopra-marginali, i quali dalla stessa dotazione di beni strumentali, e possiamo per i lavoratori considerare come beni strumentali le attitudini congenite od acquisite, riescono ad ottenere più del salario normale, del profitto marginale d’intrapresa, del reddito dominicale ordinario della terra. Se, come spesso accade, i loro bisogni di consumo immediato non crescono subito solo perché crescono oltre l’ordinario i loro redditi, costoro dedicheranno il supero oltre il reddito normale, ordinario, sufficiente per il tenor loro di vita già invalso, alla produzione di nuovi beni strumentali, in aggiunta alla reintegrazione di quelli che già esistevano all’inizio di ogni tempo successivo.

169. Se i beni strumentali sono visti come opere di rimboschimento e di sistemazione della montagna, di sistemazione e di arginatura del fiume, di costruzione di canali adacquatori nelle loro varie ramificazioni, dalle maggiori alle più minute, di livellazione di terreni, noi diremo che in una società di uomini marginali, tutte cotali opere vengono mantenute in perfetto stato, ma non vengono migliorate. Lo stesso volume d’acqua viene convogliato, gli stessi campi vengono adacquati, la stessa massa di beni diretti viene prodotta di anno in anno.

In una società progressiva, di uomini sub-marginali, la montagna trascurata, gli argini non sono curati, i fossi adacquatori a poco a poco si colmano. La degradazione è insensibile. Gli uomini ottengono in ogni anno un frutto dalla terra quasi uguale a quello dell’anno precedente; quasi, ma non proprio lo stesso. Dopo dieci, dopo vent’anni la differenza è sensibile. Dopo cent’anni, dove erano fiorenti campagne, ricche di uomini, domina la malaria e pascola il bufalo.

In una società progressiva, di uomini sovra-marginali, la montagna è sempre è meglio curata, il rimboschimento viene spinto alle massime altitudini, la terra viene trattenuta con opere di difesa, con sbarramenti, con laghi artificiali, gli argini sono resi infrangibili, il deflusso delle acque viene regolato e portato a beneficare una superficie agraria sempre più vasta. I frutti della terra crescono di anno in anno e mantengono copia crescente di popoli sempre più rigogliosi.

170. Quale condotta deve tenere l’imposta dinnanzi a questi tre tipi, i quali non sono in verità di società stazionarie; regressive o progressive, ma tipi di uomini conservatori, dilapidatori e costruttori nella stessa società; tipi dal cui alterno prevalere dipende lo stato di stazionarietà, di decadenza o di progresso della società intiera?

I grandi economisti, che si chiamarono Don Vincenzo De Miro, Pompeo Neri, Gian Rinaldo Carli, Cesare Beccaria, Pietro Verri diedero al quesito questa memoranda risposta: «comportati, o stato, nel distribuire l’imposta come se tutti gli uomini del tuo paese appartenessero al tipo degli uomini marginali o normali. Ignora l’esistenza degli uomini sub e sopra-marginali»[7].

171. Perché, invero, lo stato dovrebbe preoccuparsi delle esigenze degli uomini che non sanno utilizzare normalmente i beni strumentali di cui sono forniti o che li utilizzano eccezionalmente bene? Non ha reso egli parimenti i suoi servigi a tutti? Il suo esercito non ha forse difeso tutti ugualmente, il suo magistrato e il suo funzionario non hanno forse tutelato di tutti egualmente i beni e la integrità fisica? Non ha fornito a tutti uguali opportunità di istruirsi e di elevarsi? Perché dovrebbe lo stato soffrire le conseguenze della cattiva condotta altrui o partecipare ai vantaggi di una condotta particolarmente buona, di cui il merito non risale fino a lui? Perché dovrebbe lasciare intristire i suoi servigi solo perché taluno dei contribuenti non è in grado o non ha voglia di utilizzare i suoi mezzi di produzione? Perché dovrebbe magnificare ed ingrossare i suoi servigi fin dal momento in cui il contribuente pianta l’albero sulla montagna e non aspettare, come fanno gli uomini del suo paese, ad estendere i suoi compiti, a spendere di più, quando, per opera del rimboschimento montano, la terra del piano abbia cominciato a fruttare maggiormente?

Che se lo stato vuole, come talvolta bene deve volere, essere il primo degli imprenditori sopra-marginali del suo paese; se vuole trasformare l’indirizzo della produzione in guisa da produrre, per il momento, minor copia comparativa di beni diretti pronti all’immediato consumo e maggior copia di beni strumentali; se cioè vuole prelevare imposta per costruire, esso, quelle opere di rimboschimento, di arginatura, di redenzione delle terre sommerse e paludose; se perciò intende ridurre i redditi consumabili presenti per crescere i redditi consumabili futuri; perché mai dovrebbe ripartire queste stesse straordinarie imposte in guisa da lasciare immuni i contribuenti sub-marginali, i dilapidatori delle dotazioni già esistenti di quei beni marginali che egli vuol crescere e da tassare di più coloro che, per la loro indole sopra-marginale, spontaneamente collaborarono già all’impresa sua di incremento della attrezzatura economica del paese? I frutti dell’opera statale non andranno forse a beneficio potenzialmente, di tutti i produttori, anche dei sub-marginali? Se questi non ne sapranno trarre loro pro, perché i contribuenti sopra-marginali, debbono soffrire il danno della loro incapacità e della loro ignavia?

172. A questo punto siamo in grado di modificare la norma esposta dal De Viti la quale dice (cfr. sopra § 38):

«tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito, debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito»;

in quest’altra:

«tutti, consumando servizi pubblici generali in proporzione al proprio reddito normale — al reddito che il produttore o lavoratore normale avrebbe avuto ordinariamente in rapporto ai mezzi di produzione posseduti — debbono pagare imposta in proporzione a quel reddito normale».

173. La norma posta dal De Viti è un tentativo di risposta al quesito: quale è il consumo individuale dei servigi pubblici generali? Come si osservò sopra, ogni fattore di produzione riceve una remunerazione corrispondente al valore del suo apporto. Possono verificarsi attriti, errori, danni sociali a causa delle maniere con cui il mercato fissa la remunerazione di ogni fattore; ed una branca importantissima della scienza e dell’arte economica è quella che studia quegli attriti, errori e danni e ne indica i rimedi. La regola normale è: la remunerazione del lavoro è in funzione del valore del lavoro, non del valore di un altro fattore della produzione, del capitale o della terra o del genio di intrapresa; la remunerazione dell’imprenditore è in funzione del valore del suo apporto e non del valore di qualsiasi altro apporto, ad esempio del lavoro o della terra. Il solo stato vede determinata la sua remunerazione in funzione non del valore del suo apporto alla produzione comune, ma in funzione del reddito dei contribuenti, ossia della remunerazione di ogni altro fattore della produzione.

È questa, in un terreno oscuro e destinato a rimanere oscuro per sempre, la migliore approssimazione esistente alla verità ignota. Ma sia ben chiaro che è una approssimazione imperfettissima. Perché il valore dell’apporto fornito dallo stato dovrebbe essere proporzionale a volta a volta al valore dell’apporto degli altri fattori della produzione, del capitalista, del lavoratore, dell’imprenditore? Nessuno degli apporti di questi altri fattori è misurato in questa maniera bislacca. Il salario dell’operaio non è una proporzione costante del profitto dell’imprenditore, né questo di quello. Le proporzioni variano da caso a caso e sono determinate dal principio di dare a ciascuno fattore quel che esso si merita, qualunque siano le proporzioni rispettive, che dall’attribuzione derivano.

174. A me pare che l’aggiunta dell’aggettivo «normale» alla proposizione posta dal De Viti faccia compiere un progresso ai criteri di valutazione dell‘apporto statale. Senza quell’aggiunta, la norma lascierebbe all’arbitrio degli altri fattori della produzione di pagare o non pagare lo stato a seconda del «proprio» successo nel collaborare all’opera comune. L’incapace, il presuntuoso che perde non pagherebbe nulla; il capace e laborioso pagherebbe assai. Lo stato sarebbe una specie di parassita che si adatterebbe a riconoscere che il suo apporto non vale nulla se non val nulla quello degli altri collaboratori e acquista valore solo se gli altri gliene attribuiscono. Questa è una posizione teoricamente insostenibile. Ogni fattore vale per quel che vale, non per il valore che gli concedono altri in rapporto alla loro propria potenza produttiva. L’operaio non pensa affatto che il suo lavoro non valga nulla, solo perché il suo imprenditore sciaguratamente fallisce. La norma per cui gli operai sono pagati, ad uguale abilità, ugualmente da imprenditori diversamente fortunati, è molla potente di progresso economico e contribuisce alla eliminazione degli imprenditori disadatti ed alla vittoria dei migliori.

L’aggiunta dell’aggettivo «normale» ha per iscopo di mettere lo stato nella stessa situazione di tutti gli altri fattori della produzione. Sia pure che lo stato sia pagato, non potendosi scoprire norma migliore, in funzione del valore degli altri fattori di produzione e non del valore proprio; ma sia pagato da tutti in relazione al valore che ogni singolo fattore normalmente ha, astrazione fatta dal successo od insuccesso individuale. I servigi pubblici sono resi a tutti, e non è colpa dello stato se gli altri fattori non sanno utilizzare le forze produttive di cui essi dispongono[8].

175. Né vi è alcuna maggiore difficoltà nel calcolare il reddito «normale» sociale e nel distribuirlo, senza salti o doppi, fra i componenti la società, di quel che vi sia nel calcolare e nel ripartire il reddito «effettivo», ossia la somma delle perdite, dei redditi normali e di quelli eccezionali in effetto di momento in momento da ogni singolo contribuente ottenuti. Anzi questa seconda operazione è un impossibile pratico, fonte di sperequazioni salti e doppi senza fine[9]; laddove la prima è operazione comunemente compiuta dai periti stimatori per scopi svariati e di fatto preferita dai funzionari delle imposte per la ripartizione dei redditi i quali non risultano da documenti certi.

176. Il comandamento di ripartire l’imposta in proporzione al reddito «normale» non è identico alla norma che logicamente deriva da tutta la dimostrazione di questa e della precedente mia memoria: «non tieni conto del risparmio quando esso si compie e tassalo quando esso si ritrasforma in consumo»[10]. Intendo insistere su questa dichiarazione di non identità, poiché, in tutta questa controversia, è troppo frequente sì elevino a dignità di obbiezioni, scoverte dai critici, le riserve messe avanti dall’espositore della tesi principale. Osservai ripetutamente che altra cosa è la determinazione di un principio, altra la ricerca intorno ai limiti della sua applicazione concreta. Il principio della esclusione del risparmio dalla materia imponibile non può applicarsi integralmente, perché e finché gli uomini sono quello che sono, ossia invincibilmente tratti, in tutti i tempi e in tutti i paesi, a non assolvere, appena scoprano la via di sfuggirvi, il debito d’imposta. Imprudente sarebbe quel legislatore il quale facesse astrazione dall’indole umana o presumesse rimediarvi colla sola minaccia di pene anche fortissime. Il rimedio migliore è la sapienza sua nel legiferare; e sovratutto nell’escogitare espedienti atti ad attuare il principio senza pericolo per il tesoro e senza eccitare l’invidia di coloro che non sanno risparmiare o risparmiare meno ai altri.

177. Il principio della tassazione del reddito normale è qualcosa di più di un espediente. Al pari della esclusione dalla materia imponibile dell’incremento legnoso dei boschi prima del taglio dell’albero maturo, dell’incremento di valore delle aree fabbricabili prima della realizzazione dei fitti della casa costruita, dei premi di assicurazione sulla vita, al pari della esenzione temporanea del reddito delle case nuove e delle nuove imprese industriali, la tassazione del reddito normale pare una traduzione concreta del principio della esclusione del risparmio dal novero delle cose imponibili, una traduzione meglio approssimata alle esigenze a cui una formula legislativa deve soddisfare per tener conto dei fattori morali, sentimentali, politici dei quali il legislatore deve preoccuparsi. Coloro che respingerebbero con disdegno la cosidetta esenzione al risparmio del ricco, accettano e plaudono alle esenzioni a chi rimboschisce i monti, a chi, fabbricando nuove case, da ricovero alle moltitudini, a chi, migliorando terreni o promuovendo industrie, dà lavoro agli operai. Il disdegno e la lode sono parimenti privi di significazione teorica. Il legislatore, tuttavia, che dei sentimenti umani deve preoccuparsi grandemente, opera bene a fingere similmente disdegno ed a far cosa che gli procacci lode. Cosi facendo, scema gli attriti che si oppongono al suo saggio operare.

178. La tassazione del reddito normale è la approssimazione più ampia e probabilmente più perfetta che si conosca al principio della esclusione del risparmio dalla materia imponibile. Come fu osservato dianzi, il contribuente sub-normale, il quale perde o guadagna di meno di quello che è comunemente considerato il compenso normale per il lavoro o per l’impiego di capitale da lui compiuti non è certamente quasi mai in grado di risparmiare, anzi è addetto di solito al consumo del risparmio da lui o da altri già accumulato. L’imposta sul reddito normale, tassandolo anche sul reddito che egli non produce, obbedisce, in quanto è possibile, alla norma teorica di tassare il risparmio quando esso viene consumato, i beni strumentali quando si logorano, senza essere ricostruiti.

La zona grigia dei contribuenti marginali, i quali ottengono per l’appunto il reddito normale o poco se ne discostano, comprende coloro che guadagnano e spendono in conformità al tenor di vita corrente, che, non avendo, come produttori, gli ardimenti propri del pioniere e del costruttore non sanno discostarsi, come consumatori, dai costumi del tempo in cui vivono. L’imposta li colpisce in pieno. Non essendoci in media un margine pratico di risparmio, la regola teorica è nella maggior parte dei casi osservata.

179. I contribuenti sopra-normali sono i soli i quali abbiano un margine effettivo di risparmio. Risparmia il pioniere, il quale «fa terra» nelle regioni deserte del Canadà, in aggiunta al lavoro normale di produzione di beni diretti; risparmia il contadino, il quale in Sicilia e nel Monferrato rompe la terra dura e vi pianta la vigna; risparmia l‘operaio che lavora a cottimo e guadagna i premi di produzione concessi ai più diligenti e la cui moglie tiene una piccola bottega od assume lavori in casa per le ore libere; risparmia il professionista, il quale cura con particolare amore la clientela e se la affeziona e la allarga; risparmia l’imprenditore il quale sa organizzar bene i fattori della produzione e pagando gli stessi salari e gli stessi prezzi dei concorrenti, guadagna dove altri perde. Dove esiste un reddito differenziale, sopra-normale, ivi è la possibilità del risparmio. Possibilità non equivale a risparmio in effetto; ma è una marcata approssimazione ad esso. Le generazioni, le quali spendono tutto il reddito prodotto, non sono le generazioni che costruiscono beni strumentali. Coloro che fanno la terra, che creano l’impresa non hanno tempo, voglia, attitudini a spendere nulla più del reddito normale. Verranno poi le seconde generazioni dei conservatori e le terze generazioni dei dilapidatori. Per ora, la generazione che costruisce, che aumenta la dotazione di beni strumentali, spende forse meno del normale e al più poco al di sopra del normale. Le eccezioni sono proprie dei tempi di rivoluzioni monetarie ed economiche, dei nuovi ricchi a cui la ricchezza è venuta per un colpo di fortuna. Normalmente, per coloro che hanno creato la agiatezza o la ricchezza con la tenacia e con il lavoro e con la capacità, l’eccesso sul reddito normale si identifica approssimativamente col risparmio. Cresce la spesa, ma non subito, prudentemente, dopo che la ricchezza si è consolidata, quando si cominciano a godere i frutti delle rinunce passate. La imposta, la quale colpisce il reddito normale; è una ottima approssimazione all’imposta ideale la quale esenta il risparmio.

180. Essa è conforme, finalmente, alle esigenze della vita dello stato, le quali, se lo stato è vivo, sono crescenti. Col tassare il reddito ordinario e coll’esentare implicitamente il risparmio, lo stato promuove, colla ricchezza dei privati, la propria grandezza.

«Il lungo intervallo di tempo tra una lustrazione e l’altra, — scrivevo io in La terra e l’imposta a proposito della rada ripetizione delle revisioni catastali, — è cagione di un benefico effetto. L’agricoltore, stimolato dalla esenzione dei sopraredditi oltre l’ordinario reddito catastale per i rimanenti anni a correre del trentennio, migliora la tecnica agricola, cresce 1a produttività dei campi. Gli sperimenti di novità, prima isolati, si moltiplicano. In capo al trentennio la terra è trasformata; e sono diversi i metodi culturali, i prodotti, gli uomini. Quel che era prodotto “ordinario” al momento della lustrazione precedente è divenuto l’infimo ricavo degli agricoltori più ignoranti, o meno capaci. L’agricoltore medio, buon padre di famiglia si trova spinto ben più in su nella scala della produttività ed il prodotto “ordinario” è ora uguale a quello che trent’anni prima era il sogno degli sperimentatori più ardimentosi. Ecco d’un tratto la finanza raccogliere il frutto della sapiente sua prudenza nel perseguire i redditi eccezionali. Ecco dimostrato che l’adeguare l’imposta ai frutti effettivi, variabili da uomo a uomo, invece che ai frutti normali, della terra non è solo, come esclamava Carlo Cattaneo, un barbaro errore economico, ma è anche un gravissimo errore finanziario» (La terra e l’imposta, p. 139).

Non sempre è tecnicamente possibile attuare il principio teorico con la mirabile approssimazione che si riscontra nella tassazione catastale del reddito normale della terra. Ma sempre, qualunque sia l’espediente osservato, se esso avrà per effetto di attuare la norma di tassare tutto e soltanto il flusso dei beni diretti prodotti, non si sarà creato alcun privilegio né concessa alcuna immunità, né commesso alcun errore di doppia tassazione. Non si raddoppia la imposta sui dilapidatori, quando si chiamano a pagare sul patrimonio distrutto. Pagano, come devono, sui beni che essi convertono da strumentali in godimenti immediati. Non si concede alcuna immunità ai costruttori quando non son tassati sul risparmio. Se fossero tassati, pagherebbero due volte, prima sui beni strumentali e poi sui beni diretti in che essi si trasformano. L’osservanza della norma che vuole tassati i soli beni diretti è la sola la quale consenta il progresso economico e abolisca gli attriti tributari che lo rallentano.

 


[1] Louis Hémon, Maria Chapdelaine, récit du Canada Francais. Le livre de demain, Armande Fayard, Editeur, Paris. Quel che l’ Hémon lasciò di inedito pare siano soltanto appunti.

[2] Come fu spiegato a suo luogo (§§ 64 sgg.), se Tizio possiede al 1° gennaio 100 unità di beni strumentali e queste si riducono, per logorio, a 90 e non sono ricostituire, il reddito tassabile non è, secondo le vigenti legislazioni, uguale alla massa di beni diretti 20 prodotta nell’anno; ma a questa meno l’impoverimento cagionato dal logorio, non ricostituito, dei beni strumentali. Il logorio non ricostituito deve invece essere tassato, certo non direttamente ma col non dedurne l’ammontare dalla massa tassata dei beni diretti.

[3] Sono parole di Carlo Cattaneo, citate in La terra e l’imposta, p. 137.

[4] Nel mio scritto La terra e l’imposta, Ibid, in Lezioni, 1926, pp. 203 sgg. e di nuovo Ancora le sperequazioni e le evasioni nell’imposta di ricchezza mobile (in «La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1925, pp. 13-21) ho studiato il fenomeno teorico e pratico del sistema della tassazione del reddito normale o catastale e le tendenze di tatto alla sua estensione anche ai redditi non fondiari.

[5] Nelle pagine che seguono e in conformità alla descrizione fatta qui di seguito nel resto, si considerano sinonimi e sono usati promiscuamente gli aggettivi normale e marginale, sub-normale e sub-marginale, sopra-normale e sopra-marginale.

[6] Spesso chi è imprenditore sub-marginale sarebbe ottimo impiegato. Ma la stessa cecità che lo ha persuaso a ritenersi dotato di qualità superiori o diverse da quelle sue gli fa mantenere altresì un tenor di vita superiore a quello dell’impiegato e proprio del ceto degli imprenditori e lo conduce alla rovina.

[7] In La terra e l’imposta a carte 134-37 ho riprodotto i classici brani di Gian Rinaldo Carli e di Carlo Cattaneo dai quali si ricava la norma dichiarata nel testo.

[8] Così si elimina l’obbiezione che il Ricci (in Reddito e imposta, 66) tra dall’esempio della povera miliardaria Hetty Green. Se l’imposta esentasse il risparmio fino al momento del consumo ed «Hetty Green investisse i suoi averi in speculazioni sbagliate, lo stato perderebbe milioni. Mentre, se la Green avesse anno per anno pagato le imposte sul risparmio nuovo, lo stato avrebbe riscosso parecchie somme con le quali avrebbe potuto pagar magistrati, soldati e simili». L’obbiezione in realtà non è mossa contro il caso particolare dell’imposta che esenti il risparmio, ma contro il caso generale dell’imposta la quale tassa il contribuente sul suo reddito «effettivo», se e in quanto egli lo ottenga. Perché, come è detto nel testo, lo stato deve essere pagato, per servigi che rende sempre, a coloro che guadagnano ed a coloro che perdono, solo nel caso che il contribuente guadagni? Qui sta il vero contenuto, validissimo, dell’obbiezione; non nella accidentalità che chi perde sia un fervente risparmiatore. Questo è caso rarissimo, laddove è frequente che perdano coloro che non sanno conservare il risparmiato da altri. Perché preoccuparsi tanto di un danno immaginario per lo stato, quando si trascura quello assai più frequente e grave?
L’altra obbiezione tratta dal caso di Hetty Green si riferisce al caso limite in cui i risparmiatori risparmino sempre e non consumino mai. Lo stato rimarrebbe senza mezzi. Segue, nello scritto del Ricci, un brillantissimo quadro della società limite di accumulatori, tutti intenti a risparmiare, viventi una vita meschina senza godimenti spirituali, senza lusso. «Una comunità di gente sordida, dedita solo alla moltiplicazione della specie ed all’accrescimento del capitale sarà dunque additata come la società ideale? » (Ibid, 71).
Tutta la presente memoria e quelle precedenti essendo indirizzate a provare che la cosidetta esenzione del risparmio non è esenzione, ma esclusione di un doppio d’imposta, e che la tassazione del reddito prodotto o consumato conduce ad una situazione d’equilibrio, perché il contribuente non si sente indotto dall’imposta a preferire il consumo al risparmio e viceversa, cade l’obbiezione del limite infelice a cui sarebbe spinta la società per una causa inesistente.
Se è vero, come mi lusingo di avere chiarito almeno con un principio di prova, che l’imposta sul reddito guadagnato conduce ad una condizione di squilibrio e fa preferire, essa sì, il consumo al risparmio, vogliamo raffigurarci, a nostra volta, il limite estremo a cui tenderebbe la società, se quell’imposta agisse con tutta la sua forza e non fosse frenata dagli istituti tributari apparentemente contrastanti con il principio dell’imposta sul reddito guadagnato (imposte sui consumi, esenzioni ai redditi nuovi, alle case nuove; ai rimboschimenti, ecc. ecc.) che il legislatore è trascinato, dall’evidenza del buon senso e dalla previsione delle malefatte della sua teoria, a porre in essere? Se l’imposta scorretta riuscisse, con la tassazione differenziale, a frenare l‘accumulazione del risparmio, il tenor di vita rialzerebbe per un istante, le raffinatezze dell’esistenza ed i godimenti spirituali si intensificherebbero fino a quando l‘umanità potesse godere del fondo di beni strumentali e durevoli accumulati in passato. Ma il crollo sarebbe più duro, la decadenza più dolorosa in un secondo momento; quando per la mancata reintegrazione del capitale esistente e il venir meno del suo incremento, anche il flusso dei beni diretti sminuisse di volume. E sarebbe decadenza irremediabile; poiché appare assai più difficile ad un popolo decaduto di risollevarsi che ad un avaro di accorgersi dell’inutilità di accumulare senza tregua, senza assaporare mai i frutti dolcissimi della ricchezza posseduta. Esempi di società di questo secondo tipo sono rarissimi, quasi ignoti; laddove sono, purtroppo, frequenti i casi di società decadenti per eccessivi consumi e scarso spirito di rinuncia. In quale dei due tipi, lo stato è più forte?

[9] Cfr. per la dimostrazione di questo asserto i miei scritti sopra citati al § 143.

[10] Od ognuna delle norme equivalenti, in cui essa si può convertire, secondo le varie esigenze della realtà a cui essa si deve applicare.

Charles Rist

Charles Rist

«Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei», Appendice. Necrologi di soci defunti nel decennio dicembre 1945-dicembre 1955, 1956, pp. 32-35

Scuola e libertà

Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1956, pp. 13-58

Non è mio proposito discutere né l’ordinamento scolastico proprio di un determinato sistema legislativo; né l’interpretazione delle norme stabilite nelle costituzioni e nelle leggi vigenti in questo o quello stato. Intendo invece indagare quale ordinamento rispetti meglio il principio della libertà.

Il principio di libertà non coincide con i principî accolti tradizionalmente dai gruppi o partiti che sono definiti in un dato paese come liberali; e, a cagion d’esempio, non coincide necessariamente con i principi che nel tempo del risorgimento diventarono norma giuridica nella legge Casati ed in quelle che su di essa, in prosieguo di tempo, si innestarono. Nella lotta, che durante il risorgimento ed il post-risorgimento si combatté dallo stato contro la chiesa, dal regno unitario contro i fautori degli antichi regimi, parve e forse era informata al principio di libertà la legge Casati e quelle che poi la seguitarono e variamente la attuarono.

Una discussione la quale assumesse a punto di partenza l’ordinamento che dal 1860 al 1922 era stato elaborato con fatica meritoria ed era comunemente reputato liberale, potrebbe essere feconda; ma non è quella che qui si vuole compiere. Volendo fare astrazione dai connotati che a poco a poco furono accolti nella legislazione scolastica italiana nel tempo detto liberale, non dò del principio di libertà alcuna definizione, che sarebbe, come accade di ogni definizione, assai pericolosa. Quel che sia, nella soggetta materia, il principio di libertà, dovrà risultare dal contesto medesimo della discussione.

A limitare il campo di questa, giova anche dir subito che essa non toccherà dell’insegnamento nelle scuole elementari, sì di quello nelle scuole medie ed universitarie. Se anche opinabile, la esclusione si spiega per due ordini di considerazioni. In primo luogo il costo della istruzione elementare, divenuta in ogni paese civile gratuita, universale ed obbligatoria, ha fatto sì che soltanto lo stato, intendendo per “stato” ogni maniera di ente pubblico territoriale od istituzionale fornito del potere di imposta, può assumersi l’onere di farvi fronte. Di fatto, senza contrasti notabili, è riconosciuta allo stato la prerogativa di fornire l’istruzione elementare. La gratuità dell’insegnamento elementare ha costretto la scuola privata a vivere al margine di quella statale. Essendo l’istruzione elementare gratuita, la scuola privata vive se soddisfi a particolari esigenze familiari, alle quali lo stato appaia disadatto. Del resto – ed è questa la seconda considerazione – né lo stato oppone in Italia obbiezioni grosse alla concorrenza privata, detta tra noi scuola materna, né la scuola privata troppo si lamenta del privilegio oneroso dello stato, anche perché l’insegnamento elementare offre scarso campo alle battaglie di idee che sono vive nelle scuole medie ed universitarie. Sebbene, anche nelle scuole elementari, si tenda ad allargare il campo dell’insegnamento ed alle antiche materie del leggere e scrivere e del far le quattro operazioni si siano aggiunti il disegno, il canto, la ginnastica e più in là, alcune nozioni di storia, di geografia, di diritti e doveri e simiglianti, trattasi pur sempre di nozioni elementari, che non mutano in misura notabile, solo perché si frequenti la scuola privata invece di quella pubblica. Le ragioni del preferire l’una all’altra non muovono, salvo in alcune contrade, ad esempio della Francia o del Belgio, dove sono vive le lotte religiose, da contrasti ideali, ma da circostanze pratiche: la vicinanza alla casa, la assistenza post-scolastica, il numero ristretto degli scolari in ogni classe, le amicizie o relazioni tra le famiglie degli scolari e simiglianti.

Il contrasto tra la scuola statale e quella privata nasce alla fine delle scuole elementari, che in Italia sono, per ora, quelle di cui la frequenza è obbligatoria. A questo punto le vie partono e si possono distinguere due tipi distinti sì, ma non tanto che si possa affermare che in alcun paese civile si attui perfettamente il monopolio statale ovvero esista piena libertà di insegnamento e di concorrenza da parte di istituti pubblici e privati. Si può affermare solo che l’un tipo informa in modo prevalente l’ordinamento scolastico in un gruppo di stati, laddove il secondo tipo prevale in un altro gruppo di stati. I due ordinamenti possono essere provvisoriamente denominati franco-italiano ed anglosassone, senza che si voglia con ciò riferirsi ai concreti ordinamenti esistenti di fatto nei due gruppi di paesi. Il riferimento sarebbe improprio, perché l’ordinamento italiano odierno non è lo stesso di quello francese; né si può affermare che esistano “ordinamenti” nei varii paesi anglosassoni, simiglianti a quelli che si possono costruire per deduzione dalle leggi vigenti nei due paesi latini. La denominazione ha soltanto per iscopo di riassumere sinteticamente alcuni essenziali connotati dei due sistemi, scelti non perché ognuno di essi sia in se stesso univoco, ma soltanto perché le caratteristiche le quali distinguono l’un tipo dall’altro, sono più notabili delle particolari variazioni che dentro ognuno di essi si riscontrano.

Tra i due ordinamenti assunti come tipici, sono osservabili altri sistemi scolastici: quello svizzero, nel quale la varietà è data dalla esistenza dei cantoni, gelosi della loro autonomia scolastica, sicché la confederazione non ha osato sinora andar oltre alla istituzione del Politecnico di Zurigo, università e scuole medie essendo riservate ai cantoni ed ai comuni; o quello germanico, dove la persistenza di recenti tradizioni di stati sovrani è cagione di spiccate originalità locali. Le recenti esperienze nei paesi comunisti sono ancora troppo scarsamente conosciute perché si possa andare al di là di una generica affermazione di rassomiglianza, con tratti più decisi, al tipo franco-italiano. Il quale, per brevità e per doveroso riconoscimento di paternità, meglio si dovrebbe dire napoleonico; ché la nascita del nostro ordinamento bene si può fare risalire a Napoleone, anche se in questo come in tanti altri campi, egli abbia sovratutto dato ordine sistematico ai principi legislativi che già l’antica monarchia aveva a poco a poco affermato e la rivoluzione aveva logicamente perfezionato.

Quale la logica dell’ordinamento napoleonico? Allo stato spetta il diritto e il dovere di provvedere all’insegnamento. Spetta ad esso e ad esso soltanto perché lo stato è il rappresentante della volontà generale. «Il principio di tutta la sovranità, – sta scritto nell’articolo primo della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino premessa alla costituzione del 14 settembre 1791 – risiede essenzialmente nella nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare alcuna specie d’autorità la quale non emani espressamente dalla nazione». Soltanto lo stato, emanazione della volontà generale della nazione, può insegnare o delegare ad altri il compito dell’insegnamento. Soltanto lo stato può quindi istituire o riconoscere istituti di insegnamento. Ginnasi, licei, scuole medie in generale, università, istituti universitari, accademie sono creati o riconosciuti dallo stato. Soltanto un’autorità pubblica può garantire la bastevolezza e la imparzialità dell’insegnamento. Soltanto lo stato può assicurare, scegliendoli per pubblico concorso, insegnanti adatti a formare la mente ed il carattere dei giovani. Soltanto insegnanti capaci danno garanzia che i giovani siano, dopo esame rigoroso ed imparziale, promossi meritamente dall’uno all’altro grado di scuola; ed infine licenziati con dichiarazione di conseguita maturità. Soltanto lo stato può dare ai diplomi ed alle lauree concesse dagli stabilimenti di istruzione pubblica valore legale, sicché solo ai diplomati e laureati si riconosca la facoltà di esercitare arti o professioni o coprire uffici pubblici. Discende dalle premesse ora poste il diritto e il dovere dello stato di determinare i programmi di insegnamento nei diversi ordini della scuola media acciocché sia certo che il giovane licenziato da una di esse possegga le nozioni proprie di essa, qualunque sia l’istituto il quale abbia rilasciato il diploma. Non può, ad esempio, la maturità liceale avere un significato diverso da provincia a provincia, da liceo a liceo. Uguale il programma, identici i criteri per la valutazione del profitto, uguali le prove, scritte ed orali, alle quali i giovani sono sottoposti per il conseguimento del diploma. Se questo deve dare diritto alla iscrizione alle scuole di ordine superiore, secondario od universitario; se i diplomi di licenza, maturità e laurea debbono dare uguali diritti di ammissione ai pubblici concorsi, uguale deve essere il tirocinio fornito, uguali le prove subite, uguale la materia di ogni disciplina, sulle quali la prova è stata superata.

Grazie agli scopi prevalenti nell’indagine scientifica ed alla maggiore maturità mentale dei giovani, i programmi di studio possono avere nelle scuole universitarie un contenuto più sobrio di quello delle scuole medie. Laddove qui si esige che i programmi di insegnamento nelle diverse discipline, dalla lingua e letteratura italiana al latino, al greco, alla matematica e a tutte le altre giudicate utili o necessarie alla formazione del giovane, siano uniformi per tutto lo stato ed acconciamente graduati da uno scalino all’altro del tirocinio scolastico, cosicché il giovane possa spostarsi da una scuola ad un’altra, dalla scuola di una città alla scuola di un’altra città senza essere posto in condizione deteriore o privilegiata rispetto ai suoi compagni di studio; nell’ordine universitario si impone libertà più ampia. La scuola universitaria forma lo studioso, ma nel tempo stesso ricrea e perfeziona la scienza. L’apprendimento dei principi noti non può scindersi dalla ricerca e dalla scoperta di nuove verità. Quindi i programmi si riducono all’enunciazione del titolo della disciplina: diritto romano, diritto civile, economia politica, fisiologia umana, clinica medica ecc. All’insegnante spetta l’ufficio di dar contenuto al titolo della disciplina, contenuto variabile a seconda delle sue attitudini scientifiche e didattiche. Ma lo stato deve stabilire un elenco di discipline, alcune delle quali obbligatorie ed altre facoltative, sino ad un numero minimo su cui si debbono subire esami singoli, prima della prova finale per il diploma di laurea. Come può immaginarsi altrimenti che lo stato certifichi solennemente che il giovane meritò di essere proclamato dottore in giurisprudenza quando gli studi compiuti e gli esami lodevolmente superati certificassero che egli studiò soltanto scienze economiche e statistiche? L’esigenza del valore legale attribuito ai diplomi impone che il giovane superi un minimo di prove atte a dimostrare che egli possiede quella preparazione della quale il diploma rende testimonianza. Perciò nell’ordinamento scolastico di tipo napoleonico, lo stato impone, per ogni specie di diploma, la qualità ed il numero delle discipline ed altresì affida alle autorità universitarie il compito di stabilire l’ordine delle discipline nei successivi anni di corso. In parte l’ordine degli studi è facoltativo, cosicché lo studente ha facoltà di variarlo a seconda delle sue attitudini mentali e delle sue preferenze, anticipando o posticipando taluna disciplina da un anno all’altro o concentrandola, ad esempio, nei primi anni per avere maggior tempo disponibile da ultimo per la preparazione della dissertazione di laurea. Alla facoltà di variazione dell’ordine degli studi consigliato dalle facoltà sono posti due limiti, l’uno di convenienza e l’altro di obbligo. Se lo studente, in primo luogo, desidera ottenere esenzioni o riduzioni di tasse, egli non solo deve conseguire una media minima di voti negli esami speciali, ma deve conseguirla nelle discipline consigliate dalla facoltà. È obbligatoria invece la iscrizione alle discipline preparatorie (istituzioni di diritto civile) in confronto a quelle fondamentali (diritto civile). Il che è logico, non potendosi ammettere che l’ordine degli studi sia variato in modo disordinato, per motivi contingenti e forse non confessabili, come la relativa indulgenza degli insegnanti.

Programmi e ordini di studio non sono immutabili. Mutano le esigenze degli studi; nascono nuove discipline; varia l’importanza relativa di esse; e perciò fa d’uopo che mutino programmi e consigli. Non vi ripugna il tipo napoleonico; e soltanto richiede che la mutazione sia sanzionata dallo stato. Non dall’autorità politica (ministro); ma dal ministro, sentito il parere di Consigli superiori o di consigli di facoltà, i quali riconoscano la necessità od opportunità di far luogo all’insegnamento di nuove discipline e, forse, alla soppressione di insegnamenti ritenuti superati. La variazione non può attuarsi capricciosamente per deliberazione del rettore o del preside, sia pure confortato dal parere del consiglio di facoltà o della scuola; facendo a ciò ostacolo la uniformità imposta dal valore legale dei diplomi rilasciati colla sanzione dello stato. La uniformità non vieta le diversità consigliate dalla particolare natura del luogo nel quale la scuola adempie al suo ufficio; sicché si possano istituire scuole agricole, industriali, commerciali, artistiche adatte al genio particolare delle regioni e località diverse; e non tutte le scuole agricole siano uguali, ma le une specializzate per la viticultura e l’enologia e le altre forestali, o risicole o agrumiere e così dicasi per l’industria. Ma sempre ogni tipo di scuola deve ottemperare nel suo ordinamento a regole fissate dalla pubblica autorità, sicché il diploma o la licenza meritino il valore legale loro proprio.

Né l’ordinamento napoleonico esclude la concorrenza della scuola privata. Licei, ginnasi, istituti tecnici ed industriali, università possono essere istituiti per iniziative di privati o di associazioni od enti non statali. Ed ai diplomi conseguiti negli istituti privati può essere attribuito valore legale uguale in tutto a quello proprio dei diplomi rilasciati dagli stabilimenti statali. La parità di trattamento suppone tuttavia alcune ovvie condizioni. Deve in primo luogo l’istituto privato ricevere una consacrazione od autorizzazione, la quale assicuri che l’istituto è in grado, per sua attrezzatura edilizia, la adeguata suppellettile scolastica, il possesso di biblioteche e di mezzi finanziari, di adempiere agli scopi suoi; esigenza non peculiare agli istituti di educazione ed istruzione, ma generale per tutti gli enti morali forniti di una qualche specie di personalità giuridica. Devono in secondo luogo i presidi o direttori od insegnanti negli istituti privati essere provveduti di titoli di insegnamento uguali a quelli richiesti per i concorsi alle cattedre statali; cosicché l’autorità pubblica sia persuasa della idoneità morale e scientifica di coloro che sono preposti all’ufficio di insegnanti. Ed infine, il diploma richiesto per il passaggio da un grado all’altro della carriera scolastica – per la conclusione di un dato corso di studi – può essere conseguito solo in seguito ad un esame detto «di stato», sostenuto dai privatisti con parità di trattamento rispetto ai giovani i quali hanno frequentato gli istituti pubblici. Se tutti i candidati, provengano essi dalle scuole pubbliche o da quelle private, sono chiamati medesimamente a presentarsi per il conseguimento del diploma sia medio sia universitario, sia umanistico o scientifico o tecnico o professionale ad una commissione imparziale composta di esaminatori, almeno in maggioranza, diversi da quelli che insegnarono al giovane, piena appare la validità legale del diploma ottenuto dagli studenti usciti da ogni categoria, pubblica o privata, di scuole. Dissensi e controversie sono possibili e nacquero e persistono sui metodi opportuni a garantire la imparzialità degli esaminatori negli esami di stato; ma son dissensi di applicazione non di principio.

È perfetto in se stesso il sistema di tipo napoleonico? Non era e non è perfetto nei luoghi e nei tempi nei quali la scelta dei direttori, presidi ed insegnanti pubblici e privati fosse o sia fatta ad arbitrio del ministro o di altri ufficiali statali negli stabilimenti pubblici o dei fondatori o proprietari o amministratori degli istituti privati. Non basta ordinare che gli insegnanti debbano essere forniti di adeguati titoli di insegnamento e scelti in seguito a pubblico concorso. Se le commissioni esaminatrici sono composte di uomini scelti dal ministro, o dal preside della provincia o dal sindaco o dal consiglio comunale o dagli amministratori degli istituti privati, non esiste garanzia veruna di buona scelta e di indipendenza dal potere politico. La garanzia non esisteva quando Napoleone, genio amministrativo volto all’organizzazione di uno stato accentrato ed ubbidiente alla sua volontà, creò l’università di Francia, stupenda creazione la quale sotto un solo comando riuniva tutti gli ordini di scuole, da quelle elementari alle universitarie. Uno il credo, uno il programma, uno l’esercito insegnante, dall’istitutore della scuola primaria all’universitario della Sorbona, al quale era affidato l’ufficio della formazione del cittadino consapevole dei suoi doveri verso lo stato e verso chi lo incarnava. Garanzie di libertà di insegnamento e di indipendenza degli insegnanti non esistono neppure oggi, nei paesi detti totalitari, nei quali domina la volontà del “principe”. L’arbitrio nella scelta dei membri dell’esercito insegnante non è necessariamente insito nel sistema. A poco a poco, nel secolo e mezzo trascorso dalla sua creazione, attraverso alti e bassi, cadute e riprese, lotte e rassegnazioni, all’arbitrio del principe è stata sostituita l’autonomia della scuola. Il ministro, per riassumere in lui la persona responsabile delle scelte, non sceglie, ma registra e fa propria la scelta compiuta da esaminatori, non da lui delegati, ma eletti a norma di criteri e di procedure fissate dalla legge. Dapprima la consuetudine, la resistenza alle scelte arbitrarie, le critiche della libera stampa, e poi il regolamento ed infine la legge hanno tolto al potere politico ogni arbitrio ed hanno posto norme atte a garantire scelte imparziali. Come in ogni umana istituzione, all’ideale non sempre risponde la realtà; si commettono errori ed abusi. Ma errori ed abusi sono, in paese libero, condannati apertamente ed a poco a poco si riducono ad un minimo. Alla perfezione piena non si giunge, per la fallibilità della natura umana. Se agli insegnanti chiamati è garantita la inamovibilità della cattedra e della residenza; se ad essi è assicurata libertà di insegnare secondo coscienza, all’infuori di ogni vincolo politico e religioso; se le mancanze dei docenti non sono punite ad arbitrio dei presidi o direttori o rettori, ma per decisioni di giudici indipendenti; se esiste diritto di ricorso alle massime magistrature, il sistema non soffre censura. Dal tipo ideale si rimane non di rado lontani. Chi ne dia giudizio, deve supporre che esso sia adeguato ai suoi fini. Non si condanna un sistema, elencandone gli inconvenienti; ché questi possono essere cancellati.

Il quadro del sistema sarebbe compiuto se, quasi al di fuori di esso od ai suoi margini, non fosse da tempo insorta e se da ultimo non fosse diventata vivissima una controversia rispetto alla uguaglianza di trattamento fra le scuole pubbliche e quelle private. Il sistema suppone concorrenza fra le due specie di scuole; ché altrimenti esso non sarebbe volto all’utilità pubblica; ma all’incremento monopolistico dello stato e cioè dei gruppi politici e sociali, i quali sono in un dato momento e luogo signori dello stato. Senza concorrenza o possibilità di concorrenza fra istituti statali ed istituti privati, non v’ha sicurezza che l’insegnamento sia l’ottimo. Importa esistano rivalità, emulazione, concorrenza perché perizia, ingegno, carattere siano stimolati al bene. Il monopolio, anche dello stato, è sinonimo di stasi, di pigrizia mentale, di prepotere.

Come è possibile, tuttavia, vera emulazione, osservano a questo punto i patroni della scuola privata, se tanto disuguali sono i punti di partenza e tanto ingiusto il trattamento fatto ai due ordini di scuola? Da un lato la scuola pubblica, mantenuta con il danaro di tutti, con le imposte pagate da tutti i cittadini secondo le norme di giustizia accolte nel paese. Gli studenti iscritti alle scuole pubbliche, assolvono bensì alcune tasse scolastiche; ma queste coprono la minore e talvolta la di gran lunga minor parte del costo dell’istruzione ricevuta; che il grosso del costo cade sul cittadino contribuente. La scuola privata, al contrario, non gode di nessun contributo di imposte e deve provvedere da sé all’intiero costo dell’insegnamento. Se si suppone, a cagion di esemplificazione grossolana, probabilmente inferiore al vero, che la scuola pubblica provveda, per ogni 100 lire di costo, con 70 lire di contributo statale tratto dalle imposte e con 30 lire pagate dagli studenti, la scuola privata dovrà coprire tutte le 100 lire con i contributi degli iscritti. I genitori degli studenti frequentatori degli istituti privati non solo debbono pagare 100 invece di 30; ma, essendo cittadini contribuenti anch’essi, hanno dovuto inoltre partecipare al pagamento delle 70 lire che lo stato destina al sovvenimento delle scuole pubbliche. Doppia e flagrante ingiustizia; ché i frequentatori delle scuole private non solo assolvono 100 invece di 30; ma in aggiunta sono gravati da parte delle 70 lire volte a beneficio altrui.

Né vale osservare che nessuno è obbligato a mandare i figli nelle scuole private; ché ciò vale asserire che i genitori, che non vogliono o non possono assoggettarsi ad oneri diversi e maggiori di quelli gravanti sugli iscritti alle scuole pubbliche, sono forzati ad iscrivere i figli in queste con violenza recata alla loro volontà ed al loro diritto di scelta; e sovratutto con il risultato di creare, di fatto, il monopolio statale della istruzione, con danno palese per la cosa pubblica, non dissimile dal danno recato da ogni altra specie di monopolio. Né vale affermare essere impropria la taccia di monopolio, laddove trattasi invece di nazionalizzazione della istruzione, simile, concettualmente, alla nazionalizzazione delle ferrovie o dei telegrafi o di ogni altra specie di industria per la quale si giudichi la avocazione allo stato necessaria o vantaggiosa per ragion pubblica; e la prima e più valida motivazione è appunto la necessità di sottrarre quella industria al monopolio privato. Ma oggi si è diventati ognora più scettici sulla validità del motivo; e fra le cause le quali hanno scemata la popolarità delle nazionalizzazioni, nei paesi nei quali si trae frutto dalla esperienza, sebbene non in quelli nei quali gli insuccessi crescono gli appetiti di coloro che degli insuccessi si giovano per crescere di numero edi potere, vi è appunto la inutilità e forse il danno di sostituire al monopolio privato il monopolio pubblico. Il quale è dannosissimo fra tutti, essendo un passo, e non piccolo, verso il tipo di stato tirannico o totalitario. Il pericolo dei monopoli pubblici è divenuto oggi, per la tendenza, detta fatale, degli stati moderni ad ampliare i proprii compiti, forse il problema dominante del nostro momento storico. Che se, per la produzione di beni materiali, come il carbone, il gas, l’elettricità, possono essere studiati avvedimenti di prudenza per far sì che il pericolo sia meno grave per i monopoli pubblici che per i privati, non così per la produzione dei beni spirituali. Lo stato tirannico o totalitario può anche rassegnarsi a limitare le usurpazioni a danno della libertà degli adulti pur di garantirsi il monopolio della educazione e quindi il dominio spirituale delle nuove generazioni.

Se la esigenza della parità di trattamento fra scuole pubbliche e scuole private è fondamentale alla salvazione del principio di libertà; e se il privilegio del sopperimento a carico delle imposte della maggior parte del costo del servizio della istruzione è certamente una violazione di quella parità, non è agevole la soluzione del problema. L’imposta è invero il mezzo col quale lo stato copre le spese generali dell’istruzione: stipendi agli insegnanti, conservazione ed ampliamento degli edifizi scolastici, impianto e funzionamento dei laboratori sperimentali, degli ospedali, delle biblioteche. Le tasse scolastiche badano alla frangia, ai margini del servizio, non più. È possibile pensare che lo stato sopperisca con il provento delle imposte ai carichi delle scuole private? Poiché non è pensabile togliere al governo il diritto di proporre ed al parlamento quello di deliberare l’ammontare delle imposte ed il loro impiego, non è pensabile neppure coprire il grosso delle spese delle scuole private con un contributo pubblico; ché ciò equivarrebbe a trasformare le scuole private in pubbliche. Colui il quale paga le spese di un servizio ne è in effetto il signore. Il problema della parità di trattamento sarebbe risoluto con la negazione del problema; tutte le scuole essendo pubbliche, verrebbe meno la ragione del contendere. Anzi, si farebbe luogo ad una specie nuova ed assai pericolosa di monopolio; il quale sarebbe esercitato in società da due consorti: il ministro dell’istruzione da un lato ed il capo od i capi degli istituti sedicenti privati, i quali fossero riusciti ad accaparrarsi il contributo statale. Esistendo un bilancio statale e quindi una spesa in determinato ammontare votata dal parlamento, e non potendo crescere la parte destinata alla cosidetta scuola privata senza diminuire quella destinata alla scuola pubblica, i capi della prima sarebbero costretti a premere sui governi – parlamenti per piegarli al loro desiderio di incremento di fondi; nuova causa, aggiunta alle tante altre già fiorenti di degenerazione degli istituti rappresentativi.

Come uscire dal dilemma posto dai due principi: della parità di trattamento e dell’impossibilità di alimentare col provento delle imposte la scuola privata, senza distruggere quella rivalità fra le varie scuole, che sta a fondamento del progresso scientifico e didattico? Il fervore della controversia su questo punto dibattuta in Francia, in Belgio, negli Stati Uniti dimostra la difficoltà della soluzione. Né pare probabile che ad una soluzione logica si giunga finché il dilemma rimanga quello che sopra fu chiarito; la parità di trattamento in un regime di libera scelta fra scuola pubblica e scuola privata essendo incompatibile con la destinazione del provento delle imposte anche alla scuola privata. Chi vuole la libertà dell’insegnamento non può volere l’assoggettamento della scuola privata al potere che solo ha il diritto di prelevare imposte.

L’analisi delle caratteristiche del tipo napoleonico reca ad una conclusione: il tipo attua un ideale, che è l’ideale dell’ordine, dell’euritmia, della uniformità. Unica la fonte: lo stato. Unico il valore degli studi quello voluto dai poteri pubblici secondo la norma costituzionale. Uno è il valore dei titoli rilasciati ai giovani alla chiusura di ogni corso di studi: quello dichiarato nella legge. Nessuno può adire ai concorsi ai pubblici impieghi se non sia munito del titolo di studio stabilito dalla legge; nessuno può esercitare professioni liberali se non possiede il diploma all’uopo reso necessario dal comando del legislatore; ed i titoli conseguiti fanno fede erga omnes della capacità del diplomato o laureato ad esercitare quegli uffici o professioni: e, ancora, chi possiede un diploma non può adire ad uffici od esercitare professioni per le quali la legge non abbia dichiarato valido quel titolo, né può usurpare uffici o professioni che la legge abbia dichiarato pertinenti ad altri diplomi. Tutto ciò è, sembra, chiaro, semplice, logico; connaturato all’indole dello stato di diritto, di uno stato bene ordinato, nel quale i cittadini siano chiamati a quei compiti ai quali essi sono da una autorità imparziale e competente dichiarati adatti. Il sistema appare tanto bello e bene congegnato, da persuadere il legislatore ad allargare ognora la cerchia degli uffici e delle professioni, le quali si possono esercitare soltanto dopoché una pubblica autorità scolastica abbia certificato che l’aspirante possiede le attitudini e la preparazione all’uopo richieste; e laddove un tempo i titoli dottorali erano ristretti a quelli di giurisprudenza, medicina, filosofia, lettere e scienze a poco a poco i dottorati si moltiplicarono ed accanto a quelli, come di ingegneria, legittimati dal tempo, altri di dottorato o semplicemente di diploma, nacquero: per gli agronomi, per i ragionieri, per i periti in scienze economiche e commerciali, per i geometri, per i periti industriali. Ed oggi si propone che anche gli artigiani abbiano titolo di maestro-artigiano o di artigiano diplomato, e che, al pari dell’artigiano, ed assai più stravagantemente, anche il commerciante, sia tale e possa esercitare commercio solo dopo aver compiuto taluno studio ed averne riportato certificato di idoneità. Né alla logica del sistema si può muovere appunto. In uno stato bene ordinato, nessuno può compiere opera alla quale non sia stato giudicato adatto; ed ogni uomo vivente deve essere giudicato atto ad un qualche ufficio.

L’ideale posto del tipo ora descritto non è tuttavia pacifico. La critica, ed è critica acerbissima, punta alla radice del sistema; dichiarando senz’altro essere mera superstizione, lugubre farsa il fondamento medesimo suo, che è il valore legale del titolo rilasciato dall’autorità pubblica al termine dei varii corsi di studio.

Accadde anche a me, nel tempo che fui preside di facoltà, di dovermi alzare alla fine degli esami di laurea e, in tocco e toga, pronunciare la formula solenne: «In nome di Vittorio Emanuele III ed in virtù dell’autorità che mi è conferita la dichiaro e proclamo dottore in giurisprudenza». Oggi, obliterato il richiamo al sovrano e non sostituito da quello al presidente della repubblica, la proclamazione solenne è compiuta in virtù dell’autorità di cui il preside od il rettore sono, per virtù di legge, provveduti. In verità ieri il sovrano ignorava del tutto persino l’esistenza del laureando ed il suo intervento era puramente simbolico; e ieri ed oggi l’autorità di cui sono insigniti il preside che proclama ed il rettore che sanziona con la sua firma l’attestazione scritta sul diploma era ed è del tutto estranea alle ragioni sostanziali per le quali la proclamazione dottorale si compie. La verità era ed è tutt’altra: la proclamazione dottorale è il frutto di talune opinioni che, nel decorso di quattro o cinque o sei anni, si sono formati taluni professori della preparazione scolastica di un giovane e di quella che alla fine del corso, tenuto conto dei voti nei quali è riassunta una ventina, o meno o più, di opinioni successive di quegli insegnanti, si è formato il relatore della dissertazione presentata dal candidato alla laurea. Per un certo numero di giovani l’opinione dei singoli esaminatori e del relatore alla laurea è una opinione seria; frutto di contatti avuti per anni col giovane, di consigli a letture proficue, di discussioni di seminario, di assistenza ai lavori di laboratorio e nelle sale da disegno. La dissertazione è stata scelta o consigliata dall’insegnante, seguita passo passo, criticata, rifatta e via via perfezionata. Il diploma conseguito accerta fatti veri e certamente conosciuti dagli insegnanti e dal relatore. In altri casi, gli insegnanti non conoscono o conoscono appena il giovane; che, nelle discipline sperimentali e nelle cliniche, solo gli assistenti sono in grado di valutare. Insegnanti e studenti si vedono e si parlano nel momento dell’esame, che è rapporto fuggevole e forse casuale. La dissertazione è stata compilata a casa, dopo la semplice accettazione del tema da parte del professore. I voti rendono testimonianza incerta; ed in alcuni casi, non troppo rari – se si pensa alla proporzione, divenuta negli ultimi anni stupenda, dei fuori corso, ottantamila su un totale di duecentomila studenti universitari – son frutto della noia di vedersi ricomparire dinanzi lo stesso giovane, ripetutamente rimandato ma bisognoso del diploma per motivi validi e spesso pietosi di famiglia o personali ed hanno significato di pietà.

La proporzione delle opinioni serie in confronto alle altre supera il dieci per cento? Forse è maggiore nelle facoltà dove la frequenza ai laboratori è obbligatoria; ma sarei stupito eccedesse quel numero nelle facoltà umanistiche. Nelle scuole medie, dato il numero strabocchevole di iscritti ad ogni classe, ed è tale quando esso supera la ventina – ma non di rado giunge ai quaranta e sminuisce troppo il frutto ricavato anche da insegnanti ottimi – la conoscenza personale, che c’è o dovrebbe esserci sempre, non ha, di gran lunga, quel peso che dovrebbe avere. Sterminati i programmi, troppe le discipline insegnate ed alternate ad ore; gli insegnanti affannati a correggere compiti, a leggere o far leggere testi antologici, non hanno tempo alla conoscenza intima dei giovani. Sia seria l’opinione dei largitori di titoli od approssimativa e persino fatta di noia e di pietà, sempre siamo di fronte all’opinione di questo o di quell’insegnante o, al più, di questa o quella commissione; molto al più, per la naturale propensione dei membri delle commissioni ad acconciarsi all’opinione dell’esaminatore in quella disciplina su cui verte l’esame o del relatore al quale era stato affidato l’esame della dissertazione. Il titolo di diploma o di licenza non ha altro contenuto se non quello dell'”opinione” ora detta; e non vi aggiunge nulla il riferimento a questo o quel sovrano o popolo o simbolo di autorità; tutte cose le quali intervengono soltanto per apporre un bollo ufficiale al documento. Solo una credenza superstiziosa vieta di scrivere sul titolo quel che soltanto è vero: che i tali e tali insegnanti, avendo seguito con gran cura o con sopportazione gli studi del tale e tale candidato, dichiarano che, secondo il loro giudizio, egli è meritevole di essere licenziato o diplomato o laureato. Soltanto in documenti annessi e non rammostrabili obbligatoriamente, aggiungono che il candidato è meritevole di somma lode, di lode, di pienezza o di sufficienza di voti o di un minimo sopportabile di infamia. Se questa è la verità vera, e certissima, che cosa resta del valore legale del titolo accertato da firme svariate, da bolli fregi e pergamene? Nulla, salvo i dannosi effetti della finzione. Il bollo statale non aggiunge nulla al valore della dichiarazione rilasciata da quella università o da quel liceo, o meglio dalla particolare commissione che ha deliberato il conferimento del diploma. Che la commissione sia detta di stato o non, la sostanza non muta: trattasi di un giudizio di taluni insegnanti, più o meno dotti, più o meno severi, necessariamente variabili nei loro giudizi da persona a persona, da tempo a tempo. Il bollo non muta nulla alla verità; essere il valore del diploma esclusivamente morale e non legale, nullo o scarso o sufficiente o notabilissimo a seconda della reputazione che i singoli stabilimenti di istruzione si sono procacciata. Nasce, di tempo in tempo, in talune facoltà universitarie, in taluni licei o scuole agrarie od altre una atmosfera di serietà, di rigore, di affiatamento fra giovani ed insegnanti; si forma una tradizione alla quale anche i mediocri si adattano; o, se insofferenti, se ne vanno altrove, in cerca di indulgenza o di rilassatezza. Dove la tradizione si è formata, i diplomi dicono la verità, sorge uno spirito di corpo fra i compagni di studio sicché essi si ritrovano e si aiutano e si spingono innanzi a vicenda nelle professioni, nelle arti, negli affari e nella politica. Come può nascere lo spirito di corpo, se gli istituti, in regime napoleonico, non possono scacciare le pecore nere; se i compagni quasi non si conoscono e non pochi di essi, assillati da altre urgenze, conoscono la faccia dell’insegnante solo quando si presentano all’esame?

Il valore legale del diploma ha, nel sistema napoleonico, taluni effetti e principalmente quello di esclusiva. Solo i diplomati in medicina o  veterinaria sono medici o veterinari; solo i diplomati in otolaringoiatria hanno diritto di farsi dentisti; solo i diplomati di ingegneria di costruire ponti e case e via dicendo. Privilegio gravissimo; perché salvo due o tre casi interessanti la salute e la incolumità pubblica, non si vede perché, se così piace al cliente, il ragioniere non possa fare il mestiere del dottor commercialista, il geometra quello dell’agronomo ed il contadino attento e capace quello del diplomato in viticultura ed enologia. Il peggio è che l’esclusiva partorisce la legittima aspettativa. Il giovane diplomato al quale è stato dichiarato che, in virtù di legge, egli soltanto ed i suoi pari hanno diritto ad esercitare la professione libera dell’avvocato o procuratore od a partecipare ai concorsi banditi da questo o da quel ministero, ad essere scelti periti in determinate controversie giudiziarie, a ricevere incarichi temporanei di supplenze scolastiche, trasforma volentieri il diritto suo teorico di esclusiva in legittima aspettativa; ed aspettando, talvolta invano, finisce per entrare nella cerchia di coloro che sono definiti “disoccupati intellettuali”. Il giovane, al quale i bolli e le firme di personaggi autorevoli e forniti di autorità legale hanno fatto sperare di potere esercitare professioni o coprire pubblici impieghi, diventa moralmente disoccupato se non consegue quel successo professionale o non riesce ad entrare in quell’ufficio che dal possesso del diploma si riprometteva di conseguire. Poiché nulla dice che impieghi ed avviamenti professionali debbono essere ogni anno vacanti in numero uguale a quello degli aspiranti licenziati o diplomati, nasce la delusione. In verità il concetto medesimo della disoccupazione “intellettuale” è concetto assurdo, ove sia considerato distintamente da quello della disoccupazione in genere; la quale può, di tempo in tempo, variabilmente colpire molte o poche o parecchie branche dell’attività umana. La dottrina ha inventato parole nuove per indicare i diversi generi di disoccupazione; e, fra l’altre, quella di “strutturale” per indicare una disoccupazione che parrebbe più duratura di altre e dipenderebbe da non so quali vizi detti di struttura della organizzazione economica della società odierna. Qualunque siano questi vizi, parmi certo che il vizio situato alla radice della disoccupazione degli intellettuali in Italia sia la aspettativa dell’impiego pubblico o della professione remunerata privata fatta legittima dall’istituto del valore legale dei diplomi rilasciati da pubbliche autorità.

Se il diploma non fosse stato fornito degli amminicoli esteriori, in cui soltanto sta la sostanza del valore legale, forse non sarebbe nato il sentimento morale della disoccupazione; forse il diplomato non avrebbe avuto la sensazione di essere divenuto un minorato solo perché frattanto avesse seguitato ad attendere alle cose della terra o della bottega o del mestiere di suo padre o dei suoi. Forse non avrebbe pensato di decadere se, in attesa, avesse fatto il manovale od il meccanico. Il diploma l’avrebbe tirato fuori il giorno in cui taluno, vedendolo lavorare, si fosse interessato a lui ed ai suoi precedenti; e quel giorno il diploma avrebbe avuto un valore ben diverso e più alto di quello legale, fatto valere attraverso le solite lettere di raccomandazione di amici, parenti, personaggi autorevoli, deputati, senatori, ministri; lettere produttrici di altre lettere, di tempo sprecato e di lentezza amministrativa. Forse; perché quando in un paese da un secolo e mezzo è inoculato il veleno del “valore legale” è vano sperare che, se anche quel valore fosse negato, vengano meno, non aiutando il costume, i suoi effetti. Che sono di irrigidimento del meccanismo sociale, di formazione di un regime corporativo di caste l’una dell’altra invidiosa, ciascuna intenta ad impedire all’altra di lavorare diversamente da quel che è scritto nelle leggi e nei regolamenti; e tutte intente a cercare occupazione, salari, stipendi là dove non si possono ottenere e cioè nei vincoli posti alla libertà di agire degli uomini.

Il mito del “valore legale” del diploma scolastico è davvero insostituibile? Un qualunque mito è accettato se e finché nessun altro mito è reputato per consenso generale più vantaggioso. Il giorno in cui si riconobbe che il metodo del rompere la testa agli avversari politici era caduto in discredito – ma era durato a lungo, per secoli e per millenni – e si accettò la tesi del contare le teste invece di romperle; l’accettazione non si basò su un ragionamento. Si sarebbe dovuto supporre, per giustificare la razionalità del sistema, che tutte le teste fossero ugualmente atte alla scelta politica; laddove è noto che talune teste sono pensanti e le altre meramente ricettive del pensamento altrui; che le une sono fornite dell’attitudine a pensare, riflettere e giudicare, le altre sono del tutto impulsive; che alcune teste sono preparate e le altre del tutto digiune di qualsiasi voglia e capacità di preparazione alla scelta politica. Ma subito si dovette riflettere che la scelta fra certi tipi di teste e certe altre avrebbe dovuto essere fatta da giudici non solo sapienti ma imparziali ed incorruttibili; sicché, per la difficoltà di valutare le teste, e per il pericolo di ritorno al vecchio sistema di romperle per affidare la scelta politica alle più dure, si preferì, come al minor male, ricorrere al sistema di contarle. Che non è razionale ed è un mito, destinato a durare sinché non se ne inventi uno migliore. Da quel che pare durerà a lungo, anche perché ha operato tollerabilmente bene in tutti i paesi ed i tempi nei quali si e riusciti, con l’istruzione, l’educazione, l’esperienza e la discussione, a ridurre al minimo il rischio che i non pensanti piglino il sopravvento sui pensanti.

Il mito del valore legale dei diplomi statali non è, dicevasi, fortunatamente siffatto da dover essere accettato per mancanza di concorrenti. Basta fare appello alla verità, la quale dice che la fonte dell’idoneità scientifica, tecnica, teorica o pratica, umanistica, professionale non è il sovrano o il popolo o il rettore o il preside o una qualsiasi specie di autorità pubblica; non è la pergamena ufficiale dichiarativa del possesso del diploma. Ogni uomo ha diritto di insegnare e di affermare che il tale o tal altro suo scolaro ha profittato del suo insegnamento. Giudice della verità della dichiarazione è colui il quale intende giovarsi dei servizi di un altro uomo, sia questi fornito o non di dichiarazioni più o meno autorevoli di idoneità. Le persone o gli istituti i quali, rilasciando diplomi, fanno dichiarazioni in merito alla dottrina teorica od alla perizia pratica altrui godono di variabilissime reputazioni, hanno autorevolezze disformi l’uno dall’altro. Si va da chi ha aperto una scuola e si è acquistato reputazione di capace o valoroso insegnante in questo o quel ramo dello scibile; ed un tempo, innanzi al 1860, fiorivano, particolarmente in Napoli, codeste scuole private ad opera di uomini, che furono poi segnalati nelle arti, nelle lettere e nelle scienze. Che cosa altro erano le “botteghe” di pittori e scultori riconosciuti poi sommi, se non scuole private? V’era bisogno di un bollo statale per accreditare i giovani usciti dalla bottega di Giotto o di Michelangelo? Accadde si radunassero taluni venuti in fama di dotti e gli scolari accorressero ad apprendere dalle letture di essi i rudimenti del diritto o della medicina o della filosofia. Si insegnò e si apprese innanzi che, attratti dalla fama acquistata da lettori e scolari, intervenissero imperatori e papi e re a dichiarare l’esistenza di un corpo, detto Università degli studi, ed a conferire al corpo il diritto di rilasciar diplomi di baccelliere, di maestro o di dottore. Nei conventi degli ordini religiosi convennero uomini dediti alla meditazione ed insegnarono ai giovani chiamati da intima vocazione ad entrare nell’ordine; e i collegi di Oxford o di Cambridge risalgono spesso a questa origine ed i membri si dicono fellows o frati ed hanno a capo un warden o padre guardiano. Chi diede loro la facoltà di insegnare e giudicare? Il sovrano poi sanzionò il fatto già accaduto, la fama già riconosciuta; ma la fonte del diritto di insegnare e dichiarare non era il diploma imperiale o la bolla papale; era invece il riconoscimento pubblico spontaneo di un corpo di facoltà nato dal fatto, e affermato dalla gelosa tutela del buon nome del collegio insegnante. Il riconoscimento viene meno ed i diplomi perdono valore quando lo spirito di abnegazione dei monaci insegnanti si affievolisce; quando il crescere del reddito dei patrimoni dei corpi insegnanti rende appetibili le cattedre per motivi diversi da quelli scientifici e le cariche si danno a prebendari favoriti o simoniaci. Altre scuole, altri corpi, altri collegi sorgono contro i corpi ribassati o decadenti o corrotti. Ancor oggi, questo è il tipo dominante nei paesi anglosassoni. Non ordine, non gerarchia, non uniformità, non regolamentazione, non valore legale dichiarato dallo stato; ma disordine, varietà, mutabilità, alegalità dei diplomi variamente stilati che ogni sorta di scuole, collegi, università rilascia, per l’autorità che formalmente deriva bensì, e non sempre, da un diploma regio, da una carta di incorporazione; ma diplomi e carte non sono nulla di più e forse parecchio di meno dei decreti di riconoscimento di corpi morali, di associazioni filantropiche, di enti più o meno economici, di personalità giuridiche con contenuto variabile, i quali sono firmati ogni anno in Italia da ministri e da presidenti di repubblica e non hanno di fatto alcun ulteriore, come era la terminologia d’un tempo, tratto di conseguenza.

Una diversità tipica, sebbene non necessaria, vien fuori dal confronto delle parole diverse usate per fatti uguali nel nostro paese e in quelli anglosassoni; ed è la minor frequenza, qui, del titolo dottorale. La singolarità nasce dalla mania del titolo cresciuta oltremisura da noi; sicché ciascuno si riterrebbe disonorato se, dopo aver frequentato una scuola universitaria, non fosse almeno proclamato “dottore” in qualche cosa, e si videro uomini appartenenti a professioni illustri agitarsi per “conquistare” il diritto di aggiungere all’antico appellativo di ingegnere, che veramente li distingue e li illustra, l’altro di dottore, atto soltanto a creare confusione; e pure si videro i ragionieri, venuti con quell’insegna in giusta reputazione, non aver requie sinché a coloro che avevano proseguito negli studi non fosse concesso l’uso del titolo di dottore commercialista, quasi che la nuova denominazione non fosse meno propria di quella antica. La generalizzazione del titolo dottorale, altra conseguenza del mito del valore legale, reca non onore, ma discredito. Non forse nell’uso comune soltanto i medici son detti dottori? È credibile che vivano in un paese tanti uomini dotti quanti hanno diritto di chiamarsi, a decine od a centinaia di migliaia, dottori? Fu caratteristico, nel tempo di vacanza, in Italia, dei titoli cavallereschi, tra il venir meno degli insigniti della Corona d’Italia e il non ancor nato ordine al merito della Repubblica, il moltiplicarsi dei “dottori” nei ministeri romani. Non potendo più rivolgere la parola ai funzionari come a cavalieri e commendatori, tutti, nell’uso degli uscieri e dei postulanti, divennero “dottori”; facendo quasi scadere il valore dell’appellativo al grado di quello di “eccellenza”, usitato dai lustrascarpe e dai vetturini napoletani verso tutti i loro clienti. Nei paesi a tipo anglosassone dove il mito del valore legale non esiste e non esiste quindi neppure la spinta alla uniformità dei titoli, il grado dottorale è raro. Molti “baccellieri” in arti o in scienze; parecchi masters o mastri o maestri; pochissimi dottori in filosofia, che è il titolo più usato per i dottori, coll’aggiunta tra parentesi di certe iniziali indicative della disciplina speciale in cui si è conseguito il dottorato. Essendo le parole baccelliere e “maestro” impronunciabili nel parlare ordinario, nessuno ne fa uso e del pari, per imitazione, nessuno si rivolge all’interlocutore appellandolo dottore. I dottori, del resto, sono tanto pochi – negli Stati Uniti, mi fu autorevolmente detto, non più dell’uno per cento dei diplomati – che l’appellativo intrigherebbe per la sua rarità. Accadde a me, durante un viaggio universitario come invitato della fondazione Rockefeller nel 1926, fosse necessario fornirmi di biglietti di visita a scopo di evitare, nelle presentazioni, la necessità di pronunciare, secondo l’uso, le lettere componenti il mio cognome, per accidente, salvo due, tutte vocali, e perciò di non facile intendimento. L’incaricato rimase per un po’ in dubbio fra i titoli di professor, senator e doctor e poi scelse l’ultimo, a parer suo il più raro ed alto.

Il tentativo di costruire la figura giuridica dell’università o della scuola media anglosassone, così come è possibile delineare quella dell’università o del liceo o dell’istituto tecnico o di altra scuola media in Italia è dunque impresa vana. Procedendo per eliminazione, possiamo segnalare alcuni connotati negativi:

Non esistono la università e la scuola media statale o governativa nel senso franco-italiano o napoleonico. Non conosco alcuna università o scuola media di stato né in Inghilterra né negli Stati uniti, intendendo per scuola di stato quella i cui insegnanti sono nominati e fanno una certa carriera e sono pagati sul fondo generale del bilancio dello stato. In uno stato federale, come sono gli Stati Uniti, la parola corrispondente a quella nostra di “stato” si esprime, per distinguere l'”amministrazione” degli Stati Uniti da quella dei singoli stati federati, con circonlocuzioni come “nazionale” o “federale”. Parecchi “stati” americani – noi diremmo provincie – hanno creato università statali, le quali sono governate da “Consigli” (Boards of trustees) nominati in tutto o in parte dal governatore o dalle camere legislative dello stato. Il Consiglio dei fiduciari statali ha una certa influenza sulle nomine degli insegnanti e provvede al grosso delle spese. Per lo più le università sono dagli stati singoli istituite là dove l’iniziativa di altri enti o di privati non ha curato la fondazione di altri tipi di università, e cioè negli stati nuovi sorti o divenuti popolosi nella seconda metà del secolo scorso. Le università degli stati non godono nella gerarchia universitaria una posizione più alta di quella delle università private; anzi stanno per lo più al di sotto delle università-fondazioni, sia di quelle antiche, sia di alcune nuove. Per “gerarchia” non si vuole indicare alcuna graduatoria avente un qualsiasi carattere o sanzione ufficiale; sì bene una classificazione in virtù di una valutazione scientifica o morale, compiuta e modificata continuamente dall’opinione pubblica.

Gli enti territoriali minori: contee, città, borghi hanno creato e continuano, insieme con gli stati, a fondare scuole, sovratutto medie, e talvolta universitarie, per soddisfare ad esigenze antiche e nuove, crescenti col crescere della popolazione e col diffondersi della cultura. Nella città di New York, ad esempio, la città ha fondato e mantiene la New York University, che è una grande istituzione rivaleggiante per numero di insegnanti e di studenti, non per reputazione scientifica, colla più famosa e accreditata Columbia University, che è una istituzione privata. Ma nella città di New York esistono, oltre alla Columbia ed alla New York University, altre istituzioni universitarie: la cattolica Fordham University, la reputata Scuola superiore di Scienze sociali, la branca medica della Evanston University, che ha sede lontano centinaia di miglia. Parecchie delle nuove università inglesi, moltiplicatesi accanto alle due storiche di Oxford e di Cambridge, sono nate per iniziative cittadine.

Se le scuole medie (High Schools e Preparatory Schools) numerosissime, sembra più di venticinquemila negli Stati uniti, sono fondate e rette in amichevole rivalità, da stati, contee, città, borghi e privati, la maggiore e miglior parte delle università sono nate come “fondazioni”. Come, per eccezione, vi sono negli Stati uniti università fondate e mantenute dagli stati singoli, non mai dall’amministrazione (la parola “governo” non è usata) federale; così vi sono eccezioni di scuole medie che sono private; e sono le più famose ed importanti. Gli usi peculiari linguistici inglesi ordinano di chiamare public schools quelle che noi diremmo invece private. I celebri collegi, preparatori per chi vuole adire agli studi universitari, di Eton, Harrow, Winchester ecc. sono detti public nonostante siano fondazioni nelle quali né lo stato, né le contee, né i comuni hanno alcuna ingerenza; ed invece le scuole che noi chiameremmo “pubbliche” perché create e sostenute da enti territoriali pubblici non sono da nessuno catalogate tra le public schools. Singolarità di linguaggio, alla cui radice sta però l’assenza dell’idea che la scuola, per valer qualcosa, debba avere a che fare con lo stato. Per quel che tocca le università, la regola è che esse sono “fondazioni”. Le antiche debbono la loro nascita ad istituzioni religiose: ordini regolari o lasciti di ecclesiastici appartenenti all’una od all’altra delle varie sette religiose (denominations) venute fuori dalla riforma. Il carattere religioso a poco a poco si è obliterato di fatto; sebbene, come è consuetudine in quei paesi, sovratutto in Inghilterra e negli stati originari americani, succeduti alle tredici colonie inglesi, sia conservato nella forma. Tra i collegi di Oxford ha posizione eminente quello che si intitola Christ Church, che è un collegio universitario simile in tutto agli altri; ma alcuni degli insegnanti sono anche canonici della chiesa cattedrale di Oxford ed il Dean del Collegio, membro del clero anglicano, è il decano del capitolo della cattedrale; ma canonici e decano sono uomini scelti per meriti scientifici. Negli Stati Uniti, le più reputate università antiche e moderne, come Harvard, Yale, Columbia, Chicago, John Hopkins, Princeton, Cornell ed altre molte, sono fondazioni private. Alcune hanno ricevuto la loro “carta” dal Re d’Inghilterra, altre da qualche governatore di colonia, altre dallo stato locale, talune dalla contea o dal borgo d’origine; e non oserei escludere che qualcuna delle fiorenti università cattoliche (Fordham a New York, Washington nella capitale, la Catholic University nella California) abbia ricevuto la propria carta originaria dal Papa. Incorporate o riconosciute come enti morali, le università-fondazioni sono vissute di vita propria; hanno nominato i proprii insegnanti, li pagano sui proprii fondi, danno ad essi garanzie di durata nel tempo, a seconda del progresso della loro carriera, più breve per gli assistant professors, più lunga per gli associate professors, sino al limite di età per i full professors. Gli stipendi non sono uniformi e variano a seconda dei redditi della fondazione e dei sacrifici che il Consiglio che noi diremmo di amministrazione (Board of Trustees) è disposto a sopportare, pur di chiamare a sé, portandolo via ad una università concorrente, un insegnante famoso. Gli insegnanti che passano da una università ad un’altra, non di rado perdono i diritti di anzianità che godrebbero nella stessa università se vi rimanessero ancora; talché qua e là, senza regola fissa, si deve provvedere ad ovviare alle interruzioni di anzianità, con contratti assicurativi, che ora si esauriscono nella medesima università ed ora si estendono a quelle le quali partecipano ad un comune fondo di assicurazione.

La struttura variata delle scuole universitarie e medie pone il problema del loro numero diversamente dal modo tenuto nel tipo napoleonico. Nel quale, il numero degli istituti può crescere solo se il ministro del tesoro consente, data la situazione del bilancio dello stato, ad accogliere le richieste del ministro dell’istruzione; ed è più agevole consenta ad un aumento del numero delle sezioni in cui si dividono le classi di un liceo già esistente che alla creazione di un liceo nuovo; e, non volendosi aumentare né le sezioni né i licei, consenta all’incremento del numero degli iscritti alla medesima sezione di una data classe; ed, inversamente, accade siano serbati in vita licei e ginnasi e istituti industriali ed agricoli in cui il numero degli allievi è inferiore a quello degli insegnanti. Nascita e morte dipendono non di rado da ragioni e pressioni politiche, le quali sono lente a modificarsi. Nelle Università, la fondazione di nuovi enti è rara nel tipo napoleonico; meno difficile la moltiplicazione delle facoltà ed invece normale l’incremento del numero degli studenti iscritti, se non di quelli frequentanti; sino a giungere a numeri incompatibili, se tutti gli iscritti frequentassero, col buon ordine delle lezioni, col rispetto dovuto agli insegnanti e colla serietà e profitto delle esercitazioni di laboratorio e di seminario. Nel tipo anglosassone, il numero non è collegato colle esigenze del bilancio statale e quindi varia in ragione delle iniziative degli enti territoriali locali, dello spirito pubblico di enti economici o di privati benefattori. Come in Piemonte era uso che i notai, chiamati a rogare testamenti, interpellassero il testatore se egli non voleva ricordare, tra i legatari, il Cottolengo; così negli Stati della Nuova Inghilterra era uso che le persone facoltose ricordassero Harvard o Yale nelle loro disposizioni di ultima volontà; ed ancora adesso fonte notabilissima delle entrate universitarie sono le donazioni in vita ed in morte di uomini di finanza e di industria; e sono notissime le fondazioni Rockefeller, Carnegie, Ford ed altre, le quali hanno alla loro volta lo scopo di incoraggiare la ricerca scientifica e le iniziative universitarie. Accade perciò che il numero delle scuole di ogni fatta, dalle universitarie alle medie, non fissato da alcuna legge di bilancio, muti e cresca. Nella Inghilterra propriamente detta, all’infuori della Scozia e del Galles, le università erano tradizionalmente le due di Oxford e Cambridge; ma oggi sono assai più e quelle note nelle città più prospere vanno a gara nel rivaleggiare con le vecchie fondazioni. Negli Stati uniti il numero delle università e dei collegi universitari (quasi tutte le università-fondazioni sono sorte come collegi, dove si imparte in quattro anni solo l’istruzione sino al grado di baccelliere ed ha carattere umanistico o scientifico teorico; ma poi, se il successo arride, le branche di insegnamento si moltiplicano; ai corsi per i graduandi si aggiungono i corsi per i graduati e nasce l’università) raggiunge ed oggi forse supera il migliaio; non piccolo numero anche per un paese di centosessanta milioni di abitanti. Il numero sarebbe dichiarato assai più che eccessivo in un paese di tipo napoleonico; ed a giusta ragione; ché lo stato – nel significato nostro di amministrazione centrale unica – come garantirebbe il valore legale dei diplomi rilasciati da tanti istituti universitari e medi sui quali esso non ha ingerenza veruna, nella scelta dei cui insegnanti non ha parte, che operano secondo criteri da una scuola all’altra diversi, e, a sua insaputa, mutevoli? Il valore legale è garantito solo formalmente nei paesi a tipo statale accentrato; ma il concetto medesimo della garanzia statale è del tutto ignoto nei paesi a tipo anglosassone. In questi, se non esiste alcuna garanzia statale, esiste un valore morale, di fatto, che ogni istituto conquista e mantiene da sé; perfezionando l’insegnamento scientifico e tecnico ed il tirocinio educativo da esso fornito ai suoi studenti. Taluni istituti medi – le public (private) schools e talune grammar schools, mantenute da contee e da borghi in Inghilterra; ed un certo numero di high (medie) schools, dette per il livello più alto preparatory – entrano in tanta reputazione che i loro migliori allievi sono, non obbligatoriamente ma di fatto, ammessi abbastanza agevolmente nelle università più reputate. Il giovane licenziato da scuole medie di reputazione mediocre dura invece assai più fatica e deve sostenere prove più dure per ottenere l’ammissione nelle buone università; e, se teme di non essere accolto, chiede di entrare in una università di stato o di città, l’ammissione nelle quali sia, superate le prove stabilite, un diritto.

Vige, perciò quasi sempre, fatta eccezione per gli istituti fondati da stati o da città, il numerus clausus. Istituto, dal quale non si può trarre alcuna logica deduzione a favore dell’adozione sua nei paesi a tipo napoleonico. Qui, il numero chiuso, ossia la saracinesca posta all’iscrizione degli studenti, oltre il numero fissato per le singole facoltà o scuole universitarie o per le sezioni dei corsi liceali o medi, vorrebbe dire limitazione forzata del numero totale dei giovani, i quali possono aspirare alla istruzione media od universitaria. Il numerus clausus nei paesi a tipo napoleonico vuol dire esclusione dall’acqua e dal fuoco dei non ammessi. Con qual diritto lo stato, in una società di uguali, accorda agli uni e nega agli altri il diritto di accedere a stabilimenti mantenuti col danaro di tutti? Un’autorità pubblica – ministro, consiglio superiore, rettore, consiglio accademico, preside, consiglio dei professori? – determina, in relazione al numero delle aule e degli insegnanti ed assistenti, della suppellettile didattica, delle biblioteche, il numero massimo degli studenti, compiuto il quale, scende la ghigliottina. Chi è ammesso e chi è escluso? Decide la data della domanda? La scelta sarebbe arbitraria ed accidentale. Il merito? Chi giudica il merito? I voti riportati negli esami di licenza nelle scuole inferiori di grado? Occorre la finzione dell’esame di stato universale ed uniforme per accettare la finzione ulteriore di effettive uniformità nelle attribuzioni di voti. La concorrenza degli esaminatori inferiori nella larghezza di voti per favorire l’ammissione dei proprii allievi? La farsa sarebbe presto chiusa, per lo strabocchevole numero di promozioni a pieni voti, con lode o somma lode. Il numero chiuso nel tipo napoleonico contraddice al diritto, sancito nelle costituzioni, dei cittadini di adire ai massimi gradi della istruzione; sancirebbe l’obbligo della ignoranza ed il privilegio dei pochi favoriti dalla sorte o dall’intrigo. Il numerus clausus non vuol dire nulla di tutto ciò nei paesi a tipo anglosassone. Ogni istituto ha diritto di scegliere non solo i professori, ma anche gli studenti; di proporzionare il numero dei proprii iscritti alle proprie possibilità didattiche e di non assumere impegni superiori a quelli che sa di poter mantenere. Oxford o Cambridge in Inghilterra, Harvard o Yale o Chicago, o Princeton, o Cornell negli Stati uniti calcolano che esse non possono accogliere più di diecimila o ventimila studenti in tutto? Ogni stabilimento fissa in modo autonomo i criteri con cui si compie la scelta, e conosce la lista delle scuole preparatorie medie, i cui licenziati hanno le migliori aspettative, e per essi e per tutti gli altri, di diversa provenienza, determina le prove in base a cui l’ammissione è decisa. Non è sempre necessario che l’aspirante possegga documenti di frequenza e di capacità; non è cioè escluso, sebbene sia rarissimo, che il giovane nudo, uscito dalla foresta allo stato del bon sauvage di Rousseau, sia il favorito. Talvolta la decisione non spetta al rettore dell’università (vice-chancellor nelle università inglesi, president in quelle americane) assistito dal consiglio accademico o di facoltà. Ritengo, ad esempio, che in Oxford l’università non abbia in materia alcuna aperitio oris; decidono invece i guardiani o decani, o masters di ognuno di quella ventina di collegi dei quali si compie il corpo, storicamente vivente, della università. Lo studente deve essere, prima che membro dell’università, membro del suo collegio, iscritto e dimorante e vivente in esso; epperciò, se egli, dopo opportune prove che possono ridursi ad un colloquio privato, non è gradito al guardiano del collegio, potrà piatire l’ammissione presso altri capi di collegio; ma solo attraverso ad essi egli può essere iscritto all’università. Il guardiano sa, oltre il resto, quante siano le stanze per i suoi studenti, quanti i posti a tavola; quanti i fellows che possono seguirli come tutors (ripetitori) e sceglie coloro che meglio soddisfano al desiderio che il suo collegio riceva i giovani destinati a procacciargli lustro in avvenire ed a meritare che il ritratto sia tramandato ai venturi nelle sale comuni e nei refettori. Chi non riesce ad entrare ad Oxford o a Cambridge o ad Harvard o chi giustamente, a suo criterio, preferisce di studiare in altri istituti altrettanto o meno o più reputati, si rivolge altrove. La scelta è ampia. La domanda da parte degli studenti provoca la formazione di nuove università o l’ampliamento delle antiche.

Dappertutto, il numero degli studenti aumenta. In Inghilterra quello degli studenti universitari è inferiore al numero italiano; ed invece il numero degli studenti di scuole medie e preparatorie cresce rapidamente e satura gli istituti esistenti, provocando fondazioni di nuove scuole; né si ha notizia che vi siano giovani esclusi a causa dei limiti posti da ogni istituto alle ammissioni. Negli Stati uniti, sembra che la proporzione dei giovani di fatto iscritti nelle scuole medie e preparatorie abbia negli ultimi anni raggiunto l’ottanta per cento dei giovani che appartengono alle classi di età teoricamente atte a frequentare quegli ordini di scuola. Il numero degli studenti iscritti alle università ed ai collegi universitari, che batteva, un quarto di secolo fa, sul milione, si aggira da qualche anno sui due milioni e mezzo. Crebbe rapidamente nell’immediato dopoguerra, perché il congresso votò sussidi a tutti i reduci, i quali desiderassero iscriversi; ma, pur dopo venuto meno l’aiuto federale, il numero non diminuisce, anzi tende verso i massimi teorici relativi all’età ed alla popolazione totale. Il che vuol dire che il numerus clausus, in quel tipo, non esclude nessuno e probabilmente incoraggia il crescere della popolazione scolastica. Il numero in Italia parrebbe strano, anzi pericoloso; ché fatte le proporzioni fra i centosessanta milioni di americani e i quarantasette di italiani, ai due milioni e mezzo di studenti universitari americani, dovrebbero corrispondere settecentomila studenti italiani, o, se si tenga conto che forse un terzo di quelli americani, quelli dei due primi anni di undergraduates (poi vengono gli altri due anni e tutti quelli delle scuole professionali, di diritto, medicina, ingegneria ecc. e dei corsi di dottorato) sono al livello dei nostri studenti degli ultimi due anni di liceo; dovremmo avere almeno quattrocentocinquantamila iscritti. Ne abbiamo meno della metà e tutti gridano alla soprapopolazione universitaria ed alla disoccupazione, dianzi descritta, degli intellettuali. Ho interrogato parecchi giovani americani sul problema della disoccupazione nel mondo universitario americano; e vidi che la domanda non aveva risposta, perché non era neppure capita. I milioni di baccellieri e di masters i quali escono dagli istituti universitari americani, sanno che il diploma non dà diritto a nulla. È bene possederlo, perché non si è mai sentito dire che sapere qualcosa sia cagion di danno; e nessuno ha mai sostenuto la tesi che sia migliore una popolazione di analfabeti piuttosto che una popolazione di uomini e di donne meglio istruiti, molto o poco e, anche se poco, sempre meglio di niente. In me è sempre vivo nel ricordo del 1926, quando, per invito di un noto economista, visitai un suo podere in uno stato del centro. Nella stalla, il vaccaro mungeva la mucca. Il collega, dopo averlo presentato, aggiunse: «Questi è un diplomato della mia università!». Come costui, nove decimi dei diplomati americani, non sognano neppure di fare gli intellettuali solo perché hanno frequentato una università e in essa si sono diplomati: mungono le vacche, coltivano i campi, attendono alla bottega od al laboratorio; fanno ogni sorta di mestieri, che con le professioni e gli impieghi, considerati da noi privilegio ed appannaggio dei laureati, non hanno niente da fare. Essere “baccelliere” in arti o in scienze non nuoce e può giovare nel munger la vacca; e, se gli Stati uniti durante la guerra e nell’immediato dopoguerra sovvennero al bisogno di alimenti di mezzo mondo, chi può negare che al risultato miracoloso non abbia giovato il possesso di quella cultura, anche modesta, oggetto di tanto ironici giudizi da parte dei nostri diplomati, che si può ottenere conseguendo il diploma di baccelliere?

Al ritorno alle consuete occupazioni civili, fuor di illusori e spesso magri impieghi e studi professionali giova la popolarità nel mondo studentesco dell’abitudine di procacciarsi i mezzi di studio o qualche gradito supplemento di entrata coll’esercizio di ogni sorta di mestieri occasionali. Corre la leggenda che la via sicura per giungere all’ufficio di presidente degli Stati Uniti sia quella di aver venduto da ragazzo i giornali per le strade o, più frequentemente, col recapito nelle case dei clienti. Si può supporre senz’altro sia leggenda, sebbene assai significativa, per quanto riguarda l’ufficio supremo; ma non è tale per altre meno alte ambizioni; e di studenti venditori di giornali qualcuno conobbi anch’io. Nei mesi estivi assai giovani universitari usano le vacanze, mettendosi a servizio presso agricoltori in campagna, come garzoni di stalla o di scuderia, boscaioli, a caricare e scaricare legname, paglia, fieno e raccolti in genere; ed anche qui ho avuto occasione di complimentare chi aveva scelto quel modo di acquistare salute e peculio. Ho narrato altrove come, alla fine della colazione in una università della California, il preside mi chiedesse se avevo posto attenzione al cameriere che ci aveva servito a tavola. «È il migliore degli studenti del suo corso; e guadagna le tasse scolastiche e le spese, servendo a tavola professori e compagni di scuola. I quali non solo non lo tengono perciò da meno, ma, a titolo di onore, lo hanno eletto presidente di una delle loro associazioni». Conobbi, anche in Italia, valorosi giovani che faticavano duramente allo scopo di frequentare poi lezioni e laboratori; ma sono più numerosi coloro che, non potendo frequentare, stanno a casa o in ufficio e si preparano su testi o su dispense. Che è una maniera non buona di prepararsi.

Il difetto di valore legale per i diplomi, se prepara i giovani ad attendere da se stessi il successo o a non incolpare lo stato o il governo o l’insegnamento, a posteriori spregiato poi, ad esperienza fatta, come non pratico, non compiuto, dottrinario, non rispondente alle esigenze della vita moderna, costringe gli istituti a non far troppa fidanza sui proventi certi dei contributi governativi da imposta e sulle tasse versate dai giovani obbligati ad iscriversi, se non a studiare, se si vuole conseguire quel diploma che, solo, apre la via alle carriere ed agli impieghi. Nel tipo anglosassone ad ogni istituto si applica il proverbio del chi ha più filo fa più tela. L’ente il quale vive di tasse scolastiche, deve attirare studenti e gli studenti accorrono là dove, in seguito agli studi compiuti, ottengono un titolo il quale gode di buona reputazione ed apre vie migliori ai più capaci e ambiziosi e volonterosi. Chi si contenta di un baccellierato conseguito con poca fatica ed aspira ad occupazioni locali o a dedicarsi a lavori modesti, perché non dovrebbe preferire un piccolo collegio il quale gli fornisce quella modesta preparazione che a lui è bastevole? Chi ha ambizioni più alte farà sforzi per riuscire ad essere accettato in una grande e reputata istituzione, ed accettato, si sforzerà di uscire non col semplice pass, ma vorrà ottenere gli honors; noi si direbbe passare agli esami non col diciotto, ma col trenta e lode e, forse, la dichiarazione di dignità di stampa per la dissertazione. Né l’accesso alle migliori università o scuole secondarie preparatorie è perciò limitato ai ricchi; ché, dappertutto, anche nei collegi un tempo più aristocratici ed esclusivi, cresce la proporzione degli studenti di modesta estrazione ai quali i mezzi sono forniti da borse di studio, di fondazione universitaria o create recentemente da borghi, città, contee, stati. Questa è, anzi, la maniera più vistosa di intervento degli enti pubblici ad incoraggiamento dell’istruzione media ed universitaria l’istituzione di numerose borse di studio create allo scopo di fornire a giovani meritevoli i mezzi per mantenersi a scuola e pagare le tasse. Le quali non sono quasi evanescenti come nei paesi a tipo napoleonico e non coprono solo una troppo piccola parte del costo totale del servizio; ma sostanziose e destinate a coprire di quel costo la parte più notabile.

Non tutto il costo, che in tutti i paesi del mondo l’industria della educazione ed istruzione è e seguiterà ad essere esercitata in perdita. Una parte della perdita è pagata dallo stato sotto la forma, ora ricordata, delle borse di studio. Che non sono poche di numero; e dopo l’esempio postbellico delle borse di studio accordate a milioni di soldati ed ufficiali reduci dalla guerra, tendono ad assumere dimensioni grandiose. Col qual metodo, ed in quel tipo di ordinamento scolastico, si risolve, a parer mio automaticamente, il problema del dissidio, forse insanabile, come dissi dianzi, nei paesi a tipo napoleonico, fra scuola pubblica e scuola privata. Lo stato colle borse di studio non dà all’istituto per se stesso; dà i mezzi agli studenti di pagare forti tasse scolastiche al qualunque istituto, pubblico o privato, al quale essi preferiranno iscriversi. Non sceglie l’autorità pubblica, secondo criteri suoi, che possono essere di supposta uguaglianza od oggettività o imparzialità, oppure di incoraggiamento di talune particolari correnti politiche o spirituali liberali cattoliche comunistiche o socialistiche ed altre ancora. Scelgono i giovani od i loro genitori o tutori, a seconda del tipo di istruzione ed educazione preferito. Un’altra parte della perdita è sostenuta col provento del reddito dei lasciti antichi e con quello delle nuove donazioni. Che è sinonimo, di nuovo, di tassa scolastica; pagate non più dagli studenti in atto; ma dai memori baccellieri mastri e dottori usciti dall’università, i quali in vita o in morte ricordano i benefici ottenuti dalla formazione intellettuale e morale in essa ricevuta e compiono donazioni, modeste o grandiose, a suo favore. Il presidente (rettore) delle università o dei collegi è scelto, un po’ per le sue note capacità scientifiche e didattiche, ma più per quelle amministrative; e fra queste rimarchevole in primo luogo l’attitudine a procacciare donazioni dai più facoltosi tra gli antichi allievi e anche estranei. Se la Columbia University nominò e riconfermò, ancor dopo scelto a comandante delle forze atlantiche in Europa, suo presidente il generale Eisenhower, ciò fu dovuto alla sua fama e perciò alla speranza che esso giovasse alla fortuna dell’istituto presso uomini meglio disposti a donare a lui che a rettori meno famosi. Fa d’uopo avvertire che la fonte dei lasciti e donazioni tende tuttavia se non ad inaridirsi, ad attenuarsi nelle antiche forme. La difficoltà crescente di cumulare grandi fortune, a causa delle elevate imposte progressive sul reddito e sulle successioni e della minore facilità di conseguire nelle industrie e nei commerci guadagni di monopolio, scema il numero degli uomini facoltosi disposti a larghezze cospicue verso la scuola. Al luogo dei privati benefattori, tendono a intervenire le grandi corporazioni (società anonime), sia con donazioni dirette alle università, sia a mezzo delle fondazioni Carnegie, Rockefeller, Ford. Sembra che dal sette all’otto per cento delle somme spese per l’insegnamento universitario provenga dalle elargizioni delle grandi corporazioni e la proporzione tende a crescere, nonostante i brontolii degli azionisti, il cui peso è oramai scarso in confronto alla influenza dei dirigenti, persuasi dell’importanza per l’industria in genere dell’incoraggiamento al progresso scientifico ed alla diffusione della cultura. Oggi, tuttavia, la perdita non sempre è coperta dalle tasse scolastiche pagate dagli studenti, dai sussidi pubblici versati agli studenti per il pagamento delle tasse e dalle donazioni volontarie antiche e nuove. Il costo degli edifizi, delle suppellettili, dei macchinari ed apparecchi di laboratorio, degli apprestamenti clinici, dei libri cresce siffattamente da rendere impossibile il funzionamento delle scuole senza un contributo diretto dell’ente pubblico.

Nel sistema napoleonico, il contributo è distribuito, in seguito ad istanza e dimostrazione dei rettori, presidi e direttori, dall’autorità pubblica (ministro) a ciò autorizzato da legge approvata dal parlamento. L’autorità politica interviene direttamente nella fissazione e nella distribuzione del contributo statale. Anche nel tipo anglosassone il contributo è fissato nella legge del bilancio; né si concepisce altro sistema; dovendo esso far carico al provento delle imposte. Ma la distribuzione sinora è compiuta in Inghilterra ad opera di un consiglio composto di rappresentanti delle università medesime; e sulla spesa non ha ingerenza né la tesoreria né il parlamento. Si segue cioè il metodo usato in Italia per il concorso globale concesso al Consiglio delle ricerche; il quale poi distribuisce la somma assegnata in bilancio secondo i criteri stabiliti dal consiglio medesimo, eletto dagli insegnanti e quindi fuori delle ingerenze governative. Ma quel che in Italia si fa per la minor parte del contributo statale, in Inghilterra si fa per l’insieme; con grave dispiacere della tesoreria (la nostra ragioneria generale dello stato) e con proteste ripetute nella Camera dei comuni. Sinora però le università sono riuscite, in difesa della propria autonomia, a respingere il controllo statale sull’uso del contributo ed a distribuirlo secondo criteri scientifici e didattici, ad esclusione di quelli politici.

Le ingerenze politiche non sono escluse nel sistema anglosassone; ma più che politiche hanno indole ideologica. La scuola cioè non si sottrae alle correnti di idee o di tendenze sociali o religiose di tempo in tempo divenute vive in questa o quella regione. Ricordo, fra l’altro, una qualche comica scomunica lanciata dai consigli di amministrazione di università statali, e quindi eletti dai governatori e dai legislatori dello Stato, contro chi professasse dottrine contrarie a quelle contenute nella lettera della Bibbia; o più recentemente, in alcune poche università, quasi tutte statali, le richieste di giuramenti di non appartenenza al partito comunista. Ma la grandissima maggioranza delle università resistette, assai prima che il maccarthismo cadesse nel meritato discredito, alle pretese. I pochi insegnanti, i quali credettero di non poter giurare, furono immediatamente chiamati, a condizioni migliori, ad insegnare in altre università. Nel sistema anglosassone la valvola di sicurezza contro le ventate di prepotenza ideologica agisce e si chiama rivalità fra gli stabilimenti scolastici. Il perseguitato è sicuro di trovare ospitalità altrove; se non sia notorio che la persecuzione fu provocata, a scopo reclamistico, dallo stesso insegnante. Talora si dice che certe opinioni politiche o sociali siano invise ai consigli di amministrazione di fondazioni private, nei quali hanno peso i fiduciari dei benefattori, per lo più appartenenti ai ceti agiati; ma i casi di effettiva intolleranza accademica sono rari e su essi si fa così gran baccano da rendere ardui e rari gli ostracismi. In ogni caso, l’intolleranza non ha mai avuto effetti che fossero paragonabili, neppure lontanamente, a quelli che si sono veduti nei paesi a tipo napoleonico; dalla cacciata di Giambattista Say dalla cattedra parigina ad opera di Napoleone alla persecuzione recente che costrinse tanti studiosi antifascisti antinazisti ed ebrei a cercar rifugio precisamente in Inghilterra e negli Stati uniti; e basti citare per tutti Fermi ed Einstein.

Se il valore legale del diploma impone la regolamentazione uniforme dei programmi nelle scuole secondarie e la fissazione, pure uniforme, dell’ordine degli studi nelle facoltà e scuole universitarie, il tipo anglosassone consente elasticità e libertà sia nella determinazione delle materie sia dei programmi di insegnamento. Le scuole, anche secondarie, e sovratutto quelle universitarie divengono laboratori sperimentali in cui si saggiano nuovi metodi didattici, diversi da quelli tradizionali e si tentano nuove vie alla ricerca scientifica. È di moda incolpare i nostri governi per la fuga dei giovani studiosi verso gli Stati uniti. È vero che le quarantamila lire al mese, equivalenti suppergiù, anche in capacità d’acquisto, a settanta dollari, offerte al giovane, il quale, avendo conseguito con lode la laurea in scienze, consenta ad entrare, con incertezza di successo, come assistente nella carriera universitaria, sono alquanto inferiori ai salari da cento a centocinquanta dollari i quali sono dati, a titolo di salario mensile ai giovani americani di uguale età e di merito comparabile ed è anche vero che all’universitario italiano, il quale abbia già fatto le sue prove ed abbia al suo attivo qualche nota scientifica già apprezzata, conviene, al punto di vista economico, preferire i tremila o quattromila dollari iniziali americani – da centocinquanta a duecentomila lire al mese – alla busta paga complessiva (stipendio ed accessori) di circa settanta-centomila lire dei professori incaricati in Italia. Ma la differenza non è né cospicua né decisiva. Le attrattive sono altre. Il rischio di carriera è di fatto minore. In Italia, se non si fanno vacanze nei posti di ruolo, se non vanno fuori ruolo o non muoiono i titolari di discipline fondamentali, il giovane può languire per lunghi anni negli assistentati o negli incarichi, incerti, nonostante la permanenza di fatto, per la necessità della conferma annua. Non può adire ai concorsi di libera docenza, la quale non offre vantaggi materiali, ma solo speranze per l’avvenire, se e finché non sono banditi concorsi per la sua disciplina; né si sa perché i concorsi siano indetti a turno di anni per alcune soltanto delle discipline fondamentali; e ben di rado il Consiglio superiore si decida ad iscrivere tra le materie di concorso per la libera docenza una disciplina nuova. Fa d’uopo opporsi, si osserva, alle specializzazioni eccessive ed attendere che la nuova disciplina si sia assodata e possa essere ufficialmente riconosciuta come esistente. Giusta prudenza, se si pensa, che, essendo anche le libere docenze provvedute di crisma ufficiale, con bollo, esse danno luogo nel sistema napoleonico, alle consuete legittime aspettative e producono disoccupazione di tipo particolare, detto dei liberi docenti; ma diventa intolleranza, se si pensa che la ricerca scientifica suppone il nuovo e le ipotesi di studio non ancora dimostrate feconde; e che per ciò non monta accertare la padronanza dell’intera materia, occorrendo invece assicurarsi dell’attitudine scientifica, come è detto nel broccardo del semel abbas semper abbas. La consecuzione della libera docenza vuol dire mera autorizzazione a cercare di dire qualcosa di diverso da quel che è patrimonio accettato od anche ad esporre meglio quel che è già noto. I giovani soffocati dal tipo napoleonico aspirano perciò ad andare negli Stati uniti sovratutto perché ad essi sono offerte nei laboratori, nelle borse di studio, mezzi di ricerca assai più agevoli di quelli sperabili in patria. Non la paga “forse” più alta; ma la possibilità di lavorare per un anno o due nei laboratori e nelle biblioteche, sperimentando cercando e forse trovando. Nei paesi di libertà accademica non esiste alcun regolamento generale con elenco fisso di discipline e non vi sono Consigli superiori che riconoscano la nascita di discipline nuove. Non si deve premere su giovani e su autorità politiche; ma persuadere il professore amante della sua materia, il preside di quelle che da noi sono dette facoltà e che, più piccoli per contenuto ed assai più numerosi, son detti dipartimenti, il rettore dell’università, perché un nuovo assistentato, un incarico di professore assistente sia creato, se questi alcuni uomini si persuadono che val la pena di mettere alla prova il giovane promettente. Accade che una cattedra sia offerta perché il decano o il rettore capitarono a leggere una nota su un argomento di fisica od uno scritto su un problema di storia del diritto o della filosofia; e la nota e lo scritto piacquero. Il sistema dei concorsi nostrani a base di titoli scritti stampati, giudicati da commissioni elettive è, a parer mio, ottima garanzia, nel sistema napoleonico, contro l’arbitrio politico e, tutto sommato, dà garanzia oggettiva di buone scelte; ma non possiamo negare che il sistema anglosassone delle scelte fatte dai corpi accademici insegnanti di ogni singola università che è poi scelta fatta da questo o quell’insegnante stimato dai rettori e presidi, lascia maggior campo all’iniziativa ed ai tentativi.

La caratteristica forse più interessante del tipo anglosassone è quella del campo lasciato ai tentativi ed agli errori. Più lento il processo in Inghilterra; più rapido negli Stati uniti. Taluni rettori di note grandi università sono divenuti famosi per il tentativo compiuto di imprimere nuovo indirizzo all’insegnamento, taluno favorevole alla libertà assoluta dello studente di conseguire baccellierati o dottorati in discipline nuove e reputate da molti di minima importanza; ed altri deciso a far macchina indietro ed a prescrivere un minimo di materie fondamentali, attraverso a cui sia obbligatorio passare prima di fare scelte ulteriori libere. Battaglie omeriche si combattono ogni tanto tra i fautori dei metodi contrari; sicché i giovani sono attirati ora all’una ora all’altra università dalla diversità dei programmi e degli indirizzi. Orrore! esclama colui che è vissuto nel clima del tipo napoleonico. Che cosa vale una laurea in diritto, in medicina, in ingegneria, in lettere se non si sa neppure che cosa abbiano i giovani laureati appreso per il conseguimento del diploma?

Chi è spaventato del disordine, non è tuttavia tranquillo sui risultati del sistema ordinato, uniforme, riposante del tipo napoleonico. Lo scontento non piglia l’aspetto di contrasti fra scuola e scuola, fra università ed università, fra programmi e programmi; sì da instabilità nell’ordine. Le dispute nostrane sul miglior ordinamento degli studi non hanno termine. Negli esami di stato deve essere richiesta al candidato la conoscenza della materia dell’ultimo anno di studio (liceo, ginnasio, o istituto tecnico) ovvero di tutto il corso? Si deve consentire in un esame, il quale dovrebbe chiarire la maturità del giovane a proseguire gli studi, il rimedio della riparazione autunnale, ovvero no? Il giudizio degli insegnanti, i quali seguirono il giovane durante tutto un corso di studi, non è preferibile a quello di commissari estranei racimolati casualmente qua e là, ai quali può riuscire arduo compito valutare la preparazione di un giovane mai veduto? Le opinioni sono e rimarranno mai sempre contrastanti; e di volta in volta ministri, consigli superiori, legislatori mutano criterio. Ogni volta regna l’ordine; ma è ordine conseguito attraverso continue rivoluzioni. Il tipo napoleonico conquista l’ordine attraverso rivoluzioni, che distruggono l’ordine antico; nel tipo anglosassone l’ordine è dato dalla gara continua di sistemi contrastanti e dalla sopravvivenza dei sistemi meglio adatti provvisoriamente alle esigenze dell’insegnamento. Il danno della gara ognora rinnovata fra criteri contrastanti non è, del resto, nel tipo anglosassone, così preoccupante come a primo tratto si potrebbe credere.

I contrasti sono vivi sovratutto nel campo dell’insegnamento umanistico, scientifico, filosofico di carattere preparatorio e generale; non per gli insegnamenti tecnici i quali sono dati nelle scuole che fanno seguito alla fine dei corsi generali per il baccellierato. Nelle scuole di diritto, di medicina, di ingegneria, di agraria, di ragioneria, non vi è molto campo libero alle novità. Nelle scuole di diritto, gli americani e in parte anche gli inglesi non amano procedere da principi, da norme generali, da costruzioni sistematiche ad applicazioni ai casi concreti; sì invece dai casi singoli alla teoria generale. I precedenti, le decisioni giudiziarie sono la base dell’insegnamento; e dallo studio di un processo celebre si giunge ai principi accolti dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Se il metodo è diverso, la sostanza dell’insegnamento conduce a risultati che, nel sistema del diritto comune vigente, è ugualmente rigoroso. Può essere un curiosum didattico e professionale, sentirsi dire che il foro britannico è reclutato in maniera tanto diversa dal nostro; non laurea in giurisprudenza, poi tirocinio professionale in uno studio di avvocato, quindi esami di stato ed abilitazione all’esercizio professionale. Tutto all’opposto: per entrare a far parte del corpo degli avvocati, due vie sono aperte. In primo luogo quella di iscriversi giovanissimi, dopo aver frequentato una public school od analoga scuola secondaria, praticante in un ufficio legale posto in uno degli Inns of Courts (Osterie della Corte), oasi di pace e di silenzio nel centro tumultuoso della City di Londra; ed ivi far pratica di anni, incontrarsi con celebri membri del foro, sostenere colloqui più che esami con i capi della corporazione, assistere ad un certo numero di pranzi ufficiali della corporazione, dare non so qual prova con pranzo solenne finale; ed essere così abilitato ad entrare, in qualità di junior, in uno degli uffici legali aperti in un edificio dell’Inn e poco per volta salire in anzianità; sino a quando, ritiratosi volontariamente per età o per altre circostanze, l’avvocato si decide a vendere ad un giovane praticante il posto. Ovvero, seguire sino alla fine il più difficile dei corsi universitari, che ad Oxford è distinto dalla parola Greek; corso che, lo dice la parola, non ha niente a che fare col diritto: Platone, Aristotele, letti in greco, Cicerone, san Tommaso ed in genere filosofia, matematica e letteratura. Conseguita, con gli onori, la laurea (Doctor in Philosophy) iscriversi in uno degli Inns di Londra e compiere, forse più rapidamente, lo stesso tirocinio del giovane praticante venuto su dalla gavetta. Più brillante e forse rivolta a mete più alte – promozione a giudice, carriera politica – la seconda via; ma ugualmente apprezzata la prima. I metodi per esercitare le altre professioni non paiono meno eterocliti ai nostri occhi, abituati alla simmetria, all’ordine, ai bolli. Ogni tanto si leggono sui giornali avvisi dell’Institute of Bankers o di una delle Incorporated Societies of Accountants che sono, noi diremmo, associazioni private di banchieri o di ragionieri – le quali hanno ottenuto una “Carta di incorporazione”, o decreto di erezione in ente morale; ma le carte o decreti possono essere concessi a parecchie associazioni rivali – in cui si annuncia l’apertura di esami per gli aspiranti a diventare soci della corporazione. Superato l’esame, con onori o senza, il novello socio gode di un credito maggiore di quello che otterrebbe se al suo nome e cognome non potesse far seguire le iniziali (ad esempio, F.I.B.) di socio dell’Istituto dei banchieri. Le iniziali gli aprono l’adito a posti più distinti in banca; perché si sa che non le possono usare se non coloro i quali dai membri anziani e reputati della società sono stati reputati meritevoli di essere considerati colleghi. La rivalità fra parecchie corporazioni e la possibilità di far a meno dell’uso delle iniziali garantisce gli aspiranti contro il pericolo di esclusiva degli anziani; e la necessità di garantire il prestigio delle iniziali delle quali il socio ha interesse a far uso, assicura contro la concorrenza al ribasso.

Questa delle iniziali è un’usanza che, senza nocumento e senza nulla variare al sistema, potrebbe essere introdotta anche nel tipo napoleonico. Se il professionista avvocato, ingegnere, medico, geometra, ragioniere dovesse – ecco un obbligo innocuo, non costoso, che per eccezione mi rassegnerei ad invocare – sulle buste, sulla carta da lettere, sulle notule delle parcelle ai clienti, sulle targhette apposte al portone di casa ed all’uscio dell’ufficio, apporre dopo (non prima, per non creare confusione con i titoli cavallereschi, i quali non dicono nulla rispetto alla capacità professionale) l’indicazione del proprio nome e cognome, quella del diploma (Dottore in medicina, in giurisprudenza), dell’anno della sua consecuzione e dell’università od istituto in cui il diploma fu rilasciato (Università di Torino o di Roma, Politecnico di Torino o di Milano, Università Bocconi di Milano ecc. ecc.) qualche utile risultato parrebbe sicuro. In primo luogo, i clienti i quali hanno perso una causa difesa dal patrono laureato a “Manica larga” o sono stati male curati da un medico uscito da “Lode per tutti”, comincerebbero a sospettare della bontà dell’insegnamento fornito da quella università e se l’esperienza si ripetesse, l’università sarebbe screditata. L’effetto necessario sarebbe, in secondo luogo, la rivalità delle università e delle scuole, invece che nel largheggiare, nell’essere severi nella concessione dei diplomi; ed i giovani valorosi e studiosi preferirebbero frequentare le università reputate per la loro severità. Si opererebbe, una selezione spontanea fra gli stabilimenti, le cui iniziali apposte al nome e cognome del professionista lo accreditano e giustificano onorari più elevati e quelli, le cui iniziali segnalano che il diplomato è di qualità inferiore. Poiché in parecchie facoltà umanistiche nostrane (giurisprudenza, commercio ecc.) si iscrivono giovani, i quali non hanno attitudine od aspirazione ad esercitare la difficile professione del patrocinante od a commerciare per proprio conto e rischio, non vedrei nessun inconveniente che taluni stabilimenti universitari si specializzassero nel distribuire diplomi meno ardui alle migliaia di bravi giovani i quali si contentano di attendere a compiti di uffici pubblici o privati, nei quali non è richiesta iniziativa, ma solo diligenza, zelo e senso del dovere. Una distinzione spontanea fra i due tipi del professionista o dirigente e dell’impiegato si opererebbe attraverso l’uso di differenti iniziali.

Se, attraverso il piccolissimo espediente dell’uso obbligatorio di iniziali, si può inserire un po’ di salutare rivalità anche fra stabilimenti di tipo napoleonico, il distacco rimane, tuttavia, profondo. Il distacco meglio si vede se, abbandonando le denominazioni storico-geografiche di “napoleonico” e “anglosassone”, noi adottiamo parole consuete nel linguaggio economico. Il tipo napoleonico assume così la denominazione di “monopolistico”; ché è proprio del monopolio l’assunzione in esclusiva dell’esercizio di un ramo dell’attività umana. Il monopolio non è privato, ma pubblico; non ha fini di lucro, ed è esercitato nell’interesse delle nuove generazioni; ma non perciò la denominazione è impropria, ché essa è correttamente applicata ad un’attività la quale riceve le direttive dallo stato, non può essere esercitata senza il consenso ed il controllo di autorità pubbliche, ed ha al suo termine la consecuzione di un diploma, a cui solo lo stato attribuisce valore legale ed è ottenuto, dopo esami detti di stato, esclusivamente a mezzo di organi statali. Non monta che, accanto alle scuole statali, esistano scuole private, massimamente gestite da ordini, congregazioni od enti ecclesiastici. Queste insegnano e concedono diplomi secondo criteri posti dallo stato e per delegazione statale. Dei molti fatti relativi alla scuola, dei quali scarsa notizia si ha dai più per la difficoltà di conoscere il funzionamento effettivo di istituti di cui la legge traccia solo i lineamenti essenziali; uno, casualmente appreso, mi fece una singolare impressione. In Italia non esistono “seminari” diocesani veri e proprii, nel senso di istituti con contenuto proprio di studi adatti a coloro i quali hanno la vocazione ecclesiastica od aspirano al ministero sacerdotale. Ero persuaso, non so perché, che il seminario fosse un istituto specificamente costrutto per la formazione del clero. Mai no; i seminari sono scuole medie, ginnasi e licei uguali in tutto agli istituti statali di ugual nome; con gli stessi programmi, con le medesime regole per il reclutamento del personale insegnante, con il medesimo valore legale, assicurato dai medesimi esami di stato. Una ragione pratica spiega il fatto; ed è l’opportunità di non allontanare giovinetti, dei quali la vocazione per il sacerdozio è incerta – e forse il maggior numero degli iscritti al seminario, terminati gli studi, non abbraccia il ministero sacerdotale – ed a cui pure giova, religiosamente, l’educazione impartita in un istituto governato da ecclesiastici, dove è fornita, accanto all’istruzione regolamentare per i ginnasi ed i licei e ad incremento di questa, in corsi complementari o nei seminari metropolitani una particolare più profonda istruzione religiosa. Ragione per fermo grave, la quale spiega il fatto; ma non scema la singolarità del peso grandissimo che il monopolio statale esercita persino sul tipo di istruzione che parrebbe dover essere ed un tempo era costruita in maniera sua propria, adatta a perseguire l’altissimo ufficio di preparazione al ministero ecclesiastico. Il monopolio statale tutto adegua a se stesso: non più seminari governati da dotti teologi; ma ginnasi – licei uguali in tutto ai comuni ginnasi – licei, nei quali insegnano laureati, secolari o ecclesiastici, forniti di diploma ufficialmente firmato e bollato. Forse, invece che di monopolio di stato, sarebbe appropriato parlare di duopolio di stato e chiesa o di polipolio di stato, chiesa e privati intesi, al margine, alla preparazione dei giovani già rifiutati dalle scuole statali; ma la sostanza poco muta: l’istruzione è compito della pubblica autorità. Possono nascere competizioni fra i varii aspiranti all’esercizio dell’ufficio pubblico; e la gara si svolge da noi sovratutto fra stato e chiesa; non competizione vera e propria fra enti i quali liberamente intendono ad istruire secondo criteri proprii; ma partecipazione ad un privilegio a cui si è dato valore e carattere pubblico. Quella che in regime di libertà sarebbe competizione feconda, in regime di monopolio diventa lotta per accaparrarsi; le nuove generazioni costrette dalla legge ad abbeverarsi a un’unica fonte di ispirazione ideale e a sottomettersi ad ugual tirocinio per conseguire il documento che unicamente apre le porte alla vita civile. Il peggio del sistema monopolistico non è neppure la necessità di assoggettamento al documento legale; è l’assoggettamento ad un’unica fonte ideale. A seconda prevalgano le tendenze dette laiche o quelle ecclesiastiche, or prevale l’idea insegnata dallo stato or quella propugnata dalla chiesa; ed ogni volta un’idea, se pur c’è, sopraffà l’altra; sicché le mutazioni sono a scatti; non determinate da riforma nei metodi di insegnamento, da necessità di tener conto delle nuove scoperte scientifiche o da nuove correnti del pensiero; bensì dal prevalere di correnti o partiti politici.

La conclusione di questo scritto non è che il sistema seguito nel tipo monopolistico di insegnamento debba essere, dove esista, abbandonato in favore del sistema opposto. In ogni paese il passato domina giustamente il presente e l’avvenire. Non si mutano d’un colpo tradizioni, metodo di reclutamento degli insegnanti, metodi di giudizio degli studenti; e se si fa, d’un tratto, il tentativo, nasce male peggiore di quello al quale si vorrebbe rimediare. Ho voluto soltanto togliere di mezzo un equivoco, il quale a tanti uomini, giustamente preoccupati della necessità di garantire la libertà della scuola, fa credere che la salvaguardia di essa sia lo stato, con la sua imparzialità fra le diverse correnti spirituali, la sua oggettività nella scelta degli insegnanti, il rigore nel giudizio sui giovani, provenienti dalle scuole pubbliche ovvero da quelle private, l’assicurazione data, a mezzo di un documento legale, dell’attitudine dei licenziati o diplomati o laureati ad esercitare arti professioni od impieghi. Ho tentato dimostrare che il sistema non garantisce affatto la libertà della scuola. Come per ogni altro problema politico, può darsi che il legislatore e il politico siano stati e siano di nuovo costretti a commettere errori da circostanze economiche sociali e politiche le quali superano le forze di resistenza della verità. Altro è tuttavia l’errore commesso da chi sa che quello è l’errore, da quello voluto da chi è persuaso di essere nel vero. Colui il quale conosce l’errore, vi si può rassegnare politicamente perché tiene conto dei maggiori rischi che altrimenti si farebbero correre alla cosa pubblica; ma l’errore è commesso con temperamenti e con modalità che in prosieguo di tempo potranno essere utilizzati per ritornare alle soluzioni giuste. Colui il quale invece è persuaso, commettendo l’errore, di essere nel vero, lo conduce ai suoi estremi e rende difficile il ritorno alla via buona. Ho voluto, nelle pagine che precedono, soltanto dimostrare che il tipo monopolistico non è sinonimo di libertà della scuola; e che i tentativi, anche minimi, anche formali compiuti nel senso di attribuire il merito o la taccia, la lode o il rimprovero per i risultati ed i diplomi conseguiti alla fine dei corsi non ad una mitica autorità pubblica, ma ai corpi accademici, alla scuola, alla università ai quali singolarmente spetta la responsabilità effettiva, che gli sforzi atti a distruggere a poco a poco il pregiudizio del valore legale erga omnes del titolo scolastico, ed a restaurare il principio che del valore dei titoli sono giudici unicamente coloro i quali volontariamente ricorrono ai servizi dei diplomati, sono tentativi e sforzi utilmente condotti a vantaggio della libertà. È ovvio che i tentativi non possono ridursi a quello minimo e gratuito dell’obbligo di dichiarare il nome dell’istituto il quale rilasciò diplomi di licenza, maturità o laurea. Se i concorrenti agli uffici pubblici e privati avessero la facoltà e non l’obbligo, oggi imposto in tutti i bandi per pubblici impieghi, di dichiarare i diplomi da essi posseduti, ciò significherebbe che i datori di lavoro avrebbero vista la verità essenziale qui affermata, non avere il diploma per se medesimo alcun valore legale, non essere il suo possesso condizione necessaria per conseguire pubblici e privati uffici, essere la classificazione dei candidati in laureati, diplomati medi superiori, diplomati medi inferiori, diplomati elementari e simiglianti distintivi di casta, propria di società decadenti ed estranea alla verità ed alla realtà; ed essere perciò libero il datore di lavoro, pubblico e privato, di preferire l’uomo vergine di bolli. Poiché, in regime di libertà, sarebbero preferiti, di fatto, i diplomati capaci, si darebbe cominciamento all’opera intesa a dare nuovo pregio a quelli che oggi sono meri pezzi di carta intesi a creare aspettative di ansie e ad esaltare il compito degli stabilimenti volti ad attribuire diplomi serii di studi severi.

Solo per ragioni di esempio geografico, dissi anglosassone il metodo opposto a quello monopolistico; ché esso meglio si dice “di libertà”. Ad esso dobbiamo, con sforzo continuo, ritornare; ritornare, dico, perché esso è il metodo eterno di tutti i tempi e di tutti i paesi nei quali più feconda è stata la scuola; quando Bologna, Padova, Pavia e Parigi vedevano consacrata da diplomi imperiali o da bolle pontificie una università, già nota e viva ed operosa perché lettori famosi avevano eletto stanza in quella città ed avevano, con lo splendore della loro dottrina, attirato a sé gli scolari vaganti d’Europa ed avevano ivi fatto rifiorire gli studi umanistici e fisici. Il metodo ”di libertà” si fonda sul principio del tentativo e dell’errore. Trial and error è il motto appropriato alle scuole in cui domina la libertà. Nulla è certo in materia di insegnamento; non sono certi i programmi, non gli ordini degli studi,  non è certa neppure l’esistenza di alcuna scienza. Non è certo siano buoni i metodi accolti negli stabilimenti a tipo di libertà; e non è affatto certo che essi conducano sempre al bene. Ma vi ha una differenza fondamentale fra l’uno e l’altro tipo; ché quello monopolistico consente i mutamenti solo quando essi sono consacrati da un’autorità pubblica; laddove il metodo di libertà riconosce sin dal principio di potere versare nell’errore ed auspica che altri tenti di dimostrare l’errore e di scoprire la via buona alla verità. Questa è tutta la differenza fra il totalitarismo e la libertà. Il totalitarismo vive col monopolio; la libertà vive perché vuole la discussione fra la libertà e l’errore; sa che, solo attraverso all’errore, si giunge, per tentativi sempre ripresi e mai conchiusi, alla verità. Nella vita politica la libertà non è garantita dai sistemi elettorali, dal voto universale o ristretto, dalla proporzionale o dal prevalere della maggioranza nel collegio uninominale. Essa esiste sinché esiste la possibilità della discussione, della critica. Trial and error; possibilità di tentare e di sbagliare; libertà di critica e di opposizione; ecco le caratteristiche dei regimi liberi. Così è della scuola. Essa è viva e feconda, sinché chiunque abbia diritto di dire: gli altri sono in errore e io conosco la via della verità; ed apro una scuola mia nella quale insegno che cosa sia la verità e proclamo dottori in quella verità gli scolari che, a mio giudizio, l’abbiano appresa. Ma chiunque altro ha ragione di insegnare una verità diversa, con metodo diverso. In ogni tempo, attraverso tentativi ed errori ognora rinnovati abbandonati e ripresi, le nuove generazioni accorreranno di volta in volta alle scuole le quali avranno saputo conquistarsi reputazione più alta di studi severi e di dottrina sicura.

Trieste

Trieste

«Corriere della Sera», 5 ottobre 1954[1]

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 90-101

Il padre dei fratelli Cervi

Il padre dei fratelli Cervi

«Il Mondo», 16 marzo 1954[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 140-144

Scritti di Luigi Einaudi nel centenario della nascita, Sansoni, Firenze, 1975, pp. 79-84

Il padre dei fratelli Cervi, Nottetempo, Roma, 2004

 

 

 

 

Entrano nello studio del presidente della repubblica il padre dei sette fratelli Cervi, fucilati dieci anni fa dai nemici degli uomini, il magistrato Peretti Griva, già presidente della corte di appello di Torino, l’on. Boldrini, medaglia d’oro della resistenza e Carlo Levi, scrittore e pittore, il quale reca l’originale del ritratto da lui dipinto dei sette fratelli.

 

 

Il padre, che porta sul petto le medaglie dei sette figli morti per la patria, ricorda al presidente di averlo già incontrato in Reggio Emilia. Il presidente aveva letto, in un articolo di Italo Calvino, che tra i libri dei sette fratelli, si noverano alcuni fascicoli della rivista «La Riforma Sociale», un tempo da lui diretta e poi soppressa dal regime fascistico e dice al padre della sua commozione per poter così pensare con orgoglio ad un suo rapporto spirituale coi martiri.

 

 

Il padre racconta:

 

 

– Sì, i miei figli leggevano molto, erano abbonati a riviste; e cercavano di imparare. Se leggevano qualcosa che pareva buono per la nostra terra, si sforzavano di fare come era scritto. Quando abbiamo preso il fondo in affitto, ed erano 53 biolche di 2922 metri quadrati l’una (circa 15 ettari e mezzo), vedemmo sul terreno monticelli e buche. I figli avevano letto che se la terra sopravanzante sui monticelli fosse stata trasportata nelle buche, il terreno sarebbe stato livellato e sul terreno piano i raccolti sarebbero venuti meglio. Subito acquistarono vagoncini di quelli usati dai terrazzieri sulle strade e si diedero a levare la terra dai tratti alti e metterla nelle buche. I vicini passavano, guardavano e scuotevano la testa: «I Cervi sono usciti pazzi. Dove andrà l’acqua che ora finisce nelle buche? Quando tutto sarà piatto come un biliardo, l’acqua delle grandi piogge ristagnerà dappertutto e frumenti ed erbai intristiranno annegati». Ma i figli avevano dato al terreno, fatto piano, una leggerissima inclinazione; sicché quando le grandi piogge vennero e quando d’accordo con altri tre vicini, fittaioli di poderi appartenenti alla stessa famiglia del nostro padrone, facemmo un impianto per sollevare le acque ed irrigare a turno i terreni, dopo due ore la terra è irrigata ma di acqua non ce n’è più. Coloro che avevano detto che i Cervi erano pazzi, ora riconoscono che noi eravamo i savi e tutti nei dintorni ci hanno imitato.

 

 

– Anch’io, osserva il presidente, quando un terzo di secolo fa smisi di fare i fossi in collina per le vigne e di riempirli di fascine e di letame, ed invece eseguii lo scasso totale, senza concimazione e misi le barbatelle, innestate su piede americano, in terra tali e quali, quasi alla superficie, dopo aver resecate le radicette a un centimetro di lunghezza, i vicini i quali dallo stradone provinciale osservavano quel brutto lavoro, scuotendo il capo se ne andavano: il professore è uscito matto e dovrà rifare il lavoro. Quando videro però che le viti venivano su più belle di quelle dei fossati e del letame, ci ripensarono ed ora tutti fanno come avevano visto fare a me.

 

 

Il presidente: – Ed in quanti vivete su quelle 53 biolche?

 

 

Il padre: – Io, il nipote, le quattro vedove, e gli undici figli dei figli, in tutto diciassette. I figli prima ed ora noi abbiamo faticato assai. Abbiamo ricevuto dal padrone la casa e la terra; ed avevamo quattro vacche e pochi arnesi. A poco a poco i figli comprarono due trattori, uno grande per i grossi lavori ed uno più piccolo per i lavori leggeri; abbiamo falciatrici, mietitrici, aratri ed ogni sorta di arnesi. Il fondo di fieno e mangime è tutto nostro. Nelle stalle vivono una cinquantina di vacche ed un bel toro. Il toro lo comprammo in Svizzera, ma viene dall’Olanda ed è originario americano. Col toro ci hanno dato le sue carte; ma noi siamo stati sicuri di lui solo quando abbiamo conosciuto la figlia sua e poi la figlia della figlia. A venderlo come carne, prenderemmo pochi soldi; ma, vivo, non lo do via neppure se mi offrono un milione di lire. Questo – trattori, macchinari, fondo di vettovaglie, vacche, toro – è il “capitale” ed è nostro, di tutti noi.

 

 

– Anche del nipote?

 

 

– Il nipote non è figlio, ma è come lo fosse. Quando uscii dalla prigione e, tornato a casa, non trovai più i figli e mi dissero che li avevano uccisi, vidi il nipote.

 

 

Le nuore: – È venuto per aiutarci, mentre eravamo sole.

 

 

– Dopo qualche giorno, poiché il nipote aveva dimostrato di essere un buon ragazzo, radunai le nuore e: «Bisogna stabilire le cose per il nipote. Lo teniamo come giornaliero? Avrà diritto alle otto ore, alle feste, al salario che gli spetta. Lo fissiamo come servo? Dovrà essere trattato come salariato ad anno e dovranno essergli riconosciuti il salario e gli altri diritti del salariato. Lo riconosciamo parente? Il trattamento sarà quello che gli spetta come parente. Che cosa ne dite voi?».

 

 

Le nuore: – Padre, quello che voi direte, per noi è ben detto. Voi dovete decidere.

 

 

Il padre: – No. Voi, nuore, rappresentate i figli uccisi ed i figli dei morti sono vostri figli. Voi dovete parlare.

 

 

Le nuore: – Noi non sappiamo parlare. Chi deve parlare siete voi, padre.

 

 

Il padre: – Siccome lo volete, il mio avviso è questo; ed ho detto quel che pensavo. Avete quattro giorni di tempo per pensarci. Adesso non dovete parlare. Quando i giorni saranno passati, ritornerete e direte il vostro pensiero. E le donne ritornarono al lavoro.

 

 

Il presidente, il magistrato, la medaglia d’oro e lo scrittore pittore attoniti ascoltavano il padre. Questi parlava lentamente, scandendo le parole e ripetendole per fissarle bene nella testa degli ascoltatori. Era un contadino delle nostre contrade, un eroe di Omero od un patriarca della Bibbia? Forse un po’ di tutto questo. Dagli arazzi napoletani del 1770,

stesi sulle pareti dello studio, il pazzo don Chisciotte pareva ascoltasse la parola dell’uomo saggio.

 

 

– Prima che fossero trascorsi i giorni fissati, dopo soli due giorni, le donne tornarono al padre, dicendo: Abbiamo pensato e quel che è il vostro consiglio rispetto al nipote è anche il nostro.

 

 

Il padre: – Sapete voi se il nipote intenda rimanere con noi?

 

 

Le donne: – Sì, padre, noi lo sappiamo.

 

 

Il padre: – Ciò è bene; ma io non posso parlare al nipote prima di aver parlato al padre ed alla madre di lui. Il nipote non può uscire dalla sua famiglia ed entrare nella nostra se i suoi genitori ed i suoi fratelli non lo sanno e non sono contenti.

 

 

Non stavano in un paese molto lontano ed andai a parlare al padre del nipote, che era mio fratello. Fratello, dissi, il nipote tuo figlio ha detto di volere rimanere con noi.

 

 

Il fratello e la cognata: – Lo sapevamo. Il figlio l’aveva detto quando era partito di qui per andare ad aiutare le donne, a cui avevano uccisi i mariti. Noi siamo contenti.

 

 

– Se così è, il nipote entrerà nella nostra famiglia. E, tornato a casa, radunai le quattro buone donne e il nipote e dissi: Il fratello e la cognata sono contenti che il nipote rimanga con noi. Ed io dico: i sette figli sono stati uccisi e voi, donne, siete al loro luogo. Ma abbiamo bisogno di un uomo, che diriga le cose. Io sono vecchio e non posso più fare come una volta. Il nipote starà insieme con noi e sarà come fosse un figlio. Quando io non ci sarò più, il “capitale” sarà diviso in cinque parti uguali, fra le quattro nuore ed il nipote.

 

 

Così fu deciso e così si fa. Nella casa lavoriamo, ciascuno secondo le sue forze, in diciassette; ed il nipote sta a capo, lavora, compra e vende. Lui e le donne chiedono sempre il mio consiglio ed io consiglio per il bene di tutti.

 

 

Poi i genitori del nipote ed i suoi fratelli vollero spartire quel che c’era in casa al momento che il nipote li aveva lasciati e diedero a lui la parte che gli spettava. Ed egli volle fosse data alla famiglia in cui era entrato. Ed io dissi: noi non l’avevamo chiesta. Ma tu la dai alla famiglia ed entrerà a far parte del “capitale”. Diventerà proprietà comune; e come il resto sarà diviso in cinque parti.

 

 

Il presidente, il magistrato, la medaglia d’oro e lo scrittore pittore guardavano al padre e vedevano in lui il patriarca il quale, all’ombra del sicomoro, dettava le norme sulla successione ereditaria nella famiglia. Assistevamo alla formazione della legge, quasi il codice civile non fosse ancora stato scritto.

 

 

Il presidente, rivolto allo scrittore pittore, il quale conosce i contadini dei suoi paesi e sono uguali ai contadini di tutta Italia interrogò: forseché i sette fratelli si sarebbero sacrificati se non fossero stati un po’ pazzi costruttori della loro terra e se il padre non fosse stato un savio creatore della legge buona per la sua famiglia? Si sarebbero fatti uccidere per il loro paese, se fossero stati di quelli che noi piemontesi diciamo della “lingera” e girano di terra in terra, senza fermarsi in nessun luogo? Lo scrittore pittore rispose: Credo di no; il magistrato e la medaglia d’oro consentirono. Ed il presidente chiuse: Credo anch’io di no e strinse la mano al padre ed a tutti.



[1] Con il titolo Il Vecchio Cervi [ndr].

Di alcuni errori e timori volgari

Di alcuni errori e timori volgari

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 610-624[1]

 

 

 

 

Per ora nessuno propone di includere cinesi, giapponesi ed indiani nella costituenda federazione europea; epperciò questa potrà, se lo riterrà opportuno, difendersi, circondandosi di una barriera doganale bastevolmente alta, contro l’importazione delle merci a buon mercato prodotte dalle genti divoratrici di riso; ma non è fuor di luogo chiarire quanto siano infondate le preoccupazioni di coloro i quali temono, dalla costituzione di un grande mercato europeo, entro il quale uomini e merci possano liberamente muoversi, danni senza numero per il loro paese.

 

 

Questi danni sono convenientemente descritti in maniera pittoresca con frasi del seguente tipo: il paese sarà “inondato” da merci estere a buon mercato; ci sarà una “invasione” di merci a basso prezzo, contro la quale i produttori nazionali saranno impotenti a resistere; in breve ora, dinnanzi alla strapotenza dei concorrenti esteri agguerriti, forniti di capitali a buon mercato, la capacità di acquisto del paese sarà esaurita. Esaurite le poche scorte d’oro, incapace a vendere all’estero le proprie merci a prezzi abbastanza bassi, con che mezzi il paese acquisterà ancora il necessario per alimentarsi e vivere? Gli stranieri si precipiteranno come cavallette sul paese, acquisteranno a vil prezzo le nostre terre, le nostre case e le nostre fabbriche, sin che alla fine i nazionali siano ridotti allo stato di salariati proletari, al soldo del forestiero; – ovvero, se vorremo mantenerci indipendenti, mancherà il lavoro, i fumaioli saranno lasciati spegnere, le maestranze dovranno emigrare in cerca di pane; e il paese ritornerà allo stato di pastorizia e della caccia. Rimarranno nelle città guide per istruire e mendicanti per divertire i forestieri amanti di antichità, di musei e di rovine.

 

 

Il quadro è terrificante; ma deriva gran parte del suo valore dall’uso di figure rettoriche le quali non hanno niente a che vedere con la sostanza del problema. Le parole “inondazione”, “invasione”, “guerra economica”, “conquista” sono importate da fatti che appartengono ad un mondo tutto diverso da quello degli scambi economici, dei quali unicamente si tratta. Un terreno è “inondato” dall’acqua straripante dai fiumi e torrenti quando l’acqua, coprendolo di sabbia e di sassi, distruggendo raccolti, colmando canali, guastando strade e piantagioni, ne riduce per anni ed anni la produttività ed è causa di sforzo grande per ricondurlo alla fertilità antica. In che modo possiamo assimilare a tal fatto, indubbiamente dannoso, l’importazione a basso prezzo di prodotti esteri? Importazione di frumento a 15 lire ante 1914 al ql., invece che a 25 od a 30, per sé significa soltanto messa a disposizione di uomini di una massa maggiore di frumento. Anche se l’inondazione di frumento giungesse sino al punto, che è assurdo, di consentirci di entrare gratuitamente in possesso del frumento necessario ai nostri bisogni, il fatto in non potrebbe da nessuno essere considerato dannoso. Eliminata la necessità di fare lo sforzo necessario a procurarci il frumento, noi potremmo dedicare tutta l’opera nostra, resa così disponibile, a far qualcos’altro; per esempio, a fabbricare, perdendo all’uopo solo una parte del tempo reso libero dal regalo che qualcuno ci farebbe della materia prima, pane così ben fatto, di forme ed aspetti così diversi ed attraenti, paste alimentari così ben confezionate ed a prezzi così bassi, da essere accessibili a tutte le borse e così gradite al palato da crescere l’appetito e la salute dei felici consumatori. Questo, e nient’altro, vuol dire per se stessa “l’inondazione” delle merci estere.

 

 

Parimenti, “l’invasione” delle medesime merci non è connessa col clangore delle trombe, con il fischio delle palle, il tuonare dei cannoni, l’urlo delle bombe cadenti dall’alto, il fumo ed il terrore degli incendi, con cui nella immaginazione degli uomini è connessa l’invasione nemica vera e propria. L’invasione delle merci estere è per se medesima connessa con l’idea di offerte attraenti al prezzo 5 per merci che noi eravamo abituati ad acquistare al prezzo 6 od 8 o 10, di merci più solide o nuove al posto di altre di scarsa durata e di forma antiquata, di cataloghi ben redatti, i quali ci offrono piantine straniere di rose – novità al prezzo di 1 lira l’una al luogo di piantine nazionali al prezzo di lire 2, di commessi i quali ci assicurano che quella stoffa è pura lana forestiera, laddove quella nazionale è mista di cotone e di rayon. Se le allegazioni sono vere, quella è per fermo una invasione sui generis, dalla quale non ci sentiamo danneggiati, una invasione la quale per sé cresce la comodità della nostra vita. In fondo in fondo noi ci augureremmo che così gentile invasione giungesse sino al punto di riempirci la casa di ogni ben di Dio mangereccio, di mobili eleganti, di ninnoli graziosi, di scarpe e di vestiti durevoli e gradevoli all’occhio.

 

 

Se qualche dubbio rimane in noi dinnanzi ad inondazioni ed invasioni di indole così peculiare, esso deriva da una preoccupazione: di non avere i mezzi di provocare inondazione ed invasione, di essere ridotti allo stato del re Mida che moriva di fame perché tutto quel che toccava si convertiva in oro. Al contrario, noi non potremmo, per mancanza di mezzi, toccar nulla delle belle cose straniere, le quali ci inonderebbero, ci invaderebbero, ci assalirebbero da ogni parte. Non potremmo nulla toccare perché le merci stesse straniere ci avrebbero privati dei mezzi di acquistarle.

 

 

Come ciò possa accadere, si tenta di spiegare nella seguente maniera: il consumatore nazionale, provveduto di una data somma di denaro, andando sul mercato segue la regola della miglior sua convenienza; e se la merce straniera, di uguale qualità, gli è offerta a prezzo minore, sceglie questa. I produttori nazionali sarebbero nella impossibilità di vendere e quindi di produrre. E poiché nessun consumatore è tale, nessuno è provveduto di denaro se non ha prima venduto qualcosa – il suo lavoro, i servigi della sua casa, del suo terreno, della sua industria -, se nessuno ha potuto vendere niente per la concorrenza al ribasso della merce estera, nessuno è provveduto di denaro e nessuno può acquistare le merci estere delle quali benevolmente i produttori stranieri ci vorrebbero inondare, o con le quali essi vorrebbero invadere le nostre case. L’inondazione o l’invasione producono così l’effetto terrificante di inaridire i nostri campi, di spegnere i nostri fumaioli pure restandosene nell’alveo dei fiumi o non valicando i sacri limiti della patria. Basta, in questo genere particolarissimo di operazioni belliche, la pura minaccia per produrre l’effetto voluto dal nemico.

 

 

In verità non si comprende quale vantaggio possa il nemico ripromettersi da una siffatta condotta della guerra economica. Vuole o non vuole l’avversario – seguitiamo per il momento ad usare la barocca terminologia usata per indicare la persona di chi ci offre, senza costringerci ad accettare, una merce a noi presumibilmente gradita ad un prezzo minore di quello preteso da altri – vuole o non vuole venderci la sua merce? Se sì, quale interesse ha a privarci del mezzo di acquisto? Per lui la vendita non ha lo scopo di procurarsi denaro. In ogni caso non ha lo scopo di procurarsi la moneta nazionale, che oggi in ogni paese consiste di biglietti, pezzi di carta stampata con su certe parole e certi ghirigori, i quali non hanno corso se non nel paese d’origine. Lo scopo, al più, è quello di procacciarsi moneta universale, avente corso dappertutto, ossia moneta d’oro.

 

 

Ma l’esperienza, ovvia costante e generalissima, ci dice che neppure questo è il fine vero dello scambio. Gli uomini quando hanno ricevuto oro, moneta universale, non trovano ad essa nessun uso diretto. A meno di essere avari, assorti nella contemplazione e nel palpeggio delle monete d’oro, ognuno si affretta a cambiare l’oro, in merci, in derrate, in servigi (fitti di casa, rappresentazioni teatrali, viaggi, servigi personali di domestici, di parrucchieri, di manicuri, ecc. ecc.). Se, per il momento, l’uomo non ha desideri abbastanza intensi da indursi a separarsi dalla moneta, la deposita in banca, riservandosi di ritirarla più o meno presto, quando vorrà convertirla in merci o servigi; e la banca la dà a mutuo a chi se ne serve per comprare merci o servigi (materie prime e mano d’opera per l’esercizio dell’industria sua), salvo a restituirla quando avrà rivenduto il prodotto delle sue operazioni industriali.

 

 

In ogni caso il produttore produce merci e le vende non per procurarsi denaro, il quale non ha per lui nessuna utilità diretta, bensì, per mezzo del denaro, per acquistare le merci ed i servigi dei quali ha bisogno. L’avvocato dà pareri, in parte per il gusto di esporre la propria opinione su argomenti che lo interessano; ma dal punto di vista economico, dà pareri allo scopo di procurarsi vestiti, alimenti, casa, riscaldamento per sé e per la famiglia. L’artigiano intarsia, sì, con diligenza lo stipo, ordinatogli dal cliente, perché a lui piace il lavoro ben fatto; ma lo scopo del suo lavoro non è di fabbricare e possedere stipi intarsiati, ma, col mezzo di questi, provvedere sé e la famiglia di alimenti, scarpe, vestiti, casa, medicine e via dicendo. Lo scopo della sua produzione non sono le cose da lui prodotte; sono quelle da lui desiderate ed acquistate. L’avvocato e lo stipettaio hanno riflettuto che se volessero da sé produrre le scarpe, i vestiti, gli alimenti, l’appartamento di cui hanno bisogno, non verrebbero probabilmente a capo di nulla; e, volendo far tutto da sé, si ridurrebbero a vivere, come i selvaggi o come Robinson Crosuè, in grotte od in capanne di frasche, miseramente ed in continuo affanno di morire di fame o di freddo; ed hanno concluso che il partito migliore era quello di fabbricare solo pareri o solo stipi. Essi si sono specializzati in questa bisogna, e vi hanno raggiunto un grado più o meno alto di eccellenza.

 

 

Così hanno fatto tutti gli altri uomini; e così è nata quella la quale si chiama divisione del lavoro. La quale non conosce confini di stati o di province o di comuni. Se non esistessero dazi e confini e passaporti, tutto il mondo sarebbe un paese solo; e tutti gli uomini si scambierebbero i loro prodotti l’un l’altro. A nessuno verrebbe in mente di parlare di inondazioni di stipi in casa dell’avvocato e di pareri in casa dello stipettaio; perché tutti comprenderebbero che l’avvocato ricorre allo stipettaio soltanto quando desidera uno stipo e che lo stipettaio ricorre all’avvocato soltanto quando sa di avere vantaggio ad ascoltarne il parere. Non occorre, perché lo stipettaio possa vendere lo stipo all’avvocato, che egli attenda il momento, che potrebbe non giungere mai, di aver bisogno dei suoi pareri. A questo mondo basta che ci sia sempre qualcuno bisognoso di pareri d’avvocato, per esempio, il sarto a cagione di un cliente litigioso. Il sarto chiede e paga il parere dell’avvocato; questi, colla moneta ricevuta acquista lo stipo; e lo stipettaio a sua volta si fa fare il vestito dal sarto. Così il sarto ha avuto il parere, che era il bene da lui desiderato, l’avvocato possiede e gode lo stipo e lo stipettaio veste panni. Estendiamo a 100, a 1.000, ad un milione, a 100 milioni di persone l’esempio ora fatto per tre persone e, salvo la complicazione, nulla sarà cambiato al quadro.

 

 

In regime di divisione del lavoro, ognuno produce non per sé, ma per gli altri; ed ognuno valuta il prezzo della merce da lui acquistata in ragione del costo, della fatica sopportata nel produrre la merce da lui data in cambio. Per l’avvocato il costo dello stipo non è dato dal numero delle lire da lui pagate per acquistarlo, ma dalla fatica durata, dal tempo consumato nel pensare e nell’elaborare il parere da lui dato al sarto. Le lire sono numeri astratti, che per sé non significano nulla. Quel che conta è la fatica, l’energia mentale spesa nel produrre il parere. Si potrebbe anche dire che per l’avvocato il costo dello stipo è dato dal sacrificio sofferto nel rinunciare a quell’altro bene, ad esempio, un grande trattato giuridico, a cui egli ha preferito lo stipo. Mentalmente, lo stipettaio reputerà caro od a buon mercato l’abito nuovo paragonandolo al numero di giorni consumati ed all’abilità impiegata nel fabbricare lo stipo. Se egli, vendendo lo stipo, riesce a procurarsi un vestito, un paio di scarpe ed un cappello, riterrà di avere avuto tutta questa roba a buone condizioni; se solo il vestito, si lagnerà che il lavoro dello stipettaio è male remunerato. E così per il sarto.

 

 

Le merci ed i servigi si pagano con le merci ed i servigi; ed il denaro serve solo per facilitare gli scambi. Se l’avvocato e lo stipettaio si trovassero uno di fronte all’altro, non avverrebbe alcuno scambio; che l’avvocato desidera bensì lo stipo, ma lo stipettaio non sa cosa farsene dei pareri dell’avvocato. Per fortuna c’è il sarto, il quale ha litigato con il suo cliente ed ha urgenza del parere dell’avvocato; mentre lo stipettaio è disposto a farsi fare il vestito dal sarto; e così tutte le cose si accomodano.

 

 

Si accomoderebbero anche fra sarti, stipettai ed avvocati o meglio tra fabbricanti di panni inglesi, segherie produttrici di assi per mobili della Scandinavia e fioristi della riviera ligure, se i singoli stati non costituissero unità territoriali separate e non venisse in mente l’idea balzana che gli scambi, invece di verificarsi tra fabbricanti di panni inglesi, i quali hanno bisogno di mobili fabbricati con assi scandinave; segherie scandinave, i cui proprietari vogliono rallegrare le loro mense con fiori freschi recisi liguri, e fioristi liguri, i quali vogliono vestire panni inglesi, si verifichino invece fra Inghilterra, Svezia ed Italia. Ed allora, invece di concepire i tre scambiatori come tre brave persone le quali, dopo avere un po’ litigato sul prezzo, si mettono d’accordo per effettuare lo scambio tripartito conveniente a tutti e tre, si guarda a tre stati, a tre paesi, a tre nazioni le quali, ringhiando l’una contro l’altra, si “inondano”, si “invadono” reciprocamente con merci destinate a mandare in rovina il nemico, l’avversario intento a distruggere l’industria nazionale.

 

 

Nove decimi delle contese fra stato e stato derivano da finzioni e trasposizioni verbali di questo genere; ma questa è certamente la più balzana fra le figure rettoriche, adoperate nel linguaggio volgare e politico per rappresentare tragicamente un fatto elementare della vita quotidiana: gli scambi avvengono a causa della divisione del lavoro, introdottasi tra gli uomini per accrescere la massa di ricchezza prodotta da tutti, e per accrescere quindi la massa di beni che ognuno può procacciarsi vendendo agli altri le cose da lui stesso prodotte in maggiore abbondanza, grazie alla specializzazione del lavoro.

 

 

Non vi è uomo, per quanto inabile e scarsamente fornito di capitali, il quale qualcosa non sia in grado di produrre. Anche l’agricoltore italiano, il quale sia ridotto a coltivare un terreno ingratissimo, qualcosa è in grado di produrre. Egli può scegliere due vie: o coltivare in quel terreno tutte le derrate di cui ha bisogno; frumento, granoturco, erba per le pecore, bosco per trarne legna da riscaldamento, viti per il vino, olivi per l’olio, ortaggi per il desco familiare. Egli spera in questo modo di non aver bisogno di acquistare nulla, ché il poderetto gli fornisce tutto ciò di cui ha bisogno. Nel forno familiare cuocerà egli stesso il pane; la donna sua gli filerà e tesserà la lana delle pecore; nel frantoio e nella cantina produrrà olio e vino; ortaggi e frutta basteranno alla parca mensa. Oppure egli, osservando che nel pascolo l’erba viene grama, le viti non prosperano e le pannocchie di grano – turco riescono stente, si ridurrà a coltivare, oltre l’orto di casa, frumento alternato con colture erbacee miglioratrici ed a curare bene e rinnovare gli olivi esistenti sul fondo.

 

 

In verità, egli non ha la libertà di scelta fra le due vie; ché in ogni caso ha bisogno di vendere qualcosa per procacciarsi i beni ed i servizi, che assolutamente non può produrre da sé: le scarpe, i vestiti, il petrolio o l’acetilene o la luce elettrica per l’illuminazione, i servigi pubblici (imposte), i libri scolastici per i ragazzi, le medicine, ecc. Il contadino fa il conto, pressappoco, quale sia l’ammontare complessivo che egli deve spendere in denaro per procacciarsi le cose di cui ha bisogno e che non può cavare dal podere, supponiamo 3.000 lire; e, fatte le sue esperienze, si appiglia a quella combinazione di colture ed a quel reparto della superficie di terreno del suo podere che gli dà, oltre alle derrate da lui direttamente consumate, la possibilità di procurarsi, con il minimo di fatica le 3.000 lire a lui necessarie. Fra le tante combinazioni di frumenti, erbe foraggere (il che vuol dire bestiame grosso o minuto da vendere, latticini, formaggi) ed ulivi, una ve ne sarà che gli dà il desiderato risultato. Se la sua terra è povera, forse non riuscirà a cavarne le 3.000 lire per gli acquisti in denaro; ed in tal caso egli un po’ rinuncerà a consumare una quota ulteriore dei suoi prodotti ed un po’ ridurrà le spese fatte fuori del podere, ad esempio, da 3.000 a 2.500 lire.

 

 

La sterilità della sua terra non gli impedisce di vendere; riduce solo la massa dei beni che egli può offrire in vendita e quella dei beni che egli può comprare. Se un dazio aumenterà il prezzo del suo grano, non perciò cresce la quantità di grano che, con identica fatica, egli si procura; cresce solo la quantità dei beni che egli si può procurare. Egli sta meglio; ma sta peggio il consumatore del grano suo connazionale, il quale sarà costretto ad acquistare il pane a più alto prezzo ed avrà, ad ugual fatica, una massa di beni minore a sua disposizione. Potrà darsi e sarà in media anche probabile, che quel consumatore di pane stenti la vita ancor più del contadino produttore del pane.

 

 

Ad ogni modo, non è vero che la mancanza del dazio protettivo per il grano costringa ad abbandonare i terreni a grano. Costringe a variare le colture per produrre il sovrappiù necessario alla vita e che il contadino non può produrre da sé. Seppoi un terreno è veramente tanto sterile che il contadino, stentando e logorandosi, non riesce a cavarne il necessario ad una vita miserabile, forseché sarà un male se quel fondo ritornerà a pascolo od a bosco e se il contadino, rimasto disoccupato, andrà in città a fare un mestiere che gli dia qualcosa di più di quel che gli offre la terra grama? L’abbandono della montagna, attorno a cui si sparge tanto inchiostro, è un fatto economicamente logico. Invece di consumare 10 o 20 giorni di lavoro a produrre un quintale di segale su un terreno impervio, il montanaro preferisce lavorare 5 soli giorni in fabbrica, lucrando così la somma occorrente per acquistare un quintale di buon frumento. C’è sugo a indurre col dazio il montanaro a seguitar nella coltura della segale con gran fatica, quando, con minor fatica e col solo abbandono della terra a segale in montagna, egli si procura egualmente il buon pane?

 

 

Lo scopo dell’attività umana non è quello di faticare a coltivare terre in luoghi ingrati; ma di far vivere gli uomini in condizioni degne. Se gli uomini ritengono di potersi procacciare i mezzi di vita altrimenti che col coltivar terreni sulla cima del monte Bianco, sarebbe assurdo rendere conveniente ad essi faticar molto per ottenere poco. Anche se questo poco sarà venduto ad alto prezzo, gli uomini potranno nel loro complesso consumar poco e dovranno vivere malamente.

 

 

Posti così, nella loro nudità, i fatti, è evidente essere errata la concezione che comunemente si espone, nel parlare e nello scrivere quotidiano, delle importazioni e delle esportazioni. Per lo più, giornalisti ed uomini politici si rallegrano quando possono annunciare che le importazioni dall’estero sono diminuite e le esportazioni verso l’estero sono aumentate, sia in volume che in denaro. Sembra che il paese arricchisca perché incassa molto e spende poco. Può darsi che ci sia del vero nell’opinione così esposta; se ad esempio ciò vuol dire che noi, esportando un miliardo di più di quanto non abbiamo importato, abbiamo esportato macchine, locomotive, rotaie, ecc. ed abbiamo così fatto investimenti di capitale all’estero, senza subito ottenere il pagamento. Lo otterremo poi, si spera con utile, ricevendo negli anni futuri interessi, dividendi e quote di ammortamento. Può anche darsi che, esportando un miliardo di più dell’importato, abbiamo rimborsato un debito vecchio, liberandoci dell’onere di pagare in avvenire i relativi interessi.

 

 

Possono darsi altre ipotesi ancora, le quali spiegano razionalmente il fatto. Ma, parlando in generale, che cosa vuol dire importare? Evidentemente, ricevere merci e derrate che noi desideriamo e che godremo; le quali ci serviranno a soddisfare nostri diretti bisogni od a fare impianti industriali o migliorie agricole fruttifere in avvenire. Cosa vuol dire esportare? Altrettanto evidentemente, dare merci e derrate che a noi costano fatica, privarcene, rinunciare a farne uso. Le esportazioni sono il sacrificio, il costo da noi sostenuto; le importazioni sono il vantaggio, il bene da noi desiderato.

 

 

Razionalmente discorrendo, i nazionali di qualunque paese hanno interesse a ridurre al più possibile le esportazioni e ad aumentare il più possibile le importazioni. Le esportazioni sono il costo, che noi vorremmo minimo, delle importazioni che noi vorremmo massime. Se noi discorressimo, cosa che è fuor di luogo, in termini morali, dovremmo dire che le esportazioni sono il male e le importazioni sono il bene. Nella vita privata, quando di solito ragioniamo bene, tutti desideriamo esportare poco, ossia dare pochi pareri d’avvocato, pochi stipi o vestiti ed importare in cambio assai; ossia l’avvocato uno stipo preziosamente intarsiato, il sarto un parere ben elaborato che gli faccia vincere la causa col cliente, e lo stipettaio un vestito di lana pura ben confezionato. Poiché tutti desideriamo la stessa cosa: esportare poco ed importare assai, i desideri non possono per nessuno essere pienamente soddisfatti. Il mercato deciderà quali siano le ragioni di scambio, ossia il prezzo dei pareri degli avvocati, degli stipi più o meno bene intarsiati o dei vestiti di lana pura o mista.

 

 

Resta il fatto che nessuno, né individuo, né quella accolta di individui che è detta stato, corre il pericolo, che sarebbe augurabile, di restare soffocato dall’inondazione delle merci. Ognuno compra, ai prezzi del mercato solo quella quantità di beni e servigi che uguaglia quella che può dare in cambio; e nessuno, a meno che egli sia un mendicante od un lestofante, gli darà mai nulla in cambio di niente.

 

 

Una volta che ci si sia ben messi in mente che i beni ed i servigi si scambiano esclusivamente con beni e servigi, verrà meno la preoccupazione che, a sentir parlare di federalismo europeo, è messa innanzi da parti opposte; dai danesi, i quali pagando ai loro casari alti salari per la confezione del burro e del formaggio venduto in Inghilterra, temono la concorrenza del burro e del formaggio della Lombardia, dove i salari monetari sono uguali alla metà di quelli correnti in Danimarca, o, peggio, dei prodotti degli Abruzzi e delle Calabrie, dove forse non arrivano alla quarta parte; e nel tempo stesso dai lombardi e dagli abruzzesi i quali temono, quando tutto il mercato europeo fosse unificato, di non potere resistere alla concorrenza, nonostante i bassi salari da essi pagati, dell’industria casearia danese, fornita di impianti, di meccanismi, di frigoriferi tanto più perfezionati e di mezzi di comunicazione tanto più rapidi.

 

 

Intanto si rifletta che formaggi lombardi e caciocavalli abruzzesi coesistono in Italia; e sinora non si sono distrutti a vicenda, nonostante i bassi salari la primitività dei mezzi produttivi e le abitudini randagie di transumanza degli abruzzesi, ed i più alti salari, la sedentarietà nelle stalle e gli impianti più perfezionati dei lombardi. Se gli abruzzesi sono più sobri ed i lombardi più esigenti, c’è però un punto di incontro nel prezzo dei prodotti rispettivi, i quali, a parità di bontà e di altre qualità di sapore e di profumo variamente apprezzate dai diversi consumatori, debbono avere un prezzo identico sullo stesso mercato nello stesso momento. Se a parità di prezzo di vendita del prodotto, il casaro lombardo riceve venti lire al giorno di salario ed il pastore abruzzese solo dieci lire, ciò vuol dire che si è formato un equilibrio per cui le due industrie possono coesistere nonostante la diversità dei salari. Dobbiamo anche qui rovesciare la proposizione solita:

 

 

non già i salari determinano il prezzo, ma il prezzo determina i salari. Sul mercato italiano unificato, con molti attriti e molte deviazioni dovute alle peculiarità dei formaggi prodotti, dei gusti delle diverse regioni, dei costi dei trasporti, si forma dall’incontro delle quantità offerte e domandate di formaggio un prezzo dello stracchino lombardo e del caciocavallo abruzzese. Da quel prezzo dipende il ricavo dell’impresa casearia nelle due regioni. Se il salario è di 20 lire al giorno in Lombardia e di 10 lire al giorno negli Abruzzi, ciò vuol dire che l’impresa casearia è organizzata in tal maniera nelle due regioni, la qualità e la produttività dei prati e dei pascoli è tale, le razze del bestiame lattifero e l’offerta e la domanda di mano d’opera sono rispettivamente siffatte, che dal ricavo della impresa l’imprenditore è messo in grado ed è costretto dalla concorrenza degli altri imprenditori a pagare venti lire al casaro lombardo e solo dieci lire al pastore abruzzese.

 

 

Col tempo, tutte queste condizioni potranno mutare; anzi sono già mutate. La transumanza, ossia la emigrazione delle pecore dalle montagne abruzzesi alle piane della campagna romana durante l’inverno ed il ritorno alla montagna nell’estate, si è attenuata col progredire dell’agricoltura stabile nella campagna romana. Oggi, maggior copia di latticini si produce nelle grandi imprese della campagna, con mezzi tecnici perfezionati ed a cosidetto alto costo, ossia pagando alti salari non dissimili da quelli usati in Lombardia; ma l’alto costo è la conseguenza, non la causa, dell’alto prezzo a cui i nuovi latticini di qualità si vendono sulla piazza di Roma. Si sono trasformati i prodotti; e per trasformarli si è dovuto organizzare l’industria su basi tecniche moderne. Il pastore abruzzese, il quale si contentava di dieci lire al giorno, perché la sua produttività era quella che era e correlativamente le sue esigenze di cibo, vestito e casa erano quelle che erano si è trasformato in un operaio specializzato, di cui il numero, la produttività, le esigenze sono diverse; ed a queste differenti condizioni del mercato del lavoro corrispondono salari di venti lire al giorno; e questi salari maggiori possono essere pagati perché il latte è venduto in condizioni ed a prezzi diversi da quelli propri del caciocavallo abruzzese.

 

 

Se la trasformazione tecnica ed economica dell’industria continuerà, accadrà probabilmente che non si sentirà più parlare di pastori abruzzesi pagati a dieci lire al giorno, di transumanza delle pecore e siffatte tradizioni antiche. Ma il latte pastorizzato ad alto prezzo non avrà ucciso il caciocavallo pecorino; né gli alti salari avranno eliminati i bassi salari o viceversa. Nessuno sarà morto; ma si sarà, anzi si è già operata, una trasformazione nel tipo dell’industria casearia, per la quale, col progredire della tecnica produttiva, quei lavoratori, i quali prima dovevano contentarsi di partecipare al magro banchetto di una industria a bassa produttività per unità di lavoro impiegata, oggi ed in avvenire potranno partecipare al prodotto crescente di una industria progredita.

 

 

Che se l’industria danese è già oggi ad un livello più alto di produttività di quella lombarda ed i suoi casari possono perciò godere di salari, ad esempio, di 40 lire al giorno, né essi avranno a temere della concorrenza dei produttori lombardi od abruzzesi; né questi di quella dei danesi. Costoro pagano salari alti perché hanno saputo organizzare tecnicamente la produzione del latte in maniera più complessa, specializzandosi nella produzione del burro per il mercato inglese; epperciò rinunciando da un lato all’elaborazione del latte nelle singole aziende rurali e dall’altro all’alimentazione del bestiame lattifero col solo o col prevalente prodotto del podere. L’industria si è specializzata e diversificata. Importatori e produttori di mangimi, specialmente destinati alle vacche da latte, forniscono agli agricoltori una quota notevole degli alimenti necessari alla stalla; sicché quelli prodotti dal podere diventano quasi parte secondaria o subiscono essi stessi una trasformazione preventiva, aiutata da sostanze importate dal di fuori ed utili a conservare sapidità e freschezza. Né l’agricoltore elabora il latte; il quale invece due volte al giorno è trasportato, grazie ad una particolare organizzazione cooperativa di trasporto, a latterie pure cooperative, dove, coi mezzi tecnici più moderni, dal latte si ottengono i diversi prodotti ai costi minimi; ed i residui sono restituiti alle fattorie medesime per l’alimentazione del bestiame, specie porcino, laddove il burro, controllato e stampigliato ed impaccato, è spedito in Inghilterra da imprese di trasporti marittimi, pure essi facenti parte dell’organizzazione cooperativa danese.

 

 

I salari alti pagati ai contadini ed agli operai specializzati, i quali contribuiscono al prodotto ultimo, non debbono essere considerati come un costo dell’impresa, ma invece come il frutto dell’organizzazione diversa e più produttiva che in quel paese si è saputo instaurare. Il basso salario del pastore abruzzese non può fare concorrenza all’alto salario del casato danese; perché a raggiungere l’intento della concorrenza, quel salario, rimasto invariato, dovrebbe incastrarsi in una organizzazione simile a quella danese; ma in tal caso il casaro abruzzese non sarebbe più tale e, diventato operaio specializzato, pretenderebbe ed otterrebbe, data la sua diversa e maggiore produttività, salari uguali a quelli danesi.

 

 

Né i salari alti della Danimarca fanno concorrenza a quelli più bassi abruzzesi; perché ad ottenere l’effetto di porre eventualmente lo stesso prodotto (burro) sul medesimo mercato (inglese) a prezzo minore di quello possibile per l’industria casearia abruzzese, fu d’uopo che quella danese si attrezzasse in modo compiutamente diverso; sicché il prezzo eventualmente più basso del burro è il risultato non dei soli alti salari, ma della divisione del lavoro fra importatori e produttori di mangimi specializzati, agricoltori produttori di latte, cooperative di ritiro del latte nelle fattorie, e di una trasformazione nelle latterie, imprese di trasporto per mare, imprese di distribuzione nei centri di consumo. Se l’industria danese volesse anche conquistare il mercato italiano, dovrebbe attrezzarsi all’uopo, sopportare costi di trasporto e di vendita probabilmente più alti.

 

 

Alla lunga l’esempio delle imprese meglio organizzate reagisce su quelle antiquate; ma il processo non è rapido e lascia tempo agli adattamenti necessari per spingere in alto la produttività ed i salari dei luoghi più arretrati.

 

 

Una federazione economica europea, rendendo i mercati nazionali intercomunicanti fra di loro, accelera il processo, con vantaggio particolarmente dei paesi a bassi salari, obbligati dalla concorrenza a perfezionare i loro sistemi produttivi ed a mettersi in grado di rimunerare più largamente le diverse categorie dei propri collaboratori.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di I problemi economici della federazione europea, pubblicato in tre puntate su «L’Italia e il secondo risorgimento», 26 agosto 1944, 2 settembre 1944, 9 settembre 1944 [ndr].

Polemizzando coi siderurgici

Polemizzando coi siderurgici

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 376-379[1]

 

 

 

 

Chi sono costoro che hanno costituito il sindacato dell’acciaio? Per pretendere alle simpatie del pubblico, dovrebbero far conoscere al pubblico il modo tenuto nell’organizzarsi, gli scopi avuti di mira. Quando si chiedono 50 milioni di prestito e quando si legge, senza autorevoli smentite, che istituti di emissione e casse di risparmio dovrebbero essere chiamati a contribuire al prestito, il pubblico avrebbe diritto di sapere a che cosa i milioni devono servire, quali garanzie presentano le aziende sovvenute, quanta è la loro produzione, quanta è la loro vendita, e dove le vendite sono effettuate. Sono notizie che i sindacati dell’acciaio degli altri paesi del mondo non nascondono a nessuno, anzi mettono in piazza ad istruzione e guida degli interessati. Mese per mese il sindacato tedesco dell’acciaio dice quante poutrelle, quante rotaie, quanti prodotti semi-lavorati ha consegnato all’interno ed all’estero; quale è il premio di esportazione pagato agli esportatori all’estero; quali sono i suoi stocks e in che modo la produzione è stata distribuita fra gli stabilimenti sindacati. La United States Steel Company opera nella stessa guisa. Non ha paura di far sapere che essa aveva alla fine del 1909 ben 5.927.000 tonn. di ordinazioni in corso; che essa ne aveva solo 5.402.000 tonn. al 31 marzo, 5.257.000 al 30 giugno, 3.158.000 al 30 settembre e 2.648.000 al 31 dicembre. È nota trimestre per trimestre la cifra precisa degli utili lordi, delle spese, degli ammortamenti, dei nuovi impianti, dei redditi netti. Si conosce la situazione rispettiva del sindacato di fronte ai suoi concorrenti. Si sa, ad esempio, che nella produzione della ghisa, alla fine del 1910 il sindacato americano aveva per sé il 39,4% della potenzialità produttiva del paese, le acciaierie indipendenti il 41,2 e i produttori pure di ghisa il 19,4%. Si sapeva altresì che nella produzione degli oggetti lavorati, il sindacato, dal 66,2% all’epoca della sua fondazione, era caduto al 56,4% nel 1909.

 

 

Con ciò i sindacati non ottengono di far dimenticare il loro peccato d’origine. Nati nove volte su dieci dalla protezione doganale, che impedisce la concorrenza dello straniero, vivono sfruttando il consumatore nazionale. Son di moda adesso teorie secondo cui i sindacati sarebbero dei benefattori dell’umanità e otterrebbero profitti mercé organizzazioni più sapienti, costi tecnici e commerciali più bassi di quelli possibili in libera concorrenza. Il che può essere talvolta vero nei fatti, quantunque lo sia sovratutto nella immaginazione degli eleganti indagatori delle leggi regolatrici dei fenomeni puri economici. Ma l’unico modo che i sindacati hanno per dimostrare che le loro vittorie sono dovute alle loro qualità peregrine di produttori e non all’utilizzazione sapiente dei dazi protettivi, e la pubblicità massima data alle loro faccende. Difficilmente essi riusciranno con ciò a scuotere la verità del detto americano secondo cui the tariff is the mother of trusts, i dazi protettivi sono la culla dei sindacati; a confutare la qual verità di fatto, bisognerebbe dimostrare perché nell’Inghilterra i trusts siano in proporzione assai poco numerosi, limitati a certi servizi pubblici, alle banche, in cui, anche senza sindacati, la concorrenza di nuovi istituti non è temibile, e ad industrie situate in condizioni particolari; e perché ivi i trusts esistenti facciano tanto poco parlare di sé, non aumentando i prezzi, in modo da far inferocire i consumatori, come accade nei paesi protetti, Stati Uniti, Germania, Italia, ecc. Nulladimeno anche i sindacati che vivono all’ombra della protezione doganale riescono, mediante la pubblicità data ai loro conti, a far vedere che essi usano una certa moderazione nel servirsi della protezione doganale pel rialzo dei prezzi, e che essi cercano, più o meno, di giustificare i vantaggi loro largiti da legislatori e governi. Sarà naturalmente una dimostrazione incompiuta; ma gioverà almeno a dimostrare che la loro opera non è inspirata puramente agli interessi di qualche cricca monopolistica. Gioverà sovratutto a persuadere le banche ordinarie a imprestare loro denari e il pubblico a comprarne le azioni ed obbligazioni.

 

 

Si trovano in questa situazione i soci del nuovissimo sindacato dell’acciaio? Credo che se si interrogassero i 20 più accorti e studiosi agenti di cambio d’Italia, non se ne troverebbe uno il quale potesse dichiarare di essersi formato un’idea precisa, esatta della consistenza patrimoniale e dell’andamento finanziario di queste aziende. Si sa che esse hanno distribuito o non distribuito dei dividendi: le Piombino sulle azioni da L. 130 non hanno distribuito nulla; l’Ilva ha dato nei primi tre anni il 5%, prelevandolo dal capitale sociale, e poi più nulla; l’Elba ha dato negli ultimi quattro anni il 7,20%, il 10, il 12 e l’8%; le Ferriere italiane l’8, il 10, il 10 ed il 6%; la Savona l’11, il 12, il 12 e il 12%; e le Terni il 24, il 18, il 13 e il 13%.

 

 

Ma è questa forse l’unica notizia precisa che il pubblico abbia. Come questi dividendi siano stati guadagnati, in che modo siano stati compilati i bilanci per permetterne la distribuzione; perché certe aziende abbiano guadagnato ed altre no, è perfettamente ignoto. Chi prende in mano i bilanci di queste società, è bravo se ne capisce qualcosa. Nel bilancio dell’Elba, al 31 dicembre 1909, all’attivo, figurano in blocco 34.164.911 lire di spese di primo impianto, per concessione terreni, fabbricati, forni, macchinari e simili. Come gli amministratori non abbiano veduto l’improprietà di questa unica cifra per valutare oggetti d’indole così disparata, davvero non si comprende. Come può un azionista od un obbligazionista formarsi un’idea della consistenza reale di un’azienda in cui si mettono insieme concessioni terminabili di terreni, fabbricati, che non si dice se siano eretti su aree di proprietà sociale, macchinari e perfino le cose “simili”! Peggio è l’altra partita di L. 6.700.677 indicata sommariamente come “titoli di nostra proprietà”. Quali sono questi titoli, e a che prezzo furono portati in bilancio? Come è possibile all’azionista, obbligazionista ed al pubblico sapere se si siano o non seguiti i consigli della prudenza nella valutazione dell’attivo?

 

 

A leggere il bilancio della Savona al 30 giugno 1910 si rimane ancora più perplessi. All’attivo vi sono 11.598.896 lire di merci viaggianti, giacenti fuori cantiere in un magazzino. Come valutate queste merci? a quali prezzi, con qual margine di prudenza? Contro a un capitale azionario, obbligazionario e di riserve di circa 36 milioni di lire, assorbito già per 14 milioni dai terreni, stabilimenti e macchinari, non è cifra piccola una dozzina di milioni di merci. Vi sono altre cifre colossali che andrebbero chiarite: 14.285.265 lire di interessenze industriali, 9.160.302 lire di interessenze in titoli dati a riporto, 11.040.446 lire in effetti scontati da scadere. Intendiamoci bene: vi sono società potenti, antiche, reputatissime, che hanno dei bilanci altrettanto spartanamente concisi come quelli delle società siderurgiche. Mantengono il silenzio per timore del fisco, e fanno benissimo sinché il fisco farà opera di rapina. Contenti gli azionisti, contenti tutti. Essi non hanno bisogno dell’aiuto di nessuno; né i consumatori, trattandosi di industrie in regime di concorrenza, hanno timore di danni.

 

 

Ma quando – se son vere le cose divulgate sui giornali – si chiede il concorso degli istituti di emissione, che sono istituti pubblici; quando si macchina un sindacato il quale difenderà l’Italia dei siderurgici contro la concorrenza estera, che avrebbe fatto ribassare i prezzi a vantaggio dei consumatori italiani, io temo forte sia d’uopo che in Italia sorga qualche emulo di Roosevelt a chiedere maggior pubblicità nei minuti particolari dei bilanci delle società anonime. Probabilmente costui dovrebbe emulare Roosevelt nella ciarlataneria; ma anche i ciarlatani più insigni diventano sopportabili quando riescono a ridurre a miti consigli il fisco, e ad acquistare così il diritto di imporre responsabilità precise agli amministratori di società anonime, i quali non dichiarino le quantità metriche ed i prezzi unitari dei loro stocks, il numero e il titolo ed il prezzo dei singoli titoli tenuti in portafoglio, le specie delle interessenze, ecc., ecc. […]

 

 

Perché il nocciolo della questione è proprio qui. L’industria della prima lavorazione – e seguito ad adoperare questa locuzione, perché è usatissima dai tecnici, perché tutti comprendono ciò di cui si tratta, perché i sofismi sul dove comincia e dove finisce ogni fase della lavorazione sono della stessa natura di quello con cui si voleva sostenere che l’uomo capelluto non diventa mai calvo, perché la perdita di un solo capello per volta non toglie nulla alla capigliatura – è tutta fondata in Italia sullo sfruttamento delle miniere dell’isola dell’Elba ad un prezzo di favore. Esauriti i minerali dell’Elba, la fabbricazione della ghisa non può vivere, a meno di ottenere una protezione enorme, incomportabile. Il conto è chiarissimo; né i trivellatori hanno mai tentato di confutarlo. Per ottenere una tonnellata di ghisa occorrono almeno due tonnellate di minerale di ferro ed una tonnellata e mezza di litantrace, da trasformarsi questo in una tonnellata di coke. Quindi, quando non ci sarà più l’Elba, occorrerà trasportare in Italia tre tonnellate e mezza di materia prima e di combustibile per fabbricare in Italia quella unica tonnellata di ghisa che si potrebbe benissimo comperare all’estero. Faccio grazia ai miei contraddittori dei minori oneri di ogni specie – minor carico di imposte, prezzi di trasporto più a buon mercato, interessi più miti, ecc. – mercé i quali i siderurgici stranieri producono ad un prezzo di costo grandemente inferiore a quello a cui i siderurgici italiani possono ottenere i loro prodotti – ammissione stupefacente la quale rovina la tesi degli avversari – e mi limito a questo unico elemento: costo del trasporto. Nessuna oltracotanza siderurgica riuscirà mai a distruggere questo fatto elementare: che noi italiani, importando la ghisa dall’estero, dobbiamo pagare il trasporto di una sola tonnellata di roba; mentre se la vogliamo fabbricare all’interno, appena siano esaurite le miniere dell’Elba, noi dovremo pagare il trasporto di tre tonnellate e mezza. E poiché i signori siderurgici mi dicono che il nolo è di 15 lire per tonnellata, basta questo fatto unico a dimostrare che, importando dall’estero la ghisa, dobbiamo pagare 15 lire di trasporto, mentre, fabbricandola in paese, la stessa, spessissima tonnellata di ghisa costerà, per solo trasporto, lire 52,50, ossia lire 37,50 di più. Il che è enorme per una merce la quale vale da 60 a 90 lire la tonnellata, a seconda del momento! Dicasi poi che l’industria siderurgica non è innaturale[2] all’Italia! Innaturale è e sarà sempre fino a quando non si scoprano in Italia miniere ricche di minerale di ferro e di carbone, o si inventino metodi di lavorazione, speciali all’Italia, che possano neutralizzare questa enorme differenza di costi nei trasporti. L’attuale dazio protettivo di 10 lire per tonnellata sulla ghisa è insufficiente, insufficientissimo per se stesso a rendere conveniente la produzione della ghisa da noi. Se non fosse dell’altro regalo delle 15 e forse più lire per tonnellata ai siderurgici per la concessione quasi gratuita dei minerali dell’Elba, la grande industria della ghisa non potrebbe vivere da noi un solo istante, e non potrà vivere il giorno in cui i minerali stessi siano esauriti. In quel giorno, purtroppo non lontano, non basteranno né le 10, né le 20, né le 30 e forse più lire per tonnellata di protezione a rendere possibile la lavorazione della ghisa. A seconda del mercato dei noli occorrerà un dazio più o meno forte, di 25 lire coi noli a 10 lire, di 37,50 coi noli a 15 lire, come i siderurgici dicono essere oggi, di 45 lire se i noli salissero a 18 lire. Il calcolo è semplicissimo; trattandosi solo di sapere quanto costa il trasporto delle due tonnellate e mezza di più che si devono trasportare per avere il gusto di lavorare in paese il minerale di ferro. Dopo ciò, fa d’uopo credersi davvero in possesso di tutta una nuova teoria del nazionalismo economico, per affermare che le società siderurgiche hanno bene meritato del paese, dando vita in Italia, con ardita iniziativa, alla grande industria della ghisa. Sarà bene che essi si tolgano di mente questa pietosa illusione delle loro benemerenze verso il paese. Noi non siamo niente affatto disposti a riconoscere in loro e nei legislatori che se ne fecero i paladini nessuna benemerenza di nessun genere. Non è benemerito, anzi è nimicissimo del paese chi fa costare 50 ciò che potrebbe costare 15. Costui bisogna combatterlo, anche se animato da nobile fervore industriale, non essendo un merito l’avere speso decine di milioni di lire per il gusto di vedere fabbricato in paese a caro prezzo ciò che poteva ottenersi dal di fuori a buon mercato; ed essendo grande il danno, se tutta questa fantasmagoria di milioni, questo lusso di alti forni, questa ardita iniziativa, questi impianti grandiosi, mentre hanno ingoiato centinaia di milioni di lire di proprietà dei contribuenti e dei consumatori costretti a pagare la differenza nei costi tra la merce estera e la merce italiana, hanno servito a dare a migliaia di capitalisti illusi la credenza in utili colossali, che oggidì vanno miseramente svanendo; non prima però che alcuni più accorti tra gli arditi iniziatori non abbiano intascato il prezzo sovracapitalizzato delle azioni delle effimere intraprese così create.

 

 

Altra causa di meraviglia è la nostra ostinazione nel volerci occupare degli affari degli altri. Il finanziamento siderurgico è un mero interesse privato. Se banche e banchieri e casse di risparmio hanno dato i loro denari, li avranno dati a ragion veduta. Che cosa centrate voi, o liberisti impertinenti? Se le società siderurgiche hanno speso troppo nei loro impianti, se non riusciranno ad ammortizzarli prima del 1922, data della scadenza delle concessioni, è cosa che riguarda esclusivamente i loro azionisti, non voi, professori di liberismo e scribacchiatori di stupefacenti sentenze dottrinarie.

 

 

Duole dover confermare il proprio disaccordo in materia di tanta importanza. Ma è pur d’uopo assicurare una volta i nostri avversari della fermissima intenzione di noialtri liberisti di seguitare a ficcare il becco negli affari cosidetti altrui. Perché quegli affari sono invece nostri, indiscutibilmente nostri e cioè di tutti i contribuenti e consumatori italiani. Chiamasi affare privato quello di chi arrischia capitali propri e non chiede favori a nessuno. Ma dal giorno in che certi industriali sono venuti a chiedere l’aiuto dello stato e cioè dei contribuenti per esercitare una industria, quella industria è divenuta soggetta al controllo pubblico, e non può sottrarsi alla libera critica. Potrete dire che la critica è spropositata, è degna di un professore inacidito, è contennenda, ma non potrete mai dire che sia illegittima. Alle obiurgazioni i professori rispondono con adeguate ritorsioni; a questa stravagante pretesa rispondono che seguiteranno per la loro via senza lasciarsi commuovere dalle nuove colonne d’Ercole che si vorrebbero opporre alla loro critica.

 

 

Gli affari dei siderurgici, dei cotonieri, dei lanaiuoli, dei cerealicultori sono affari pubblici e non privati; perché essi trivellatori esercitano la loro industria sotto l’usbergo di una protezione doganale che il legislatore ha concesso e che va a carico dei consumatori italiani. Quando avete chiesto ed ottenuto i dazi che voi trovate già insufficienti e che noi combattiamo, non avete cercato forse l’appoggio dell’opinione pubblica, il suffragio del parlamento? Non avete messo in piazza i vostri conti od i vostri pretesi conti di costi e di prezzi, per dimostrare che non potevate reggere alla concorrenza straniera e che avevate bisogno di un dazio protettivo? E chi lo paga questo dazio se non il consumatore italiano? Così operando, voi vi siete esposti alla pubblica critica fino a quando durerà la protezione doganale. Poiché ogni cittadino ha il diritto di criticare le leggi dello stato; e poiché voi non siete ancora una delle istituzioni fondamentali dello stato, che i cittadini amanti dell’ordine hanno il dovere di rispettare, così ogni cittadino ha il diritto di rifarvi i conti addosso e di dimostrare che i vostri costi non sono così alti come voi pretendete, o che, anche se sono alti, non val la pena di fare un sacrificio per compensarveli, perché la vostra industria non ha dimostrato coi fatti di avere le attitudini necessarie per diventare adulta e indipendente in un non troppo lungo volgere di anni. Siccome si tratta di denari suoi, che egli è obbligato per legge a pagarvi, ogni cittadino ha il diritto di dimostrare, se ci riesce, che i suoi sacrifici hanno servito soltanto ad attirare capitale ad una industria che non potrà restituirli nel periodo probabile di sua vita. Ognuno di noi, il primo che passa per la via, ha il diritto di protestare quando istituti pubblici, come la Banca d’Italia o le casse di risparmio, imprestano denari per sostenere imprese che a lui consumatore e contribuente costano già fin troppo care. Ogni uomo vivente in una società libera ha il diritto di parlare e di scrivere per criticare le leggi vigenti, per dimostrarne gli effetti che a lui sembrano cattivi e per augurarne la riforma. Non sono sottratti a critica i tributi che paghiamo allo stato, i quali hanno almeno l’attenuante di essere rivolti al conseguimento di fini pubblici, e, secondo la nuovissima teoria dei trivellatori, dovrebbero essere sottratti a critica gli atti e fatti di coloro che, per legge, hanno il diritto di sottoporre a tributo privato i loro connazionali?

 

 

Dite che la critica è falsa, dite e dimostrate non essere vero che voi taglieggiate gli altri italiani; e la vostra difesa sarà ascoltata. Ma non sperate che alcuno vi ascolti quando negate altrui il diritto alla critica. Il qual diritto di tutti i cittadini si converte in un dovere strettissimo per noi che siamo persuasi del danno che la protezione di cui godete infligge al paese. Mancheremmo ad un dovere impostoci dalla coscienza se, fino a quando il tempo e la fatica ce lo consentiranno, non vi assillassimo diuturnamente. Un sol mezzo avete per sottrarvi a quella che voi considerate curiosità impertinente. Rinunciate al vostro carattere pubblico. Rinunciate ai dazi e ridivenite uomini privati. Vi prometto, a nome anche di tutti i miei correligionari italiani, che non ci occuperemo mai più dei fatti vostri. O ce ne occuperemo solo per celebrare, commossi e profondamente convinti, i vostri liberi e non sovvenzionati ardimenti futuri.

 



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Nuovi favori ai siderurgici?, «La Riforma Sociale», febbraio 1911, pp. 97-112 [ndr].

[2] Giova a proposito di questa parola “innaturale” notare che i miei contraddittori si sono immaginati un concetto infantile di quella che sarebbe per me la “naturalità” o “innaturalità” di un’industria per l’Italia. Immaginano cioè costoro che io chiamerei “innaturale” qualunque industria che debba far venire le sue materie prime dall’estero. Dove abbiano pescato questa pretesa mia definizione delle industrie “innaturali” io non lo so. Certamente sono persuaso di non aver mai pensato uno sproposito così ridevole. Naturale è quella industria che può essere esercitata, senza aiuti governativi, che non siano gli aiuti di pubblici servizi che è ufficio dello stato rendere, da qualsiasi paese provengano le materie prime. Se un’industria può prosperare da sé in Italia, essa è naturale all’Italia, anche se fa venire la lana di cui ha bisogno dall’Argentina, il cotone dagli Stati Uniti, i bozzoli dalla Cina e dal Giappone, ecc. Il criterio della “naturalità” è data dall’assenza di ogni costrizione al consumatore che lo induca a comprare i prodotti della industria nazionale a preferenza di quella straniera. Se i siderurgici riusciranno a produrre ghisa, senza dazi protettivi e senza regali di minerali demaniali, sarò il primo a proclamare che la loro industria è “naturale, naturalissima” all’Italia. Si può ammettere teoricamente soltanto, in conformità agli insegnamenti dello Stuart Mill, che una industria possa ancora dirsi naturale, quando nel periodo della sua infanzia, per dieci o tutt’al più venti anni, riceve qualche incoraggiamento di premi o dazi dal governo. Ma già lo Stuart Mill ha sconfessato la sua ammissione puramente teorica, dichiarando che del suo argomento, rivolto esclusivamente a pro delle industrie giovani, in pratica abusano industrie vecchissime, sebbene poco venerande per incapacità a perfezionarsi, od incapaci ad uscire dall’infanzia per imperizia dei suoi dirigenti o per impossibilità tecnica assoluta. Onde augurava che in pratica non si facesse uso del suo famoso argomento teorico, l’unico ragionevole fin qui inventato a favore di un “temporaneo” protezionismo. Fa pena dover ripetere queste verità elementari, che uno studente universitario si vergognerebbe di non conoscere; ma la arroganza dei siderurgici è tale che conviene rassegnarsi a siffatte ripetizioni.

Capitalista servo sciocco

Capitalista servo sciocco

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 288-291[1]

 

 

 

 

Qualche anno fa scrissi che la caratteristica dell’economia contemporanea, di quella che si giudica modernissima, alto capitalistica, secondo il brutto gergo di moda, era la riduzione del capitale all’ufficio di servo sciocco. Servo, il capitale, lo è da gran tempo; servo, come è suo ufficio, degli uomini che sanno organizzare imprese, si chiamino imprenditori privati, o consigli amministrativi di società per azioni, col loro stato maggiore di alti funzionari interessati negli utili dell’impresa. Come potrebbe essere altrimenti, se gli uomini capaci di gerire – come amministratori delegati, direttori generali, direttori centrali, capi servizio – grosse e grossissime imprese sono fattori rari e se invece i produttori di risparmio incapaci di farne impiego diretto sono numerosissimi e stanno diventando ognora più numerosi e producono risparmio destinato a diventar capitale in quantità sempre più strabocchevole? Siccome la fabbrica degli uomini dotati delle qualità proprie dell’imprenditore lavora con un rendimento che i congegni chiamati università, politecnici, scuole professionali e simili non riescono ad aumentare se non in proporzioni limitatissime; mentre la fabbrica dei risparmi butta fuori capitali a costi rapidamente decrescenti, così è ovvio che il capitale si inginocchi dinnanzi agli imprenditori e che questi, divenuti sempre meglio padroni dell’impresa, ne paghino i servizi a prezzi sempre minori.

 

 

Si lamentano gli azionisti di ricevere solo le briciole del reddito delle imprese di cui apparentemente sono i padroni? Ringrazino il cielo per quelle briciole; ché non vi sarebbe ragione di dar loro neppure quel poco, se, come suppone la teoria, il mercato funzionasse davvero in perfetta libertà e gli imprenditori avessero il diritto di restituire ai vecchi capitalisti il capitale conferito, sicuri, come sono, di ottenerlo a condizioni più miti da nuovi capitalisti ansiosi di mettersi al servizio di uomini conosciuti come valenti e probi. Valentia ed onestà sono qualità rare; che, se sono conosciute, comandano i servigi volenterosi ed umili di schiere ansiose di capitalisti e di banchieri mediatori in capitali. Lo dissi dianzi servo sciocco; ma aggettivo e sostantivo erano usati a scopo di reazione verbale contro il gergo, questo si veramente insipido, di chi, mal conoscendo il meccanismo economico, immagina entità materiali padrone degli uomini vivi. In verità sciocco non è affatto il capitale quando si dà incondizionatamente, sapendo di correre rischio di andar perduto, senza pretendere rese di conti, visioni di libri, agli imprenditori valenti ed onesti. Purtroppo la sua abbondanza è tale che se, ogni tanto, guerre e rivoluzioni non ne distruggessero una gran parte, per disperazione si darebbe al diavolo, a lestofanti ed a bancarottieri, privati e pubblici, pur di guadagnare qualcosa di più di quel minimissimo nolo del mezzo o al più dell’uno per cento che pare essere normalmente il suo prezzo di mercato. Il giorno in cui il servo sciocco, detto capitale, sarà meglio informato delle cose sue, e assegnato alla sua sorte, non tenterà più le vie rovinose dei grossi dividendi e guadagni promessi dai lestofanti; se nel frattempo guerre e rivoluzioni non verranno a rialzare il saggio di interesse nominale – non il saggio reale, per le conseguenti svalutazioni monetarie divenuto negativo – e se il legislatore non interverrà a favorire imprenditori e dirigenti ed a legare le mani ai capitalisti ed a provocare reazioni contrarie ai fini da esso perseguiti; ed il capitale si dovrà contentare di remunerazioni che oggi parrebbero incredibilmente basse, in quel giorno sarà mutato, per questo motivo, qualcosa nella struttura della società economica? Si, nel senso di approssimare sempre più la realtà all’ipotesi astratta della libera concorrenza: differenziazione più accentuata fra le persone fisiche in possesso dei diversi fattori produttivi: gli uni possessori del fattore “impresa”, gli altri del fattore “direzione tecnica o commerciale od amministrativa”, gli altri del fattore “lavoro d’ordine” o “lavoro di sorveglianza e manovra delle macchine” o “lavoro manuale propriamente detto”, e finalmente, ma fuori dell’uscio, in atteggiamento sommesso, i possessori del fattore “capitale”. Anche se costoro giuridicamente parranno ancora essere i proprietari, anche se sarà conveniente conservare la finzione giuridica del loro diritto di proprietà, con relative deliberazioni di assemblee, la realtà economica sarà ed è già in notevole misura quella descritta. La ragione principale della necessità di conservare la finzione giuridica è che non è stato, finora, scoperto nessun congegno migliore per portare al sommo gli uomini capaci di esercitare il compito di imprenditori. Con occhio di lince i servi capitalisti sono atti a scoprire gli uomini valenti e probi a cui dare in commenda senz’obbligo di resa di conti i propri risparmi; laddove con altri strumenti, propri dell’economia regolata o socialistica, si scoprono sovratutto intriganti arrivisti malversatori e simile genia. Se a capo di talune grandissime imprese si trovano uomini né valenti né probi, il fatto a che cosa è dovuto? Al metodo di selezione proprio dell’economia di concorrenza od alla sua contaminazione con i metodi propri degli altri sistemi economici, i quali oggi vivono, in quasi tutti i paesi del mondo, mescolati al primo?

 

 

Se al metodo di scelta degli imprenditori e dei dirigenti oggi compiuta dai capitalisti non si vuole sostituire il metodo corruttore di scelta burocratica, nel leviatano statale, che cosa dobbiamo sostituirvi? La elezione in seno e per voto dei dirigenti o di questi insieme con le maestranze e con i fornitori di capitali? Se elezione vuol dire di fatto cooptazione da parte degli imprenditori in carica, il metodo è noto da tempo, e cioè sin dall’origine del sistema di economia di mercato, ed ha preso il nome di graduale elevazione dei migliori fra gli operai e gli impiegati al grado di dirigenti: salariati prima, cointeressati poi, associati in fine, con l’aggiunta della chiamata, in qualità di generi, in seno della famiglia dell’imprenditore. Se il legislatore non interviene a regolare quel che opera efficacemente solo se spontaneo ed a generalizzare quel che è particolare e diverso, anche in avvenire si faranno nuovi sperimenti di cooptazione e si perfezioneranno e si arricchiranno i modi di scelta della classe imprenditrice. L’arricchimento non vorrà dire distruzione del sistema di economia di mercato o di concorrenza; sarà invece rafforzamento di essa. Storicamente quel sistema non può trasformarsi da modello teorico in realtà viva ed operante se non grazie ad un processo non mai identico nel tempo e nello spazio di adattamento alla natura umana. L’imprenditore non vuole essere un puro imprenditore, ma tende al possesso del capitale o di parte di esso; il capitalista, il quale non sia una mera formica, desidera conservare il possesso fisico del suo risparmio e si compiace nel vederlo agire; l’impiegato e l’operaio, i quali sanno di valere qualcosa, non stanno contenti allo stipendio od al salario. Le leghe operaie, le unioni industriali, le varie maniere di interessenza dei lavoratori al prodotto dell’industria, i vari tipi di azioni, i corpi serrati di dirigenti specialisti padroni effettivi dell’impresa, i cui titolari sembra siano cifre anonime detti capitalisti, non sono forse, tutte queste, manifestazioni della repugnanza invincibile dell’uomo concreto a vestire i panni puri delle figure astratte create per necessità di analisi dell’economista? Questi, come è suo compito, scompone ed analizza. L’uomo storico ricompone e sintetizza; non mai però come pretenderebbero altri, che son dottrinari in cerca di tipi: il tipo del dirigente nella grande società per azioni o nel colossale consorzio, il tipo del funzionario nell’ente pubblico, il tipo del costruttore di piani e di ispettore o commissario nella economia regolata. L’uomo storico, come non si adatta ai modelli teorici degli economisti, così si ride dei tipi immaginati dai dottrinari.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Economia di mercato e capitalista servo sciocco, «Rivista di storia economica», marzo-giugno 1943, pp. 38-46 [ndr].

La vendita delle terre

La vendita delle terre

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 235-248[1]

 

 

 

 

Non sempre si bada ad una circostanza essenziale la quale distingue la terra (ed entro certi limiti la casa, se avita) dal titolo mobiliare. Ogni titolo è fungibile con ogni altro titolo analogo. Ogni cartella da 1000 lire nominali del redimibile italiano 3,50 per cento è fungibile con ogni altra cartella del medesimo ammontare e tipo. Ogni azione della Banca d’Italia o della Fiat è fungibile con ogni altra azione della Banca d’Italia o della Fiat. Normalmente, nessun investitore si innamora della Fiat quale Fiat, o dell’Italiana gas perché tale. Ognuno, fatti i conti, se ha convenienza, è disposto senza stringimenti di cuore a cambiare un titolo con un altro. In grado minore la casa d’affitto (non quella avita di abitazione) è fungibile con ogni altra casa d’affitto.

 

 

Sarebbe erroneo affermare che la terra non sia affatto un bene fungibile; par certo che sempre lo sia in grado minore degli altri investimenti e che si possa tracciare una curva la quale va dalla quasi fungibilità perfetta alla mancanza assoluta di essa. La concentrazione massima si ha attorno un punto in cui la fungibilità è scarsa, in tempi normali a mala pena avvertita. Si compra e sopratutto si conserva non la terra ma quella terra. L’agricoltore passa indifferente attraverso campi magnifici e vigneti superbi. Non sono i suoi; quasi non li guarda. Ma quando si avvicina al suo terreno, egli “sente” qualcosa. Avverte cose che sfuggono al cittadino; il suo sguardo segue il confine del podere e lo vede in linee per altri invisibili. Conosco due fratelli contadini, nati e vissuti in una casa infelice, volta a mezzanotte, ficcata tra vicini pettegoli e litigiosi, con terra anch’essa malamente frammischiata ad appezzamenti altrui. Ereditarono una bella casa con bella terra attorno, alta su un poggio volto al sole. Supposi per un istante, ma non dovevo, avendo l’illusione di comprendere i miei amici rustici, che essi avrebbero preso dimora nella nuova casa, fuggendo l’ombra e la umidità antiche. Mai più. Erano nati lì e lì vogliono morire. La bella casa la diedero a mezzadria.

 

 

La terra non si vende, confrontando al margine il rendimento di essa con quello che si avrebbe reinvestendo il probabile ricavo della vendita. Forse il solo caso che abbia una certa parentela con la vendita “per motivi economici” è quello del contadino, il quale possiede poca terra insufficiente ai suoi bisogni e altrove come affittuario o mezzadro ha messo da parte un gruzzolo in denaro e gli si offre l’occasione di comprare un podere al quale si è già affezionato, coltivandolo, o che conosce bene perché a lui vicino. Il nuovo fondo vale 100.000 lire ed egli possiede in contanti solo 60.000 lire. Grazie al salutare suo orrore del debito, se davvero il fondo nuovo lo tenta assai può darsi egli si decida a vendere la casa e le terre ereditate per mettere insieme le 100.000 lire occorrenti all’acquisto. Ma vendere per vendere, per fare un buon contratto, per avere dei buoni denari alla cassa di risparmio, mai. È un’idea che al contadino non passa neppure per il capo.

 

 

Non so se si possa chiamare economico un altro caso di vendita, che si può dire forzata; e si distingue in due categorie a seconda se sia fatta da contadini o da “signori”.

 

 

Può darsi che il contadino non abbia voglia di lavorare la terra, – il comandamento di Dio “lavorerai la terra col sudore della tua fronte” gli dà noia ed immagina che in città, all’ombra delle fabbriche, si stia meglio – o indulga al vino o al gioco o per animo litigioso, suo o della moglie, non sopporti la vita in comune con i genitori e con i fratelli. Non si sa come e perché, ogni sorta di malanni si abbatte sulla sua terra: la stretta di caldo, le nebbie di fine giugno, la fillossera, la gramigna prediligono le sue terre; la stagione va sempre avversa, la grandine gli fa visite troppo frequenti. Ha tutte le disgrazie; l’esattore, lo strozzino sono nemici suoi personali. Nelle adunate, è tra i più eloquenti nel lamentarsi che il governo non faccia queste e quelle cose che tornerebbero di gran vantaggio all’agricoltura; nelle tornate dei delegati sindacali di zona e tra i più assidui a sollevare quesiti ed a difendere i diritti della sua classe. Se un inquirente economista va in giro a raccogliere dati, vi sono nove probabilità su dieci che gli appunti del “saputo” siano quelli di cui si farà maggior conto. Costui alla lunga venderà. Ma il ricavo della vendita non andrà, se non in piccola parte, a lui, bensì a chi gli avrà fatto credito all’osteria o al gioco.

 

 

Se la ragion di vendere è soltanto il desiderio di inurbarsi, la vendita si fa con comodo. La terra si dà in affitto od a mezzadria ai fratelli od a parenti od a vicini, e si aspetta che costoro o altri abbiano i mezzi di pagare la terra “quel che vale”; e “quel che vale” è una quantità determinata per lo più in un mercato curiosissimo, dove si armeggia fra due monopolisti, magari per anni ed anni, con faccia impassibile, distratta. Il venditore sa che in comune commercio la terra vale 10000 lire l’ettaro, ma sa che il fratello o parente o vicino è disposto ad acquistarla per 25000 lire. Altrettanto sa il compratore: quella terra gli fa gola, arriva proprio fin sotto la casa sua. Acquistandola, egli si toglie servitù di passaggio nell’aja o nel campo, arrotonda il podere ed arriva su strada più comoda della sua. Si tratta di capitalizzare redditi veri e redditi immaginari: strida di donne, beccar di galline, puntigli di passaggio.

 

 

Talvolta al contratto non si arriva mai, a furia di starsi a guardare e di fare i furbi. Tizio covava da assai anni la voglia di comprare la casa e il terreno di Caio, che sembravano una fetta spaccata dalla medesima sua roba. Era stanco di litigare col vicino. Acquistandola, Tizio conquistava la libertà: una casa sola, un’aja sola, tutti i campi attorno, nessuno avrebbe avuto diritto di passare sul suo. Caio si decide a vendere per togliersi da una vita d’inferno ed andarsene a star meglio altrove. Naturalmente incarica della cosa un mercante di terre, ben sapendo che non sarebbe riuscito a trovare un concorrente nell’acquisto a Tizio, e costui l’avrebbe strozzato nel prezzo. Il mercante offre, altrettanto naturalmente, la terra in primo luogo a Tizio, che egli conosce solo interessato all’acquisto. La offre, una due tre volte. Attende, pazientemente, settimane e mesi la decisione.

 

 

Ogni volta la risposta è: no, non compro, non ho mai pensato a comprare, sto bene sul mio, non voglio caricarmi di terra che non arriverei a coltivar bene. La offro ad un altro? offra pure, mi farà piacere; avrò un nuovo vicino migliore dell’antico. Tizio era sicuro che nessuno sarebbe venuto a ficcarsi vicino a lui. I vicini erano tutti provveduti di terre. Un estraneo mai più si sarebbe cacciato lì. Il mercante invece trova il compratore e vende. Tizio non crede; il nuovo arrivato non è, non può essere un vero compratore della terra. Si è messo d’accordo col mercante, per intimidire lui e indurlo a comprare. Per un anno e più vive tranquillo persuaso che il nuovo vicino sia una testa di legno pronta ad andarsene con una mancia, dopo aver messo nel sacco lui. Quando, finalmente, si persuade che la vendita è avvenuta sul serio ed il sogno della sua vita si è infranto, monta in furore; ingiuria il mercante, colpevole di non si sa che cosa, dopo i tanti avvertimenti datigli, ed inveisce contro il malcapitato vicino, colpevole di aver acquistato a prezzo corrente la terra, che egli voleva far sua a sottoprezzo. La tragicommedia, fra ingiurie ed agitar minaccioso di tridenti e danneggiamenti reciproci dura a lungo, finché, accordatosi su un congruo prezzo – rimborso della somma pagata, più indennità per la mala vita sofferta -, il nuovo venuto non si decide a sloggiare. Questo è il modo con il quale fra contadini si risolve il quesito che in economia pura si dice della determinazione del prezzo in caso di monopolio bilaterale.

 

 

Se la vendita di terre di contadini determinata da ozio, vizio o ripugnanza al lavoro di zappa ha luogo per lo più entro i limiti di una generazione, la cosa si trascina più a lungo per le terre dei “signori”. Parlo ed il lettore avrà senz’altro capito da sé, delle zone agricole, così frequenti nell’alta Italia collinare o di pianura asciutta, in cui dominano la media proprietà e quella di piccola coltivazione. La casata era stata messa su da gente di toga, da professionisti o da negozianti tra il sei e l’ottocento: modeste casate, che si mantenevano con decoro con redditi terrieri da tre a cinquemila lire e col provento di impieghi e professioni per i membri più colti della famiglia. Accade, nel lento trascorrere degli anni, che, fra i tanti sani, nasce sul ceppo familiare qualche virgulto bizzarro; o che troppi figli si son dovuti mandare, insieme, agli studi, o che una successione di annate cattive ha cancellato i redditi, in tempi in cui non soccorrevano più o non ancora redditi di lavoro. Cominciano i debiti, e su una fortuna terriera di 100.000 lire si innestano ipoteche di 10 e poi di 20 e poi di 30 e 50 mila lire. Ad un certo momento la situazione si fa tragica. È la miseria nera, di chi nel villaggio è ancora reputato un “signore” e deve conservare il decoro del ceto. Talvolta, la casata salva per il tempo i residui della fortuna, perché il capo vende prima di essere arrivato all’estremo ed emigra in città. Ma se l’ultima generazione è di donne, difficilmente queste si decidono. Vecchie signore vissero lungamente di caffè latte e di scarse onoranze pur di non vendere e resistere nel pagar interessi. Alla morte, quando non ci sono più eredi diretti, si scopre che bisogna accettare l’eredità con beneficio d’inventario e che la vendita delle terre a stento coprirà l’inventario dei debiti.

 

 

Vendite “economiche” non provocate dalla necessità assoluta, si conobbero due volte nell’ultimo secolo: tra il 1879 ed il 1886 e fra il 1922 ed il 1927. Nel primo tempo i prezzi dei terreni raddoppiarono (cfr. Einaudi Luigi, La revisione degli estimi catastali, in «La Riforma Sociale», 1923, pp. 491 sg.) in moneta buona, nel secondo triplicarono e quadruplicarono in moneta deprezzata. Parecchi, forse i più, degli ultimi rimasti tra i proprietari assenteisti non seppero resistere alla tentazione dei tanti denari e vendettero quasi sempre a contadini, ad antichi affittuari, a mezzadri, a proprietari coltivatori a cui, negli anni di precedenti prezzi, era stato possibile risparmiare. Quelle due furono le epoche di massimo movimento terriero, di rinnovazione sociale e di inalzamento del medio tenore di vita. Coincidono col prevalere del motivo economico nelle azioni umane. Vende la terra chi immagina di fare un buon affare nel mutare investimento, e compra chi ha esperienza di agricoltura ed ha avuto successo nel coltivare.

 

 

Prima e dopo, i movimenti delle vendite sono extraeconomici, morali e familiari. Quelli delle compre sono i soliti motivi che spiegano la prosperità delle famiglie: ordine, laboriosità, morigeratezza, unione, e perciò possesso di un risparmio che non si concepisce neppure di poter impiegare altrimenti che in terra, ed insieme possesso di figli, ad ognuno dei quali si vuole assicurare un podere bastevole alla famiglia nuova che essi creeranno.

 

 

Quando, nelle pagine di solenni inchieste, si leggono lunghi elenchi delle cause dell’immiserire delle classi rurali proprietarie e coloniche: mancanza di credito, usura, crisi di prezzi, imposte alte, malattie delle piante, avversità atmosferiche, attrattive delle città tentacolari, figliuolanza troppo numerosa, guerre, malattie e morti, vien fatto, salvoché per le malattie e le morti di coloro che erano il sostegno o la speranza della famiglia, di sorridere a tanta sapienza astratta e si chiede: perché gli indagatori non hanno preso in mano i libri delle verità eterne, la Bibbia ed il Vangelo? Ivi avrebbero imparato che una sola è la causa della prosperità nelle campagne: il timor di Dio. La famiglia timorosa di Dio e cioè unita attorno al capo, ubbidiente, lavoratrice, ordinata, prospera e sale. Sciamano, conquistando la terra, le api laboriose. Il sole d’estate ed i geli invernali uccidono i fuchi oziosi.

 

 

«Quel che vale» non è tuttavia un concetto così lontano da quello teorico, come potrebbe sembrare dalle cose dette sopra. I prezzi effettivi dei terreni possono essere classificati in varie caselle:

 

 

  • vi ha prezzo quasi di concorrenza, quando un terreno non ha qualità particolari, che lo rendano in particolar modo appetibile o sgradevole. Non è così mal situato da allontanare un acquirente qualunque – timore di ficcarsi tra vicini litigiosi, di star troppo lontano dal mercato o di pagar troppo cara la vicinanza -; né è tanto in vista da essere oggetto di invidia;

 

  • vi ha prezzo simile a quel di monopolio, quando le sue qualità sono così peculiari e note – vicinanza al mercato, su bella strada, con bella casa, con piantagioni fiorenti, tutto riunito attorno alla casa, senza servitù di passaggio – da essere desiderato da quanti lo vedono e, vedendolo, pensano: se potessi diventar padrone di quel podere!

 

  • vi ha prezzo che si può dire di monopolio bilaterale, quando il podere è siffattamente situato che tutti gli altri possibili acquirenti sono disposti a pagare solo 50.000 lire, ossia meno delle 80.000 lire che sarebbero il prezzo corrente se il podere si trovasse in condizioni ordinarie. Ma è ficcato in mezzo a vicini litigiosi, che, si sa, ogni mese fanno correre il maresciallo dei carabinieri a mettere pace fra cugini rabbiosi, pronti a menar le mani ed a brandir tridenti; epperciò il prezzo cala al disotto del tipo corrente. Il proprietario sa che può essere costretto se non trova di meglio, a vendere a 50.000 lire, ma sa anche che tra i suoi vicini uno ve n’ha al quale la sua terra fa gola, la sua e non altra. Il venditore è monopolista di offerta perché possiede il fondo desiderato dal vicino; e questi è pure un monopolista, di domanda, perché è il solo disposto a pagare il fondo più delle 50.000 lire che in comune commercio se ne potrebbero cavare. Pur di costituire una unità poderale libera da “impegni e barriere”, come orgogliosamente, dopo avere litigato tant’anni, fece dipingere a gran lettere sulla sua casa un contadino, egli sarebbe disposto a pagare anche 150.000 lire. Ambi i monopolisti manovrano con felina prudenza per tirare a sé la parte migliore della zona di indeterminazione fra 50 e 150 mila lire.

 

 

Nei due ultimi casi nessuno conosce le intenzioni dell’altro. Tutti sanno soltanto che esiste un prezzo comune corrente e questo è assunto da tutti a guida nelle contrattazioni. In fondo, l’opinione concorde degli interessati collima con quella dei trattati di stima dei fondi rustici: criterio sostanziale del prezzo corrente delle terre essere la capitalizzazione del reddito al saggio corrente di interesse. Corre tra gli economisti rurali la teoria che nelle zone di grande ed anche media proprietà si capitalizzi il reddito netto, perché ivi la terra è comperata da capitalisti i quali conducono i fondi ad affitto, a mezzadria o a economia e nelle cui tasche va il prodotto deductis impensis; laddove nelle zone di piccola proprietà coltivatrice si capitalizzerebbe quasi l’intiero reddito lordo, ossia questo dedotte soltanto le imposte e le spese vive di concimi, attrezzi rustici ed altro denaro vivo speso fuor di casa. Il contadino non terrebbe conto del salario che egli dovrebbe, se sapesse tener conti, far calcolo di pagare a sé e alla famiglia. A parità di prodotto 100, il proprietario capitalizza 100 meno le 50 dovute al mezzadro e le 25 pagate in imposta e spese vive, epperciò, se il saggio di interesse è del 5 per cento, paga 500 lire, valor capitale di 25 lire reddito netto. Il contadino deduce dalle 100 solo le 25 imposte e spese vive e si lascerebbe trascinare a pagar lo stesso terreno 1500 lire, valor capitale delle 75 lire, che egli a torto considera tutto reddito netto capitalizzabile, mentre solo 25 sono tali e le restanti 50 sono frutto del suo lavoro. Perciò egli capitalizza se stesso, pagando alla classe proprietaria venditrice una taglia per liberarsi dalla schiavitù di vivere a salario altrui.

 

 

La teoria, che è uno dei luoghi comuni più apprezzati della critica anti terriera, suppone che il medio contadino sia un animale singolarmente privo della capacità di ragionamento economico; supposizione la quale a chi apprezza le scarpe grosse e i cervelli sottili della gente rustica appare a primo tratto grandemente improbabile. L’ipotesi deve essere in primo luogo chiarita coll’indicazione di quello, fra i tanti redditi lordi, che sarà capitalizzato per avere il prezzo comune corrente dei terreni. Non certo il prodotto 200 che può essere ottenuto dall’acquirente, contadino energico intelligente ben fornito di figli in buona età, laboriosi ed ubbidienti. Per quanto grosso, il cervello del contadino non funziona in maniera siffattamente tonta. Neppure il prodotto 50 compatibile con la poltroneria di chi aspira ad aver terra, ma non ha mezzi ed attitudine a sfruttarla. Non possiamo supporre tonto a tal segno il venditore. Base della stima è il reddito medio ordinario ottenibile dalla maggioranza dei comuni buoni contadini viventi nella zona. Come vivevano, prima di comperare, costoro? Erano affittuari, mezzadri o proprietari provveduti di terreno insufficiente, i quali andavano a giornata nel tempo libero su terre altrui. Vogliamo sul serio supporre che essi non sappiano che, acquistando terra, rinunciano al reddito che ricavavano dal fondo avuto in affitto od a mezzadria o dalle opere prestate altrui? Essi guadagnavano sul terreno a mezzadria già 50 su 100 lire di prodotto lordo, di cui altre 25 andavano a spese e 25 rimanevano al proprietario. La teoria della capitalizzazione del lavoro pretenderebbe che il mezzadro sia disposto, pur di comperare il fondo, a pagare al proprietario venditore 500 lire come prezzo capitale delle 25 lire spettanti a lui, il che è ragionevole perché egli acquista un reddito nuovo, ed, in aggiunta, 1000 lire per il piacere di trattenere, a titolo di proprietario, le 50 lire che già faceva proprie a titolo di mezzadro. La cosa è troppo grottesca per essere vera; e vera di fatto non è.

 

 

Le ragioni del fatto vero – lo stesso terreno pagato dal grande proprietario 500 lire è pagato spesso dal piccolo proprietario 700, 800 od anche 1000 lire – sono altre. Il reddito capitalizzato è in ambi i casi il reddito “netto”, ma diverso ne è l’ammontare. Il proprietario venditore di un grosso fondo fissa il prezzo “di offerta”, sulla base del suo prodotto lordo 100, da cui dedotte le 50 di parte colonica e le 25 di imposte e tasse, resta un netto capitalizzabile di 25, da cui, al 5 per cento, si ricava il, prezzo di offerta 500. Se, nella zona, tutti fanno lo stesso calcolo, per essere i possibili richiedenti gente del medesimo calibro del venditore, quello sarà anche il prezzo di domanda. Ma se nella zona i possibili richiedenti sono contadini, i quali sono passati le mille volte dinanzi ai campi e alle vigne del “signore”, sogghignando sui lavori mal fatti, sulla gramigna affettuosamente allevata a piè delle viti, costoro fanno lor conti non su 100 ma su 200 a titolo di reddito lordo, e, pur detraendo con larghezza 50 per imposte e spese vive e 100 come remunerazione della [migliore] opera propria, possono capitalizzare un reddito netto di 50 lire.

 

 

A spingere in su il prezzo dei terreni nelle zone di piccola proprietà concorre anche il più basso saggio di interesse vigente in esse in confronto alle zone a grande proprietà. In queste, il saggio di interesse sta, per ragioni dianzi osservate, alquanto al disotto di quello corrente per impieghi di tutto riposo: titoli di stato, cartelle fondiarie, ipoteche, case di affitto. Ma la differenza non è fortissima ed in sostanza può dirsi che il saggio di investimento in terra tenda verso il saggio corrente per gli impieghi reputati sicuri. Invece nelle zone di piccola proprietà, la concorrenza degli altri impieghi mobiliari è scarsa. Il contadino conosce, tra i valori pubblici, solo la carta moneta. Se un confronto si fa, ha luogo con l’interesse pagato dalle casse di risparmio postali o pubbliche; e poiché i depositi postali fruttano dal 2 al 3 per cento, è logico che il contadino non pensi a trarre un frutto del proprio capitale superiore al 3 per cento. Può darsi dunque che, laddove il grande proprietario capitalizza il reddito netto 25 al saggio di interesse 5 o 4 per cento e paga il capitale 500 o 625 lire, il contadino capitalizzi un reddito sempre “netto” di 50 lire al saggio di interesse 3 per cento epperciò paghi, al limite, un prezzo capitale di 1666 lire. Tanto meglio se potrà far l’affare a migliori condizioni, pur facendo contento il venditore e consentendo una buona mediazione al mercante di terre.

 

 

Quasi sempre ebreo fino al 1900, oggi quasi sempre cristiano, il mercante di terre è il vero creatore del prezzo economico. Abbandonati a sé, il “signore”, che si è deciso a vendere, ed i “contadini”, i quali vorrebbero comprare, starebbero a guardarsi negli occhi per un gran pezzo e forse non concluderebbero nulla. Chi vende, vuol vendere tutto e non sentirne più parlare. Se tratta direttamente coi contadini, teme, a ragione, di cadere in trappola. Il “cuore” del podere con casa e la terra vicina ben concimata e coltivata glie lo porterebbero via in un amen. Ed il resto? Gli resterebbe, invendibile ed inutilizzabile, sul gobbo per anni sempiterni, finché per disperazione, si inducesse a darlo via per un tocco di pane. No; egli non può vendere a pezzi. Occorre che un mercante liberi lui dal rischio e dai contadini sia tenuto per denaroso e capace di metterli nel sacco. Quale sia il metodo tenuto dal mercante per vendere e vender tutto è il suo segreto, che nessun “istituto pubblico per il frazionamento del latifondo” riuscirà mai ad imparare. Se sapessero scrivere, i mercanti di terra comporrebbero capolavori sulla psicologia contadina. In succo, il perché della riuscita del mercante e della incapacità del proprietario venditore forse è questo: il contadino sa che il mercante si decide subito, appena ci sia un margine di lucro ed il margine è tanto più piccolo, quanto prima si fa il contratto. Il mercante non può aspettare, perché, se non riesce a vendere subito, non vende più. Il contadino diffidente, se vede che un fondo non si è venduto subito, immagina che quel fondo abbia, come i buoi, qualche vizio nascosto; e non compra più. Peggio, si persuade che non ci siano compratori e gli nasce in cuore la speranza di mettere, aspettando, nel sacco mercante e proprietario. Il mercante non può attendere,perché attendere vuol dire rimanere col proprio capitale imbottigliato in un fondo; non poter più fare altri affari e doversi, per forza, convertire dal mestiere suo a quello di agricoltore, a cui è inadatto. Ma il contadino sa, anche, che ad aspettare non si guadagna nulla, con un mercante. Sa che se lascia passare quello istante, “quella” terra, quella terra “individua” a cui egli aspira non la potrà mai più, né lui né i figli né i nipoti, far sua. La terra non è fungibile. Od ora o mai più. Andrà in mano del vicino, del parente ed egli consumerà, nella rabbia del disinganno, i giorni restanti della vita. Il contadino sa anche che il mercante ha interesse a rendergli servizio. Un mercante di terre che si lasciasse trascinare a favorire, senza motivo, un contadino piuttosto che un altro, perderebbe credito e non farebbe più affari. Il mercante ha interesse a fare un piano di frazionamento che soddisfaccia al massimo grado gli interessi permanenti di ognuno di coloro tra i quali il fondo può essere diviso. A ciascuno egli offre l’appezzamento che abolisce servitù fastidiose, che arrotonda meglio il terreno già posseduto, che e più vicino alla casa. Certo, lo scopo non si raggiunge se non con molta chiacchiera, con molta pazienza, discorrendo per ore del tempo che fa, della piova che non viene, passando notti bianche a far opera di persuasione, e sapendo che l’affare si farà all’ultimo momento, quando il mediatore è già fuor dell’uscio ed ha il piede sul predellino della carrozza e tutt’e due, contadino e mercante, sapevano che il contratto si sarebbe conchiuso all’ultimo momento, e guai a non far finta di parlar d’altro per ore interminabili! I contratti si fanno solo se ambi hanno per tempo sufficiente dimostrato di poterne far a meno e ciascuno dei due sa che si tratta di commedia. Certo non si deve offrir terra a chi male coltiva la già posseduta, o non ha figli o non ha denari, o non merita credito. Ma col mercante il contadino discorre a lungo volentieri anche perché sa che la parola data da lui è mantenuta. Coi “signori” non si sa mai. Si era offerto 100 e si era rimasti d’accordo su 120. Il giorno dopo non se ne ricordano più e ragionano: se sono disposti a pagar 120, segno è che val di più. Così chiedono 150 e non vendono mai. Dopo qualche anno offrono a 100, quando i prezzi sono caduti a 75. Per non aver voluto farsi strozzare dai mercanti di terre, si strozzano peggio da sé, perdendo le occasioni buone e danneggiano gli acquirenti ai quali può convenire meglio pagare 200 nel ciclo ascendente dei prezzi che non 100 in mercato calante. Il peggior danno in caso di monopolio bilaterale è il tempo perso nel trovare il punto di intesa fra i due prezzi di massima convenienza per i due contraenti. Il guadagno del mercante, ottenuto senza danno di nessuno, probabilmente con vantaggio di ambe le parti, è tratto dall’abilità nell’abbreviare il tempo del contrattare e precipitare la conclusione sulla base di criteri oggettivi di concorrenza. Pur di concludere, il mercante non insiste troppo nel giungere alle 1000 lire che Tizio potrebbe arrivare al massimo a pagare. Se chi viene dopo di lui nella convenienza di acquistare, può spingersi solo fino ad 800, per poco che Tizio offra più di 800, l’affare è fatto e si passa ad altro. Qual mai funzionario di pubblico istituto per il frazionamento del latifondo, ecc., ecc., potrebbe aver l’occhio, l’intuito, la conoscenza personale degli uomini che ha il mercante nato e vissuto sul posto, che i contadini capiscono a volo, a segni, facezie, allusioni, a «pensateci su» e «parlatene alla moglie» e si sa bene che la moglie non centra e la decisione è già presa.

 

 

La terra comprata esce dal mercato sino al momento in che si verifichi qualcuno degli eventi che furono sopra descritti: terremoti economici, come nel dopoguerra, rovina delle famiglie contadine per infingardaggine, gioco, mala condotta od esaurimento lento, tra imbarazzi nascosti di debiti, delle famiglie signorili. L’agire economico normale del proprietario deve, fuor di queste circostanze, essere previsto partendo da una premessa: che la terra non si vende. La premessa non è economica; nasce dall’istinto ed è incomprensibile al “cittadino”. Chi ha quell’istinto, compra e non vende. Il solo pensiero del vendere gli è ripugnante: è l’azione non lecita, immorale, da cui il decalogo gli comanda di star lontano.

 

 

Può darsi che l’istinto sia stato fortificato dall’esperienza accumulata delle generazioni passate e dalla sua; certo non nasce da un ragionamento. I nostri vecchi che erano passati attraverso alla tempesta della rivoluzione francese e dei biglietti di credito, surrogato nostrano degli assegnati, forse avevano instillato nei figli la sfiducia nella carta con su stampate cifre; e forse la tradizione è stata rinfrescata dalla guerra mondiale. Si ha l’impressione vaga che la terra sia qualcosa di solido, che resta; ma l’impressione ha scarsa parentela con la visione teorica di una rendita fondiaria destinata alla lunga nei secoli a crescere per la pressione della popolazione in aumento sulla terra invariata di superficie. L’agricoltore apprezza poco le nozioni di redditi certi e crescenti derivanti dall’entità astratta “terra”, che a lui paiono di peso infinitamente piccolo in confronto della precarietà del soprassuolo, da cui veramente egli attende il reddito. Egli sa che il reddito, “tutto” il reddito viene non dalla terra per sé, ma dal vigneto, dall’oliveto, dal frutteto che egli ha impiantato, dalla pendenza che egli ha dato al prato, dal canale di irrigazione, dal fosso di drenaggio, dall’aratura profonda, dalla lotta assidua contro la gramigna e le male erbe, dalla scelta delle sementi. Egli sa che tutte queste cose sono perfettamente identiche ad una macchina, la quale deve essere costrutta, riparata, mantenuta pulita, oliata; sa che, se ogni giorno egli non la cura, presto la macchina deve essere buttata fra i rottami ed il campo diventa come l’orto di Renzo, stupendo per fiori selvatici, ma improduttivo.

 

 

Il pensiero non gli balena neppure alla mente, perché egli è un rustico e non un cittadino, perché sente la terra e disprezza la carta stampata, ama le piante e la terra pulita ed i filari allineati come plotoni di soldati e non capisce nulla dei congegni di una fabbrica; sente la linfa salire su per le piante e sbocciare in fiori e frutta, ma gli possono descrivere cento volte il modo con cui un congegno tecnico funziona e non se ne ricorderà mai.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Categorie astratte e scatoloni pseudo economici. Dialoghi rurali, «La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1934, pp. 637-667 [ndr].

Il re prezzo

Il re prezzo

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 218-224[1]

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 73-80[2]

 

 

 

 

C’era una volta, e c’è ancora adesso, colla corona un po’ di traverso ed ammaccata, un re del mondo economico: il prezzo. Prezzo di mercato, prezzo, usano aggiungere gli economisti, di equilibrio. Guardava, quel re, un po’ dall’alto al basso la folla dei sudditi a due colori vestiti: i consumatori mossi dalla speranza di trovare sul mercato le cose di cui avevano bisogno, i produttori accesi dal desiderio di chiudere con profitto la fatica durata nel produrre. Molti gli uni e molti gli altri, tanti che né i produttori da un canto né i consumatori dall’altro riuscivano ad intendersi tra di loro per sopraffare l’opposta schiera, sicché i produttori potessero costringere i consumatori a pagare un prezzo di strozzinaggio ed i consumatori obbligare i produttori a cedere per un boccon di pane quel che a gran costo avevano prodotto. Perciò il prezzo, che veniva fuori non si sa da dove, comandava a bacchetta, lui puro numero, idea senza corpo, ad amendue le schiere. I sudditi, che erano loici interessati ed ognuno aveva in testa un beI ragionamento per dimostrare che il prezzo “giusto”, quello che sarebbe convenuto a lui, era un altro da quello di mercato, chiedevano: perché ubbidiamo ad un re in idea, ad un numero? perché dalla ubbidienza cieca al numero non esce il disordine, anzi alla fine della giornata ognuno di noi è riuscito a soddisfare alle sue urgenze, più o meno perfettamente, sempre in misura inferiore ai desideri, ma suppergiù non peggio di ieri e non peggio di quel che l’usanza comanda al nostro gruppo sociale? Perché dall’incontro di consumatori e di produttori che non si conoscono tra di loro, né sanno quel che gli altri bramano consumare od intendono produrre e dal comando di un re astratto, il numero prezzo, esce fuori un ordine per cui i produttori recano sul mercato precisamente quel che i consumatori desiderano, ed alla sera, all’ora della chiusura, non resta nulla d’invenduto?

 

 

Chi si fosse trovato vicino al trono del numero re avrebbe forse tratto argomento a penetrare dentro nel mistero osservando che la folla sembrava sul mercato avere due facce e due colori di vestito: ed ora ti volgeva il volto ed il colore del consumatore ed or quelli del produttore. Non dunque due categorie opposte, ma due aspetti della medesima persona. Che quel numero re, prezzo incarnato in un pezzo di moneta, non fosse anch’esso un fantasma come il dualismo tra produttore e consumatore?

 

 

A Daniele Defoe, fecondo scrittore di cose economiche – e il Mac Culloch incluse il più celebrato suo scritto, Giving Alms to Charity, in uno dei volumi della sua Select Collection of scarce and valuable Economical Tracts – noi dobbiamo essere massimamente grati per avere inventato quest’ultimo fantoccio che ha nome Robinson Crusoè. Robinson, delizia della nostra fanciullezza, impara subito, appena gittato sull’isola deserta, a guardare sino in fondo alla realtà economica e trovato, in una delle prime gite di rifornimento sulla nave naufragata, un mucchietto d’oro: «Oh cianfrusaglia» – esclama – «a che cosa servi tu? Non meriti, no, la spesa di raccoglierti da terra; uno di questi coltelli vale tutto il tuo mucchio. Io non so cosa farmene di te. Resta dove sei e va pure in fondo al mare, a guisa di creatura la cui vita non val la pena di essere salvata». Che Robinson, ripensandoci, abbia finito per mettersi in tasca le trentasei lire sterline, -non si sa mai, in avvenire…! -non toglie valore alla dimostrazione della utilità prettamente strumentale della moneta in regime di lavoro diviso. Quante cose si comprendono solo ritornando ai problemi elementari della vita, come Robinson quotidianamente se li doveva proporre! Robinson, a cagion d’esempio, non avrebbe afferrato il senso del contrapposto fra produttori e consumatori; ché in lui consumatore e produttore si confondevano ed il suo io, che sentiva o prevedeva privazioni, rivolgeva al suo medesimo lui invito di fare, entro i limiti dei limitati mezzi a sua disposizione, quanto occorreva per apprestargli, nell’ordine dell’urgenza relativa, i beni necessari a soddisfare ai suoi bisogni. Crisi di scarsità e di abbondanza si succedevano, anche nell’isola famosa; ma non si parlava di sovra produzione, di sotto consumazione, di monete svalutate e sopravalutate, di cambi squilibrati ed altri enigmi venuti poscia ad affliggere gli economisti.

 

 

In verità, anche ora, ogni consumatore è produttore e viceversa. Si consuma se e perché si produce; e si produce per consumare. Le serpi della discordia sono uscite fuori dal vaso di Pandora della divisione del lavoro sociale; perché ogni uomo, ipnotizzato dal frumento, dal carbone, dal vestito da lui prodotto, ha immaginato che nel vendere al massimo prezzo il frumento, il carbone, il vestito stesse l’unico suo interesse. Il produttore parve dimenticare che, producendo frumento, egli in realtà voleva procacciarsi, ossia produrre indirettamente, pane, vestito, riscaldamento, casa, ed altro ed altro ancora senza fine; e che lo scopo vero del suo agire economico era quello di soddisfare le esigenze materiali, morali e spirituali della sua vita. Sacrificò i fini a quello che era lo strumento per la consecuzione dei fini. Il produttore consumatore ebbe la tendenza a guardare in sé il puro produttore in lotta con un mondo di consumatori, i quali non sempre assorbono, a condizioni per lui convenienti, il bene da lui offerto.

 

 

Parve e cercò dimenticare; ma non poté. Attraverso il prezzo, muto astratto re del mercato, chi dominava ed indirizzava la produzione era ed è ancora massimamente il volto di consumatore dell’uomo intiero. Il produttore ha un bel dire che la merce è costata a lui dieci e che a venderla a meno perde. Se quella merce in quella quantità soddisfa ai bisogni di un troppo scarso numero di consumatori, il prezzo scende ad otto; ed i produttori debbono mutare il loro piano produttivo, ristringersi di numero e produrre meno. Il produttore ha un bel sostenere che la merce da lui recata sul mercato è uguale anzi migliore per qualità di quella di ieri; ma se i consumatori desiderano vetture automobili invece di vetture a cavalli o vetture automobili di nuovo tipo invece di quelle di ieri, occorre che i produttori smettano di fabbricare vetture a cavallo e rechino i cavalli al macello o cambino tipo di vettura. Non essi decidono quel che si deve produrre; ché essi devono invece intuire quel che desiderano i consumatori spesso lontani, non di rado forestieri, aventi costumi diversi dai suoi. Non essi decidono chi deve produrre; ché il consumatore dà la preferenza a quei produttori i quali producono più a buon mercato o meglio quei beni che a lui piacciono di più. Solo coll’offrire merce migliore a prezzi più convenienti il produttore riesce a persuadere il consumatore di più o diversamente. Non il costo, ma il prezzo è decisivo. Precaria è la vita del produttore. Sopravvive colui che ad ogni ora, attraverso ai continui mutamenti della tecnica produttiva, alle variazioni continue dei prezzi delle materie prime, dei combustibili, dei salari operai, degli interessi dei capitali, delle spese generali riesce a tenere il costo al disotto del prezzo; questo re capriccioso, il quale muta a norma della quantità di beni che i produttori, non sapendo gli uni degli altri, favoriti od ostacolati da domeneddio, dalle stagioni e da mille altri fattori da essi incontrollabili e ad essi estranei, hanno portato sul mercato. Un qualunque piano produttivo, concepito e cominciato ad attuare, deve essere disfatto prima di essere condotto a termine. Come la tela di Penelope, il piano produttivo deve essere continuamente riveduto in funzione del variare continuo dei prezzi di costo e dei prezzi di vendita, di questi re muti i quali sono gli avvisatori economici delle variazioni da una parte nella resistenza, negli ostacoli che la natura oppone agli assalti della scienza e dall’altra parte nei gusti dei consumatori. Il re-prezzo obbliga il produttore a fare piani per rimanere coi costi entro i limiti suoi; ma son piani cangianti, fluidi, costretti ogni giorno ad adattarsi alla mutata combinazione dei dati di fatto del problema. Lenta quando i bisogni umani sono consuetudinari, i mercati ristretti, i rapporti fra paese e paese limitati, le invenzioni tecniche lente, la mutabilità dei piani produttivi si accelera a mano a mano che gli uomini imparano meglio a trovare vie alternative di provvedere a bisogni propri, ricorrendo a produttori lontani, a beni succedanei, rinunciando a talune soddisfazioni a favore di altre. La vita dei produttori diventa sempre più grama incerta rischiosa.

 

 

I più non reggono alla fatica crescente e soprattutto alla tensione nervosa; epperciò rinunciano a recarsi sul mercato. Vendono a prezzo fisso – gli operai per un salario giornaliero, gli impiegati per uno stipendio mensile, i risparmiatori ed i proprietari di terre e di case per un interesse o fitto calcolato ad anno – il diritto a vendere sul mercato la propria quota del bene prodotto. Per un certo tempo lavoratori impiegati creditori proprietari si mettono in salvo, ricuperano per un mese, per un anno, salvo a rinnovare di mese in mese il contratto, la propria tranquillità. Contro le mutevoli variazioni di umore del re-prezzo, i più degli uomini, i quali non hanno l’animo di comandare, di contrattare, di correre rischio, si trincerano, mercé la rinuncia al prezzo variabile del proprio apporto alla produzione, dentro il fortilizio di un reddito costante per un certo tempo. La trincea assicura solo a mezzo la tranquillità, tanto desiderata; ché rimane il rischio di non potere col reddito certo fisso acquistare poi sul mercato, quella massa di beni di consumo che era stata messa a base del contratto di rinuncia alla propria quota di produzione. Eliminato dal campo produttivo, il rischio rimane in quello del consumo. Ma, ridotto alla metà e diffuso su gran numero di beni, di cui le variazioni di prezzo, in un regime di moneta sana, in parte si compensano, il rischio non è rilevantissimo per intervalli di tempo anche misurati ad anno.

 

 

Il rischio delle variazioni non è, si comprende, eliminato da siffatti contratti di assicurazione; è soltanto trasportato su taluno degli appartenenti alla categoria (od aspetto di vita) produttrice e cioè sull’imprenditore. Non ignota nelle economie antiche e medievali, la figura dell’imprenditore è tipicamente propria di quell’economia moderna che dal nome di uno dei suoi fattori meno importanti, perché inanimato, fu detta “capitalistica”. L’imprenditore è colui il quale corre il rischio del prezzo. Non nel possedere capitali sta l’essenza del cosidetto capitalismo. Il domino dell’economia moderna è l’imprenditore, perché egli solo si attenta ad affrontare il re del mercato, il prezzo. Tutti gli altri si sono squagliati: operai, impiegati, risparmiatori (capitalisti), proprietari. Prima di arrivare sul mercato, hanno preferito all’angolo della piazza vendere a tempo i propri diritti, paghi di stare a vedere. Va innanzi, solo, l’imprenditore, pronto ad affrontare l’umor variabile del temuto sovrano. Natura]mente, se a lui male incoglie, se egli, dopo aver acquistato materie prime a prezzo fisso e pagato salari fissi ed interessi pure fissi ed aver per ciò speso dieci, riesce a spuntare per il bene prodotto solo otto, coloro che si sono posti al sicuro e guardano dall’angolo della piazza all’esito, lo lasciano nelle peste e filano via senza «banfare». Ma se egli vende a 12 quel che gli era costato solo 10: «Allo sfruttatore, al vampiro, al capitalista», gridano in coro, saltandogli addosso. Se, di tra cento caduti, cinquanta si salvano e, tra questi, dieci arricchiscono ed uno accumula grande fortuna: «al mostro», si vocifera, «al pericolo sociale! Perché costui non consacra tutto il male acquistato bottino a pubblico vantaggio?». Non di rado, se anche non fortuna sibbene merito ed intuito e capacità di previsione, di visione e di organizzazione lo assisterono, l’imprenditore riuscito ambisce lasciare grato ricordo di sé con opere vantaggiose all’universale; ma gli duole vedere che nessuno glie ne serberà gratitudine.

 

 

Non meraviglia perciò se anche gli imprenditori bramino sottrarsi ai rischi del mercato. Ma essi non hanno con chi contrattare la propria rinuncia all’incerto grosso profitto per un minore “equo” compenso dell’opera propria. Talvolta vi ha una gerarchia di imprenditori, come quando taluno lavora a prezzo di appalto per conto altrui, assumendo solo i rischi del costo; o quando, come accade per la lana, la seta, il cotone, i metalli, il frumento, ecc., è possibile coprirsi sul mercato a termine contro le oscillazioni di prezzo durante il tempo della lavorazione industriale vendendo speculativamente a termine una quantità di materia prima uguale a quella acquistata per contanti. Anche in questi casi, non frequenti del resto, il rischio è soltanto spostato. Qualcuno, in definitiva, corre il rischio; qualcuno deve affrontare il re-prezzo.

 

 

Perciò gli imprenditori si danno allo scavo di trincee.

 

 

La prima e più antica trincea è quella doganale. Al riparo di quella, gli imprenditori di un paese possono vendere senza temere che il prezzo ribassi per la concorrenza dei prodotti esteri.

 

 

La seconda trincea, posta per lo più su linea arretrata rispetto alla prima e di rincalzo ad essa, è l’accordo di tutti o della maggior parte dei produttori del paese. A che gioverebbe la trincea doganale, se dietro di essa i produttori paesani con lotta a coltello rovinassero il mercato? L’idea non è nuova. Gli statuti medievali sono pieni di ordini e grida contro i monopolisti, gli accaparratori, i capi d’arte i quali, in combutta tra di loro, rarefacevano la merce sul mercato per alzarne il prezzo a danno dei consumatori. Il latino medievale è ricco di vocaboli ingiuriosi indirizzati ai precursori dei moderni cartelli, trusts, sindacati, consorzi. Attraverso alle compagnie privilegiate dell’epoca colbertiana, alle “vendite” del carbone del tempo delle prime affermazioni industriali inglesi dei secoli XVII e XVIII, il metodo del trinceramento cartellistico è giunto a noi ed oggi fiorisce.

 

 

Queste son trincee scavate attorno ai produttori. Agli occhi degli scavatori brilla la luce del monopolio assoluto, che vorrebbe dire capacità di determinare unilateralmente senza vincolo alcuno la quantità od il prezzo della merce posta sul mercato, così da conseguire il massimo profitto netto possibile. La luce è troppo abbagliante perché ci si possa avvicinare. La trincea in concreto offre solo approssimazioni transitorie, limitatamente profittevoli, al punto ideale del massimo profitto che sarebbe assicurato dal monopolio assoluto.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Trincee economiche e corporativismo, «La Riforma Sociale», novembre-dicembre 1933, pp. 633-656 [ndr].

[2] Tradotto in spagnolo con il titolo El rey precio [ndr].

Paesi ricchi e paesi poveri

Paesi ricchi e paesi poveri

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 185-186[1]

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 63-65[2]

 

 

 

 

Non ha consistenza l’opinione volgare secondo cui gli Stati Uniti possono far tante cose e fra l’altro mutuare miliardi di dollari all’Europa, perché posseggono molti dollari, molto frumento, molto carbone, molto cotone, molto ferro, molto petrolio, molto ben di Dio d’ogni fatta, tanto ben di Dio che è una vergogna se lo facciano pagare, invece di regalarlo per niente ai miserabili europei affamati di vettovaglie, combustibili e materie prime. Non è conforme al vero la sequenza: prima dollari e poi possibilità di mutuare altrui i dollari; ma è invece vera l’inversa sequenza: prima meritare di ricevere da altri i dollari a mutuo; poi i dollari che vengono e finalmente i dollari venuti possono essere rimutuati a più alto prezzo a chi li aveva prodotti. I dollari che si dice siano mutuati dagli Stati Uniti all’Europa sono (così dimostra l’«Economist» di Londra del 10 dicembre 1927) quelli stessi che, fuggendo dall’Europa avevano cercato rifugio sicuro presso oltreoceano.

 

 

Prima ed al fondo di ogni ricchezza materiale esiste un fattore morale. I genovesi ed i veneziani non dominarono per secoli il commercio del Mediterraneo e del Levante perché fossero ricchi. Che ricchezza v’era su per le rocce sterili del genovesato o sulle palafitte della laguna veneta? Ma vivevano su quelle rocce e tra quelle lagune uomini laboriosi, tenaci, ardimentosi i quali acquistarono potenza e nel tempo stesso ricchezza, cacciando di seggio i bizantini, pur tanto più ricchi, più dotti, viventi in paesi più feraci ed ameni, con le materie prime del tempo a portata di mano. La culla della ricchezza americana non è stata nelle regioni del sud, ricche di cotone, nelle pianure centrali feconde di frumento, nelle terre a carbone, a ferro od a petrolio. Fu negli stati della Nuova Inghilterra, nelle inospiti pietrose contrade poste tra New York e i confini del Canada, dove la terra non dà messi, perché la roccia affiora dappertutto, dove le foreste vengono a stento, dove non ci sono miniere di nessun minerale, dove mancava tutto salvo l’energia indomabile dell’uomo. Gli uomini della Nuova Inghilterra contano, per ricchezza individuale, tra i primi degli Stati Uniti e si trovano in capo fila tra le genti le quali hanno saputo sfruttare le ricchezze naturali degli Stati Uniti. La regola con la quale si formano i dollari è questa: mettete un presuntuoso, un incapace, un chiacchierone, un genialoide vicino ad una miniera d’oro e l’oro resterà sottoterra ed il presuntuoso, ecc., ecc., morirà di fame, accusando l’avarizia altrui della propria mala fortuna. Mettete un osservatore, un laborioso, un volontario deciso a non lasciare invano fuggire le occasioni su una roccia, e su quella roccia sorgerà una città, le galee di tutto il mondo vi recheranno altri uomini laboriosi, materie prime e capitali, e da quella roccia e dalle contrade vicine verranno fuori frumento, cotone, ferro e ogni immaginabile grazia di dio.

 

 

Esistono in Europa miniere di ferro ricchissime in Francia, in Svezia, in Spagna, in Inghilterra; vi sono miniere di carbone in Westfalia, in Russia ed ancora in Inghilterra; terre nere a grano di gran lunga superiori a quelle americane, in Russia e in Ungheria; praterie e marcite ,inarrivabili in Olanda e in Lombardia; terre meravigliose per frutteti, agrumeti, giardini a fiori in Italia, in Spagna, nel mezzodì della Francia e tante altre possibilità esistono da emulare, in campi appropriati, e superare gli Stati Uniti.

 

 

Affinché da tutto ciò si ricavi assai più di quel molto che già se ne ottiene, affinché l’Europa ridiventi il centro del mondo economico, bisogna che i suoi uomini innanzitutto abbandonino il culto dell’oro e delle ricchezze materiali e diano pregio all’integrità di carattere, all’onestà, alla giustizia, al lavoro eseguito con intelligenza, con passione, con senso del dovere. Da sole, senza dubbio, l’elevazione morale e l’intelligenza creatrice non bastano; ma, se queste ci sono, dollari e resto verranno da sé.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Gli Stati Uniti fanno prestiti all’Europa?,«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1928, pp. 110-117 [ndr].

[2] Tradotto in spagnolo con il titolo Países ricos y países pobres [ndr].

Vantaggi psicologici della terra

Vantaggi psicologici della terra

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, p. 184[1]

 

 

 

 

Oltre al prodotto economico, la terra produce anche vantaggi non consistenti in frutti propriamente detti distaccantisi dal terreno: il piacere fisico del possesso, che consiste nel camminar sopra il fondo, nel contemplarlo, nel toccarne le piante e vederle crescere; la gioia del lavoro, che consiste nel non lavorare ad ore fisse, sempre uguali in tutti i giorni dell’anno, ma ad ondate, con momenti di ansia e di intensità grandissime e lunghi intervalli di ozio e consiste altresì nel lavorare per uno scopo, che è di riempire il granaio di frumento dorato e sonante, la cantina di vino, dal bel colore, largitore di letizia; il piacere psicologico, che sta nell’immaginazione del miglioramento futuro del fondo, nell’assaporamento dell’invidia provata dal vicino o dall’amico a cui l’acquisto proprio negò il soddisfacimento dell’uguale desiderio; il piacere sociale, di preminenza sulla gente priva di terra, di ossequio da parte dei minori proprietari o dei clienti; il piacere famigliare di sapere i figli forniti di un mezzo di esistenza, di uno strumento di lavoro indipendente dalla buona grazia altrui ed assicuratore contro i rischi di disoccupazione; sicché il genitore si lusinga che la sorte della famiglia sia sicura, perché legata ad una casa e ad una terra in cui vivrà per qualche generazione il ricordo di lui, quasi fondatore di una dinastia entro certi limiti sovrana; il piacere politico, che è di acquistare clientela nel paese per conseguire cariche pubbliche.

 

 

Tutto ciò si paga, perché ha valore; epperció di questi vantaggi, che si potrebbero dire psicologici, del possesso terriero si ha ragione di discorrere sovratutto nel trattato della “capitalizzazione” dei redditi fondiari e dei criteri di stima dei valori della terra; perché con essi massimamente si spiegano le frequenti capitalizzazioni della terra a saggi di interesse inferiori, talvolta d’assai, al saggio corrente per impieghi d’uguale natura.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di La terra e l’imposta, Annali di economia dell’Università commerciale Luigi Bocconi, 1924 [ndr].

Vantaggi psicologici della terra

Vantaggi psicologici della terra

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, p. 184[1]

 

 

 

 

Oltre al prodotto economico, la terra produce anche vantaggi non consistenti in frutti propriamente detti distaccantisi dal terreno: il piacere fisico del possesso, che consiste nel camminar sopra il fondo, nel contemplarlo, nel toccarne le piante e vederle crescere; la gioia del lavoro, che consiste nel non lavorare ad ore fisse, sempre uguali in tutti i giorni dell’anno, ma ad ondate, con momenti di ansia e di intensità grandissime e lunghi intervalli di ozio e consiste altresì nel lavorare per uno scopo, che è di riempire il granaio di frumento dorato e sonante, la cantina di vino, dal bel colore, largitore di letizia; il piacere psicologico, che sta nell’immaginazione del miglioramento futuro del fondo, nell’assaporamento dell’invidia provata dal vicino o dall’amico a cui l’acquisto proprio negò il soddisfacimento dell’uguale desiderio; il piacere sociale, di preminenza sulla gente priva di terra, di ossequio da parte dei minori proprietari o dei clienti; il piacere famigliare di sapere i figli forniti di un mezzo di esistenza, di uno strumento di lavoro indipendente dalla buona grazia altrui ed assicuratore contro i rischi di disoccupazione; sicché il genitore si lusinga che la sorte della famiglia sia sicura, perché legata ad una casa e ad una terra in cui vivrà per qualche generazione il ricordo di lui, quasi fondatore di una dinastia entro certi limiti sovrana; il piacere politico, che è di acquistare clientela nel paese per conseguire cariche pubbliche.

 

 

Tutto ciò si paga, perché ha valore; epperció di questi vantaggi, che si potrebbero dire psicologici, del possesso terriero si ha ragione di discorrere sovratutto nel trattato della “capitalizzazione” dei redditi fondiari e dei criteri di stima dei valori della terra; perché con essi massimamente si spiegano le frequenti capitalizzazioni della terra a saggi di interesse inferiori, talvolta d’assai, al saggio corrente per impieghi d’uguale natura.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di La terra e l’imposta, Annali di economia dell’Università commerciale Luigi Bocconi, 1924 [ndr].

La ottima tra le riforme tributarie

La ottima tra le riforme tributarie

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 49-51[1]

 

 

 

 

Avere consentito, a chi glie ne faceva proposta, a nominare d’Aroma di botto direttore generale delle imposte è il maggior vanto del gabinetto e del ministro (Tedesco) dell’ottobre del 1919. Probabilmente il Tedesco, coscienzioso e scrupoloso com’era, ebbe, quella sera, qualche apprensione, che non diede poi a divedere mai, di fronte alla sua burocrazia, nel far fare così gran salto ad un funzionario del ramo “esecutivo”; e, pur essendo ben consapevole del grande vantaggio che ne sarebbe derivato alla pubblica cosa, forse non vide pienamente che egli, con quella nomina, decretava la maggiore delle riforme tributarie che in Italia si sia compiuta dalla guerra in poi; e si potrebbe aggiungere anche per gran tempo prima. Non le leggi difettavano o la possibilità di mutarle agevolmente. Era fiacco l’impulso primo alla applicazione della legge; faceva d’uopo un uomo che quelle leggi antiche e quei decreti nuovi facesse vivere, per la salvezza della finanza dello stato. Perciò si poté fondatamente dire che d’Aroma era, per se stesso, l’ottima tra le riforme tributarie che si potesse fare in Italia. Contribuenti, funzionari, ministri venuti di poi ben lo seppero. Si seppe che a guardiano della più delicata branca dell’amministrazione tributaria, di quella che richiede la maggior somma di iniziativa, di rettitudine, di comprensione delle necessità dell’erario e dell’economia, era stato posto un uomo, degno erede di coloro che avevano costruito sessanta anni prima il meccanismo dell’Italia unificata tributariamente.

 

 

L’idea fondamentale che, dal 1919 in poi, lo inspirò, fu di “ricostruire” l’edificio tributario che il trascorrere del tempo e le urgenze della guerra avevano guasto. “Ricostruire” è una idea complessa ed io non ricordo, tra i funzionari posti a capo di una grande amministrazione pubblica, chi, al par di lui, fosse meglio capace a tradurla in realtà vivente. Ricostruire significa avere in sospetto le costruzioni proposte dai riformatori. Ascoltava con ossequio le idee geniali espostegli dai suoi ministri e dai professori che i ministri avevano chiamato a consiglio; ma piano piano poi le demoliva, lasciando, se non il professore, certo il suo ministro persuaso che egli mai aveva pensato ad attuare quella idea, anzi aveva visto fin dal principio le critiche che il d’Aroma gli aveva suggerito presentandogliele come contenute nella idea stessa primitiva.

 

 

Non lasciò mai attuare, pur avendovi collaborato attivamente, nessun progetto di “riforma tributaria”; e se qualcheduno tra essi giunse fino al momento del decreto legge, vi inserì una clausola che ne rinviava l’applicazione a tempi migliori, che non vennero mai.

 

 

Ma, fin dal 1919, il suo piano era di attuare medesimamente quelle medesime riforme tributarie col metodo del pezzi e bocconi, metodo che maneggiò con arte finissima. Quel metodo consiste di due parti: nel demolire ad uno ad uno i falsi soffitti, i tramezzi posticci, il che vuol dire le pseudo imposte, le sovrastrutture ingombranti che durante la guerra e prima della guerra avevano trasformato l’armonico edificio creato tra il 1860 e il 1870 in una capanna d’affitto per povera gente acciabattata, riscoprendo così, tra la polvere delle demolizioni, le linee pure dell’edificio originario; e nell’aggiungere nuovi piani o maniche laterali armonizzanti col vecchio edificio e capaci di renderlo adatto alle esigenze nuove.

 

 

Non avrebbe potuto attuare quel piano se fosse stato affezionato agli istituti vecchi solo perché fruttavano milioni all’erario dello stato. Il calcolo del costo e del reddito delle imposte è altrettanto difficile quanto il calcolo del costo e dei redditi in una qualunque impresa produttrice di beni congiunti. Le imposte del tempo di guerra costavano spesso assai più di quanto rendevano per il disturbo che recavano all’amministrazione, alla quale impedivano di curare le imposte fondamentali permanenti. D’altro canto l’abolire di colpo gli imbrogli poco produttivi e il creare un nuovo ordinamento sarebbe stato causa di disorientamento nei contribuenti e nei funzionari e avrebbe dato luogo ad una crisi transitoria gravissima. Il problema che il d’Aroma dovette risolvere era delicatissimo e rassomigliava a quello che deve affrontare l’ingegnere architetto, incaricato del restauro di un antico monumento guasto dalle ingiurie del tempo e dalle manomissioni degli uomini; il quale, mentre lo si restaura, non può essere abbandonato dai suoi inquilini, e deve continuare ad essere utilizzato dal pubblico, richiamatovi dai consueti festeggiamenti, da periodiche solennità o quotidiani affari.

 

 

Quando egli lasciò la direzione delle imposte per la Banca d’Italia l’opera della ricostruzione era chiusa; e nessun augurio migliore potrebbe farsi alla cosa pubblica di quello che i suoi successori si tengano stretti, come finora si fece, alla regola da lui posta: resistere alle novità formali, alla moltiplicazione dei nomi tributari, avere ferma fiducia che il massimo rendimento si ottiene da una macchina fiscale semplice, adeguata ai suoi fini, lavorante senza attriti, con ossequio rigido alla giustizia.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Ricordi e riflessioni, In memoria di Pasquale d’Aroma, Tipografia della Banca d’Italia, Roma, 1929, pp. 51-58 [ndr].

La “teoria sociologica” della finanza

La “teoria sociologica” della finanza

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 15-21.[1]

 

 

 

 

La teoria sociologica o politica della finanza troppo ha trascurato il nucleo essenziale per attardarsi attorno alle frangie eleganti ed interessanti, ma poco rilevanti, del fatto finanziario. Non bisogna dimenticare che gli errori di giudizio, le spese pubbliche inutili, non desiderate dai cittadini e vantaggiose solo ai ceti dirigenti sono la frangia; ma il nucleo sostanzioso sono le spese pubbliche fondamentali, utili alle collettività, necessarie per permettere il funzionamento del meccanismo economico e sociale. Pur nella ipotesi estrema di governo incapace, tirannico, di imposte esorbitanti, sperperate da un piccolo gruppo di dirigenti a proprio beneficio, è tanto grande la necessità di un governo qualsiasi, di un ordine politico qualunque, che la destinazione di una parte del proprio reddito ad imposta è di solito una delle operazioni più convenienti che l’uomo possa compiere. Un governo efficiente e capace è fuor di dubbio migliore di un governo corrotto e inetto, un governo libero in confronto ad un governo tirannico; ma un governo corrotto, inetto e tirannico, un qualsiasi capo banda o comitato terroristico di salute pubblica, è di gran lunga preferibile alla mancanza di governo, all’anarchia.

 

 

Gli uomini possono dimenticare esperienze antiche e recenti, possono abituarsi siffattamente all’idea che un governo esiste, da non percepire più la sua necessità ed utilità. La domanda dei pubblici servizi può passare per i singoli nella regione dell’inconscio ed essere compiuta dai dirigenti in modo diverso e lontano dai desideri effettivi e presenti dei cittadini. Tutto ciò non è molto diverso da quanto accade nel campo del soddisfacimento dei bisogni privati, dove molti atti si compiono in modo riflesso, senza paragone consapevole fra il denaro speso e l’utilità del bisogno soddisfatto, per consuetudine, per rispetto umano, per orrore del cambiamento. Tutto ciò è anche pura crosta sottilissima. Rompasi questa per qualche imprevisto accidente, frantumisi per un istante la macchina dello stato e si vedranno gli uomini disperatamente invocare lo stato, uno stato, un governo, un despota pur di esser salvati dalla fame, dalla miseria, dalla rovina, dall’anarchia! Tutti gli uomini sono disposti a dare tutta la propria ricchezza eccedente l’indispensabile per vivere, pur di avere uno stato; perché essi vedono che solo l’esistenza di uno stato consente ad essi di vivere.

 

 

Vedasi perciò come sia fondamentalmente nel vero H. Stanley Jevons, quando nel corso di un suo luminoso scritto sui principi della finanza definisce la capacità contributiva della collettività come il sovrappiù della produzione del paese oltre ciò che è necessario a serbare in vita gli uomini secondo il tenor di vita prevalente nel tempo e nel paese considerato[2]. Tutto il prodotto umano sociale, salvo l’indispensabile per la vita degli individui: ecco ciò che lo stato potrebbe prelevare senza danno e col consenso volonteroso degli individui, se questi volessero paragonare il costo dell’imposta col danno della inesistenza dello stato. E poiché nessun governo, come osserva lo stesso autore, spinge le imposte sino ad esaurire tutta la capacità contributiva e per lo più un grande margine è lasciato libero fra le imposte di fatto e quelle che teoricamente si potrebbero stabilire e consentire, giuoco forza è concludere che di fatto e probabilmente nel maggior numero dei casi le valutazioni dei governi sono contenute entro i limiti della prudenza; e che se errori e scarti vi sono, se non si possono negare gli sprechi, questi non eccedono le dimensioni consuete negli atti umani e sono spesso, probabilmente nella massima parte dei casi, sorpassati dagli errori, dagli scarti e dagli sprechi che frequentissimi si osservano nella vita privata.

 

 

Aggiungasi non essere frequente che l’impiego della ricchezza a scopi privati sia capace di dare rendimenti così elevati come quelli che sono talvolta possibili nel caso di giudiziosi impieghi pubblici. Rilievi importanti ha compiuto, a questo proposito il citato autore per il gruppo di pubbliche spese indirizzate a migliorare l’ambiente in cui l’uomo vive (pp. 259 sgg.). Vi sono spese, come quelle per l’illuminazione, il piano regolatore, i giardini e gli edifici pubblici che non aumentano direttamente il reddito dei consociati, ma danno luogo ad imposte pagate volentieri, perché i contribuenti sentono essere il vantaggio della spesa pubblica maggiore dei godimenti superflui privati a cui si è dovuto rinunciare. Se la spesa fu fatta per scopi di pubblica igiene e per la costruzione di città giardino, essa produce ben presto un incremento così grande nella capacità fisica e mentale di lavoro, da aumentare nel corso di pochi anni la capacità contributiva del due o trecento per cento di più di quel che sarebbe accaduto se le imposte non si fossero pagate e nulla si fosse fatto. Le spese economicamente riproduttive a distanza di tempo, come la costruzione di ferrovie, magazzini generali, ponti, canali irrigatori, e quelle socialmente produttive, compiute per l’educazione popolare, per il miglioramento del regime della proprietà o per l’istruzione agricola hanno un effetto caratteristico sul reddito sociale e sulla capacità contributiva.

 

 

«Per i primi anni la spesa, rendendo necessaria una tassazione cresciuta sia per pagare gli interessi e le rate di ammortamento sul suo costo capitale, come nel caso di un’opera pubblica, o per fronteggiare le iniziali ordinarie impostazioni di bilancio, come nel caso dell’educazione, non è controbilanciata da alcun aumento nella capacità contributiva. Questo incremento si produce solo grazie al crescere dei frutti indiretti dell’opera pubblica, od al miglioramento della capacità generale produttiva della popolazione in virtù dell’opera di educazione. Ma l’incremento della capacità contributiva dovuto a questa causa, sebbene cominci lentamente, procede con una velocità continuamente accelerata – ad interesse composto, per così dire – durante un mezzo secolo o più. L’incremento della capacità contributiva ha luogo per via di azioni e reazioni economiche ad un saggio crescente quando numerosi provvedimenti somiglianti sono stati adottati e giungono contemporaneamente a maturazione. Se fosse possibile di accertare separatamente l’incremento di capacità contributiva dovuto ad una qualunque opera pubblica o ad un piano di educazione concepito ed attuato con sapienza e successo normali, si vedrebbe quasi certamente che siffatto incremento dopo quaranta o cinquanta anni è uguale ad un’altissima percentuale sul costo capitale iniziale – da 50 a 100 o 200 per cento all’anno. Una ferrovia, un canale d’irrigazione può facilmente, dopo trent’anni, ripagare il suo costo ogni anno sotto forma di incremento nella capacità contributiva (ossia nella eccedenza del reddito sociale oltre il necessario a condurre la vita secondo il tenore usuale di vita). Naturalmente l’imposta assorbe di solito soltanto una piccola frazione di siffatto incremento della capacità contributiva. Gli uomini possono godere maggior copia degli agi e lussi della vita, i quali a loro volta diventano consumi convenzionalmente necessari; e sono altresì in grado di risparmiare e di investire di più, il che di nuovo accresce il reddito sociale ed ulteriormente aumenta la capacità contributiva. Se noi dovessimo calcolare il futuro rendimento ricavabile, sotto forma di capacità contributiva, dalle spese per l’educazione, assumendo come spesa iniziale il totale della spesa occorsa in un periodo di tre anni anche senza supporre una educazione del tipo più efficace noi constateremmo probabilmente che trent’anni più tardi l’incremento della capacità contributiva imputabile – ove fosse possibile di calcolarla a sé – la spesa per l’educazione sarebbe uguale all’intiera spesa iniziale triennale. Ciò equivale ad un rendimento, dopo lunga attesa, del 300 per cento all’anno, ove si consideri la spesa per l’educazione come fatta in conto capitale» (loco. cit., pp. 261-3).

 

 

Questa non è una raffigurazione idealmente rosea della realtà; è lo schema di tendenze le quali sempre più vivacemente influenzano la vita pubblica di tutti i paesi civili. La cresciuta educazione civica, l’interessamento universale alla cosa pubblica rendono oggi più sensibili gli uomini all’utile impiego della ricchezza prelevata con l’imposta. Si avverte dappertutto, anche nei paesi a forme di governo rozze, inerti e non rappresentative, uno sforzo di innalzare il tenore della vita pubblica, di agire favorevolmente sulla produzione economica, di migliorare l’educazione mediante l’accorto impiego del pubblico denaro. Vi sono ancora e vi saranno sempre deviazioni, errori, anche gravissimi; ma non si può non avvertire al disotto degli errori di giudizio e delle sopraffazioni di classe questa vasta corrente di crescente interessamento alla cosa pubblica, di raffinamento sensibile nella scelta dei fini pubblici da raggiungere e nel loro paragone coi fini privati a cui si deve perciò rinunciare. Il fatto dominante è questo: che la destinazione di una parte della ricchezza a fini pubblici è un’operazione economicamente feconda, pur facendo l’ipotesi di determinazioni individualmente inconsapevoli e di governi corrotti, inetti e tirannici; e che il campo dell’inconscio tende a ristringersi vieppiù a vantaggio delle azioni consapevolmente compiute dagli individui, a mezzo dei loro rappresentanti, per raggiungere il massimo di utilità con un giudizioso impiego delle somme deliberatamente pagate a titolo d’imposta. Quanto più questa tendenza si afferma nella realtà, quanto più gli uomini -non fa d’uopo ricorrere, come supponevo nel 1912, ai genî politici – di ordinaria abilità ed onestà si addestrano al governo della cosa pubblica ed applicano a questo governo le norme ordinarie di amministrazione, tanto più cresce, con velocità accelerata nel tempo, la fecondità degli impieghi pubblici della ricchezza; e tanto più probabile diventa di scoprire, con tentativi numerosi e ripetuti, attraverso insuccessi svariati ed educativi, la ripartizione, variabile di volta in volta e da luogo a luogo, della ricchezza tra fini pubblici e fini privati, la quale è capace di rendere feconda di un risultato massimo la ricchezza totale posseduta dagli individui componenti la collettività.

 

 

La tesi storica della ripartizione della ricchezza non contraddice dunque, anzi conferma, lo schema teorico; e ad una diversa conclusione può venire solo chi si attardi ad ingigantire i nei, a far svolazzare le frangie della costituzione politico finanziaria degli stati dei vari tempi e paesi e trascuri di guardare al disotto del fatto transeunte, dall’accidente superficiale, il nucleo fondamentale, l’idea dominante che crea gli stati, li fa vivere e li fa prosperare.

 

 

Può sembrare strano che dalla penna di uno studioso, appartenente alla schiera degli economisti detti volgarmente “liberisti”, sia uscita una raffigurazione così ottimista dello stato e delle sue funzioni; e chi ripensi alle critiche acerbe che lo scrivente rivolse prima e durante la guerra e continuerà dopo a rivolgere alla burocrazia, all’allargamento delle funzioni dello stato, allo sperpero del denaro pubblico, non mancherà di tacciarlo di contraddizione. A torto, essendo ovvio che l’epiteto di “liberista” applicato agli economisti è privo di significato, ed essendo caratteristica degli economisti dichiarare preferibili certe azioni non perché compiute dagli individui, ma perché più economiche, più feconde, a parità di costo, di altre, sia che esse siano compiute dagli individui o dallo stato. Questa è la sola ed aurea norma di condotta economica. Affermare che gli economisti sono contrari allo stato è dir cosa altrettanto insensata come chi dicesse che certi astronomi sono nemici del sole, della luna o delle nuvole.

 

 

Può sembrare anche strano che uno studioso di economia manifesti una così aperta ripugnanza per quelle spiegazioni dei fatti finanziari che hanno un apparente chiarissimo carattere economico, come quella che fa dipendere l’ammontare e la distribuzione delle imposte dall’interesse delle classi dominanti. Ma anche qui sembra a me che tutta la tradizione classica economica repugni a menar per buone quelle spiegazioni dell’economismo storico che erano divenute di moda vent’anni addietro e che oggi risorgono sotto le spoglie del sociologismo integrale. Forse ciò accade perché gli economisti, essendo abituati a veder le linee essenziali dei fatti, difficilmente si persuadono a considerare rilevanti e decisivi gli svariati fatti, fatterelli ed aneddoti che i sociologisti vanno raccattando su per le gazzette odierne o per le cronache rese venerande dal tempo, a provare che gli uomini non sanno quel che si fanno quando delegano ad altri il governo della cosa pubblica o che i delegati pensano soltanto a far prosperare se stessi od i loro affiliati. I fatti addotti dai sociologi non sono falsi. Sono però unilaterali e non riescono a dare la teoria compiuta. Accanto all’uomo privato ed all’uomo di governo egoista, curante solo dei propri interessi e di quelli della propria classe, desideroso di godere dei pubblici servigi e di farne pagare altrui il costo, vi è l’uomo “politico”, il quale vede la necessità di far parte dello stato, di “ricrearsi” in esso, di raggiungere fini che senza lo stato sarebbero inconcepibili. L’uomo “politico” sa od intuisce che egli è un “altro” appunto per la sua appartenenza al corpo collettivo; sa od intuisce che la sua fortuna, i suoi redditi, le sue maniere di vita sono condizionate dall’esistenza degli altri uomini e dello stato; sa che, pagando l’imposta, egli non dà cosa creata da lui, ma cosa creata dallo stato o da lui quale parte dello stato.



[1] Questo articolo è la ristampa parziale di Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, Atti e memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino, Torino, 1918-1919, pp. 1051-1131 [ndr].

[2] «The taxable capacity of any community may be briefly defined as the surplus produce of the people above what is necessary to maintain existence according to the standard of life prevailing at the time in the country concerned»; Principles of Finance, p. 241. È il saggio quinto di una serie su The Art of Economic Development, Pubblicata da H. Stanley Jevons nel suo «Indian Journal of Economics», nn. 5 e 6.

Sui diritti “casuali”

Sui diritti “casuali”

«Atti parlamentari», 21 novembre 1953[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 122-140

 

 

 

 

Onorevoli membri del parlamento!

 

 

Mi è stata presentata per la promulgazione la legge di iniziativa parlamentare – approvata dalla IV commissione permanente della camera dei deputati il 28 ottobre 1953 e dalla commissione permanente del senato della Repubblica il giorno successivo – che proroga di un anno, e cioè al 31 ottobre 1954, il termine stabilito dall’articolo 1 della legge 14 febbraio 1953, n. 49, relativa «ai diritti e compensi dovuti al personale degli uffici dipendenti dai ministeri delle finanze e del tesoro e della corte dei conti».

 

 

Trattasi dei diritti e compensi così detti “casuali” regolati dai decreti legislativi 11 maggio 1947, n. 378, e 28 gennaio 1948, n. 76, ratificati con modificazioni dalla legge 17 luglio 1951, n. 575, la quale stabiliva (articolo 3) che le norme di tali decreti e le modificazioni apportatevi in sede di ratifica dovessero cessare di aver vigore il 31 dicembre 1952. Il parlamento, nel silenzio del disegno di legge, volle porre questo termine, prima della scadenza del quale il governo prese, a sua volta, impegno di rivedere tutta la materia, essendo stata concordemente riconosciuta improrogabile l’urgenza di porre fine ad un sistema degenerato, attraverso molteplici ed ingiustificate estensioni, a tal segno che non si esitò a definire di vera “anarchia”.

 

 

Senonché, spirato quel termine, senza che frattanto fosse intervenuta l’auspicata regolamentazione, si provvide, con legge 14 febbraio 1953, n. 49, a prorogarlo ulteriormente sino a che non fossero state emanate nuove norme organiche in materia e, in ogni caso, sino e non oltre il 31 ottobre 1953. Anche questa volta parlamento e governo riconobbero la necessità di far cessare senza indugio sì grave e confusa situazione, tanto che la proroga al 31 dicembre 1953, prevista dalla proposta di legge, fu ridotta di due mesi.

 

 

La legge che mi è presentata per la promulgazione non è qui presa in considerazione per quel che attiene allo scopo suo: che è quello di conservare ad un numeroso gruppo di dipendenti statali un sovrappiù in confronto ai proventi vari dei quali fruiscono gli altri impiegati dello stato. La conservazione dei “casuali” è richiesta dai dipendenti delle amministrazioni delle finanze e del tesoro in attesa di quel riordinamento delle remunerazioni di tutti i dipendenti statali, il quale dovrebbe porre rimedio alle sperequazioni esistenti fra gruppo e gruppo e soddisfare alle richieste di migliorie messe innanzi da tutti i gruppi. Essi temono di perdere, anche provvisoriamente, quei vantaggi particolari di cui oggi fruiscono e che sono ritenuti necessari al mantenimento di un tenor di vita adeguato ai delicati gravi uffici che sono chiamati ad adempiere.

 

 

Il parlamento delibererà, su proposta del governo responsabile della cosa pubblica, intorno ai mezzi più idonei a provvedere alle richieste migliorie ed alla necessaria perequazione tra gruppo e gruppo di dipendenti.

 

 

Non giova, tuttavia a questi fini, il mantenimento, anche provvisorio, di uno strumento – i così detti “casuali” – il quale, oltre a non poter essere applicato a tutti i dipendenti dello stato, ma solo ad una minoranza non cospicua di essi, è in sé irrazionale epperò fecondo di risultati contrari al bene pubblico.

 

 

Le spiegazioni addotte a difesa del sistema dei “casuali” sono svariate; ma tutte, salvo un unico caso, prive di fondamento.

 

 

Taluno ha fatto richiamo alla circostanza che i “casuali” traggono origine da disposizioni legislative o regolamentari di data non recente.

 

 

Ed in verità basta sfogliare una qualsiasi raccolta di editti anteriori al 1789 per leggervi lunghe tariffe di emolumenti dovuti da privati richiedenti servigi ad ogni sorta di magistrature, uffici, cancellerie e simili.

 

 

Né è men vero che, soltanto a ragion veduta e per motivi di evidente ed urgente giustizia, è lecito abolire in tutto od in parte istituzioni il cui saldo fondamento è dimostrato dalla medesima loro lunga durata.

 

 

Nel caso presente si deve tuttavia giungere, appunto in ragione della antichità, alla conclusione opposta. Invero, gli emolumenti, i diritti, le sportule, le propine, di cui si ragiona negli editti antichi, traevano motivo dal fatto che compito del principe era ritenuto fosse quello di nominare e dare autorità ai magistrati ed agli altri pubblici ufficiali; non quello di remunerarli. In tempi nei quali il sistema delle imposte era scarsamente sviluppato e l’erario viveva di entrate patrimoniali (anche se intese con larghezza, sino ad includere gabelle e dazi) e di donativi, sembrava naturale che giudici, finanzieri, gabellieri, insegnanti vivessero quasi esclusivamente di emolumenti, sportule, propine, onoranze versate da chi ricorreva alla loro opera.

 

 

Non di rado accadeva che l’ammontare delle sportule e propine andasse oltre il compenso reputato giusto per l’opera prestata dal pubblico ufficiale; e non era infrequente perciò la messa all’asta della carica, sicché il principe, invece di pagare stipendi, si locupletava per i diritti di ingresso versati dai funzionari.

 

 

A mano a mano che la giustizia, la sicurezza, l’istruzione diventarono compiti statali, apparve sempre più repugnante obbligare i cittadini bisognosi della tutela dello stato a pagare qualcosa ai pubblici ufficiali per ottenere servizi ai quali lo stato è tenuto in virtù della sua medesima esistenza. Di guisa che l’argomento della lunga durata e persino della antichità si rivolge contro chi l’adopera. Vale solo se e nella misura in cui può essere dimostrato che il balzello deve essere pagato per altro motivo.

 

 

Si argomenta ancora che, se si aboliscono i casuali, parecchi altri istituti dovrebbero essere assoggettati a diligente esame critico. Infatti i casuali non sono i soli diritti percepiti a carico di privati e a favore di particolari categorie di dipendenti pubblici. E si citano all’uopo: per il ministero degli affari esteri i diritti di cancelleria spettanti agli agenti consolari ed agli ufficiali diplomatici che disimpegnano funzioni consolari; per l’ex ministero dell’Africa italiana i diritti e le quote di partecipazione dei funzionari coloniali; per il ministero di grazia e giustizia i diritti dei cancellieri e segretari giudiziari; per il ministero dell’interno i diritti dei segretari comunali e provinciali; per il ministero dei trasporti i diritti del personale dell’ispettorato della motorizzazione civile; per il ministero della pubblica istruzione i diritti del personale delle segreterie universitarie e di altri istituti scolastici e le propine dei professori universitari; per la presidenza del consiglio dei ministri le propine degli avvocati dello stato e i diritti del personale delle segreterie della corte dei conti, del consiglio di stato, dell’avvocatura dello stato; per amministrazioni varie i diritti degli agenti accertatori di violazioni, ad esempio guardie di finanza, carabinieri, agenti forestali, ispettori dell’ufficio cambi e degli uffici metrici, ecc.

 

 

Il rilievo è conferente solo nella misura in cui esso può stimolare allo studio dell’irta materia dei diritti riscossi da altri dipendenti statali a carico dei cittadini. Può darsi che anche per tali diritti si debba giungere, in tutto od in parte, al medesimo giudizio sfavorevole che si deve pronunciare per i casuali. A tacere, tuttavia, che l’esame di così fatti diritti non è oggi pertinente, l’argomento non è valido. Quando mai, anche nella ipotesi qui enunciata a solo scopo di ragionamento, un istituto irrazionale può trar ragione di vita dalla contemporanea irrazionalità di altri istituti di cui si allega la somiglianza? La legge presente contempla i soli “casuali”. A questi soli debbo limitare il mio esame ai fini della richiesta promulgazione; né mi sarebbe lecito divagare in campi diversi; e su cui un apprezzamento, negativo o positivo, non muterebbe in nulla quello che soltanto ai “casuali” deve essere riferito.

 

 

Non è, parimenti, pertinente al problema l’allegare che si fa, essere taluni impiegati costretti ad un maggior lavoro per i servizi che danno luogo ai “casuali”. Il diritto degli impiegati pubblici a ricevere un compenso speciale, in quanto veramente compiono un lavoro straordinario, non può invero essere messo in dubbio. Qui di ciò non si discute; ma dei “casuali” e del loro fondamento logico.

 

 

Se si riesce a dimostrare che un dato servizio è reso nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati, è superflua l’argomentazione del lavoro o maggior lavoro a cui gli impiegati debbono attendere. La percezione del diritto a carico del privato sarebbe giustificata. Naturalmente il lavoro dovrebbe essere prestato fuor dell’orario di ufficio; ed, altrettanto naturalmente, l’ammontare del diritto dovrebbe essere tenuto entro i limiti del costo effettivo del servizio particolare reso al privato. Un’aggiunta di qualcosa al costo – come oggi accade per i conservatori dei registri immobiliari, sull’importo dei cui diritti grava perciò un contributo progressivo a favore dello stato dal 10 al 70 per cento, evidente prova del fatto che la misura dei diritti percepiti eccede, e spesso notevolmente, l’importo delle spese e dei rischi sopportati dal conservatore – può parere legittima solo se si dimostri che il richiedente il servizio sia soggetto meritevole di imposta, a favore, si intende, del pubblico erario, in ragione di una particolare capacità contributiva messa in luce dalla richiesta medesima.

 

 

Se poi non può essere dimostrato che il servizio sia reso nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati, nemmeno la necessità di remunerare particolarmente il lavoro più rapido o più faticoso o più attento degli impiegati addetti al servizio – necessità che qui non si vuole discutere e si ammette come premessa assiomatica del ragionamento – basta a legittimare la percezione di un diritto dal privato richiedente. Se il servizio è reso nell’interesse pubblico, il particolare o maggiore costo deve far carico al tesoro, ossia al fondo generale delle imposte. Nessuna imposta è legittima quando è stabilita, come un tempo si diceva, in “odio” a particolari gruppi od individui incolpevoli.

 

 

La soluzione del problema non può perciò trarsi dalla natura ordinaria o straordinaria del lavoro compiuto dall’impiegato; bensì è soltanto dall’essere o non essere il servizio reso nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati.

 

 

Né il sistema dei diritti casuali può essere giustificato adducendo che in alcuni casi (ad esempio diritti riscossi dall’amministrazione delle tasse sugli affari per conto della cassa del notariato o dell’istituto di previdenza sociale, ecc.) gli impiegati di talune amministrazioni finanziarie riscuotono proventi a favore di altri enti; che trattasi soltanto di un metodo più economico di riscossione preferito nell’interesse pubblico e che, se mai, potrà dar luogo a compensi particolari agli impiegati interessati se essi abbiano compiuto davvero un lavoro straordinario e nella misura in cui esso sia accertato.

 

 

Neppure il sistema può trovare fondamento nella circostanza che talvolta alcune amministrazioni pubbliche incaricano quella finanziaria di eseguire formalità di conteggi, controlli, compilazione di ruoli, riscossione e simili. È corretto che l’amministrazione servente sia adeguatamente compensata dall’amministrazione servita per il costo del servizio reso. Può darsi che ambe le amministrazioni traggano vantaggio col rendersi vicendevoli servigi; ma non ne segue che il compenso consista in un particolare, prelievo operato da certi impiegati a carico della amministrazione servita. L’impiegato avrà ragione di ottenere un compenso straordinario, se il lavoro straordinario ci fu; non di riscuotere a proprio vantaggio compensi spettanti alla amministrazione, in misura la quale non ha alcun rapporto con la retribuzione dovuta all’impiegato per la sua straordinaria prestazione.

 

 

Se fosse esatto che i redditi casuali sono il corrispettivo di particolari servizi adempiuti dagli impiegati nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati, verrebbe meno ogni ragion di discutere. Tizio e non lo stato chiede un servizio; Tizio e non lo stato paghi il prezzo del servizio. Sarebbe problema secondario, di mera opportunità, trovare la soluzione ottima, la quale consenta agli impiegati statali di soddisfare alle richieste dei privati, senza che da ciò derivi alcun nocumento al servizio di istituto. L’autorità dei capi del servizio, il buon senso del pubblico, il giusto stimolo di un maggior lucro, ottenuto dagli impiegati grazie a prestazioni fuor delle ore d’ufficio, basterebbero a risolvere il piccolo problema, senza che nessuno possa trarne motivo di lagnanza, così come oggi si ritiene giusto che l’impiegato, il quale ha compiuto un lavoro straordinario, riceva perciò, lui e non altri, il giusto compenso.

 

 

Dunque il punto essenziale è: è vero o non è vero che si tratti di particolari servizi adempiuti dai funzionari nell’interesse esclusivo o prevalente di privati? A rispondere al quesito, il solo il quale, al di là delle frange aberranti, sia decisivo, si assuma il caso del più antico od originario dei diritti casuali.

 

 

Invero il caso dei servigi chiesti dai privati ai conservatori dei registri immobiliari non solo è quello da cui tutti gli altri derivano per filiazione od analogia od imitazione, ma è quello veramente tipico ed illuminante.

 

 

L’istituzione di quei registri trae origine dall’adempimento di uno dei compiti essenziali dello stato. Sinché sia consentito a persone fisiche o giuridiche di possedere immobili a titolo di proprietà piena, di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi o di vantare su di essi altra specie di diritti reali è giocoforza che lo stato assicuri in proposito la certezza del diritto. Le formalità, di cui si deve prendere nota nei registri immobiliari, di trascrizione, iscrizione, rinnovazione, annotamenti, ecc., ecc., sono prescritte non nell’interesse dei singoli, ma nell’interesse pubblico. Se non si vuole il caos giuridico rispetto alla proprietà immobiliare; se si vuole impedire si possano ingannare le persone semplici con vendite di cose non proprie, con asseverazioni non veritiere di libertà da pesi e vincoli; se ciò non si vuole, perché si sa che dalla incertezza deriverebbero la impossibilità dei miglioramenti agricoli ed edilizi, il ritorno della terra allo stato selvaggio, delle case alle canne di paglia, della produzione al livello dell’uso dei frutti naturali delle piante e delle erbe e della caccia agli animali selvatici e nocivi; giocoforza è che lo stato garantisca la buona fede, nelle trascrizioni della proprietà e dei diritti reali, dia modo ai singoli di assicurarsi della veridicità delle affermazioni altrui intorno alla esistenza dei diritti e vincoli immobiliari. Persino nell’ipotesi di organizzazione collettivistica della proprietà, è interesse dello stato di rendere noti a tutti la esistenza di diritti eventuali di godimento di case di abitazione, di orti e pertinenze attribuiti a contadini, è interesse dello stato rendere pubblici i limiti dei diritti d’uso riconosciuti ad enti pubblici di tipo svariatissimo che sussistono e prosperano anche in quelle organizzazioni.

 

 

Nessun dubbio insomma sul dovere dello stato di creare le condizioni di certezza intorno alle transazioni economiche compiute dai proprietari od usuari od assegnatari (persone fisiche e giuridiche ed assimiliate a queste) ed aventi per oggetto immobili. Ed altrettanto certo che non vi è atto, formalità, annotamento o ricerca che sia compiuto nell’interesse esclusivo o prevalente dei privati; sempre è dominante ed assorbente il dovere dello stato di compiere atti, formalità, ricerche, annotamenti allo scopo di assicurare, garantire, agevolare la buona fede nelle transazioni e quindi la possibilità medesima di esse: e quindi ancora la sussistenza economica e la pacifica convivenza dei cittadini, siano essi possidenti o nullatenenti.

 

 

Che lo stato poi gravi ogni atto relativo alle transazioni della proprietà immobiliare e dei diritti reali con tributi, dei quali la razionalità e la convenienza sovratutto finanziaria, nei casi di trasmissione a titolo oneroso, sono grandemente dubbie, non è argomento valido per tollerare, accanto ai diritti, giustificati o non, riscossi dallo stato, particolari compensi al funzionario il quale adempie semplicemente ad un ufficio pubblico.

 

 

Se ciò è vero rispetto alla più venerabile specie dei diritti casuali, è vero tanto più per le specie più recenti, da quelle variopinte di diritti di voltura ed altri catastali, ai certificati relativi ad imposte e tasse diverse dirette ed indirette, ai certificati e documenti vari doganali, ecc., ecc., trattandosi sempre, non di pagamenti dovuti per servizi resi a privati nell’interesse loro esclusivo o prevalente, sibbene di tasse od imposte.

 

 

Il caso dei conservatori dei registri immobiliari è tipico – ma al di fuori di esso altro non ne esiste – per segnare i limiti del compenso per l’accollo di spese e rischi.

 

 

Il funzionario, il quale sostiene, per conto dello stato, spese e rischi, ha diritto di ricevere adeguato compenso. Ma occorre che spese e rischi esistano effettivamente, e non è lecito citare l’unico caso del conservatore dei registri immobiliari per legittimare un istituto, quello dei “casuali”, che ha un territorio di applicazione tanto più ampio.

 

 

I conservatori dei registri immobiliari debbono sostenere non solo le spese di legatura dei volumi delle note, delle domande, dei bollettini e dei documenti e dei registri, ma anche quelle di cancelleria, di illuminazione e riscaldamento, la mercede al personale subalterno di servizio e di custodia e l’indennità al gerente; tutte spese che per talun grande ufficio pare siano annualmente di milioni di lire. È per fermo giusto e conveniente che lo stato rimborsi, in somma fissata di accordo, siffatte spese. Questo metodo di rimborso giova all’erario, il quale è garantito contro la larghezza nello spendere propria di chi non è chiamato a pagare il conto, e giova al conservatore, dal quale è conveniente, nell’interesse medesimo del servizio, sia goduto il margine fra l’importo legale e quello effettivo della spesa.

 

 

Per i conservatori delle ipoteche è ovvia altresì la necessità e la giustizia di compensarli per la responsabilità, ad essi accollata, di indennizzare la parte per i danni derivanti da errori od omissioni, in cui siano incorsi nell’adempimento dei loro compiti.

 

 

La giustizia e la convenienza di siffatti rimborsi non spiegano tuttavia il metodo attuale ereditato dal tempo nel quale lo stato non assegnava stipendi al conservatore ed al suo personale. Il pagamento che oggi si fa dai conservatori allo stato di un diritto erariale complessivo dal 10 al 70 per cento sull’ammontare netto dei loro emolumenti è, già fu sopra rilevato, la prova chiarissima che questi furono determinati in modo davvero “casuale”, ossia “arbitrario”, e siffattamente grezzo da consentire disparità notabili e non spiegabili di proventi fra ufficio e ufficio.

 

 

Non si può conservare un sistema sperequato ed arcaico sol perché, in un solo caso esistono spese e rischi meritevoli di rivalsa, ben potendosi al calcolo delle une e degli altri nonché alla determinazione del relativo compenso procedere con metodi che in casi analoghi trovano larghe e soddisfacenti applicazioni.

 

 

Nati male, in conseguenza di una pretestuosa giustificazione, come di compenso di servizi resi a privati nel loro interesse, i diritti casuali attirarono presto l’attenzione degli impiegati vicini, per ragion d’ufficio, a quei relativamente pochi funzionari i quali rendevano di fatto i servizi detti privati; e l’emulazione li spinse a chiederne l’estensione a loro beneficio. Ma la mera diluizione non sarebbe stata vantaggiosa ai nuovi beneficati, ed avrebbe scemato i vantaggi già goduti dai colleghi addetti a quel particolare ufficio, se non si fosse verificata una progressiva moltiplicazione ed estensione dei diritti.

 

 

Sarebbe troppo lungo riprodurre l’elenco compiuto di cotali moltiplicazioni. Basti, per gli emolumenti ai conservatori delle ipoteche, ricordare che essi, a norma del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3272 (tab. D), davano luogo a 15 specie di diritti fissi ed a 9 di diritti di scritturazione; ma, in virtù dell’allegato D del decreto legislativo 28 gennaio 1948, n. 76, si suddividevano, per scissiparità, per la parte dovuta al conservatore, in 19 specie principali, oltre ad 11 frazionamenti in ragion di valore o numero e 5 in ragion di facciate; ed altrettante (principali e di frazionamento per valori e facciate) per la parte dovuta al personale sussidiario.

 

 

Alla moltiplicazione (e si potrebbero ricordare i casuali relativi alle imposte dirette e alle tasse ed imposte indirette sugli affari), si aggiunge presto la estensione a nuovi servizi: con l’allegato E della legge 17 luglio 1952, n. 575, nascono 15 diritti principali e 19 di frazionamento a favore del personale dell’amministrazione delle dogane, delle imposte di fabbricazione e dei laboratori chimici delle dogane ed imposte indirette, mentre coll’allegato F della medesima legge vengono istituite nientemeno che 10 categorie o titoli di diritti spettanti al personale in servizio presso il ministero del tesoro, della corte dei conti e dei rispettivi dipendenti uffici, distinti, se male non si contò, in 49 specie principali e 48 frazionamenti.

 

 

Quale la ragione della moltiplicazione delle categorie e delle specie dei diritti e dei loro frazionamenti? Non par probabile che essa consista nell’incremento naturale, spontaneo delle specie di atti compiuti dagli impiegati effettivamente addetti alla compilazione dei documenti richiesti dagli interessati. Il gran salto si fece quando, per la prima volta, nel regio decreto legge 15 novembre 1937, n. 2011, fu stabilito per le amministrazioni provinciali delle imposte dirette e del registro il principio del riparto dei proventi nell’ambito della circoscrizione compartimentale, estendendolo a tutto il personale in servizio presso quelle amministrazioni. Da quel momento la valanga dei “casuali” si ingrossa, diventando sempre più imponente. Obliterata la pretesa di una connessione necessaria fra il costo del servizio particolare sedicentemente reso al privato, nell’interesse esclusivo di questo, e la particolare maggior fatica durata o perizia adoperata in tale occasione dall’impiegato, non esiste più freno al processo rivolto a trovare motivi o pretesti per crescere i proventi, non più di individui, sibbene di gruppi sempre più vasti di personale di intieri compartimenti e poi delle amministrazioni centrali. Per tal via, piuttostoché per la via normale, non si riesce forse più facilmente ad ottenere integrazioni di stipendi? Il metodo ordinario per ottenere aumenti di stipendio importa una pubblica discussione, esige la lunga procedura parlamentare, pone in chiaro la impossibilità o la ingiustizia di crescere i proventi di talune categorie e non di altre; chiarisce l’onere dei contribuenti e l’ammontare della spesa da iscrivere in bilancio. La via traversa dello stabilimento e della moltiplicazione di singoli diritti, pagati, dicesi, volontariamente da chi riceve un beneficio a beneficio di chi si sottopone all’uopo a particolare diligenza, facilita l’approvazione del nuovo balzello per dati casi; e poi, pretestando analogie, parità di trattamento, ingiustizia di esentare, tra i malcapitati cittadini, questi o quegli che pur di qualche cosa sembrano avvantaggiarsi, a mano a mano la macchia d’olio si estende.

 

 

Già con il decreto legislativo 11 maggio 1947, n. 378, non solo era stata estesa la ripartizione dei proventi dei diritti contemplati nelle tabelle esistenti a tutto il personale, centrale e periferico, dell’amministrazione delle finanze ed a quello della ragioneria generale dello stato; ma si era introdotta una nuova tabella per i servizi del tesoro, i cui proventi furono destinati al personale degli uffici provinciali del tesoro, della tesoreria centrale, della zecca e della cassa speciale dei biglietti di stato.

 

 

Caratteristica l’istituzione di un diritto di riscontro sulle quietanze rilasciate dagli esattori, quietanze che rappresentano l’atto conclusivo di una serie di operazioni riguardanti l’accertamento e la liquidazione di tributi; caratteristica, dico, perché fa quasi credere che non sia interesse dominante, anzi esclusivo dello stato assicurarsi, con gli opportuni riscontri, che il contribuente abbia versato nulla più e nulla meno di quanto egli debba.

 

 

Tipica la degenerazione dell’istituto in materia di frazionamento. La ragione del frazionamento invero non si fonda più solo sul numero delle ore impiegate e delle pagine scritturate, sull’ampiezza dei disegni, ma tien conto, quanto si può, del “valore” e dell'”urgenza”. Pericoloso criterio quest’ultimo e da restringere quanto più si possa per non istillare nel pubblico la convinzione di non poter ottenere dalle pubbliche amministrazioni servizi ai quali si ha diritto, se non si paghi un sovrappiù, destinato col tempo a divenir normale; qualcosa rassomigliante al declassamento avvenuto nell’opinione pubblica delle trasmissioni telegrafiche e telefoniche ordinarie in confronto a quelle urgenti e poi di queste rispetto alle urgentissime ed alle “lampo”. Ma i frazionamenti in ragion di valore fanno manifesto l’errore di considerare i diritti e compensi di cui si parla quasi fossero compensi per servizi resi a vantaggio esclusivo del privato. All’impiegato il quale rilasci un certificato o nota o copia tanto costa di fatica scrivere 100 lire come un milione di lire; ma se la tariffa varia in ragion di valore, la variazione palesa, pure a chi non voglia vedere, la natura di imposta vera e propria del così detto compenso e quindi la necessità della sua devoluzione al fondo generale delle imposte.

 

 

Con il decreto legislativo 28 gennaio 1948, n. 76, si introduce una nuova tabella a favore del personale, centrale e periferico, delle dogane e delle imposte di fabbricazione e si ammettono a partecipare ai proventi della tabella relativa ai servizi dipendenti dal ministero del tesoro quasi tutti i dipendenti degli uffici centrali del ministero medesimo. Finalmente, a coronare l’opera, la legge di ratifica 17 luglio 1951, n. 575, dei decreti del 1947 e del 1948 compie il processo di generalizzazione del riparto e i diritti casuali sono estesi al rimanente personale dell’amministrazione del tesoro, che ancora ne era rimasto escluso, e a quello della corte dei conti, tranne i magistrati.

 

 

Abbandonato ogni pretesto di compenso per servizi particolari si assoggetta al prelievo del 4 (ora 3) per mille ogni mandato diretto ammesso a pagamento dalla direzione generale del tesoro, di importo non inferiore a lire 40.000, e ad uguale prelievo del 4 (ora 3) per mille ogni mandato od ordinativo ammesso a pagamento dagli uffici di riscontro della corte dei conti presso i provveditorati alle opere pubbliche, nonché presso le regioni di importo non inferiore a lire 40.000. Altri diritti contemplati nell’allegato E della legge di ratifica del 17 luglio 1951, n. 575, cadono inesplicabilmente su chi, sottoscrivendo a prestiti o facendo depositi obbligatori o volontari presso la cassa depositi e prestiti ed altre amministrazioni del tesoro, chiede operazioni sui suoi titoli o rimborso di denaro suo. Ma l’inverosimile è toccato allorché agli impiegati addetti allo sportello di pagamento dei debiti liquidi dello stato si riconosce il diritto di prelevare, per sé ed i loro colleghi, a titolo privato, il 3 per mille dell’importo dei debiti medesimi. Che se il pagamento avviene in seguito a concessione di mutui o ad ogni altra operazione di credito, il già descritto diritto del 3 per mille relativo al momento della riscossione della somma, era già stato cresciuto preventivamente per uguale importo, al momento del provvedimento di concessione del mutuo. Ambi i quali prelievi appaiono, per fermo, scarsamente adatti a sollecitare quel credito a buon mercato che appare nei voti dei più.

 

 

L’atto di accusa contro i diritti casuali potrebbe qui essere chiuso; giungendo fondatamente alla conclusione che le imposte e le tasse, pur mascherate sotto il nome di diritti casuali, sono istituti troppo gelosi e delicati perché possano essere devoluti a vantaggio di altri che non sia il tesoro dello stato. Il tesoro se per deliberazione meditata dal parlamento il prelievo dei diritti casuali dovesse rimanere in vigore potrà farne l’uso che sarà ritenuto migliore e potrà anche devolverne il ricavo complessivo a beneficio dei medesimi dipendenti che oggi fanno propri tali diritti. Ma deve venir meno la possibilità per certi impiegati dello stato di devolvere direttamente a proprio vantaggio imposte e tasse, che debbono essere riscosse ed impiegate solo nell’interesse pubblico.

 

 

Se il riparto dei “casuali” tra funzionari si limitasse a creare un interesse privato alla estensione del territorio a cui i casuali si applicano ed alla moltiplicazione dei casi della loro applicazione, il male, pur gravissimo ed intollerabile, sarebbe misurabile.

 

 

Il danno si aggrava perché i funzionari interessati sono indotti ad escogitare, per illustrare la convenienza della loro attuazione legislativa, nuovi istituti, registrazioni, permessi, i quali sono fine a se stessi, non sono affatto necessari per scopi pubblici; ma tendono esclusivamente a consentire agli impiegati di riscuotere diritti detti “casuali” a proprio profitto. Quasi senza avvedercene siamo a poco a poco recati a mutare la concezione dello stato. Non più esso è creato per i cittadini; non più i pubblici funzionari hanno ragione di vita esclusivamente per i servigi che rendono ai cittadini. Lentamente si fa strada il principio opposto che i cittadini hanno ragione di esistere in quanto rendono servizio allo stato. Non i pubblici impiegati sono al servizio dei cittadini; ma questi di quelli, capovolgendosi così la natura stessa dello stato libero democratico. Non e più vero che i servigi pubblici debbono essere resi al minimo costo alla collettività; ma diventa principio di riparto del reddito nazionale quello di creare servigi inutili e perciò costi inutili allo scopo di giustificare una determinata distribuzione del reddito medesimo. Già il 12 dicembre 1951 il presidente della corte dei conti aveva avuto occasione (in foglio n. 4630-12 P.S.) di scrivere: «ed è stato rilevato, infine, che in tutti i casi di pagamenti di annualità di sovvenzione, di quote di ammortamento di prestiti, di finanziamenti di somme dovute a titolo di rimborso spese, sostenute per conto dello stato, ed a titolo di concorso delle spese, sostenute da amministrazioni pubbliche o private, la decurtazione del 4 (ora 3) per mille determina la necessità di ricorrere a nuovi stanziamenti di fondi, per integrare i pagamenti dovuti». In altri termini, se è consentito agli impiegati di appropriarsi del 3 per mille dell’importo contrattuale, dovuto dallo stato, di certe opere pubbliche o di certe spese o di certe sovvenzioni, gli aventi diritto riscuotono solo 997 lire invece delle 1000 a cui han diritto e fa d’uopo escogitare espedienti per aumentare gli stanziamenti a 1003 lire, affinché i creditori riscuotano quel che ad essi spetta. E poiché ciò non può sempre farsi, cresce il rischio di coloro i quali contrattano con lo stato e cresce il danno di questo per la inevitabile amplissima ripercussione sui preventivi di appalto delle opere pubbliche e del tosto dei servigi dei concessionari e in genere di tutte le spese incise dai “casuali”.

 

 

Creare lavoro inutile, moltiplicare formalità allo scopo di operare prelievi davvero “casuali” a favore di una minoranza di dipendenti dello stato, che altro significa se non invertire la norma dell’agire umano economico sostituendola con quella del massimo costo per il minimo risultato?

 

 

È in atto tutto un lavorio di escogitazione, di invenzione di formalità da accollarsi ai cittadini, non perché esse siano necessarie od utili nell’interesse pubblico; ma allo scopo di consentire la percezione di diritti, equivalenti o somiglianti ai “casuali”, di cui fruiscono i “finanziari”. Poiché, tuttavia, la natura dei servigi d’istituto della più parte delle amministrazioni non consente siffatte invenzioni, ecco, per autorevoli dichiarazioni, nascere ed estendersi espedienti diversi atti a procacciare ai dipendenti di quelle amministrazioni un succedaneo, un equipollente ai “casuali”. Il che non si sa come possa accadere sulla base di normali autorizzazioni legislative; e poiché queste non esistono, si deve presumere accada per destinazione di fondi a fini diversi da quelli propri dei capitoli competenti del bilancio.

 

 

Neanche la esistenza, tacitamente ammessa, di siffatti equipollenti giova a sedare il malcontento della grande maggioranza dei dipendenti statali od assimilati. Per la loro incertezza giuridica, per la loro allegata insufficienza in confronto al vantaggio ottenuto a mezzo dei “casuali” e per la loro mancata generalità, i compensi equipollenti sono causa di nocive agitazioni; né si vede come possano essere improvvisati provvedimenti i quali siano atti a far cessare il malcontento e non aggiungano invece nuova esca, a cagione degli inevitabili invidiosi confronti, al malcontento medesimo. Ogni proroga del sistema dei casuali aggrava perciò il danno e dà alimento alla disorganizzazione della burocrazia, la quale deve essere, invece, nella crescente complicazione della vita moderna, saldo fondamento e strumento di avanzamento sociale.

 

 

Una esigenza formale si aggiunge alla urgenza della riforma del sistema dei diritti casuali: quella della devoluzione del loro ricavo all’erario. I diritti casuali non sono una faccenda privata da regolarsi tra persone fisiche e giuridiche richiedenti servigi e gli impiegati chiamati a renderli per ragion d’ufficio ed a loro volta chiamati a farne parte a colleghi più o meno affini, in territori ognora più vasti. Trattasi di tasse ed imposte propriamente dette; e soggette perciò pienamente alle norme della contabilità di stato. Solo per lassitudine terminologica si usa dire che il tesoro non subisce alcun onere per ragione dei casuali e può lavarsi le mani dei proventi per ciò riscossi dagli impiegati quasi venissero dal mondo della luna. No; non esiste alcuna differenza fra lo stipendio vero e proprio riscosso ogni mese dal funzionario statale allo sportello della tesoreria e la somma periodicamente versatagli a titolo di quota a lui spettante dell’importo di diritti e compensi casuali. In ambi i casi trattasi, da un lato, di somme pagate da utenti come corrispettivo di servigi particolari che l’utente deve richiedere ad un pubblico ufficio (tasse) o da contribuenti in compenso dei servigi indivisibili resi dallo stato alla collettività (imposte) e, dall’altro lato, di rimunerazioni ricevute dall’impiegato per servigi da lui resi per ragion del suo ufficio e nell’interesse pubblico. La natura dei pagamenti, da un lato, e delle rimunerazioni, dall’altro, essendo identica, la differenza è puramente formale. Nel più dei casi pagamenti e rimunerazioni passano attraverso una cassa pubblica, detta per brevità “tesoro”, soggetta a pubblicità ed a discussione e deliberazione parlamentare. Per i “casuali” il passaggio non si verifica: il versamento avviene in casse più o meno sottratte al controllo parlamentare; e le rimunerazioni sono corrisposte agli impiegati in misura di cui non si dà contezza.

 

 

Esplicitamente, si dice che l’importo delle spese d’ufficio da detrarre dall’ammontare lordo degli emolumenti spettanti ai conservatori è determinato ogni biennio con decreto del ministero delle finanze non soggetto a pubblicazione.

 

 

Data la estensione del riparto dei proventi “casuali” a territori ognora più vasti, ogni connessione logica fra il valore del servizio particolare sedicentemente reso nell’interesse esclusivo del richiedente ed il valore della particolare prestazione fornita dall’impiegato essendo obliterata, chiaramente appare che da una parte si versano a qualche sportello somme che han natura di tasse ed imposte e dall’altro lato categorie, talvolta numerose, di impiegati, ricevono, col nome di “casuali”, rimunerazioni addizionali commisurate allo stipendio base. E tuttavia la ripartizione delle somme così incassate da pubblici sportelli per ragione pubblica è stabilita, su proposta di un’apposita commissione, con decreti ministeriali, non soggetti a pubblicazione.

 

 

Chi dicesse che la ripartizione in un gruppo di impiegati di una percentuale, ad ipotesi del 2 per cento, della tassa introitata dall’erario è sostanzialmente diversa dalla ripartizione nello stesso gruppo di una addizionale uguale per importo a quel 2 per cento – di x lire per ogni formalità adempiuta a cura dei medesimi impiegati; direbbe cosa stravagante.

 

 

Sia che il diritto sia calcolato in dentro (partecipazione dell’impiegato alla tassa statale) sia che lo si calcoli in fuori (tassa addizionale a favore dell’impiegato) l’inciso è lo stesso – utente o contribuente -; l’intermediario non muta ed è il tesoro; e non muta il beneficiario, che è l’impiegato.

 

 

Ma il calcolo “in fuori” annebbia le idee; fa immaginare, con un passamano, che non esistano imposte e tesoro, e che si tratti di transazione privata fra due privati: impiegato e cittadino.

 

 

Tutto ciò, qualunque sia la sorte dei diritti casuali, è contrario al buon ordine della pubblica finanza. Le entrate per diritti e compensi debbono essere rese di pubblica ragione; e così pure la destinazione di esse.

 

 

Nella recente legislazione italiana non mancano commendevoli esempi di soddisfacimento della esigenza che in proposito si può considerare minima. Basti ricordare l’art. 5 della legge 9 aprile 1953, n. 226, «che apporta modificazioni alle norme sui diritti spettanti alle cancellerie e segreterie giudiziarie»:

 

 

«Il rendiconto della gestione dei diritti spettanti alle cancellerie e segreterie giudiziarie è, per ciascun esercizio finanziario, approvato dal ministro di grazia e giustizia, e presentato al parlamento in allegato al rendiconto consuntivo del ministero di grazia e giustizia».

 

 

Nella relazione al disegno la proposta dell’art. 5, che è nuovo, è così motivata:

 

 

«Di particolare rilievo è la norma contenuta nell’art. 5. Sebbene sia la percezione dei diritti di cancelleria e di segreteria, sia la erogazione di essi avvengano già con la osservanza delle relative norme regolamentari e con il controllo dei capi degli uffici giudiziari e del ministero, si è ritenuto di dover stabilire che anche la gestione delle somme provenienti dalla riscossione di tali diritti sia soggetta, come tutte le altre relative alle somme versate dai cittadini alla pubblica amministrazione ed ai suoi organi, al controllo del parlamento».

 

 

Soddisfare a questa minima esigenza sarebbe tuttavia un ben piccolo, quasi evanescente, passo verso la verità. Il secondo è quello di calcolare “in dentro” i pochissimi compensi che siano reputati degni di sopravvivere; con tutte le conseguenze logiche che da siffatto metodo di calcolo derivano. Solo quando a questa minima esigenza si sia soddisfatto, si potrà studiare quali avvedimenti debbono essere attuati per ragion di rimborso di spese e di rischi effettivi o per ragion di effettivo risparmio del costo o maggior rendimento dei servigi pubblici. Ma nessuno studio può essere intrapreso se prima non sia tolto di mezzo l’interesse di particolari categorie di pubblici funzionari al mantenimento di un sistema sotto ogni rispetto non commendevole.

 

 

Il problema è indubbiamente complesso, ma la sua complessità non dovrebbe indurre a esaurire ogni provvedimento in reiterate e lunghe proroghe, che l’esperienza ha dimostrato punto confacenti a stimolar proficui studi per la ricerca e l’attuazione di una ormai non più dilazionabile soluzione radicale.

 

 

Tali considerazioni mi inducono a invitare le camere a nuova deliberazione, a norma dell’articolo 74 della costituzione.



[1] Intervento alla Camera dei Deputati [ndr].

Risparmio ed investimento

«Il Mondo», 8 settembre 1953[1]

Wirtschaft ohne Wunder, Erlenbach-Zürich, Eugen Rentsch, 1953, pp. 11-32[2]

Ludwig Erhard, La Germania ritorna sul mercato mondiale, Garzanti, Milano, 1954[3]

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 277-318

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Buenos Aires, Asociacíon Dante Alighieri, 1965, pp. 103-122[4]

 

The Kress Library of Business and Economics

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Ediz. di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 61-65

The Kress Library of Business and Economics. Catalogue covering Material published through 1776 with data upon cognate items in other Harvard Libraries . Baker Library, Harvard Graduate School of Business Administration, Soldiers Field, Boston, Mass., 1940. (Un vol. in 4º, di pagg. X – 414, a due colonne).

Il volume, che qui si annuncia, è cosa stupenda; destinata a prender posto accanto ai grandi e pochi strumenti bibliografici esistenti nel campo della scienza economica. Il signor Arthur H. Cole, bibliotecario della Kress Library, ne descrive la genesi in una succinta prefazione. In primo luogo, qualcuno riuscì a persuadere il signor Claude W. Kress, capo, se non erro, di una grande impresa commerciale americana, che le ricerche storiche avevano importanza per lo studio dei problemi economici e a donare alla scuola che noi un tempo dicevamo di commercio (Business School) dell’Università di Harvard i fondi necessari ad acquistare parecchie migliaia di volumi ed opuscoli relativi alla storia dell’economia e del commercio. Ad un certo punto si seppe che il professore H. S. Foxwell, fellow di St. John’s College in Cambridge (Inghilterra), il quale aveva già venduto tant’anni addietro la sua prima famosa collezione di cose economiche alla Goldsmiths Company, che l’aveva depositata presso la Università di Londra, vendeva la seconda collezione, costituita in altri trent’anni di laboriosi acquisti. Erano trentamila tra volumi ed opuscoli. La Kress Library, grazie, evidentemente, a nuova elargizione del munifico fondatore, l’acquistò in blocco e la trasportò negli Stati Uniti. Costrutto l’edificio, i curatori della biblioteca ora ne arricchiscono i particolari d’adornamento. Il signor Kress ha fornito altri mezzi per acquistare alcune migliaia di numeri non inclusi nella collezione Foxwell. Il dott. H.B. Vanderblue ha donato una collezione che Cole dice «insuperata» di scritti di Adamo Smith. Le biblioteche di Harvard e di Boston hanno trasferito alla Kress Library molti numeri che erano di minor interesse per esse, mentre giovano a compiere il fondo anteriore al 1850 della Kress.

Così si formano in quel paese le grandi biblioteche pubbliche specializzate spendendo e donando somme, le quali tradotte in lire italiane suppongono, dopo le unità, almeno le mezze dozzine di zeri. Con le migliaia e le decine di migliaia di lire non si mette insieme più nulla. Nello stesso modo l’altra celebre raccolta americana, quella Seligman, poté essere messa a disposizione degli studiosi in un edificio della Columbia University in New York. Dove andrà a finire la biblioteca di Hollander, del cui catalogo dò qui di seguito l’annuncio? Purtroppo, son tutti mancati ai vivi i tre grandi raccoglitori anglosassoni, Foxwell, Seligman ed Hollander; né si sa chi possa e voglia, dinanzi al costo crescente dei libri, prenderne il posto a vantaggio degli studi.

A dare incremento a questi, i curatori della Kress Library hanno pubblicato il presente catalogo. Una biblioteca serve in ragione del numero di coloro i quali ne fanno uso. Ma non è comodo fare un viaggio apposta sino a Boston nell’incertezza di trovare le fonti che si desidera studiare. Qua e là, anche in Italia, si possono consultare gli schedari del British Museum di Londra, della Library of Congress di Washington, della Bibliothèque Nationale di Parigi, sì da intraprendere a ragion veduta un viaggio di studio. Ma trattasi di grandi biblioteche nazionali, nelle quali lo specialista non sempre trova quel che cerca. Per le biblioteche specializzate, come la Kress, un catalogo a stampa giova anche sotto un altro aspetto: a far conoscere ai ricercatori l’esistenza di libri ed opuscoli che riguardano un dato argomento e che si possono forse trovare in qualche parte d’Europa anche senza traversare l’Atlantico.

Il catalogo comprende 7.279 numeri, ossia indicazioni di opere singole (volumi, opuscoli, fogli volanti) tutti compresi tra il 1481 ed il 1776. L’anno 1776, nel quale venne alla luce la Ricchezza delle Nazioni di Adamo Smith, segna davvero per noi la fine di un’era bibliografica. La cifra di 7.279 numeri può non dir niente ai profani. Qualcuno iniziato alle difficoltà ed al costo di trovare roba anteriore al 1776, il quale in quarant’anni di lavoro, non sa se sia riuscito a mettere insieme neppure un decimo di quella cifra, ha ragione di rimanere allibito.

Astrazione fatta da cotali invidie collezionistiche, il volume tutto composto, salvo le quattro pagine di prefazione, di meri titoli di libri con l’indicazione del nome dell’autore, dello stampatore od editore, della data e del luogo di stampa, del formato e della paginatura, con qualche raro appunto dovuto alla rarissima erudizione con cui Foxwell annotava talvolta sui fogli di risguardo i libri acquistati, è, od almeno fu per me, di amena e di istruttiva lettura.

Voltiamo carta ed apriamo il volume all’anno 1720. Libri ed opuscoli sono elencati infatti anno per anno, dai ventitre incunaboli, di cui 6 stampati in Italia, all’ultima cosa uscita nel 1776. Ecco 224 numeri per quel solo anno. La chiave dell’inconsueta abbondanza di pubblicazione ci è subito data da un foglio volante, qui contenuto in copia fotostatica, dal titolo:A Southsea ballad, or, Merry remarks upon Exchange alley bubles, To a new tune call’d, The grand elixir, or the Philosopher’s stone discovered. Era l’anno della grande mania borsistica rovesciatasi sull’Europa, la quale a Londra, nel vicolo della borsa, infieriva sulle azioni della Compagnia dei mari del Sud. Ed il poeta popolare componeva perciò «La ballata dei mari del Sud ed allegre varianti sulle bubbole del vicolo della borsa. Su un’aria nuova, detta il grande elisir o la scoperta della pietra filosofale (per arricchire)» (n. 3131). Ma il difensore della compagnia mandava in giro calcoli per dimostrare che essa era in grado di pagare un dividendo del 38% per 12 anni, calcolo adatto anche ai cervelli più semplici: An argument proving that the Southsea company are able to make a dividend of 38 per cent for 12 years. Fitted to meanest capacities (n. 313). I poeti satirici non stanno in ozio ed allestiscono farse per mettere sull’avviso la polizia sugli speculatori pronti a fallire: The broken stock-jobbers: or, Work for the bailliffs. A new farce. As it was lately acted in Exchange-alley (n. 3158). Intorno alla proposta di convertire i titoli di debito pubblico in azioni della compagnia dei mari del Sud, si moltiplicano gli opuscoli (tracts). Archibald Hutcheson interviene nella disputa, con parecchi che si direbbero articoli ed ora sarebbero stampati in riviste e giornali ma allora venivano alla luce come tracts volanti. Il catalogo novera dieci sue cose per quel solo anno. Voltiamo in italiano il titolo di uno di essi: «Alcuni calcoli intorno alle proposte presentate alla Camera dei comuni dalla compagnia dei mari del Sud e dalla Banca d’Inghilterra; calcoli intesi a dimostrare la perdita che i nuovi sottoscrittori subirebbero ai prezzi ricordati nelle proposte ed al guadagno che sarebbe ottenuto dai proprietari delle vecchie azioni del mare del Sud». Foxwell annota sul foglio di guardia dell’opuscolo in foglio di 13 pagine e due tavole: «La accesa disputa tra le due compagnie (quella del mare del Sud e la Banca d’Inghilterra) travolse il pubblico in una febbre speculativa e diede origine all’orgia borsistica. Hutcheson aveva avvertito il paese fin dal principio contro i pericoli del progetto; ma le sue furono parole buttate al vento» (n. 3224). Sorte comune agli economisti di tutti i tempi e paesi! Anche Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoè, di Moll Flanders e di altri romanzi tutti degni di essere letti da economisti, entra in campo con un opuscolo in ottavo di 76 pagine, di cui il titolo chiarisce l’intento critico: The chimera: or the French way of paying national debt, laid open. Being an impartial account of the proceedings in France for raising a paper credit, and settling the Mississippi stock “: «Una chimera, o messa a punto del metodo francese di rimborsare il debito pubblico, esposizione imparziale di sistemi tenuti in Francia per mettere in giro biglietti di credito e mettere a posto le azioni del Mississippi» (n. 3190). La mania della speculazione erasi invero, grazie al Law, estesa alla Francia, con le contemporanee frenetiche speculazioni sulle azioni della Compagnia del Mississippi. Se sui 224 numeri del 1720, ben 66 sono in inglese (quasi tutti stampati a Londra), altri 9 sono scritti in francese, 2 in tedesco e 10 in olandese. Fra questi il più interessante è il n. 3217, dal titolo interminabile che comincia: Het groote tafereel der dwaasheid, vertoonende de opkomst, voortgang en ondergang der actie, bubbel en windnegotie, in Vrankryk, Engeland, en de Nederlanden, gepleegt in den jaare 1870 ecc. ecc. È una raccolta di componimenti in prosa ed in verso con 85 stampe, carte e piani. La vidi un giorno, presso un noto libraio antiquario di Parigi; ma il prezzo di richiesta superava le mille lire italiane, sicché restai col desiderio.

Non ho calcolato le proporzioni fra i numeri in lingua inglese e quelli in altre lingue. Sebbene non siano scarsi quelli in francese, in italiano, in tedesco ed in spagnolo, la grandissima maggioranza, forse fra il 70 e l’80 per cento, è di numeri inglesi. Del che una spiegazione è indubbiamente la comodità di gran lunga maggiore per un raccoglitore inglese come il Foxwell ed ora i suoi seguitatori americani, di raccogliere libri ed opuscoli del proprio paese. Ma un’altra spiegazione non può essere dimenticata ed è il fervore polemico che si osserva nella Inghilterra dei secoli diciassettesimo e diciottesimo quando si voleva prima conquistare la libertà di stampa e si volle dopo trarne partito per discutere i problemi che più interessavano l’opinione pubblica, allo scopo di influire sulle deliberazioni della Camera dei comuni, la quale si incamminava appunto allora a diventare l’unica fonte del potere politico. In Francia, in Germania, in Italia e in Spagna si poteva stampare solo ciò che era consentito dalla censura e se in Francia si riusciva non di rado ad introdurre stampati forestieri e ad attribuire false date di luogo situato all’estero a pubblicazioni locali, non così negli altri paesi. Il contributo notevole fornito dall’Olanda alla trattazione dei problemi del giorno è frutto ugualmente della libertà di stampa che ivi si godeva. La Ricchezza delle nazioni non vien dunque fuori a caso nell’Inghilterra del 1776. Essa è il frutto di due secoli di vivaci discussioni durante le quali i problemi interessanti la collettività venivano affrontati e discussi e risoluti da una folla di pubblicisti, di cui gli uni erano, sì, meri gazzettieri e libellisti, ma altri erano uomini di stato, parlamentari, studiosi, mercanti, proprietari. Ognuno di essi difendeva una idea particolare, non di rado un interesse proprio. Ma le idee particolari si fondevano nell’idea generale; l’interesse particolare doveva essere temperato per il contrasto con gli altri interessi; sicché riassumendo l’opera di tanti suoi predecessori, venne l’uomo di genio, il quale compie la sintesi del secolare dibattito. Il libro di Adamo Smith, An Inquiry into the nature and causes of the Wealth of Nations, porta qui il n. 7.261 ed è posseduto dalla Kress Library in un esemplare di eccezione. La Ricchezza delle Nazioni è rarissima a trovarsi, come qui accade, nei cartoni originali della prima edizione, e in tale stato è quotata a secondo della freschezza, dalle 40 alle 80 lire sterline.

Il prezioso volume compilato dal Cole si chiude con un indice alfabetico su tre colonne in 52 pagine.

Di una controversia tra Scialoja e Magliani intorno ai bilanci napoletano e sardo

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Ediz. di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 215-227

1. – Continuo qui una rubrica, altrove iniziata[1] e già qui seguitata [2], nella quale non intendo dare una bibliografia compiuta di alcun capitolo della scienza economica, ma elencare soltanto i libri raccolti da me su un dato argomento. Dissi già che il valore della rubrica è meramente quello di mettere in luce le difficoltà incontrate dagli amatori di libri nel procacciarsi una raccolta compiuta di ciò che fu scritto intorno ad un dato problema; forse con incitamento ad altri a non lasciarsi sfuggire qualcuno degli scritti che a me fanno difetto. Il che gioverà a scansare in qualche maniera il malanno del disperdimento della suppellettile libraria economica; poco curata dagli amatori di libri, di solito indifferenti per libri ed opuscoli intesi a discipline reputate noiose e grossamente materiali, epperciò bistrattate dai librai antiquari, ai quali a giusta ragione duole inserire nei loro cataloghi, spendendo da 3 a 5 lire per numero, opuscoli che essi prevedono non saranno da alcuno richiesti. Negli ultimi anni si avverte un inizio di ravvedimento, specie per un qualche modesto aumento nel numero degli amatori di cose economiche esaurite; ma, poiché gli amatori sono pochi, i librai non sono finora stati a bastanza eccitati ad informarsi delle esigenze di questo particolare ramo del loro commercio, a scernere il buono dal mediocre e dal cattivo ed a far prezzi razionali, ossia vantaggiosi, alti o bassi che siano, per essi e per i clienti. Siamo ancora, nel ramo economico, allo stadio dei prezzi fatti a caso, a fiuto, seguendo gli accidenti della persona del cliente e dell’astuzia del mercante. Nessuno, che io sappia, tra i librai antiquari italiani, anche se vantino meravigliose raccolte di fonti bibliografiche, possiede qualcuno tra gli strumenti noti della bibliografia economica. Uno solo era dotto in materia; ma, forestiero e ramingo, suppongo non sarà più qui quando queste pagine verranno in luce[3].

2. – Stavolta, il mio elenco è tutto contenuto in quattro numeri, di cui il quarto fa quasi doppio col terzo:

1. I bilanci del regno di Napoli e degli stati sardi, con note e confronti di A. SCIALOJA, Torino, Società editrice italiana di M. Guigoni, 1857. Un vol. in 8° di pagg. 140 ed una carta per le “correzioni ed aggiunte”. Il libretto, stampato nella tipografia di G. Favale e compagnia, nella copia posseduta da me, non ha indice e non deve averlo avuto mai, se Carlo De Cesare, biografo di Antonio Scialoja (Roma, 1879, pag. 87) lo dice pur egli di 140 pagine. A chiarirne il contenuto, fornisco l’indice dei capi in cui il libretto si divide: I. Nota preliminare e testo dei bilanci (napolitano pel 1856 e sardo pel 1857, discusso il 1856); II. Entrate §: 1, Note generali e confronto complessivo; § 2, Note e confronti speciali; III. Spese: § 1, Note e confronti complessivi; § 2, Note e confronti speciali delle spese: (A) Finanze, (B) Grazia e giustizia, (C) Esteri, (D) Istruzione pubblica, Affari ecclesiastici e Presidenza del Consiglio in Napoli, (E) Interno e polizia, (F) Affari ecclesiastici in Napoli, (G) Lavori pubblici, (H) Guerra e marina; Conclusione. L’opuscolo, introdotto clandestinamente nel regno, fu ivi ricercatissimo, e venne ristampato, a detta del De Cesare, «di soppiatto imitando perfettamente l’edizione torinese… Durante gli anni 1857 e 1858 non si parlò di altro in Napoli e nelle provincie del Regno che dello scritto di Scialoja; il desiderio di leggerlo diventò febbrile in guisa da spendere per l’acquisto di un solo esemplare di esso 6 ducati, equivalenti a 25 lire italiane». Ferdinando II, il quale invano ne aveva interdetta l’introduzione, ordinò che le accuse fossero ad una ad una ribattute. Furono scelti a rispondere monsignor Salzano per la parte ecclesiastica; Federico del Re, Nicola Rocco, Ciro Scotti, Francesco Durelli, Alfonso de Niquesa ed il canonico Caruso per i vari rami dell’amministrazione; Agostino Magliani e Girolamo Scalamandrè per le finanze (così Raffaele De Cesare in Antonio Scialoja. Memorie e documenti, Città di Castello, 1893, pag. 35).

2. Gli errori economici di un opuscolo detto i bilanci del Regno di Napoli e degli Stati sardi, confutato da G. SCALAMANDRÈ (articolo estratto dal giornale «La verità»), Napoli, 1858, Stabilimento tipografico del cav. Gaetano Nobile. Un op. in ottavo di pagg. 74. Lo scritto si divide in tre capi: I: degli errori commessi dall’autore dell’opuscolo, circa il suo stesso intento finale; II: degli errori commessi dall’autore dell’opuscolo ne’ mezzi che pone ad atto per conseguire il suo intento: § 1) gli stati discussi di Napoli e del Piemonte; § 2) Giornale del Regno delle due Sicilie; § 3) collezioni delle leggi del regno; § 4) scrittori economici e scritti apologetici; § 5) informazioni private e criterio dell’autore dell’opuscolo; III: degli errori commessi dal nostro autore nei modi tenuti da lui, per conseguire con i suoi mezzi il suo fine. Conclusione.

3. De la situation financière du royaume des Deux Siciles, par AGOSTINO MAGLIANO, Bruxelles, imprimerie de A. Mathieu et Compagnie, Vieille-Halle-aux Blés, 31, 1858. Un op. in ottavo di pagg. 40. È la traduzione francese della risposta del Magliani pubblicata in Napoli nel 1857 col titolo Della condizione finanziera del regno di Napoli. Non posseggo quest’ultima. Magliani era funzionario del ministero delle finanze e dovette ubbidire all’ordine di scrivere la risposta. Quando nel 1860 lo Scialoja tornò a Napoli e da Garibaldi dittatore fu nominato ministro alle finanze, Carlo De Cesare fu scelto da lui a segretario generale. «Magliani», narra Raffaele De Cesare, «era tuttavia capo di ripartimento nello stesso ministero, e temeva, da un momento all’altro, di esser licenziato dal nuovo ministro, in omaggio alla pubblica opinione, come si diceva allora. Con questa formula, tutta rivoluzionaria, sono stati destituiti migliaia di funzionari d’ogni grado. Mio zio aveva resistito alle insistenze di tutt’i liberali, perché il Magliani fosse destituito egli pure, ritenendolo, quale egli era, persona singolarmente capace. D’altra parte, la sua condotta, durante il periodo costituzionale di Francesco II, era stata correttissima: egli si era subito adagiato al nuovo ordine di cose, tanto che i decreti di maggiore importanza, quelli sui quali conveniva serbare il segreto, erano scritti da lui… Magliani pregò mio zio d’intercedere presso Scialoja, assicurandolo che egli aveva pubblicato il noto opuscolo, non perché ne dividesse le idee, ma perché aveva dovuto ubbidire agli ordini del Re. Scialoja rispose di aver tutto dimenticato; essergli noto il valore del Magliani, desiderare di conoscerlo. In una sera del settembre del 1860, mio zio lo condusse in casa Achard, dove Scialoja abitava. Imbarazzante fu l’incontro da parte del Magliani, il quale appena presentato a Scialoja, gli prese una mano e la baciò ripetutamente, esclamando: Perdonate, Don Antonio. Scialoja rispose che aveva tutto dimenticato; e da quel giorno furono amici, e più tardi colleghi alla Corte dei conti» (RAFFAELE DE CESARE, Antonio Scialoja, cit., pag. 36). Dall’«elenco degli scritti, dei discorsi parlamentari, delle relazioni e progetti di legge di A. Scialoja» contenuto a carte 69-77 dell’opuscolo Per l’inaugurazione del monumento ad Antonio Scialoja avvenuta in Procida addì 11 ottobre 1896, non risulta che lo Scialoja abbia pubblicato alcuna replica alle risposte del Magliani e degli altri suoi critici. Magliani, davvero valente uomo, fu in seguito ripetutamente ministro delle finanze nel regno d’Italia, dal 26 dicembre 1877 al 24 marzo 1878 e dal 19 dicembre 1878 al 14 luglio 1879 con Depretis, dal 25 novembre 1879 al 29 luglio 1887 in successivi gabinetti Cairoli e Depretis, e di nuovo, per breve tempo, dopo il 7 agosto 1887 con Crispi, tenendo a lungo altresì la reggenza del ministero del tesoro. Durante il secondo gabinetto Crispi, nel 1890, ad occasione probabilmente delle elezioni generali indette in quell’autunno per la XVII legislatura e quando forse si temeva da taluno il ritorno del Magliani al ministero, l’ira di parte riesumò l’antica risposta allo Scialoja e questa fu ripubblicata così:

4. La situazione finanziaria del Regno nel 1858 per AGOSTINO MAGLIANI, Roma, Tipografia Ciotola editrice, via del giardino, n. 85-86, 1890. Un opuscolo in 8° di pagg. 29. La ristampa appare, nonostante l’aggiunta erronea della data del 1858 invece di 1857, compiuta sull’originale italiano; ed è preceduta (pagg. 3-6) da un cenno sull’occasione della prima comparsa dello scritto. Agostino Magliani, vi si narra, «mentre ferveva l’opera della unità italiana», mentre Pisacane cadeva a Sapri, incolpava Antonio Scialoja «di esser stato parte del governo rivoluzionario che intendeva a detronizzare “la legittima e gloriosa dinastia dei Borboni” e, rispondendogli qualificava le insurrezioni del 48 e del ’49 “tentativi di distruzione dell’ordine sociale” e derideva la libertà costituzionale, i vantaggi di uno statuto, la cospirazione in pro’ dell’indipendenza nazionale, la guerra che la Lombardia muoveva all’Austria». Mettendo di nuovo sotto gli occhi degli italiani quel che nel 1858 il «presunto restauratore delle finanze italiane» scriveva delle finanze borboniche, i riesumatori della vecchia scrittura volevano dimostrare la scarsa levatura politica di lui: «Oggi Agostino Magliani, in Napoli, parla della situazione finanziaria dell’Italia, paragonabile per tanti rispetti, a quella del Piemonte di allora. E, criticando il fin qui fatto, in cui egli ebbe tanta parte e dubitando dei destini della patria, dà prova dello stesso accorgimento politico con cui nel 1858 giudicava salda e secura la monarchia di Ferdinando II proprio la vigilia della sua rovina».

3.- Il dibattito fra lo Scialoja ed il Magliani – lo scritto dello Scalamandré merita ricordo quasi soltanto per taluna ingenua sua difesa del segreto nei conti pubblici e della finanza parsimoniosa dei Borboni – è memorabile non tanto per la analisi concreta delle entrate e spese borboniche confrontate a quelle sarde, quanto per i problemi fondamentali che furono allora posti. Sarebbe in verità tempo che, senza rifar processi, fossero studiate accuratamente le finanze borboniche dal 1815 al l860, meglio di quel che oggi possa farsi sulle monche e contrastanti notizie che si leggono, oltrecché nei tre opuscoli citati, nelle opere del Rotondo, del Bianchini, del Dias, del Colletta, del Palmeri, e nei bilanci e relazioni ufficiali a stampa di quel tempo. Stupisce l’ignoranza pressoché compiuta nella quale siamo ancora oggi rispetto a fatti recenti, sui quali probabilmente è possibile gittare piena luce, sol che si voglia durar la fatica di cercare negli archivi napoletani documenti contabili, dei quali si sa essere stati compilati in parecchie copie e queste sottoposte a consessi delegati a discuterli e ad approvarli. Sinché qualche studioso, fastidito dal prender parte alle ripetute dispute intorno ai caratteri, ai fini ed al contenuto della cosidetta scienza delle finanze, non si sia deciso ad impiegare qualche anno della sua vita allo scopo di darci un quadro preciso della finanza napoletana del tempo del risorgimento, sarebbe presuntuoso farsi giudice dei fatti nella controversia Scialoja-Magliani. Scialoja annaspava nel vuoto del segreto ufficiale, e da notizie frammentarie traeva deduzioni logiche, integrate da ipotesi plausibili intorno a fatti che egli in parte conosceva per esperienza personale. Magliani e Scalamandrè ai dati in parte ipotetici e tratti da bilanci preventivi non opponevano i dati certi dei conti consuntivi; ma si industriavano a dimostrare che lo Scialoja aveva errato nell’interpretare le notizie da lui possedute o nell’assumere come effettivi i dati che erano di mera previsione. L’imbarazzata reticenza dei difensori del Borbone dimostra che essi non volevano o non potevano palesare fatti dei quali pur avevano notizia o che il principe non aveva voluto rammostrare ad essi compiutamente la situazione reale delle finanze napoletane.

4. – Per ora, dunque, l’interesse della disputa sta nei principii i quali venivano posti a contrasto dall’antico ministro costituzionale di Napoli, fatto esule in Piemonte e chiamato ad insegnare economia politica nella università di Torino ed il funzionario borbonico, destinato a diventar ministro delle finanze del Re d’Italia.

5. – Dei quali principii, è preliminare quello della pubblicità dei documenti finanziarii. Oggi, che in Italia si informa il pubblico in volumi particolareggiatissimi, la disputa appare anacronistica; ma giova ad intendere il passato.

«Questi stati – aveva subito detto lo Scialoja – che in Napoli diconsi discussi, quantunque non siano sottoposti ad alcuna specie di discussione, sono preparati dai ministri ed approvati dal Re, ma rimangono del tutto segreti» (pagg. 4-5).

Agli apologisti della finanza borbonica i quali dicevano «misérable effronterie» il paragone fra «le desastre économique du Piémont, avec la finance napolitaine, dont l’assiette est un model d’administration et de prosperità» lo Scialoja chiedeva:

«Se i numeri e i fatti stanno per voi, perché temere il confronto?… Non è mia la colpa se la statistica ed il raziocinio sono due nemici indomabili di coloro che amano il segreto e l’apparenza» (pag. 6).

«La via più semplice per mostrare alla gente qual è lo stato delle sue finanze, dovrebbe essere pel governo napoletano quella ch’è tenuta da tutti i governi civili del mondo, cioè la pubblicazione annuale de’ documenti autentici. Invece esso solo in Europa non pubblica né bilanci né conti. Il governo romano, il cui segreto in fatto di finanze era una volta per lo meno pari a quello del santufficio, pubblica ogni anno e gli uni e gli altri, dal 1848 in poi. Il santufficio finanziario è rimasto in Napoli solamente» (pag. 18).

«È specioso che il governo di Napoli monti in furia, se non s’indicano con precisione le somme delle sue entrate e delle sue spese, mentre che esso non pubblica né bilanci né resoconti» (pag. 34).

6.- Lo Scalamandrè finge di credere che la richiesta della pubblicità si ristringa a quella della stampa:

«[Lo Scialoja] ragiona di segreti e di cose occulte: segreti i bilanci finanziarii di Napoli, segreti i resoconti della tesoreria generale. Segreti; cioè poiché non si stampano. Del rimanente sono di continuo in giro senza riserva, ed in un gran numero di copie per tutte le pubbliche officine, per i ministeri di stato, e per tutte le dipendenze loro. Le loro cifre sommarie sono anche stampate ora nel Giornale del regno, ed ora nella Collezione delle leggi. Sono registrati, esaminati, discussi, approvati, eseguiti, o sommessi a censura dalle autorità, o da collegi competenti. Che altro si vuole? Si vuole che siano stampati! Ma quando egli è certo, che il governo ponga la più sedula cura nel cauto impiego del danaro pubblico; quando è indubitabile che le condizioni della finanza fanno documento assai onorevole della diligenza e della solerzia del governo, perché non abbia esso interesse alcuno a volerle mantenere occulte; quando infin la grave spesa di tante stampe, in nulla sarebbe giovevole agli usi delle amministrazioni pubbliche, né aumenterebbe il numero dei privati leggitori, parrebbe che bene di tale spesa potesse farsi risparmio. Pur si vuole che gli stati discussi almeno fossero stampati; come furono stampati tutto quell’anno 1847 applicato all’anno 1848, e parte quello del 1849! Deh! che mai fossero stati posti a stampa questi bilanci, se altro servigio non dovevano rendere al mondo, tranne quello di somministrare all’A. la materia e il pretesto di tanti errori! Sì che colui, che dette opera o consiglio alla pubblicazione suddetta, dovrebbe, come l’eroe di Cervantes fece nel suo testamento “dimandar da sua parte con ogni affetto possibile perdono all’A., per la occasione ch’ei gli dette (senza pensarlo) di scrivere tanti e sì grandi spropositi”» (pagg. 60-61).

Stupisce ancora che lo Scialoja affermi che i bilanci napoletani non siano stati sottoposti ad alcuna specie di discussione:

«.. e qui si dee intendere di quelle specie di discussioni, le quali si fanno nel parlamento piemontese. Pure, a nostro credere, a niuno è lecito (e massime ad un economista napoletano) ignorare che gli stati del Tapia, a cagion di esempio, i quali di molti anni precedettero la nascita di detto parlamento, potevano senza meraviglia di chi che fosse portare l’appellazione di discussi, solo per essere distribuiti in due parti, delle quali l’una, ch’era l’entrata, andava controposta all’altra, ch’era l’uscita» (pag. 24).

Dove lo Scialoja avrebbe ben potuto replicare che nessuno era tenuto a conoscere le parole del gergo amministrativo usate negli uffici napoletani; né, a tacere dei grandi dizionari della lingua italiana in genere, il Rezasco, il quale pur nel Dizionario del linguaggio italiano storico ed amministrativo tocca degli usi della parola “stato” in senso di bilancio preventivo, non fa cenno in proposito dell’aggettivo “discusso”.

7. – Assai più abilmente il Magliani:

«Ma gli atti governativi che regolano l’andamento dell’amministrazione finanziaria non sono tutti pubblicati nella uffiziale Collezione delle leggi? I conti della tesoreria generale e di tutte le amministrazioni finanziarie (tra i quali di somma importanza sono quelli del Gran libro del debito pubblico, e della Cassa di ammortizzazione) non si discutono con la pubblicità di un solenne giudizio da un apposito magistrato che è la Gran Corte dei conti nelle camere contabili i cui arresti sono esecutivi e non soggetti all’approvazione del governo? Se la pubblicità non può essere richiesta che come guarentigia della retta e ben ordinata amministrazione; ove sono più forme e maggiori guarentigie per la esattezza e regolarità delle disposizioni e dell’uso del pubblico danaro di quelle stabilite nelle leggi fondamentali del sistema amministrativo del Regno delle due Sicilie? E gli stati discussi si discutono ripetutamente e ponderatamente. Ciascun ministro ne prepara gli elementi per la spesa dei servizi pubblici dipendenti dal suo dicastero. Il ministro delle finanze disamina, controlla, discute i bilanci delle spese di tutti i ministeri, e prepara gli elementi del bilancio generale degl’introiti dello stato. Segue la disamina del Consiglio dei ministri, e quella, da ultimo, del Consiglio di stato, presieduta dalla persona augusta del Re. Queste forme prescritte dal diritto pubblico del regno sono scrupolosamente osservate. Esse presentano tutti i vantaggi che una discussione calma, illuminata e scevra di qualunque altra preoccupazione, che al pubblico bene non si riferisca, ha sopra una discussione agitata dalle passioni de’ partiti e non diretta da quella necessaria unità di principii e di scopo, ch’è essenziale condizione degli atti governativi. Chi ignora inoltre che, essendo norma direttrice di tutto l’andamento della gestione finanziaria, e delle operazioni segnatamente della tesoreria generale, hanno tutta questa maggiore pubblicità che è compatibile per la natura stessa delle cose con gli atti della pubblica amministrazione? O vorrà forse intendersi che ivi sia Santufficio (secondo l’elegante frase dell’opuscolo) ove non è rumor di partiti e pubblicità di gazzette? D’altronde la posizione della finanza napoletana non potrebbe essere un mistero per chicchessia. Tale è il suo credito da per tutto che solo da una certa e diretta cognizione delle cose e dei fatti può essere ispirato» (pagg. 13-14 dell’edizione del 1890).

La replica era ovvia: non disputarsi dell’onestà nel maneggio del pubblico danaro, ma del diritto, affermato in Piemonte e negato in Napoli, dei cittadini contribuenti a conoscere i particolari delle entrate e spese pubbliche, a farsene chiarire le ragioni dai magistrati a ciò delegati, e ad aver voce nel fissare la somma e le specie dello spendere e del tassare.

8. – La discussione pubblica dei bilanci avrebbe giovato al governo napoletano rispetto a quelle branche della amministrazione, nelle quali eccelleva. Lo Scialoja, confrontando, non dubita di preferire Napoli a Torino per quanto riguarda giudici e tribunali. A Torino, lo stato spende di più perché i giudici sono molti, sebbene peggio pagati: da 1660 a 2700 lire all’anno il giudice provinciale in Piemonte, contro 4050 lire pel giudice di tribunale civile in Napoli; da 3500 a 7000 lire il giudice piemontese d’appello contro 6750 ad 8100 lire il corrispondente giudice napoletano di gran corte civile; 8000 lire il giudice piemontese di cassazione, contro 11.250 il giudice napoletano della corte suprema; 15 e 18 mila lire i rispettivi presidenti; e la superiorità del trattamento napoletano in confronto a quello piemontese è maggiore di quella risultante dal mero confronto delle cifre, poiché i prezzi delle cose sono a Napoli più bassi che a Torino.

«Il numero totale dei tribunali e dei giudici è maggiore in Piemonte che in Napoli; e gli stipendi sono inferiori. Or se io avessi a pronunciare un mio giudizio su questo particolare, direi francamente che non tengo per la opinione di coloro i quali preferiscono un gran numero di tribunali e di giudici poco retribuiti, a pochi tribunali e pochi giudici ben pagati. La giustizia, fino a che sarà renduta da ufficiali nominati dal potere esecutivo, avrà d’uopo d’essere confortata dall’autorità personale dei giudicanti, la quale non è conceduta al numero, ma sì alle doti intellettuali e morali de’ giudici. Gli uomini veramente autorevoli, sotto questo duplice aspetto, non abbondano, né la società ha diritto di richiedere che si sobbarchino ad un penoso incarico, se non assicura loro di che vivere agiatamente essi e le loro famiglie» (pagg. 77-78).

La magistratura napoletana non si piegò facilmente al volere del borbone:

«Ben vorrei che vi fossero al mondo molte contrade in cui non essendo giudici inamovibili, né altra garanzia di sorta, non riuscisse al potere esecutivo di rinvenire poche decine di partigiani o di rinnegati politici disposti non solo a secondarlo quando esso inferocisce contro un partito vinto, ma sì ad oltrepassare le sue intenzioni, siccome suole avvenire. Or poche decine di uomini di tal risma bastano a formare la maggioranza né soli tribunali criminali del regno ove occorre; e l’esperienza ha già più volte mostrato che il governo napolitano in tempi di reazione non ha potuto conseguire l’intento di radunare questo numero non grande di giudici politici se non dopo destituzioni, esili, incarceramenti di molti altri che o gli resistettero o fecero contro il suo volere» (pag. 80).

9. – Gli ordini napoletani erano altresì commendevoli per quanto toccava l’insegnamento privato. Sebbene un decreto del 1821 incaricasse i gesuiti di proporre «un metodo uniforme d’insegnamento per tutti i collegi, licei e scuole private»,

«ciò non ostante dal 1830 in poi erano poco a poco risorte le antiche usanze, e scuole private assai numerose non erano soggette né a programmi ufficiali, né a partizione prestabilita di materie e di corsi. Misure uniformi e norme compassate che se in pratica non perdessero di efficacia, riuscirebbero a tarpare le ali a’ maestri, uccidere di noia i discepoli, ed impappagallare, per quanto è possibile, gli uni e gli altri. L’insegnamento liberato da tant’impacci o non foss’altro meno regolato colle seste offrirebbe ad ingegni di diversa tempera precettori e metodi convenienti alle forze ed all’indole loro: e questo è certo uno de’ principali buoni effetti che derivano dalla libertà, la quale non esclude ogni regola, ma ripugna agli ostacoli ed alle panie» (pagg. 88-89).

«Rispetto alle scuole superiori private in Napoli, oso affermare che devesi ad esse non solamente la istruzione d’una parte della classe media più elevata, a dispetto degli ostacoli politici che vi si oppongono, ma benanche quella specie di movimento scientifico che si avverte nel regno e che non si avrà mai là dove il monopolio dell’insegnamento fa del sistema degli insegnanti un domma universale in tutto lo Stato, sicché colui che se ne diparte è guardato come un eretico.

In Napoli, quando la polizia non è del tutto dominata dallo spirito delle tenebre, sicché l’antica consuetudine risorge e l’insegnamento privato è facilmente permesso, vedi l’uno accanto all’altro professori che insegnano diversi sistemi e con diversi metodi; e tra questi professori sono uomini eminenti e uomini mediocri. Al banchetto della scienza possono in tal modo sedere giovani ingegni di gusto e di attitudine diversa, e ciascuno uscire convenientemente nutrito. Ed oltracciò dalle scuole comincia quella varietà di studi e di opinioni la cui lotta è vita della scienza, e condizione del suo incremento. Escludetela, e voi convertirete il sapere umano in una specie di religione, tanto più intollerabile e presuntuosa per quanto vi ha più parte l’intelletto e meno il cuore. La varietà delle scuole, de’ metodi e de’ sistemi sveglia le menti, amplia l’intelligenza, e rinvigorisce gl’ingegni. Essa fa di Napoli, ad onta de’ più gravi ostacoli, un semenzaio di professori sì pel resto d’Italia, e sì per l’estero: ve ne ha in Toscana, in Lombardia, in Piemonte, nelle isole Jonie, nella Svizzera, da per tutto.

Il governo è persuaso che questa tradizionale concorrenza privata nell’insegnamento superiore, radicata oramai ne’ costumi del popolo, romperà sempre il disegno d’ispirare a suo modo la gioventù per mezzo di professori universitari da lui prescelti; e però ne’ tempi di reazione le scuole private sono arbitrariamente chiuse, o non permesse ad altri che a professori di fiducia del governo. Anzi, se mal non mi appongo, uno de’ principali motivi della espulsione degli studenti dalla capitale, fatta non ha guari, ha dovuto essere l’impedire il loro contatto con uomini abili ad insegnar loro le scienze filosofiche e sociali, le quali in Napoli più che altrove, sebbene di soppiatto e tra mille pericoli, sono da pochi, ma profondamente studiate» (pagg. 90-91).

10. – Scialoja spiega altresì, giustamente lodando la legislazione napoletana, come il frutto delle tasse di bollo e registro sia minore in Napoli che in Piemonte:

«Nel banco delle due Sicilie è una istituzione tutta speciale e che merita d’essere menzionata: essa preesisteva all’ordinamento attuale, ed era comune a ciascuno dei sette banchi ch’erano in Napoli il secolo scorso, e i quali fecero buona prova sino a che il governo non ne abusò per suoi fini. Secondo questa istituzione colui che deposita il suo danaro al banco ne riceve un titolo detto fede di credito, trasferibile per girata e rimborsabile a vista, ovvero acquista il diritto di caricare sulla cassa del banco speciali mandati, detti polizze notate, sino alla concorrenza del deposito attestato da una madrefede. Nelle girate delle fedi o delle polizze notate può scrivere la causa del pagamento ch’egli intende di fare col loro valore, ed anche se gli piace un intero contratto che ha una relazione qualunque col pagamento ch’effettua. E perché queste fedi e queste polizze possono farsi di poche grana (anche di 10 ch’equivalgono a circa 9 soldi) si suole approfittarne in ogni specie di convenzione, ove è facilissimo innestare un pagamento così lieve, ed in ogni specie di quitanze, massime colà dove non è nelle leggi civili quell’articolo assai improvvido e molesto che leggesi nel nostro [piemontese] codice, e pel quale le quitanze di obbligazioni contratte con istrumenti sono nulle, se non vengono fatte colle medesime solennità. Que’ polizzini o quelle fedi si mandano tosto a cambiare al banco, e se ne fa copia, che si rilascia nelle mani dell’altro contraente. Il banco ha un registro, in cui trascrive simili contratti, e conserva in filze gli originali. In capo a qualunque spazio di tempo, si può chiederne un estratto, il quale fa piena fede e costa poche grana per la copia, più il prezzo di un foglio di carta bollata ed il registro di un tarì. Questi estratti si dimandano nel solo caso che siavi contestazione giudiziaria sulla convenzione o sulla sua data. Nella città di Napoli specialmente non vi è quasi un solo affitto, o una ricevuta di pagamento, o un contratto di compra vendita di cose mobili, che non sia scritto su fedi di credito o polizze notate. Ciascun proprietario del pari che ciascun commerciante è provveduto di piccoli polizzini per distendervi sopra di simili atti. È facile ad intendere come questa istituzione, che dà gratuitamente a ciascuno la facoltà di avere, per così dire, il notaio in saccoccia, scemi l’entrata del bollo e del registro» (pagg. 58-59).

11. La lode data ai particolari istituti napoletani rafforza il biasimo per i principii informatori del sistema tributario napoletano. Troppa essere la predilezione per le imposte sui consumi e sommo il timore di scontentare i ceti medi con le imposte sulle professioni, sui commerci e sulle industrie, a cui Gioacchino Murat durante il suo regno aveva dato inizio istituendo imposte personali e sulle patenti:

«I Borboni di Napoli, per ingraziarsi ne’ popoli loro soggetti, abolirono i tributi personali e lasciarono sussistere l’enorme dazio di più di 10 milioni sul consumo della sola capitale, dove la plebe, disputando il terreno palmo a palmo all’esercito francese, si era mostrata tanto ligia alla loro dinastia. Anche in Piemonte il conte d’Agliano nel riprendere il possesso della Savoia, nel 1814, annunziava a nome del restaurato Vittorio, che sarebbero abolite le tasse di successione e di patente; e nel 1815 riducevasi a metà l’imposta personale, ristretta anche di vantaggio nel 1818. Ingannaronsi forse questi re restaurati? No; l’assolutismo ha una specie d’intuito della propria utilità immediata, e rare volte s’inganna» (pag. 48).

Repugnano dappertutto i popoli alle imposte sui redditi. In Piemonte

«pagansi senza lamenti 13 milioni pel monopolio del tabacco, e si levano alto le grida contro la mobiliare, la personale, la tassa delle patenti ed i canoni gabellari, che insieme sommati rendono appena 13 milioni lordi. Epperciò anche in Piemonte “aspettando che (le moltitudini) ragionino e adoperandosi perché ragionino presto, bisogna però tener conto che non ragionano ancora”» (pag. 49).

Se dunque giova usar prudenza nell’istituire imposte moleste ai capitalisti, ai commercianti ed agli industriali, la mancanza d’ogni tributo sembra tuttavia allo Scialoja testimonianza di debolezza nel governo borbonico.

«Il commercio è di sua natura … querulo. Esso è parte nelle mani di stranieri, che ad eccezione di pochi generosi, sono contenti di qualunque governo e gli fan plauso, quando non pagano, e parte in quelle d’una classe di nazionali che, per vero dire, è la più indifferente alle libertà politiche, ma che forse si sveglierebbe dalla sua sonnolenza se avesse a pagare. Se non altro i suoi abiti di tornaconto le farebbero dimandare: “perché paghiamo, e che uso è fatto delle somme che paghiamo?…”. Quanto alle professioni dotte, egli è certo che in nessun altro paese d’Italia sono retribuite meglio che in Napoli, e però in nessun altro potrebbero più agevolmente tollerare una imposta. Ma coloro che sono in continuo contatto col resto della popolazione, il medico, l’avvocato, l’architetto, ecc. che hanno su di essa un certo ascendente e che rappresentano, direi quasi, lo spirito della classe media, si teme di colpirli con imposizioni dirette. Cotesta gente si ha paura di toccarla come se fosse un vespaio. Oltre che quella parte della classe media, che ha per capitale l’ingegno, paga volentieri ne’ governi liberi, ov’essa può molto ed è chiamata a dominare pel suo sapere. Ma sotto un governo assoluto essa è con ragione la più riottosa, e la più temuta: già s’intende ch’essa è pure la più odiata da chi governa» (pag. 51).

12. – Magliani piglia di fronte arditamente la concezione di Scialoja: perché istituire imposte non necessarie, le quali sarebbero dannose?

«È grave quanto vera la sentenza del Montesquieu “che non bisogna togliere nulla al popolo su’ suoi bisogni reali per bisogni immaginarii dello Stato. Bisogni immaginarii sono quelli che vengono suscitati dalle passioni di coloro che governano, dall’ambizione di una vana gloria, e da una certa impotenza di spirito contro la fantasia”» (pag. 26).

Fa d’uopo spendere bene il pubblico danaro.

«Accrescere la forza produttiva della finanza col diminuire le gravezze dei sudditi, e col mantenere indiminuite le spese di tutti i servizi dello stato; ecco lo scopo dell’amministrazione finanziaria del governo del re delle Due Sicilie. Esso è nobile e generoso e degno di essere imitato» (pag. 22).

13. – Ribatte lo Scialoja: è vero, il governo napoletano spende meno di quello piemontese. Sia il divario da 14 a 28 lire per abitante, come affermano i suoi zelatori, ovvero da 21 a 26, come dovrebbe correggersi, sta di fatto che il fisco borbonico ha la mano più lieve di quello piemontese. Ma:

«se fossero chiamati tutti gl’italiani a comizio per eleggere tra il governo sardo coi suoi debiti e le sue imposte o il napolitano, non dirò già con minori debiti e con minori imposte, ma senza imposte e senza debiti, non vedo che sarebbe dubbio per alcuno il risultamento del suffragio» (pag. 13).

Piaceva ai laudatori del governo napolitano confrontare i 630 milioni del debito pubblico piemontese, cresciuto nel 1857 a somma così spaventosa dai 95 milioni del 1847, coi pochi 420 milioni di lire, ai quali il debito napoletano era stato ridotto, in regno tanto più vasto e popoloso. Rispondeva Scialoja: essere il debito napoletano dovuto alle spese di occupazione di soldatesche straniere accorse nel regno a ristabilire o difendere la dinastia; ed invece quello piemontese alle guerre del 1848 e 1849 volte alla indipendenza d’Italia dallo straniero ed alle opere pubbliche intese a crescere la potenza economica del paese. Laddove a Napoli la sola ferrovia esistente era quasi un gingillo di corte, a Torino: la gran rete di vie ferrate, di cui le principali maglie si vanno di mano in mano formando sul territorio sardo, dove sono già in esercizio o in costruzione 902 chilometri di ferrovie, rende sempre più necessaria la costruzione di strade secondarie; e quindi più considerevole la spesa delle provincie per la loro costruzione e manutenzione. Ma questa spesa è compensata con usura da’ benefizi economici che se ne ritraggono. In questo come in tutti gli altri casi, in cui si tratta di spese, cadesi in sofismi grossolani, se dal confronto delle somme vuole indursi argomento di lode per chi spende meno, e di censura per chi spende più. Le spese maggiori pei lavori pubblici, quando sono destinate ad opere utili, lungi dall’essere prova di prodigalità sono indizio di prudenza; perciocché veramente non sono spese, ma investimento di valori di capitali, che per essere di pubblico uso, sono fruttiferi per tutti.

14.- La chiusa dell’atto d’accusa di Scialoja è solenne: chiaro appare dal

«confronto tra i due sistemi finanziari, che il governo piemontese sebbene spenda più del governo precedente, e più ancora spendano le amministrazioni locali per reazione al passato che fu o troppo misero o troppo negligente nel provvedere a certe spese, pure il governo più assoluto che siavi oggi in Europa, quello di Napoli, non ispenda meno per conto dello stato e non faccia spender meno ai comuni, se non in quelle cose che tornano profittevoli all’avanzamento della civiltà.

Il Piemonte faceva prova de’ nuovi ordinamenti tra le maggiori contrarietà: dopo una sconfitta ed a dispetto del vincitore, sotto le maledizioni di Roma, circondato da sospetti e da gelosie in Italia, tentato dal mal esempio di tutta Europa, al quale resistette la fede intemerata d’un principe che abborre dallo spergiuro e fa dell’onore nazionale una seconda religione: e di giunta afflitto da carestie ed altre distrette economiche di cui gli effetti riuscirono gravissimi per la novità di riforme di fresco compiute, e per l’eccitamento commerciale che ne era seguito.

Ciò non ostante il Piemonte guerreggia, sede in congressi; e governanti e governati vi tengono levata la fronte: mentre in Napoli gli oppressi gemono, gli oppressori temono; e sono dalle irreparabili conseguenze del mal governo ridotti gli uni alla impotenza di correggerlo e gli altri alla impossibilità di abbandonare il presente sistema di arbitrio e di corruzione» (pagg. 139-140).

Forse non esiste documento storico il quale possa essere a maggior ragione ricordato dai teorici della finanza a sostegno della tesi che le imposte gravano sui popoli solo quando sono estorte da governi oppressori ritornati sulla punta delle baionette straniere, come era il governo borbonico; laddove, se sono esatte da governi nazionali e volte a beneficio universale, benché le nude cifre paiano dure, in effetto quelle imposte crescono ricchezza e potenza ai popoli medesimi.



[1] Col titolo dato alla presente nota (Viaggio tra i miei libri), in «la riforma sociale» 1935, quaderno del marzo-aprile, pagg. 227-243, e in questo libro, pagg. 3-26.

[2] In appendice all’articolo Il peccato originale e la teoria della classe eletta in Federico Le Play, in «Rivista di storia economica», quaderno del giugno 1936, e in questo libro, pagg. 329-343.

[3] W. Prager sopravvisse alla persecuzione anti-ebraica e pubblica in Roma dotti ed istruttivi cataloghi in materie economiche e giuridiche, sebbene offerti a prezzi insolitamente alti per il mercato italiano. Prezzi emulati dal dott. Enrico Vigevani, il quale provveduto anch’egli di buona suppellettile bibliografica, apprezza i libri da lui offerti nel catalogo della libreria Il Polifilo in Milano in guisa non dissimile dai grandi librai antiquari specialisti in cose economiche di Parigi, Londra e New York [Nota del 1952].

Vanità dei titoli di studio

Vanità dei titoli di studio

Scritti di sociologia e politica in onore di Luigi Sturzo, Zanichelli, Bologna, 1953, pp. 115-125[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 549-556

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 905-912

Scritti di Luigi Einaudi nel centenario della nascita, Sansoni, Firenze, 1975, pp. 69-77

Giuliana Limiti, Il presidente professore: Luigi Einaudi al Quirinale, Luni, Milano-Trento, 2001, pp. 177-185

 

 

 

 

Ho l’impressione che alla costituente si corra, in materia di scuola, dietro alle parole invece che alla sostanza. Tutti vogliono la libertà dell’insegnamento; e tutti sono parimenti d’accordo nell’affermare la necessità degli esami di stato, quando si debbono rilasciare diplomi di laurea, di licenza, di abilitazione alle professioni ecc. ecc. Ma libertà di insegnamento ed esami di stato sono concetti incompatibili. Esame di stato vuol dire programma, vuol dire interrogazioni prestabilite su materie obbligatorie; vuol dire certificato rilasciato, da uomini investiti legalmente di un pubblico ufficio, in nome di una determinata autorità pubblica, detta stato, certificato il quale attesta che il tale ha subito certi dati e non altri esami su certe materie prestabilite in regolamenti emanati da quella certa autorità; ed è, per aver subito quelle pubbliche prove, dichiarato atto ad esercitare questa o quella professione, od essere ammesso in dati impieghi presso la stessa od altre pubbliche autorità; ad esclusione di chi non sia proprietario di analogo certificato o diploma o licenza od abilitazione.

 

 

Come può supporsi che, dato il punto di partenza, tutte le scuole, pubbliche e private, statali e municipali e consorziali, laiche e religiose, tradizionali o rivoluzionarie non si esemplino sul tipo conforme alle esigenze dell’esame di stato? Avremo ancora dei seminari; od i seminari non si trasformeranno in ginnasi e licei, con programma identico a quello delle scuole statali, chiamate con quel nome?

 

 

Finché non sarà tolto qualsiasi valore legale ai certificati rilasciati da ogni ordine di scuole, dalle elementari alle universitarie, noi non avremo mai libertà di insegnamento; avremo insegnanti occupati a ficcare nella testa degli scolari il massimo numero di quelle nozioni sulle quali potrà cadere l’interrogazione al momento degli esami di stato. Nozioni e non idee; appiccicature mnemoniche e non eccitamenti alla curiosità scientifica ed alla formazione morale dell’individuo.

 

 

Sono vissuto per quasi mezzo secolo nella scuola; ed ho imparato che quei pezzi di carta che si chiamano diplomi di laurea, certificati di licenza valgono meno della carta su cui sono scritti. Per alcuni vogliamo giungere al 10 per cento dei portatori di diplomi? il giovane vale assai di più di quel che sta scritto sul pezzo di carta od, almeno, del pregio che l’opinione pubblica vi attribuisce; ma “legalmente” l’un pezzo di carta è simile ad ogni altro e la loro contemplazione non giova a chi deve fare una scelta tra coloro che offrono se stessi agli impieghi ed alle professioni.

 

 

A qual fine dunque lo stato si affanna a mettere sui diplomi un timbro ufficiale privo di qualsiasi effettivo valore? Il più ovvio e primo effetto è quello di trarre in inganno i diplomati medesimi; inducendoli a credere che, grazie a quel pezzo di carta, essi hanno acquistato il diritto od una ragionevole aspettativa ad ottenere un posto che li elevi al disopra degli addetti alle fatiche manuali dei campi o delle officine. L’inganno dà ragione di quel piccolo germe di verità che è contenuto nelle querimonie universali intorno al crescente ed eccessivo numero degli studenti medi ed universitari. Querimonie assurde; ché tutti dovremmo augurarci cresca sino al massimo – intendendo per “massimo” la “totalità” dei giovani viventi in un paese ed in età di apprendere, ad eccezione soltanto degli invincibilmente stupidi, e dei deliberatamente restii ad ogni studio – il numero di coloro i quali giungano ad assolvere quegli studi medi od universitari, ai quali dalle loro attitudini essi sono fatti adatti. Che danno verrebbe al nostro paese se gli studenti universitari invece di essere meno di duecento mila, giungessero al milione? Dovremmo, è vero, sopportare un costo grandioso di edifici, di laboratori, di biblioteche; dovremmo formare un corpo adatto di insegnanti. Opera non di anni, ma di decenni. Quando si giungesse alla meta, il paese non sarebbe forse maggiormente prospero dal punto di vista economico, e più sano e gagliardo dal punto di vista morale e sociale? Un popolo di uomini istruiti non val di più di un popolo di ignoranti? Un popolo di lavoratori tecnicamente capaci non val di più di un popolo di manovali? Il danno non sta nei molti, nei moltissimi studenti; sta nell’inganno perpetrato contro di essi, lasciando credere che il pezzo di carta dia diritto a qualcosa; e cioè, nell’opinione universale, all’impiego pubblico sicuro od alla professione tranquilla.

 

 

Il valore legale dei diplomi dà luogo, ancora, ad un altro inganno e questo contro la società. Esso eccita le invidie e gli egoismi professionali. L’ingegnere, a causa di quel diritto a dirsi “ing. dott.”, si reputa dappiù del geometra; ed ambi sono collegati contro i periti agrari. I dottori in scienze commerciali sono in arme contro i ragionieri; ed amendue contro gli avvocati. Dottori in legge, avvocati e procuratori combattono lotte omeriche gli uni contro gli altri. Chi ha detto che gli esempi scolastici delle contese dei ciabattini contro i calzolai, degli stipettai contro i falegnami, e di questi contro i carpentieri sono roba anacronistica, ricordi medievali? Si calunnia atrocemente il medio evo quando lo si fa responsabile dell’irrigidimento corporativo, che fu invece opera dei governi detti assoluti dei secoli XVII e XVIII; ma le battaglie dei secoli più oscuri del corporativismo assolutistico parranno scaramucce in confronto a quelle che si profilano sull’orizzonte dei tempi nostri. Dare un valore legale al diploma di ragioniere, vuol dire che soltanto all’insignito di quel diploma è lecito compiere taluni lavori ragionieristici e nessun altro può attendervi; ed egli a sua volta non può fare cosa che è privilegio del dottore in scienze commerciali o dell’avvocato. Quelle dei secoli XVII e XVIII erano idee atte a rovinare le finanze delle arti dei calzolai e dei ciabattini; ma, pur creando posizioni monopolistiche, non riuscivano ad impedire del tutto l’opera logoratrice dei non iscritti. Ché gli stati assoluti dei secoli scorsi disponevano, per farsi obbedire, di armi di gran lunga meno efficaci di quelle che sono proprie degli stati moderni; e dove non giungeva saltuariamente il dragone a cavallo, ivi prosperavano quei che non avevano diritto di dirsi né ciabattini né calzolai. Oggi, la potestà pubblica giunge in ogni dove; ed i magistrati hanno molta maggiore autorità per far rispettare, come è loro dovere, la legge. Anche la legge iniqua, la quale, creando diplomi ed attribuendo ad essi valore legale, condanna alla geenna della disoccupazione coloro che, essendone sforniti, non possono attentarsi a compiere il lavoro che essi sarebbero pur capacissimi di compiere, ma è privilegio del diplomato.

 

 

Forse l’unico impiego al quale possa aspirare in Italia l'”uomo nudo”, è quello di professore di università. Se ben ricordo, persino l’aspirante ad una cattedra straordinaria deve dar prova di possedere qualche pezzo di carta dottorale o di libera docenza; epperciò ordinariamente i concorsi universitari sono aperti per cattedre straordinarie; e quale sarebbe oggi lo stupore dei giudici di un concorso per cattedra ordinaria nel vedersi innanzi l’uomo nudo?

 

 

Fra i tanti diplomi, uno ve n’ha il quale è particolarmente pestifero: quello di “dottore”; dottore in qualsiasi cosa, purché dottore. L’Italia sta diventando un paese di dottori. Un tempo, nei ministeri, tutti erano commendatori, od al minimo cavalieri. Ora che questi titoli paiono disusati, tutti sono dottori. Siamo il solo paese nel mondo nel quale paia indecente interpellare una qualunque persona col titolo di “signore”. Tanti anni fa, forse più di trent’anni fa, scrissi invano un articolo dal titolo Torniamo al signore! Persino in Francia, dove le rosette della Legion d’onore sono di rito all’occhiello della giacca, tutti si interpellano col “monsieur”; ed il presidente della repubblica è anche lui un semplice “signor presidente”. In Italia, pareva indecoroso non essere neppure un’eccellenza, o un commendatore, od un cavaliere. Non si usava ancora dare, nel discorrere, del grande ufficiale, del gran croce, del cavaliere ufficiale, sembrando queste parole difficilmente pronunciabili, ma ci si sarebbe arrivati. Oggi, bisogna preoccuparsi della moltiplicazione dei “dottori”. Dovrebbe essere, il titolo di “dottore”, uno dei più alti che possano essere attribuiti ad un uomo. Ricordo che, ad occasione dell’unico viaggio da me compiuto, nel 1926, attraverso le università degli Stati Uniti, fu d’uopo di provvedermi di biglietti da visita, di cui ero privo. Il funzionario della fondazione Rockefeller, della quale ero ospite, rimase incerto fra quelli di senatore e professore, che mi sarebbe spettati; ma alla fine scelse il titolo di “doctor“. Non banfai, lieto che si desse così alta opinione comparativa del nostro titolo dottorale. Un giorno ad Oxford, mi compiacqui nel vedere che i “dottori” di quell’Università, anche se non insegnanti, avevano il passo sui professori.

 

 

Fa d’uopo restituire al titolo dottorale la dignità che è sua; riservandolo a chi sia dottore sul serio e cioè capace di insegnare agli altri la scienza nella quale è stato proclamato dottore. Dottore sia soltanto colui il quale, parecchi anni dopo avere compiuto il corso degli studi universitari – direi dopo dieci anni, ma per le facili passate abitudini nostre, ci si potrebbe acconciare ai cinque – dimostri, con una dissertazione a lungo preparata e studiata, di meritare di salire sulla cattedra nella quale chiede di essere addottorato. Dopo cinque anni, chiederà il dottorato soltanto colui che, col fatto, dimostrerà di amare sul serio la scienza.

 

 

Gli altri pezzi di carta, rilasciati alla fine degli studi medi od universitari, conferiscano i titoli di licenziato, diplomato, baccelliere, maestro, perito e simili. Titoli innocui e, perché impronunciabili nel comune commercio umano, inadatti ad aizzare la mania nostrana delle titolature verbali.

 

 

Scuole ed università, pubbliche e private, rilascino certificati e diplomi a lor piacimento, con la sola riserva del dottorato a cinque anni dopo la fine degli studi universitari. Certificati, diplomi e dottorati avranno quel solo valore che gli insigniti sapranno meritarsi.

 

 

Come impediremo, si obietterà, il moltiplicarsi di scuole ed università inesistenti e di titoli fasulli? Evitiamo, è ovvio rispondere, forse oggi il moltiplicarsi di titoli fasulli? Ahi! no; colla beffa, per giunta, di dare ad essi, col timbro statale, un valore legale ingannatore.

 

 

Contro i titoli fasulli, odierni e futuri, pare esista un solo rimedio: quello di fare obbligo a tutti coloro i quali si fregiano di un qualsiasi titolo – dottore, diplomato, licenziato, perito, ingegnere, avvocato, geometra, ragioniere, ecc. ecc. – di far seguire – sulle carte da visita e da lettere, sulle sopracarte, sui fogli di avviso o sui documenti d’ufficio, sulle targhe apposte al portone di casa ed all’uscio dell’ufficio e dovunque compaia la menzione del titolato al proprio nome, cognome e titolo l’indicazione, tra parentesi, della scuola o facoltà universitaria che ha rilasciato il diploma. Così:

 

 

Avv. Giovanni Ferraro (dott. legge – Univ. Roma o Perugia o Torino od Urbino, 1943)

 

ovvero:

 

Geom. Pietro Altavilla (Istit. tec. Sommeiller, Torino, 1940)

 

Gli effetti dell’obbligo sarebbero parecchi e tutti benefici:

 

 

  • procacciar lode alla scuola od università dalla quale è stato diplomato il professionista, il quale ha poscia dato buona prova di sé;

 

  • procacciar biasimo alla scuola od università da cui è uscito il professionista dimostratosi poi asino nell’esercizio della sua arte;

 

  • eccitare scuole ed università ad essere severe nella concessione di titoli; sì che le lodi abbiano ad oscurare i biasimi. È umano che i collegi insegnanti commettano, nel conceder diplomi, una tollerabile percentuale di errori; ma si eviterebbe la concorrenza nella rilassatezza negli esami, inconsapevolmente determinata dal timore di perdere studenti a pro degli istituti concorrenti di manica larga;

 

  • incoraggiare l’afflusso degli studenti alle scuole ed università con fama di severità. Invece che al diploma facile si aspirerebbe al diploma difficile a conseguire; e perciò reputato atto a favorire la carriera professionale;

 

  • diradare l’afflusso alle scuole e alle università dei giovani ambiziosi solo di procacciarsi posti dovuti non ai propri meriti, ma alla fallace impostura di un titolo malamente carpito.

 

 

I quali tutti risultati benefici suppongono che i diplomi siano apprezzati nei concorsi pubblici, nelle preferenze dei clienti, nella estimazione universale non per un valore legale, in se stesso nullo; ma per il valore morale che gli insigniti sappiano coll’opera propria conquistare o conservare.

 

 

Solo così sarà instaurata la libertà della scuola. Aboliti i programmi; lasciata libertà ad insegnanti, direttori, presidi e rettori di governare a loro posta gli istituti ad essi affidati; gli scolari medi ed universitari andranno in cerca della scuola migliore, aspireranno al diploma che, privo di valore legale, attesterà quel che l’opinione comune penserà della serietà dell’insegnamento, della disciplina degli studi propria dell’istituto dove il diploma fu conseguito.

 

 

E gli esami di stato che tutti sono concordi a vedere sanciti nella costituzione? Chi chiederà impieghi od uffici allo stato o ad altri enti pubblici, darà prova di sé e del valore effettivo dei diplomi suoi in pubblici esami di concorso. Chi vorrà essere abilitato all’esercizio di una professione, come quella medica, pericolosa per la vita altrui, si assoggetterà ad un esame detto di stato, che sarà formale per i diplomati di scuole severe e rigido per i presentatori di titoli dubbi. E direi che basti. Del valore degli altri diplomati unico giudice è il cliente; e questi sia libero di rivolgersi, se a lui così piaccia, al geometra invece che all’ingegnere; e libero di far meno di amendue se i loro servigi non paiano di valore uguale alle tariffe scritte oggi in decreti atti soltanto a creare monopoli e privilegi, a crescere artificiosamente il costo delle prestazioni professionali ed a moltiplicare le schiere dei paria disoccupati ed esclusi dal pane e dal fuoco.



[1] Con il titolo La libertà della scuola [ndr].

Telegrammi ad Achille Marazza e a Ivan Matteo Lombardo. La soddisfazione di Einaudi per le giornate milanesi. Telegrammi ai presidenti delle Mostre del Caravaggio e della Triennale

Telegrammi ad Achille Marazza e a Ivan Matteo Lombardo. La soddisfazione di Einaudi per le giornate milanesi. Telegrammi ai presidenti delle Mostre del Caravaggio e della Triennale

«Corriere della Sera», 12 giugno 1951

La scienza economica. Reminiscenze

Cinquant’anni di vita intellettuale italiana (1896/1946). Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario , a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1950, pp 293-316

Sentii fare la prima volta il nome di Benedetto Croce, credo, nel 1894 quando frequentavo, studente forse non ancora ventenne, il Laboratorio di economia politica dell’ateneo torinese, istituito pochi mesi prima, verso la fine del 1893, da Salvatore Cognetti de Martiis, maestro a noi tutti di rigore nell’uso delle fonti e di probità scientifica. Ho l’impressione che Luigi Albertini attizzasse il fuoco nella stufa ed io lo coadiuvassi per proteggerci alla meglio dal freddo in quelle due stanzette volte a tramontana e poste sul vuoto dei sottostanti portici di via Po. Jannaccone resisteva composto e signorile all’aria fredda che entrava dai neri atrii del misterioso convento di S. Francesco di Paola, dove Bizzozero aveva laboratorio e Lombroso esaminava e palpava delinquenti professionali, i quali in cambio di una lira si rassegnavano a diventare materia sperimentale di insegnamento dinnanzi a studenti beffardi ma attentissimi. Accadde un giorno che il discorso tra professore e studenti cadesse su un nome di cui nessuno sapeva nulla; ma poiché lo si presumeva oriundo del «Regno», Cognetti concluse: «scriverò a Croce». Imparammo allora che Benedetto Croce era un giovane studioso napoletano, salito già, tra taluni iniziati, in fama di erudito meraviglioso ed infallibile. Poi lo rividi, e me lo ricordò egli stesso recentemente, nel 1899, ed egli che tiene diario preziosissimo potrebbe precisare la data, sempre a Torino, portatomi da Emanuele Sella nello squallido ufficio della redazione della Gazzetta Piemontese, da poco mutatasi in Stampa, dove allora attendevo alla cucina del giornale.

Da allora in poi, il nome e il pensiero di Benedetto Croce non poterono mai più essere ignorati da me, come da nessun altro economista e in realtà da nessun italiano fornito di qualche desiderio di apprendere. Ma la azione specifica di Croce su quel che gli economisti andarono scrivendo nel mezzo secolo volto dal 1895 al 1945 credo sia stata massimamente una: di trattenerci dallo sconfinare o dallo sconfinar troppo nei campi affini a quello economico. Dinnanzi alla critica corrosiva crociana delle facili grossolane interpretazioni materialistiche della storia e delle generalizzazioni sociologiche, parecchi economisti cominciarono a dubitare e taluni si vergognarono di porre in carta contaminazioni immature fra realtà economica e ragionamento astratto, fra storia e teoria. Non fu quella per vero la sola influenza che salvò gli economisti dal cadere nella imitazione, in peggio, della scuola storica tedesca in economia, ché moriva nel 1896 Luigi Cossa, l’uomo che tutto sapeva e tutto classificava pur non avendo alcuna attitudine creativa e Cossa aveva indirizzato i suoi allievi, valorosi taluni, come Gobbi, Supino, Loria, Alberti, Graziani, Fornari a scrivere storie di teorie, che se non erano sempre costruttive, non deformavano la materia studiata ed erano compilate con scrupolosa cura di indagine diretta sulle fonti e di riassunti precisi, ai quali ancor oggi si ricorre.

Tuttavia il pericolo di un salto dall’erudizione pura alla interpretazione economistica delle teorie e dei fatti era imminente. Moriva fisicamente solo nel 1900, ma era morto da anni alla scienza l’economista italiano principe del secolo scorso Francesco Ferrara e lasciava pochi selvaggi allievi: Todde, Pinna-Ferrà, Reymond, mancato questi da un quarto di secolo alla luce dell’intelligenza, talché noi a Torino ignoravamo fosse tuttora vivo. Solo e battagliero sopravviveva a Bologna Tullio Martello; ma sebbene i suoi scritti scintillanti contro lo economicismo storicistico ed il darwinismo sociale cadessero come colpi di maglio su materia friabile, egli appariva un isolato. Nessuno osava più dire, per paura di cadere nelle grinfie stritolatrici di Martello, che non si dovessero far teorie, e ci si dovesse limitare ad accumulare fatti, da cui col tempo, dopo generazioni di archiviatori, qualcuno avrebbe estratto qualche verità sicura. Il filologismo economico era sepolto; ma minacciava il pericolo opposto: del prepotere dell’economismo storico, della interpretazione di tutta la realtà, della realtà umana attraverso ipotesi o premesse economiche. Un economista veramente singolare, che Luigi Cossa a ragione aveva definito «a nessuno inferiore per ingegno, superiore a tutti nell’originalità ed a molti in dottrina», Achille Loria, aveva scritto libri su ”la popolazione ed il sistema sociale“ e sull’Analisi della proprietà capitalista, i quali avevano affascinato i giovani. Chi non sia vissuto in quegli anni tra il 1890 ed il 1900, non può apprezzare abbastanza il peso che quei libri ebbero nel foggiare l’abito mentale di studio degli economisti di quella generazione. I più non sapevano distinguere fra le pagine di analisi teorica raffinata, in cui Loria eccelleva, e l’edificio interpretativo del mondo in cui quelle pagine erano sommerse. La terra libera era divenuto il motivo centrale della storia umana. Capitalismo; schiavitù, lavoro salariato erano le conseguenze fatali della scomparsa progressiva della terra liberamente appoderabile dall’uomo, e nessun fatto politico, morale o religioso pareva sottrarsi all’impero della pressione della popolazione crescente sulla terra. La reazione venne da Antonio Labriola e da Benedetto Croce; ed a poco a poco, fatti timorosi di una recensione del filosofo napoletano, gli economisti cessarono di impicciarsi di cose non pertinenti al loro campo specifico.

Un’altra volta il pericolo della deviazione sorse sull’orizzonte; e fu quando un altro economista, forse il maggiore di tutti, Vilfredo Pareto, stanco di meditare sui terreni fondamentali della scienza pura e disperato di non potere fare in questa un passo decisivo oltre la meta già raggiunta, si volse alla sociologia e sperò di costruire su basi da lui dette sperimentali una scienza della società tanto rigorosa come quella astratta economica che egli aveva portato a così grande altezza. Invano Croce lo aveva ammonito:

«Voi certo vi meraviglierete se vi dirò che il dissenso tra noi consiste nel voler voi introdurre nella scienza economica un presupposto metafisico, laddove io voglio escludere ogni presupposto metafisico e tenermi alla sola analisi del fatto. L’accusa di metafisico, vi sembra quella che meno di ogni altra possa colpirvi. Pure il vostro latente presupposto metafisico è che i fatti della attività dell’uomo siano della stessa natura dei fatti fisici; che per gli uni come per gli altri noi non possiamo se non osservare regolarità e dedurre da queste regolarità conseguenze, senza penetrare l’intima natura; che questi fatti siano tutti egualmente fenomeni… In qual modo giustificherete voi questo presupposto se non con una metafisica umanistica?»

Il Pareto non badò al Croce e scrisse il Trattato di sociologia generale, applicando allo studio delle leggi le quali governano le società umane un metodo di classificazione in tipi e sottotipi, più o meno ricchi dell’istinto delle combinazioni e della persistenza degli aggregati, profondamente repugnante a chi sia fornito di quel minimo di istinto storico, grazie a cui non si riesce a comprendere come un avvenimento sia simile ad un altro, e le vicende umane si ripetano identiche e si è invece costretti a studiare quell‘uomo, quelle istituzioni aventi certi nomi simili ma operanti per lo più in maniere differentissime. Di nuovo, il Croce persuase i superbi a chinar la testa, ad esitare dinnanzi alle generalizzazioni. Oggi, chi in Italia persegua studi di storia economica, si mette in sospetto non appena abbia sentore di una tesi classificatoria o definitoria posta a fondamento dell’indagine, di una macchinetta pronta a spiegare il divenire degli avvenimenti ed a libri di cotal fatta antepone persino le briciole erudite di chi si contenta di riprodurre documenti e raccoglie notizie sicure intorno a fatti municipali. Il che chiaramente non basta; ed ogni storico deve possedere nel cervello uno strumento mentale atto a comprendere gli uomini e gli avvenimenti di cui descrive; ma lo strumento, qualunque sia, deve essere atto a valutare azioni di uomini vivi e pensanti e non a classificarli in gruppi quasi fossero piante o sassi od animali. Perciò noi oggi non crediamo negli schemi di Sombart ed apprezziamo invece, con diritto di dissenso, i saggi in cui Armando Sapori o Gino Luzzatto analizzano quei tali banchieri fiorentini o quei mercanti veneziani di quel secolo e Prato e Pugliese ci fanno entrare nel vivo dei problemi economici del Piemonte nel secolo XVIII e della prima metà del novecento.

Gli economisti lettori della Critica di Croce hanno anche imparato che il loro compito specifico non è di interpretare “economicamente”, gli avvenimenti storici, sì invece di usare, insieme ai noti strumenti di interpretazione e di critica dei documenti e delle fonti, lo strumento specifico loro proprio che è la conoscenza dell’indole propria dei fatti economici. Qualunque sia il giudizio che ciascuno di noi voglia dare delle ricostruzioni storiche di Carlo Marx, bisogna riconoscere – cosa che non accade quasi mai per i suoi seguaci – che egli conosceva a fondo la scienza economica del tempo suo; e che in materia di moneta, di banche, di prezzi, di salari, di interesse era ferrato quanto e più dei migliori ricardiani suoi contemporanei. Gli economisti italiani che hanno scritto storie di fatti o storie di idee hanno evitato nell’ultimo quarantennio di costruire schemi, tipi, classificazioni e simiglianti cattive filosofie; procurando invece di ricostruire il significato e la sequenza degli avvenimenti e degli istituti alla luce di quelle teorie economiche, le quali sono state elaborate fin qui appunto allo scopo di interpretare i fatti della vita quotidiana.

Cosa diversissima questa da quegli intrugli nei quali lo scrittore, narrando fatti politici o militari o civili o religiosi, ficca ogni tanto nel discorso una spiegazione detta economica, ridotta in verità alla osservazione che le tali vicende accaddero o i tali provvedimenti furono applicati per il prepotere od il potere di forze economiche, dette capitalismo, monopolio fondiario, capitale finanziario o monetario, dove nessun nesso è dimostrato tra vicende o provvedimenti e quel potere o prepotere e la sola cosa certa è che lo scrittore non sa nulla del contenuto delle parole astratte misteriose da lui adoperate.

I più degli economisti italiani tuttavia non si preoccuparono di scrivere di storia né economica né politica; ma attesero a teorizzare. Non so se tutti, nel teorizzare, si siano ricordati del monito di Croce: «Risparmiatevi la pena di filosofare. Calcolate e non pensate». Non potevano in tutto ubbidire al monito, perché la filosofia utilitaristica si era insinuata, quasi spontaneamente, nel corpo delle loro dottrine per la coincidenza storica del primo grande fiorire della scienza economica, con Adamo Smith e Davide Ricardo, e dell’insegnamento di Geremia Bentham, fontana prima ed abbondantissima di ogni utilitarismo. L’economia fu sin dal principio una maniera di calcolo della convenienza; e il Bentham aveva fornito ai suoi lettori una miniera inesauribile di calcoli e confronti fra piaceri e dolori, fra vantaggi individuali e vantaggi collettivi in confronto dei quali impallidiscono le analisi più sottili e più eleganti dei Pigou e dei Wicksteed.

Ma più che una filosofia, quella era una veste, un linguaggio comodo per esporre ragionamenti i quali avrebbero potuto essere espressi senza far cenno di utilità e di disutilità, di piacere e di dolore. Poco prima che si iniziasse il mezzo secolo dominato dal pensiero di Croce, Maffeo Pantaleoni aveva pubblicato (1889) quei Principii di economia pura, i quali sono un calcolo filato dalla prima all’ultima pagina. Anche se egli non avesse scritto, in testa al prezioso gioiello, che egli intendeva dedurre sistematicamente tutta la dottrina economica dall’ipotesi edonistica e l’avesse dedotta invece esclusivamente dall’ipotesi, ad es., della convenienza di ottenere un dato risultato col minimo mezzo o di superare un dato ostacolo col minimo sforzo, il suo sarebbe sempre stato un gioiello di logica. Da lui massimamente, e metto lui prima di Pareto, sia perché egli venne prima nell’arringo teorico, sia perché egli, tuttoché si professasse minore e quasi allievo dell’altro grande, era in verità il maestro di tutti, fu dimostrato che la scienza economica altro non è che una logica. Se vi fosse chi sfrondasse i Principii della veste utilitaristica, si vedrebbe che essi altro non sono se non un moderno Euclide economico; su cui dovrebbero macerarsi i giovani per imparare a ragionar chiaramente nei fatti della vita quotidiana. Come vedeva chiaro, lui, il maestro! Più che reverenza, incuteva soggezione, la soggezione di chi sente il pericolo di incappare inavvedutamente in un sillogismo mal costrutto e di essere fulmineamente messo a posto. Quanti vani schemi non furono distrutti da Pantaleoni: dalla contrapposizione fra impresa capitalistica ed impresa cooperativa alla distinzione classificatoria fra produzione e scambio! Nessuno, che io sappia, osò mai più rilevare dalle ceneri il fantasma teorico da lui disperso di una impresa cooperativa diversa dall’impresa senza aggettivi. Rimangono entusiasmi, affetti, altruismi, spirito di corpo o di mestiere che spiegano perché certi operai o consumatori abbiano iniziato e condotto avanti l’impresa detta cooperativa, sì e come altri impulsi, non sempre di lucro, spesso di ambizione, di orgoglio, di prepotente bisogno di comando spiegano perché altri abbia iniziato e condotto ad alta meta od a rovina l’impresa detta capitalistica; ma qualunque siano le passioni umane che spiegano l’origine dell’impresa, questa, una volta fondata, ubbidisce alle medesime regole e va incontro alle medesime vicende, sia che essa sia detta capitalistica o cooperativa; né è possibile immaginare alcun criterio di distinzione fra il socio di una cooperativa ed il caratista od azionista di una impresa ordinaria. E nessuno oggi scrivendo trattati, tornerebbe a distinguere fra produzione e scambio della ricchezza; ché parrebbe di vedersi interrompere dall’ombra di Pantaleoni con la domanda:

«Che cosa sono entrambi se non un riparto di un bene fra più usi? … L’individuo che produce lotta con la natura, precisamente come l’uomo che scambia lotta con il suo compratore o venditore. Entrambi rinunziano a taluni beni, per es. a capitali o al riposo, ovvero fanno degli sforzi, offrendo servigi personali, per conseguire altri beni di cui non dispongono, o di cui vogliono accresciuta la disponibilità … Il dubbio che vi possa essere una distinzione da tener ferma tra il caso della produzione e il caso dello scambio non può versare sulla legittimità di assimilare il secondo permutante alla natura. Un secondo permutante avrebbe necessariamente una tabella di utilità marginale; dunque, pure, una curva di domanda e di offerta desunta da essa; ma dove mai sta quella della natura? Ebbene, non ci dice forse la natura – con i fatti e con l’esito dei vostri esperimenti – che essa vi fornisce quantità diverse di prodotto, per es. di grano, in funzione della quantità di capitale e lavoro, che voi impiegate e in ragione dei vostri metodi tecnici, cioè dell’ordine nel quale le darete a consumare i vostri fattori di produzione, precisamente così come fosse un individuo di cui vogliate rendere massima la soddisfazione, in conformità del suo modo di intenderla? … La natura detta i propri prezzi e che essa abbia motivi per stabilirli nella misura che presceglie o non ne abbia, non ha nulla a che vedere con il nostro problema.»

Così era Pantaleoni; l’uomo degli accostamenti, che sulle prime appaiono paradossali, ma poi persuadono che voi non avevate pensato o ragionato a bastanza e che le distinzioni schematiche accettate per abitudine debbono essere rivedute, quando esse non spiegano i fatti. Il paradosso fioriva sulla penna di Pantaleoni; e fu ritenuto tale da tutti il principio da lui enunciato nella famosa prolusione ginevrina della inesistenza della distinzione delle scuole in economia politica e della loro riduzione nelle due di coloro che la sanno e di quelli che non la sanno. Il paradosso era spiegabile per l’impazienza che si prova sempre nel vedere i profani – e profani sono la maggior parte di coloro che tengono cattedra sui giornali o coprono cariche pubbliche – vantarsi ridicolmente di formare scuola quando ripetono errori vecchissimi e per il fastidio che ingenera la lettura di storia delle dottrine, dove sono messe alla pari e dichiarate ugualmente conformi alle esigenze dei tempi dottrine le quali hanno condotto alla formazione della scienza attuale e dottrine anche allora infeconde perché incapaci di analizzare la realtà. Quel che veramente volle dire Pantaleoni si deduce dalla lettura dei Principii, dove ad ogni teorema o corollario o lemma da lui dimostrato egli appose il nome dell’economista che l’aveva primamente enunciato; e sola vera, ma difficilissima, storia della scienza sarebbe quella di chi dalla esposizione dello stato attuale della scienza risalisse via via nel tempo alle formulazioni meno perfette o approssimative o parziali; ed in questa analisi dichiarasse come l’errore medesimo abbia contribuito, per via del contrasto provocato, a eccitare alla scoperta della verità ed al suo successivo perfezionamento. Ed è esasperante oggi, così come era allora per Pantaleoni, vedere come invece di simiglianti riduzioni dalle imperfette teorie passate alle meno imperfette dottrine moderne si assista per lo più a due maniere erronee di scrivere storie di dogmi: l’una delle quali tratta alla stessa stregua le dottrine feconde e quelle caduche perché dichiarate amendue conformi all’indole dei tempi, alle istituzioni vigenti ed alle credenze degli uomini; ma di ciò non si dà la più minima dimostrazione, e l’altra tutte le copre di fango, affermando che i teorici sono i sicofanti degli interessi dominanti e foggiano dottrine alla stregua di chi ha il potere economico o politico; dimenticando che essendo la economica una scienza astratta di puro calcolo o ragionamento, chi ha la testa ben costrutta, ha anche l’obbligo morale di ragionar bene e che se al comandamento morale egli non ubbidisce, altri vi sarà certamente il quale dimostrerà la fallacia del ragionamento e renderà inutile la fatica del servo.

Pantaleoni il teorico guardava con sospetto ai dottrinari i quali passavano con incoscienza leggera dalla speculazione astratta alla applicazione dei teoremi ai casi concreti della vita reale. Profondamente consapevole delle limitazioni della scienza pura entro le premesse poste al ragionamento, ammoniva chi ne usciva:

«Parlare di distribuzione di ricchezza e limitare in pratica la discussione, come il più delle volte fanno gli economisti, ai fenomeni di scambio, senza curare l’eredità, le leggi della proprietà, e sui trasferimenti di essa, senza curare rapporti di status già esistenti da tempo e quelli di nuova formazione, senza studiare la guerra, la tassazione, i furti, le truffe, non è questo forse un viziare tutto l’argomento in tal modo da rendere possibile la costruzione di qualsiasi teoria del tutto arbitraria?»

Perciò, quando volle andare al di là della prima approssimazione astratta, Pantaleoni scrisse quel Saggio sulla caduta del Credito mobiliare che resterà il documento insuperato nella letteratura economica contemporanea di quel che possa fruttare il ragionamento economico in mano di chi, prima di concludere, volle conoscere uomini, affari, operazioni, bilanci, copialettere, segreti di una grande banca lungo tutta una vita accidentata di fortune e di insuccessi; volle pesare e confrontare uomini economici e uomini vivi, indagarne i sentimenti, le passioni, le insidie e gli odii; tutte cose non comprese nella fondamentale premessa economica edonisticamente formulata o, se compresa, bisognosa di una urgente interpretazione caso per caso. Pantaleoni che nella vita quotidiana si lasciava incantare ed imbrogliare non di rado da lestofanti, intuiva però bene i moventi delle azioni economiche degli uomini; epperciò scrisse la Caduta, che è il suo capolavoro.

Pareto non scrisse alcun capolavoro dello stesso genere. Gli mancava all’uopo la pazienza della critica del fatto singolo; strana mancanza in lui, per molti anni ingegnere minerario in Toscana ed abituato a risolvere problemi minimi di tecnica e di amministrazioni di imprese economiche. Forse appunto il fastidio del continuare, prima nelle horae subsecivae consentitegli dalla professione e poi negli ozi accademici del lago lemano, ad occuparsi delle cose piccole, lo predispose per ragion di contrasto alla contemplazione dei problemi generali, in cui egli divenne maestro sommo. Ai problemi minuti guardava con una certa estraneità, sicché quasi egli appare indifferente ai materiali da lui assunti a riprova delle sue dimostrazioni teoriche; e l’indifferenza cresce col tempo, sì da diventare nell’ultimo periodo della sua vita quasi disprezzo, come quando nella Sociologia sembra mettere sullo stesso piano Platone, Aristotile, Machiavelli ed il qualunque ritaglio di un giornale qualunque il quale riferisse un fatto o fatterello non appurato che facesse in sul momento comodo alla tesi da lui sostenuta; ma quando si appassionò ai fatti ed ai dati, diede e dà ancor da fare agli indagatori di tutto il mondo. Quando Pareto, essendogli capitate tra mani, per averle curiosamente cercate, assai serie relative alla distribuzione dei redditi in diversi paesi ed in epoche differenti, le sottopose a calcolo e ne trasse una equazione, divenuta subito celeberrima, dalla quale si deduceva che, nonostante le differenze stragrandi di tempo, di costumi, di costituzione politica e sociale, la curva dei redditi era suppergiù sempre la stessa, la scoperta parve l’uovo di Colombo; ma sta di fatto che quella scoperta fu ben sua; e che a negarla, a qualificarla, a limitarla, ad arricchirla si adoperano ancor oggi studiosi pertinaci di tutti i paesi del mondo; e ciascuno vorrebbe aggiungere il suo nome a quello dell’uomo di genio che intuì ed espose la prima formulazione della legge della curva dei redditi. Ma quella legge è detta Pareto’s law nel linguaggio universale e con quel nome sarà conosciuta per un pezzo.

La pubblicazione a Losanna del Cours d’économie politique e quella in Italia del Manuale che cosa aggiungono alla scienza? Walras ci aveva già parlato di un equilibrio generale; ma il suo metodo di dimostrazione appariva lento, faticoso e nella attraente precisione dei capitoli sistematici ordinati talvolta faceva perdere di vista l’idea generale; e chi dai principii di economia pura passava a grado a grado, come l’autore voleva, ai saggi di economia applicata e di economia sociale, quasi dubitava di trovarsi dinnanzi ad uno dei tanti programmisti economici o riformatori sociali, di cui la razza non è destinata a spegnersi mai. Programmista e riformatore di alta classe era Walras; e fu il vero creatore della teoria dell’equilibrio economico generale. Ma Pareto, chiamato da Walras a succedergli, presto lo superò nella nettezza del quadro e nello splendore della concezione. Dopo di lui le parole ed i concetti di equilibrio generale, di interdipendenza fra i fenomeni economici, di scelta fra gusti ed ostacoli hanno acquistato diritto di cittadinanza nella letteratura economica. A poco a poco Pareto si spogliò, nelle indagini teoriche economiche, di tutte le sue predilezioni anteriori. Cessò perfino di combattere la battaglia liberistica, che lo aveva veduto campione fierissimo in Italia. Divenne il puro pensatore, il signore della scienza, che di balza in balza cerca di portare il suo pensiero alla vetta suprema dove gli uomini quasi non si vedono più come tali, con le loro bassezze e le loro virtù, gli egoismi e gli slanci generosi, le avidità di lucro e la prontezza alla rinuncia. Di lassù, gli uomini sono visti come forze elementari, le quali tendono a soddisfare i loro gusti sormontando ostacoli; ed ogni movimento di ognuna di quelle minime forze o molecole elementari del mondo economico condiziona ed è condizionato dai movimenti analoghi di migliaia e di milioni di altre forze o molecole elementari, di cui ognuna cerca il suo luogo ottimo. Ognuno fa scelte e manifesta preferenze; e le scelte di ognuno agiscono sulle scelte e sulle preferenze di ogni altro; ed ogni avvenimento che muti in un punto qualunque del firmamento economico l’equilibrio provvisorio faticosamente raggiunto, turba nel tempo stesso l’equilibrio generale di tutti gli altri punti del firmamento; così come fa una pietra gittata in uno stagno, quando il moto originato dal gitto via via si allarga attenuato sino ai margini estremi dello stagno e poi ritorna su se stesso sino all’origine e lentamente per flussi e riflussi successivi sempre minori conduce di nuovo la superficie stagnante alla immobilità. Se nello stagno il nuovo equilibrio è quasi in tutto eguale all’equilibrio precedente, ciò non accade mai nel mondo economico: nel frattempo sono mutate le forze o molecole elementari operanti e cioè il numero degli uomini ed i loro gusti; le invenzioni hanno mutato la natura degli ostacoli; le posizioni raggiunte durante lo sforzo di cercare il luogo ottimo hanno fatto sì che il luogo ottimo prima desiderato più non paia preferibile e si segue altra via e si girano ed affrontano altrimenti gli ostacoli. Sicché oggi, anche l’idea dell’equilibrio generale economico ci appare insufficiente e, se un significato può darsi al travaglio della economia post-paretiana, parmi consista nella constatazione che la ricerca delle leggi le quali reggono l’equilibrio economico generale non soddisfa perché il mondo economico è un susseguirsi non di situazioni che almeno per un attimo dovrebbero concepirsi come in stato di equilibrio, di tranquillità, di stasi, ma un susseguirsi di sforzi per raggiungere un equilibrio che non si raggiunge mai, perché lo stesso sforzo iniziale ha mutato le posizioni reciproche delle forze elementari in cerca del luogo ottimo per modo che, durante il moto, occorre mutar posizione e cercare di toccare una meta diversa da quella primitiva; e così senza tregua e senza fine. Per altra via e su un terreno puramente intellettualistico e contemplativo Pareto sarebbe così stato logicamente condotto alla medesima conclusione alla quale sono giunti gli indagatori delle azioni umane nel campo morale e politico: nessuna conquista è mai definitiva; nessun ideale può essere conseguito sicuramente e stabilmente. Non esiste un modo per garantire la libertà spirituale e politica od economica dell’uomo; poiché la vita è conquista perenne ed ogni giorno si perdono i valori antichi e se ne debbono conquistare dei nuovi.

Se agli occhi dei cultori della nuova teoria economica dinamica, la teoria dell’equilibrio economico generale appaia superata, pur nella concezione di equilibrii successivi, quanto fu fecondo l’impulso dato dal Pareto all’avanzamento dell’economia pura! Il suo quadro, imperniato sul concetto dell’equilibrio generale e della interdipendenza fra tutti i fenomeni economici, era grandioso e faceva esclamare a Pantaleoni, il quale pure non osò o non volle inoltrarsi su quella via e rimase attaccato allo studio degli equilibrii parziali, in campi definiti, meglio atti ad essere scavati in profondità, che l’amico suo era «uomo di tale calibro che la sua opera segna un’altra pietra miliare nella storia del progresso della scienza». Ben pochi osarono seguire in Italia l’esempio del Pareto e dal magnifico quadro di prima approssimazione progredire, sempre attenendosi allo studio dell’equilibrio generale, verso le seconde e le terze approssimazioni più vicine alla complessa realtà; e nessuno perfezionò quel quadro. Di fatto, a causa delle difficoltà umanamente insuperabili di risolvere le troppo numerose equazioni che si devono porre in ragione del numero delle incognite esistenti nella realtà anche semplificata del mondo economico, tutti si voltarono allo studio di problemi speciali, postulando il coeteris paribus di tutte le altre circostanze e la variazione di un solo fattore. Ma rimase nella mente di tutti l’ammonimento: ricordatevi che la verità del teorema a cui giungerete è limitata e precaria. Limitata dalla premessa del coeteris paribus, e precaria perché lo stesso movimento, che voi avrete constatato, muterà siffattamente le “altre” circostanze originarie, che neanche l’introduzione nel ragionamento di queste basterebbe a condurre ad illazioni sicure.

L’ammonimento non fu inutile; ché se dopo la grande fioritura del 1890-1910 la scienza economica italiana non poté più vantare il primato che allora aveva conquistato, e lo scettro passò alternativamente, agli svedesi, ai neo austriaci, ai cambridgiani ed agli economisti di Harvard, di Columbia e di Chicago, un primato rimase agli italiani: quello dell’eleganza; intendendosi per eleganza il rigore logico della dimostrazione, l’inventiva nello scegliere i problemi, l’arte usata nella raccolta dei dati ed il paziente ricamo attorno ad un problema teorico apparentemente semplice in modo che a tutti appaia alla fine che esso è invece complicato e di incerta e forse impossibile soluzione. Duole di non potere, in questo ricordare a mente e quasi a caso letture passate, rendere giustizia a tanti anzi a tutti; ma come non porre in primo piano l’eleganza squisita del tentativo di Antonio De Viti De Marco di metter ordine nella selva confusa delle nozioni che si esponevano a proposito della cosiddetta scienza delle finanze?

Nessuno schema dura per sempre ma quello immaginato da De Viti di trasportare nel campo della economia pubblica le due ipotesi della concorrenza e del monopolio che nella economia privata erano servite ad ordinare chiaramente e spiegare tanti fatti, era senza dubbio elegantissimo. Ai due punti estremi, da un lato l’ipotesi dello stato monopolistico, nel quale imposte e spese pubbliche sono ordinate allo scopo di procacciare il massimo guadagno a prò del capo o gruppo dominante e la restituzione ai soggetti di parte delle imposte sotto forma di servizi pubblici è limitata al minimo necessario per estrarre il massimo di imposte e per non oltrepassare col malgoverno il punto oltre il quale nasce la rivolta, pericolosa al potere del dominante; dall’altro lato l’ipotesi dello stato corporativo, nel quale l’ordinamento finanziario mira allo scopo di procacciare, col minimo di sacrificio per i contribuenti, quel risultato che ai cittadini liberamente legiferanti a mezzo dei loro delegati piaccia di reputare vantaggioso. La quale seconda ipotesi il Fasiani distinse recentemente in due sotto ipotesi; che se interpretate bene consistono in ciò che il risultato può essere voluto perché vantaggioso ai singoli componenti la collettività, almeno nella loro maggioranza, ovvero è volto al vantaggio della collettività come tale, astrazion fatta dagli individui che la compongono.

Elegantissimo Enrico Barone, che fu prodigio di prontezza nell’assimilare e nel semplificare e se non fosse stato distratto da occupazioni diverse, da quella di colonnello di stato maggiore all’altra di inventore e compilatore di trame per films da cinematografo e se non fosse stato tanto impaziente nel rifinire le cose sue, avrebbe lasciato ben maggior traccia di sé. Che cosa più mirabile si vide mai in Italia della rapidità colla quale Barone traduceva in diagrammi semplicissimi, ridotti all’evidenza euclidea, ragionamenti e problemi economici? I suoi Principii rimarranno per un pezzo modelli di chiarezza non inferiori a quelli che imparammo a gustare nell’Alphabet e nel Common Sense di Wicksteed. Quando, in anni recenti, si volle a Londra raccogliere in una silloge taluni saggi atti a porre il problema dei problemi della teoria pura di un’economia collettivistica, vi ebbe meritato posto d’onore il saggio, ahimé non finito, di Barone su Il Ministro della produzione nello stato collettivista nel quale si dimostrava che, ove il governante si proponga di conseguire il massimo di soddisfazione per la collettività, si perviene alla determinazione delle stesse quantità economiche (prezzi, quantità prodotte e scambiate ecc.) che si avrebbero in un’economia di libera concorrenza. La premessa dell’“ove il governante si proponga…” era lecita, sebbene sia difficile di definire il massimo di soddisfazione per una collettività e sebbene sia certo che nessun governante, fornito del potere di decisione in tal materia, si proponga di conseguire un massimo identico a quello che si proporrebbero i governati; ma, essendo lecita, giovò ad annullare da un lato ed a chiarire dall’altro la distinzione fra economia di mercato in ipotesi di concorrenza perfetta ed economia collettivistica nell’ipotesi di libera scelta da parte dei consumatori.

Altrettanto impaziente delle rifiniture è Attilio Cabiati, del quale importa ricordare il fervore di ammirazione e di seguito di cui fu sempre circondato dai suoi studenti, principalmente a Genova, per la aperta professione, in tempi tristi, della verità, professione che gli valse la cacciata dalla cattedra, con onore suo e disdoro dei persecutori. Forse fu il solo che particolarmente usò lo strumento dell’equilibrio generale nella trattazione di problemi particolari come quelli della moneta e del commercio internazionale. Cabiati pensa sempre i movimenti dell’oro e dei capitali, i cambi, gli arbitraggi in termini di equilibrio e non vorrei mai essere stato oggetto del sorriso di scherno beffardo col quale egli usava buttare nell’immondezzaio discorsi di politicanti e articoli di “esperti” che non tenessero conto della interdipendenza dei fattori economici nella determinazione dell’equilibrio negli scambi internazionali. Riconosciamo che egli non ha scritto volumi sistematici, ma solo saggi e che a ragione non li ha sistematizzati. Che cosa è invero per lo più un sistema se non un filo esteriore che cuce quel che dovrebbe invece essere legato da un principio; e se questo non c’è, a che la cucitura esteriore? Il legame vero sta, nel pensiero di Cabiati, nel concetto dell’equilibrio generale. Che è manifesto nei fenomeni del cambio estero, delle correnti commerciali, dei prezzi interni ed esteri; ed è meno chiaro nei rapporti in cui l’uomo si trova in faccia all’uomo, la lega operaia di fronte alla lega industriale, amendue fatte di passioni, di risentimenti, di amarezze di chi non vuole essere soggetto e di chi non può rinunciare a comandare. Eppure Cabiati ha costruito, sul fondamento dell’equilibrio generale, la teoria della lega operaia, in alcuni studi che spazientito non finì e sono il contributo maggiore dato dalla scienza italiana allo studio teorico del sindacato operaio.

Ma il principe dell’eleganza nel ragionare economico era e rimane Pasquale Jannaccone. Come è impeccabile nella persona fisica, ed in ciò ebbe emulo soltanto De Viti, così è impeccabile il suo ragionamento. Io non conosco scritti che possano stare a paro per perfezione architettonica del saggio Relazioni fra commercio internazionale cambi esteri e circolazione monetaria in Italia nel quarantennio 1871-1913 se non taluno tra i più celebrati saggi di Jevons e la Caduta di Pantaleoni. Ardua è la ricerca teorica pura; ma è tutta opera del cervello pensante, il quale pone a se stesso le premesse e su di esse ragiona. Invece, quando si studiano i fatti accaduti, i fatti sono lì e non si possono modificare a piacimento. Sono materia bruta, anche se il tempo vi è passato sopra. Occorre manipolarli secondo regole appropriate all’uso che se ne vuol fare; occorre distaccarne quel che in essi vi è di accidentale o di non pertinente, occorre studiare i nessi fra l’un fatto e l’altro, astenendosi dallo scambiare per nessi di interdipendenza o di causalità quelle che sono mere coincidenze. E poi quando, dopo lunga fatica, durata nel manipolare migliaia di dati, fatica che non può essere senza pericolo mortale affidata ad altri, si è giunti a dimostrare che un paese può avere «un cambio massimamente favorevole nei periodi di più alto sbilancio commerciale e massimamente sfavorevole proprio quando sia quasi toccato il pareggio fra importazioni ed esportazioni», e che ciò razionalmente è accaduto anche in Italia, taluno griderà al paradosso. Ma è un paradosso illuminante e che fa avanzare la scienza, se scienza è posizione logica dei dati di un qualsiasi problema e ragionamento atto a spiegare il problema così posto.

Nella letteratura economica anglosassone gran rumore fanno ogni tanto talune scoperte; come quella del vuoto che si annida nella tradizionale distinzione delle produzioni a costi costanti, decrescenti e crescenti; ma anni prima di quando il Clapham ed un altro italiano divenuto per lunga dimora e per affinità spirituale, cambridgiano, ma già nella dissertazione torinese di laurea spontaneamente sobrio nello scrivere acuto, Piero Sraffa, stupissero gli economisti per la audacia usata nello infrangere il vuoto idolo, Jannaccone aveva posto il problema ed aveva discretamente vuotato il barattolo poi trovato vuoto. Ed anche quando taluno conquistò oltre oceano ed a Cambridge gran fama scoprendo e teorizzando la concorrenza imperfetta, Jannaccone poté, ripubblicando certi vecchi studi su Prezzi e mercati considerarli come un contributo avanti lettera «alla teoria generale della concorrenza imperfetta, nei quali il dumping è studiato come un caso di discriminazione dei prezzi; la discriminazione dei prezzi è posta come la caratteristica della concorrenza imperfetta e questa, così nello scambio come nella produzione, è considerata come la configurazione più confacente a rispecchiare la situazione di un mercato reale». Verità questa, dopo decenni, universalmente ricevuta.

Sempre, quando ritorno col pensiero a questi amici e colleghi, e cerco di rievocare il tratto caratteristico che di loro mi rimase fisso in mente, sempre mi riappare dinnanzi un teorema semplice ben dedotto, chiaramente ragionato od un problema risoluto appena posto, perché impostato bene. Diano essi venia al vanire dei ricordi, che fa dimenticare tante cose e fa venire a galla pagine che agli autori forse paiono oggi briciole, ma tali non sembrarono a me quando le lessi: come un breve saggio di Bresciani sui contratti a termine, jevonsiano anche quello per la felice compenetrazione, tutta sua, fra una chiara teoria e la riprova statistica ottenuta con rigore scrupoloso, preludio lontano all’opera maggiore sulla rovina del marco tedesco, rimasta classica ed unica nella letteratura internazionale; e mi diano venia Benvenuto Griziotti e Giovanni Demaria se, in luogo dei volumi, ricordo del primo una noterella di commento ad una sentenza sul sovraprezzo delle azioni e del secondo un saggio in cui si intratteneva sulla teoria dei clearings e sulle diverse specie di cambi che per una moneta nominalmente uguale nascevano da quegli imbrogli che si chiamavano e si chiamano ancora compensazioni private, conti valutari e simiglianti diavolerie. Semel abbas semper abbas. Chi ha scritto quattro pagine che recano l’impronta dell’economista, economista rimarrà: anche se, come Griziotti, andando avanti negli anni si sia persuaso che, al disopra dell’economia, esistono più sublimi dottrine. Dubito dei voli, ché in lontananza Benedetto Croce ammonisce a non volare se non si è sicuri di non far cattiva filosofia, e Vilfredo Pareto insegna, col suo disavventurato esempio, a non avventurarsi nei campi fioriti della sociologia, dove si rischia di sminuire la certa fama di grande teorico conquistata sul terreno saldo dell’astrazione economica. Non volarono fuor del calcolo economico, entro cui il filosofo ci aveva ridotti, Gobbi e Fanno e Ricci e Porri, Graziadei, Amoroso e Breglia e Dominedò e Delvecchio; e, così facendo, fecero in modo che chi vorrà discorrere della rendita del consumatore converrà si rifaccia alla celebre nota del Gobbi per conoscere il contenuto ed i limiti di quel concetto che ad un certo momento parve rivoluzionasse la scienza; e chi vorrà studiare la teoria dei beni succedanei e di quelli congiunti dovrà rifarsi a Fanno; e chi avrà la malinconica idea di conoscere gli sviluppi che in Italia ebbe il calcolo fisheriano della sorte riservata ai tre fratelli, l’uno prodigo, l’altro conservatore della fortuna avita, ed il terzo accrescitore di essa per sudato risparmio dovrà risentire l’eco dei colpi di maglio distribuiti su riviste di ogni paese da Umberto Ricci contro certe mie elucubrazioni in materia, in una contesa durata un terzo di secolo, non inutile forse a chiarire la incertezza dei confini fra i due concetti di reddito e di capitale, i quali paiono antitetici sul serio e sono invece meri strumenti concettuali utili a fini pratici; e chi vorràconoscere se vi sia differenza tra commercio interno e commercio estero non potrà dimenticare il corso di politica economica di Vincenzo Porri, che tanto insisté nel metterne in luce le somiglianze. Se nel mondo corre in proposito solo il nome dello svedese Ohlin, sia lecito a noi porgli accanto quello del compianto amico. Anche Tonino Graziadei mi deve dar venia se di lui non ricordo la vasta, incessante produzione di critica marxistica. Si cammina sui carboni ardenti in questo territorio popolato di credenti e di eretici schivi di mantener rapporti intellegibili con la confraternita economistica. Ma due contributi notabili egli ha dato alla scienza italiana: il primo un opuscolo stampato a Valparaiso nel Cile, di cui sfortuna volle un ignoto impoverisse la mia raccolta di libri, sicché non possedendone più l’autore copia disponibile, debbo rassegnarmi a ricordarlo di memoria e su una recente rielaborazione. In quello scritto Graziadei sottoponeva a critica stringente la teoria austriaca della decrescenza dei gradi di utilità e dell’utilità marginale; e la critica era fondata sui testi degli autori più celebrati di psicologia sperimentale, che il Graziadei imputa agli austriaci di aver a gran torto ignorato allo scopo di fabbricare una teoria la quale non trova alcuna conferma nella realtà. La critica, mossa dal Graziadei al principio del secolo, anticipava osservazioni venute di poi. Ad esperienze cilene risalgono due grossi volumi imolesi che Graziadei consacrò alla storia delle vicende dei sindacati del nitrato di soda nel Cile ed alla loro teoria. Nitrato di soda e sindacati nitrieri? Quale il valore teorico di siffatte indagini? Oggi che tutti parlano di concorrenza imperfetta, di monopoloidi e simili casi intermedi fra il monopolio perfetto e la concorrenza perfetta, discorrere di queste cose non è novità grande. Ma quando Graziadei ne scriveva, prima dell’altra guerra, la cosa non andava così piana, e l’essersi occupato, con abbondanza inusitata di dati criticamente elaborati di quel problema insolito: succedersi di fasi di concorrenza piena, di sindacati parziali o totali, e di nuovo di concorrenza, dimostrano in Graziadei un intuito raro di quel che val la pena di studiare e del metodo atto a studiarlo. A me, imbevuto della lettura del Cours di Pareto, quei due volumi nitrieri parvero allora un modello di applicazione della teoria dell’equilibrio; ed ancor oggi li reputo meritevoli di essere tratti dall’oblio in cui furono lasciati cadere.

Invece che qualche scritto, ricorderò di Amoroso un titolo; quello di «metafisica» da lui apposto, dopo quello di «fisica» premesso alla trattazione della scienza economica propriamente detta, al discorso di quella finzione che fu detta economia corporativa. «Ne discorrerò, se volete – pareva egli dicesse – ma fuor del campo proprio della scienza. Esistono e sono importanti anche i miti e le immaginazioni e se ne può anche discorrere. Ma si sappia che quella è materia posta fuor della fisica». I fasci-corporativisti, che erano gente ignorantissima, non intesero la beffa.

Di Breglia è difficile ricordare qualcosa che non sia breve, meditato a lungo e pieno di sugo, di Dominedò qualcosa che non rechi la traccia di paziente lima esercitata con penetrazione; e se penso a Delvecchio, lo rivedo nelle esercitazioni ginevrine, dove, accanto all’economista, il quale negli scritti pare impaziente sempre delle poche premesse poste all’inizio del ragionamento ed avverte il lettore che quelle non sono le sole e di altre si dovrebbe tener conto, sì da rendere, ove ciò, come si dovrebbe, si faccia, il problema di ardua soluzione o indeterminato, spuntava, dinnanzi agli occhi miei ammirati, il maestro che inchiodava lo studente al tema, che era la teoria del moltiplicatore, e lo costringeva a non uscire dalle poche premesse poste dagli iniziatori dell’interminabile disputa, avviandolo così alla necessaria logica conclusione. Allora conclusi che, al disotto del critico sempre insoddisfatto ed anelante a non lasciarsi sfuggire nessun aspetto della realtà, v’era il sistematico, al quale si deve una nuda scheletrica introduzione alla storia della scienza economica: nello sfondo Ricardo che giganteggia e prima di lui i frammentari e dopo i perfezionatori; ma l’edificio è tutto in Ricardo; ché la teoria grezza del costo di produzione si tramuta logicamente se pure per lenti passi nella teoria perfezionata moderna dell’equilibrio economico generale. Perché Delvecchio non rifinisce, non cesella quelle pagine che si perdono se son poste, come ora accade, in fronte ad un grosso trattato e possono diventare un saggio splendente di guida all’apprendimento alla verità? E perché Borgatta, distratto da indagini minori, non ripiglia le pagine non finite del libro mai pubblicato sulla dinamica economica, nelle quali i singolari felici accostamenti, la insistenza su quel che di fluido, di perpetuamente muoventesi vi è nel meccanismo economico avevano fatto concepire la speranza di vederci presentato uno schema vivo, aperto a tutte le influenze del mondo reale, del moto economico?

La conoscenza del moto, onde la società economica italiana fu affaticata dopo il 1860 la dobbiamo cercare nei libri descrittivi, non teorici, di un manipolo di studiosi altruisti, i quali hanno sacrificato gli anni migliori della loro vita a vantaggio altrui. Un giorno Maffeo Pantaleoni, stanco di leggere titoli concursuali sull’utilità marginale, sulla rendita del consumatore, sulle curve di utilità e di domanda e di offerta votò a favore di un candidato, che egli conosceva come asino in economica e gli amici storici gli avevano descritto come pessimo storico: «sono stufo, disse, di rimasticature teoriche pure; costui ha raccolto, sia pur malamente, fatti ed io ho sete di fatti». Pantaleoni amava, già dissi, il paradosso, ché egli ben sapeva che i fatti non sono nulla se non siano raccolti bene, da chi li sappia vedere. I tre uomini, che ricordo ora in segno d’onore: Bachi, Mortara e Corbino, seppero compiere, essi che sapevano la teoria e l’avevano dimostrato prima e lo dimostrarono poi, un sacrificio, al quale pochi sanno rassegnarsi: diventar cronisti dei fatti economici a vantaggio altrui. Cominciò Bachi a scrivere gli annali dell’Italia economica; ed a lui, stanco sottentrò Mortara con gli annuari di Prospettive economiche; e la fatica di amendue, innanzi che la dovessero interrompere, fu ripresa e riportata indietro da Corbino nei volumi nei quali egli ha narrato le vicende dell’Italia economica dal 1880 allo scoppio della prima grande guerra. Tutti tre si riallacciavano alla tradizione del Risorgimento che aveva dato le descrizioni classiche di Stefano Jacini, di Maestri, di Correnti, di Bodio, di Franchetti, di Sonnino ed insieme hanno donato all’Italia una di quelle raccolte che un tempo si chiamavano Monumenta historiae patriae.

Se, invece di una scorribanda nei ricordi del passato, questa nota avesse dovuto essere una visione sistematica dello sviluppo della dottrina economica, quanti altri nomi si sarebbero dovuti ricordare: da Ghino Valenti, fondatore degli studi moderni di economia e di statistica agraria – taluno risente ancora il rumore destato dal paradosso da lui enunciato ed ornato di formidabili prove: «non esistono terre incolte in Italia!» – alla valorosa schiera degli economisti agrari venuti dipoi sulle sue orme, ai Serpieri, ai Tassinari, ai Medici, ai Bandini, che scavano in profondità, come forse non fa nessuno negli altri campi dell’economia applicata; e qui non si deve dimenticare il nome di Giovanni Lorenzoni, il trentino, il quale aveva importato tra noi, fin dall’opera prima su La cooperazione rurale in Germania, la scrupolosità metodica germanica e l’aveva applicata con ferrea costanza a condurre a termine l’inchiesta sulle condizioni dei contadini nel mezzogiorno e l’altra sulla piccola proprietà in Italia; e morì, alla vigilia della liberazione, vittima del nemico che sotto i suoi occhi gli aveva trucidata la martire figlia. E potrei continuare a lungo: perché non ricordare Rodolfo Benini, il quale ancor oggi elabora lui, senza ricorrere all’aiuto manuale di nessuno, i dati primi, che riduce a poche cifre significative, memore, di quel «totalizzatore», che nel 1892 egli aveva presentato agli studiosi italiani, riecheggiando, per vie indipendenti, una consimile proposta che verso il 1840 aveva presentato il Giulio, economista piemontese del tempo carlalbertino? Ma Benini ha al suo attivo talune vecchie polemiche antiliberistiche in sede teorica pura, che si videro poi in tempi recenti riprese, con apparenza di novità, da raffinati economisti anglosassoni. Benini è vivo ed operoso; ed è vivo ed ha sempre vividissimo l’ingegno Francesco Nitti, il quale giovinetto sbalordì gli italiani narrando loro di un «socialismo cattolico» di cui i profani non sapevano nulla e proseguì entusiasmandoli ed irritandoli con un grosso volume pontaniano, ridotto a picciola mole per il pubblico, su Nord e Sud. E ne vennero polemiche ed inchieste, tra cui una sua, grossissima e leggibilissima, sui contadini della Basilicata, e da quei volumi seguiti a quei di Franchetti e Sonnino, derivarono provvidenze legislative a prò del mezzogiorno.

No. La scienza economica italiana non ha da vergognarsi di quel che fece durante il cinquantennio crociano. Carità di patria vuole si dimentichi quel che fu scritto di falso e di consapevolmente falso intorno al cosidetto corporativismo. Quegli errori sono riscattati dalla resistenza dei più: due riviste soppresse: la Riforma sociale nel 1935 ed il Giornale degli economisti nel 1943 – e ne sia reso il dovuto ringraziamento ad Epicarmo Corbino, a Giovanni Demaria e ad Agostino Lanzillo, che in tempi osceni vi stamparono studi di critica serena e corrosiva degli idoli pseudo-teorici del tempo -; e dall’eroismo di non pochi giovani studiosi buttati in galera per lunghi anni e poi inviati nelle isole a vita e basti ricordare i nomi di Antonio Pesenti e di Ernesto Rossi. Il quale, prima di seppellirsi vivo e volontario nelle carceri del tiranno era riuscito a compiere l’ultima beffa: di farsi lodare dai relatori sul rendiconto dello stato alle due camere come l’autore di studi faticosi e scrupolosissimi, sino al controllo della quadratura alla lira dei totali, sui bilanci consuntivi e sui rendiconti patrimoniali dello stato nel primo decennio fascistico; ed in galera continuò a studiare, riuscendo, sotto la specie di lettere alla moglie, a scrivere noterelle teoriche, di cui qualcuna fu pubblicata nella Rivista di storia economica.

Perché ho serbato ultimo il nome dell’amico fraterno degli anni giovanili, di Emanuele Sella, conosciuto ed amato quando egli era ancora studente di liceo e teneva, lui discendente della storica famiglia di industriali biellesi, che all’Italia aveva dato Quintino Sella, discorsi agli operai della camera del lavoro di Torino e, ad evitar disgusti di polizia, cercava a Ginevra l’ospitalità della casa di Pantaleoni e si abbeverava alla sua parola? Vorrei spiegare questo perché con un avvicinamento di lui ad un altro amico di cui quelli che lo conobbero rimpiangono sempre non aver egli dato ai sopravvenienti la piena misura di sé: Giovanni Vailati. Di Vailati resta un enorme volume postumo, messo insieme dagli amici e particolarmente da colui che gli fu quasi fratello, Calderoni, fine cultore di molte dottrine e anche di quella economica, della quale volle applicare la teoria della decrescenza dei gradi di utilità alla morale. In quel volume vi è di tutto: dalla geometria al calcolo infinitesimale, dalla storia delle matematiche a quella delle scienze fisiche, dalla filosofia alla storia politica, dalla critica letteraria all’economia. Non intendo dar giudizio di lui come matematico o fisico o storico o filosofo. So che uomini peritissimi in quelle cose lo avevano in gran conto; ed io sempre feci di lui gran conto come economista, economista di razza, più che tanti professionali. Lessi con lui Walras ed allora, nonostante la mia inettitudine matematica, mi pareva di averlo capito. Orbene, malgrado in quel volume vi sia di tutto, non vi è tutto Vailati. Mancano le lettere, lunghissime e disputatrici sui più vari problemi, che egli inviava ad imitazione degli studiosi del ‘600 e del ‘700, in tutti gli angoli della terra conosciuta e che è vana speranza oramai poter raccogliere. E manca la parola. Al par di Antonio Labriola, egli teneva circolo al caffè, prima degli specchi a Torino, e poi d’Aragno a Roma. Quel circolo era una illuminazione, una festa perpetua dell’intelligenza. Vailati sapeva tutto; e se avesse avuto, come Samuele Johnson, il suo fido Boswell, il nome suo sarebbe celebre. Invece, quando saranno scomparsi gli ultimi della sua generazione, pochi si ricorderanno di lui. Così è di Emanuele Sella. Tutti sanno i titoli delle sue opere: La vita della ricchezza, La Concorrenza, La dottrina dei tre principii. Il male non è che le due ultime siano incompiute; che egli scriva poche lettere sebbene quelle scritte siano talvolta memorabili; e che nessuno annoti i pensieri, gli spunti che egli da gran signore regala altrui. Il male è che quelle opere contano millecinquecento pagine o giù di lì e pochi hanno la pazienza di leggerle tutte. Chi avesse quella pazienza vedrebbe riprodotto, nell’opera di un uomo solo, il quadro della scienza economica italiana nell’ultimo mezzo secolo: una fiumana grandiosa, ribollente, a volte limpidissima ed a volte torbida, la quale trasporta a mare sabbie e pietre e limo. Ma qua e là emergono verdi isole meravigliose e sulle insenature, ove l’acqua batte tranquilla, i minatori lavano sabbie aurifere di alto tenore. Così è di Sella: che non è un puro economista; e non studia solo la filosofia moderna; ma si affatica e lima l’intelletto alla dura cote della scolastica di San Tommaso e guarda con ironia alle scoperte dei teorici puri; perché egli sa che quelle scoperte erano già state fatte da questo o quel santo o padre della chiesa. Frattanto anche lui, come Pareto, con le cui premesse positivistiche, egli non ha nulla a che vedere, talvolta indulge a citazioni di giornali o di autori di nessun conto. Le aveva fatte quelle citazioni, ne sono certo, per condiscendere, ridendo dentro di sé, ai commissari di concorso, che si supponevano ammiratori di quella roba; ma frattanto allungano inutilmente un’opera, che io direi ispirata ad una idea fondamentale: che la economia, che la creazione della ricchezza non è un fatto meccanico, bruto, determinato dalla conclusione e dalla interferenza di entità materiali che si chiamano scambi, oro, biglietti, prezzi, saggi di sconto e simili; ma è vita, è creazione continua, creazione dell’uomo e di quel che di divino, di spirituale è nell’uomo. Se ora, giunto all’età serena nella quale egli può guardare con compiacimento sorridente ed indulgente agli anni passati, Sella si decidesse ad estrarre dalla ganga delle tante pagine delle sue tre opere le poche pagine – e forse basterebbe un paio di centinaia – atte a contenere i filoni di metallo nobile, quale regalo magnifico farebbe alla sua generazione ed a quella che viene su, troppo dimentica di quel che fu pensato e fu operato dianzi!

Ed or si concluda. Non filosofate, ma calcolate, aveva detto Croce. Gli economisti sia che ascoltassero il monito, sia, e forse più, fossero spinti sulla via dell’indagine pura dal demone che li agitava dentro, calcolarono, ossia ragionarono. Chi scriverà non affrettati ricordi ma storia sistematica della parte avuta dagli italiani nell’avanzamento recente della scienza economica, dovrà riconoscere che quella parte non fu piccola né per volume, né per qualità. Oltre la sistemazione paretiana della teoria dell’equilibrio economico generale, che è la conquista massima della scienza dal 1870 in poi, il mio vagabondaggio sarebbe stato vano se non fossi riuscito ad esprimere una verità: che le margaritae, le gemme sparse per il mondo scientifico dagli indagatori italiani non furono né poche né di poco pregio. Mancò chi le raccogliesse in una collana splendente e le facesse rifulgere agli occhi di tutti? Le gemme aspettano ancora l’artefice ultimo? Val la pena? L’ufficio delle sparse gemme della scienza non è forse quello di stimolare sempre nuove indagini e nuove conquiste? L’opera di ogni generazione non è quella di servire da terriccio fecondo per l’opera delle generazioni future e così di seguito all’infinito? Frattanto, di nulla maggiormente gli uomini del cinquantennio possono andar orgogliosi quanto di aver sparso per il breve mondo dei numerati cultori della dottrina pura alcune gemme inutili agli occhi delle moltitudini. Queste che, al tempo di Cavour, affollavano l’aula di Francesco Ferrara, oggi disertano l’insegnamento degli economisti e li lasciano elaborare in solitudine i loro teoremi. Non muoviamone lagnanza; ché l’edificio della scienza non si costruisce in piazza. Basta che l’edificio sia bello, armonico e sempre più ricco di opere d’arte. Chi si guardi indietro, deve riconoscere che, fra quante scienze studiano l’operare dell’uomo, senza dubbio la economica continua ad essere da due secoli la sola che meriti di essere dichiarata opera d’arte. Superbia di affiliato? No. Consapevolezza che in nessun altro territorio affine, all’infuori forse del diritto privato di tradizione romanistica, il reprobo, il quale violi le regole sacre del bene e bello ragionare è messo al bando, inesorabilmente. Finché si sentirà l’eco dell’improperio squillante di Maffeo Pantaleoni, del silenzio di ghiaccio di Pasquale Jannaccone, del sorriso beffardo di Attilio Cabiati e del riso fresco indulgente di Emanuele Sella, gli eretici non penetreranno nel tempio ed i sacerdoti, continuando a ricamare sottilmente aerei teoremi astratti, lavoreranno, meglio che se questo fosse il loro dichiarato proposito, al bene delle moltitudini.


1 Quando Carlo Antoni mi invitò a collaborare alla presente raccolta in onore di Benedetto Croce, riluttai per molte ragioni di cui ricordo solo una: dal principio del 1945 ho perso il contatto con quelli che furono sempre, insieme agli amici veri e pochi, i maggiori amici miei, i libri. Invece di sfogliare e leggere libri, leggo carte e memoriali. Accettai perché Giuseppe Bruguier, bibliografo scrupoloso – qualità che raramente si accompagna con quella di economista valoroso quale egli è – mi promise la sua collaborazione. La quale venne larga e rifinita. Ma a questo punto, sorsero in me scrupoli, che mi indussero ad utilizzare dello scritto di Bruguier le alcune citazioni, che io mi sarei trovato nella impossibilità di rintracciare e riscontrare, e sovratutto i riferimenti precisi a uomini ed a scritti, da lui bellamente sistemati e riassunti. A quei dati sicuri appoggiai i miei ricordi; e ne venne fuori il presente vagabondaggio attraverso un cinquantennio di attività letteraria economica. Ma la stesura di ricordi rinfrescati dalla fatica altrui impone a me l’augurio che lo scritto del Bruguier veda la luce a parte, ad istruzione dei giovani studiosi, senza colpa immemori talvolta di quel che gli economisti italiani diedero alla scienza nel cinquantennio crociano. Istruzione più proficua di quella che essi ricaveranno dai miei ricordi, dove molto è dimenticato e le cose non dimenticate sono collocate in un ordine che risente dei rapporti personali e delle simpatie intellettuali di chi scrive.

Rileggo, dopo quattro anni, queste mie reminiscenze e debbo resistere alla tentazione di correggere ed aggiungere. Preferisco resistere, per non mutare nulla dell’atmosfera nella quale i ricordi si muovono. Negli anni del dopoguerra molte cose sono mutate nell’insegnamento economico italiano, nelle riviste e nei libri nei quali i cultori dell’economia versano le loro meditazioni. In maggioranza i nomi che si leggono negli indici dei quaderni delle riviste economiche sono nuovi; e, quel che più monta, sono mutati il linguaggio ed il contenuto dei contributi offerti. Perciò è bene mettere un punto fermo ai ricordi; che, allungati agli anni più recenti, non sarebbero più ricordi, ma giudizi: ma un giudizio non può essere meditato, come dovrebbe, da chi non può trovare il tempo per la meditazione.

Quel che debbo aggiungere è il saluto agli amici mancati ai vivi nel tempo corso tra la stesura di queste pagine e la pubblicazione: ad Emanuele Sella, amato sin da quando egli era ancora sui banchi del liceo ed a Gino Borgatta, quasi compaesano e poi allievo precocissimo. È spento l’intelletto di Attilio Cabiati, pur fisicamente vivo; quell’intelletto che sempre mi costrinse, discorrendo con lui di cose teoriche, a compiere uno sforzo attento di dominazione su me stesso, per il proposito di non vedere comparire sulle sue labbra quel sorriso uso a spegnere la parola sulle labbra di tutti, eccettoché degli innocenti. 12 febbraio 1950, L. E.]

Scienza economica ed economisti nel momento presente

«Annuario dell’Università degli studi di Torino», anno accademico 1949-50, Torino, Tip. Artigianelli, pp. 27-63

«Giornale degli economisti e annali di economia», gennaio–febbraio 1950, pp. 1-17

«L’Opinione»,19 febbraio 1950, p. 3

«Nuova antologia», marzo 1950, pp. 225-241

In volume autonomo, Torino, Giappichelli, 1950, pp. 37[2]

 

Non direi il vero se non confessassi candidamente di avere colto volentieri l’occasione di parlare ancora una volta, tenendo il discorso inaugurale dell’anno accademico, nel momento nel quale per limiti di età ne esco, in questa università, nella quale, entrato come studente nel lontano 1991, conseguii la laurea, la libera docenza e poi la cattedra. Lascio questa, dopo alcuni anni di assenza per pubblico ufficio; anni che non furono mai di oblio né per i colleghi carissimi né per gli studenti sia di questo ateneo sia di quella scuola degli ingegneri, abbandonata anzitempo ed involontariamente, nella quale ebbi pure l’onore di insegnare le scienze economiche.

 

 

Chieggo venia all’amico Jannaccone, il quale continuò con tanto lustro una tradizione di insegnamento che si onora dei nomi di Antonio Scialoja, di Francesco Ferrara, di Achille Loria e di quello del comune maestro Salvatore Cognetti de Martiis, di aver compreso nel titolo dell’odierno discorso, inaugurale tutta la materia economica, inclusa in essa quella scienza delle finanze, che sempre considerai parte della più ampia scienza economica. Esattamente cinquantun anni fa, un grande maestro italiano, Maffeo Pantaleoni, dalla cattedra di Ginevra enunciava una tesi, della quale l’eco tra noi non è ancora spenta: «che la storia delle dottrine economiche deve contenere soltanto la storia delle verità economiche, ma non già quella degli errori».

 

 

La tesi fu, allora, contraddetta dai più; ed invero, se accadeva allora di scorrere qualcuna delle più celebrate sintesi della storia del pensiero economico, quelle, a cagion d’esempio, dell’eruditissimo Cossa o dell’amabile Gide, si aveva l’impressione che le nostre scienze dovessero essere l’eco delle battaglie combattute sui giornali, nei parlamenti, per le piazze e le strade.

 

 

Accanto alle antiche scuole rinascevano, sotto nuove denominazioni, vecchie scuole: tra le altre il corporativismo, di cui poi si fece scempio a scopo di dominazione politica. Gli studiosi parevano schierati in eserciti opposti: ottimisti e pessimisti, laudatori e critici dell’ordine sociale esistente, liberisti e protezionisti, individualisti, socialisti e comunisti. Scuole contro scuole, verità contro errore; ma a volta a volta quella che era verità per una scuola appariva errore agli occhi della scuola opposta.

 

 

Se oggi Pantaleoni ripetesse quella sua prolusione, vedrebbe grandemente scemato il numero dei contradditori. I battaglianti sociali si interessano scarsamente dei problemi proprii della nostra scienza; e gli studiosi guardano con aria distratta ai contendenti delle piazze e dei parlamenti. Chi scorra gli indici di recenti trattati di economia, di finanza e di statistica non vede più traccia di scuole, non sente più l’eco delle battaglie delle strade, delle piazze e dei parlamenti. Si discute ancora e si discuterà sempre tra economisti; ma si discute di problemi che non fanno più appello alle passioni ed ai sentimenti degli uomini, ai contrasti di popoli e di classi.

 

 

Passioni e sentimenti, contrasti e lotte esistono pur sempre e rumoreggiano intorno alle mura del tempio sacro alla scienza: ma entro di esso le voci sono pacate e si discorre di fini e di mezzi, della natura del giudizio economico, di beni materiali ed immateriali, di beni diretti e strumentali, complementari e succedanei, presenti e futuri, di calcoli di utilità ovvero di scelte, di criteri informatori della misura della ricchezza e delle loro difficoltà, di capitale e di reddito, di ricchezza e di benessere, di curve di domanda, di curve di indifferenza, di saggi marginali di sostituzione, di elasticità della domanda, di produttività marginale, di costi fissi e di costi variabili, di economie interne ed esterne, di rapporti fra risparmio ed investimento, di propensione al consumo e di moltiplicatori.

 

 

Il laico che 50 anni addietro aspettava di sentire dalla cattedra la soluzione dei problemi di cui discuteva al caffè cogli amici o su cui lo intrattenevano articoli di giornali o discorsi di comizi, che 100 anni or sono affollava le aule di via Po – e sui banchi di quell’aula Camillo di Cavour prendeva appunti per il rendiconto che ne avrebbe dato il giorno appresso nelle colonne del suo Risorgimento – per sentire dalla bocca eloquente di Francesco Ferrara discutere i problemi massimi della libertà economica e politica, quel laico meraviglia oggi contemplando nelle aule destinate all’insegnamento economico professori che sulla lavagna tracciano curve e risolvono equazioni.

 

 

La sua meraviglia chiude la polemica suscitata da Pantaleoni. Una curva od una equazione può essere vera o sbagliata può essere più o meno perfetta o rappresentativa; può aprire una nuova strada alla interpretazione della realtà od essere un mero esercizio scolastico; non può dar luogo ad una battaglia di scuole. Se ancor si parla di scuole: di Losanna, di Vienna, di Cambridge, italiana, svedese, americana, la denominazione ha indole retorica.

 

 

In verità non esistono scuole; ma studiosi i quali spesso cortesemente e talaltra irosamente, non di rado in amichevole collaborazione e talaltra con gelosia sospettosa, come è costume di tutti gli studiosi in tutti i campi dello scibile, collaborano alla costruzione di un unico edificio. Collaborando insieme, attraverso a contrasti e a polemiche, essi formano ognora più un corpo chiuso, una confraternita di iniziati, che non conosce confini nazionali ed intrattiene corrispondenze a mezzo di accademie internazionali e di riviste scambiate tra i paesi più lontani.

 

 

Come tutte le congreghe di iniziati, anche quella economica parla un linguaggio proprio, che allontana i laici e riesce spesso arduo a chi, avendo iniziato il tirocinio economico nel 1893, è ancora abituato al linguaggio della logica ordinaria, da Pareto in poi tenuta in poco conto come letteraria.

 

 

Tuttavia i «superati» pur si lusingano di intuire, se non sempre di comprendere appieno, il valore dell’avanzamento continuo che tuttodì si osserva nella scienza economica e che sta nel sostituire a schemi passionali, perché grezzi e parziali e semplici, di interpretazione della realtà, schemi sempre più raffinati e complessi.

 

 

Tutto il progresso della scienza economica, al pari, immagino, di quello delle altre scienze, sta nel cercare schemi di interpretazione dei fatti della vita economica, i quali si avvicinino, meglio degli schemi e degli strumenti adoperati prima, alla comprensione della realtà compiuta. Fra i più giovani trattatisti si osserva una impazienza crescente verso la utilizzazione degli strumenti e degli schemi usati anche solo verso la fine del secolo scorso; e taluno ignora volontariamente quelli inventati innanzi alla prima guerra mondiale.

 

 

Può darsi che questa sia una necessità imperiosa di studio; e se si poté leggere in una introduzione metodologica dettata da uno dei maggiori storici viventi che non era possibile, per ragioni di tempo e di spazio, tener conto della letteratura anteriore al 1870, così non stupirei di veder ignorata in un moderno trattato di economia addirittura tutta la letteratura anteriore alla rivoluzione detta Keynesiana.

 

 

Per fortuna, la confraternita economica è ancora consapevole che la nostra scienza è il frutto di un lento progressivo continuo sviluppo, nel quale nulla si perde di quel che fu un vivo vitale contributo alla costruzione dell’edificio odierno; e come la data di nascita della scienza (al più tardi 1734) è caratterizzata dalla invenzione ad opera di Cantillon di due strumenti i quali col nome di «caeteris paribus»e di «impresa» ancora rendono oggi qualche servizio agli indagatori; e come pochi anni dopo (1750)

 

 

Ferdinando Galiani inventava altri strumenti che oggi, col nome di teorema della decrescenza della utilità delle dosi successive dei beni o di valutazione alla grida delle monete diverse da quella scelta come unità di conto, non sono ancora del tutto disusati; così il «tableau oeconomique» dei fisiocrati è o dovrebbe essere ricordato dai costruttori moderni della dinamica economica come il primo, sia pur oscuro e confuso, tentativo di rappresentare il mondo economico non nel suo stare in un certo momento ma nel suo flusso continuo; e chi faccia la storia dello schema più generale e meraviglioso che si conosca di interpretazione della realtà che è quello generale di Walras e Pareto, non può dimenticare dei medesimi fisiocratici il principio di un ordine naturale e necessario, che se poté, presso gli storici della filosofia, essere interpretato come l’eco delle dottrine naturalistiche del secolo XVIII, in realtà era l’anticipazione del teorema per cui tutti i fatti economici son legati tra loro non da un vincolo di causa ed effetto, ma di interdipendenza e di equilibrio, e nulla dura invariato se ripugna agli altri elementi del sistema; ma, mutando uno di essi, gli altri sono costretti pure a variare ed a giungere ad un nuovo equilibrio.

 

 

Nulla si perde degli strumenti e degli schemi i quali giovarono parzialmente in passato alla conoscenza del vero; e se correttamente un moderno trattatista afferma che «ogni traccia della influenza di Carlo Marx sulla scienza economica si è oramai perduta» ed in verità la teoria del valore lavoro e del sopravalore non ha luogo alcuno in essa; non così dei teoremi ricardiani intorno al costo di produzione, ai costi comparati, alla carta moneta, che ancor oggi, per contraddizione e soprattutto per perfezionamento, sono alla base dell’insegnamento economico.

 

 

Dalla contemplazione dello schema splendente dell’equilibrio generale, per cui tutto nel firmamento economico si tiene e si lega e nulla può essere mutato nel più lontano e minimo mercato senza che quella mutazione si propaghi in tutti gli altri mercati e ne modifichi l’azione, gli economisti, disperati di aggiungere alcunché al quadro d’insieme dei Walras e dei Pareto, si rivolgono di nuovo, ricorrendo per un istante – ma sono istanti che durano decenni e son fecondi di letterature sterminate – all’antico strumento del «caeteris paribus», allo scavo in profondo degli equilibrii parziali; e, con la reverenza dovuta al grande maestro, Keynes prende il posto di Marshall come provocatore di dubbi e produttore di nuovi schemi, i quali, a pochi anni dalla sua morte, già provocano nuovi dubbi e stimolano all’offerta, sul mercato dei teoremi economici, di nuove ipotesi che si affermano meglio adatte ad interpretare il meccanismo delle società economiche.

 

 

Come il fisico, come il chimico, l’economista reputa dunque suo ufficio proprio di travagliare alla ricerca di nuovi strumenti, di nuove ipotesi che giovino meglio ad interpretare quel mondo economico in mezzo al quale egli vive. Nell’indagare egli soffre e fatica – in questo senso il nostro grande Francesco Ferrara adoperava un secolo fa, succedendo qui ad Antonio Scialoja nella cattedra economica, la parola «travagliare» – soffre e fatica più del fisico e del chimico; ché a lui manca la possibilità di quel potente mezzo d’indagine che è l’esperimento e deve contentarsi dei mezzi assai meno fecondi dell’osservazione aiutata dall’incerta introspezione e dal ragionamento, i quali possono essere fallaci.

 

 

Soffre e fatica, perché i suoi ideali son alti. In primo luogo, non vorrei che i miei compagni di studio fossero fatti da me comparire troppo orgogliosi quando dico che essi hanno, fra l’altro, l’ambizione medesima che ha l’architetto, il pittore, lo scultore, il musicista, il poeta di immaginare, di sentire, di aspirare alla bellezza, di intendere alla costruzione dell’opera d’arte. Mi dicono che ogni grande matematico è anche un poeta; e che egli nel risolvere un’ardua equazione, nello scoprire il nuovo teorema, a cui darà il suo nome, prova il medesimo rapimento di chi dona al mondo un poema o un quadro.

 

 

A me non fu dato mai di provare quei rapimenti: ma non ho ignorato i rapimenti che si provano nel leggere talune grandi pagine di Riccardo Cantillon, di Ferdinando Galiani, di Francesco Ferrara, di Davide Ricardo, di Vilfredo Pareto, di Maffeo Pantaleoni, di Filippo Wicksteed, di John Maynard Keynes, dove il ragionamento fino, la logica impeccabile, la intuizione profonda del fatto studiato fanno per un istante credere di aver veduto le ragioni dell’agire degli uomini e fanno provare una gioia della medesima natura di quella che si sente dinanzi al Partenone di Atene, ai templi di Pesto od al cesellato pensiero di Giacomo Leopardi. Intuizione del vero, contemplazione estatica di esso, sforzo di pensiero nel persuadere gli altri della verità novellamente scoperta; che cosa è ciò se non bellezza pura, opera d’arte?

 

 

Nella nostra scienza, la bellezza è congiunta, anzi è derivata dal vero. Non affermo nulla riguardo alla natura del bello nell’arte. Affermo che le teorie, gli schemi, i teoremi, sono belli perché sono veri, od almeno perché ai nostri occhi appaiono come approssimazioni successive, sempre più perfette, verso la conoscenza del vero.

 

 

Quel che ci rende talvolta orgogliosi, intolleranti, spregiatori è l’aspirazione mai soddisfatta alla conoscenza del vero. Siamo sicuri di perseguire questo culto, solo perché e finchè sappiamo di non sapere. Guai al giorno in cui uno di noi sa. Quando talvolta leggiamo che un tale autore sa, afferma di sapere che la verità è quella e non altra, che colui il quale non crede in quella verità è un eretico vitando, una certezza, un certezza sola noi abbiamo: la certezza del diritto di cacciar via il sapiente, colui che afferma di sapere, colui che afferma di poter insegnare altrui quella verità, di cacciarlo senza pietà colla frusta dal tempio.

 

 

Noi apparteniamo alla confraternita aristocratica dei cultori delle scienze economiche solo perché e finché sappiamo di non sapere, perché e finché siamo avidi di imparare; perché e finché teniamo gli occhi aperti intorno a noi per intuire, per apprendere qualche nuova verità o correggere o perfezionare le verità che per un istante avevamo avuto la presunzione di conoscere. Se la consapevolezza dei limiti delle nostre conoscenze ci fa aborrire coloro i quali sanno le cause ed i rimedi del male economico e sociale, non siamo affatto disposti a subire le contumelie di coloro i quali gridano all’impotenza ed al fallimento della scienza economica perché questa non ha pronto lo specifico atto a creare l’abbondanza durante le guerre, ad impedire il rialzo dei prezzi quando si moltiplicano i mezzi di pagamento o difettano i beni di consumo ed è costoso e rischioso trasportarli dalle campagne nelle città od il crescere dei salari nominali non riesce ad eliminare gli effetti dei prodotti scemati.

 

 

Mentre i laici gridano al fallimento, gli iniziati esultano; perché solo durante i tempi di difficoltà grandi, di rivolgimenti politici e sociali e, malauguratamente, bellici, essi possono cogliere l’occasione rarissima di disporre di dati di studio, che, pur non avvicinandosi se non lontanissimamente al rigore dell’esperimento scientifico, consentono di isolare in parte alcuni fattori, dei quali essi invano avevano desiderato di conoscere partitamente il comportamento e gli effetti. Non senza un perché le guerre napoleoniche ed il dopoguerra che ne seguì fin verso il 1830 videro il fiorire più rigoglioso che mai si sia conosciuto della scienza economica classica; ed allora Ricardo scrive i Principii e detta le pagine intorno ad una moneta economica e sicura, ché gettarono le basi della teoria della circolazione cartacea; e Sismondo de Sismondi pubblica, occupandosi degli assegnati, la prima analisi scientifica della svalutazione della moneta cartacea; e, dopo levate le sobrie mense mensili, i soci dell’Economic Club di Londra disputano intorno a problemi ancor oggi attuali; e di quelle dispute si ha il ricordo nei carteggi di G.B. Say e di Malthus, il primo dei quali espone la teoria degli sbocchi ed il secondo la critica, insistendo sulla mancanza della domanda effettiva, e Sismondi lo affianca, ricordando la impossibilità dei poveri contadini toscani, a lui familiari, di far domanda effettiva, mancanza che provoca il ristagno nella vendita delle cotonate inglesi; e durante quelle sedute un oscuro impiegato di banca, il Pennington, espone la teoria delle aperture di credito che creano i depositi bancari e non viceversa.

 

 

Di nuovo, dal 1914 al 1945, guerre e rivolgimenti ingrandiscono e mettono in evidenza circostanze e fattori che in tempi tranquilli non passavano inosservati, no; ma lasciavano legittimi dubbi intorno al peso della loro azione a causa delle interferenze di altri fattori pur essi rilevanti. Le inchieste e le discussioni intorno ai rapporti fra oro, argento, moneta cartacea fiduciaria ed a corso forzoso, prezzi, salari, profitti, cicli di prosperità, di crisi e di depressione non erano mai cessate durante il tempo che volge tra le guerre napoleoniche e quelle mondiali recenti; e nella letteratura di quel tempo si trovano quasi tutti i germi delle teorie moderne in proposito; ma le dimensioni dei fenomeni erano modeste; ed una variazione dei prezzi o dei cambi del 5, del 10 e del 20% appariva preoccupante ed a lungo si disputava intorno alle ragioni di essa.

 

 

Dispute feconde, perché quando tra il 1914 ed il 1945 le variazioni ingigantirono ed i prezzi, ad es. in Italia, non crebbero più soltanto dall’indice 100 a quello 110 o 120 e non diminuirono più solo da 100 a 90 e ad 80, ma balzarono, tra il 1914 ed il 1926, da 100 a 600 e poi tra il 1926 ed il 1930-33 scemarono da 600 a 500; e quindi tra il 1939 ed il 1947 di nuovo crebbero da 100 a 6000, ed ancora, pur riducendosi solo del 10 o del 15 per cento, tracollarono nel 1947 da 6000 a 5000 mentre i cambi sul dollaro si riducevano da 900 a 575; noi non stupimmo più e potemmo studiare, con maggiore sicurezza, le correlazioni tra quantità e velocità della circolazione delle varie specie di monete cartacee e creditizie, prezzi, investimenti, depositi, giacenze di magazzino ecc. ecc.

 

 

Se oggi le teorie monetarie e creditizie sono molto più raffinate di un tempo, se esse non sono più un capitolo singolare a sé stante dei trattati economici, ma formano un tutt’uno con le teorie più generali, ciò è dovuto anche alla esperienza della prosperità tranquilla; con variazioni tenui nel livello dei prezzi, del decennio posteriore al 1920 seguita dalla catastrofe della grande depressione fra il 1929 ed il 1932, – che offrì l’occasione di studiare i rapporti esistenti fra la quota consumata e la quota risparmiata del reddito nazionale e di trarne schemi di interpretazione della realtà e strumenti di lavoro – ad es. il moltiplicatore – dimostratisi utili alla intelligenza di quel breve periodo di tempo e di quegli altri periodi nei quali in avvenire si rinnovassero – ma finora non accadde – le medesime circostanze di impianti industriali esuberanti, di mano d’opera disoccupata e di risparmi abbondanti, timidi ed inoperosi.

 

 

Non si dica però che gli economisti sono bramosi di guerre e rivolgimenti sociali per libidine di trovare più ampia materia di studio. Finché essi guarderanno al mondo circostante con gli occhi limpidi di colui il quale va esclusivamente in traccia del vero, non mancherà mai ad essi ampio pascolo di studio anche in tempi tranquilli. Il pascolo sarà anzi più opimo; ché, non più distratti dal rumore delle armi, non più chiamati a raccolta dai governanti per essere aiutati nella soluzione di quotidiani problemi assillanti, gli economisti raccolgono nei tempi ordinari il frutto delle lunghe esperienze del passato.

 

 

Se noi infatti guardiamo al tempo relativamente ordinato e pacifico corso dal 1870 al 1914, vediamo che proprio a quell’epoca risalgono le moderne grandi sistemazioni teoriche. In Austria i Menger, i Bohm Bawerk, i Von Wieser, in Inghilterra i Jevons analizzano il concetto dell’utilità economica e sistematizzano attorno alla tabella mengeriana la scienza partendo dai teoremi dimenticati di Lloyd e di Gossen. Un meditante solitario, il Marshall, elabora teoremi lungamente meditati durante ascensioni alpine o nelle invernali tepide giornate trascorse nella siciliana conca d’oro; ed un ecclesiastico, studioso di Ariosto, Philip Wicksteed, emula il suo contemporaneo Pantaleoni nella nitidezza splendente della successione dei teoremi e corollari della esposizione. Sono meditanti solitari gli svedesi che nella quiete operosa delle loro università danno innanzi al 1914 tanto contributo al progresso della scienza; e se nel primo tempo della loro vita il Walras ed il Pareto erano stati giornalisti, propagandisti, ingegneri minerari, né mai dimenticarono i sentimenti e le esperienze dei loro anni più giovanili, fu nelle meditanti passeggiate intorno alle ridenti rive del lago Lemano che essi crearono i sistemi di interpretazione più generale del mondo economico che ancora oggi si conoscano.

 

 

Non estranei a nulla di ciò che accade intorno ad essi, sia che i tempi sembrino stazionari e quasi immoti, sia che il barometro economico segni tempesta e mutazioni, gli economisti sono dunque dei puri esteti occupati diuturnamente a studiare gli schemi, gli strumenti, i concetti tramandati dalle generazioni passate; ed a perfezionarli, modificarli, sostituirli perché essi meglio interpretino i fatti già noti o raffigurino i nuovi fatti che l’esperienza della vita ogni giorno crea o trasforma? Confessiamo candidamente che questo e non altro è il nostro ufficio; e che tradiamo il nostro dovere, non adempiamo alla nostra missione quando per disavventura noi consentiamo ad uscire, in qualità di economisti, dal compito conoscitivo, interpretativo, che, come per ogni altro cultore della scienza, è il solo nostro compito.

 

 

Naturalmente, essendo noi uomini intieri, come sono uomini intieri il chimico, il fisico, il matematico, il giurista, noi non solo siamo tentati, ma dobbiamo uscire dal nostro campo perché siamo padri di famiglia, cittadini di un borgo, di una città, della nazione, capi di amministrazioni private o pubbliche, uomini politici, difensori di questo o di quel credo politico o sociale. Ma conserviamo la nostra qualità di cultori della scienza, la nostra dignità morale di studiosi; solo se, uscendo dal nostro compito, sappiamo di uscirne. Sarebbe assurdo chiedere all’economista di vivere nella torre d’avorio della scienza pura; assurdo perché egli annullerebbe se stesso, in quanto egli vale solo nella misura in cui è atto a comprendere ed a far comprendere il fatto economico che è un aspetto della vita degli uomini. Ma egli deve anche vivere nella torre d’avorio: sinché dà opera alla ricerca, finché cerca d’intravvedere il comportamento di un aspetto della realtà, non deve avere altro scopo dinanzi a sé fuorché la ricerca del vero, qualunque esso sia, e quali si siano gli effetti che il vero da lui esposto possa avere su lui stesso e sugli altri uomini.

 

 

Pronuncia bestemmia atroce chi assegna allo studioso il compito di lavorare a pro di un ceto, di un gruppo sociale, di una classe, di una classe più numerosa, della stessa umanità intera. L’economista non sa, non deve sapere, non deve essere infastidito dalla preoccupazione che i suoi teoremi, i suoi schemi, i suoi strumenti di ricerca servano, o debbano servire ai pochi, ai molti, all’unico, a tutti, a nessuno. Egli inventa teoremi, propone schemi o strumenti o definizioni. Se son fecondi, altri li riesporrà, li modificherà, li perfezionerà. Potrà morire contento di avere recato una piccola impercettibile pietra all’edificio che senza posa si va innalzando e rendendo sempre più maestoso e bello. Tutto sarà finito lì; e sarà fine gloriosa, la più degna augurabile all’uomo di scienza.

 

 

Ho detto però che l’economista, essendo uomo, può e deve uscire dal suo campo, purché sappia di uscire. Qual è – forse è la domanda che vedo affiorare spontanea sul vostro labbro – l’ufficio dell’economista il quale esca dalla torre d’avorio? La risposta è ardua perché tutti, uscendo, abbiamo peccato contro il comandamento di non dimenticare di essere usciti da quella torre, che è la nostra dimora e il nostro scudo. Tutti, talvolta, hanno dimenticato, anche i più grandi; non solo il passionale Pantaleoni, ma forse anche l’impassibile Pareto. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Chiedo venia, se, pur ricordando che anch’io ho peccato, oso tratteggiare il compito dell’economista che, uscito dal tempio, si trova sulla piazza dove tumultuano le passioni e gli uomini lottano gli uni contro gli altri.

 

 

Il compito gli è dettato dal supremo comandamento morale di non mai tradire quella che a lui è parsa essere la verità. L’economista non è un tecnico incaricato di tradurre in precise proposizioni legislative o propagandistiche il pensiero od il proposito altrui. Se a lui si ricorre come perito o, come oggi si suol dire, esperto, i limiti della sua collaborazione sono posti dall’obbligo che egli ha di non fare o di non dire cosa contraria alla visione sua della verità.

 

 

Egli non è, come il giurista che, uscendo parimenti fuori della sua torre, sia patrono di parte nei giudizi civili e penali ed in tale qualità adempia ad una nobilissima missione, il difensore degli interessi o degli ideali di una persona o di un ceto. Nulla vieta che egli apertamente si dichiari tale; e nessuno potrà in tal caso muovergli appunto. Ma se egli tace e lascia credere che il suo pronunciato sia esclusivamente quello dell’uomo di scienza, egli deve ubbidire alla legge morale, la quale gli ordina di dire il vero. Se con una immagine si potesse riassumere il compito dell’economista uscito in piazza, lo vorrei – è un confronto già altra volta da me offerto – paragonare allo schiavo seduto ai piedi del capitano trionfatore in Roma, a cui era affidato il compito di ricordare al vittorioso che accanto al Campidoglio vi era la rupe tarpea.

 

 

Una delle più belle pagine dei ricordi del conte Mollien – già ufficiale al controllo delle finanze sotto l’antico regime, educato alla scuola dei Colbert e dei Necker; ma affinato dallo studio dei libri di Turgot, dei fisiocrati e di Adamo Smith, dal 1806 al 1815 ministro del tesoro con Napoleone – è quella nella quale egli, che pur ammirava l’uomo ai suoi occhi grandissimo per la intelligenza potente, per la intuizione prontissima, per la memoria formidabile, per la capacità somma ad organizzare ed a comandare, ne descriveva la propensione, propria di chi non è addestrato al ragionamento economico, ad immaginare progetti atti a risolvere il problema finanziario od economico che in quel giorno lo angustiava.

 

 

Mollien, l’economista schiavo, ascoltava compunto il padrone, consentiva nello scopo e nei principii; ma subito a poco a poco iniziava l’analisi e la demolizione della proposta specifica; conducendo l’una e l’altra innanzi così raffinatamente che alla fine l’imperatore restava persuaso di non aver mai concepito l’assurdo progetto da lui primamente esposto ed anzi di essere lui l’autore delle critiche e delle conclusioni a cui artatamente era stato condotto dallo schiavo fedele. Fedele, perché critico. Questo è il rapporto logico naturale tra il politico e l’economista.

 

 

Tratti dalla visione immediata dei mali, delle miserie, delle ineguaglianze, della necessità di elevare i loro popoli a più alte condizioni di vita, gli uomini politici sono spinti a fare ciò che essi reputano il bene, a cercare i mezzi per alleviare dolori e miserie, a promuovere spese pubbliche, risanamenti, bonifiche; rimboschimenti, a dare incremento all’educazione ed all’istruzione dei più, a diminuire le cause e la durata delle malattie, ad assicurare a tutti un minimo decente di vita. Lo schiavo economista non nega la bontà del fine, e consente nella necessità di giungere alla meta; aggiunge anzi che non esiste una meta ultima, ma toccata la cima che oggi appare più alta, altre si profileranno all’orizzonte ed anche quelle dovranno essere scalate.

 

 

Ma ricorda sommessamente che, dal giorno in cui Dio, nel momento in cui lo cacciava dal paradiso terrestre, ordinò al primo uomo: tu lavorerai col sudore della tua fronte, il principio fondamentale economico fu e rimane e rimarrà sempre la limitazione dei mezzi atti a conseguire i fini numerosi e mutevoli ed ognora moltiplicantisi che gli uomini si propongono. Da un lato aspirazioni, desideri, bisogni indefiniti e non mai sazi; dall’altro mezzi limitati.

 

 

Gli avanzamenti della scienza e della tecnica fanno ogni giorno arretrare, in maniere che ogni volta appaiono insperate e stupende, l’ostacolo posto dalla limitazione dei mezzi alla soddisfazione dei desideri umani; ma i desideri dell’uomo corrono di più di quel che non corra la scienza nell’apprestare nuovi mezzi ai cresciuti e nuovi bisogni. Se lo sguardo dell’uomo non fosse così rivolto verso il nuovo e verso l’alto, in che egli si distinguerebbe dalle specie animali? Feconda è perciò la illimitatezza dei desideri umani e causa ultima degli avanzamenti della tecnica. Ma ad ogni istante il limite esiste; ad ogni istante il mezzo usato per conseguire un dato fine non può contemporaneamente essere adoperato per conseguire un altro fine.

 

 

Perciò oggi la scienza economica è correttamente definita la scienza delle scelte; ed ufficio dello schiavo economista è di ricordare all’uomo politico che scegliere bisogna; e che nessun giudizio sulla convenienza di far qualcosa, di spendere il denaro pubblico per un dato fine può mai essere un giudizio assoluto; ma è sempre un giudizio comparativo; e che in ogni dato momento, posti i mezzi in quel momento esistenti, un voto positivo a favore di un capitolo di qualsiasi bilancio pubblico o privato vuole necessariamente, per definizione, dire un voto negativo contro un altro capitolo. Verità evidente; ma spiacevolissima a molti politici di tutti i paesi del mondo, i quali desidererebbero contentar tutti e nel tempo stesso non scontentare il contribuente chiamato a pagare le imposte che pur si devono riscuotere se si vuole che l’uno o l’altro fine si consegua.

 

 

Lo schiavo economista sa anche che le buone intenzioni non giovano spesso a raggiungere il fine; che, pur chiari i fini e pur esistenti i mezzi, non sempre i mezzi sono congrui al raggiungimento del fine; e che se anche si raggiunga un dato fine, alla lunga quella consecuzione medesima può avere sapore di amaro tosco. Un economista, il cui nome non è ricordato dagli storici delle teorie economiche, e giustamente è trascurato, non potendosi a lui ascrivere alcun nuovo teorema, ma ebbe acutissimo il senso della applicazione delle verità economiche note ai suoi tempi, Federico Bastiat, scrisse un opuscolo: Quel che si vede e quel che non si vede nell’economia politica, il cui titolo potrebbe ancora oggi essere il vademecum dello schiavo economista. Non conta nulla risolvere un problema. Non esistono in economia problemi singoli.

 

 

Tutto si tiene nel meccanismo economico. Non di rado il mezzo che si suppone e forse è adatto a risolvere un dato problema, ad impedire il ribasso del prezzo di una merce o di un gruppo di merci, a dare occupazione ad un dato gruppo di lavoratori, ad innalzare il tenor di vita di una categoria sociale, quel mezzo pone ed aggrava altri problemi, rialza e ribassa altri prezzi, con nocumento universale, provoca la disoccupazione di ben più vaste schiere di lavoratori e condanna alla miseria categorie sociali più numerose di quelle con quel mezzo innalzate.

 

 

Ufficio ingrato dello schiavo economista è di porre sotto gli occhi dell’uomo politico, dalla sua umanità tratto a fare il bene che si vede, le eventuali conseguenze dannose ultime della sua azione. Può darsi che sotto altri aspetti, di ordine pubblico o di preservazione nazionale, il piccolo bene presente debba essere preferito al maggior danno futuro. Rimane fermo l’ufficio dello schiavo che ricorda a chi deve deliberare che una scelta fra vantaggi presenti e danni futuri deve essere fatta; e fatta a ragion veduta. Vorrei perciò – e qui il mio discorso si rivolge in modo particolare agli studenti – che il fervore rinnovellato di discussione, anche intorno ai problemi economici e sociali contemporanei, di cui mi si dice date oggi prova nelle radunanze dei vostri circoli di cultura e di interfacoltà, fosse tenuto a freno dalla presenza di qualcuno degli economisti schiavi di cui ho parlato dianzi.

 

 

Ricordate sovratutto che la battaglia intorno ai diversi ideali sociali che voi professate rimarrà sterile, rimarrà infeconda, apparterrà sin dall’origine al limbo delle cose che mai non furono; ricordate che da quella battaglia voi non trarrete frutti se non di odio distruttivo, se manterrete quelle discussioni nel campo degli ideali da raggiungere, delle buone intenzioni da attuare. L’antico proverbio dice che di buone intenzioni è lastricato il pavimento dell’inferno; vorrei aggiungere che la lotta intorno alle intenzioni, anche ottime, ha per se stessa il risultato fatale di precipitare nell’inferno della discordia e della dissoluzione i popoli che vi si addicono.

 

 

Ma quelle vostre discussioni saranno invece feconde per voi di ammaestramenti utili per la vostra condotta futura nella società di cui vi apprestate a diventare il ceto dirigente nei vari campi della vita politica ed economica, se non vi dimenticherete mai di saggiare le intenzioni alla dura cote della limitazione e della adeguatezza dei mezzi scelti per attuarle. Perciò non è degno di rimanere nel sacro recinto della università il giovane che a 20 anni sa già tutta la verità intorno a ciò che si deve fare per salvare il mondo.

 

 

È bello l’entusiasmo di chi aspira alla salvazione; ma ad impedire che l’entusiasmo travalichi nel fanatismo, ascoltate lo schiavo economista il quale vi rammenta che gli ideali sono il nulla, sono una quantità negativa se la loro attuazione urta contro la indisponibilità dei mezzi, contro la inadeguatezza di essi o contro il loro uso più urgente per la consecuzione di altri ideali.

 

 

Forse l’impazienza dei giovani – e guai se i giovani non fossero impazienti ed entusiasti! – stupisce altresì dinanzi ad una curiosa maniera di comportarsi degli economisti chiamati od autoffertisi a dar consigli a governi od a parlamenti. Per lo più, costoro ripugnano dalle soluzioni diritte le quali prendono nettamente di fronte l’ostacolo e tentano di rovesciarlo.

 

 

Ripugnano perché, al pari del costruttore di strade in montagna, diffidano della bontà delle soluzioni rapide e delle strade diritte. Le resistenze e le reazioni atte a mandare a monte qualunque azione, sono troppo forti. Meglio le strade traverse, le mosse aggiranti, le vie lunghe che paiono tornare all’infinito su se stesse. Il politico, il quale voglia il successo immediato, è indotto a guardare di traverso un consigliere tanto freddo e scoraggiante. Scoraggiante tuttavia solo nell’apparenza. Ché lo schiavo economista conosce i limiti delle sue conoscenze. E sa che, quando egli ne esce fuori, entra in un campo ben più vasto e ricco e vario di quel che non sia il già bello e ricco mondo delle scelte fra i molti e varii ed indefiniti desideri, nel quale, con mezzi limitati, egli è costretto a muoversi, a calcolare, a concludere. Egli sa di non recare al politico la chiave della decisione risolutiva.

 

 

Egli, appunto perché vive dentro al mondo economico, non ha nessuna simpatia per le interpretazioni economiche della storia. Ben altri, ben più profondi, ben più efficaci sentimenti e passioni muovono gli uomini, per i quali le scelte fra il più e il meno e le leggi della uguaglianza marginale della utilità ponderata dei beni hanno poco peso. Se il politico ha l’intuito compiuto del momento nel quale la nazione vive; se la sua azione risponde alle esigenze, alla volontà matura e ragionata del popolo, troverà nello schiavo economista un mentore, non mai un dottrinario fanatico.

 

 

Alla modestia il consigliere è indotto dalla consapevolezza della distanza la quale corre fra gli schemi di interpretazione della realtà da lui assiduamente perfezionati e la realtà intiera, la realtà vivente, per la conoscenza della quale egli nei suoi schemi ha tenuto conto di alcuni dati soltanto, laddove i più gli sono ignoti o malamente e grossolanamente noti. Ufficio suo, non secondo a quello della critica è dunque quello di apprestare i dati, bene scelti ai fini della indagine scientifica, che il politico deve conoscere prima di agire.

 

 

Era grande, sotto tale rispetto, la tradizione britannica delle pubbliche inchieste rigorose che precedettero tutte le maggiori riforme monetarie economiche e sociali del secolo tra il 1815 ed il 1914; né la tradizione è del tutto spenta in quel paese. Anche noi abbiamo tradizioni gloriose. L’inchiesta agraria, l’inchiesta sulle condizioni dei contadini nel mezzogiorno sono monumenti che resteranno. è di ieri in Italia la pubblicazione di una indagine statistica, diretta, con la collaborazione dei migliori economisti agrari italiani, dal nostro collega nella facoltà agraria Giuseppe Medici, sulla distribuzione della proprietà fondiaria in Italia.

 

 

Da anni, forse da quando l’Italia divenne una, si discute tra noi di riforma agraria; ma sempre si discusse senza conoscere i dati del problema quanti sono i proprietari in Italia? Sono decine o centinaia di migliaia o milioni? Quanta superficie occupano i piccolissimi, i piccoli, i medi, i grandi proprietari? Come varia la distribuzione nelle diverse regioni d’Italia? «Hic sunt leones»: la risposta che si leggeva un tempo sulle carte dell’Africa tenebrosa, era sino a ieri la sola risposta che si potesse dare al quesito.

 

 

La più parte degli stranieri da cui talvolta ho occasione di essere intervistato sui maggiori problemi nostri non va – in ciò favorita da una deteriore letteratura giornalistica – al di là della conoscenza derivata dall’antico motto latino: «latifundia perdidere Italiam». Oggi, per la prima volta, noi sappiamo quanti sono i proprietari, quanta terra possiedono distintamente per classi di superficie e di reddito; se sia vero che la Sicilia sia la regione tipica della grande proprietà ovvero del latifondo, che è cosa diversa; conosciamo per la prima volta che cosa sieno e dove sieno situate le maggiori proprietà italiane, che si scopre essere sovratutto concentrate non nel mezzogiorno o nelle isole, ma nella ubertosa e non latifondistica Toscana; impariamo quanta parte (più di un quinto) della terra italiana sia già di proprietà dello Stato, dei comuni o di enti pubblici e con quali risultati economici sia condotta.

 

 

Ufficio primo dello studioso non è di imporre al legislatore una sua soluzione del problema della riforma fondiaria o di ogni altro problema sociale; ma di dire ad essi: ecco i dati del problema; e la soluzione alla quale tu giungerai sia quella propria ai fatti nostri attuali indagati con il solo intento di conoscerli nella loro compiuta realtà. Nel campo della conoscenza, lo schiavo economista può in altra maniera ancora servire al politico: chiarendo cioè che il problema è posto in maniera da renderlo insolubile o da condurre a risultati opposti a quelli

desiderati.

 

 

Gli economisti hanno appreso dai colleghi matematici che nessun problema può essere risoluto se il numero delle condizioni indipendenti e non contradditorie, che noi vogliamo siano soddisfatte, non sia uguale al numero delle incognite.

 

 

Un paese assediato, ad esempio, non può distribuire ad ognuno dei cittadini 400 grammi di pane o di farina al giorno, al prezzo di 50 lire al chilogrammo di pane e 70 per la farina; se, essendo i cittadini 45 milioni e non essendoci la possibilità di far gravare sui contribuenti la perdita, né di introdurre frumento dall’estero, gli agricoltori al prezzo del frumento corrispondente a quel prezzo del pane producono soltanto 50 milioni di quintali invece degli 80 che sono necessari per ubbidire alle condizioni poste di quantità e di prezzo. Occorre mutare i dati del problema: o scemare la razione od aumentare il prezzo; o costringere con la forza – scarsamente efficace – o con allettative di maggior prezzo gli agricoltori a produrre di più, ovvero ottenere in prestito od in dono dagli amici stranieri il frumento mancante.

 

 

Gli esempi della impossibilità di risolvere i problemi, quando le condizioni postulate si contraddicono od il loro numero non sia uguale al numero delle incognite, si potrebbero moltiplicare. Se qualche volta si udì e si ode tuttora favoleggiare di battaglie monetarie fra paesi poveri e paesi ricchi, fra paesi capitalisti e paesi proletari, di guerre fra dollaro e sterlina, al luogo delle favole infantili si devono porre sempre (qui sarebbe fuor di luogo persino la riserva del quasi sempre) posizioni insolubili di problemi dovuti a cause esclusivamente interne proprie ad ogni paese che sia costretto a svalutare la sua unità monetaria.

 

 

A tanto compito, tanto più arduo quanto più raffrenato dalla consapevolezza, da parte della nostra confraternita, dei limiti delle nostre conoscenze, non forse è impari la scienza economica nel suo stato presente? Per fermo, noi non siamo ingenuamente persuasi che sia possibile codificare la scienza economica in un trattato definitivo. Siamo invece travagliati da sempre nuovi dubbi sulla compiutezza dei teoremi accolti ieri e siamo sospinti dalla critica ad una revisione continua di essi. Ma son critiche e dubbi costruttivi.

 

 

Non mai, come oggi, il panorama offerto a chi, distratto da altre cure, per un istante si affaccia avido di sentir almeno l’eco del travaglio scientifico che pur nel campo che era un tempo il suo prediletto, non mai il panorama è apparso tanto luminoso e beneaugurante. Si moltiplicano le riviste di scienza pura ed applicata; risorgono le effemeridi di storia economica, si stenta a tener dietro ai soli titoli di libri e di comunicazioni nei quali sembra contenersi un qualche contributo al progresso delle conoscenze. Tutto il mondo è divenuto un unico cantiere. I nomi di scuole diverse son pallidi ricordi di divergenze di metodo oramai superate.

 

 

Non esistono più contrasti decisivi, se non di predilezione naturale verso questo o quel campo di studio; ed ogni metodo è a volta a volta adoperato in ragione della sua adeguatezza alla materia indagata. Pochi osano richiamarsi ai principii od ai metodi di una scuola per difendere una tesi od oppugnare quella avversaria; perché le scuole servono se offrono altrui schemi, strumenti, concetti nuovi e questi, appena offerti, divengono patrimoni universali e nessuno studioso vuole squalificar se stesso rinunciando all’uso di un metodo, di uno schema utile a scoprire nuove verità solo perché il metodo o lo schema è stato elaborato da chi ha lavorato in una università o scuola diversa dalla sua. Perciò le vecchie antipatie tra economisti puri ed economisti storici; fra inventori di schemi e studiosi delle istituzioni sono cessate; ed il rispetto degli uni verso gli altri è pari soltanto alla noncuranza sprezzante con cui tutti insieme d’accordo guardiamo all’improntitudine di coloro che decisi a sottrarsi alla dura disciplina nostra, vorrebbero trasformare una scienza che non posseggono in strumento di propaganda e di lotta per raggiungere fini concreti vantaggiosi a questa od a quella classe, a questo od a quell’interesse particolare. Il fervore della ricerca è siffattamente intenso nel momento presente da turbare talvolta gli spiriti desiderosi di quiete.

 

 

Lo studioso che sia stato temporaneamente assente – e quanti non furono durante la guerra incatenati dallo stato ad assolvere compiti ben più urgenti della contemplazione della verità pura! – e ricorda, ad esempio, i semplici pochi tipi fondamentali di mercato che ai suoi tempi tenevano il campo: concorrenza pura, monopolio puro, e, in mezzo, duopolio, oligopolio, monopolio bilaterale; e d’un tratto legge che taluno studioso egregio ha, invece di una mezza dozzina, individuato, ossia analizzato e teorizzato 200 forme diverse di mercato ed altri ne ha elencato 900, è indotto, con la peritanza propria di chi non sa e vorrebbe apprendere, a chiedere: l’analisi spinta a tanta e non chiusa moltiplicazione di tipi giova davvero alla conoscenza della realtà?

 

 

L’utilità del moltiplicare modelli o schemi con cui lo scienziato cerca di approssimarsi gradatamente ad una sempre più compiuta intelligenza del vero non sottostà anche essa, come tante altre azioni umane, alla legge della produttività decrescente? Il fervore nella formulazione dei casi o tipi non fa correre il rischio di smarrire, studiando ad uno ad uno gli alberi, il senso e la visione della foresta? Il timido dubbio non vuole tuttavia essere una critica; è un augurio. è sempre accaduto, nella storia dell’avanzamento di una scienza, che le epoche delle analisi particolari si alternassero a quelle delle sintesi; ed è sempre accaduto che gli studiosi dediti appassionatamente alla ricerca della verità, atti a trarre da una idea, da una ipotesi tutto ciò che essa è capace di rendere, ansiosi di analizzare a fondo un frammento della realtà presente o di una vicenda passata; pronti a perfezionare uno schema, un modello, una formula esistente siano più numerosi di quei pochi i quali dagli studi, dalle ipotesi, dalle analisi particolari altrui traggono la sintesi potente, la quale illumina per qualche decennio il cammino degli studiosi.

 

 

Non lamentiamoci troppo del resto se i Law, i Cantillon, i Galiani, gli Smith, i Ricardo, i Mill, i Ferrara, i Gossen, i Jevons, i Marshall, i Fischer, i Pareto non si incalzino ogni anno sospingendosi gli uni gli altri e togliendo il respiro ai più umili eppur necessari lavoratori bisognosi di trovare un punto di appoggio, per il momento sicuro, nelle loro indagini particolari.

 

 

Se, dopo Pareto, un nuovo punto di appoggio non è ancora trovato, la colpa, felice colpa, è dovuta a ciò che il maggiore innovatore, ho nominato il Keynes, fu sovratutto un iconoclasta. Troppo cercò il nuovo; troppo irrise agli errori dei grandi che non avevano errato se non nel vedere un momento della realtà diverso da quello da lui visto; ed è incerto quale dei momenti fosse davvero il più rilevante; ed è assai dubbio se gli eretici da lui esaltati meritassero di prendere il posto dei classici, il cui contributo era stato consacrato dal tempo.

 

 

Quando la sintesi nuova verrà, e verrà sicuramente, essa non distruggerà nulla di ciò che in due secoli di gloriosi progressi è stato costruito. Un grande indagatore delle cause per cui le società umane crescono, si fortificano, grandeggiano e decadono, Federico Le Play – il quale ebbe il solo torto di irridere alla scienza economica, che, al pari dei più che ne parlano male o ne parlano troppo, non aveva mai curato di conoscere – scrisse un giorno una verità solenne: che nelle scienze sociali tutto è stato detto. Il creatore della nuova sintesi, che tutti attendiamo, sarà colui il quale, nulla dimenticando di quel che fu detto ed è ancor vivo nella lenta faticosa elaborazione bisecolare della nostra scienza, offrirà agli studiosi un modello sintetico meglio atto di quelli passati ad interpretare questa nostra realtà economica contemporanea, tanto più varia, tanto più ricca, tanto più complessa della realtà di ieri; ed anche tanto più soggetta a mutazioni, che noi chiamiamo crisi e che gli storici soltanto potranno dire se abbiano condotto l’umanità verso la distruzione o verso mete più alte.

 

 

Auguro all’università italiana che, rinnovando la gloria del decennio 1890-1900, faccia già parte della nostra confraternita studiosa o stia per entrarvi colui il quale darà al mondo la nuova sintesi della nostra scienza.

 


[1] Il 31 ottobre 1949 il prof. Luigi Einaudi usciva, per compiuti limiti di età, dall’insegnamento, tenuto per cinquant’anni negli istituti tecnici di Cuneo e di Torino e, contemporaneamente, prima come libero docente e poi dall’1 novembre 1902 come professore di ruolo, nella università di Torino. Il rettore Mario Allara ed il Senato accademico vollero consentire che egli porgesse l’ultimo saluto a colleghi ed a studenti a mezzo del discorso inaugurale dell’anno accademico 1949-50.

[2] Tradotto nello stesso anno in inglese col titolo Economie science and economists at the presati day; in francese col titolo Science économique et économistes d’aujourd’hui. [Ndr.].

Concetto e limiti della uguaglianza nei punti di partenza

Concetto e limiti della uguaglianza nei punti di partenza[1]

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 169-246

 

 

 

 

90. Il dominus del mercato: la domanda effettiva dei beni diretti.

 

La teoria economica la quale sta a fondamento della esigenza dell’uguaglianza nel punto di partenza tra gli uomini viventi nel medesimo tempo e nel medesimo paese è nota. Nessun metodo di suffragio sta a pari di quello che automaticamente, spontaneamente si stabilisce sul mercato. Invano si è tentato, con elaborati metodi di suffragio proporzionale, di attribuire al singolo cittadino quel giusto proporzionato peso che nella decisione degli affari pubblici gli spetta nella sua qualità di uomo. Le differenze di età, di sesso, di attitudini ad interpretare e far propri i programmi dei candidati, l’intervallo fra una elezione e l’altra, i resti di voti perduti o non utilizzabili vietano che i governanti siano, se non con assai larga approssimazione, la espressione genuina della volontà quotidianamente mutabile dei governati. Nelle faccende economiche, invece, è certo che la volontà di ogni uomo, di ogni donna, dei giovani e dei vecchi, dei sani e dei malati, dei savi e dei pazzi, dei geni e dei mediocri, dei bambini medesimi inetti a parlare si fa sentire ad ogni ora, istantaneamente, ed è ubbidita. Gli uomini dispongono, per ottenere che il governo economico del paese sia quello che essi vogliono e sia condotto nella maniera e per i fini da essi desiderati, di un’arma assai più potente ed efficace della scheda elettorale; ed è la domanda effettiva, appoggiata cioè da un numero più o meno alto di unità monetarie, ad es., di lire, da essi recate sul mercato. Il re del mondo economico, in un libero mercato, è il consumatore ed egli ha, ministro ubbidiente, esecutore fedele dei suoi ordini, il prezzo. Il consumatore che, in veste di uomo bisognoso di un abito o di un libro, di una cura medica o di un divertimento, o di massaia affaccendata a far le spese di casa, si reca in una bottega, in un ufficio a contrattare ed acquistare merci o servigi, quegli, con la sua domanda, consiglia e decide gli imprenditori – agricoltori, industriali, artigiani, professionisti, commercianti, a produrre il tale o tal altro bene, nella quantità desiderata dai consumatori. L’imprenditore, il quale non interpreta bene i desideri presenti dei consumatori o non riesce ad intuirne i desideri futuri, e produce la merce od i servigi non richiesti dai consumatori o richiesti in una quantità minore di quella per errore prodotta ed offerta, perde ed alla lunga deve abbandonare la partita. Le perdite e i fallimenti sono uno strumento per eliminare dal governo economico i ministri incapaci od infedeli ben più efficace dei plebisciti e delle votazioni parlamentari. La loro forza è silenziosa, ma inesorabile. La domanda stabilisce non solo quel che si deve, ma anche il quanto si deve produrre, in modo perfettamente corrispondente alla scelta liberamente compiuta dai consumatori. Ognuno di questi, ad ogni momento, distribuisce la qualunque ricchezza da lui posseduta in modo da destinarla all’acquisto dei beni da lui reputati più urgenti. Né egli destina una qualunque anche minima parte della ricchezza sua, del qualunque numero di lire disponibile per lui in quel momento, ad acquistare una data dose di un bene che per lui, a suo esclusivo giudizio, abbia un indice di importanza onore dell’indice di importanza di una dose di un altro bene pur da lui desiderato; ma si regola in modo che, al margine, le ultime dosi dei singoli beni e servigi da lui acquistati abbiano un uguale indice di importanza. Poiché egli, con la sua domanda effettiva, così comanda, gli imprenditori – produttori debbono ubbidire e di fatto ubbidiscono e producono i beni ed i servigi nella quantità e nella qualità desiderata dai consumatori. Né v’ha comando che non sia ubbidito e comando che sia trascurato, quando esso sia espresso a mezzo di una bastevole somma di denaro; ché l’interesse di guadagnare e il timore di fallire obbligano gli imprenditori a cercare ansiosamente non solo di comprendere ma di prevedere i desideri, efficacemente manifestati, dei consumatori. Né, nell’ubbidire, l’imprenditore può rivalersi sfruttando il consumatore colla pretesa di un prezzo esoso. Ché, di nuovo, il meccanismo automatico del mercato costringe l’imprenditore a spingere la produzione sino al punto nel quale l’ultima unità di bene prodotto costi a lui quanto è il prezzo che sul mercato i consumatori sono disposti a pagare per ottenerla. Ben può darsi che a lui convenga produrre solo un milione di unità del bene allo scopo di ottenere un lucro massimo; ma se, data una quantità offerta di un milione di unità il prezzo al quale tutta la quantità offerta viene altresì domandata è dieci, ed il produttore, dopo aver soddisfatto a tutte le spese, compreso l’interesse corrente sul capitale investito ed il compenso ordinario per l’opera sua di direzione e di organizzazione, a quel prezzo ottiene ancora un profitto di due, altri, se non lui, ha interesse ad aumentare la produzione ed a crescerla, a cagion d’esempio, a un milione e duecentomila unità, sino a quel punto cioè nel quale la somma dei costi, ad esempio nove, sia precisamente uguale al prezzo nove che i consumatori, data la quantità di numerario da essi posseduta, sono disposti a pagare per acquistare tutte le unità offerte. A quel prezzo nove, si stabilisce un equilibrio fra quantità domandata ed offerta ed il prezzo nove, uguale al costo marginale, diventa prezzo effettivo o prezzo di mercato.

 

 

91. La domanda effettiva dei beni diretti determina l’utilizzazione, la manutenzione, la rinnovazione e l’incremento dei beni strumentali.

 

Il consumatore non è soltanto il re del mondo economico perché con la sua domanda effettiva ordina quel che si deve e quanto si deve produrre e comanda agli imprenditori produttori di consegnargli la merce prodotta ad un prezzo uguale al costo sostenuto; ma è re, perché attraverso il mercato egli fissa i prezzi, oltreché dei beni direttamente da lui desiderati e consumati, anche dei beni «strumentali», i quali servono cioè alla produzione dei beni diretti; oltreché del pane, i prezzi delle farine e del frumento e dei forni e degli aratri e dei concimi e delle sementi e delle terre necessarie a produrre il pane; oltreché delle case, dei mattoni e della calce e della sabbia e del ferro e del legname lavorato a porte e finestre e pavimenti e delle foreste e delle miniere da cui si traggono i tronchi ed i minerali necessari a produrre travi e ferro; e così di tutti gli altri innumerevoli beni strumentali necessari a produrre i beni desiderati ed acquistati dagli uomini. Il prezzo del pane pronto per essere consumato a sua volta invero determina i prezzi di tutti i fattori che sono entrati nella sua produzione, che in quel prezzo trovano la loro somma e nulla più e nulla meno. Il che vuol dire che, con la sua domanda, il consumatore determina quella che è la remunerazione spettante ai fornai che hanno impastato la farina e cotto il pane, agli agricoltori che hanno lavorato i campi, ai meccanici i quali hanno foggiato l’aratro, ai fonditori che hanno fuso l’acciaio, ai minatori, i quali hanno scavato il minerale di ferro, da cui l’acciaio, l’aratro e quindi il grano, la farina e il pane sono stati, per infinitesima particella, ricavati. La domanda di pane, insieme a quella della bevanda e del vestito e delle scarpe e della casa e dei divertimenti e dei viaggi e dei libri, fatta dai consumatori, ciascuna in quella data quantità e per quelle date qualità corrispondenti alla quantità di numerario disponibile in lor mano, determina l’indirizzo comparativo che gli imprenditori debbono dare, pena il fallimento, alla produzione. Essa stabilisce quali beni capitali esistenti – terre aratorie o prative od a colture arboreo – forestali, case, stabilimenti industriali, ferrovie, porti, canali ecc. – debbono essere mantenuti e rinnovati perché esista una offerta attiva, uguale alla domanda, dei beni diretti, prodotti col loro ministero, atta a compensare il costo della loro conservazione e quali debbono essere trascurati e lasciati a poco a poco decadere perché non giovano a produrre beni domandati a prezzi atti a remunerare la produzione. Essa induce gli imprenditori ad aumentare la quantità dei beni strumentali, ossia ad impiantare nuovi stabilimenti, a migliorare le terre destinate a talune colture, a scavar nuove miniere, a costruir ferrovie, porti, lanciare linee di navigazione ogni qualvolta l’imprenditore veda o speri di godere di un margine di profitto fra il prezzo di vendita ed il costo di produzione; margine dovuto a chi sa interpretare i desideri presenti e sovratutto quelli futuri dei consumatori, i desideri di beni noti e sovratutto di beni ancora ignoti, ma capaci di fare appello alla fantasia e al gusto della gente fornita dei mezzi d’acquisto a ciò opportuni. Il profitto, che talvolta si ottiene dagli imprenditori più abili nell’indovinare i gusti latenti di consumatori potenziali od i gusti nuovi di consumatori eccitati all’acquisto dalla novità dell’offerta, tuttavia sfugge continuamente; ché, dopo il primo inventore, subito altri dieci, altri cento, altri mille imprenditori si lanciano sul nuovo bene e lo riproducono e lo moltiplicano e ne fanno discendere il prezzo al limite uguale al costo marginale di produzione. Il profitto non è, esso, il re del mercato, è un segugio dall’odorato finissimo, sempre lanciato alla caccia della selvaggina nuova atta a soddisfare i gusti ed a sollecitare l’appetito del consumatore sovrano.

 

 

92. Robinson Crusoè e la eguaglianza fra quantità domandata e quantità prodotta dei beni economici.

 

Chi è, a guardar bene, il re del mondo economico? Robinson Crusoè, nell’isola deserta, ordinava metodi e fini della produzione così come fa il consumatore moderno. Ma poiché egli era solo, ordinava a se stesso. Non sprecava tempo e lavoro, che erano per lui il numerario, il denaro, il mezzo con cui egli faceva domanda di beni, a soddisfare desideri ultimi nella scala da lui fissata in mente per se stesso, ma li dedicava a produrre direttamente i beni che egli giudicava più urgenti; e via via soddisfatti questi, dedicava il tempo e il lavoro residui a procacciare a sé soddisfazioni di grado meno intenso. Era chiaro ai suoi occhi che egli poteva far domanda solo dei beni da lui prodotti ed entro i limiti di quantità e di qualità, assoluti e proporzionali, dei beni prodotti. Quantità prodotta e quantità domandata erano per lui quantità uguali. Non poteva egli crescere la quantità domandata di un bene se prima non aveva cresciuto la quantità prodotta; e gli conveniva crescerla solo, se dopo averla paragonata con la quantità di ogni altro bene che egli avrebbe potuto produrre con il tempo e la fatica per lui ancora disponibili, giudicava che quel bene gli dava, in confronto con gli altri, una soddisfazione da lui giudicata maggiore.

 

 

93. La uguaglianza in regime di divisione di lavoro.

 

Così accade anche oggi, attraverso ad un nitrico grandissimo di rapporti fra uomo ed uomo, intrico diventato ogni giorno più fitto e complicato dal momento in cui gli uomini si accorsero che, continuando nel metodo dei Robinson Crusoè, ossia producendo, come s’usava, ciascuno in casa tutto quello che alla famiglia abbisognava, poco e male si produceva; e via via si estese il principio della divisione del lavoro, in virtù del quale il contadino semina il campo e miete e trebbia il frumento, il mugnaio lo macina ed il fornaio lo impasta e riduce a forma di pane; ed in realtà molti più uomini diversamente provvedono, ognuno per una piccolissima parte, a produrre i pani fragranti i quali allietano, od allietavano in tempi più miti, le nostre tavole. Ma il filo conduttore rimane quello antico: non Robinson Crusoè produttore impone a Robinson Crusoè di consumare pane, perché egli ha voluto coltivare quel campo a frumento; ma Robinson Crusoè consumatore ha deciso, a un certo momento della sua vita solitaria, che valeva la pena di rinunciare a consumar subito quella manciata di frumento salvata dal naufragio della nave per assicurarsi in anni futuri una provvista regolare di farina e di pane. Se egli si fosse contentato di latte, non avrebbe perso tempo alla fatica agricola; ma si sarebbe dedicato tutto alla pastorizia. Fu l’indole della sua domanda, varia per diversità di beni e delle loro qualità, che lo indusse a dedicare tempo e lavoro e cioè a produrre quei certi beni in quella data quantità. Ancor oggi il consumo determina la produzione; e ancora la offerta non è se non un aspetto della domanda. Il consumatore fa quella certa domanda ed ordina quella certa produzione, perché e in quanto è egli medesimo produttore. Il fornaio non potrebbe far domanda dei beni e servigi svariatissimi destinati a soddisfare i vari suoi desideri se non in quanto egli abbia prodotto una quantità equivalente di pane che egli prevede sarà da altri domandata. La somma dei prezzi dei beni e servizi prodotti e venduti da ogni produttore è il suo reddito; è il mezzo col quale egli interviene sul mercato a far domanda di beni e servigi, presenti e futuri, che sono il reddito di altri, per un valore uguale all’ammontare del suo reddito.

 

 

94. Condizioni dell’uguaglianza fra quantità domandata e quantità offerta di beni e servigi esistenti innanzi al 1914: universalità del sistema aureo, rispetto dei contratti, eliminazione dello spazio e del tempo, contratti a termine, città di mercato mondiale.

 

Che in ogni momento, la domanda di beni e servigi recata da ogni capo-famiglia o consumatore attivo sui mercato mercé l’offerta del suo reddito (somma dei prezzi dei beni e dei servigi da lui prodotti al netto dei costi) trovi la esatta contropartita nella offerta di beni e servigi portata sui mercato dai produttori, è la meraviglia delle meraviglie, è il giocattolo miracoloso che per poco gli uomini impazziti non distrussero dopo il 1914. Erasi, in quell’agosto 1914, che agli storici avvenire parrà la fine del secolo d’oro dell’economia mondiale, creato, al disopra e al di là dei confini legali fra stato e stato, delle dogane, delle distanze, delle lingue, dei costumi, un meccanismo complicatissimo fondato:

 

 

  • sulla unità sostanziale dei sistemi monetari, basati tutti, od almeno i principali di essi, sulla moneta d’oro o su monete permutabili a vista e senza alcuna inchiesta in un peso noto d’oro fino;
  • sui rispetto dei contratti, in virtù del quale le obbligazioni contratte in un dato paese dovevano essere adempiute in quello e in tutti gli altri paesi del mondo, sotto la sanzione sicura della perdita immediata del credito dell’inadempiente;
  • sulla nazione dello spazio e del tempo, sicché il compratore era certo di poter disporre a distanza di mesi e di migliaia di miglia della merce convenuta in una data precisa quantità e qualità;
  • sulla possibilità della cancellazione dei contratti stipulati, grazie alla stipulazione di uno o di parecchi contratti in senso inverso aventi la medesima scadenza e per l’importo della medesima quantità e qualità della merce prima acquistata; cosicché ad ognuno era dato di potere, osservando il contratto antico, uscire dal mercato nel quale si era entrati o rientrarvi quando se ne fosse usciti;
  • sulla costituzione di «piazze» o grandi mercati, come Chicago e Budapest per i cereali, Londra e Le Havre per le lane, Londra per i metalli, S. Paolo, Genova e Trieste per il caffè, Milano e Lione per le sete, i Lloyd, di Londra per i noli marittimi ecc. ecc. nei quali ad ogni momento si potevano acquistare e vendere per contanti ed a termine qualsiasi quantità di merci o di servigi tipici, sulla cui qualità non insorgeva dubbio alcuno; sicché i prezzi che ivi si formavano ed erano immediatamente dal telefono e dal telegrafo fatti noti in tutte le altre piazze del mondo, provocavano subito la stipulazione di altri contratti da parte di chi coll’arbitraggio industriavasi a profittare delle differenze di prezzo anche di minuti centesimi; e così i prezzi si uguagliavano, con la rapidità del lampo, in tutti i paesi del mondo, e questo era di fatto divenuto un mercato solo.

 

 

Il meccanismo meraviglioso funzionava senza che ad esso presiedesse alcuna mente ordinatrice; l’orologio segnava il passar del tempo con precisione cronometrica senza che nessuno mai l’avesse caricato. L’ordine perfetto nasceva dalla mancanza di chi regolasse la marcia dei complicatissimi ordigni, gli uni negli altri incastrati e tutti gli uni dagli altri interdipendenti, dello stupendo meccanismo. Il re consumatore, anzi centinaia di milioni di re consumatori, nessuno sapendo e nessuno occupandosi degli altri, col solo recarsi sul mercato, il quale tendeva, oltre le infinite varietà dei suoi aspetti tecnici e dei suoi luoghi, a diventare un solo mercato unificato nel mondo intiero, ordinava quante e quali cose dovessero essere prodotte, faceva ad esse travalicare oceani e continenti e superare il trascorrere inesorabile del tempo, indirizzava i risparmi e li trasformava in capitali investiti nelle maniere più opportune, affinché in quell’ora di quel giorno ed in quel luogo sul desco di una famiglia europea comparissero cibi confezionati con carni in conserva provenienti dall’Argentina, vini italiani o spagnuoli, frutta fresche africane, zucchero delle Antille, caffè del Brasile e questi fossero serviti a uomini vestiti con panni e lini tessuti con lane australiane e con cotoni nordamericani.

 

 

Tutto ciò era meraviglioso eppure sembrava ovvio, ché tutti si erano abituati all’idea che le diversità e le variazioni dei prezzi e le differenze fra i prezzi delle materie prime e dei beni finiti pronti al consumo regolassero le azioni degli uomini e li spingessero qua a scavar miniere, là a coltivar terre, altrove a foggiare il ferro od a filare e tessere lane e sete e cotoni; e poi a noleggiar navi ed a spedire merci, attraverso i mari e le terre, dai luoghi di origine sino al luogo preciso dove esse erano attese dai consumatori forniti della quantità del numerario atta a farne acquisto.

 

 

95. Significato del concetto «domanda effettiva».

 

I «desideri» non sono «domanda». Il mercato è un meccanismo perfettamente adatto alla domanda, ma non si occupa dei desideri; è indifferente alla distribuzione del numerario fra i cittadini.

 

 

«Forniti della quantità di numerario atta a fare acquisto delle merci desiderate!» Ecco il grande atto di accusa elevato contro l’economia di mercato. Questa è, sì, un meccanismo meraviglioso atto ad indirizzare la produzione verso i beni ed i servizi «desiderati» dagli uomini ed a fare a questi giungere i beni e servizi medesimi nella precisa quantità e della precisa qualità opportune a soddisfare i loro «bisogni»; ad una condizione tuttavia: che per «desideri» e «bisogni» non si intendano quelli che sono o sarebbero ritenuti tali dagli uomini, ma quelli soltanto, i quali possano trasformarsi in una domanda effettiva, corroborata dal possesso del numerario all’uopo occorrente. Perciò, il povero nullatenente dovrà ricorrere all’elemosina per piatire dal mercato il tozzo di pane ed il ricco epulone, dopo avere saziato il suo appetito verso ogni sorta di desideri più capricciosi, rimarrà con ampia riserva di numerario, alla quale la sua stanca fantasia non saprà più trovare alcun impiego. Lo strumento perfetto «economia di mercato» può servire dunque ai fini più diversi: ad indirizzare e distribuire la produzione in una società nella quale i redditi siano ripartiti nei modi più diversi e contrastanti. Siano i redditi ridotti alla perfetta uguaglianza numerica monetaria; ed i consumatori, re del mercato, faranno, a seconda dei gusti individuali, domanda di beni e servigi alquanto, ma non troppo, diversa l’uno dall’altro, perché il reddito basterà a soddisfare poco più delle esigenze fondamentali della vita. Si produrranno più pane e cibi semplici, vestiti e scarpe ordinarie e minor copia di beni secondari e superiori, comunemente detti di comodo o di lusso. I costumi dovranno essere spartani e l’industria dovrà essere meno varia. Scemeranno gli artigiani-artisti e si ridurrà il numero dei fornitori di raffinati singolari beni e servigi personali. Siano i redditi invece disugualissimi e distribuiti lungo una scala la quale vada dalle poche unità monetarie giornaliere appena bastevoli a sostenere la vita più miserabile alle cifre altissime delle migliaia e centinaia di migliaia di unità monetarie al giorno; ed i consumatori, sempre re, ordineranno al mercato altre produzioni, meno abbondanti quelle grossolane, più varie e fini e capricciose quelle superiori. Il mercato, descritto dagli economisti, si adatta dunque egualmente bene ai più diversi tipi di società e la sua eccellenza lascia insoluto il problema, moralmente e politicamente, sostanziale: quale delle diverse forme di distribuzione dei redditi è la migliore?

 

 

96. Scarsa rilevanza di fatto dei tentativi di una diversa distribuzione del numerario.

 

Probabilmente le idee le quali corrono solitamente tra i più intorno alla possibilità di mutare in maniera notabile la quantità di numerario disponibile per le moltitudini col portar via il supero ai ricchi non sono fondate sulla esperienza dei fatti. In un libro, consacrato a dimostrare l’avvento «fatale» dell’economia collettivistica in luogo della gloriosa, «eppure» tramontante, economia da lui detta «capitalistica»[2], lo Schumpeter calcola che «nel paese più capitalisticamente moderno del mondo», gli Stati Uniti d’America nel 1929, ossia innanzi alla grande crisi, in un tempo di piena prosperità; i percettori di redditi superiori a 50.000 dollari all’anno, i soli che egli consideri veramente sia pure moderatamente ricchi, percepissero 13 sui 93 miliardi di reddito nazionale. Deducendo però dai 13 miliardi le somme spese, per coazione legale o morale, per imposte e sottoscrizioni e doni a fini pubblici e quelle consacrate al risparmio, che è ufficio pubblico al quale in ogni società si deve provvedere ed è nelle «economie di mercato» affidato sovratutto ai redditi alti e medi, la somma disponibile per il consumo dei ricchi si riduce a non più di 4 miliardi e un terzo, circa il 4,6% del reddito nazionale totale. Se poi si tiene conto che solo in parte i percettori di redditi alti sono ricchi «oziosi», laddove molti sono professionisti di grido e capi effettivamente dirigenti delle grandi imprese economiche, rimunerati, in ogni tipo di società, anche collettivistiche, con compensi assai alti, il residuo appartenente ai ricchi «oziosi» e ripartibile a pro delle moltitudini a stento potrebbe essere reputato superiore all’1% e tutt’al più potrebbe essere spinto al 2 percento. Se si voglia ripartir qualcosa di più del quasi zero, bisogna scendere assai più in basso nella scala dei redditi; ed appiattire quasi del tutto la piramide o meglio trottola sociale, al solo intento di abolire o ridurre la sezione della trottola situata al disotto della più larga base, supposta uguale al minimo necessario ad una vita decente.

 

 

Non si è riportato qui il calcolo dello Schumpeter se non perché fu costrutto da un economista e statistico di grande valore e per giunta storico persuaso del fatale tramonto della civiltà dell’economia di mercato. Ben si sa che siffatti calcoli sono grandemente ipotetici, ignorando essi quali mutazioni avverrebbero nella produzione della ricchezza in più ed in meno e quale la risultante finale della variazione in una società nella quale i redditi fossero ripartiti diversamente dal modo odierno. Il calcolo vuole dimostrare soltanto che, fermi rimanendo tutti gli altri dati del problema, una ripartizione ugualitaria del reddito nazionale totale oggi esistente non muterebbe in maniera apprezzabile le sorti delle moltitudini; e, tenuto conto del costo e delle resistenze generate dalla mutazione, probabilmente le peggiorerebbe.

 

 

97. Scarsa variabilità della distribuzione dei redditi nel tempo.

 

Né si vuole opporre alle richieste di elevazione degli umili e di abbassamento dei grandi la replica sconsolata la quale può essere dedotta dalla celebre legge paretiana della distribuzione dei redditi: inutile cercar di mutare la distribuzione dei redditi, ché questa sembra storicamente essere costante. In tempi e luoghi diversi esiste una distribuzione dei redditi che si può dir naturale. Bresciani[3] calcolando quanti individui su cento abbiano un reddito inferiore al reddito medio del paese, trovò che in Inghilterra la percentuale scemò dall’82% nel 1801 all’80% nel 1850-51, risalì all’83% nel 1879-80, ridiscese all’81% nel 1913 e ritornò all’80% nel 1924; ed in Prussia, che è l’altro grande paese per il quale si posseggono dati riducibili ad omogeneità lungo un periodo di tempo ragguardevole, la percentuale variò appena dal 78% nel 1875 al 79% nel 1913. Né mutazioni grandiose di struttura economica, né variazioni notabili di peso dell’attività agricola o commerciale o manifatturiera, né guerre né paci sembrano avere efficacia a mutare la distribuzione dei redditi; sicché Pareto quasi finisce di ritenerla una espressione delle qualità innate di attitudine al procacciamento della ricchezza da parte degli uomini.

 

 

98. L’indifferenza del mercato non dipende dalla mancanza di istituzioni correttive?

 

Non si vuole qui opporre siffatta sconsolata replica, perché se anche fosse vero che la distribuzione della ricchezza segna una norma costante, e precisamente quella accertata dalle indagini del Pareto, del Bresciani e di altri insigni, ciò accade entro società nelle quali facciano difetto istituzioni consapevolmente intese a mutare quella distribuzione; e nel tempo dall’inizio dell’800 a oggi, sebbene la legislazione sociale, le leggi di tutela del lavoro delle donne e dei giovani, la libertà di associazione, la diffusione dell’istruzione e la produzione economica subissero variazioni profonde e tutte favorevoli all’elevazione delle sorti delle classi più numerose, nelle somme linee rimase invariato il quadro di una società economica nella quale non esistevano freni vigorosi al successo delle qualità umane favorevoli al procacciamento della ricchezza. Rimane perciò vivo l’atto di accusa rivolto contro il formalismo dei pregi attribuiti al meccanismo del mercato. Quel meccanismo lavora con perfezione mirabile; ma dà la risposta congrua alle domande che arrivano sino ad esso, da quelle di plutocrati miliardari alle infime di mendicanti straccioni. Il meccanismo è un impassibile strumento economico, il quale ignora la giustizia, la morale, la carità, tutti i valori umani.

 

 

99. La esigenza della uguaglianza nei punti di partenza.

 

Si ignori la esigenza di coloro i quali, partendo dalla premessa della uguaglianza degli uomini, vorrebbero che ognuno potesse, in ogni momento della vita, fare una domanda di beni e di servizi uguale a quella di ogni altro uomo. La esigenza contraddice apertamente ad altre esigenze, pur morali, le quali vogliono che ad ognuno sia diversamente dato secondo i suoi meriti ed a constatazioni empiriche universali le quali provano la impossibilità della persistenza di società inspirate al concetto della uguaglianza assoluta o della proporzionalità ai bisogni. Proporzionalità che, dovendo essere osservata secondo le regole oggettive proprie dei comandi legislativi, non potrebbe non ridursi alla uguaglianza, sia pure temperata dalla considerazione di circostanze esterne, accertabili imparzialmente, come l’età, il sesso, la salute, il mestiere e simiglianti. Un consenso abbastanza largo sembra, nel contrasto fra le opposte esigenze della proporzionalità ai bisogni od ai meriti, essersi affermato intorno ad un altro principio: quello della uguaglianza nei punti di partenza.

 

 

Qual colpa ha un bambino di essere nato da genitori miserabili e per giunta viziosi, alcoolizzati ed ignavi e di essere perciò costretto a morte precoce ed in caso di sopravvivenza, a vita dura, in stanze sovraffollate, in ambiente privo di ogni luce spirituale e morale, predestinato alla miseria, alla delinquenza o alla prostituzione? Qual merito ha un altro bambino, se, nato frammezzo ad agi, ha avuto salva la vita anche se di costituzione debole, l’ha potuta fortificare con gli esercizi fisici, nell’aria pura dei monti o del mare, ha avuto larghe possibilità di coltivar la mente, di frequentar scuole ed ottenere titoli, che gli hanno aperto la via ad una fruttuosa carriera, del resto facilitata dalle molte relazioni di parentela, di amicizia e di affari dei genitori? Il povero resta dunque povero e il ricco acquista ricchezza non per merito proprio, ma per ragion di nascita; ed ai posti di comando, nelle imprese economiche, nel governo degli stati, nell’amministrazione pubblica, nelle lettere, nelle scienze, nelle arti, nell’esercito giungono non i più meritevoli, ma quelli che meglio furono favoriti dalla sorte dalla nascita. Quante invenzioni utili, quante scoperte scientifiche, quanti capolavori di scultura, di pittura, di poesia, di musica non poterono mai giungere a perfezione, perché l’uomo, il quale vi avrebbe potuto dar nascimento, dovette sino dai primi anni addirsi a duro brutale lavoro, che gli vietò di far germogliare e fruttificare le qualità sortite da natura? La produzione medesima economica non sarebbe forse grandemente diversa da quella che è e maggiore se tutti gli uomini potessero ugualmente dar prova delle proprie attitudini di lavoro, di invenzione, di iniziativa e di organizzazione? La produzione è quella che è, partendo dalla premessa che solo una minoranza degli eletti può giungere sino ai posti di comando; ma sarebbe ben diversa se la selezione degli eletti potesse farsi tra l’universale degli uomini.

 

 

100. Cautele necessarie nella valutazione degli effetti della disuguaglianza nei punti di partenza.

 

V’ha una grande virtù nella esigenza morale della uguaglianza nei punti di partenza. Ma gioverebbe assai se i suoi banditori non la esponessero spesso unicamente in termini che sanno troppo di esagerazione retorica per essere atti a cogliere la realtà vera. Il contrasto fra lo sciocco «figlio di papà», il quale occupa i posti più remunerativi ed il «genio misconosciuto» il quale trascina una vita miserabile in lavori oscuri perché ebbe la disavventura di nascere da genitori poveri impressiona nella bocca del tribuno o nelle pagine del romanziere celebre; ma quale statistico ha potuto mai misurare la frequenza del fatto? La vita dura non è forse la cote alla quale sono provati i caratteri saldi e tenaci; e non furono durante il secolo 19esimo ed ancora oggi nel secolo 20esimo numerosi i casi di coloro per i quali si addimostrò vero il monito del volere è potere? Vi è qualche indizio, il quale consenta di dare una misura anche approssimativa dei geni o semplicemente degli uomini meritevoli di un comando più o meno elevato i quali, per colpa della miseria, non siano giunti al luogo al quale l’indole del loro ingegno li faceva adatti? Le agevolezze moltiplicatesi nell’ultimo secolo di educazione e di istruzione gratuita, di borse di studio non hanno grandemente ridotto gli impedimenti a salire, i quali, del resto, nelle epoche storiche di artigianato, di bottega e di piccole imprese economiche apparivano ben minori di quanto parvero diventare nell’epoca moderna delle grandi imprese, delle grandi banche e dei consorzi industriali e commerciali? Esistono studi intorno alla frequenza maggiore o minore di self-made men, di uomini venuti su dal nulla e giunti a posti di comando? Se si dovesse giudicare da prime impressioni, si dovrebbe concludere che gli homines novi siano in tutti i paesi e in tutti i rami della vita politica, religiosa, intellettuale, artistica ed economica la maggioranza degli arrivati. Se si dovesse giudicare dalla esperienza, corroborata dalla sapienza dei proverbi, si dovrebbe giudicare che il privilegio della nascita ha ben scarsa persistenza attraverso le generazioni; ché il proverbio afferma che la sostanza messa insieme dal padre è per lo più conservata dal figlio e fatta svaporare dal nipote. Chi, se non un curioso erudito Baudi di Vesme, ha mai fatto indagini intorno ai discendenti di famiglie nobili i quali, dal medioevo in qua di secolo in secolo, sono ritornati al popolo e si sono confusi di nuovo tra contadini, fabbri, scrivani, popolo minuto, perdendo a poco a poco persino la ricordanza degli illustri antenati dai quali sono discesi?

 

 

101. Paragone con le condizioni di «lealtà» poste nelle gare di corse.

 

Sebbene non se ne possegga alcuna esatta misura, fa d’uopo affermare tuttavia che se la disuguaglianza dei punti di partenza potesse essere eliminata sarebbe notabilmente variata la produzione dei beni e dei servizi a causa delle agevolezze concesse a tutti gli uomini di far valere nel modo migliore le proprie attitudini. Come una gara di corse non è considerata leale se tutti i concorrenti non balzano in avanti nel medesimo momento e se qualche concorrente è impedito da qualche particolare inconveniente dal far valere le sue qualità; così la gara della vita tra gli uomini non appare leale se a tutti non sia concessa la medesima opportunità di partenza per quel che riguarda l’allevamento, la educazione, la istruzione e la scelta del lavoro. Se poi, durante la vita, l’uno riesce e l’altro soccombe, l’uno giunge a posti elevati di comando e l’altro ubbidisce in posizioni subordinate, l’uno accumula ricchezze e l’altro non riesce a formarsi un patrimonio o consuma tutti i suoi guadagni, qui il merito o la colpa è dei singoli, che sono diversi l’uno dall’altro ed hanno ottenuto quel che singolarmente hanno meritato.

 

 

102. L’esigenza della uguaglianza non vuol dire taglio netto fra le successive generazioni; ed imponendo un minimo di agevolezze nei punti di partenza, non vieta lo sforzo dei genitori per elevare i figli al disopra del minimo.

 

L’esigenza dell’uguaglianza nel punto di partenza vuol dire dunque che vi possono essere ricchi, mediocri e poveri, forti e deboli, arrivati e rimasti in coda, potenti che comandano ed umili che ubbidiscono durante la vita sino al momento della morte; ma tutti debbono partire ugualmente nudi od ugualmente provveduti nel giorno nel quale si inizia per l’uomo la vita produttiva ed indipendente? Evidentemente no. L’esigenza postulata non significa vi debba essere un taglio netto fra una generazione e l’altra, sicché, ove la vita produttiva indipendente si supponga iniziata ai 20 anni, la disuguaglianza possa nascere e perdurare solo fra i 20 ed i 70 anni, supponendo quest’ultima sia l’età terminale della vita umana. L’idea della perpetuazione della specie, della continuità della famiglia non avrebbe senso se i genitori tra i 20 ed i 70 anni non potessero provvedere diversamente con i loro mezzi diversi di guadagno personale e con le proprie relazioni di parentela, di amicizia, di colleganza e di posizione sociale ad allevare, educare, istruire ed agevolare nella vita i figli tra la nascita ed i 20 anni. Essa vuol dire soltanto che se i genitori non riescono per incapacità od ignoranza o mancanza di mezzi a dare ai loro figli un minimo di sanità fisica, di istruzione e di educazione atto a consentire ad essi di partecipare alla gara della vita senza troppo grave soma iniziale, qualcun altro debba provvedere a dare quel minimo che sia indispensabile affinché essi non siano costretti ad accettare subito quelle qualsivoglia più basse occasioni di lavoro che ad essi si presentano e possano attendere fino al limite dei 20 anni od a quell’altro che l’opinione prevalente nella società giudichi più adatto, a fare la scelta di lavoro da essi considerata meglio conforme alle loro attitudini. L’esigenza postulata non vieterebbe dunque ai genitori, posti più in alto nella scala sociale, di dare ai propri figli una educazione ed una preparazione migliore di quella minima garantita a tutti dall’ente pubblico. Non vieterebbe neppure ai genitori, preoccupati di morire innanzi tempo o di perdere le proprie attitudini a procacciarsi col lavoro un reddito bastevole, di assicurare in qualche maniera, anche in loro mancanza, ai figli quella formazione morale ed intellettuale che essi giudicassero opportuna per il loro avvenire. Esisterebbe dunque una qualche disuguaglianza nei punti di partenza fra i giovani i quali a 20 anni hanno potuto fruire delle agevolezze di vita, di studio, di educazione e di relazioni apprestate, direttamente o con provvidenze assicurative, dai genitori elevatisi con i loro sforzi di lavoro e coloro i quali hanno potuto utilizzare solo le minime agevolezze offerte dall’ente pubblico. Persisterebbe ancora una certa disuguaglianza: i genitori potrebbero, elevandosi e risparmiando, usare dei propri mezzi esclusivamente per dare ai propri figli educazione, istruzione e lancio nella vita. Non sarebbe esclusa la trasmissione di una casa fornita di qualche adiacenza di giardino od orto, di mobilio, di biancheria, di libri, di oggetti d’arte o di ornamento limitatamente all’uso personale della famiglia. Sarebbe, in questo tipo di disuguaglianza, esclusa la trasmissione ereditaria di sostanze produttive di reddito pecuniario, atte a consentire ai figli di condurre una vita indipendente in tutto od in parte dall’obbligo di lavorare.

 

 

103. Non è accetta universalmente a tutti la condizione che a tal fine sia vietata la proprietà privata dei mezzi di produzione.

 

Anche così interpretata, con una certa larghezza, la norma dell’uguaglianza dei punti di partenza suppone però una società collettivistica, nella quale il possesso ed il governo dei mezzi di produzione, dalla terra alle sue migliorie, dagli impianti industriali alle macchine ed agli utensili, dalle ferrovie ai porti, dai magazzini commerciali alle case d’affitto, dalle miniere agli acquedotti, dalle centrali idroelettriche alle reti di distribuzione, dagli acquedotti ai gasometri spetti allo stato o ad altro ente pubblico; e nella quale all’ente regolatore pubblico spetti la determinazione di quel che deve essere prodotto per soddisfare alle esigenze dei consumi quotidiani e di quel che deve essere parimenti prodotto per conservare l’attrezzatura industriale, agricola e commerciale (cosidetta quota di manutenzione e di sostituzione) e per darvi incremento progressivo (risparmio). Qui si enuncia la condizione alla quale è subordinata la persistenza del tipo sopra definito di limitazione della disuguaglianza, solo per constatare che quel tipo non può essere accettato da tutti coloro i quali ripugnano a vivere in una società collettivistica, perché diventare funzionari di un unico datore di lavoro appare ai loro occhi troppo grande sciagura morale.

 

 

104. Escluso il collettivismo pieno, l’uguaglianza nei punti di partenza sembra richiedere un’imposta ereditaria nel tempo stesso uguagliatrice e stimolatrice.

 

Se la condizione non può da costoro essere accettata, può la norma della uguaglianza dei punti di partenza essere fatta altrimenti osservare? Se noi non vogliamo una società collettivistica, se noi ammettiamo che debba continuare ad esistere, accanto alla sfera pubblica, una sfera privata della vita economica, l’uguaglianza nei punti di partenza dovrebbe essere compatibile con due condizioni, le quali dovrebbero ambedue coesistere. Dovrebbe cioè in primo luogo l’imposta ereditaria falcidiare, alla morte di ogni uomo, tutta l’eccedenza della sostanza che egli in vita ha saputo cumulare al di là di quanto basti a garantire la vita del coniuge superstite, la educazione e la istruzione dei figli sino alla maggiore età economica, la sussistenza dei figli inetti, per deficienze fisiche o mentali, a procacciarsi il sostentamento, il possesso della casa, provveduta di adiacenze, di mobilio, di libri ed oggetti vari, reputata bastevole alla famiglia sopravvivente; sicché la sostanza riservata sia tenuta entro limiti atti ad impedire disuguaglianze apprezzabili nei punti di partenza. In secondo luogo, la imposta falcidiatrice ed uguagliatrice dovrebbe lasciare sussistere lo stimolo necessario affinché l’uomo durante la sua vita produttiva, suppongasi dai 20 ai 70 anni, lavori quant’è necessario affinché siano conservati in buon essere i mezzi di produzione (terre migliorate, case d’affitto, impianti industriali, scorte vive e morte dell’agricoltura, e scorte di materie prime, di semi-lavorati e di prodotti finiti), necessari al regolare funzionamento della vita economica nella sfera non pubblica (quota di manutenzione e di sostituzione), ed affinché gli esistenti mezzi di produzione siano incrementati così come richieggono le invenzioni di nuove macchine, di nuovi processi e di nuovi beni e l’esigenza di un continuo miglioramento nel tenor di vita degli uomini (risparmio).

 

 

105. Incompatibilità fra i due connotati. I beni strumentali sono una continua creazione.

 

Basta porre le due condizioni per vedere come esse siano incompatibili tra di loro. Il capitale esistente non è, come immaginano taluni ingenui, una quantità data della quale si possa disporre a piacimento di un qualunque riformatore. Coloro i quali parlano di trapasso della proprietà dei mezzi di produzione dai cosidetti capitalisti agli operai ed ai contadini, compresi i tecnici e gli impiegati, e nel tempo stesso non vogliono il collettivismo (comunismo o socialismo, che sono sinonimi) non sanno quel che si dicono, non avendo essi riflettuto al contenuto necessario delle parole pronunciate. Il capitale è una creazione continua e faticosa dell’uomo. La casa abbandonata a se, in breve volger d’anni è soggetta alle infiltrazioni delle piogge, alle rotture dei tubi d’acqua, alla degradazione degli infissi e dei pavimenti e diventa inabitabile. La terra non curata e non restaurata si degrada; la sua fertilità scema e la produttività si riduce. Bastano pochi anni, durante i quali l’agricoltore pensi soltanto a «cogliere i frutti» della vigna, del frutteto, del prato e del campo perché la vigna sia invasa dalla gramigna e le viti uccise dalle crittogame, perché gli olivi periscano vittime dei nemici pullulanti nel mondo vegetale ed animale ed inselvatichiscano e campi e prati producano erbacce invece di frumento e di erbe nutrienti. Gli impianti industriali hanno forse una vita la quale vada in media oltre il decennio? Non rinnovata e non sostituita da macchine più perfezionate, la macchina esistente diventa in breve volger d’anni ferraccio. Il capitale esistente è men che nulla se non è conservato e rinnovato ed accresciuto. Accresciuto, si aggiunge, perché noi non possiamo immaginare una società stazionaria, composta di uomini i cui gusti, per quantità e qualità di beni, non mutino col tempo; i cui bisogni, astrazion fatta dall’incremento determinato da un aumento della popolazione, che potrebbe anche venir meno, non aumentino col tempo e cioè non diventino più vari e raffinati. Le quali verità sono così evidenti che non varrebbe la pena di neppure enunciarle, se spesso non ci si dimenticasse della illazione la quale logicamente segue alla esigenza della conservazione e dell’incremento del capitale. Importa che qualcuno provveda al compito ora affermato necessario; e due sole sono le maniere sin qui inventate. O vi provvede la collettività o vi provvedono i singoli uomini.

 

 

106. I piani delle società collettivistiche sono imposti dalla necessità di consacrare il lavoro di una parte degli uomini alla conservazione ed all’incremento dei beni strumentali.

 

In una società collettivistica provvede all’uopo l’autorità pubblica, e cioè lo stato e gli enti delegati dallo stato. I cosidetti piani quinquennali russi non hanno altro significato. Essi vogliono dire che, durante un dato periodo di tempo, suppongasi un quinquennio, il lavoro degli uomini viventi è diviso in due parti. Alcuni lavoreranno a produrre beni diretti, ossia alimenti, vestiti, scarpe, bevande, combustibili per riscaldamento e per cucina, mezzi di illuminazione e servizi pure diretti di insegnamento, di stampa e diffusione di libri e di giornali, di conservazione della salute fisica, della sicurezza sociale, della difesa nazionale, della giustizia ed in genere tutti i beni ed i servizi che sono consumati dagli uomini di giorno in giorno, beni e servizi i quali costituiscono il reddito consumato, goduto dagli uomini. Costoro, che così lavorano, danno opera a produrre beni e servizi diretti non soltanto per se stessi, ma anche per il secondo gruppo di uomini i quali invece sono addetti alla produzione dei beni strumentali. Chiamansi così tutti i beni i quali non giovano immediatamente a soddisfare un bisogno dell’uomo, ma gioveranno in seguito. Chi è occupato a costruire dighe su un fiume ed a compiervi un grande impianto idroelettrico, chi costruisce uno stabilimento industriale od è addetto alla produzione delle macchine che vi saranno collocate, chi scava un canale d’irrigazione o rimboschisce la montagna o risana la palude od impianta vigneti, oliveti, aranceti o frutteti, chi innalza muretti su un terreno in pendio, chi costruisce case nuove, e chi provvede a mantenere, restaurare, rinnovare impianti e canali e muretti e piantagioni, non produce nulla che possa immediatamente od anche nell’anno in corso e talvolta per quinquenni e decenni essere goduto. Egli lavora e deve perciò vivere; ma non può vivere sul frutto del lavoro proprio, ché questo non è assimilabile dal suo organismo. Il produttore di beni strumentali deve essere mantenuto dal frutto del lavoro del produttore di beni diretti. Ridotti alla loro espressione più semplice, i piani quinquennali russi non furono altro se non il comando dato a 50 su 100 lavoratori (dirigenti, tecnici, impiegati, contadini ed operai) di provvedere col lavoro proprio a mantenere se stessi e gli altri 50 lavoratori ai quali invece era comandato di lavorare per provvedere alla fabbricazione dei beni strumentali (capitali) necessari alla attrezzatura civile e militare del paese. In altre parole, ai russi fu comandato di vivere per cinque anni, e poi per altri cinque e poi per un terzo quinquennio col prodotto del lavoro di metà della popolazione, per consentire all’altra metà di produrre beni futuri. Siamo nel quarto quinquennio e la produzione degli uomini destinata alla produzione di beni strumentali o futuri (detti anche beni capitali) che si supponeva non fosse inferiore al 50%, oggi, date le urgenze della guerra, è forse cresciuta. Il che in termini conformi all’uso del parlare europeo occidentale, vuol dire che la popolazione intiera ha dovuto assoggettarsi ad un prelievo del 50% e probabilmente più sul proprio reddito allo scopo di provvedere all’incremento dell’attrezzatura industriale, sovratutto bellica, del paese.

 

 

107. Gli uomini egoisti individuali e gli uomini costruttori. Il medioevo ed il concetto dell’eterno.

 

Chi non voglia una società collettivistica, nella quale necessariamente i piani di produzione e di distribuzione della ricchezza vengono dall’alto ed ogni traccia di libertà, di determinazioni individuali economiche è spenta, deve trovare altra via per conservare e crescere il capitale esistente. Ci si accorge allora che la vera unità sociale non è l’individuo isolato ma la famiglia.

 

 

Vi sono certamente due tipi di uomini: coloro che pensano a sé soli e quindi restringono i propositi d’avvenire alla propria vita od al più a quella della compagna della vita loro. Ad ogni generazione il corso della vita ricomincia. Essi creano le società stazionarie, anzi regressive, ché se tutti gli uomini fossero simili ad essi, non sarebbe neppure conservato il capitale esistente. Il tipico investimento dell’individuo egoista provvisto di salario di lavoro, intellettuale o manuale, è la pensione vitalizia. Se costoro risparmiano, il risparmio è investito in una annualità su una o su due teste ed è distrutto interamente al termine della vita dell’individuo o della coppia di individui. A che conservare qualcosa, se per essi il mondo muore al termine della vita terrena?

 

 

Accanto agli uomini, i quali concepiscono la vita come godimento individuale, vi sono altri uomini, fortunatamente i più, i quali, mossi da sentimenti diversi, hanno l’istinto della costruzione. Forse in nessuna epoca storica l’istinto della costruzione fu così evidente come nel medioevo, quando si costruiva per l’eternità. I castelli erano fortezze, con muraglie dallo spessore ciclopico e le case erano torri che volevano sfidare i secoli. Non si parlava di prestiti di denaro ad interesse, rimborsabili e perciò consumabili entro pochi anni, ma di costituzione di rendite perpetue, grazie a cui il debitore diventava proprietario della somma ricevuta e non aveva obbligo di restituzione; ma il creditore diventava a sua volta proprietario in perpetuo di una rendita garantita dal fondo assoggettato, soggiogato all’onere. Il fondo, e non il proprietario del fondo, era obbligato in perpetuo al pagamento della rendita. Il fedecommesso, il maggiorasco contenevano l’idea della perpetuità, della continuità delle generazioni. Chi aveva costrutto il castello, la torre, la casa, chi aveva dissodato il terreno boscoso od incolto e vi aveva eretto una masseria voleva che il castello, la torre, la casa, la masseria rimanesse per sempre nella sua famiglia. Era vivo in tutta l’Europa il principio delle famiglie-ceppo, nelle quali il podere veniva trasmesso di primogenito in primogenito o di ultimogenito in ultimogenito e gli altri sciamavano all’intorno o lontano a creare nuove famiglie; ma taluno rimaneva, celibe, nella casa paterna, ad aiutare gli altri e tutti, se la sventura li coglieva, vi potevano ritornare a cercarvi ospitalità e conforto negli ultimi anni della vita. Il tipo della famiglia-ceppo che si perpetua sul fondo non frazionabile perdura in talune regioni germaniche e scandinave; ma in forme diverse è vivo dappertutto. Il padre non risparmia per sé; ma spera di creare qualcosa che assicuri nell’avvenire la vita della famiglia. Non sempre l’effetto risponde alla speranza, ché i figli amano talvolta consumare quel che il padre ha cumulato; e se non i figli, i nipoti od i pronipoti potranno appartenere alla specie degli egoisti individuali, i quali non guardano oltre il momento che fugge od oltre la soglia della morte. Ma se i figli sono parecchi, come è uso dei costruttori, l’istinto della perpetuità si rinnova in taluno di essi; e se l’uno scialacqua, l’altro riscatta colla fatica diuturna i frammenti sparsi della costruzione paterna; e la famiglia dura, talvolta nei secoli. Se mancano i figli, l’uomo dotato dell’istinto della perpetuità costruisce perché un demone lo urge a gettare le fondamenta di qualcosa. Il patrimonio sarà destinato ai parenti, ad opere pie, a scopi educativi o benefici. Non si costruisce perché alla morte, la casa costruita sia venduta all’incanto ed il denaro ricavato sia dato alla collettività anonima per essere speso. Ciò ripugna profondamente al risparmiatore. Nessuno abbandona volontariamente la propria eredità allo stato, perché questi ne consumi il valsente per provvedere alle spese correnti pubbliche. Il testatore pensa alla «fondazione» del museo, della collezione di libri raccolta in una stanza col nome del fondatore. del giardino pubblico, del parco destinato al riposo della cittadinanza, dell’asilo infantile, dell’orfanatrofio, dell’ospedale dei vecchi. Se l’opera fondata non potrà portare, per la piccolezza dell’offerta, il nome del fondatore, questo sarà iscritto su una lapide, in un albo di benemeriti, posto al disotto di un busto in marmo o di un ritratto ad olio. Vi sono avari, i quali conducono vita stenta e confessano di cumulare per il piacere di cumulare, perché la contemplazione del gruzzolo crescente è cagion per essi di intenso piacere; ma in fondo al loro animo vi è un proposito: essere segnalato, nel ricordo dei beneficati, tra i benemeriti di un’opera pia, del Cottolengo o dei Salesiani a Torino, dell’Ospedal maggiore a Milano o tra i fondatori di illustri premi universitari od accademici.

 

 

108. L’ideale della città-giardino.

 

Coloro che così vorrebbero costruire per l’eternità hanno una concezione dell’uguaglianza nei punti di partenza ben più alta di quelli che vorrebbero che la gara ricominciasse per tutti ad ogni generazione; che il risparmio fosse investito esclusivamente nell’uomo ed in quelle cose materiali, le quali sono come il prolungamento della persona umana: la casa dove si abita, il mobilio, i libri, gli oggetti cari, il piccolo giardino, dove si coltivano i fiori e gli ortaggi e si allevano, insieme col cane ed il gatto, i volatili da cortile. L’ideale della città-giardino supera certamente quello dell’alveare della grande città, dove gli uomini non si conoscono, dove tutti hanno lo stesso volto, e, per fuggire la noia della vita nelle due camere, cucina e bagno, corrono tutti allo stesso cinematografo, ascoltano la medesima radio, leggono il medesimo giornale e si entusiasmano alle medesime gare di uomini che si prendono a pugni o giocano alla pallacorda; ma i figli pagano, appena possono, una pensione alimentaria alla madre e fanno, con quel che avanza dei loro salari, borsa a sé, consumandola in sigarette od in calze di falsa seta; salvo a ricominciare da capo, in unioni legali o libere, nella solita cellula dell’alveare cittadino, che tutto adegua ed appiattisce. Vi è, nella città-giardino, l’inizio della costruzione; la famiglia comincia a diventar qualcosa di distinto e superiore alle persone fisiche in cui essa si concreta nella generazione presente. Vi sono le mura della casa, le stanze, il terreno circostante, gli oggetti acquistati od ereditati dagli avi, i quali dicono: qui, entro queste mura, voi siete nati, qui siete cresciuti, qui avete avuto l’esempio dei vecchi, i ricordi di quel che di bene e di male essi fecero, l’indicazione della via che dovete seguire e di quella che dovete fuggire. I ritratti che pendono alle pareti, gli album famigliari, i libri annotati vi dicono di generazioni nelle quali regnò la concordia fra padre e madre e crebbe la prosperità della famiglia e di generazioni nelle quali invece dominò la discordia ed il disamore e la famiglia decadde e dal naufragio si salvarono appena pochi oggetti, ad ammaestramento dei venturi.

 

 

109. L’ideale della città-giardino non vive di vita autonoma.

 

Tuttavia, sebbene l’ideale sia posto già più in alto, una società composta di città-giardino, di villette e di casette sparse nei sobborghi è cosa fragile, la quale non vive di vita indipendente, autonoma. L’uomo non è più il salariato puro, colui che vive del tutto alla dipendenza altrui; egli trae già dalla casa propria un senso di autonomia, la sua persona non è più un atomo vagante simile a tutti gli altri atomi, egli possiede un prolungamento esterno di sé, attorno a cui può prendere corpo ed anima la famiglia, un focolare attorno al quale gli altri individui che da lui nascono si possono raccogliere e presso cui possono trovare protezione. Come vive però là città-giardino? Essa non ha in se stessa le fonti della vita. Si è compiuto per fermo un passo innanzi nella costruzione di una società stabile, perché accanto ai beni di consumo immediato gli uomini hanno cominciato ad apprezzare i beni di consumo durevoli. È nato il senso del tempo che verrà, del tempo nel quale chi ha costrutto la casa, adunato i libri, acquistato i mobili e gli oggetti non sarà più vivo; ma le cose da lui create conforteranno ancora la vita dei figli e dei nipoti. È nata la famiglia; ma questa non vive ancora. Non può nemmeno vivere del proprio lavoro; come può vivere se tutti ugualmente pensano soltanto a risparmiare quel che è necessario per i consumi dell’oggi e del domani? L’uomo, per vivere, deve uscire dalla casa e recarsi altrove, dove adatti strumenti produttivi – terreni coltivati ed appoderati, fabbriche, laboratori, ferrovie, ponti, strade, porti, scuole, mezzi di trasporto, macchine e strumenti di ogni sorta – gli consentano di produrre, trasportare, scambiare e distribuire gli alimenti, i vestiti, le scarpe, i libri, le cose che egli poi consumerà e in cui vivrà ed avrà ed alleverà ed educherà una famiglia. Chi crea questo mondo esterno grazie a cui si producono i beni di consumo immediati e durevoli che l’uomo vuole possedere e godere? Chi se non l’uomo medesimo? Chi non vuole una società collettivistica nella quale lo stato stabilisce coattivamente quanta parte degli uomini viventi produce beni diretti e quanta parte beni strumentali, deve consentire alla necessità che l’uomo sia stimolato a risparmiare quanto occorre affinché sia conservato e sia cresciuto il capitale esistente in ogni dato momento nella società. Ed in una società libera, nella quale non sia coattivamente stabilito che ogni uomo debba destinare il 70% del proprio reddito al consumo, il 10% alla conservazione del capitale o patrimonio preesistente, ed il 20% al risparmio – suppongasi che questa sia nel dato tempo e luogo la distribuzione del reddito in media occorrente affinché il capitale esistente sia mantenuto e cresciuto in guisa da consentire alla popolazione (stazionaria o crescente) di migliorare gradatamente il proprio tenore di vita – fa d’uopo consentire agli uomini di manifestare liberamente le proprie preferenze; e gli uni consumeranno tutto, gli altri risparmieranno il 5, od il 10, od il 20% e vi sarà chi, per avarizia o per larghezza di reddito, risparmierà il 50, il 70 od il 90% del proprio reddito; ed accadrà che in media, dopo aver provveduto ad accantonare il 10% a titolo di quota di manutenzione, il risparmio giungerà al 20% del reddito nazionale, quanto basta a crescere convenientemente il capitale esistente nel paese.

 

 

110. Il tipo dell’uomo dilapidatore.

 

Facendo astrazione dagli squilibri momentanei fra risparmio ed investimento, la destinazione che gli uomini in media facciano del 20% del proprio reddito al risparmio fa sì che la produzione riceva un indirizzo peculiare diverso da quello che esisterebbe se il risparmio fosse nullo o diversamente superiore od inferiore allo zero. Il risparmio è inferiore allo zero quando gli uomini, non potendo consumare il capitale esistente a fini di godimento perché non è possibile fisicamente che gli uomini consumino, col mangiare, bere, vestire e divertirsi, la terra, le piante, le macchine, le scorte di materie prime tali e quali, trascurano di mantenerle, di rinnovarle quando sono deperite, di sostituirle quando non sono più atte, per mutati gusti o per invenzioni di nuovi strumenti, al loro ufficio produttivo. L’uomo, il quale faticherebbe 30 sui 300 giorni lavorativi all’anno per conservare e rinnovare il capitale esistente e durante i 30 giorni non potrebbe perciò produrre nessun bene o servizio atto a soddisfarei suoi desideri di godimento, può rinunciare all’opera di conservazione e dedicare anche i 30 giorni a produrre beni diretti. Talvolta segue siffatta condotta per ragioni superiori di salvezza del paese; come quando in tempo di guerra si sfruttano le dosi di fertilità accumulate nel terreno con fatiche lunghe di lavorazione o con ammegliamenti di concimazione o di irrigazione o di livellamento; ed in tal caso la degradazione del terreno è giustificata dal nobile fine. Può invece seguire la stessa condotta per avidità di godimenti immediati; ed in tal caso la quantità dei beni di consumo o godimento presente cresce a scapito della produttività futura. Il capitale esistente si degrada, la terra è assoggettata a coltura di rapina e scema di valore perché gli uomini non guardano all’avvenire. In ogni società vi sono dilapidatori i quali trascurano il buono stato delle loro case e dei loro terreni, riducono le loro fabbriche in breve volger di anni ad un cumulo di stridule ferraglie e conducono se stessi alla rovina.

 

 

111. Quello dell’uomo conservatore.

 

Il risparmio è nullo, quando gli uomini si limitano a serbare intatto il valore del patrimonio posseduto. Faticano i 30 giorni necessari, sui 300 lavorativi, per mantenere terreni, case, macchinari in buono stato e per sostituirli quando siano fisicamente od economicamente inservibili; ma vogliono dedicare tutti gli altri 270 giorni a produrre beni di consumo, siano deperibili come gli alimenti o durevoli come la casa o la vettura automobile o la radio. Se tutti gli uomini agissero in tal modo, la società sarebbe stazionaria, il tenor di vita non muterebbe, né muterebbe il numero degli uomini. Se il numero crescesse, il tenor di vita dovrebbe abbassarsi. Potrebbero mutare i gusti, ma a soddisfare i nuovi gusti farebbe d’uopo durare la medesima fatica richiesta dal soddisfacimento dei gusti precedenti. Tutto il lavoro degli uomini, col concorso di un capitale (beni strumentali o mezzi di produzione), intatto, sarebbe consacrato alla produzione di beni di consumo e questi si identificherebbero coll’intiero reddito netto, tutto reddito consumabile e consumato.

 

 

112. E quello dell’uomo risparmiatore.

 

Il risparmio è positivo, ad es. del 20% del reddito, quando gli uomini, dopo aver faticato i 30 giorni necessari alla conservazione e rinnovazione del capitale esistente, serbato così intatto, deliberano di dividere i restanti 270 giorni in due parti; e 210 giorni (70% di 300) li destinano alla produzione di beni e servizi di diretto consumo e 60 giorni (20% di 300) alla produzione di beni strumentali: piantagioni, strade poderali, dissodamenti, macchine nuove, impianti industriali, bonifiche, rimboschimenti, ferrovie, porti, bacini d’acqua per la produzione di energia elettrica ecc. ecc. Nello stesso tempo restano modificate la produzione da un lato, ché, oltre alle 10 unità di beni di sostituzione o manutenzione del capitale esistente, si producono 70 unità di beni di consumo e 20 unità di beni strumentali; e la distribuzione del reddito dall’altro lato, ché si destinano 10 unità di reddito a comprare beni di sostituzione, 70 ad acquistare beni di consumo e 20 unità di reddito a risparmio, il che vuol dire ad investimento in beni strumentali. La quota del reddito che è consumata fa domanda di beni di consumo; e la quota del reddito che è risparmiata fa domanda di beni strumentali.

 

 

113. In una società risparmiatrice esiste una divisione del lavoro fra produttori di beni di consumo e beni strumentali la quale non coincide con quella fra dilapidatori, conservatori e risparmiatori.

 

Non occorre che ogni uomo consacri 30 giorni a produrre beni di sostituzione, 210 a produrre beni di consumo, i quali costituiscono il reddito consumato e 60 giorni a produrre beni strumentali in cui si investe il suo reddito risparmiato. Ciò fa l’agricoltore, il quale di fatto può consacrare 10 giorni del suo tempo ai lavori di manutenzione delle strade poderali, dei sentieri, dei canali di irrigazione ecc., 210 alle opere ordinarie di coltivazione, che gli frutteranno il frumento, il granoturco, il vino, l’olio, il latte, la lana, di cui si ciberà o si vestirà; e 60 giorni alle opere di ammegliamento, di piantagione, di dissodamento, di rettifica di canali di scolo o di strade poderali, da cui egli spera in avvenire un incremento di produzione. I 210 giorni gli forniscono il reddito consumabile e da lui consumato; laddove i 60 giorni sono il suo risparmio, da lui investito direttamente nella terra e danno luogo ad un incremento del valore capitale e del reddito del podere.

 

 

In regime di divisione del lavoro, il processo di investimento è scisso da quello del risparmio. In media gli uomini ripartono, sì, il proprio reddito totale in tre parti: il 10% del reddito lordo totale alla manutenzione e mera sostituzione del capitale esistente; il 70% al consumo ed il 20% al risparmio. Ma schiere diverse di uomini attendono ai tre diversi compiti: 30 uomini su 300 attendono a serbare intatto il capitale esistente (quote di manutenzione e sostituzione), 210 a produrre beni e servizi di consumo diretto (reddito consumato) e 60 a produrre beni strumentali (risparrmio-investimento-aumento del capitale esistente). Grazie allo scambio fra gli uomini che così si sono divisi i compiti, il frutto del lavoro dei 210 uomini che si sono dedicati a produrre beni e servizi di consumo, è distribuito fra tutti i 300 uomini componenti la nostra società immaginaria; e questo frutto consumabile si mantiene intatto grazie al lavoro dei 30 uomini che riparano e sostituiscono il capitale esistente; ed anzi di anno in anno cresce grazie al lavoro dei 60 che si dedicano a produrre nuovi beni strumentali. Se però in media gli uomini non risparmiassero il 20% del reddito, se cioè non vi fossero, accanto agli uomini dilapidatori che distruggono ed agli uomini conservatori che puramente conservano, altri uomini detti risparmiatori, i quali, oltre a conservare intatto il patrimonio esistente, risparmiano una quota positiva del proprio reddito netto che può andare dall’1 al 80% ed in media è del 20% del reddito nazionale totale (lordo di quote di manutenzione), il capitale esistente non solo non crescerebbe ma di anno in anno degraderebbe, con irrimediabile decadimento del tenor di vita generale.

 

 

114. In una società non comunistica, deve esistere il risparmio volontario con la proprietà privata dei beni strumentali.

 

È dimostrato così che, ove non si voglia affidare allo stato il compito di costringere coattivamente gli uomini a conservare e ad incrementare il capitale esistente; ove non si voglia cioè che lo stato coattivamente ripartisca gli uomini in 30 destinati a conservare il capitale esistente, 210 a produrre beni e servizi di consumo diretto e 60 a produrre nuovi beni strumentali ossia a crescere il capitale esistente, deve esistere un meccanismo che induca gli uomini ad assolvere volontariamente il compito necessario.

 

 

Il meccanismo è la attribuzione agli uomini risparmiatori della proprietà dei beni strumentali i quali sono stati creati dal risparmio. Per qual motivo l’uomo rinvierebbe il godimento di parte del proprio reddito ad un momento futuro, quando sapesse a priori che delle 100 parti del reddito solo le 70 consumate rimangono di spettanza del risparmiatore e le 20 risparmiate, insieme con le 10 destinate alla manutenzione, passano in proprietà di qualcun altro, di un ente pubblico, il quale ne avrebbe la compiuta disponibilità?

 

 

Il risparmio volontario è assurdo se la proprietà della cosa risparmiata non spetta al risparmiatore. L’alternativa è il risparmio obbligatorio, ossia in primo luogo il prelievo forzoso, con l’imposta sul reddito del cittadino, non solo delle 10 parti destinate alla conservazione ma anche delle 20 consacrate all’incremento del capitale esistente ed in secondo luogo l’impiego pubblico delle somme così accantonate. La sostituzione del risparmio obbligatorio a quello volontario significa la sostituzione di un tipo collettivistico di organizzazione della società economica a quello di mercato. La scelta fra i due tipi è fatta dagli uomini per molteplici ragioni, che non accade qui discutere. Coloro i quali sono contrari al tipo collettivistico per lo più sono mossi dalla convinzione, derivata dall’osservazione e dal ragionamento, che così fatto tipo sia sinonimo con il comando dall’alto, epperciò incompatibile con la libertà politica e personale dell’uomo.

 

 

Il risparmio volontariamente compiuto può essere volontariamente affidato per l’impiego all’ente pubblico; ma rimane pur sempre, sia a mezzo del rimborso della somma mutuata sia a mezzo della vendita dei titoli di debito pubblico, nella piena disponibilità del risparmiatore. Questi, che oggi ha rinviato ad un tempo futuro il consumo delle 20 unità, potrà così domani, sorgendo nuove circostanze, consumare in tutto od in parte il risparmio prima compiuto. Possono verificarsi malattie costose, può crescere la figliuolanza bisognosa di educazione, può, coll’aumentare della somma risparmiata, essere pensabile l’acquisto di beni di consumo durevoli (la casa, la vettura automobile ecc.) prima inaccessibili. Il meccanismo del mercato offre agevolezze infinite di investimenti temporanei o duraturi e di disinvestimenti successivi, sì da soddisfare alle più varie esigenze dei risparmiatori.

 

 

Se il principio del risparmio volontario importa logicamente la proprietà della cosa risparmiata, non è altrettanto evidente la logica necessità di un’altra diversa illazione, per cui il risparmiatore possa trasmettere per eredità o donazione ad altri (figli o discendenti o parenti od eredi in genere) la proprietà delle cose acquistate a mezzo del risparmio. Non tutti i risparmiatori sono mossi dai medesimi motivi e alcuni di questi paiono compatibili con la trasmissione allo stato della proprietà della ricchezza accumulata – chiameremo così d’or innanzi le cose nelle quali è stato investito il risparmio – all’atto della morte del risparmiatore.

 

 

115. Le varie fonti del risparmio: il non saper cosa fare del reddito. Colui che non sa per lo più appartiene alla schiera dei dilapidatori.

 

Vi è una prima quota del risparmio la quale da taluno è caratterizzata colla frase: «quel tale dispone di reddito siffattamente ampio, che, dopo avere soddisfatto a tutti i propri desideri, anche, se vuolsi, a quelli più capricciosi, non sa cosa farsi di quel che gli rimane ed è obbligato a risparmiarlo e ad investirlo, pur di trovare al reddito una destinazione». Dubito assai che questa frase non sia una figura retorica di intellettuali, i quali osservano il mondo colla lente del cinematografo, delle spiagge mondane, dei circoli di ballo e dei luoghi di ritrovo di gente sfaccendata od equivoca. Coloro che soddisfano ad inclinazioni comunemente giudicate voluttuarie o capricciose non appartengono al mondo dei risparmiatori, ma piuttosto a quello dei dilapidatori. Costoro non creano risparmio, ma danno fondo al risparmio altrui: essi sono gli eredi o gli sfruttatori, non i creatori delle fortune, dei capitali esistenti. Convertono i beni strumentali esistenti in beni di consumo; non rinunciano a questi per costruire nuovi beni capitali. Rispetto a questa gente non si può parlare di mezzi atti ad impedire che essi trasmettano ad altri il risparmio che non hanno prodotto, ma di mezzi atti ad impedire che essi ricevano il risparmio altrui. Possiamo tuttavia immaginare astrattamente, per compiutezza teorica di indagine e non per ossequio a tipi propri di una letteratura deteriore, per lo più immorale se non addirittura pornografica, che esista una prima categoria di risparmiatori i quali risparmiano una parte del proprio reddito, perché non saprebbero quale altro uso farne. Se questa categoria potesse essere distinta dalle altre, sembra che nessuno o scarso nocumento nascerebbe dalla norma la quale devolvesse, alla morte del risparmiatore, od anche prima, la ricchezza accumulata allo stato. Non allo stato in genere, atto per lo più solo a consumare il provento delle imposte, ma allo stato quale ente pubblico incaricato di gerire e conservare i beni strumentali costituiti col risparmio privato[4].

 

 

116. I risparmiatori per istinto. Gli «avari» non sono indifferenti alla sorte del risparmio dopo la loro morte.

 

Una seconda categoria di risparmiatori è quella di coloro che sono tali per istinto. Nel linguaggio comune costoro sono detti «avari»; e risparmiano a qualunque costo, perché essi si compiacevano un tempo nella contemplazione del crescere del mucchio d’oro o nell’ascoltare il gioioso tintinnio del suo fluire di tra le dita del contemplatore, ed oggi, venuto meno a causa della appropriazione dell’oro da parte dei tesori pubblici o delle banche centrali e non sostituito siffatta specie di godimento da quello del cumulare pacchi di biglietti da mille, sono forzati a cumulare carte valori, obbligazioni di debito statali o fondiarie o private, azioni di società, titoli di proprietà di terreni o case. Risparmierebbero costoro se sapessero che alla loro morte il patrimonio cumulato è destinato a passare in proprietà dell’ente pubblico? La risposta è dubbia. Vi è nel fondo dell’animo loro una certa indifferenza rispetto alla sorte del patrimonio dopo il momento supremo; ma forse è più vivace il sentimento, la speranza che il frutto dell’opera compiuta non vada dispersa. Perciò sono frequenti i testamenti di cosidetti avari i quali diseredano parenti per destinare tutto il loro patrimonio ad una fondazione che ricordi il loro nome, ad un’opera benefica che iscriva il loro nome nell’albo dei benemeriti o faccia dire una messa annua in suffragio della loro anima, o ad un istituto scientifico, che bandisca premi ad incremento di un particolare ramo di scienze o distribuisca borse a giovani studiosi. Ognuno di noi ha conosciuto uomini assai facoltosi, i quali si compiacevano di menar vita semplice e talvolta inutilmente dura pur di poter cumulare un patrimonio cospicuo, destinato a questa o quell’opera pia, il Cottolengo, le opere salesiane, l’ospedale maggiore, l’ospizio dei vecchi, che essi reputavano maggiormente benefica; e non di rado si spogliarono in vita della ricchezza posseduta, pur continuando a cumulare i frutti del lavoro personale o del patrimonio residuo allo scopo di integrare, in morte, le donazioni già fatte. È presumibile che minore sarebbe il capitale costituito dagli avari se costoro sapessero che tutto sarebbe appropriato da un ente pubblico diverso da quello da essi preferito. Sarebbe per lo meno necessario consentire la facoltà all’uomo di testare e di destinare la propria sostanza a quelle, vecchie o nuove, fondazioni benefiche scientifiche educative sportive od altre le quali rispondessero a scopi di interesse pubblico.

 

 

117. Il risparmio derivante dal bisogno di fondare una famiglia.

 

Poiché fu già supposto che all’uomo fosse consentito di compiere risparmi nella misura necessaria a provvedere ai propri bisogni futuri in caso di malattia, infortunio, disoccupazione, vecchiaia ed a quelli del coniuge e dei figli, limitatamente per questi all’inizio della vita produttiva, e quindi anche per tutta la vita, se impotenti al lavoro per difetti fisici o mentali; poiché fu supposto che l’uomo potesse trasmettere in eredità beni durevoli, come la casa di abitazione, il terreno annesso per godimento della famiglia, il mobilio, i libri, e oggetti vari di uso e di ornamento, quale ulteriore stimolo al risparmio può avere l’uomo? Un primo stimolo è dato dal desiderio di «fondare» una famiglia. Il contadino non acquista nuovi terreni in aggiunta a quelli ereditati dal padre, se a sua volta non ha figli. A che pro allargare il podere, renderlo capace di divisione tra due o tre figli, se quel che è posseduto basta ad assorbire il lavoro suo e dell’unico figlio? Perciò la terra ha un prezzo più alto là dove le famiglie sono numerose che là dove prevale il sistema dell’unico figlio. È istintivo nell’uomo provveduto di figli il bisogno di garantirli contro le difficoltà che egli ha dovuto sormontare per giungere all’indipendenza economica. Il lavoro manuale od intellettuale, applicato al podere od alla fabbrica od al negozio propri, l’esercizio della professione preferita non assillato dall’urgenza di procacciarsi a qualunque costo una occupazione qualsiasi; la lunga attesa di studi richiesta per la preparazione all’insegnamento superiore o per l’entrata nella magistratura richieggono il possesso di un patrimonio, sia pure modesto, il quale ecceda i limiti di beni di consumo durevoli. Lo scapolo, i coniugi senza figli possono contentarsi di una pensione vitalizia, la quale sia pagata sino all’ultimo momento della vita; il padre di famiglia risparmia purché e se reputa di aver fondato qualcosa che sia di sostegno nella vita ai figli ed ai nipoti. Amplia la casa, perché essa possa ospitare, almeno per qualche mese dell’anno, le famiglie dei figli; la vuole divisibile affinché ognuna delle famiglie che da lui discendono possa allogarvisi. Non concepisce la casa come un ente a sé stante. Il «castello» fu sempre e, divenuto villa o casa di campagna, è ancora adesso un ente artificioso, mancante di vita propria, cagione di spese, le quali non possono essere sopportate dal proprietario sfornito di mezzi. Perciò castelli e ville decadono, sono abbandonati e finiscono di ridursi a rovine pittoresche se attorno ad essi non esista la terra coltivata, con i cui frutti la famiglia può vivere e conservare e migliorare la casa avita. Il palazzotto o la villa di città hanno significato solo come accessorio di una impresa economica che dia alla cosa inerte la vita. Se il risparmiatore che fonda una famiglia non avesse la speranza di far godere i discendenti dei frutti del capitale accumulato, il cumulo non avrebbe luogo e la collettività sarebbe di altrettanto più povera. Quelle case, quelle fabbriche, quei negozi, quelle terre migliorate non esisterebbero.

 

 

118. Il risparmio derivante dal bisogno di fondare un’impresa.

 

Il secondo stimolo al risparmio eccedente i beni durevoli d’uso diretto del risparmiatore è il bisogno di «fondare» l’impresa. Anche questa è opera istintiva. Quando si riprodusse l’opinione comune per la quale i facoltosi risparmiano perché non sanno come consumare gran parte dei propri redditi, si aggiunse subito che coloro i quali si trovano veramente nella condizione di «non sapere» appartengono quasi sempre alla categoria dei dilapidatori e non dei costruttori di fortune. Qui si parla di risparmiatori, che vuol dire di gente la quale ha il senso dell’avvenire ed, avendo provveduto alle necessità quotidiane, preferisce beni futuri a beni presenti. Se non risparmiano perché costretti dall’istinto di fondare la famiglia, ubbidiscono all’altro istinto del fondare l’impresa. Nella stessa maniera come il professionista, l’ingegnere, l’avvocato, il medico, non vede mai giunto il momento di ritirarsi dall’esercizio della professione e godere di un meritato riposo, sicché negli elogi che di lui sono pronunciati o scritti si dice che egli «rimase sino all’ultimo sulla breccia del lavoro»; nella stessa maniera che per coloro i quali sono giunti a posti direttivi o di rilievo, l’andare in pensione è atto non volontario, ma imposto dalla norma inesorabile di legge per i limiti di età e spesso i pensionati si adattano ad occupazioni di scarso rilievo e poco remunerate, pur di poter dire di sé: «ancora sono atto a qualche cosa»; così l’industriale, il commerciante, il banchiere, l’agricoltore non si rassegna a porre un limite alla sua impresa; anzi la vagheggia sempre più forte e grande e dominatrice. Ognuno di costoro ambisce a far riconoscere la sua impresa come «primaria» fra le altre. Investire una parte, spesso la più gran parte del reddito dell’impresa nell’acquistare nuove macchine, nel costruire un nuovo padiglione, nell’abbellire le vetrine del negozio, nel trasportarlo dai ristretti locali, dove ebbe inizio la sua fortuna, in altri più spaziosi e centrali e bene arredati; il costruire nuove stalle e nuove case coloniche, il migliorare le strade poderali, far opere di irrigazione e di bonifica, impiantare nuove vigne e nuovi frutteti od oliveti od agrumeti, il rimboschire il monte o sistemare il pascolo alpino non appaiono spesso neppure atti volontari di preferenza di beni futuri a beni presenti, di scelta fra il consumo ed il risparmio. Per questo tipo di risparmiatori il motivo dell’azione è l’istinto, è la necessità psicologica di fare più perfetta l’impresa alla quale si è dedicato la vita. Di solito codesti cosidetti ricchi vivono vita modesta e parca di cibi e di godimenti materiali; primi ad arrivare sul luogo del lavoro ed ultimi ad abbandonarlo. Quelli che li osservano, pensano: perché tanto lavorare e faticare? perché non gustare, come sarebbe ad essi possibile e lecito, qualcuna delle dolcezze della vita? Perché rimanere, talvolta, rozzi e poco coltivati, occasione di sorriso ironico per gli intellettuali? Ma fate che essi discorrano dell’impresa che han creato e diventano eloquenti ed inspirati al par del sacerdote e del poeta. Chi li ascolta si avvede di trovarsi dinnanzi a uomini sperimentati e sapienti, i quali hanno creato qualcosa che senza la loro opera non sarebbe esistito. Essi hanno ubbidito, col dedicare la vita alla propria impresa e col rinunciare, senza sacrificio, anzi con inconsapevole soddisfazione, al godimento presente del reddito, allo stesso demone interno, al quale ubbidisce lo studioso, che, bene avanti negli anni, trascorre la giornata fra i libri ed i nipotini, i visitatori ed i famigli stupiscono dicendo: perché costui seguita a studiare? quale bisogno ha di continuare a leggere, affaticando il cervello, se ha già ottenuto la laurea e compiuto la sua carriera? Ma come lo studio non affatica il cervello ed è una esigenza naturale della vita dello studioso, così l’attendere all’impresa e l’ampliarla e il condurla ai primi posti non è cagion di fatica o di rinuncia alcuna all’imprenditore di industrie, di terre o di commerci.

 

 

119. Il bisogno del risparmio degli enti collettivi.

 

L’orgoglio dei fondatori di famiglie o di imprese non è solo un fatto individuale. L’istinto del risparmiare dell’uomo persona fisica si propaga presto a quei complessi di uomini che si chiamano enti collettivi, società anonime, società cooperative, enti semi-pubblici. Notabile parte del risparmio nuovo che ogni giorno va formandosi nelle società moderne non è risparmio individuale, bensì collettivo. La società anonima, dopo avere riconosciuto che il reddito netto, depurato dalle quote mandate a riserva per insolvenze future, per deprezzamento di scorte, per ricostituzione degli impianti deperiti, per rischio di cambi o di mutazioni monetarie, per fondi vari di indennità di licenziamento o di riposo ai dipendenti, per opere sociali, è di un milione di unità monetarie, non distribuisce agli azionisti ed agli amministratori se non una parte dell’utile conseguito; e manda 300.000 o 400.000 unità ad ulteriore riserva. I motivi che si danno per l’operato sono vari: l’opportunità di fronteggiare i rischi di crisi impreviste o di inasprimenti fiscali, la necessità di alleggerire la situazione debitoria dell’impresa verso le banche, la convenienza di trasformare gli impianti, oramai antiquati. Ma si tratta di pretesti; ché in verità si vuole ampliare l’impresa; crescerne l’attitudine di lotta contro le imprese concorrenti; e raggiungere la vetta tra le imprese dello stesso tipo. La lettera delle leggi vigenti e dello statuto vorrebbe che tutto il milione fosse ripartito tra gli amministratori e gli azionisti proprietari. Sottoscriverebbero però costoro volentieri alla nuova emissione di azioni necessarie ad ampliare l’impresa; ossia compirebbero volontariamente l’opera individuale di risparmio all’uopo necessaria? O non è meglio fare a meno di distribuire una parte dell’utile ed impiegarlo subito a comprare macchine nuove od a costruire il nuovo padiglione? Gli azionisti, in fondo, sono forse danneggiati, se si cresce il valore capitale dell’impresa e si rende questa atta a fruttare redditi maggiori in avvenire? Il consiglio direttivo di un acquedotto municipale o di una rete tranviaria o del gasometro o della centrale elettrica della città non reputa forse di fare opera pienamente corretta se, invece di versare nella cassa del comune tutto il reddito netto dell’impresa pubblica, ne preleva una parte prima della chiusura dei conti e la destina, sotto nome di riserva di deperimento o sostituzione o rinnovazione, a migliorare gli impianti, a crescerne la potenzialità produttiva? Questo è risparmio dovuto all’istinto di chi ha la cura dell’impresa e la vuole fare sempre più prospera e robusta.

 

 

120. Il comportamento del legislatore di fronte alle diverse specie di risparmio.

 

È logico che diversa possa essere la condotta del legislatore di fronte alle diverse specie del risparmio:

 

 

  • 1) di beni durevoli (casa, mobilio, giardino od orto e cose annesse) destinati all’uso personale del risparmiatore e dei suoi famigliari; e di quell’ulteriore capitale necessario al coniuge superstite od ai figli sino all’inizio della loro vita economica;
  • 2) compiuto dai ricchi oziosi i quali non saprebbero che cosa fare del reddito risparmiato;
  • 3) compiuto dagli avari, risparmiatori per esigenza della loro indole propria;
  • 4) compiuto istintivamente dai fondatori di famiglia;
  • 5) e, per lo stesso istinto, dai fondatori di imprese. Sembra pacifica, rispetto al risparmio posto nella prima categoria, la convenienza di consentire che i genitori procaccino ai figli i mezzi di essere allevati ed istruiti sino alla loro maggiore età produttiva ed assicurino al coniuge superstite ed ai figli inabili al lavoro i mezzi di sussistenza per il resto dei loro giorni.

 

 

È grandemente incerto il peso del risparmio della seconda categoria; ed è disputabile se una parte notevole del risparmio degli avari (terza categoria) sarebbe ancora prodotta se non fosse impedita la trasmissione ereditaria; e pare certo che una quota notabilissima dei risparmi dovuti all’istinto proprio dei fondatori di famiglia e di imprese cesserebbe di aver luogo se non esistesse la trasmissione ereditaria.

 

 

Nelle condizioni odierne, nelle quali, per la tendenza ancora prevalente della popolazione a crescere e sovratutto per la necessità di promuovere l’incremento della produzione epperciò l’innalzamento del tenor di vita dei popoli, tuttora basso nei paesi più civili, nei quali il reddito medio è pur discreto, e bassissimo, straordinariamente basso, nei paesi dove tenue è il reddito medio, è possibile rinunciare alla formazione di una qualunque delle categorie di risparmio sopra elencate? Pare potersi rispondere con tutta sicurezza di no; sicché è legittima la illazione che, ove non si voglia attribuire allo stato il compito di formare, con un prelievo forzoso sul reddito collettivo, il nuovo risparmio assolutamente necessario per l’incremento pure necessario, della produzione, l’istituto della eredità deve essere conservato.

 

 

121. L’eredità si riferisce alle cose; ma il limite di essa si misura a norma del valore in moneta stabile. Il caso dei beni durevoli di consumo.

 

Prima di discutere quali limiti debbano essere posti all’istituto medesimo e quali altri istituti debbano essere creati allo scopo di modificare gli effetti del limitato diritto ereditario allo scopo di ubbidire all’altro principio ugualmente logico e necessario di garantire a tutti gli uomini la possibilità di iniziare, senza disparità dannose, il corso della vita, importa esaminare un altro punto capitale. Ammesso cioè il principio della eredità questa deve riguardare le cose esistenti nel patrimonio del defunto, ovvero il loro valore monetario? La questione non riguarda il risparmio della prima categoria: quello che il capo-famiglia investe nei beni durevoli destinati all’uso proprio e dei famigliari: la casa, il mobilio, e simili. Qui il capo – famiglia è libero di dare al risparmio d’uso quella qualunque forma che a lui paia più opportuna: di cose concrete materiali ovvero di denaro utile a procacciare a sé ed ai famigliari le cose ad essi necessarie. Probabilmente, il capo darà ad una parte del risparmio famigliare una forma reale ed a un’altra parte una forma monetaria. Quest’ultima forma sarà scelta di solito per i fondi destinati a garantire un reddito al coniuge superstite e i mezzi di allevamento e di istruzione per i figli. Se il genitore non crede, per ragione del proprio lavoro od impiego, di acquistare la casa propria, darà anche a questa parte la forma monetaria di un capitale il cui reddito basti al pagamento dell’affitto di casa.

 

 

Ove l’unità monetaria sia stabile, non dovrebbe essere difficile di stabilire un limite di valore entro il quale il risparmio trasmesso per eredità si reputi possedere indole di fondo famigliare trasmissibile senza impedimento veruno di generazione in generazione nella forma che al defunto sia piaciuto scegliere.

 

 

122. Nel caso dei beni strumentali la convenienza degli eredi provvede alla loro trasformazione.

 

Il problema si presenta solo per le altre categorie del risparmio. Pure essendo la sua trasmissione ereditaria legittima e necessaria nell’interesse comune, essa deve aver luogo in natura e cioè nella forma data al risparmio dal defunto, ovvero nel suo equivalente in denaro? Si pone il quesito da chi ritiene che gli eredi di colui il quale ha risparmiato ed ha costrutto una fortuna sotto forma di podere, di fabbrica, di laboratorio, di negozio, di ufficio siano inetti a gerirla. La risposta è ovvia e perentoria. Se inetti, una breve esperienza persuaderà gli eredi della convenienza di vendere. Se vorranno salvare i rottami della fortuna avita dal naufragio, essi dovranno trasformare l’indole dell’investimento, in guisa che esso sia più conforme alle loro attitudini. Il processo di trasformazione è rapidissimo per l’avviamento degli uffici professionali, per i quali il figlio medico presto vende al sostituto del padre l’avviamento dell’ufficio paterno d’avvocato, insieme con le raccolte giurisprudenziali che ne ornavano lo studio, riservando a sé solo i libri di cultura generale ed i ricordi personali; è pronto per i negozi, gli uffici di rappresentanza, i laboratori e le industrie, il cui rendimento cade senz’altro a zero senza l’intervento quotidiano del «padrone». È forse più lento e può durare per una generazione o due, se si tratti di poderi di campagna, ma anche qui spunta inesorabile il giorno nel quale il podere, non più curato dall’occhio vigile di colui il quale lo aveva creato, aveva ricostrutto le case rurali, riattato le strade poderali, curate le piantagioni, dà segni di vecchiaia e di mancanza di reddito netto, il giorno nel quale è vero il vecchio adagio del mezzadro il quale: «signor padrone – dice – venga a dividere la sua metà», ed il quarto padronale non basta a pagare le imposte e le spese minime inevitabili di manutenzione delle case, di concimazione e di cure contro le malattie delle piante. Ben prima che questo momento giunga, un mediatore è giunto a fare offerte di vendita e poi un secondo ed un terzo; e le offerte sono così allettanti, il reddito netto dei titoli di tutto riposo che si potrebbero acquistare col ricavo della vendita è tanto superiore a quello del podere, che l’animo del proprietario cittadino, oramai lontano dalle cose rustiche, non regge alla tentazione; e la proprietà passa al nuovo acquirente, il quale restaurerà, bonificherà, costruirà strade, farà piantagioni. Il processo è lento assai per le case d’affitto cittadine, la cui decadenza è meno avvertita; in cui bastano poche cure di manutenzione per tenere il fabbricato in buono stato locativo. Ma giungono anche qui i giorni della resa dei conti; quando la casa, costrutta secondo sistemi antiquati, più non regge alla concorrenza delle nuove abitazioni; ed ai vecchi inquilini appartenenti ai ceti medi amanti della casa si sono a poco a poco sostituiti inquilini nuovi, appartenenti a ceti via via meno affezionati alla dimora, a gente la quale non appartiene neppure al ceto dei lavoratori abituati a stare nei quartieri periferici, ma vive di professioni svariate, talvolta equivoche e la casa è divenuta scura, male abitata, dalle scale rotte e viscide per umidità cancrenosa. In un certo momento, i proprietari i quali facevano amministrare da altri il fabbricato, odono parlare di risanamento necessario, sono minacciati di multe dall’ufficio di igiene municipale, vedono crescere senza tregua le imposte; finché l’amministratore parla di alternativa fra il demolire il fabbricato e ricostruirlo ovvero venderlo; ed un mediatore offre per la sola area un prezzo superiore al valore capitalizzato degli affitti netti. La casa è venduta, affettasi di dire con rincrescimento; e l’area passa in mano di chi vi costruisce un fabbricato di dieci piani, di stile moderno, con molta aria e molte finestre; con uffici e laboratori ed appartamenti affittati, a metro quadrato, a canone triplo delle vecchie abitazioni dai pavimenti sgangherati e dalle finestre, le quali lasciavano passare il vento. Nessun interesse pubblico preminente viene leso dal processo ora descritto.

 

 

123. Il «milionario» in tempi di svalutazione monetaria. Necessità di mutare i nomi usati nel linguaggio monetario.

 

Invero, la lesione al principio dell’uguaglianza nei punti di partenza è affermata rispetto alla trasmissione non dei patrimoni in generale, ma dei patrimoni superiori a una certa dimensione e di quelli consistenti nella proprietà di determinate «grandi» imprese. Trattasi di concetti diversi che occorre accuratamente distinguere. Naturalmente, si suppone che esista un metro monetario stabile e che siasi formata una opinione generale ragionevole intorno al significato delle parole «piccolo» «medio» «grande» applicate ai valori patrimoniali. Nel linguaggio comune, la attribuzione ad un uomo del connotato di «milionario» ha in tutti i paesi suscitato l’idea della ricchezza, diversa a seconda dei paesi, ma pure sempre ricchezza. Il milionario inglese in lire sterline e quello americano in dollari era venti volte più ricco del milionario tedesco, in marchi, e venticinque volte più del milionario francese, italiano o svizzero nei franchi o lire, tra di loro, prima del 1914, equivalenti. Oggi il milionario inglese e quello americano possono ancora essere considerati ricchi, sebbene la loro ricchezza, rimasta uguale in moneta, sia stata dimezzata in sostanza ossia in potenza d’acquisto; e sebbene il reddito della medesima ricchezza monetaria sia stato ridotto dalle imposte ad una mera frazione, probabilmente non superiore ad una quarta o quinta parte in Inghilterra, di quello antico. Ad ogni modo, la parola milionario non ha perso nei paesi anglo-sassoni del tutto l’antico significato. Non l’ha perso del tutto in Svizzera, anche se l’attuale milionario ha dimensioni forse neppure eguali, quanto a patrimonio, alla metà e, quanto a reddito, al quarto del milionario ante-1914. In Italia, come pure in Francia, sarà necessario invece procedere ad una revisione profonda dell’unità monetaria ovvero del vocabolario. La lira, anche quando sarà stabilizzata, frenandone ad un certo punto il precipitare nella via discendente, ha perso oggi ogni relazione con l’antica lira tradizionale, alla quale si riferivano i concetti di povero, agiato e ricco. Una fortuna di 100.000 lire del 1914, fruttante al corso dei titoli di stato d’allora 3.500 lire all’anno, era considerata l’inizio della agiatezza di una famiglia della modesta borghesia. Con quel reddito, una vedova, col carico di quattro figli, vivendo misuratissimamente in un villaggio di campagna, poteva far studiare in città i figli maschi sino al compimento degli studi universitari, a condizione che i figli ottenessero, studiando assai, la esenzione dalle tasse scolastiche ed abbreviassero la dimora all’università a non più di otto o nove mesi dell’anno. Oggi, a tenere lo stesso luogo nella società, occorrerebbe, secondo il rapporto di 40 ad 1, una fortuna di 4 milioni ed un reddito di 140.000 lire, ovvero in eventuali rapporti fra lira 1914 e lira futura di 100, 200 e 300 ad 1 occorrerebbero rispettivamente fortune di 10, 20 o 30 milioni di lire e redditi di 350.000, 700.000 ed 1.000.000 lire. Parlare di milionari in lire come se fossero ricchi, è oggi una burlesca facezia.

 

 

In verità, la lira ha cessato di essere una unità monetaria appropriata ad un paese nel quale l’unità di consumo non sia più il bicchiere d’acqua come bevanda, un pugno di riso bollito come cibo, ed uno straccio attorno ai fianchi come vestito. I brasiliani, quando si trovarono di fronte allo stesso frangente, ebbero la fortuna di possedere una unità monetaria, il reis, anteponendo alla quale il prefisso mil, se ne poté cavare una nuova unità di milreis, non sgradevole alla pronuncia nell’uso comune. Ma in Italia il «cento-lire» e il «mille-lire» sarebbero parole troppo larghe e non entrerebbero nell’uso quotidiano; e poiché adottare il dollaro o la sterlina parrebbe atto di servitù allo straniero, converrà ricorrere a vecchie parole paesane, come il fiorino o lo zecchino o lo scudo; sì da ridare alla parola «milionario» un significato plausibile.

 

 

124. L’innalzamento del minimo a mezzo della estensione dei servizi pubblici gratuiti.

 

Fatta la quale ipotesi, è chiarito il problema del limite da porsi alla trasmissione dei «grandi» patrimoni allo scopo di evitare le eccessive disuguaglianze nei punti di partenza tra i giovani giunti all’età produttiva.

 

 

L’innalzamento del minimo si opera con la graduale estensione del campo dei servizi pubblici gratuiti. L’ente pubblico dovrà, fra l’altro, gradualmente provvedere a fornire ai ragazzi istruzione elementare, refezione scolastica, vestiti e calzature convenienti, libri e quaderni ed ai giovani volenterosi, i quali diano prova di una bastevole attitudine allo studio, la possibilità di frequentare scuole medie ed università a loro scelta senza spesa o con quella sola spesa la quale possa essere sostenuta dal giovane disposto a lavorare senza nocumento degli studi; e le scuole dovranno essere varie ed adatte, per numero e per attrezzatura, alle occupazioni diverse manuali od intellettuali ai quali i giovani si sentiranno chiamati.

 

 

125. L’abbassamento del massimo si ha in primo luogo con la riduzione delle imposte sui consumi, con l’imposta progressiva sul reddito normale con detrazione del credito dei contribuenti verso lo stato a titolo di assicurazioni sociali.

 

L’abbassamento del massimo si opera con le imposte. Il meccanismo è noto ed è applicato in tutti i paesi civili con metodi sempre più perfezionati. Abolite tutte le imposte dette indirette, le quali colpiscono, col nome di tasse di registro e bollo, di dazi doganali o di imposte sulla produzione (accise) o sui consumi, i beni di consumo o strumentali nel momento in cui stanno producendosi e conservate unicamente, in questo campo, le imposte su alcuni beni di consumo diffuso e secondario nell’ordine dei bisogni fisiologici (tabacco, vino, bevande alcooliche, tè, caffè, scommesse, giuoco e, se vuolsi, teatri, cinematografi, circhi, corse di cavalli, di cani, esibizioni di uomini professionisti in gare sportive e simiglianti prove di volontà di spendere un reddito superfluo alle esigenze della vita reputate comunemente necessarie o vantaggiose fisiologicamente o spiritualmente), il congegno tributario dovrà fondarsi su due pilastri: l’imposta sul reddito e quella ereditaria. La prima destinata, col sussidio delle imposte sui consumi serbate in vita, a provvedere alle spese correnti del bilancio annuo dell’ente pubblico; la seconda a quelle del bilancio ultra – annuale, rivolto a provvedere alla estensione graduale del campo dei servizi pubblici gratuiti e ad una politica di lavori pubblici ed interventi diversi atti a promuovere la occupazione regolare ed, entro i limiti del possibile, compiuta di tutti gli uomini desiderosi di lavorare. L’imposta sul reddito, partendo dal concetto che sia reddito imponibile quel che l’uomo medio dovrebbe ottenere se usasse convenientemente, ossia secondo le norme osservate dal lavoratore o produttore ordinario, i mezzi produttivi personali e materiali da lui posseduti, dovrebbe essere per tutti i contribuenti prelevata ad un saggio uguale determinato dal fabbisogno dell’ente pubblico, suppongasi del 30 percento. Dal debito d’imposta dovrebbe, per tutti, sotto e sopra al limite dei milionari, essere, con avvedimenti contabili semplici, dedotto il credito dei contribuenti – e contribuenti sarebbero tutti indistintamente gli uomini viventi nel corpo politico ed i capi-famiglia in rappresentanza della moglie e dei figli minori d’età od incapaci al lavoro – verso l’ente pubblico a causa degli assegni che per ogni figlio o per i vecchi o per gli invalidi l’ente pubblico medesimo volesse attribuire ai cittadini. Così sarebbe osservato il principio dell’uguaglianza di tutti rispetto all’imposta; ma, discendendo nella scala dei redditi, ad un certo punto i contribuenti vedrebbero compensato il proprio debito d’imposta dal credito per assegni sociali e, discendendo ancora, avrebbero diritto di riscuotere un saldo a proprio favore. Colui che, vecchio, non possedesse altro reddito all’infuori della pensione pubblica, lo vedrebbe ugualmente decurtato del 30%, a testimonianza necessaria della propria partecipazione agli oneri della cosa pubblica. Per i milionari, ossia per coloro i quali avessero un reddito uguale a quello che il milionario mediamente capace dovrebbe normalmente ricavare dal suo patrimonio – e peggio per lui se a tanto non giungesse – per i milionari dunque, definiti come coloro i quali avessero un reddito di 30.000 lire zecchine da capitale o di 60.000 lire zecchine da lavoro, all’imposta normale si dovrebbe aggiungere una sovraimposta progressivamente crescente dall’1% sino, suppongasi, ad un massimo del 30% per i redditi di 100.000 lire zecchine da capitale e di 200.000 lire zecchine da lavoro. L’erario pubblico sarebbe così debitore di una differenza a saldo per i contribuenti minori sino, suppongasi, a 360 lire zecchine, e creditore, a partire dai redditi di 360 lire zecchine, di una imposta del 30% del reddito, diminuita per tutti dell’ammontare degli assegni sociali ed aumentata da una sovraimposta crescente dall’1 al 30% per i redditi superiori a 30.000 lire zecchine se da capitale ed a 60.000 se da lavoro.

 

 

L’esemplificazione numerica sopra fatta non ha alcun valore di consiglio, essendo fatta al solo scopo metodologico di chiarire il congegno dell’imposta; spettando invece ad ogni legislatore di applicare il concetto generico alle condizioni particolari del paese.

 

 

126. Il limite dell’imposta ereditaria normale, e l’avocazione del valore monetario del patrimonio allo stato in tre generazioni.

 

L’avvicinamento fra gli estremi sarebbe ancora ulteriormente favorito dall’imposta ereditaria. La quale dovrebbe anch’essa ridursi alla massima semplicità: e così, e sempre a mero scopo di esemplificazione, una tariffa uniforme minima od anche l’esenzione per tutte le quote ereditarie assegnate dal defunto a fini pubblici di beneficenza o di istruzione; una tariffa minima od anche l’esenzione per le quote ereditarie fino al milione assegnate alla vedova ed ai figli; una tariffa crescente moderatamente sino al 10% per le quote superiori al milione assegnate parimenti alla vedova ed ai figli; ed una tariffa variabile crescente, come già si usa, dall’1% per le quote minime superiori a 1.000 lire zecchine al 20% per le quote massime superiori al milione per gli altri parenti e del doppio per i parenti oltre il terzo grado e gli estranei. L’imposta così congegnata varrebbe tuttavia solo per il «primo» trapasso da colui che ha formato il patrimonio alla generazione successiva. Libero cioè il creatore di una fortuna, piccola o grande, di trasmetterla, franca d’imposta ereditaria o gravata da moderate imposte, alla generazione successiva od a scopi collettivi da lui preferiti; ed incoraggiata perciò la formazione del risparmio ed il suo investimento produttivo. Ma, a partire da questo punto, come propose un tempo l’ing. Rignano, la quota spettante alla collettività crescerebbe. Il padre, il quale ha accumulato, nonostante l’imposta sul reddito del 30%, un patrimonio di 1.000.000 di lire zecchine, lo potrebbe trasmettere intatto al figlio; ma il nipote od altri che ricevesse lo stesso patrimonio dal figlio, dovrebbe versare allo stato una imposta ereditaria del terzo sull’ammontare originario; il pronipote un altro terzo e col terzo trapasso il resto del patrimonio di 1.000.000 di lire zecchine finirebbe di essere tutto trasmesso all’ente pubblico. Poiché il creatore della fortuna può darsi vegga vivo con i suoi occhi il pronipote, sarebbe sicuro di vedere trasferita a lui una terza parte della fortuna; ma poiché è impossibile andare più innanzi nel seguito delle generazioni l’una all’altra fisicamente note, a quel punto la trasmissione della fortuna prenderebbe fine. Se il figlio vorrà trasmettere al figlio suo (nipote del padre) intatta la fortuna, ricevuta dal padre, di 1.000.000 di lire zecchine, dovrà lavorare e risparmiare almeno 333.333 lire, le quali essendo create da lui, non sarebbero soggette ad imposta ereditaria; e così pure dovrebbe fare il nipote. Quelle sole famiglie durerebbero, che serbassero virtù di lavoro e di ricostruzione, non di mera conservazione. Una fortuna, la quale non fosse diuturnamente ricostituita con nuovo risparmio, sarebbe ridotta dall’imposta inesorabilmente e gradualmente a zero col trascorrere di tre generazioni dopo quella del suo creatore. Ma si annullerebbe di fatto prima, se è vero essere, come afferma la sapienza Popolare, assai più difficile conservare una fortuna del crearla. La imposta ereditaria avrebbe sovratutto lo scopo e l’effetto di accelerare il processo per sé naturale e di volgere a profitto della cosa pubblica la tendenza alla dilapidazione propria delle nuove generazioni non astrette al lavoro dalla necessità di procacciarsi da vivere.

 

 

127. L’imposta successoria avocatrice suppone una moneta stabile.

 

Il meccanismo tributario ora descritto suppone una moneta stabile. Non si tratterebbe invero di devolvere all’ente pubblico una miscela di frazioni di patrimonio consistenti in beni stabili, fondi rustici, carature di stabilimenti industriali, azioni ed obbligazioni, miscela fastidiosa ad amministrare e cagione di perdite e di inganni per l’erario; ma i valori corrispondenti. Determinato nel primo inventario al momento del passaggio della fortuna dal suo creatore al figlio l’ammontare di essa, ad es. in lire zecchine 1.250.000, sarebbe dedotto l’ammontare minimo, suppongasi di lire 250.000 franco d’imposta perché uguale alla somma ritenuta necessaria al sostentamento della vedova, dei figli minori ed impotenti al lavoro e per assicurare ad essi una casa, ammontare uguale per tutti, qualunque fosse il grado della loro ricchezza; e sarebbe senz’altro fissata in 333.333,33 lire zecchine l’imposta ereditaria, la quale dovrebbe essere versata per tre volte all’erario pubblico: al momento della morte del figlio, del nipote e del pronipote. Sui registri degli uffici catastali ipotecari per la proprietà immobile e sui libri degli enti e società emittenti azioni ed obbligazioni verrebbe iscritto privilegio a favore dell’erario per l’ammontare dell’imposta totale di 1.000.000 di lire zecchine, frazionate alle scadenze sopra dette. Il privilegio escluderebbe ogni possibilità per gli eredi di dilapidare il patrimonio ricevuto in eredità.

 

 

128. L’eliminazione degli eredi incapaci a gerire imprese od a conservare patrimoni conseguente all’imposta successoria avocatrice.

 

Risoluto così il problema della devoluzione graduale e totale all’ente pubblico nel giro di poche generazioni dei patrimoni tassabili superiori ad un certo ammontare, suppongasi di 1.000.000 di lire zecchine, è contemporaneamente risoluto il problema del comando degli eredi sulle imprese facenti parte dei patrimoni superiori a quell’ammontare. Dicesi invero che il creatore di una fortuna ha dimostrato di avere le attitudini necessarie a costruire e governare l’impresa il cui valore è indice della fortuna medesima. Il fondatore di un grande stabilimento industriale con 1.000 e più operai, il quale ha il valore di 10 milioni di lire zecchine, ha dimostrato, col fatto della creazione ed organizzazione, col credito che egli si è saputo assicurare, di avere le qualità necessarie a governare l’impresa. Chi meglio di lui atto al comando? Ma i figli, ma i nipoti ed i pronipoti? Vi è ragion di credere che essi, insieme alla fortuna, abbiano ereditato le qualità che fanno i grandi capitani d’industria? Perché essi dovrebbero avere il diritto legale, oltreché di godere della fortuna del padre o nonno o bisnonno, anche di governare l’impresa, di sceglierne i dirigenti, gli impiegati, i tecnici e gli operai? Facciasi astrazione per il momento dal problema del miglior modo di selezione dei dirigenti le imprese economiche; e si limiti qui l’indagine alle attitudini degli eredi saggiate alla cote dell’imposta ereditaria. Il figlio ha ereditato il governo dell’impresa che vale nette 10 milioni di lire zecchine, delle quali, suppongasi, 5 milioni sono proprietà di obbligazionisti, correntisti, depositanti diversi per fondi di indennità di licenziamento e vari, e 5 di azionisti, dei quali egli è il primo, possessore di 3 milioni di lire zecchine di azioni. Sui registri pubblici è iscritto un privilegio per altrettanto credito di 3 milioni a favore dell’erario pubblico, esigibile per un terzo alla sua morte, per un terzo alla morte del figlio suo o genero o parente od amico e per un terzo alla morte del nipote. Se egli vuole conservare il governo dell’impresa creata dal padre e trasmetterlo intatto al figlio suo, fa d’uopo che egli sappia almeno aumentare il valore totale del suo patrimonio da 3 a 4 milioni di lire zecchine; perché solo così il figlio suo potrà assolvere, alla sua morte, il tributo di 1 milione ed ereditare la padronanza dell’impresa. Se egli semplicemente conserva invariato il valore dell’impresa, il figlio suo invece di 3 milioni di lire zecchine in azioni ne possederà solo 2, avendo dovuto vendere azioni per il valsente di 1 milione allo scopo di pagare l’imposta e sarà caduto in minoranza in confronto agli altri azionisti. Sarà inoltre scaduto il suo credito; ché correntisti e banche ed obbligazionisti fanno poco volentieri credito ad un’impresa, la quale non sia governata da mano ferma e nella quale l’equilibrio che prima esisteva, sino alla morte del fondatore, fra capitale proprio dell’impresa (5 milioni) e capitale accattato a prestito (5 milioni), sia guasto dal privilegio creditorio di 1 milione a favore dello stato, il quale più o meno presto ma sicuramente deve condurre ad un trapasso di azioni in mani ignote. Il credito e la prosperità dell’impresa riposano dunque sull’attitudine del figlio a risparmiare; e così ad ogni generazione successiva. Se essi saranno capaci a ricostituire, col risparmio, il patrimonio ogni volta ereditato, essi conserveranno il governo dell’impresa; e lo conserveranno meritamente perché il loro risparmio deriverà da nuovo impulso dato all’impresa medesima. Altrimenti, saranno estromessi dal governo dell’impresa a mano a mano siano costretti a vendere le azioni ereditate per poter pagare l’imposta. Non è necessario che gli eredi governino essi medesimi l’impresa; basta sappiano scegliere dirigenti atti a crescerne il valore; così risparmiando, potranno conservare il patrimonio ed insieme il diritto di scelta dei dirigenti. Ma che cosa si può chiedere di più ai proprietari di un’impresa economica fuor del saper scegliere bene i governatori di essa? Sceglier bene vuol dire saper distinguere fra i funzionari, i tecnici, gli impiegati e gli operai gli uomini atti ad assumere uffici, minori o maggiori, di comando, sapere conservare armonia fra i dipendenti, saper crescere la produttività dell’impresa e quindi il reddito di tutti i partecipanti al prodotto totale. O gli eredi posseggono queste qualità e ad ogni generazione ricostruiranno il terzo del patrimonio ereditato e prelevato dall’imposta; o non le possederanno e l’inesorabile opera dell’imposta ereditaria li priverà insieme del patrimonio e del governo dell’impresa.

 

 

129. L’uguaglianza nei punti di partenza, se si riferisse ad uomini nudi, condurrebbe ad una società di mandarini, con preferenze per i figli dei mandarini.

 

L’uguaglianza nei punti di partenza non vuole perciò dire uguaglianza di uomini nudi i quali, giunti all’età economicamente produttiva, si lancino all’arrembaggio per la conquista della ricchezza, della fama, degli onori, dei posti migliori. Una società, nella quale veramente ad una nuova generazione dovesse ricominciare il libro della vita, sarebbe un inferno di uomini scatenati a lottare gli uni contro gli altri per il primato, ovvero un falanstero o monastero governato da mandarini. Qual è in quella società, il criterio di scelta per l’avanzamento se non le prove, gli esami, i concorsi? Contro l’uniformità, contro la subordinazione verso il giudice della prova del lavoro del concorso, unico rifugio sarebbe il possesso eventuale della casa paterna, dei ricordi e mobili famigliari, dell’appartamento cittadino, dell’orto e del giardino nel suburbio o nella campagna. Non piccolo presidio; ma non bastevole a salvare dal grigiore di una vita sottoposta al comando altrui sino al giorno nel quale non si possa salire a posti di comando, prima umili e poi alti. Ed ogni volta la medesima vicenda: mantenimento ed educazione compiuta a carico dell’ente pubblico, prove di attitudine ai diversi mestieri ed occupazioni manuali ed intellettuali, esami, concorsi, carriera, promozioni, conquista di posti più o meno segnalati, oscurità o fama, riposo con pensione; la famiglia ridotta ad un ospizio provvisorio dal quale si parte per l’esame. L’essenza di una siffatta società è l’avanzamento attraverso prove di esame. Il giovane nudo, uguale ad ogni altro giovane, non può a proprio rischio e di propria iniziativa cercare e tentare la sua via. Egli non dispone dei mezzi di produzione, ma soltanto di quelli di consumo non convertibili nell’altro tipo di beni; e deve sottoporsi a prove continue per ottenere impiego ed avanzamento. Ad ogni passo un esaminatore lo sottopone a prove (test) di intelligenza, di forza, di destrezza. Le prove sono fissate secondo schemi dettati dalla scienza e la punteggiatura è automatica. Tizio è classificato buono per l’avvocatura, Caio per la potatura delle viti, Sempronio per la composizione di novelle fantastiche; né è lecito deviare dalla via così determinata, senza nuove prove di esami, di sperimenti, di domande e risposte in minimi di «tempi» la cui durata è decisiva per l’esito. Contempliamo la società perfetta del mandarino, in cui l’uguaglianza nei punti di partenza e nelle promozioni successive si sostanzia nella prontezza mnemonica nel rispondere ai quesiti, nella attitudine ad indovinare le risposte conformi alle idee dell’esaminatore, nella capacità di ossequio e di intrigo nell’accaparrarsi il favore dei superiori. Si crea una società di burocrati, tutta diversa da una società di uomini liberi, legati da forti vincoli di famiglia e di luogo.

 

 

130. Le disuguaglianze ereditarie apparenti a danno delle femmine, dei sacerdoti e dei figli cittadini. Come nasce la disuguaglianza tra figli ugualmente dotati dal padre.

 

L’uguaglianza ai punti di partenza suppone la continuità della famiglia e la preservazione dei valori i quali non si estinguono coll’individuo, ma si tramandano di generazione in generazione. Il contadino, il quale ha ereditato il podere dal padre, avendo, come accade, tre figli maschi e tre femmine, risparmia dapprima allo scopo di costituire la dote alle figlie e mandarle con Dio. A lui non cade in mente di essere ingiusto verso di esse, se la dote non è uguale alla sesta parte del patrimonio ereditato, ma alla dodicesima od a quell’altra la quale sia imposta come minima dal codice civile. Le figlie non perpetuano il nome della famiglia. Quel che egli deve dare è quel tanto che valga a farle rispettare nella famiglia in cui entrano, l’abitudine al lavoro e quei modesti costumi che le facciano buone madri di famiglia. Di più né egli ne altri sente di dover dare; e né le ragazze né i generi si aspettano di più. Coi figli invece la norma è l’uguaglianza. Chiedeva un inquirente, che aveva la mente rivolta alla conservazione del bene di famiglia ed al trapasso del podere indiviso a pro del primogenito o dell’ultimogenito: non è un peccato dividere in tre parti questo bel podere, che basta appena ad una famiglia? E la madre rispondeva: che mai dite? correrebbero coltelli tra i fratelli! Il costume italiano, se non quello germanico o scandinavo è un altro; dotate le figlie e dotati con la legittima anche i maschi, che, fattisi preti o cittadini professionisti, abbiano abbandonato la famiglia, il resto della vita è consacrato a crescere il podere, cosicché esso basti alle due o tre famiglie che porteranno il nome avito, sicché alla morte del padre, ognuno dei figli, il quale sia rimasto sulla terra, possegga un patrimonio non troppo minore e, se possibile, superiore a quello che il padre ha ereditato. Poiché fra la benedizione data, con la dote, alle figlie ed al sacerdote, e la morte del padre corrono solitamente parecchi anni, durante i quali il padre ed i figli maschi lavorano all’incremento del podere, tutti reputano giusto che la divisione in parti uguali avvenga, alla morte del padre, esclusivamente tra i figli i quali sono rimasti, lavorando, con i vecchi. L’incremento avviene per due vie. In virtù della prima, il podere di venti ettari il quale trent’anni prima, quando il padre lo ereditò, era capace di mantenere appena una famiglia, alla fine ne mantiene due. I campi sono stati migliorati, spianati, arati in profondo. Con duro lavoro gli appezzamenti incolti sono stati scassati e ridotti a coltura redditizia. Alle antiche rotazioni sfruttatrici di grano e granoturco si sono sostituite rotazioni miglioratrici ed induttrici di azoto con il trifoglio o l’erba medica o la sulla. Il carico di bestiame che giungeva a malapena ad un paio di buoi magri ed una vacca sfiancata è cresciuto; e nella stalla vivono un paio di buoi grassi, due vacche, quattro vitelli da allevamento, due maiali ed un cavallo. La stalla si è ampliata e schiarita; una concimaia razionale utilizza il letame che prima aduggiava il cortile ed era dilavato dalle piogge. Dopo di aver provveduto agli animali, si è anche pensato ai cristiani. La cucina è sempre quella, ampia ed accogliente; ma accanto e sopra sono state aggiunte, un po’ imbrogliate le une nelle altre, parecchie altre camere per le età ed i sessi diversi. Il podere non è più lo stesso e può alimentare due famiglie. Poiché i figli sono tre, occorre crescerlo ancora.

 

 

La divina provvidenza vuole che, accanto alle famiglie che salgono, vi siano le famiglie le quali discendono. Erano fratelli i due padri; ma laddove il primo ebbe sei figli e dotò convenientemente le tre femmine, il secondo non fece mai bene. Aveva avuto, il primo, la fortuna – ma fu fortuna o saggezza? – di sposare donna casalinga, assestata, curante del marito, dei figli, del pollaio e delle pecore, la quale faceva trovare sempre pronta, a tempo giusto, la colazione, il pranzo, la merenda e la cena; due volte al giorno la minestra calda fragrante e, sempre, col pane qualche companatico; aggiustati i panni e grossamente ben tacconati gli abiti da lavoro; pulite la stalla e la cucina e le camere. Simili a sé aveva allevato le ragazze, sicché i giovani dei dintorni che sapevano da qual casa uscivano, gliele portarono via a gara quasi prima che fossero da marito, né sofisticarono, prima o poi, sulla dote, tanto ne furono contenti. Il secondo, il quale da giovane amava andare in festa ed ai balli, aveva scelto invece donna piacente e prosperosa, che lo allietò senza tregua di molti figli. Ma dello scuro della casa non si compiaceva, più confacendole lo stare sull’uscio di casa a spettegolare coi passanti e colle vicine. Sempre in faccende e mai nulla di fatto. Il cane ed il gatto mangiavano i pulcini; i ladri rubavano i capponi e le oche; la stalla scura di ragnatele e di sporcizia; nella cucina non si sapeva dove porre i piedi sul pulito. A mezzogiorno od a sera, l’uomo ritornando a casa, doveva contentarsi di pane e formaggio e di un bicchiere di vino. «Noi poveri paesani – badava a dire la donna – dobbiamo faticare da mane a sera e neppur la domenica possiamo sederci a tavola tranquilli a mangiare la minestra». Frattanto la cognata dava, con la stessa terra, minestra tutti i giorni ai suoi e la casa era lieta e ridente. Qui gli uomini siedono a tavola al caldo; là, non si sa come, ogni tanto un tintinnio avverte che qualche vetro si è rotto; e la donna scempia si querela: «in campagna, si sa, il vento passa dappertutto; non come in città, dove le case in faccia riparano; qui i vetri sono sempre rotti; e noi, poveretti, non abbiamo i denari per farli rimettere». Frattanto il marito, tra i colpi d’aria ed il cibo asciutto, si ammala; ed i quattrini sfumano a pagare un garzone che lo sostituisca nei lavori. Se capita la grandine, la stretta di caldo, l’invasione della peronospora non combattuta a tempo – siamo corsi subito, imperversa la donna, e le foglie erano già bianche di muffa!; ma il fratello un’ora prima con una irrorazione tempestiva aveva ancora salvato il raccolto – ecco che fa d’uopo vendere un campo per tirare innanzi. Chi lo compra? Il fratello, che aveva ricevuto dal padre la stessa parte, che aveva subito la stessa grandinata, che aveva dovuto lottare contro la stessa invasione peronosporica. Al momento buono, accadde che l’uno aveva messo da parte i denari, del quale l’altro aveva bisogno. Così una famiglia sale e l’altra scende. L’uno cresce il fondo avito e consente ai suoi figli di muovere nella vita passi sicuri; l’altro si stanca a curvar la schiena ogni giorno a zappare la terra al solleone o sotto la pioggia e sogna più facili ricchezze. Vende il campo o lo ipoteca; e col ricavo acquista un camioncino e una macchina da far pasta. I conti preventivi sono lampanti; tanti poderi visitati, tanti chilogrammi di farina da trasformare in paste alimentari, che le massaie saranno liete di avere con poca spesa, affrancandosi dalla noia faticosa delle tagliatelle fatte in casa. L’incasso giornaliero è sicuro; alla fine di due o tre anni, camioncino e macchina sono pagati, e, dopo, tutto è reddito netto. Purtroppo, il diavolo ci mette la coda; le paste, senza uova, si spappolano cuocendo; i clienti volenterosi si diradano; il petrolio rincara. Non sarà gran male vendere il camioncino e sostituirlo con un vecchio mulo, che giunto nel cortile del podere farà girare la ruota della macchina. Il lavoro rallenta ancor più e non paga le spese. Dopo pochi anni, quel contadino, che lavorando, avrebbe potuto vivere nel suo, se ne va ramingo ad allogarsi come manovale e discorre della fortuna avversa col fratello, il quale nell’inverno lo accoglie talvolta nella stalla ben popolata e calda.

 

 

131. La persistenza dei patrimoni nelle famiglie è dovuta a fattori morali; che soli possono sormontare l’ostacolo dell’imposta ereditaria avocatrice.

 

Lungo tutta la scala sociale, i medesimi fatti sono chiari e dimostrano che l’unità sociale non è l’individuo, ma la famiglia. Un’impresa dura, secolare, nella medesima famiglia, là dove l’onestà, l’ordine nella vita, la temperanza nei godimenti consentono di cumulare riserve per i giorni avversi, per le annate dalle vacche magre. Lentamente cresce, di generazione in generazione, il patrimonio di esperienza, di affiatamento con i dipendenti, di amichevoli rapporti con i clienti. Se ad ogni generazione si dovesse ricominciare dallo zero, codesto patrimonio di tradizioni e di relazioni, spesso assai più prezioso del patrimonio pecuniario e materiale, andrebbe disperso, senza vantaggio per nessuno. Accanto alle banche, le quali sin dall’origine furono costituite per azioni e si presentarono al pubblico con volto anonimo, vivono in ogni città banche private, delle quali nessun cliente si cura di indagare il capitale versato. Portano un nome, che significa, di padre in figlio, onestà, puntualità, osservanza degli impegni presi, prudenza negli investimenti, osservanza scrupolosa dell’unica regola che il banchiere, degno del suo nome, deve osservare: «come debbo investire le somme altrui, le quali mi sono affidate, in modo da essere sicuro di restituirle al tempo fissato?». L’improvvisatore, il progettista, l’uomo fornito di idee facili e tutte promettenti bada a raccogliere depositi; l’erede prudente di un nome accreditato pensa all’obbligo di restituire. Il primo fallirà o scaricherà, se i suoi depositi montano a miliardi, sullo stato le conseguenze della sua avventatezza. Il secondo potrebbe lavorare senza capitale e tuttavia prospererebbe. Perché il figlio non deve poter ricevere dal padre e dall’avo l’eredità di un punto di partenza nella vita, che fu posto in alto senza recare danno anzi recando vantaggio alla collettività?

 

 

I più grandi giornali del mondo – e si potrebbe aggiungere le maggiori case editrici che durarono oltre il secolo – furono all’inizio l’opera di un uomo ma furono continuate da famigliari conservatori gelosi di una tradizione onorata. Alla radice del «Times», del «Manchester Guardian», dell’«Economist» ci sono un Walter, uno Scott, un Wilson; e lungo il secolo si leggono, tenaci tutori della onorabilità del foglio quotidiano o settimanale, i nomi dei figli, dei genitori e dei nipoti del fondatore. Così, anche, era stata creata in Italia la grandezza del «Corriere della sera», della «Stampa», del «Giornale d’Italia», della «Gazzetta del popolo», del «Giornale di Sicilia» e di tanti altri. Non il capitale anonimo, ma uomini che si chiamavano Torelli-Viollier, Albertini, Frassati, Bergamini, Botero, Ardizzone crearono la fortuna del giornale, fortuna che dipendeva esclusivamente da qualità intellettuali e morali e più da queste che da quelle. L’intelligenza di uno scrittore può essere presa a nolo; ma non si negozia il senso morale di chi vuole il suo diario esponga la sua opinione e non quella dell’industriale che paga gli annunci, del dittatore che impone opinioni, del pubblico tumultuante esasperato da demagoghi. In Italia si volle distruggere questo patrimonio prezioso famigliare, sostituendolo con leggi scritte; e per un ventennio più non avemmo giornali; né questi esistono nella Germania nazista o nella Russia comunista, dove, come tra noi, si leggono soltanto bollettini i quali esprimono la volontà di chi comanda. La libertà di stampa non esiste se non vi è continuità di possesso famigliare dei giornali, delle riviste, delle case editrici; o se, dove per il trascorrere del lungo tempo la famiglia fondatrice viene meno o si disperde, non si riesce a creare un istituto, indipendente da ogni ingerenza pubblica o privata, atto a conservare la continuità dell’idea incarnata nell’impresa. L’imposta ereditaria, del tipo che fu descritto sopra, può e deve efficacemente intervenire per obbligare gli eredi, in poche generazioni, a rifare, col proprio sforzo, il capitale materiale di macchine, di edifici, di scorte tramandato dall’avo; così come può e deve intervenire ad obbligare l’attuale proprietario di un fondo a riacquistare col proprio risparmio la terra quale l’avo l’aveva consegnata al padre suo. Ma il nome, ma la tradizione, ma l’esperienza sono ricchezza propria della famiglia, che, serbata in essa, reca vantaggio agli altri e, toltale, rimane distrutta con danno universale.

 

 

132. La venalità delle cariche giudiziarie fu in tempi di assolutismo inizio e garanzia dell’indipendenza della magistratura.

 

Bene massimo fra tutti in un paese è l’indipendenza della magistratura, sola garanzia di giustizia che è fondamento dei regni. Ma la indipendenza della magistratura non si ottiene abilitando i giovani forniti del sesto senso necessario ad emergere nella vita e che per essi è quello giuridico, ad addottorarsi grazie a borse di studio in legge ed a partecipare, tra i venti ed i venticinque anni, ai concorsi di ammissione alla carriera giudiziaria. Il concorso attesta, forse, l’attitudine alla interpretazione della legge; non, quel che sovratutto monta, la fermezza del carattere morale. Il concorso, anzi, pone tutti, a parità di intelligenza, alla medesima stregua: tutti uguali, l’arrivista, il procacciante, colui che pesa il torto e la ragione al lume della sola giurisprudenza, e l’uomo retto, che non transige colla coscienza e non si piega, per esigenze di carriera, ai desideri dei superiori e dei potenti. Concorso e promozioni per esami e per anzianità sono formule tipiche di chi non tollera disuguaglianze di trattamento, e vuole tutto sia valutato alla stregua di punti di merito, e sono formule necessarie ad evitare l’arbitrio. Ma con corsi e promozioni per esami eccitano anche le ambizioni e sono scuole di servilismo verso chi deve pronunciare il giudizio. Debbono perciò essere corretti, se si vuole che il magistrato sia libero, con rimedi inspirati a criteri che formalmente sanno di privilegio e di disuguaglianza. Il rimedio varia da tempo a tempo, assume forme diversissime e può anche prendere nome di spirito di corpo o di casta. Nella Francia di antico regime, innanzi al 1789, lo spirito di corpo si concretava nella venalità delle cariche giudiziarie. Venalità e giustizia paiono due concetti contraddittori ed invece la prima fu, per secoli, salda garanzia dell’altra. mercante, il quale aveva mandato il figlio agli studi ed era riuscito ad addottorarlo in legge, acquistava una carica di consigliere o di presidente in uno dei parlamenti o di altra corte giudiziaria a favore del figlio; il quale, divenuto così nobile di toga, fondava una famiglia chiamata a dare, uno dopo l’altro, magistrati all’ordine giudiziario. Proprietari, in virtù del titolo accademico, che era cosa personale, e del prezzo pagato, che era cosa trasmissibile, di una carica giudiziaria, codesti magistrati si consideravano sovrani e resistevano, se dottrina e coscienza lo ordinassero, agli editti del principe. In Francia, occorreva un solenne letto di giustizia, con l’intervento di tutta la corte e dei pari del regno, perché i tribunali si adattassero a registrare editti sgraditi, prendendo a testimonianza, con solenne rimostranza, che esse cedevano soltanto alla forza; in Piemonte senati e camere dei conti interinarono parimenti editti reputati contrari alle tradizioni, all’ordine legislativo vigente, alle pattuizioni fra sovrani e popoli, soltanto dopo tre ripetuti comandi (iussu) e protestando di cedere soltanto, contro la propria volontà e coscienza, al comando espresso; cosicché l’effetto morale del comando agli occhi del popolo restava annullato; ed a Potsdam il mugnaio replicava a Federico secondo, che voleva ingiustamente la casa sua: vi sono dei giudici a Berlino! Abolita per sempre, con la rivoluzione francese, la proprietà e la venalità delle cariche giudiziarie, rimase la tradizione nelle famiglie dei magistrati; ed ancor oggi in Francia e forse anche altrove, di padre in figlio si tramanda il deposito di massime, di tradizioni, di vita riservata, di orgoglio di appartenere ad un ceto posto fuori e al disopra del resto del mondo che può produrre quel fiore supremo della civiltà, che è il magistrato incorruttibile. Che se anche i magistrati di antica famiglia sono una minoranza, essi danno il tono al corpo intiero. I nuovi venuti, tratti da ceti sociali mercantili o agricoli nei quali sono diffusi sentimenti latitudinari intorno ai limiti fra la mera onestà del non far torto altrui e l’imperativo duro del render stretta giustizia, si avvedono presto di vivere in un mondo diverso da quello consueto, il quale vincola e limita i loro modi, le loro parole, l’espressione dei loro sentimenti ed imprime su di essi quasi un’impronta sacerdotale.

 

 

133. L’indipendenza della magistratura oggi connessa con la persistenza dello spirito di corpo proprio di un ceto chiuso.

 

I cento, e non più, giudici inglesi sono forse individui scelti, all’inizio della loro carriera, per concorso accessibile a tutti i giovani forniti dei medesimi titoli? Non pare. Il caso, le relazioni famigliari consigliarono al giovane, uscito dagli studi umanistici, di entrare in uno degli studi legali od uffici di avvocato di cui sono costituiti i cosidetti «Inns of Court»; e qui dopo avere assistito riverente ai riti periodici dei pranzi onorati dalla presenza degli anziani e dopo avere sostenuto qualche esame e più aver fatto lungo tirocinio in uno studio, diventa barrister o avvocato patrocinante presso qualcuna delle corti del regno. Se egli acquista clientela e, salito in fama di avvocato principe, guadagna larghi emolumenti, taluno comincia a dirlo degno di salire dalla sbarra (bar) dove si tengono gli avvocati, al banco (bench) dove siedono i giudici. Nominato, sa di fare un grave sacrificio economico, lo stipendio del giudice, anche elevato, essendo sempre inferiore Agli emolumenti lucrati come avvocato, ma sa di diventare non solo pari agli altri giudici, ma la voce medesima del sovrano, che lo ha cresimato giudice e che per bocca sua dichiara il torto e la ragione. Chi ha creato costui, il quale crede di essere ed è superiore in dignità a chiunque copra altissima carica politica od elettiva? Ad un nuovo recente presidente americano, il quale aveva ritenuto inavvertitamente, di richiamare l’attenzione di un giudice della Suprema corte su una interpretazione da lui proferita di un punto di diritto allora controverso, la risposta fu: «signor presidente, io sono un giudice!».

 

 

La risposta riassume l’orgoglio di chi sente di appartenere ad un corpo il quale trova la sua legge solo in se stesso, nella coscienza di un dovere compiuto. Ma un corpo è una famiglia chiusa, non un’accolta di individui giunti prima degli altri, senza conoscersi, al traguardo, dopo essere partiti nello stesso istante dal medesimo punto. Nel corpo si entra per lenta ascensione, al cui fondo sta una scelta dettata da ragioni morali, che sono ragioni di privilegio e non di uguaglianza.

 

 

134. La famiglia è inconcepibile in una società non differenziata.

 

Quello di «famiglia» non è un concetto il quale stia a se. Non esistono famiglie in tutti i tipi di società; ma soltanto in quelli nei quali la famiglia può vivere e perpetuarsi. Là dove vivono famiglie, vivono anche ceti, gruppi, vicinanze, amicizie, comunità, mestieri, professioni, associazioni libere ed aperte, corpi chiusi esclusivi. Esiste una società differenziata, articolata, elastica, mobile, consapevole; esiste un popolo e nasce e cresce uno stato. Là dove invece un uomo ed una donna stanno insieme per ragioni di lavoro e di utilità, non esistono né casa, né vicini, né amici, né corpi; ma individui singoli, classi composte di individui raggruppati per connotati oggettivi di salario, di stipendio, di patrimonio o di reddito. Classi e non ceti; individui e non uomini; atomi e non anime.

 

 

135. Le case alveari e la inesistenza della famiglia. Ivi è uguaglianza nei punti di partenza per uomini nudi.

 

Che cosa vuol dire uguaglianza nei punti di partenza individuali? Ecco la casa ad appartamenti in città. È comoda, ben congegnata: i quartieri sono minimi, di una o due stanze, con bagno e cucinetta. Riscaldamento centrale; nella cucinetta di tre o quattro metri quadrati, ghiacciaia, cucina elettrica od a gas, acqua corrente fredda e bollente, in tutte le ore del giorno e della notte. Radio, grammofono, telefono. Al piano terreno i servizi centrali. Ad ore fisse un impiegato della casa vien su a pulire e far le stanze, a tirar su il falso letto e nasconderlo, insieme con i materassi e le lenzuola, nell’armadio, sicché sino a sera la stanza diventa salotto da stare e cosidetto studio, dove si guardano le ultime novità prese a prestito dalla biblioteca circolante. Nella cucinetta, la signora prepara rapidamente il primo asciolvere del mattino, col latte che è venuto su ad ora giusta dal servizio centrale del pianterreno. Poi, ciascuno va al suo lavoro; ed i due si rivedono alle cinque, al tè presso amici o in una sala da tè. Hanno fatto colazione, in piedi o rapidamente, nel ristorante annesso all’ufficio od alla fabbrica dove lavorano. La sera, forse, la trascorrono insieme se la signora non si annoia troppo a preparare il pranzo, sovratutto con roba in scatola. Ma al pian terreno, il ristorante comune è accogliente e risparmia fatica. Poi il cinematografo. Una lavanderia ed una stireria comune provvedono, a prezzo fisso, alle esigenze di casa. Probabilmente, nel semisotterraneo vi è anche la bottega del barbiere, del manicure, e l’istituto di bellezza per la signora. La casa è quasi un albergo, dove i servizi funzionano automaticamente. Gli inquilini non è necessario si conoscano e si frequentino. Un cenno del capo, un atto di cortesia all’incontro nell’ascensore ed è tutto. Sono forse costoro uomini o non invece comparse le quali si dileguano indistinte dopo essere rimaste per qualche tempo sulla scena del teatro sociale? Amici od amiche o non invece conoscenze a cui si dà del tu, che si incontrano al circolo, al caffè, nei campi del golf o della pallacorda, nelle sale di conversazione e di conferenze, e, se non si incontrano più, si dura fatica a ricordarne il nome ed il viso? Che ci sta a fare il bambino in una casa ad appartamenti? Dove gioca, dove corre e cade, dove sono i piccoli amici coetanei? Fratelli non ci sono od al più ve n’è uno. Troppa noia allattare ed allevare tanti bambini. In quel piccolo appartamento non ci sarebbe più pace. Deve forse la donna rinunciare all’impiego ed al lavoro, che consentono comodità, vestiti, calze, cinematografo e gite? Sacrificarsi e perché? A vent’anni, se femmina, la bambina d’oggi è destinata ad andare, con un altro uomo, ad abitare in un altro appartamento; e la si vedrà di rado e di furia. Se maschio, l’impiego lo porterà forse in un’altra città. Una lettera ogni tanto ricorderà che un tempo si aveva avuto un figlio, che si è reso indipendente e probabilmente considera i genitori come gente antiquata, che ha altri gusti e con cui non c’è modo di capirsi. Frattanto, non c’è la sala per i lattanti, l’asilo per i bambini? Non vi sono forse suore, magnifiche di amore per i figli altrui, nutrici ed istitutrici educate in istituti appositi, le quali sono pronte a pigliarsi cura dei bambini della gente affaccendata nel non far nulla o costretta a lavorare per guadagnarsi la vita. Per la gente facoltosa vi sono filantropi intelligenti pronti a sostituirsi ai genitori con l’aiuto di suore cattoliche o protestanti o laiche; per i mediocri ed i poveri provvedono lo stato, il comune e le istituzioni benefiche. Nessuno deve essere abbandonato a sé; tutti i nati hanno diritto alla medesima educazione ed istruzione; dall’asilo per i lattanti all’asilo infantile, su su fino alle scuole elementari, al ginnasio, al liceo, all’università. Poiché tutti gli uomini sono uguali, qualcuno veglia affinché le medesime nozioni siano egualmente offerte a tutti, con la scuola unica in basso, sino almeno a tre anni dopo le scuole elementari. Poi si concede, con molta ripugnanza, che taluno impari il latino ed il greco e la filosofia; meglio sarebbe se tutti, per suggerimento di genitori o di maestri che tirano al sodo, attendessero in primo luogo alle cose tecniche, utili nella vita quotidiana, alla fisica, alla chimica, alla stenografia, alle lingue moderne, alla contabilità, al disegno, alla meccanica, relegando alle horae subsicivae quelle cose che i vecchi chiamavano umanità e mettevano a fondamento della cultura. Così, a venti od a ventidue anni il giovane si presenterà a correre la gara della vita alla pari con ogni altro giovane, maschio o femmina, tutti egualmente formati fisicamente ed intellettualmente, tutti uguali per vestito, scarpe ed acconciatura di testa. Tutti destinati a trascorrere le ore lavorative nell’ufficio o nello stabilimento, pubblico e privato, dove la carriera, dato l’uguale punto di partenza, sarà offerta con diversità nei punti di arrivo a seconda del merito. L’uno percorrerà solo i gradi dovuti all’anzianità; l’altro diventerà direttore generale o membro del consiglio di amministrazione. Ma ogni uomo vivrà con una donna in una casa ad appartamenti; l’uno fruendo di una stanza sola e l’altro di tre o quattro, arredate con maggior lusso e con maggior comodità di servizi comuni. L’uno avrà una sola vettura automobile e l’altro ne possederà una per ciascuna persona di famiglia. Ma nessuno avrà più di uno o due figli; e nessuno avrà gran casa, che i domestici privati sono scomparsi, da quando gli uomini hanno cominciato ad apprezzare l’indipendenza. Il cameriere o la cameriera che fa i servizi di pulizia giungono anche essi in automobile e, compiuto il servizio secondo l’orario stabilito, ritornano nella propria casa ad appartamenti, dove alla lor volta i servizi sono compiuti da addetti dello stesso loro tipo.

 

 

136. Dove non esiste la famiglia, domina il programmismo.

 

Una società così composta può essere, per accidente, una società libera; ma è accidente storico. Essa è, fatalmente, destinata ad essere governata secondo un piano, un programma bene congegnato, bene incastrato in tutti i suoi elementi. La casa ad appartamenti è essa stessa un programma. A seconda del numero degli abitanti, delle vie, delle distanze, della localizzazione degli uffici, degli stabilimenti, dei luoghi di lavoro, vi deve essere un optimum nelle dimensioni di ogni singola casa. Trenta, quaranta appartamenti, con altrettante coppie di uomo e donna; tanti pasti in comune e tanti separati, tanti servizi di lavanderia, di stireria, di rammendo, di bucato. Il perito ingegnere od architetto costruisce la casa; altro perito maggiordomo organizza i servizi interni. E così per i servizi esterni: di ristorante, botteghe di caffè e di tè, teatri, cinematografi, asili, scuole, circhi, fori per adunanze e spettacoli. Parimenti per le fabbriche, le manifatture e le imprese agrarie. Uomini periti calcolano i chilogrammi di pane, di pasta, di carni, di pesce, di verdura, di frutta, i capi di vestiario e di scarpe, le lenzuola, i grammofoni, i dischi, le radio, gli apparecchi telefonici, le automobili ecc. ecc. bisognevoli per ogni abitante in media. Poiché i desideri degli uomini sono suppergiù uguali per ogni gruppo di reddito, statistici e contabili fanno i calcoli del fabbisogno; periti tecnici valutano gli ettari, le macchine, le superfici coperte occorrenti per la produzione; e nei luoghi opportuni, tenuto conto dei mari, dei fiumi, dei canali navigabili, delle ferrovie, delle distanze, delle montagne, costruiscono dighe, creano laghi artificiali, fanno impianti idroelettrici, fanno sorgere città industriali, dissodano ed arano e coltivano terreni. Perché l’uomo dovrebbe ribellarsi alla vita comoda, che gli è offerta al minimo costo, nella casa ad appartamenti, con gite in automobile, radio, grammofono, telefono e libri a prestito; e con i bambini curati in scuole ed asili luminosi e sani, e recati sino all’età nella quale potranno cominciare anch’essi a condurre la medesima vita tranquilla e contenta in una casa ad appartamenti nuova di zecca, più comoda e meglio organizzata di quella dei genitori?

 

 

137. Ma, se così piace agli uomini, non è una società di parassiti.

 

Quella che ora è stata descritta non è una caricatura. È l’ideale onesto di molti uomini. Una società, nella quale una parte degli uomini e delle donne abbia ideali simili a questi non è una società corrotta e decadente. Questi uomini e queste donne, che lavorano in uffici ed in fabbriche e ivi danno un rendimento uguale perlomeno al salario ricevuto, possono tenere la testa alta. Non sono parassiti. Hanno gusti uniformi, desiderano i beni ed i servizi che tutti desiderano; non sono pronti a sacrificarsi troppo per le generazioni venture. Poiché lo stato provvede alla istruzione dei figli e li mette in grado di partecipare, a parità con altri, alla gara della vita, perché essi dovrebbero sacrificarsi di più? Poiché tutti coloro che lavorano sono sicuri di una carriera decorosa, poiché qualcuno provvede ai casi di malattia, di infortuni, di disoccupazione, poiché è assicurata una pensione di vecchiaia, vi è ragione di rinunciare a usufruire oggi dei beni della vita per un futuro posto al di là del termine della vita? I figli non godranno dei medesimi vantaggi e maggiori di quelli di cui fruirono i genitori?

 

 

138. È una società di uomini impiegati, ubbidienti. Manca chi comanda.

 

Il vizio di una società cosiffatta è quello di essere composta di onesta gente di tipo normale. Gli uomini nudi o normali hanno l’animo dell’impiegato. Sono nati ad ubbidire. È normale che molti uomini, forse i più, siano nati ad ubbidire. Un esercito è composto di molti soldati e di un solo generale; e guai se tutti i soldati pretendessero di comandare e di criticare gli ordini del generale. Correrebbe diritto alla disfatta. Ma guai anche ad un esercito, di cui i soldati e gli ufficiali subalterni e superiori, su su sino al comandante in capo attendessero sempre, prima di muovere un passo e sparare un colpo di fucile o di cannone, l’ordine del superiore gerarchico! L’esercito sarebbe sopraffatto dall’avversario più agile, più deciso, dei quali i membri fossero forniti, ciascuno entro i limiti del compito ricevuto, di spirito di iniziativa. Vedemmo centinaia, talvolta migliaia di uomini armati arrendersi a un pugno di uomini. Ma i primi aspettavano gli ordini degli ufficiali subalterni, e questi dei superiori e gli ufficiali superiori invano chiedevano nell’ora del pericolo istruzioni al comandante supremo; laddove i secondi erano guidati da un caporale risoluto, il quale aveva visto essere urgente ed efficace intimidire il nemico numeroso con l’uso pronto della mitragliatrice. Così è in una società. Accanto agli uomini che ubbidiscono, i quali compiono degnamente il lavoro ad essi assegnato, adempiono scrupolosamente all’ufficio coperto, vi debbono essere gli uomini di iniziativa, i quali danno e non ricevono ordini, compiono un lavoro che nessuno ha ad essi indicato, creano a stessi il compito al quale vogliono adempiere. La società ideale non è una società di gente uguale l’una all’altra; è composta di uomini diversi, i quali trovano nella diversità medesima i propri limiti reciproci. La società ideale si compone di gente che comanda e di gente che ubbidisce, di uomini al soldo altrui e di uomini indipendenti. La società non vivrebbe se accanto agli uni non vi fossero gli altri. Essa deve espellere dal proprio seno soltanto i criminali, i ribelli ad ogni disciplina sociale, gli irregolari incoercibili; e poiché espellerli non può, deve creare le istituzioni giuridiche necessarie a ridurre al minimo il danno della loro mala condotta. Per tutti gli altri, ossia per la grandissima maggioranza degli uomini viventi in società, l’ideale è la varietà e la diversità. Non esiste una regola teorica la quale ci dica quando la diversità degenera nell’anarchia e quando la uniformità è il prodromo della tirannia. Sappiamo soltanto che esiste un punto critico, superato il quale ogni elemento della vita sociale, ogni modo di vita, ogni costume che era sino allora mezzo di elevazione e di perfezionamento umano diventa strumento di degenerazione e di decadenza.

 

 

139. La teoria del punto critico nella scienza economica.

 

La teoria del «punto critico»[5] è fondamentale nella scienza, sia economica sia politica, degli uomini viventi in società. In economia, dicesi teoria dei gradi decrescenti di utilità. Il primo bicchiere d’acqua ridà la vita all’assetato nel deserto, sicché, per non morire costui è pronto a dare per esso tutta la propria sostanza; il secondo è bevuto ancora con avidità; il terzo ed il quarto sono ancora desiderati. Ma, ad un certo punto, mutevole a seconda delle circostanze, l’offerta non è più gradita; e poi diventa addirittura spiacevole, sinché, crescendo tuttora l’offerta, questa finirebbe per essere reputata nociva e pericolosa e finalmente mortale; come nel caso di straripamenti di fiumi, rotte di argini, distruzioni di case, di raccolti e di vite umane. Il lucro, altissimo dapprima per i beni nuovi, coll’intensificarsi della concorrenza scema, diventa inferiore a quello normale e crescendo ancora l’offerta del bene, dà luogo ad una perdita. I punti critici qui sono due: il primo che fa scendere il lucro al disotto del normale e rende antieconomica, ma tuttavia vitale, l’impresa; il secondo che lo abbassa al disotto dello zero e prelude alla rovina. Tutte le teorie economiche e finanziarie sono pervase da considerazioni relative ai punti critici.

 

 

140. La teoria del punto critico nelle scienze politiche.

 

Così sono anche le teorie politiche. È ragionevole che due sposi cerchino di costituirsi un nido che sia tutto loro proprio e nel tempo stesso non riduca la donna in pochi anni ad un tronco sformato dalla fatica del far cucina, dello strofinare, pulire, lavare e stirare; e perciò la casa ad appartamenti, con servizi centrali, soddisfa ad una esigenza di un certo momento della vita umana. Ma quando l’abitudine della convivenza sia cosa fatta, quando sono passati i primi trasporti dell’amore e siano sopraggiunti i figli, i genitori salgono ad un livello superiore, superano il punto critico morto del loro duplice egoismo individuale se si decidono a rinunciare a qualcuna delle comodità offerte dalla casa ad appartamenti e si muovono verso una più ampia casa ordinaria, verso, se possibile, una casa, anche piccola, ma indipendente, con orto e giardino, nella quale possa vivere non più la coppia degli sposi, che è fatto transitorio, ma la famiglia che è fatto permanente, destinato a perpetuarsi nei secoli.

 

 

141. Il punto critico nell’uso della radio.

 

È ragionevole che ogni famiglia, anche modesta, aspiri al possesso della radio, che la tiene in contatto col mondo, che consente audizioni musicali elevatrici, con minimo costo e senza danno per l’adempimento dei doveri famigliari. Ma la radio fu altresì frutto della rabbia sentita dal demonio che è in noi contro lo spirito di critica il quale conduce gli uomini a ribellarsi contro la ripetizione, contro l’ordinario, contro ciò che tutti dicono e pensano; e in quel giorno l’uomo – demonio inventò questo che può diventare strumento perfettissimo di imbecillimento della umanità quando cada in mano di chi se ne valga a scopo di propaganda. Propaganda orale e vocale, insinuante, quotidiana mille volte più efficace della propaganda scritta e stampata. La voce comanda, ordina di pensare in un certo modo, ingiuria il disubbidiente e lo scettico; e colla figura della ripetizione ottiene effetti sorprendenti di ubbidienza cieca, di persuasione convinta a cui nessuna parola scritta può giungere. Il passaggio dalla radio che allieta ed istruisce e fa dimenticare i dolori, alla radio che è causa di imbecillimento della umanità è graduale. Chi sa premunirsi dall’andare oltre il punto critico nell’uso della radio?

 

 

142. Il punto critico nel numero dei figli.

 

È ragionevole che gli sposi usino prudenza nelle relazioni sessuali sì che il numero dei figli non cresca repentinamente e troppo ed i genitori non siano costretti a fatiche disumane per allevarli e, non riuscendo nell’intento, i figli crescano male educati, rissosi, insofferenti di ogni disciplina e presto dediti al vagabondaggio ed al vizio. Il punto critico sia nel trovare il giusto limite fra l’osservanza del comandamento del crescite et multiplicamini e l’ubbidienza al dovere di dare ai figli salute fisica ed educazione spirituale. Nessun figlio od un figlio solo è dapprima indice di egoismo nei genitori e cagione poscia di ansie continue per la vita e l’avvenire del figlio; ma dodici figli, come usava nelle vecchie famiglie, vuol dire apparecchiare, tra i tanti, una recluta alla delinquenza od alla infelicità, cagione di angoscie ai genitori e di vergogna ai famigliari. Socialmente, ove si ritenga pericolosa la caduta della popolazione di uno stato al disotto di un certo numero, il punto critico si raggiunge quando la fecondità media dei matrimoni non è bastevole a mantenere costante quel numero. Ma il punto critico sociale è sempre la risultante dei singoli punti critici validi per ogni famiglia?

 

 

143. Il punto critico nelle regole monastiche.

 

Come per i singoli istituti sociali ed i diversi costumi, così esiste un punto critico, al di là del quale una società degenera e decade per esagerazione di uno dei suoi elementi. Una società di onesta gente ubbidiente diventa presto vittima del tiranno o morta gora di impiegati e di mandarini, la cui carriera si svolge attraverso ad esami e concorsi, concorsi ed esami, gerarchie di gradi, di onorificenze e di stipendi. Chiamavasi «regola» quella che S. Benedetto, S. Francesco e gli altri fondatori avevano dato agli ordini monastici; così come oggi si chiamano «piani» o «programmi» quelli che i consigli dirigenti delle società comunistiche formulano per la organizzazione del lavoro e la giusta ripartizione del prodotto totale sociale fra tutti i cittadini. La «regola» era fondata sullo spirito di rinuncia dell’individuo, sulla dedizione dei singoli al bene comune, sull’abbandono dei beni terreni per la conquista della felicità eterna. Finché durò lo spirito di rinuncia, di dedizione, di abbandono, conventi e monasteri prosperarono; si dissodarono lande incolte, la vita materiale e spirituale risorse attenuando la ferocia dei costumi barbari, furono coltivate le discipline sacre e profane ed i conventi diventarono fari luminosi di cultura in mezzo alle tenebre medioevali. Giunse tuttavia il momento in che i più degni, i fratelli maggiormente dotati dello spirito di carità, di rinuncia e di ubbidienza riluttarono ad assumere le redini del convento e queste caddero in mano agli ambiziosi, agli ipocriti, a coloro che perseguivano ideali terreni. Dappertutto, a distanza di cento anni dalla fondazione, più o meno, si assiste alla medesima vicenda: un padre guardiano, un priore il quale per adornare meglio l’altare o per fare sfoggio di liete accoglienze ai potenti della terra, esige strettamente le prestazioni dovute dai villani deditizi, i quali avevano donato sé, i famigliari e la terra al convento in cambio di protezione; riduce il cibo ed i vestiti prima ai conversi e poi ai fratelli. L’uguaglianza tra i fratelli ed i conversi è violata a favore dei cadetti delle grandi famiglie feudali; le cariche vengono attribuite a preferenza ai fratelli privilegiati e poi diventano ereditarie; sinché verso la fine del secolo 19esimo l’antica uguaglianza comunistica è venuta meno e sul convento impera l’abate commendatario, designato tra i cadetti della famiglia che forse in origine aveva dotato il convento di qualche terra. I redditi delle terre conventuali sono suoi; ed i frati vivono di questue e di elemosine. Trascurate le sacre funzioni, negletti gli studi, la vita trascorre uniforme nell’adempimento dei riti consueti ed in inutili maldicenze. Sinché i contenti furono poveri, solo gli uomini pronti al sacrificio vi entravano; e questi si dedicavano con entusiasmo a dissodar la terra, a leggere negli antichi codici, a predicare la parola di Cristo; e tra i migliori l’ottimo era, per consenso universale eletto capo. Ma egli non aveva uopo di comandare, ché bastava il suo esempio a fare osservare spontaneamente da tutti la regola. Così il convento prosperava; e le donazioni dei fedeli affluivano; e molti desideravano dedicar ad esso sé e la famiglia ed i beni, sicuri di ottenerne protezione e pace. Ma la ricchezza partorisce la corruzione; agli uomini del sacrificio si aggiungono i procaccianti, gli amanti della vita detta contemplativa perché comoda. I grandi destinano al convento i cadetti e questi ambiscono i posti di comando; e così ha inizio la decadenza.

 

 

144. Il punto critico nelle società comunistiche. Il programma nelle scoperte scientifiche, nelle opere letterarie ed artistiche.

 

Non diverso è il giudizio sulle società comunistiche, dove si è oltrepassato il punto critico dell’equilibrio tra la sfera pubblica e quella privata; e tutti i mezzi di produzione sono divenuti pubblici. Se tutti gli uomini fossero nati all’ubbidienza e se esistesse un mezzo di selezione per cui i migliori fossero portati ai posti di comando, quella società potrebbe vivere e se non grandeggiare, rendere contento l’universale. Ma ridotta nelle campagne la sfera privata a quella d’uso, all’economia della casa dove la famiglia vive, dell’orto e del giardino, degli animali da cortile e di quell’unico grosso capo il quale può essere alimentato coll’erba del breve terreno circostante alla casa; scomparsa del tutto ogni sfera privata nelle città all’infuori delle poche camere d’abitazione, subito si vede quanto sia grande il potere di coloro che stanno ai posti di comando, là dove si compilano i piani della produzione e si sovraintende alla loro esecuzione. Ai posti di comando si delibera quanta parte dei fattori di produzione – terre, macchine, scorte, lavoro – debba essere destinata a produrre beni strumentali (risparmio-investimenti) e quanta a produrre beni di consumo. Se i dirigenti hanno l’occhio intento più al futuro che al presente, minore sarà la quota destinata a produrre beni presenti e più basso il tenore di vita della popolazione. Il lavoro, impiegato a costruire ferrovie nuove, a regolar fiumi, a contenere acque ed a renderle atte a produrre energia elettrica od a irrigar campi non può essere contemporaneamente destinato a produrre frumento o carni o latte o vestiti o case. Se i dirigenti paventano o desiderano guerra di difesa o di conquista, hanno il potere di destinare i fattori produttivi a creare mezzi strumentali di guerra invece che di pace. Per ciò che si riferisce ai beni di consumo, essi hanno il potere – e perché, avendolo, non lo userebbero? – di scegliere quei beni i quali, secondo il loro criterio, sono più utili ai consumatori. Al luogo della domanda volontaria essi hanno la facoltà di porre un loro proprio criterio, il quale potrà essere oggettivo, scientifico, ad es. l’ottima dieta alimentare calcolata con i più perfetti metodi consigliati dalla fisiologia e dall’igiene, ma è diverso da quello che spontaneamente sarebbe adottato dagli uomini consumatori. Se trattasi di beni di consumo durevoli, gli ordinatori del piano hanno il potere di dichiarare preferenze per le vetture automobili, o per gli apparecchi radio o per quelli telefonici, o per una camera di più; e la scelta può essere determinata da ragioni economiche o politiche o propagandistiche. Chi, se non le autorità dei piani, deciderà quali classici debbano essere ristampati, quali correnti di idee diffuse nei libri, nelle riviste e nei giornali? Chi sceglierà, fra le innumerevoli proposte di invenzioni, quelle le quali meritano di essere sperimentate e poi attuate? Chi adotterà metodi, diversi da quelli usati, nel produrre, nel vendere, nel trasportare? L’unico criterio il quale sembra dovere essere accolto è quello consigliato, comandato dalla scienza. Il programma, se non è di umiliazione, come nei conventi, alla volontà di Dio, di rinuncia ai propri desideri a vantaggio altrui, non è nulla se non è razionale. Solo la ragione, guidata dalla scienza, decide le scelte che devono essere compiute dai dirigenti fra le tante vie le quali si presentano dinnanzi ad essi. La scienza di chi? La scienza teorica insegnata nelle scuole, accolta dagli scienziati già famosi; la scienza applicata con successo da tecnici accreditati, i quali hanno già fatto le loro prove; ovvero la scienza la quale si oppone ora ai principi accolti, che pretende di scuoterne le fondamenta astratte e le applicazioni concrete? I dirigenti del piano non possono arrischiare le risorse, sempre limitate, della collettività in esperimenti, i quali potrebbero riuscire male. Affideranno il nuovo, il mai tentato, l’innovatore ad un laboratorio studi, a uso istituto universitario sperimentale. Frattanto, il metodo usato sarà quello già provato, già sperimentato. Una società a programma non può subito tentare il nuovo. Che se, nelle cose riguardanti la materia, la produzione dei beni materiali, le invenzioni finiranno pur sempre, essendo apprensibili dalla ragione, con l’essere accolte, quali probabilità ci saranno che il nuovo e il diverso trovino accoglienza nelle cose dello spirito? Quale la sorte di colui il quale affermasse che, accanto ai libri indirizzati a spiegare ed a descrivere il «programma», a dimostrarne la razionalità, a chiarire i vantaggi del consumare quei tanti grassi e proteine e vitamine le quali compongono l’ottima razione posta dai dirigenti a disposizione dei consumatori, devono essere pubblicati libri i quali cerchino di dimostrare la necessità di lasciare ai dirigenti il piano alimentare la mera facoltà del consiglio, non mai della decisione? Spettare questa decisione all’uomo singolo, al quale deve essere riconosciuto il diritto di non seguire i piani ottimi dei dirigenti, di mettere sotto i piedi i consigli più razionali della scienza; di preferire il pane di segala, se così gli talenta, a quello di frumento, pur maggiormente nutritivo, di mettere la polenta al disopra della carne; di non volerne sapere della radio o del telefono o dei giornali pubblicati col consenso dei dirigenti intellettuali; ma di volere invece dar opera a restaurare una cappella distrutta dagli atei o di voler acquistare un giornale straniero, il quale ogni giorno pubblica critiche delle economie a programma ed insegna che i programmi consacrano l’onnipotenza dei dirigenti?

 

 

145. Il bando agli eretici, l’ostracismo ai ribelli al programma.

 

Come nei conventi, coloro i quali non credono nella «regola» e discutono qualcuno degli articoli di fede su cui la regola è fondata, sono eretici vitandi e, scomunicati, sono posti al bando della comunità, così i ribelli ai principi medesimi del programma in una società comunistica sono corpi estranei, i quali non possono essere tollerati. Anche se si fa astrazione dallo sterminio fisico dei milioni di eretici, presunti tali perché appartenenti ai ceti dell’aristocrazia o della borghesia o della vecchia intelligenza, anche se non si voglia, contro le offerte testimonianze, prestar fede ai processi contro gli eretici usciti fuori dalle file medesime dei comunisti ma non ossequenti in tutto al comando dei dirigenti, è evidente che in una società programmata o comunistica il dissidente, colui che nega il diritto dei dirigenti di decidere al luogo dei singoli uomini nelle cose che li riguardano singolarmente non può né ora né poi né mai essere tollerato. In tempi divenuti più gentili, meno feroci per essere oramai il sistema saldo in arcione, l’eretico deve essere se non soppresso, messo al bando. L’ostracismo è la sanzione più tenue si possa immaginare contro il ribelle ai programmi. La scelta dei nuovi dirigenti è fatta in ragione dell’ossequio prestato a coloro i quali già si trovano a capo dei corpi, dei consessi direttivi dei programmi. Prima importa essere ammessi a dirigere; e poi si potrà dimostrare che la via seguita fino ad ora non è in tutto razionale, ma può e deve essere modificata in ossequio alla ragione. Il dettame della scienza deve, prima di diventare norma di condotta, passare attraverso alla trafila degli organi costituzionali. Giova ciò al progresso della scienza e delle sue applicazioni? Anche se non si voglia risolvere il quesito, importa constatare che il metodo dei programmi applicato a tutta la vita, quella materiale e quella intellettuale, accentua il carattere di uniformizzazione, di livellamento, di adeguamento ad un metro comune che è proprio della civiltà moderna industriale e ne costituisce uno dei maggiori pericoli. In omaggio alla ragione, in ossequio alla scienza, la vita che è il nuovo, che è l’insolito, che è varietà, che è contrasto, che è dissidio, che è lotta, perde la sua medesima ragione d’essere.

 

 

146. Il punto critico segna il passaggio dagli uomini vivi agli automi.

 

Ancora una volta, coll’estendere il programma fuori della sua sfera propria, che è quella pubblica, alla sfera che è invece propria dell’individuo, della famiglia, del gruppo sociale, della vicinanza, della comunità, della associazione volontaria, della fondazione scolastica benefica educativa, tutti istituti coordinati bensì ed interdipendenti ma forniti di propria vita autonoma, di propria volontà, noi abbiamo oltrepassato il punto critico. Siamo di fronte non ad una società di uomini vivi, ma ad un aggregato di automi manovrati da un centro, da una autorità superiore. Sinché in costoro non siano ancora spenti altri impulsi, altri sentimenti ereditati dalle generazioni passate, succhiati col sangue materno, appresi dalla tradizione degli avi, questi automi saranno dei magnifici soldati pronti ad ubbidire al comando di chi ordina loro di farsi uccidere; ma non sono cittadini consapevoli, non sono uomini, i quali a chi comanda di compiere un atto contro coscienza sappiano rispondere: no, fin qui comanda Cesare, al di qua ubbidiamo solo a Cristo ed alla nostra coscienza.

 

 

147. La società di uomini liberi è un fatto morale. Essa esiste anche nelle galere.

 

Quale è dunque la società, nella quale gli uomini si sentano veramente liberi e liberamente operino? La risposta è venuta da Socrate, è venuta da Cristo. Non dalla società la quale circonda l’uomo viene la libertà; ma dall’uomo stesso. L’uomo deve trovare in se stesso, nel suo animo, nella forza del suo carattere la libertà che va cercando. La libertà è spirito non è materia. Il prigioniero, il quale potrebbe acquistare la libertà se chiedesse grazia al tiranno e non la scrive perché non riconosce nel tiranno e nei suoi giudici la potestà di giudicarlo, è uomo libero. L’eretico, il quale potrebbe coll’abiura od anche solo colla dissimulazione, l’ebreo, il quale potrebbe, facendosi marrano, salvare la vita, ed invece confessa la sua fede e cammina diritto verso il rogo, è uomo libero. Il pensatore potrebbe dichiarare nel libro apertamente il suo pensiero, purché nella dedica, nella prefazione e nella chiusa avvertisse che i principi da lui esposti si muovono in un campo terreno ed astratto e non infirmano l’osservanza dovuta ai precetti della religione dominante od ai comandamenti della setta che è padrona dello stato. Se non scrive la dedica perché sente che il suo pensiero mina appunto quella religione o il potere di quella setta e non la scrive, pur sapendo di correre il rischio di prigionia o di morte, quegli è uomo libero.

 

 

148. La libertà può esistere nei conventi e nelle imprese comunistiche; ma può esistere anche, fuori degli uomini gregari, tra artigiani, capitani d’industria, agricoltori, professionisti, artisti.

 

La libertà, che è esigenza dello spirito, che è ideale e dovere morale, non abbisogna di istituzioni giuridiche che la sanciscono e la proteggono, non ha d’uopo di vivere in questa o quella specie di società politica, autoritaria o parlamentare, tirannica o democratica; di una particolare economia liberistica o di mercato ovvero comunistica o programmata. La libertà esiste, se esistono uomini liberi; muore se gli uomini hanno l’animo di servi. I fratelli che si riuniscono a vita religiosa, e rinunciando ai beni del mondo, mettono tutte le loro ricchezze in monte per sé e per i poveri, e conducono quella vita che al padre guardiano piace di ordinare e consumano quei cibi e vestono quei panni che sono ad essi distribuiti d’autorità, quei fratelli sono liberi nella società comunistica che essi ogni giorno consapevolmente vogliono e ricreano. Potrebbero uscire dal convento; ma poiché volontariamente vi rimangono, si riconosca che quella società comunistica è un frutto della libera determinazione. Quegli operai, i quali, volendo sottrarsi alle dipendenze di un imprenditore, hanno, con lunghi mesi di rinuncia, risparmiato inizialmente il fondo necessario ad acquistare badili e zappe e vanghe e carrette e cavalli ed a mantenere nell’attesa se stessi e la famiglia ed hanno costituito una cooperativa, inspirata al principio: tutto il prodotto del lavoro a chi lavora ed hanno, fattisi terrazzieri, assunto un appalto di lavoro e quel lavoro hanno compiuto a regola d’arte; ed avendolo meritato, hanno ottenuto il credito necessario ad allargar l’impresa; ma sempre perseverarono nel principio che tutti i nuovi lavoranti, dopo bastevole prova di onestà e di laboriosità, diventassero soci e sempre, tratti dal loro seno, ebbero capi pronti ad ordinarne la fatica, con remunerazione non diversamente misurata da quella dei gregari; quegli operai, anche essi, sono uomini liberi, sebbene ed appunto perché essi persistono nel condursi vicendevolmente secondo principî comunistici, conservando in comune gli strumenti della produzione e ripartendo tra i singoli soltanto i frutti del lavoro comune. Ma è anche libero l’artigiano, proprietario della bottega, del macchinario, degli utensili e delle scorte, il quale acquista sul mercato le materie prime, assolda, pagando il salario corrente, i garzoni di cui si aiuta e vende il prodotto direttamente alla clientela. Nessun cliente è costretto, dall’amicizia, dalla vicinanza, o da vincoli legali a servirsi di lui; nessun apprendista o garzone è legato, ognuno potendo offrire ad altri i propri servigi ed i più irrequieti si muovono infatti frequentemente dall’uno all’altro, né è grave la difficoltà per il giovane laborioso e di buona volontà, di mettere su bottega per proprio conto. L’artigiano trova libertà nella letizia del lavoro compiuto, nella soddisfazione di averlo condotto a termine a perfetta regola d’arte, nella meritata lode del cliente. In una economia di mercato, non programmata dall’alto, molti imprenditori ed operai, proprietari e contadini e professionisti sono uomini liberi. Forse non sanno di esserlo; ma di fatto sono. L’industriale, il quale è riuscito a produrre una data merce ad un costo minore dei concorrenti e ne ha cresciuto lo spaccio, con risparmio dei consumatori e vantaggio proprio, il quale, forse senza proposito deliberato, ha contribuito con la sua domanda e grazie all’incremento del prodotto, a migliorare il compenso pagato agli operai nella sua industria, sente di essere stato qualcheduno, sente di aver creato qualcosa che prima non esisteva. Se anche la sua creazione è effimera, ha recato, finché durò, vantaggio a qualcuno. L’orgoglio che egli sente, forse grossolano, forse oggetto di compassione per gli eredi di una secolare fine educazione, è orgoglio d’uomo, di uomo che volle e riuscì. I suoi sentimenti paiono terra terra; né egli innalza lo sguardo verso l’alto; ma senza il demone interiore che agitava il suo spirito, egli non avrebbe creato qualcosa. Il proprietario il quale, giunto verso la sera della vita, ricorda i lunghi decenni durante i quali egli ha rinunciato a godere il frutto della sua terra e col risparmio così compiuto, l’ha trasformata con strade nuove e case ricostruite e spianamenti ed impianti di frutteti o di vigneti o di oliveti o con opere di irrigazione, sicché dove viveva miseramente una famiglia, oggi due o tre famiglie traggono vita decorosa, sente, anch’egli, di aver creato qualcosa. Quelle case, quegli spianamenti, quegli alberi fruttiferi, quei campi fecondi sono cose materiali sì, ma sono creazioni del suo spirito, che volle quel risultato invece di altre cose materiali che avrebbe potuto godere lungo quel mezzo secolo: dal fumo delle sigarette, a cui rinunciò, all’eccitazione del gioco, dai viaggi con amici o famigliari ai pranzi in lieta compagnia, dalla frequenza a spettacoli agli sport invernali. La volontà sua libera decise altrimenti ed egli ora si compiace di avere fatto quell’uso della sua libertà. Così l’avvocato, ripensando la sera al lavoro della giornata trascorsa, ricorda di avere licenziato il cliente che gli faceva sperare forte lucro se avesse consentito a difendere una causa ingiusta e si compiace del buon consiglio, dato ad altro cliente con modico compenso, di transigere, a risparmio di spese forensi e giudiziarie, una lite pur fondata su sicure ragioni. Così il medico medita sulla diagnosi che gli fa sperare di ridonar presto la salute ad un ammalato od all’altra che gli ha fatto sconsigliare un intervento chirurgico, lucroso per lui ma inutile per il cliente, oramai condannato. La voce della coscienza gli dice: anche se non avrai coltivato, prolungandola innocuamente, la malattia dell’uno e sfruttato la speranza di salvezza dell’altro cliente, tu hai compiuto il tuo dovere. Hai usato della tua libertà per rinunciare al vantaggio che poteva venirti dal danno altrui; epperciò tu sei uomo libero.

 

 

149. I nemici della libertà possono esistere in tutti i tipi di società economiche.

 

Sì; in ogni tipo di società e di economia, l’uomo che ubbidisce alla voce della coscienza, è libero. La libertà individuale, dell’uomo consapevole, dell’uomo che sa di dovere ubbidire alla voce del dovere non dipende da fatti esteriori come l’organizzazione sociale e politica. Queste sono non la causa, ma il risultato della libertà o della sua mancanza. Se in una società esiste un bastevole numero di uomini veramente liberi, non importa quale sia la sua organizzazione economica sociale o politica. La lettera non potrà uccidere lo spirito. Una economia comandata o programmata dall’alto presuppone o cagiona od in ogni modo è inscindibilmente collegata con la tirannia dei pochi e la servitù dei più, se nei pochi e nei più manca il sentimento della libertà, se i pochi intendono giovarsi del potere per affermare la propria dominazione ed i più si acquetano al comando e perfezionano le qualità di intrigo di adulazione e di ubbidienza cieca che giovano a far ascendere a posti di comando. Ma se domini invece senso del dovere, coscienza civica, abnegazione individuale, rispetto alla persona altrui, potranno essere commessi errori, i risultati ottenuti potranno essere inferiori a quelli ideali sperati; ma quella sarà la società voluta dalla coscienza collettiva. E se così è, perché altri può asseverare non esistere libertà? è nemico di libertà tanto il legislatore il quale vieta al fratello di rinunciare al voto professato altra volta ed oggi non più rispondente alla coscienza, quanto quegli il quale espelle a forza i fratelli dal convento dove essi liberamente intendono rimanere. È nemico di libertà tanto il governante il quale usa la forza legale o morale per costringere l’uomo a lavorare nella fabbrica appartenente allo stato quanto quegli che, in una economia di mercato, vieti od impedisca, a chi vuole vivere comunisticamente, di costruire una impresa informata a criteri contrari alla proprietà individuale dei mezzi di produzione. Gli eretici hanno ragion di vivere in ogni tipo di società; sia che, in una economia di mercato, eretici siano coloro i quali volontariamente deliberano di mettere sforzi e risparmi in comune e ripartire il frutto del lavoro presente e di quello passato secondo la regola del bisogno od altra voluta dalla comunità, sia che, in una economia comunistica, eretici siano coloro i quali deliberano di non lavorare in comune e di ripartirsi tra loro i frutti dell’impresa individuale secondo le regole dello scambio in libera contrattazione. Dove gli ortodossi sono tali per comando dall’alto e gli eretici sono messi al bando dall’acqua e dal fuoco; dove è impossibile la fuga degli anacoreti nel deserto o nella foresta, ivi non è libertà, se non per i santi e gli eroi.

 

 

150. Della libertà desiderata dall’uomo comune e delle forze sociali contrarie alla tirannia.

 

Neghiamo forse così l’insegnamento il quale afferma il dominio dello spirito sulla materia, la indipendenza della libertà dalle istituzioni sociali e politiche ed ordina all’uomo: cerca la libertà in te stesso, nella tua volontà di essere libero? No. Accanto alla libertà dell’eroe che sfida la galera, del martire il quale confessa la fede in Cristo dinnanzi alle belve del circo, del pensatore, il quale, ignorando il tiranno e reputandolo non esistente, dichiara la verità senza preoccuparsi delle conseguenze di essa, vi ha invero la libertà dell’uomo, dell’insegnante, dell’artista, del contadino, del risparmiatore, del lavoratore, del giornalista, dell’amministratore pubblico, del cittadino comune, in genere, il quale vuole godere della libertà pratica, della libertà intesa e desiderata dalla maggior parte degli umani: quella di pensare ad alta voce, di scrivere e di pubblicare quel che ad ognuno capita di pensare e di voler scrivere senza essere guidato e diretto da una autorità superiore coattiva; di operare e lavorare e muoversi senza dovere obbedire ad altre regole se non quelle dichiarate in leggi scritte, deliberate da organi legislativi eletti secondo la volontà liberamente e segretamente manifestata da tutti gli uomini; di lodare biasimare, senza ingiuria o calunnia, legislatori e governanti senza tema di carcere, di multe o di confische; di tentare di cacciar di seggio il governo in carica se a taluno riesca di conquistare la maggioranza degli elettori o degli eletti; di rimanere al governo sinché non si sia cacciati via dalla maggioranza medesima degli elettori e degli eletti; di condurre la propria vita, da solo od associato ai propri compagni di lavoro, costruendo imprese individuali od associate o cooperative o comunistiche, entro limiti posti dalla legge esclusivamente allo scopo di impedire che ognuno danneggi l’uguale diritto altrui a condurre medesimamente la propria vita a proprio piacimento. L’uomo della strada, l’uomo comune, quando cerca di riassumere in poche parole quella che egli intende per libertà, è portato ad identificarla con uno stato di cose nel quale non esista il tiranno, il dittatore in tempo di pace, sia che il tiranno a sua volta ubbidisca alla volontà dei pochi sia che si faccia eco o sfrutti la volontà o gli oscuri desideri delle moltitudini. Egli sa che la mala pianta della tirannide, coll’accompagnamento necessario dello stato di polizia, della mancanza della indipendenza della magistratura, dello spionaggio universale e persino famigliare, della soppressione della libertà di stampa e della sostituzione ai giornali dell’unico bollettino, con titoli diversi, della voce del padrone, della riduzione ad uno solo dei partiti politici, delle elezioni plebiscitarie al 99% dei sì, prospera volentieri in un dato clima economico e preferisce perciò una struttura della società nella quale al sorgere del tiranno siano posti argini variamente efficaci di forze sociali avverse per indole propria alla tirannia. Egli sa che la tirannia è vicina quando esista una disparità notevole nelle fortune e nei redditi dei cittadini, sicché accanto a pochi ricchissimi si osservino moltitudini di nullatenenti e non esista un numeroso e prospero ceto medio; sì che il tiranno può venir fuori sia dai pochi desiderosi di disporre di uno strumento della propria dominazione economica, sia dai molti ai quali il demagogo ambizioso di conquistare il potere assoluto prometta il saccheggio delle ricchezze dei pochi. Egli sa che la tirannia è vicina ed anzi è già quasi in atto quando lo stato abbia cresciuto siffattamente i suoi compiti che troppa parte della popolazione attenda i mezzi di esistenza da un pubblico impiego in una delle tradizionali pubbliche amministrazioni ovvero in qualcuna delle nuove gestioni industriali assunte dallo stato; poiché quando l’uomo dipende per il pane quotidiano da un funzionario statale il quale sta al disopra di lui, e questi a sua volta dipende da un funzionario ancor più alto situato, nasce una gerarchia di uomini ubbidienti invece di una società di liberi cittadini. Perciò l’uomo della strada, nemico del tiranno e desideroso di vivere liberamente così come piace all’uomo comune, desideroso di pace e di giustizia, involontariamente, pur non avendo notizia di alcuna teoria in proposito, aborre dai tipi di società i quali si avvicinino al punto critico; aborre cioè ugualmente dalle società dove la ricchezza è concentrata in poche mani come da quelle nelle quali i beni strumentali, i cosidetti strumenti della produzione, sono posseduti da una mitica cosidetta collettività, che vuol dire il gruppo politico o sociale impadronitosi del potere, qualunque sia la formula, nazionalistica o razzistica o comunistica, con la quale si sia giustificata la conquista del potere. Egli sa o sente che questi tipi di società e di governo tendono alla tirannia ed, essendo instabili, abbisognano di sempre nuove conquiste e sono perciò inesorabilmente tratti alla guerra.

 

 

151. La riprova tratta dalla esperienza di un paese dove esistono le condizioni favorevoli alla libertà e contrarie alla tirannia.

 

L’uomo comune aspira dunque, come sempre accadde in passato e sempre accadrà, ad un ideale; ha dinnanzi agli occhi un suo paradiso in terra. È un ideale, che i cantori dell’eroico, che gli ammiratori del superuomo, che gli spregiatori delle cose umili e dei propri simili, guardano forse con disprezzo e reputano troppo terra a terra. È l’ideale della maggioranza dei cittadini del paese del quale in questo momento, pur ansiosi di tornare in patria, siano gli ospiti. È un paese dove non esistono i ricchissimi e dove il numero dei grandi ricchi va rapidamente diminuendo; dove le fortune non tendono ad uguagliarsi, ma il distacco fra i redditi minimi ed i massimi va scemando; dove la confederazione ed i cantoni acquistano sempre nuovi compiti sociali ed economici, dopo lunghe defatiganti discussioni le quali si concludono in assensi quasi unanimi; dove comuni, cantoni e confederazione sono gelosi tutori delle proprie autonomie e non soffrono invadenze altrui; dove le varie nazionalità convivono concordi in una emulazione feconda; dove i partiti più diversi coesistono non solo nei parlamenti ma nei governi; e nei consigli di stato dei cantoni e nel consiglio federale collaborano conservatori e radicali, liberali e socialisti, protestanti e cattolici, in modo siffatto che la deliberazione del collegio diventa la volontà dei singoli i quali, all’atto di entrare nel collegio, hanno rinunciato ad essere il portavoce della propria parte. In questo ospitale paese, il tiranno non incute soltanto orrore, come accade anche nei paesi che gli prestano ubbidienza forzata, ma desta sentimenti di attiva repugnanza e contrasto. Se si indaga la ragione della repugnanza, una se ne scopre, e principalissima, nella costruzione medesima di questa società libera: la varietà e la autonomia delle sue forze economiche sociali e politiche. Esistono numerosi dipendenti dallo stato: ma dipendono da enti diversi ed autonomi: da comuni, da cantoni, dalla confederazione, da enti pubblici forniti di vita propria. I dipendenti pubblici talvolta sono eletti dal popolo, talaltra sono nominati dall’alto; e spesso non hanno dinnanzi a sé una carriera, l’ambizione di percorrere la quale li renda mancipi ed adulatori dei superiori. I proprietari di terreni sono numerosi; e sebbene esista varietà grande nella grandezza del possesso, non si conoscono latifondi, salvo che per le montagne e foreste comunali. L’industria è sviluppata e moderna; ma non esistono colossi sopraffattori, anche per la mancanza di materie prime e di carbone, che fortunatamente costringe la Svizzera ad acquistarli vendendo all’estero al minimo costo manufatti e macchinari di qualità a prezzi di concorrenza. Sicché, essendo tante le forze sociali, di artigiani, di contadini, di proprietari, di industriali, di commercianti, di professionisti, le quali sono indipendenti dallo stato e fra loro contrastanti, la tirannia non trova il luogo propizio al suo prosperare e la libertà amata dall’uomo comune trionfa ed ai nostri occhi invidiosi appare incrollabile. Ho parlato di un’utopia ed ho analizzato, così come deve fare l’uomo di studio, un fatto? A noi che contempliamo angosciati lontani dalla patria la fine sanguinosa miseranda di un esperimento che si disse eroico, che si affermò inspirato ad ideali patriottici di grandezza, lo spettacolo di libertà e di concordia fervida di discussioni e di contrasti che vediamo attorno a noi sembra un racconto di utopia; ma poiché esso esiste e poiché anche in Italia, qua e là in diverse regioni ed or sì or no in tempi diversi, quell’utopia fu una realtà, dobbiamo concludere che l’analisi fatta in quest’anno di alcuni fattori di una struttura sociale stabile non fu una professione di fede, sibbene una ricerca obbiettiva delle leggi scientifiche di alcuni aspetti della realtà. Che monta se talvolta il rimpianto di una realtà che avrebbe potuto essere diversa da quella che fu ha dato alle mie parole un colore passionale che non doveva essere e non era nelle mie intenzioni? Voi che mi avete ascoltato, mi avete già perdonato e al di là del linguaggio, talvolta apparentemente oratorio, avete visto il contenuto, che è puramente di esposizione di relazioni di interdipendenza e di causalità.

 

 

Basilea-Ginevra-Losanna, fine settembre 1943-10 dicembre 1944.

 

 



[1] La parte III contiene la materia delle prime lezioni che l’A. si riprometteva di tenere nel semestre invernale del 1944 all’Università di Ginevra; per cause di forza maggiore il corso non ebbe inizio e anche la stesura delle lezioni rimase interrotta.

[2] L’aggettivo improprio «capitalistico», che egli non riesce però a definire, invece del qualificativo neutro o tecnico «di mercato» è correntemente usato da JOSEPH A. SCHUMPETER nell’opera Capitalism, Socialism and Democracy, London, 1943. I dati riferiti nel testo si leggono a pp. 192-93.

[3] COSTANTINO BRESCIANI-TURRONI, Introduzione alla politica economica, Torino 1942, p. 361.

[4] Rimane impregiudicato il punto «quali» beni strumentali convenga siano geriti dall’ente pubblico; e se non si debba qui distinguere fra beni strumentali i quali, per la loro indole particolare, siano atti alla proprietà e gestione pubblica e beni strumentali atti invece alla proprietà e gestione privata. Se anche dovessero per eredità cadere in proprietà dell’ente pubblico beni capitali appartenenti alla seconda categoria, sarebbe sempre possibile, per mezzo di scambi di mercato, addivenire ad una opportuna redistribuzione.

[5] Meglio di ogni altro Emanuele Sella ha esposto, sapendo di illustrare un punto fondamentale della scienza, la teoria del punto critico, la quale perciò si dovrebbe intitolare al suo nome.

Di alcuni problemi di politica sociale

Di alcuni problemi di politica sociale[1]

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 39-168

 

 

 

 

Capito I. I presupposti teorici della legislazione sociale

 

22. I presupposti teorici della legislazione sociale.

 

L’argomento della presente lezione è: I presupposti teorici della legislazione sociale[2]. Come accade per i titoli di tutte le lezioni, di tutti gli articoli e di tutti i libri, anche per questa lezione fu necessario ridurre al minimo le parole usate; e perciò è giusto dare qualche spiegazione intorno ai due aggettivi sociale e teorico:

 

 

  • legislazione sociale, in quanto è la parola più larga che si poteva adoperare per riassumere tutto quello che è intervento dello stato nelle cose sociali;
  • presupposti teorici, in quanto ebbi lo scopo di limitare a me stesso il campo della trattazione. In questa sala ancora arriva l’eco delle lezioni che tanti anni fa hanno tenuto in un’altra aula, in quella proprio a questa contrapposta, Leon Walras e Vilfredo Pareto, i due grandi che, creando la «Scuola di Losanna», hanno informato la scienza economica di tutto il mondo per almeno due terzi di secolo, e quell’eco mi dice che il nostro dovere di economisti, è quello di tenerci stretti e limitati al nostro specifico compito, di evitare qualsiasi divagazione e di usare nelle investigazioni che facciamo, quegli strumenti che gli economisti hanno imparato ad usare sempre meglio in due secoli (la nostra scienza ha suppergiù questa età) ed hanno dato prova di avere qualche efficacia nel campo investigativo. Se usciamo da questo nostro campo specifico potremo diventare politici, propagandisti, moralisti; cesseremo perciò di essere quel per cui possiamo dire qualcosa che meriti di essere ascoltato.

 

 

23. Il concetto di concorrenza.

 

C’è uno strumento noto, da tutti conosciuto, ma che per lo più è assunto secondo altri punti di vista, come se si trattasse di una istituzione storica o politica o giuridica[3]. Per noi economisti esso è semplicemente uno schema astratto che noi adoperiamo allo scopo di trovare una via per penetrare dentro la realtà.

 

 

Gli economisti si trovano di fronte ad una realtà più complessa di quella che si presenta ai fisici, ai chimici, ai naturalisti, agli astronomi, ecc. ecc. Noi non possiamo servirci dei loro strumenti di indagine e sovratutto di quello dell’esperimento combinato con il ragionamento, e dobbiamo per conseguenza inventare qualche imperfetto surrogato col quale si tenta di vedere la realtà attraverso una sua semplificazione. Non possiamo, come il chimico fa nei suoi crogiuoli, combinare i diversi elementi primi di una società e, variandone le dosi a piacimento, osservare le leggi del suo comportamento Non possiamo creare società; dobbiamo limitarci ad osservarle. Invece della compiuta realtà, afferriamo una parte sola di essa e ce ne serviamo allo scopo di penetrare dentro qualcuno degli aspetti della realtà intiera. Le conclusioni sono parziali; esse non sono vere di tutta la verità, ma ci servono per poter poi riuscire a capire qualcosa della realtà.

 

 

Quando hanno immaginato lo strumento di indagine detto della concorrenza, che cosa hanno voluto dire gli economisti? Essi hanno supposto un mondo con molti compratori e venditori, molti produttori e molti consumatori. Ognuno di questi lo supposero di certe non troppo grosse dimensioni; nessuno talmente grosso da poter con la sua azione influenzare l’azione degli altri. Ancora: tutti coloro che intervengono sul mercato – produttori e consumatori – sono mobili, e non solo possono muoversi, ma entrare liberamente in ognuno degli impieghi, professioni e mestieri, in ognuno dei mercati ed anche uscirne quando lo vogliano. Costoro hanno quel grado di prevedibilità massima che gli uomini possono avere. Cercano di intuire, di prevedere gli avvenimenti entro i limiti in cui l’occhio umano può farlo. Dispongono delle loro forze di lavoro e degli altri fattori di produzione (capitali materiali) per frazioni divisibili e possono quindi aumentare o diminuire i loro investimenti di lavoro o di risparmio a seconda della loro convenienza. Ancora i fattori produttivi sono riproducibili, in modo che le quantità ulteriori non presentino maggiori difficoltà di procacciamento di quelle precedenti.

 

 

Se noi supponiamo che lo schema astratto si attui, se noi supponiamo di vivere, di ragionare in un mondo in cui sia vera la ipotesi astratta della concorrenza, arriviamo al risultato che i prezzi praticati sul mercato sarebbero uguali a quelli che si chiamano i costi di produzione. Ciò vuol dire, che ognuno riceverebbe come prezzo dei propri prodotti, dell’uso del proprio capitale e delle proprie forze di lavoro, quella remunerazione che corrisponde esattamente al costo, al merito, al contributo fornito alla produzione complessiva.

 

 

Ognuno dei produttori, spinto dal proprio interesse personale, andrebbe avanti nell’applicazione dei propri fattori produttivi, lavoro, terra, capitali materiali, sino al punto nel quale il compenso ricevuto sia ancora uguale al costo dello sforzo sostenuto. L’impiego di tutti i fattori produttivi sarebbe un impiego di equilibrio, dato il quale non si otterrebbe in nessun punto una remunerazione maggiore di quella che si ha in ogni altro punto. Se per avventura in qualche impiego si manifestasse un margine oltre il compenso ordinario, subito quel margine verrebbe assorbito dai fattori mobili che esistono sul mercato, i quali si sposterebbero verso quell’impiego così da fare scomparire con tutta rapidità quei profitti che si fossero per qualche attrito manifestati. Né è necessario che lo spostamento abbia luogo, se non per eccezione, ad opera dei fattori già impiegati. Ogni giorno nuovi risparmi si formano; ogni giorno nuovi uomini giungono all’età produttiva. Basta lo spostamento dei nuovi sopravvenuti per ricondurre all’uguaglianza la remunerazione marginale dei fattori produttivi.

 

 

24. In regime di concorrenza non esistono problemi sociali di intervento dello stato.

 

È evidente che se questo schema astratto che gli economisti hanno inventato allo scopo di capire qualche cosa di ciò che accade nella realtà, si verificasse di fatto, il problema di questa lezione non esisterebbe né ci sarebbe occasione di parlare dell’intervento dello stato nelle cose economiche.

 

 

L’intervento non avrebbe ragione di essere quando ognuno fosse pagato in ragione dei propri meriti. Quando non ci fossero sacche di extra guadagni, lo stato non avrebbe ragione di intervenire. Le cosidette questioni sociali non esisterebbero. Gli imprenditori[4] sarebbero indotti a spingere l’impiego dei fattori produttivi sino a che la remunerazione pagata ad ognuno di essi non fosse superiore alla loro produttività marginale ed effettuerebbero l’impiego dei vari fattori produttivi uniformemente in guisa che la produttività marginale e la remunerazione fossero eguali per tutti i fattori produttivi e la somma delle remunerazioni eguagliasse il prezzo ricavato dal prodotto. Dico che la somma delle remunerazioni uguaglierebbe il totale ricavo della vendita del prodotto, perché ogni unità del prodotto sarebbe venduta, anche se ottenuta a costi più bassi ad un prezzo uguale al costo dell’unità marginale; ed ogni unità di fattore produttivo sarebbe remunerata con un compenso uguale al compenso marginale, non potendosi dare nel medesimo mercato due prezzi diversi per unità uguali di un medesimo bene o servizio. Il ricavo totale della produzione uguaglierebbe cioè il totale dispendio delle remunerazioni ai fattori produttivi, ossia il totale del costo per l’imprenditore. Nessun resto rimarrebbe da distribuire e tutti i fattori riceverebbero una remunerazione uguale alla loro produttività marginale[5].

 

 

25. Come lo schema della concorrenza non risponda alla realtà presente.

 

Se invece di parlare oggi, 1944, avessi parlato nel 1914, avrei potuto aggiungere subito che lo schema della concorrenza corrispondeva in gran parte alla realtà. Non era tutta la realtà, ma ne rifletteva gran parte. Era vero che esisteva, ed era vivacissima, la concorrenza tra prodotto e prodotto; era anche vero che non si erano ancora ingigantiti i grandi complessi monopolistici, sorti ed ingrossati nei trent’anni che corsero dal ’14 in poi. Era vero anche che nel ’14 funzionavano in più casi istituzioni di cui ora si è in parte obliterata l’opera (oggi, difatti, la banca non esiste, la borsa non esiste, non esistono stanze di compensazione, non esistono contratti a termine, non esistono arbitraggi, ecc.) tutte forze che facevano sì che la mutabilità, la mobilità, la permutabilità, la divisibilità, di cui gli economisti parlano in astratto, fossero cose vere e reali. Di una qualunque piazza di Europa era lecito dire che essa faceva tutt’uno con quelle dell’America; ed era vero quindi che se il prezzo dei grani, quello della lana e del cotone e del caffè ecc. ecc. erano un po’ superiori in un luogo in confronto di un altro, era in pochi istanti possibile concludere contratti a contanti ed a termine per parificarli. Tutte queste cose erano una realtà e facevano si che innanzi al ‘14 il campo in cui l’ipotesi astratta della libera concorrenza si verificava fosse un campo molto più vasto di quanto si immaginava di solito dai critici dottrinari anche allora numerosi. Se è vero che il secolo tra il 1814 ed il 1914, tra la fine delle grandi guerre napoleoniche e l’inizio della passata guerra mondiale, fu uno dei secoli più felici della storia del mondo, paragonabile solo al secolo degli Antonini, se è vero che non mai i salari aumentarono tanto, non mai si ebbe un così notevole incremento di benessere, questi fatti grandiosi di incremento nella produzione e di miglioramento nella distribuzione della ricchezza in gran parte derivavano dalla circostanza che l’ipotesi della concorrenza aveva trovato una attuazione abbastanza ampia. Esistevano anche allora attriti, ostacoli alla sua piena attuazione; ma attriti ed ostacoli erano stimolo a migliorare e perfezionare, non a negare.

 

 

Oggi tuttavia il campo in cui l’ipotesi della concorrenza si verifica è molto meno ampio che nel 1914. Per una serie di circostanze, in gran parte, ma non in tutto, dovute alla guerra, la visione che oggi si ha è di un mondo diverso. Esistono ancora molti produttori, molti agricoltori, molti medi e piccoli industriali ed artigiani, più di quanto ci possiamo immaginare; ma vi sono anche, in tutti i paesi ed in campi importanti dell’attività produttiva, grandissimi produttori i quali con la loro azione dominano il mercato e fanno sì che gli altri debbano conformare la loro azione a quella dei pochi. Banche, borse, contratti a termine, ecc., non esercitano più quell’azione uguagliatrice che ad essi spettava. Sono scomparsi i contratti a termine, grande strumento di parificazione; e le banche in molti paesi sono divenute organi di raccolta del risparmio per conto dei governi. I mercati controllati oggi non sono più dei mercati comunicanti. Al posto di una bella aperta moderna città fornita di edifici pubblici, di chiese, di abitazioni per appartamenti e di case individuali fornite di giardini e di spazi aperti, noi vediamo città irte di alte torri medioevali, di grattacieli che gittano la loro ombra sulla moltitudine di basse abitazioni che paiono ancora essere tollerate ai loro piedi.

 

 

Il quadro è tirato al nero, ché fortunatamente le imprese indipendenti non monopolistiche danno ancora il massimo contributo proporzionale al prodotto totale sociale; ma indubbiamente l’ombra proiettata dai grattacieli sulla moltitudine delle case ordinarie si profila minacciosa sull’orizzonte.

 

 

26. L’ipotesi del monopolio.

 

Gli economisti non hanno aspettato il trentennio dal 1914 al 1944 per formulare lo schema adatto a raffigurarci quest’altro aspetto della realtà. Risale al 1838 il libro delle Ricerche matematiche sulla ricchezza in cui Agostino Cournot formulava nitidamente l’ipotesi estrema opposta a quella della concorrenza. L’ipotesi è quella del monopolio. Egli disse: immaginiamo che sul mercato invece di molti ci sia un solo produttore. L’unico produttore domina completamente il mercato; egli decide come crede quanta merce si deve produrre, e, se non quanta merce, egli decide a quale prezzo essa deve essere venduta. A quale prezzo? La conclusione fu semplice, come sono sempre semplici, intuitive, le grandi scoperte le quali hanno segnato una tappa nel progresso della scienza. Il monopolista cioè – disse Cournot – stabilisce quel prezzo o quell’insieme di prezzi che diano a lui il massimo di guadagno netto.

 

 

In regime di concorrenza, il prezzo tende al costo, a rimunerare il merito, ad essere uguale alla produttività marginale dei singoli partecipanti alla produzione. Il monopolista invece non si occupa di vendere molto o poco, ma di guadagnare un massimo di profitto netto. Se questo è il prezzo od il sistema dei prezzi che si stabilisce sul mercato, e nei limiti in cui lo è, è evidente che esso produce due risultati principali:

 

 

  • 1) Quello di limitare la produzione. Invece di produrre la massa dei beni che gli uomini avrebbero avuto a loro disposizione se agisse la legge della concorrenza, si riduce la produzione. Il produttore che dalla concorrenza si troverebbe spinto a produrre sino al limite in cui il costo sia uguale al prezzo, ha, invece, in regime di monopolio, interesse a spingere la produzione solo sino al punto in cui la quantità venduta moltiplicata per il prezzo unitario e diminuita del costo di produzione gli dia un profitto netto massimo. E questa quantità è evidentemente minore. È certo che in regime di monopolio noi abbiamo una massa minore di beni e di servigi a disposizione degli uomini e questi si trovano meno bene perciò di quel che sarebbero in regime di concorrenza.
  • 2) Ed è vero anche che in regime di monopolio questa quantità minore di beni è distribuita in modo diverso dal modo osservato in regime di concorrenza. Invece di remunerare i singoli fattori in rapporto al rispettivo merito, qui nascono grosse sacche di profitti a favore dei monopolisti; Questi assorbono una proporzione notevole, più o meno grande, di una massa minore di produzione. La società rimane danneggiata.

 

 

27. La prima ragione fondamentale dell’intervento dello stato.

 

È evidente ora quale sia quindi una delle ragioni fondamentali di intervento dello stato nelle cose economiche. Gli economisti non danno giudizi di merito; ma questi sono le conseguenze logiche dell’una e dell’altra ipotesi. La esposizione dei due schemi estremi è fatta dall’economista come se si trattasse dell’analisi del moto delle stelle. Il giudizio spetta al politico, al filosofo, al moralista. Questi, constatando l’analisi astratta condotta dall’economista, probabilmente concluderà che il secondo sistema, del monopolio, conduce all’ingiustizia, ad una situazione socialmente insopportabile da modificarsi con l’intervento dello stato. L’economista non sa che cosa sia giusto od ingiusto; ma constata che la situazione da lui teorizzata nel caso del monopolio conduce a conseguenze che il politico, che il moralista, che l’uomo della strada definiscono ingiuste e ne trae la conseguenza che a lui è chiesto di indicare la via di evitare quelle conseguenze. Chiara è la linea da seguire, ed è quella della soppressione o della limitazione dei monopoli e della ricostituzione in una maniera o nell’altra della concorrenza o di una situazione simile a quella che esisterebbe se l’ipotesi della concorrenza si attuasse.

 

 

La lotta contro i monopoli ha due aspetti. La lotta contro i monopoli che si possono chiamare artificiali, e la lotta contro i monopoli cosidetti naturali.

 

 

28. La lotta contro i monopoli artificiali.

 

Se i monopoli si sono ingranditi tanto, se nel trentennio passato hanno assunto un’importanza prima ignota, non è che questo sia un fatto naturale, un fatto di Dio o della natura. No, la moltiplicazione dei monopoli, di quelli che si dicono trusts, cartelli, consorzi, fu dovuta a quello che si dice il fatto del principe, all’opera cioè attiva e determinata del legislatore. È il legislatore il quale ha creato i monopoli e dopo averli creati, si impaurisce delle loro risultanze dannose. La sola maniera logica di combattere e distruggere i monopoli che hanno una origine artificiale è di distruggere l’artificio. Prima del 1914 i dazi doganali, i dazi di protezione istituiti dagli stati ai confini del territorio nazionale contro le importazioni estere erano i grandi colpevoli dei sindacati che anche allora, in misura minore, esistevano. I produttori dell’interno si coalizzano molto più facilmente in un paese protetto di quanto potrebbero fare se i confini fossero aperti, se dall’estero si potessero importare merci in concorrenza a quelle nazionali. È molto più facile mettersi d’accordo con alcuni concorrenti nazionali che con molti concorrenti esteri. In quanto i monopoli devono ai dazi la loro origine, la loro forza, il rimedio è ovvio: per distruggerli fa d’uopo ridurre la protezione doganale, ridurre od abolire i dazi.

 

 

Accanto al vecchio istituto dei dazi doganali, il solo normalmente conosciuto prima del ‘14, sono sorti nell’ultimo trentennio tanti altri istituti creatori di monopoli: esagerata tutela dei brevetti, contingentamenti, licenze per poter ingrandire od impiantare fabbriche e stabilimenti in concorrenza con le fabbriche e stabilimenti esistenti, licenze da chiedersi ad uffici di stato, o, peggio, a congreghe in cui sono sovratutto rappresentati i vecchi produttori. Autarchia vuol dire monopolio dei nazionali, privilegi di ogni sorta. Se i monopoli si sono moltiplicati ciò accadde massimamente perché lo stato ciò ha voluto espressamente, perché ha dato forza di legge a norme le quali hanno favorito ed incrementato o rafforzato le tendenze monopolistiche. È chiara qui la via d’uscita. Aboliamo le leggi che hanno condotto al risultato di costituire delle sacche di profitti a favore di questo o quel complesso industriale, ed avremo risolto un grande problema: avremo aumentata la produzione e ne avremo migliorata la distribuzione.

 

 

29. La lotta contro i monopoli naturali.

 

Certo il compito non è finito. Col buttare a terra quei colossi coi piedi d’argilla che sono i monopoli artificiali, avremo fatto molto, avremo fatto il più, di gran lunga la miglior parte del lavoro antimonopolistico ma non avremo fatto tutto. Parecchio rimarrà di monopolistico nel mondo perché esistono monopoli i quali hanno cause che, in contrasto a quelle artificiali, si possono chiamare naturali: le ferrovie, le industrie elettriche, le imprese di gas, luce, di illuminazione, di acqua potabile, di tranvie e simili.

 

 

Non è la legge, ma la necessità economica, una necessità quasi fisica che crea qui il monopolio. Potremo noi immaginare che ci siano due ferrovie in concorrenza le quali servano le stesse città terminali, Torino-Milano, con lo stesso percorso intermedio? Non è un’ipotesi assurda; e la nostra legge italiana sui lavori pubblici del 1865 prevedeva già che ciò non potesse durare e, ad evitare inutili sprechi di capitali, lo ha vietato.

 

 

Non fu così dappertutto negli altri paesi: dal 1830 al 1870-80 negli Stati Uniti ci fu concorrenza nelle ferrovie. Non poteva durare. Se si costituisce invero una seconda ferrovia tra i medesimi punti terminali ed i medesimi punti intermedi a far concorrenza ad una più antica già esistente, quale mezzo ha la seconda impresa di attirare a sé una parte del traffico? Ridurre le tariffe; ma se così fa il secondo vettore, deve subito imitarlo anche il primo se non vuole perdere tutto il traffico. Se uno dei due da 10 passa a 9, così deve anche fare il secondo; ma allora il primo riduce la tariffa a 8 e di nuovo lo segue il secondo. Presto si arriva di questo passo sino a zero. E si è arrivati talvolta a meno zero! Si seppe di casi nei quali certe imprese ferroviarie americane per far concorrenza all’avversario, giunsero a promettere ai viaggiatori durante il percorso gratuito anche il pranzo gratuito. A quale scopo? Per mettere l’avversario ritenuto più debole nella necessità di cedere le armi. A un certo punto nella lotta economica tra due imprese legate alla linea ferroviaria, consapevoli che non possono rimuovere il capitale investito nelle gallerie, nelle massicciate, nei ponti, nelle stazioni, ecc. ecc. senza perderlo del tutto, c’è uno dei due il quale deve cedere per primo. Per accordo tra i due o per fallimento di uno dei due, rimane in vita una impresa sola la quale diventa monopolistica. Epperciò la legge italiana del 1865, prevedendo la fine fatale della concorrenza nel campo ferroviario, la vietò fin dall’origine, negando la possibilità della concessione di costruzione e di esercizio sulla stessa linea a due compagnie concorrenti. È ragionevole evitare uno spreco di capitali che darebbe risultati certamente negativi. Lo stesso si dica per le tranvie. In corso Vittorio Emanuele a Milano, o in via Roma a Torino, possiamo immaginare noi che si impiantino due o tre paia di binari per le tranvie? Sarebbe una confusione spaventosa. Se aggiungessimo poi alla concorrenza nelle tranvie, quella per il gas, la luce, l’acqua potabile, l’illuminazione, le nostre vie non sarebbero più vie, ma trincee nelle quali operai dovrebbero continuamente lavorare per riparare molteplici impianti mutuamente concorrenti. Con un solo impianto si fanno le riparazioni di notte, ma quando le imprese concorrenti fossero molte il tempo notturno non basterebbe. Mancherebbe la ragione stessa dell’impresa, che è di rendere servigio, non di disturbare i cittadini.

 

 

Dove il monopolio è naturale, fa difetto il rimedio proprio dei monopoli artificiali. Qui non c’è nessuna legge la quale abbia creato il monopolio. Il monopolio è venuto da sé.

 

 

Talvolta provvede inopinatamente l’ingegno umano a scalzare i monopoli esistenti, coll’inventare nuovi sistemi che costituiscano un’alternativa al vecchio sistema. L’invenzione dei mezzi automobilistici fu un rimedio spontaneo il quale ricreò la concorrenza nelle ferrovie con vantaggio grande degli utenti. Ma il fatto strano si fu che gli uomini si sono dati un gran da fare per impedire che la concorrenza risorta tanto vantaggiosamente producesse i suoi effetti. In quasi tutti i paesi le ferrovie, specie se di stato, chiesero ed ottennero coll’uno o coll’altro pretesto che fosse limitata la concorrenza che ad esse facevano i nuovi mezzi automobilistici.

 

 

Se non interviene l’ingegno umano a scalzare i monopoli naturali, bisogna riconoscere che il rimedio normale usato contro i monopoli artificiali (abolizione della legge creatrice del monopolio) non serve. Occorre l’intervento diretto dello stato, dei comuni, delle provincie, dell’ente pubblico in genere diretto a creare un surrogato al monopolio privato, a costituire una alternativa ad esso. Il principio generale, alla cui mera enunciazione mi debbo forzatamente limitare, è che l’ente pubblico deve trasformare il monopolio privato in monopolio pubblico, il quale dovrebbe vendere i suoi servizi al costo. L’ente pubblico, dichiarando che i monopoli naturali sono servizi pubblici, li può quindi esercitare direttamente o darli in concessione a compagnie private concessionarie stabilendo le modalità necessarie perché le tariffe di vendita dei servigi al pubblico corrispondano sempre al costo. Il concetto informatore è: mantenendo l’esercizio dell’impresa in quella forma monopolistica che è sua naturale, ricostituire, ad opera dell’ente pubblico, quella che era la conseguenza della concorrenza, ossia la vendita dei prodotti ad un prezzo uguale al costo.

 

 

Qui le difficoltà non sono nel concetto informatore, ma nella applicazione di esso. Esercizio diretto o esercizio per delegazione? Concessione a tempo lungo o breve? Concessione a tempo fisso o indeterminato? Quali controlli sono escogitabili per far sì che il costo pubblico non sia superiore al costo privato? E che le sacche di profitti a favore del monopolista non siano sostituite, nelle imprese pubbliche, da sacche di stipendi inutili a troppi impiegati politici? ecc. ecc. Ma trattasi di difficoltà che in un clima di continuo attento controllo dei cittadini nella cosa pubblica non sono del tutto insormontabili.

 

 

30. La seconda critica allo schema della concorrenza.

 

Gli economisti nel formulare lo schema della concorrenza avevano fatto e dovevano fare astrazione da quello che si può chiamare il momento originario dell’attività dell’uomo sul mercato. Essi hanno supposto che sul mercato intervenissero molti consumatori, ciascuno provveduto di una determinata potenza di acquisto, per lo più detta moneta. Ed hanno descritto quale sia, in quella ipotesi, il comportamento dei richiedenti e degli offerenti, quali siano i prezzi dei beni di consumo, i salari, gli interessi, le rendite, i prezzi dei beni capitali, ecc. ecc. La descrizione è continuamente perfezionata; lo è su linee pacifiche tra gli studiosi.

 

 

Ma gli economisti stessi videro che dietro a quella ipotesi del ciascuno provveduto di una determinata potenza di acquisto c’era un problema fondamentale insoluto.

 

 

John Stuart Mill fin da un secolo fa nei suoi Principî di economia politica (vedi traduzione italiana nella prima serie della «Biblioteca dell’economista» e numerose edizioni francesi) aveva detto che la produzione era governata da leggi fisiche, ma la distribuzione della ricchezza dalla volontà umana. Leon Walras aveva soggiunto: la produzione è regolata da leggi naturali, la distribuzione dalla giustizia. E Vilfredo Pareto concluse: la ripartizione dei redditi tra i titolari può essere modificata senza cessare di soddisfare a condizioni di massimo di ofelimità (utilità economica). Esprimerei il medesimo concetto notando, al seguito di Wicksteed[6] che lo schema della concorrenza non ha potuto tener conto del momento originario dell’attività dell’uomo quando egli si presenta sul mercato.

 

 

Lo schema parte dalla premessa che molti consumatori intervengano sul mercato. Questi intervengono con i mezzi che ciascuno di essi possiede. Ma la quantità relativa dei mezzi che ognuno possiede e con cui interviene sul mercato non è più un fatto che possa essere analizzato solamente con l’analisi economica; è un fatto giuridico, storico, politico, che dipende anche dalle istituzioni vigenti nelle diverse società (eredità, educazione, ambiente, monopoli esistenti, guadagni di concorrenza, ecc. ecc.). Noi possiamo, sì, constatare che chi ha 10 lire al giorno da spendere, impiega razionalmente queste sue disponibilità, dando ad ogni lira, ad ogni centesimo l’uso che a lui pare migliore. Se ha fame, certo non comprerà il libro perché gli occhi gli si annebbierebbero per l’appetito; ma acquisterà prima quel che gli occorre per cibarsi e poi penserà al resto. Egli cercherà di distribuire le 10 lire in modo da soddisfare innanzitutto ai bisogni più urgenti e in guisa che ogni unità (lira o soldo che sia) monetaria sia utilizzata al margine con uguale vantaggio subbiettivo. Sarebbe assurdo infatti che l’uomo spendesse 1 lira per comprare un bene che per lui ha una utilità solo come 8, quando potrebbe acquistare ancora un bene che ha per lui una utilità come 9. Le ultime lire spese debbono avere per lui una utilità uguale in modo che le utilità ottenute dalle ultime lire dei beni da lui acquistati siano uguali. Colui, però, il quale ha la disponibilità di 100.000 lire, per un kg. di pane sarà disposto a spendere anche 10.000 lire, mentre colui, che ha soltanto 10 lire, potrà anche darsi debba spenderle tutte per quel kg di pane, e rimanere privo di mezzi per acquistare altro. Potrebbe anche darsi che colui il quale, pur spendendo 10.000 lire per lo stesso kg di pane resterebbe ancora con 90.000 lire, glielo porti via tutto sicché l’altro non trovi più pane. Normalmente il pane è venduto a prezzi accessibili ai più, ma in tempi di scarsità, come sono i tempi di guerra, si fanno i razionamenti affinché il pane non sia distribuito in ragione dei mezzi che i diversi uomini hanno a loro disposizione ma tutti possano avere quel certo quoziente di pane che, data la quantità disponibile, spetta ad ogni consumatore. È evidente che lo schema della concorrenza (o del monopolio) rimane in ogni caso perfetto; ma ben altra è la qualità dei beni e dei servizi che si producono, ben altra è la distribuzione dei beni e dei servizi fra gli uomini, a seconda della maniera con cui i mezzi disponibili sono inizialmente distribuiti fra gli uomini. Se noi supponiamo che una società sia composta tutta da uomini che hanno 10 lire al giorno da spendere, i beni saranno distribuiti in una certa maniera. Se invece noi supponiamo che su 45 milioni la maggior parte abbia 10 lire soltanto e pochissimi 100.000 lire è evidente che sia la quantità che la qualità dei beni che si producono saranno diverse da quelle che si avrebbero nell’ipotesi ugualitaria. Il punto determinante è il possesso di una certa quantità di mezzi che ognuno dei cittadini ha al momento originario del suo arrivo sul mercato.

 

 

31. Diversità degli ideali possibili rispetto al momento originario.

 

Gli ideali degli uomini riguardo alla distribuzione delle ricchezze vanno dal caso estremo della uguaglianza assoluta a quello della disuguaglianza pure assoluta. Taluno può auspicare il verificarsi della tesi estrema in cui le moltitudini abbiano poco e uno solo abbia molto; ed altri aspirerà invece alla uguaglianza assoluta. E vi sarà chi propenderà a favore di soluzioni intermedie. Qui non decide l’economista. Io credo che oggi persino i dannunziani più invasati abbiano rinunciato all’ideale del superuomo di Nietzsche. Forse non ci sono neppure molti i quali sostengano l’idea dell’uguaglianza assoluta perfetta, non fosse altro perché questa non può durare. Ambe le soluzioni estreme sono foriere di tirannia. La maggior parte degli uomini probabilmente si pone l’ideale di una maggiore (maggiore in confronto ad una situazione giudicata ingiusta) uguaglianza nei punti di partenza. Che gli uomini nel momento originario in cui giungono alla maturità economica e si presentano sul mercato abbiano a propria disposizione mezzi non perfettamente uguali e nel tempo stesso non concentrati presso pochissimi o uno solo, ma distribuiti senza disuguaglianze troppo marcate tra individuo ed individuo è forse l’opinione dominante presso coloro che si dicono persone sensate. Quale sia l’equità ideale, è problema che ognuno risolve secondo il suo punto di vista. I più probabilmente aspirano ad una società lontana parimenti dagli estremi della assoluta eguaglianza ovvero della miseria delle masse e dell’opulenza dei pochissimi. Il primo è l’ideale del formicaio, il secondo quello della schiavitù. Le ripartizioni estreme sono antipatiche ai più, perché sinonime di tirannia, di perdita di libertà.

 

 

32. La seconda via dell’intervento dello stato.

 

Ed ecco qui il secondo campo aperto a quella che si chiama la legislazione economica sociale. Qui l’intervento opera nel senso di cercare di avvicinare, entro i limiti del possibile, i punti di partenza e si sviluppa secondo due linee: una è quella dell’abbassamento delle punte; l’altra quella dell’innalzamento dal basso.

 

 

33. L’abbassamento delle punte.

 

Istituzione antica è quella delle imposte progressive; ed al problema si tratta di trovare la soluzione ottima che sia lontana dal taglio delle teste dei papaveri di Tarquinio il Superbo o dal brodetto degli spartani, e più vicino possibile alle liturgie dei greci dell’epoca d’oro del secolo di Pericle. Per via di voto del popolo o in gran parte anche per spontanee donazioni delle classi alte, forse fu quella una delle epoche nella quale i cittadini facoltosi davano il maggior contributo proporzionale alle spese pubbliche. I monumenti dell’Acropoli di Atene sono una testimonianza ancora viva della coscienza sociale formata sotto la guida di un grande uomo di stato il quale aveva persuaso il popolo a non eccedere nelle confische e i grandi a donare volontariamente. Questi grandi monumenti ci danno la prova di quel che si era potuto fare grazie alla concordia degli animi, alla collaborazione tra grandi, medi e poveri che si era andata creando in quella città, situazione durata pochissimo e che venne a morire quando scomparve l’uomo che aveva operato il miracolo. L’abbassamento delle punte per mezzo delle imposte richiede un assai elevato senso civico ed un uso delle imposte che vada veramente a vantaggio della collettività. Assai anni fa, ho avuto la ventura di conoscere l’ultimo dei rappresentanti della dinastia dei filosofi Naville, il primo dei quali fu amico del conte di Cavour, il figlio e il nipote insegnanti ambedue di grido in filosofia nella università di Ginevra. L’ultimo nella sua modesta casa diceva: Veda, io posseggo questa casa e anche un piccolo podere al di là del confine, sul Saleve, in Savoia. Suppergiù il reddito dei due possessi è uguale. In Francia pago solo la terza parte delle imposte che pago qui, eppure di quelle mi lamento e di queste mi dico contento e le pago volentieri. Di quelle mi lagno perché non ne vedo i risultati, non vedo i vantaggi per la collettività. Di quel che pago io qui invece son ben lieto e contribuisco volentieri perché so a qual fine queste imposte vanno a finire, lo scopo collettivo cui esse sono consacrate.

 

 

Alla creazione di uno spirito civico simile a questo si deve mirare. Le imposte allora sono vantaggiose alla collettività quando le minoranze, che sovratutto sono chiamate a pagarle, sanno che non l’odio e l’invidia le hanno determinate, ma il vantaggio pubblico del raggiungimento di fini universalmente reputati buoni. Lo scopo delle imposte progressive non è quello di impedire la formazione dei profitti di concorrenza. Il ciel volesse che, in regime di concorrenza, molti imprenditori guadagnassero molto. Ciò vorrebbe dire che essi hanno molto creato, hanno inventato nuovi metodi di produrre a basso costo ed hanno avvantaggiato i propri simili.

 

 

L’imposta deve proporsi non di distruggere i profitti di concorrenza; ma di assorbirne a vantaggio dello stato quella parte che lasci sussistere l’incentivo a continuare a produrli. Quanto ai profitti di monopolio, lo scopo non è tanto quello di tassarli quanto di impedirne la nascita, come si dimostrò dianzi.

 

 

34. L’innalzamento dal basso.

 

Dopo l’abbassamento delle punte che si ottiene sovratutto con un efficace e nel tempo stesso stimolante uso delle imposte, c’è innalzamento dal basso. In un corso compiuto di legislazione sociale ci si dovrebbe occupare di tutti questi argomenti. La legislazione sociale non è cosa nuova nell’Europa continentale e sovratutto in Inghilterra. Qui il suo inizio data da secoli; e non l’inizio, ma la decisione più importante risale al tempo della regina Elisabetta ed ebbe poi un incremento grandioso in tutto il secolo scorso. il piano Beveridge, di cui tanto si parla, ridotto ad una cifra numerica in fondo avrebbe per risultato di far spendere al paese nelle varie forme di assicurazione sociale, invece dei 432 milioni di lire sterline che si sono spese nel 1938, 650 milioni subito dopo la fine della guerra ed 830 milioni dopo un ventennio. Non è una novità dunque, ma un ampliamento di istituzioni che già in varie forme sussistono. In Italia, possiamo ricordare gli scritti di Camillo Cavour e del suo collaboratore Petitti di Roreto che già verso il 1850 proponevano piani di legislazione sociale. Le leggi che a grado a grado, patrocinate da uomini di tutte le varie correnti politiche d’Italia, e tra i nomi più noti fa d’uopo ricordare quello di Luigi Luzzatti, entrarono in vigore, stanno a testimoniare che su questa via un notevole cammino è stato percorso e che l’opera avvenire dovrà essere non di creazione dal nulla, ma di riforma di integrazione e di perfezionamento.

 

 

35. Il minimo nazionale di vita. La limitazione dei beni.

 

Poiché non mi è possibile in questa lezione introduttiva, entrare nei particolari, dirò solo quale sia il concetto informatore della legislazione sociale. Si tratta di giungere per vie diverse ed adatte a far sì che ogni uomo vivente in una società sana disponga di un certo minimo di reddito.

 

 

Si può discutere se ciò significhi diritto al minimo. Repugno alla affermazione di un vero e proprio diritto, reputando più vantaggioso giungere altrimenti allo stesso risultato. Basti affermare il principio generale che in una società sana l’uomo dovrebbe poter contare sul minimo necessario alla vita. In fondo tutta l’opera delle trade-unions inglesi, un’opera che oramai dura da più di un secolo, mira ad obbligare l’imprenditore a pagare agli operai un minimo di salario, minimo che deve essere garantito a tutti coloro assunti a lavoro. Poiché quel risultato fu ottenuto dalle trade-unions inglesi, quelle stesse che da noi sono chiamate «sindacati operai», con sforzo secolare, con scioperi, ricorso a comitati di conciliazione, a trattative paritetiche, il minimo ottenuto con grande sforzo non è più un incitamento all’ozio. Non si spreca, come per tanti anni si temé e si rimproverò, nel vino e nell’ozio quello che è durato anni e anni di sforzo per poter essere ottenuto. Si spreca quel che si ottiene d’improvviso, per intimidazione e senza merito.

 

 

Se le classi operaie in Inghilterra ed anche in Italia (si ricordi il progresso compiuto tra il 1880 e il 1914, testimoniato da tanti dati e frutto anche di uno sforzo consapevole) sono riuscite ad affermare il diritto al minimo di salario, con ciò non si è fatto nulla che sia contrario ad alcuna legge economica. Si è affermato e conquistato il principio che il prestatore d’opera possa, forte della solidarietà con gli altri operai e dei fondi da lui volontariamente accumulati nel suo sindacato, trattare da paro a paro con l’imprenditore ed ottenere che siano garantite a tutti i lavoratori condizioni uguali minime di salario e di lavoro.

 

 

Non sempre, tuttavia, si lavora, non sempre si può godere del minimo di salario. Disoccupazione, infortuni, malattie, invalidità e vecchiaia, attentano alla continuità del lavoro. E allora la domanda è se lo stato per mezzo delle imposte non dovrebbe garantire a tutti un minimo in tutte le contingenze della vita nelle quali sia impossibile di lavorare. E c’è di più. Taluno sostiene invero la tesi che il minimo di punto di partenza dovrebbe essere garantito, astrazion fatta dalle circostanze in cui uno si trova nella vita. Egli dovrebbe fruire dell’assicurazione del minimo solo perché nasce.

 

 

Se un consenso abbastanza largo si trova, sia pure con le cautele necessarie, per la tesi del minimo nei casi di impossibilità a lavorare, i dubbi sono assai più grandi per la seconda tesi. Queste idee possono essere accolte; entro quali limiti necessariamente potranno essere accolte? La soluzione dipenderà sempre da molte circostanze, dalla ricchezza del paese, dal livello di vita, dalla distribuzione delle proprietà, circostanze che dovrebbero essere esaminate caso per caso prima di giungere ad una conclusione che abbia il marchio della attuabilità e non delle semplici fantasie che sono per lo più socialmente pericolose[7]. Anche chi ammette il concetto del minimo nei punti di partenza, sa che bisogna cercare di stare lontani dall’estremo pericolosissimo dell’incoraggiamento all’ozio.

 

 

Questo è il freno che deve stare sempre dinnanzi ai nostri occhi. Dobbiamo evitare il pericolo di ricreare qualche cosa come il panem et circenses che ha portato alla rovina del mondo romano. Non sono stati tanto i barbari che hanno fatto cadere l’impero romano; ma l’impero era marcio in se stesso; ed una delle cause della decadenza interna era che i cittadini romani sdegnavano di essere soldati, lavoratori, perché, mantenuti dallo stato, preferivano andare ad assistere nel foro agli spettacoli, alla caccia data ai cristiani dalle belve, ecc. ecc.

 

 

L’idea nostra dovrebbe essere un’altra, ossia che il minimo di esistenza non sia un punto di arrivo ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini. C’è del vero in quel che si dice che molte invenzioni non prendono corpo, che molti progetti non si attuano perché i più degli uomini sono costretti a una vita dura che assorbe tutte le loro forze e la loro intelligenza. Se un minimo di punto di partenza consentisse ai giovani di poter continuare a studiare, a fare ricerche, ad inventare, a trovare la propria via senza dover fin da troppo giovani lavorare nelle fabbriche, verrebbero fuori studiosi e inventori che oggi non ne hanno la possibilità. A questo ideale dobbiamo tendere.

 

 

Ma non dimentichiamo mai che quando Dio cacciò Adamo ed Eva dal paradiso terrestre disse loro: «voi guadagnerete il vostro pane col sudore della fronte». Il pane deve diventare certo più abbondante per tutti ed anche altre molte cose dovranno essere messe a disposizione gratuita degli uomini. Ma in perpetuo durerà la legge per cui gli uomini sono costretti a strappare col lavoro alla terra avara i beni di cui essa è feconda.

 

 

Capitolo II. Le assicurazioni sociali

 

36. Le origini storiche.

 

A tutti gli uomini viventi in una società civile deve essere data la possibilità di elevarsi da un minimo tenor di vita verso l’alto. Possibilità non equivale a diritto. Questo è un concetto giuridico, di cui il contenuto è assai incerto e che qui non si vuole discutere. Possibilità è invece una situazione di fatto, alla quale si può giungere per molte vie diverse.

 

 

Una di queste è indicata dalle parole «piano Beveridge», le quali hanno corso il mondo nei due ultimi anni ed hanno acquistato il valore di un mito, uno di quei miti che improvvisamente fanno appello ai sentimenti, alle idealità dei popoli. Sessant’anni fa circa, un mito, assai vicino spiritualmente a questo, aveva reso tutta l’Europa ammirata dall’iniziativa assunta dal Bismarck quando volle dotare la Germania di un compiuto sistematico ordinamento di assicurazioni sociali: dalla vecchiaia alla invalidità, dagli infortuni alle malattie, dalla maternità alla morte, alla disoccupazione. In ogni evento della vita, il tedesco doveva sentire la protezione della mano preveggente e potente della patria, che lo doveva salvare dalla inopia, dall’angoscia del pensiero rivolto alla moglie ed ai figli derelitti, dalla incertezza del domani. Non monta che il Bismarck avesse, seguendo il consiglio dei cosidetti socialisti della cattedra, dei professori tedeschi di economia politica avversari della tradizione liberale classica, voluto sovratutto porre un argine all’avanzata minacciosa dei socialisti in parlamento ed in piazza e dimostrare agli operai che essi non erano paria e che ad essi paternamente pensava e provvedeva il vecchio forte stato tedesco. Dinnanzi alla creazione dell’euritmico sistema di assicurazioni sociali in virtù del quale i lavoratori ed i datori di lavoro erano chiamati a contribuire in parti eguali ed i cittadini – contribuenti, per mezzo delle imposte, dovevano integrare il contributo delle due parti, interessate l’una, quella dei lavoratori, ad ottenere aiuto negli eventi sfortunati della vita e l’altra, dei datori di lavoro, alla pace sociale, l’Europa ammirò ed imitò. Anche l’Italia imitò, un po’ alla volta per avvicinamenti successivi compiuti a mano a mano essi erano consentiti dalla situazione della pubblica finanza e dalle esigenze dell’opinione e finì per creare un sistema di assicurazioni non dissimile da quello tedesco.

 

 

L’Inghilterra non aveva imitato; perché le sue tradizioni erano più antiche e diverse. Risalivano al 1601, quando un atto della regina Elisabetta sancì il diritto del cittadino britannico, lavoratore o non, caduto in povertà, ad essere mantenuto dai guardiani dei poveri. Costoro prendevano il luogo dei conventi e delle altre fondazioni religiose che nel medioevo avevano assolto l’ufficio dell’assistenza ai poveri. Riformata la chiesa da Enrico ottavo, confiscate le proprietà dei conventi, secolarizzate le fondazioni ecclesiastiche, lo stato assunse su di sé i compiti prima assolti dalla carità dei fedeli e fu sancito il diritto del povero a porsi a carico dello stato, diritto che ancora oggi è il fondamento della legislazione sociale britannica. Le date storiche le quali ricordano le variazioni di questa legislazione sono:

 

 

  • 1834: quando in virtù di una grande inchiesta e di un celebre rapporto si abolirono quasi in tutto i soccorsi elemosinieri distribuiti a domicilio ai poveri, e distribuiti con larghezza siffatta che essi erano divenuti quasi una integrazione del salario dei lavoratori, salario che perciò non era necessario fosse sufficiente al mantenimento della famiglia operaia. Data dalla legge del 1834 l’ascesa della classe lavoratrice: l’industria non più parassita delle imposte locali a carico della terra e quindi non più interessata alla protezione agricola e costretta a pagare salari normali agli operai; questi ringagliarditi nella loro lotta (favorita dalla abolizione del 1824 delle leggi proibitive del diritto di associazione) per la osservanza dei salari normali, sufficienti a mantenere la famiglia tipica del lavoratore normale, orgogliosi di non cadere mai a carico della legge dei poveri e persuasi fosse quasi un marchio di indegnità morale l’essere stati ricoverati in una casa dei poveri (Work-house).
  • 1909: quando una seconda grande inchiesta e particolarmente il rapporto di minoranza steso dai coniugi Sidney (ora Lord Passfield) e Beatrice Webb, socialisti fabiani ed autori di classici libri sulla storia del movimento operaio e sulla democrazia industriale[8], diedero impulso ad una trasformazione iniziata fin dal 1897 dell’antico indistinto sistema dell’aiuto ai poveri attraverso la casa di lavoro ed i guardiani dei poveri, in un sistema di assistenza e di assicurazione, differenziato a seconda dell’evento dannoso: indennizzi in caso di morte e di invalidità, pensioni di vecchiaia, sussidi di malattia e di maternità, sussidi di disoccupazione, sussidi per le famiglie numerose. Ma, come accade in quel paese in ogni campo, la legislazione assicurativa erasi formata a pezzi e bocconi, senza un piano d’insieme, con dei grossi buchi male tappati da norme occasionali e con bizzarre sovrapposizioni involontarie di provvedimenti successivi non coordinati. L’opera di assicurazione e di assistenza sociale costò nel 1938-39 ai lavoratori, ai datori di lavoro, allo stato ed agli enti locali la somma grandiosa di 342 milioni di lire sterline e costerebbe, anche rimanendo immutata, 432 milioni nel 1945. Ma le bizzarrie del sistema, non dissimile in ciò dalla costituzione medesima del paese, che nessuno sa precisamente in quali documenti sia scritta, eppure esiste ed opera e non diverso dallo stesso cosidetto impero britannico, che nessun giurista continentale oserebbe definire eppure è una realtà vivente, sono senza numero; e basti dire che il cittadino il quale vuole ricevere il sussidio assicurativo contro la disoccupazione deve rivolgersi a certi funzionari del ministero del lavoro; ma se vuole riscuotere il sussidio assistenziale (dato quando per il trascorrere del tempo di disoccupazione cessa il diritto al sussidio assicurativo) deve rivolgersi agli ufficiali locali del Consiglio di pubblica assistenza. Se poi egli cade malato o diventa invalido, deve far capo alle associazioni autorizzate (società di mutuo soccorso, leghe operaie, società mutue di assicurazione, ecc.) di cui egli è socio e sono controllate dai ministeri della pubblica sanità d’Inghilterra, Scozia e Galles. Se egli è cieco deve ricorrere ai consigli di contea, di borgo e di città e questi a lor volta dipendono in genere dai sopradetti ministeri della pubblica sanità, ma per quel che tocca l’educazione, dal ministero dell’educazione. L’infortunato sul lavoro deve accordarsi col datore di lavoro rispetto all’ammontare dell’indennità; che se l’accordo falla, decide l’arbitrato della corte di contea; salvo, per le controversie di carattere medico, il parere conforme di un perito medico. L’incrocio di competenze è ancora più singolare per le pensioni di vecchiaia; se si tratti delle pensioni gratuite concesse a tutti i vecchi, perché tali, sono competenti certi comitati nominati dai consigli di contea, di borgo e di città, su informazioni fornite dai funzionari dei commissari alle dogane ed alle accise (imposte di fabbricazione), ai quali accidentalmente era stato in origine affidato questo servizio; se si tratta invece di nuove pensioni assicurative dovute in aggiunta ai lavoratori i quali hanno pagato i relativi contributi, fa d’uopo ricorrere ai tre ministeri inglese, scozzese e gallese della pubblica sanità; ed infine il supplemento di pensione, concesso in taluni casi, deve essere richiesto ai funzionari locali del consiglio di pubblica assistenza. Ma il povero generico al quale le indennità ed i sussidi specifici ora elencati non sono applicabili o non bastano, deve per aiuto rivolgersi ai comitati di pubblica assistenza dei consigli di contea e di borgo. Né i vecchi guardiani dei poveri sono scomparsi del tutto; ché, nell’aggrovigliato sistema venuto su nel secolo presente, anch’essi hanno talvolta la loro da dire.

 

 

37. Il piano Beveridge.

 

Forse, la spiegazione insulare più ovvia e decisiva del piano Beveridge è quella di mettere un po’ di ordine nelle indicibili bizzarrie di cui è intessuta la legge vigente britannica, le quali costringono le persone afflitte da qualche disgraziato evento a correre da Erode a Pilato, a pagare ed a riscuotere a e da uffici diversi, a dolersi di vuoti di legislazione, i quali lasciano scoperti taluni casi ed a profittare di sovrapposizioni, grazie alle quali l’interessato ha la scelta, per l’identico caso, fra sussidi differenti e sceglie naturalmente quello a lui più favorevole. All’uopo l’autore del piano semplifica, coordina, integra e sfronda. Il cittadino con una carta unica, con un contributo unico acquista il diritto ad ottenere, ricorrendo ad un numero limitato e chiaro di ufficiali competenti, i sussidi che a lui spettano nei diversi eventi della sua vita; e l’ammontare dei sussidi è calcolato in maniera razionale, intendendosi per razionalità l’osservanza di certi rapporti laici fra il beneficio dell’un sussidio e quello degli altri, di maggiore o minore importanza. Fissato, a cagione d’esempio, la pensione di quiescenza per la coppia marito di 65 anni e moglie di 60 anni in 40 scellini alla settimana, quella dell’individuo solo è fissata in 24 scellini; e così pure in 40 e 24 scellini sono determinati i sussidi alla coppia ed all’individuo solo in caso di infortunio dai 21 anni in su, in 20 per gli individui soli dai 18 ai 20 anni ed in 15 ai ragazzi e ragazze di 16 e 17 anni. E così via.

 

 

La necessità della semplificazione e del coordinamento, se è più urgente in Inghilterra, dove gli istituti vengono su in ogni campo per caso, per esperienze successive, sotto l’impulso di circostanze contingenti, è però ugualmente sentita in ogni paese. Anche in Italia la legislazione sociale si è formata a poco a poco, dalle prime leggi sulla prevenzione e assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e sulle pensioni volontarie di vecchiaia e di inabilità dopo il 1880 a quelle sulle casse malattie, sulle pensioni obbligatorie, sulla disoccupazione, sulla maternità, sugli assegni famigliari. Anche la nostra legislazione è ricca e varia e farraginosa; ed anch’essa richiede un’opera di sfrondamento e di coordinamento, con semplificazione degli strumenti amministrativi e quindi dei costi.

 

 

Ma il piano Beveridge ha mire più ambiziose di quelle di un semplice coordinamento delle membra disjecta della legislazione vigente. Esso si inspira ad un principio: quello di garantire in tutti gli eventi della vita nei quali venga meno il guadagno od il reddito personale, «un reddito minimo sufficiente ad assicurare la sussistenza della famiglia». Ed il minimo è uguale a quello sufficiente a coprire le spese del vivere (alimenti, vestiti, casa, riscaldamento, ecc.) secondo il tenor di vita considerato sufficiente nell’ante – guerra (1938). Le cifre sono riportate provvisoriamente ai dati di prezzi previsti per il 1945 e dovranno essere di tempo in tempo rivedute per tener conto del mutato livello dei prezzi e del mutato tenor di vita.

 

 

38. I principi dell’assicurazione sociale.

 

Si astragga per un momento dalla questione di principio: se un minimo debba essere garantito. Così come è presentato, in verità il piano non affronta il problema nella sua più semplice formulazione e si limita ad affermare che, ove si verifichino certi eventi dannosi od onerosi economicamente: infortunio, invalidità, vecchiaia, morte, matrimonio, figliuolanza, vedovanza, malattie, disoccupazione, un’indennità o sussidio o pensione deve essere attribuita all’assicurato. I problemi che debbono essere discussi in proposito non sono specificatamente inglesi o italiani o tedeschi. Si presentano uguali in tutti i paesi. Le particolarità locali, imposte dalla diversità del tenor di vita, dal livello dei redditi, dalle possibilità finanziarie, dovrebbero essere esaminati a parte. Qui si vogliono soltanto toccare i problemi di principio, i quali debbono essere risoluti partendo dalla premessa dell’intervento statale determinato dal verificarsi di dati eventi dannosi od onerosi.

 

 

Deve un piano di sicurezza sociale riferirsi all’uomo cittadino ovvero al lavoratore? A questa prima domanda l’esperienza continentale risponde al lavoratore, quella britannica all’uomo. La legislazione continentale, inspirata al modello tedesco, bismarckiano, supponeva l’esistenza di un rapporto di dipendenza fra datore di lavoro e lavoratore, la tripartizione dei contributi in ragione dell’interesse dei datori di lavoro e della collettività (stato) alla pace sociale e dell’interesse dei lavoratori alla pensione o indennità o sussidio. Poiché a fondamento del piano è posto l’ideale della pace sociale, l’intervento non ha ragione di essere là dove non esistono parti contrapposte od attriti sociali. Quindi i piani continentali non contemplano, in principio, le persone non occupate a scopo lucrativo, quelle poste al disotto dell’età lavorativa, le donne di casa, gli artigiani, i professionisti, gli artisti indipendenti, gli industriali, i commercianti.

 

 

La legislazione britannica, date le sue origini connesse con la antica legge dei poveri, sorta in un’epoca (1601) nella quale non esisteva l’industria moderna con i suoi rapporti di lavoro fra industriali ed operai, non si ispira al concetto della pace sociale tra parti contrapposte, bensì all’altro della pace pubblica, dell’ordine di giustizia che lo stato, rappresentante della collettività, ha per scopo di mantenere sul territorio nazionale. Perciò nel piano Beveridge, che è, ripetesi, sovratutto un riassunto ed un coordinamento ed un ampliamento di istituti vigenti e di principi accolti, noi vediamo rientrare nel campo assicurativo contemplato 18.100.000 salariati (classe prima), 2.600.000 altre persone occupate a scopo di guadagno, inclusi i datori di lavoro, i commercianti di ogni specie (seconda), 9.450.000 donne di casa (terza), 2.300.000 persone in età lavorativa non occupata a scopo di guadagno (quarta), 9.800.000 persone al disotto dell’età lavorativa (quinta) e 4.750.000 persone a riposo, le quali hanno oltrepassato i limiti dell’età lavorativa (sesta). Ogni classe contribuisce naturalmente, e riceve, in ragione delle proprie particolari esigenze. Solo le classi quinta e sesta non contribuiscono nulla, i primi perché troppo giovani, i secondi perché appartenenti all’età in cui, invece di contribuire, si ha diritto di ricevere. La classe tipica è la prima, dei salariati, i quali ricevono tutti i benefici; la seconda dei lavoratori indipendenti e la quarta non partecipano ai sussidi di disoccupazione ed alle pensioni di infortunio, perché gli eventi relativi non hanno per essi rilevanza od applicazione.

 

 

Tra i due tipi, quello britannico è il solo generale; né si vede come la legislazione degli altri paesi possa sottrarsi alla tendenza verso una uguale generalizzazione. Ogni uomo non è forse uguale ad ogni altro uomo? L’evento «infortunio» o «malattia od «onere di famiglia numerosa» o «morte» o «matrimonio» non produce gli stessi effetti in tutti i casi? Quale differenza vi è fra il lavoro prestato al soldo di un datore di lavoro e quello indirizzato senz’altro intermediario dal negoziante, dall’industriale, dall’artigiano, dal professionista, dall’artista al servizio del pubblico? Il vecchio non è forse tale, quale sia stata la sua vita precedente? Si può discutere sulle difficoltà di applicazione ai casi diversi da quello dell’operaio alle dipendenze altrui, non sul principio. In una società nella quale non esistono privilegi di classe, nella quale ogni uomo è uguale giuridicamente ad ogni altro uomo, il concetto della pax publica non può non essere riconosciuto preminente e prevalere su quello della mera pace sociale.

 

 

Taluno può dubitare che la generalizzazione del sistema urti contro il rimprovero di attribuire indennità, pensioni o sussidi a chi, provveduto di mezzi propri, non ha bisogno di ricorrere all’aiuto pubblico. Perché versare, ad esempio, la pensione di 40 scellini[9] la settimana alla coppia di vecchi che possiede già un reddito indipendente uguale o superiore a quell’ammontare medesimo? Alla domanda il ceto operaio britannico ha risposto in modo decisivo ed unanime: «meglio dar la pensione a tutti, anche ai ricchi, anche ai ricchissimi, piuttosto che costringere tutti e perciò anche noi lavoratori, a dare la prova della mancanza di mezzi propri. Se v’ha istituto odiato dalla grandissima maggioranza della popolazione, questo è il means test; il giudizio che dovrebbe essere ed è oggi istituito in Inghilterra per chiarire se il vecchio, se il malato, se l’invalido possiede o non possiede mezzi propri siffatti da scemare il nostro diritto alla pensione o sussidio. Noi non ne vogliamo sapere; sia perché è impertinente inquirire nelle nostre cose private, sia e sovratutto perché è immorale ed è economicamente scoraggiante togliere a noi il diritto di pensione solo perché e nella misura nella quale noi siamo stati morigerati e previdenti ed abbiamo durante la nostra vita lavorativa accumulato un peculio per i giorni di avversità o per la vecchiaia. La prova dei mezzi è un premio all’imprevidenza ed allo spreco. Perché risparmiare, perché far rinunce se poi noi saremo trattati alla stessa stregua di chi non ha mai pensato all’indomani? Non monta che la pensione debba essere data anche ai ricchi. Innanzitutto essi avranno, come noi, pagato i contributi obbligatori; nella stessa misura nostra, e cioè del 22,4% del costo totale del piano; e non si vede perché il loro beneficio debba essere minore del nostro. In secondo luogo essi avranno contribuito inoltre, essi soli e non noi, il 15,4% se datori di lavoro e certamente la massima parte del 60,5% dell’onere totale, che è la quota spettante allo stato ossia ai contribuenti. Quindi essi avranno versato assai di più di quanto riceveranno; e non v’ha ragione perché essi non siano trattati alla stessa stregua degli altri. Come nelle scuole non è fatta, nell’assegnare le borse ed i premi di studio, alcuna distinzione di classe ed i premi sono assegnati al più meritevole, povero o ricco egli sia, così i benefici della sicurezza sociale devono andare a vantaggio di tutti. Sicurezza nell’avvenire non vuol dire abbassamento di nessuno; significa innalzamento di tutti. Perciò noi lavoratori, che respingiamo la prova dei mezzi propri come lesiva della dignità umana e moralmente nemica dei nostri sforzi individuali di previdenza, e vogliamo rinvenire nella legislazione assicuratrice una spinta a salire e non a discendere, chiediamo che anche i ricchi partecipino ai vantaggi del programma di sicurezza sociale».

 

 

Questa la risposta dei lavoratori, questo il verdetto della opinione pubblica britannica. Che sono, risposte e verdetti informati a criteri che l’economista non può ignorare, ancorché posti fuori del suo territorio specifico. Poiché egli deve partire da premesse, che non lui, ma il politico, il moralista, il filosofo pongono come fini della vita, giova riconoscere che la risposta dei lavoratori britannici è virile ed è conforme ai principi fondamentali che alla legislazione sociale erano stati assegnati qui nella lezione introduttiva.

 

 

Nel giudicare invero, come adesso si deve fare, di questo o di quel ramo di assicurazione in particolare, quali criteri dovremmo usare? È chiaro che, volendo mantenere fede ai principi posti, la bilancia del pro e del contro si muove in un senso o nell’altro a seconda che quel particolare tipo di assicurazione giova o nuoce all’elevazione della persona umana (principio del minimo che è punto di partenza e non meta di arrivo), favorisce e non ostacola la mobilità, la divisibilità, la prevedibilità, la riproducibilità del lavoro e la libertà di entrata e di uscita dal mestiere (principio della concorrenza).

 

 

39. L’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.

 

Non si vede come l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro – per ora la legislazione, anche semplicemente proposta, dei paesi civili si limita a questi e non si estende agli infortuni in genere; ma il ragionamento potrebbe essere generalizzato – contrasti con i criteri ora chiariti. L’infortunio è un evento paragonabile all’incendio. Nella medesima maniera come la traslazione del rischio dell’incendio dalla casa incendiata su tutte o su moltissime case incendiabili scema il rischio del costruire e del tenere case, cresce il grado di prevedibilità del reddito futuro e per tal modo dà incremento alle costruzioni, aumenta l’offerta delle case e ne diminuisce il prezzo d’uso per i consumatori e perciò giova alla collettività; così l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro riparte su un gran numero di datori di lavoro (ed attraverso ad essi su un grandissimo numero di consumatori dei beni e dei servigi da essi prodotti) il rischio che altrimenti colpirebbe un solo lavoratore od un solo datore di lavoro, obbligato al risarcimento; scema il rischio – quello almeno che sarebbe calcolato individualmente nel caso di non assicurazione – del lavoro; dà tranquillità e fiducia al lavoratore, il quale guarda all’avvenire (prevedibilità) con maggior sicurezza per sé e per la famiglia; ispirando fiducia lo incoraggia a dar prova di tutta la sua attività lavorativa; e per conseguenza innalza moralmente l’uomo. Se colui che, lavorando, rende servigio altrui ha le proprie membra od attitudini menomate e se coloro – che sono tutti gli altri cittadini – a cui egli ha reso servigio non si sforzano, almeno con indennizzo pecuniario, di restituire in integro la sua persona, nasce nella società un sentimento di torto non risarcito; e la pax publica, che è il fine supremo dello stato, non è osservata. L’assicurazione, levando di mezzo le conseguenze economiche dell’infortunato sul lavoro, elimina le differenze di rischio fra l’industria pericolosa e quella immune e rende più agevole il passaggio del lavoro dall’una all’altra. Crescendo la mobilità del lavoro ed agevolando la concorrenza, aumenta la produttività del lavoro. In una società di uomini perfetti e previdentissimi in cui lo schema della concorrenza si attuasse perfettamente, i salari nelle industrie rischiose sarebbero, è vero, più alti che non nelle industrie comuni; ed i lavoratori non consumerebbero il dippiù ma lo accantonerebbero per il giorno della disgrazia. Ma rimarrebbe pur sempre la necessità della assicurazione volontaria per trasferire il rischio dal singolo, che non ha ancora compiuto l’opera di accantonamento sufficiente, alla collettività dei lavoratori, che per la legge dei grandi numeri accantonano, in una società perfetta, di giorno in giorno le somme necessarie a coprire il rischio totale; e poiché gli uomini non sono né perfetti né previdenti, giova che l’assicurazione sia obbligatoria. Giova tanto più in quanto è norma osservata in tutte le legislazioni ed anche in quella italiana che, a differenza degli altri tipi di assicurazione, nei quali l’onere è ripartito per lo più in varia misura fra assicurati, datori di lavoro (se ci sono) e contribuenti, nel caso degli infortuni i lavoratori sono esenti da ogni contributo, reputandosi che la macchina, ossia l’impresa, ossia ancora i consumatori dei beni venduti dall’impresa siano, essi, chiamati a restituire economicamente in integro la persona fisica menomata dell’infortunato.

 

 

40. L’assicurazione per le pensioni di vecchiaia.

 

Fondamento della pensione di vecchiaia è il vantaggio morale, dal quale deriva il vantaggio economico. Soltanto l’uomo fiducioso in se stesso e nel suo avvenire risparmia e si eleva. Colui il quale non è sicuro rispetto al futuro, colui il quale sa di dover chiedere ricovero all’ospizio o di dover vivere della carità dei figli o del prossimo, non tenta neppure di provvedere colle sole sue forze all’avvenire. Il compito gli appare troppo duro e la fatica eccessiva. Ove invece egli sappia che un minimo di vita gli è assicurato nella vecchiaia, non solo è spinto a lavorare con tranquillità durante gli anni migliori, ma è incoraggiato ad aggiungere qualcosa a quel che è già suo. È difficile cominciare a prepararsi col risparmio attuale la prima lira di pensione per quando si saranno compiuti i 65 anni; ma se le prime 100 lire (ante-1914) di pensione sono già assicurate, è assai più probabile si rifletta ai vantaggi che si potrebbero ottenere se, mercé uno sforzo attuale di rinuncia a beni presenti, ossia di risparmio, a quelle 100 lire certe si potessero aggiungere altre 10 o 20 o 50 o 100 lire supplementari. Non sempre il ragionamento: «è più facile partire da 100 che dallo zero» è vero; ché molti uomini hanno saputo prendere le mosse dal nulla; ma pare non infondata la tesi di coloro i quali affermano essere la volontà umana spesso debole e soggetta alle tentazioni immediate e pronta allo scoraggiamento dinnanzi alle difficoltà iniziali.

 

 

La pensione di vecchiaia è tuttavia un povero surrogato di quel più alto tipo di società nella quale essa è inutile perché il vecchio possiede nella casa propria, nel podere ereditato o costrutto a pezzo a pezzo, nel patrimonio formato col risparmio volontario, nell’affetto di una famiglia saldamente costituita il presidio sicuro contro l’impotenza della vecchiaia.

 

 

La pensione di vecchiaia è il frutto fatale – e qui si adopera l’aggettivo sia nel senso di inevitabilità storica come in quello di inferiorità morale – del tipo di società che a poco a poco si è venuto creando sotto i nostri occhi: di grandissime imprese dalle quali dipendono migliaia e decine di migliaia di impiegati e di operai, di città enormi, tentacolari, dove in caseggiati a molti piani si accumulano moltitudini di persone ignote le une alle altre, viventi di giorno in giorno col provento di salari, di lavoro, scissi dalla terra e dalla casa, senza altro appoggio nella vita fuor del libretto di risparmio, su cui sono scritte cifre, le quali non dicono nulla al cuore ed alla mente di chi pur ha rinunciato a consumare i beni rappresentati da quelle cifre. In questo tipo di società la pensione di vecchiaia è una sciagurata necessità, pallido surrogato di quel che in altri tipi di società sono il possesso della casa, dell’orto, del campo, la possibilità di vegliare, da vecchi, ai giochi dei figli dei propri figli ed ai lavori dei ragazzi, l’orgoglio di dare ancora una qualche opera ai lavori dell’orto e della casa, che non sia una prigione melanconica di due stanze in fondo ad un cortile nero ed oscuro, ma sia aperta al sole e si apra su un po’ di terra propria. Il tipo di vita imposto dalla grande città contemporanea è davvero fatale? Non è possibile la ricostruzione, nei modi imposti dalla grande industria, di tipi diversi di vita? Ardue domande, che qui basti aver posto, allo scopo di affermare che la pensione di vecchiaia è un surrogato di metodi moralmente più elevati immaginabili allo scopo di provvedere alla vecchiaia.

 

 

Il pregio suo specifico, che sopravviverebbe anche in un tipo superiore di convivenza umana, è un altro: quello di offrire anche al vecchio provvisto di mezzi propri e tanto più a colui che ne è sprovvisto, una ragione autonoma di vita, destinata a perir con lui e a non essere tramandata ai figli ed agli eredi. Può sembrare contraddittorio e paradossale, dopo quanto si è detto intorno alla eccellenza del presidio offerto al vecchio dalla casa, dall’orto, dal terreno od altro patrimonio tangibile e visibile, affermare che al vecchio giova anche il diritto ad una pensione vitalizia, destinata a morire con lui. Ma gli uomini sono quelli che l’eredità, i costumi, la religione, l’educazione, le leggi li hanno fatti; ed in essi vivono talvolta, non troppo di rado, purtroppo, i residui inconfessati e subconsci dei sentimenti che, millenni or sono ed ancor oggi in mezzo alle tribù selvagge, spingono i vecchi, divenuti impotenti alla battaglia ed alla caccia, a radunare essi stessi i figli, i discendenti ed i vicini ed a condurli nel luogo dove, per loro comando, è scavata la fossa, nella quale si adagiano per essere tolti di vita e coperti di terra. La loro giornata è finita ed essi non sono più buoni a nulla. Meglio morire che essere di peso alla tribù che deve muoversi per sfuggire al nemico o combatterlo o andare alla cerca del nutrimento. Così è di tanti vecchi ancor oggi. Impotenti al lavoro essi si ritirano umiliati dinnanzi ai figli ed alle nuore che hanno preso il governo della casa e della terra. Casa e terra appartengono tuttavia ad essi; ma a che vale se non sono capaci a coltivarla? Essi hanno il senso della propria inutilità e questo li uccide anzi tempo. Abbiano invece una pensione la quale duri per tutta la loro vita e non oltre ed essi non saranno più impotenti ed avviliti. Uomini tra uomini, sentiranno e con essi sentiranno figli e nuore e nipoti, di apportare qualcosa alla cosa comune; qualcosa che verrebbe meno se essi morissero. Epperciò essi vivono e sanno di poter vivere senza essere del tutto a carico di altri. Rispetto ed affetto ed affermazione della propria personalità sono il frutto della pensione di vecchiaia; sicché questa contribuisce a poco a poco ad attenuare il senso di dispregio in che i giovani tengono i vecchi, i quali li hanno preceduti ed oggi sono incapaci a seguitare la fatica, la quale ha consentito ai figli, ora dimentichi, di intraprenderla nella pienezza delle loro forze[10].

 

 

Nella società moderna la pensione di vecchiaia deve tener conto di una tendenza: quella dell’invecchiamento crescente della popolazione. Si legge nel rapporto Beveridge che nella Gran Bretagna i vecchi (di 56 anni compiuti se uomini e 60 se donne) erano il 6,2% della popolazione nel 1901; ma crebbero al 12% nel 1941 e si calcola saranno il 14,5% nel 1951 ed il 20,8% nel 1971. Tende cioè a crescere in modo preoccupante la quota della popolazione totale la quale non lavora più ed è a carico altrui ed a diminuire la quota di coloro i quali producono e contribuiscono. Quanto più la tendenza (dovuta alla diminuzione della natalità, al prolungamento della durata della vita umana e ad altre cause) si accentua, tanto più il problema finanziario dei beni e dei servigi, in cui si concreta la pensione, diventa difficile a risolvere. Né la soluzione può trovarsi in una dilazione generalizzata dai 65 e 60 ai 70 e 65 anni dell’inizio della pensione; ché questa sarebbe causa di disparità di trattamento tra coloro che a 65 anni sono davvero impotenti al lavoro e cadrebbero, nel tempo innanzi ai 70 anni, in miseria dolorosa e quelli che a 70 anni sono vigorosi e floridi. Il rimedio si trova nell’incoraggiare il prolungamento volontario dell’età nella quale si chiede la pensione; così come fa il Beveridge, il quale alla pensione di vecchiaia sostituisce la pensione di quiescenza; e questa si distingue dalla prima, perché il vecchio può se vuole e se ne è capace, continuare a lavorare anche dopo i 65 anni se uomo e 60 anni se donna ed in tal caso la pensione cresce di 2 scellini la settimana per ogni anno di ritardo per la coppia di marito e moglie e di 1 scellino per la pensione individuale. Il ritardo a 70 anni recherebbe la pensione da 40 a 50 scellini la settimana per la coppia e da 24 a 29 scellini per l’individuo. L’erario vede notevolmente diminuito, grazie al ritardo, l’onere da esso sopportato; la collettività si giova del prodotto del lavoro dei vecchi, che altrimenti deperirebbero in un ozio forzato; e la possibilità offerta ai vecchi di lavorare allontana effettivamente l’inizio della decadenza fisica e quindi della vera vecchiaia.

 

 

41. Le assicurazioni di matrimonio e maternità e gli assegni famigliari.

 

I sussidi assegnati per l’evento del matrimonio, della maternità e gli assegni famigliari (questi in ragione del numero dei figli a carico, oltre al primo ed al secondo od altro numero) hanno di solito una spiegazione, che si enuncia con le parole politica demografica. La protrazione dell’epoca del matrimonio e la diminuzione del saggio di natalità avevano fatto sorgere in Francia sin dal principio del secolo lo spettro della decadenza demografica. Ma quello che allora si diceva il mal francese, oggi è divenuto una caratteristica di tutti i paesi civili; né l’Italia vi si sottrae e la decadenza sarebbe già iniziata, se l’abbondanza dei figli nell’Italia meridionale non ponesse ancora un freno precario alla tendenza già spiccatissima nell’Italia settentrionale. I premi al matrimonio ed alla maternità (le cure gratuite per le madri partorienti possono essere equiparate all’assicurazione malattie) e gli assegni famigliari, ossia le aggiunte al salario del capo-famiglia in ragione del numero dei figli a carico dovrebbero avere per scopo di incoraggiare la costituzione di nuove famiglie e di dare una controspinta alle ragioni di prudenza le quali persuadono a limitare il numero medio dei figli al disotto di quei tre – ma in taluni paesi il numero sale a quattro – che sembra il minimo necessario, tenuto conto dei celibi e delle nubili e delle coppie infeconde, a mantenere invariato, di generazione in generazione, il numero dei viventi.

 

 

Se il mezzo pecuniario (sussidi a matrimoni e maternità, assegni famigliari, esenzione di imposte ai padri di famiglie numerose) sia adatto a raggiungere il fine dell’aumento o del freno alla diminuzione della popolazione, è problema il quale non si risolve se non in parte, forse irrilevante, con ragionamenti economici. Non si mettono al mondo figli allo scopo di lucrare un premio di 100 lire ante-1914 od un assegno famigliare di 50 centesimi (sempre di lire ante-1914 che pure erano qualche cosa in potenza d’acquisto); o così accade solo ad opera della quota più imprevidente della popolazione, di quella parte che per la lunga miseria, l’eredità morbidica, l’alcoolismo, i costumi rilasciati sarebbe invece socialmente vantaggioso si astenesse dalla procreazione, perché i figli a lor volta andranno a crescere le file dei grossi e piccoli delinquenti, degli alcoolizzati, dei vagabondi, delle prostitute che vivono al margine della società. Le variazioni della popolazione non dipendono se non in piccola parte da fattori economici, e sono sovratutto in rapporto a fattori morali. È ragionevole che i genitori si preoccupino della sorte riservata ai figli; e non desiderino di averne se non quel numero che essi si sentono in grado di poter allevare ed educare, sicché essi serbino e migliorino la posizione sociale che era propria della loro generazione. Ma il miglioramento delle condizioni economiche dei genitori non è bastevole all’uopo; anzi può produrre l’effetto contrario. La pratica del figlio unico da parte del piccolo proprietario terriero francese, il quale vuole conservare intatto al figlio il fondo paterno ed anzi crescerlo con l’apporto della dote della nuora, anch’essa figlia unica; la sterilità peculiare delle famiglie ricche provano l’inefficacia del mezzo economico in se stesso considerato. Solo con grande titubanza è lecito indicare mezzi adatti: la ricostruzione della vita famigliare in case individuali, fornite di orti e di giardini, poste all’infuori del centro delle grandi città, dove le moltitudini vivono ammucchiate in una o due stanze in casolari rassomiglianti a formicai, dai quali si fugge all’osteria o sulla strada; la sicurezza di dare ai figli custodia istruzione ed educazione in asili infantili, scuole elementari e medie, dove ai ragazzi è consentito di ricevere, senza onere incomportabile, libri, assistenza sanitaria preventiva, sorveglianza durante i giochi e le ginnastiche e gli esercizi sportivi; la promessa di borse di studio in gran numero, le quali rendano possibile l’ascesa ai volonterosi; il rifiorimento dei legami fra città e campagna, grazie ai quali la famiglia non dipende più esclusivamente dal salario settimanale, ma questo è integrato dalla proprietà, anche minuscola, di una terra che dà alla famiglia luce, aria, ortaggi, frutta, che occupa nelle ore di ozio, in modo piacevole l’opera del capo-famiglia e rende vivo il vincolo fra genitori e figli. Più che sussidi pecuniari, al matrimonio ed alla maternità paiono efficaci le cliniche dove le madri abbiano ospitalità e cura prima e dopo il parto, l’offerta di concorsi nell’acquisto delle suppellettili necessarie all’inizio della vita famigliare, la provvista di case economiche e sane alle nuove coppie, le quali non posseggano già casa propria. Tutto ciò, infine, il quale giovi a diminuire le incertezze della vita, e, senza togliere lo stimolo a migliorare le proprie condizioni, scemi l’incubo dell’evento imprevedibile apportatore di disoccupazione, è fattore, indiretto sì ma efficace, di saldezza sociale ed è ostacolo a quella specie di lento suicidio collettivo che vien fatto palese dalla diminuzione del saggio di natalità.

 

 

Ma gli assegni famigliari hanno una propria spiegazione indipendente dalla politica demografica. Il salario è fissato dal mercato e dai contratti collettivi di lavoro, in un importo, ragionato a tempo od a cottimo, il quale non varia in funzione del numero dei figli del lavoratore. Né potrebbe variare senza creare un interesse nei datori di lavoro a preferire i celibi agli ammogliati e gli ammogliati senza figli agli ammogliati con famiglie numerose; preferenza atta a provocare disoccupazione in questi ultimi. La norma di mercato contraddice tuttavia ad una esigenza di equità, la quale vorrebbe che i padri di famiglie numerose potessero, col frutto del loro lavoro, provvedere al mantenimento ed alla educazione dei figli. Che la miseria sia in funzione del numero dei figli, pare probabile. Una recente inchiesta condotta nella città di Bristol ha dato i seguenti risultati (tutti in per cento del numero totale):

 

 

Numero dei figli al disotto dei 14 anni per ogni famiglia

0

1

2

3

4 e più

Totali

Proporzione corrispondente delle famiglie aventi il numero indicato di figli

57,4

21,8

12,1

5,1

3,6

100

Su 100 famiglie del gruppo sono al disotto della linea della povertà

8,4

6,5

11,1

24,8

51,3

10,3

Delle famiglie del gruppo sono in un luogo che sta almeno del 100% al disopra della linea della povertà

53,3

35,8

15,9

4,3

1,2

40,5

 

 

È difficile che questi risultati siano eccezionali o casuali. Essi riguardano tutti famiglie il cui capo lavoratore manuale guadagna, se non specializzato, 42 scellini o se impiegato non più di 5 lire sterline la settimana. Le variazioni sono regolari. A mano a mano che il numero dei figli aumenta:

 

 

  • diminuisce la proporzione delle famiglie del gruppo: dal 57,4% per le famiglie senza figli al 3,6% per le famiglie con 4 figli e più;
  • aumenta di gruppo in gruppo la proporzione delle famiglie del gruppo medesimo, le quali si trovano al disotto della linea della povertà. Laddove in media il 10,3% del totale appartiene a quello che gli inglesi chiamano il submerged tenth, il decimo che non riesce ad alzar la testa al disopra della miseria, la proporzione cresce col crescere del numero dei figli, sino al 51,3% per il gruppo con 4 figli e più. Poche sono le famiglie di questo gruppo; ma di queste poche più della metà è caduta al disotto della linea di miseria;
  • scema di gruppo in gruppo la proporzione delle famiglie le quali riescono a migliorare notevolmente la loro sorte. Laddove il 40,5% delle famiglie considerate riesce, nonostante i modesti guadagni, a superare di più del 100% il livello considerato di povertà, solo il 15,9% delle famiglie con due figli giunge alla meta, ma appena il 4,3% di quelle con 3 figli e l’1,2% di quelle con 4 figli e più si solleva ad un tenor di vita superiore.

 

 

È chiaro che la regola del mercato, la quale attribuisce ai lavoratori ugual salario per ugual lavoro, senza riguardo al numero dei figli, contraddice all’esigenza della giustizia sentita dall’universale la quale vuole che l’aumento della figliuolanza non tragga le famiglie nella miseria e non scoraggi l’operaio dal lavoro. Cercarono di provvedere all’uopo le casse di compensazione istituite dapprima volontariamente da taluni industriali in seno alla loro intrapresa o al gruppo delle loro intraprese e poi generalizzate, ad esempio in Italia, dalla legge e rese obbligatorie per grandi categorie di lavoratori. Il datore di lavoro è chiamato dalla legge sugli assegni famigliari a versare un contributo costante per occupato celibe od ammogliato, improle o padre di famiglia, ad una cassa comune. In tal modo è salvo il principio della indifferenza del datore di lavoro rispetto agli operai, poco importando a lui se l’assunto al lavoro sia celibe o padre di dieci figli. Ma la cassa preleva dal fondo comune i premi assegnati ai capi di famiglia in proporzione al numero dei figli. Nel piano Beveridge l’assegno è di 8 scellini settimanali per figlio oltre il primo, per il quale nulla si propone di dare, reputandosi che il padre debba e possa provvedere ad esso col proprio reddito; sicché distribuendo l’assegno totale su tutti i figli, compreso il primo, esso si palesa progressivo.

 

 

La razionalità della spiegazione che così viene fornita degli assegni famigliari non fa venir meno la rilevanza dell’osservazione già implicitamente fatta a proposito della giustificazione detta della politica demografica; è l’assegno, il dono in denaro, mezzo sufficiente a trarre su dalla miseria il decimo sommerso? Perché delle famiglie con egual numero di figli 0, 1, 2, 3, 4 e più rispettivamente l’8,4, il 6,5, l’11,1, il 24,8 ed il 51,3% sono al disotto e quindi il 91,6, il 93,5, l’88,9, il 75,2 ed il 48,7%, sono al disopra della linea della miseria?

 

 

Il numero dei figli non è uguale in ogni gruppo; e, data l’indole delle famiglie considerate, non è suppergiù uguale il salario? Non vi sono forse casi in cui famiglie con salario minore e con numero di figli minore non si sono lasciate cadere entro la miseria del decimo sommerso? Quali sono le caratteristiche morali, spirituali, famigliari delle famiglie cadute al disotto e di quelle rimaste al disopra della linea? Se il fattore «salario» non è decisivo, l’assegno famigliare non rischia di mancare sovente al fine suo che non è il maggior guadagno dell’operaio padre di famiglia, ma l’elevazione della famiglia? Chi assicura che l’assegno famigliare non sia male speso? Non sarebbero perciò più efficaci quegli altri tipi di preferenze per il capo-famiglia, di cui già si è detto: la concessione di casa ampia provvista di orto, l’offerta di giardini d’infanzia, di asili con refezione, di cure mediche preventive per i bambini ed i ragazzi, le settimane al mare od alla montagna, la borsa di studio nelle scuole medie e superiori?

 

 

42. L’assicurazione malattia.

 

L’assicurazione malattia pone ed ha posto in Italia gravi problemi, i quali si riducono a quello della scelta fra la organizzazione uniforme di stato e la libera iniziativa di privati, associazioni, fondazioni anche incoraggiate e sussidiate dallo stato. Se l’assicurazione malattia dovesse servire solo ad offrire a tutti i malati i servigi di un medico fiscale, anche ben pagato – laddove i medici delle mutue e delle casse malattie sono oggi in Italia mediocremente pagati e rendono servigi corrispondenti al trattamento ricevuto – meglio non farne nulla. Tra medico fiscale e malato esiste relazione non di fiducia, ma di sospetto. Senza la volonterosa cooperazione dei medici e la libera scelta del medico da parte del malato, l’assicurazione contro le malattie costa e non rende; ed è per giunta creatrice di odio e di sentimenti antisociali. In un paese come l’Italia, nel quale l’assistenza ospitaliera ha così grandi tradizioni, perché inaridire le fonti della carità privata, perché porre un limite all’incremento degli ospedali, degli ambulatori, delle case di cura, di riabilitazione fisica, di cure preventive ai mari ed ai monti ad opera della carità privata e degli enti pubblici?

 

 

Quando tutti i malati, i quali non avessero i mezzi di curarsi in casa, fossero sicuri di trovare assistenza e medicine in ospedali pubblici e semi-pubblici, a che pro una macchina assicurativa lavorante a gran costo ed a vuoto? Quando fossero eliminate le difficoltà derivanti dall’obbligo di rimborso delle spese ospedaliere da parte del comune dove il malato ha il domicilio di soccorso; quando insomma l’accoglimento del malato, di qualunque malato a semplice richiesta in un ospedale o luogo di cura fosse immediato e certo e gratuito, a che pro marchette e contributi ed impiegati e denari che vanno e vengono e si registrano? La lotta contro le malattie, compresi gli infortuni per il tempo di cura, è tipicamente estranea al campo assicurativo. Sarà d’uopo sormontare pregiudizi, offrire agevolezze e larghezze di scelta, attrezzare gli ospedali per accogliere malati senza difficoltà anche in momenti di punta; ma come non si rimandano a casa i bambini per mancanza di maestre o di aule scolastiche, così nessun malato dovrebbe essere abbandonato sulla strada od in casa qualora desideri essere curato in un ospedale. Nessun malato dovrebbe essere trattenuto a casa dal timore di abbandonare incustoditi i bambini; ché asili e doposcuola e convitti dovrebbero essere in grado di ospitare questi durante le malattie dei genitori. Per fermo l’insieme di questi servizi costerebbe; ma sarebbero con ogni probabilità denari spesi assai fruttuosamente.

 

 

Se l’assistenza ospitaliera, pubblica o volontaria, non fosse o non paresse, particolarmente nel periodo transitorio, bastevole, più che l’assicurazione, ingombrante per uffici, carte, marchette, versamenti e simili, gioverebbe la semi – gratuità dell’assistenza medica a sfollare gli ospedali. Siano liberi i medici di farsi iscrivere in un registro; ed abbiano i malati la facoltà di scegliere tra i medici iscritti il medico di fiducia. Ogni visita sia rimunerata in parte dal malato ed in parte da una cassa alimentata col provento di imposte. Se le imposte debbano essere generali o speciali (di scopo) sono problemi delicati i quali dovrebbero discutersi a fondo. Se le casse possano anche essere organizzate da fondazioni caritatevoli o da società di mutuo soccorso e non solo da enti pubblici è altro problema, che io risolverei nel senso della libertà. Il punto essenziale è che il malato, il quale volontariamente rinuncia alla cura ospitaliera interamente gratuita, sia costretto a pagare una quota parte del costo della visita medica privata, costo stabilito secondo tariffe note e concordate tra gli enti pubblici ed i collegi dei medici. Se la parte spettante al malato debba essere di una metà, di un terzo o di un quarto della tariffa intiera, è problema secondario. Il punto essenziale è che la quota spettante al malato sia da questi sentita. Solo a questa condizione si crea la fiducia tra il malato ed il medico da lui scelto, che è premessa indispensabile della efficacia della cura. La sorveglianza e la repressione degli abusi di connivenza fra malati e medici a «marcar visita» dovrebbero essere ufficio delle casse paganti, dell’ordine dei medici e sovratutto di una risvegliata coscienza pubblica.

 

 

43. L’assicurazione contro la disoccupazione.

 

Tutt’altre sono le considerazioni che fa sorgere l’assicurazione contro la disoccupazione. Beveridge propone, come fu detto sopra, 40 scellini la settimana per la coppia di marito e moglie; 24 per l’uomo con moglie occupata, e per l’uomo e la donna soli, 20 per la persona sola, fra i 18 e 20 anni, 15 per i ragazzi e le ragazze fra i 16 ed i 17 anni, 16 per la moglie lavoratrice disoccupata. Queste cifre, ricordiamolo, sono state calcolate partendo dal principio di dare ad ognuno quel che occorre per condurre una vita decente conforme a quel tenore che è considerato indispensabile per una famiglia operaia. Non ripeterò l’osservazione ovvia che molti uomini se provveduti nell’ozio necessario per vivere, non sentono affatto lo stimolo del lavorare, ché invece il Beveridge opina essere la sicurezza del vivere incitamento a lavorare per guadagnare di più e migliorare la propria posizione. L’augurio sarebbe fondato se i salari medi fossero notevolmente superiori ai 40 scellini settimanali ai disoccupati; ma è illogico lo siano durevolmente. Come si calcolano oggi i 40 scellini settimanali, se non appunto sul reddito necessario al mantenimento normale della famiglia operaia, che a sua volta è il reddito intorno a cui si aggirano i salari normali? Se domani i salari aumenteranno ciò vorrà dire un aumento del tenor di vita ed un innalzamento automatico della base su cui è calcolato il sussidio di disoccupazione. Dal circolo vizioso non si esce se non ammettendo che il sussidio sia calcolato su una base più bassa di quella reputata normale per la famiglia operaia. Si aggiunga che il sussidio di disoccupazione è dato senza limitazione di tempo ed è soggetto solo all’obbligo di seguire corsi di tirocinio per impiego diverso da quello originario, di accettare un’occupazione adatta (suitable) e di recarsi, contro rimborso delle spese di viaggio, in altra località dove sia possibile ottenere un’occupazione adatta. Non è imposto alcun obbligo di dimostrare mancanza di mezzi propri. Varranno codesti freni a scemare il pericolo dell’incitamento a non trovare mai l’occupazione adatta alle proprie attitudini? Si può fondatamente rimanere scettici. Più che scettici, si deve essere allarmati di fronte all’altro grande pericolo dell’assicurazione contro la disoccupazione: quello di creare o rafforzare il monopolio dell’offerta del lavoro a cui le leghe operaie intendono. Si ha un bel dire che noi viviamo in un mondo di monopoli o quasi monopoli; che ai monopoli di parte imprenditrice è naturale si oppongano i monopoli di parte operaia; ma pare certo che, se non dell’economista, il quale si diverte con indifferenza a studiare le più varie specie di monopoli, fra cui quelli bilaterali, sia compito dell’uomo di stato – ed i riformatori sociali in questa sede non possono fare appello all’indifferenza dell’economista, ma fanno proposte in qualità di uomini di stato periti ossia consapevoli degli effetti delle loro proposte – non di creare e favorire, bensì di reprimere e limitare i monopoli.

 

 

Che i sussidi di disoccupazione sufficienti alla vita della famiglia del disoccupato favoriscano la posizione monopolistica delle leghe operaie pare verità non facile ad essere contraddetta. La lega operaia, a cui siano iscritti 100 mila operai occupati, nel contrattare il salario è naturalmente indotta a cadere con l’altra parte d’accordo su un salario, ad ipotesi, di 30 lire (1914) settimanali, dato il quale gli imprenditori abbiano interesse, a parità di altre condizioni, ad assorbire tutti i 100.000 operai. Se al salario 30 conviene agli imprenditori impiegare soltanto 90.000 operai, la lega, non esistendo sussidi statali di disoccupazione, deve provvedere essa, con i suoi fondi, a mantenere i 10.000 operai disoccupati. Ma poiché essa trae i suoi fondi dai contributi dei soci, i 90.000 operai occupati dovranno prelevare sul proprio salario di 30 lire la somma necessaria per mantenere i 10.000 disoccupati. Se il sussidio è fissato in 20 lire settimanali, con un costo complessivo di 200.000 lire, sono 2,20 lire circa che ogni occupato deve detrarre dal suo salario per mantenere i disoccupati. Il salario netto si riduce perciò per lui da 30 a 27,8 lire settimanali. Conviene a lui insistere sulle 30 lire? sì, se le 27,8 lire nette residue sono superiori alle 27 lire di cui si dovrebbe contentare se gli imprenditori, per indursi a occupare non 90.000 ma 100.000 operai non potessero pagare di più; no, se essi sono inferiori alle 28 lire che gli imprenditori si decidessero invece a pagare per impiegare tutti i 100.000 operai disponibili. La disoccupazione potenziale è dunque un freno alle pretese delle leghe operaie di crescere il salario al disopra del livello dal quale tutta la mano d’opera disponibile sarebbe assorbita.

 

 

L’assicurazione contro la disoccupazione, accollando l’onere di essa ad un fondo praticamente alimentato, al di là di un minimo, dai contribuenti, libera le leghe operaie dall’incubo di dovere provvedere all’onere della disoccupazione che esse creano. Se esse insistono sulle 30 lire settimanali e nascono perciò 10.000 disoccupati, l’onere delle 20 lire di sussidio (200.000 lire in totale) ricade sul fondo. Perché preoccuparsene? E perché non tentare di spingere i salari a 35 lire, anche a costo di aumentare il numero dei disoccupati a 20.000? Paga il fondo: 400.000 lire la settimana invece di 200.000. Un limite teorico-economico non si vede tanto facilmente; sebbene di fatto un limite politico ci sia, se si vogliono evitare reazioni troppo vaste e spettacolose nell’opinione pubblica. Ma, entro dati limiti, la manovra, simile in tutto a quella di tutti i monopolisti di parte imprenditrice, i quali calcolano il prezzo di massimo rendimento netto, riesce.

 

 

Il sussidio di disoccupazione è uno dei tanti fattori di pubblico irrigidimento, i quali hanno reso difficile l’operare del sistema di libera concorrenza ed hanno fatto concludere alla fatale rovina di esso. Se si vuole abolire o ridurre la disoccupazione, fa d’uopo ridare elasticità al meccanismo dei prezzi e quindi dei salari; fa d’uopo non abolire ogni responsabilità delle leghe operaie per gli effetti del loro operare, ma crescerla. Invece di accollare allo stato l’onere dei disoccupati, che gli operai creano con la loro vittoriosa insistenza su un livello di salari superiore al livello di equilibrio fra quantità domandata e quantità offerta di mano d’opera, fa d’uopo che questa responsabilità ricada viemmeglio sulle leghe. Pare certo che l’assicurazione statale contro la disoccupazione sia uno degli elementi più pericolosi e dubbi dell’intero sistema di assicurazioni e di assistenza sociale. Qui il ritorno alla responsabilità diretta degli interessati sarebbe fecondo. Dovrebbero essere istituite indagini sulle cause della disoccupazione, rivolte a dare un peso quantitativo ad ognuna di esse, distinguendo quella parte che può essere dovuta alla politica dei salari da parte delle leghe da quella che è dovuta ad altri fattori estranei e generali (crisi economiche, guerre, ecc.); e questa soltanto dovrebbe essere oggetto di assicurazione.

 

 

44. Gli argomenti non decisivi a proposito della garanzia statale di un minimo di vita.

 

I piani di assicurazione e di sicurezza sociale che finora si sono esaminati per quanto tocca i loro principi essenziali – ed essi poco differiscono, quanto ai principi, da un paese all’altro del continente europeo – hanno questo di caratteristico: che essi sono rivolti ad assicurare il lavoratore (sistemi continentali: tedesco, italiano, francese) o l’uomo in genere (tendenzialmente sistema inglese) contro gli effetti di taluni eventi i quali fanno cessare, interrompono o riducono l’attitudine ad ottenere un reddito (morte, invalidità, vecchiaia, infortunio, malattie, disoccupazione) ovvero riducono l’attitudine del reddito a soddisfare le esigenze cresciute della famiglia (matrimonio maternità, figliuolanza numerosa). Se non si verifica l’evento, non nasce la ragione di ottenere l’indennità, l’assegno, il sussidio, la pensione.

 

 

Posti dinnanzi ai problemi propri di ogni branca di assicurazione di un minimo di assistenza al verificarsi dell’evento dannoso, taluni si sono chiesti se non facesse d’uopo di affrontare il problema nella sua interezza; e, postoché il fine sarebbe quello di garantire a tutti gli uomini viventi non l’uguaglianza di fatto ma l’uguaglianza nel punto di partenza, conchiusero: lo stato attribuisca ad ogni persona fisica dal momento della nascita sino alla morte il diritto ad una pensione uguale in ammontare al necessario alla vita. Il minimo di vita potrebbe essere definito, nella ipotesi più stretta, essere la somma annua necessaria a mantenere una persona invalida o vecchia (incapace cioè al lavoro) in discrete condizioni di conforto; od anche quella annua somma che sia per l’appunto sufficiente per alimentare, vestire ed educare un bambino od un ragazzo fino all’età lavorativa; o, nella accezione più larga, la somma atta a soddisfare i bisogni normali di un essere umano, vivente in una società civilizzata. Questa seconda definizione corre sotto il nome del giudice Higgins, giudice capo della prima corte istituita verso la fine del secolo scorso (in Australia) per decidere, con arbitrato obbligatorio, le contese del lavoro. Poiché la teoria che qui si esamina è quella del punto di partenza, sembra che la concezione più stretta sia quella che meglio la definisca; laddove la seconda più larga risponderebbe meglio all’idea del punto di arrivo, nel quale l’uomo potrebbe adagiarsi, senza aspirare ad altro.

 

 

Nel giudicare il principio della pensione universale di stato, appannaggio di ogni uomo vivente dall’età zero al momento del supremo viaggio finale, giova non attardarsi su punti secondari. Non paiono perciò vantaggi decisivi:

 

 

  • quello della semplificazione del servizio. Sarebbero aboliti controlli, visite, uffici, organizzazioni sanitarie, di rieducazione per i disoccupati, ecc. ecc. Ogni vivente riceverebbe ad es., alla fine della settimana o del mese, un assegno postale che gli sarebbe pagato a casa dal portalettere delle raccomandate, come ogni altro vaglia postale, sulla semplice constatazione della sua identità personale o della sua esistenza in vita; o, meglio, progredendo la educazione economica, a mezzo di un accreditamento periodico su un conto corrente di banca o di cassa di risparmio. La semplificazione e il risparmio sarebbero certamente grandi; ma il maggior costo del sistema dell’assicurazione contro i singoli eventi dannosi non sarebbe decisivo se il maggior costo fosse compensato, come è probabile sarebbe, dalla maggior sicurezza di far pervenire l’aiuto nei casi nei quali esso è richiesto, ad esclusione dei casi più numerosi, nei quali esso fosse superfluo;
  • quello della via diritta e rapida per raggiungere il fine della sicurezza di vita in confronto a quello incerto e lungo e tortuoso del provvedere nei soli casi, accertabili con difficoltà e dietro inchieste fastidiose, nei quali la sicurezza è già venuta meno. Se, in difesa del principio della pensione universale, non sta altro argomento, esso deve essere respinto per una ragione di indole generale. Nelle cose economiche e sociali, la via diritta, salvo eccezioni rarissime, è la via falsa. Solo la via storta, lungo la quale gli uomini cadono, ritornano sui propri passi, esperimentano, falliscono e ritentano e talvolta riescono, è la via sicura e, di fatto, più rapida. Ricordatevi sempre, quando ascolterete qualcuno il quale vi prometterà, con sicurezza spedita, la certa soluzione di un problema sociale, il quale vi offrirà lo specifico per le malattie sociali, il quale vi farà vedere, al di là di un periodo temporaneo di costrizioni necessarie per vincere il nemico, l’avvento del benessere e dell’abbondanza, il quale vi denuncerà un mostro da combattere (ad es. il capitalismo od il comunismo, od il fascismo od il reazionarismo, ecc. ecc.), allo scopo di far trionfare l’angelo e il paradiso terrestre (ad es. lo stesso comunismo od il socialismo od il corporativismo, ecc.), ricordatevi che colui il quale così vi parla e, nella ipotesi migliore, un illuso e più probabilmente un ciarlatano e diffidatene. Solo la via lunga, seminata di triboli è la buona; perché solo percorrendola, l’uomo impara a migliorare se stesso ed a rendersi degno della meta a cui vuol giungere. Se altro vantaggio, fuor della semplicità e della rapidità, non presentasse, il principio del minimo assicurato a mezzo di una pensione universale di stato dovrebbe essere perciò respinto.

 

 

Non pare d’altro canto argomento contrario e decisivo quello dell’enorme costo necessario all’attuazione del piano. È difficile istituire calcoli in proposito. Se noi partissimo per l’Inghilterra dall’ipotesi dei 16 scellini la settimana (ai prezzi del 1938 e cioè 20 ai prezzi del prossimo dopoguerra che è la cifra sopra più volte ricordata), la quale è a base del piano Beveridge, il costo di una pensione universale di stato di quell’importo (ossia di circa 42 lire sterline [1938] l’anno), moltiplicato per i 45 milioni di abitanti, corrisponderebbe ad un costo annuo di circa un miliardo e 900.000.000 di lire sterline. Che sarebbe un onere non piccolo, il quale, aggiungendosi alle altre spese statali e pubbliche, assorbirebbe una notevolissima parte delle lire sterline cinque miliardi e 200.000.000, calcolate (sempre ai prezzi del 1938) come misura di reddito nazionale totale annuo britannico del dopoguerra. Né appare, a primo tratto, meno grave l’onere di una pensione universale di stato in Italia uguale, in lire italiane ante-1914, a lire 300 all’anno a persona. Per i 45 milioni di italiani, l’onere risulterebbe di annui miliardi 13,5 in lire italiane ante-1914, a cui aggiungendosi, nelle stesse lire, 2,5 miliardi per le ordinarie spese pubbliche di allora, si otterrebbe una somma di circa 16 miliardi, i quali dovrebbero essere prelevati su un reddito nazionale annuo, calcolato prima del 1914 in circa 20 miliardi delle stesse lire.

 

 

Stando così le cose, il problema, almeno per l’Italia, apparirebbe senz’altro insolubile; poiché a meno di essere vittime di allucinazioni ottimistiche, nessuno può credere che nel nostro paese l’amministrazione finanziaria riesca a conoscere e ad accertare un reddito nazionale di 20 miliardi di lire, quando si sapesse che ciò dovesse servire a prelevare imposte per l’ammontare di 16 miliardi.

 

 

Non pare tuttavia che l’argomento dell’impossibilità e della assurdità utopistica sia decisivo. Per due ragioni. La prima si è che, se a 20 miliardi si calcolava il reddito nazionale italiano del 1914, nessuno può prevedere quale potrà essere, rimarginate che siano le distruzioni belliche – e potrebbero esserlo in pochissimi anni se gli italiani attendessero, anche attraverso a vivacissime discussioni, assiduamente al lavoro di ricostruzione del paese -, il reddito nazionale del dopoguerra. Se gli italiani sapranno trarre partito dai grandiosi progressi verificatisi nell’ultimo trentennio nella tecnica produttiva, quella cifra dei 20 miliardi del 1914 potrebbe diventare un mero ricordo di un passato lontano, di gran lunga superato dalla realtà.

 

 

La seconda ragione si è che quelle cifre di 20 miliardi di reddito nazionale e di 16 miliardi di oneri diventerebbero cifre prive di senso nell’ipotesi della pensione universale di stato. Gli uomini, invero, muniti di un minimo di capacità di acquisto farebbero una domanda di beni e di servigi diversa da quella che oggi fanno. Aumenterebbe la capacità di acquisto dei poveri e scemerebbe quella dei ricchi. Beni e servigi diversi sarebbero richiesti; diversa sarebbe la produzione, diversi i prezzi. E poiché i redditi singoli, e perciò anche la somma dei redditi singoli (cosidetto reddito nazionale totale), altro non sono se non la somma dei prezzi dei beni e dei servigi prodotti e venduti dai singoli individui, depurati dai relativi costi di produzione, così il reddito nazionale totale, probabilmente cresciuto nella massa fisica a causa del progresso tecnico, sarebbe ancor più diverso, da quello che è, quanto alla sua valutazione monetaria. Inutile perciò attardarsi intorno a calcoli finanziari ed economici, dei quali si ignora del tutto la consistenza. Giova meglio esporre i dati teorici del problema.

 

 

45. Gli argomenti favorevoli.

 

A favore della pensione universale di stato stanno i seguenti motivi:

 

 

  • 1) Essa darebbe ai giovani la possibilità di aspettare il momento migliore per entrare nella vita lavorativa. Oggi, il figlio del povero, del lavoratore, dell’impiegato semplice deve addirsi al lavoro, non appena trascorsa l’età fino al termine della quale le leggi del paese impongono la frequenza obbligatoria alla scuola elementare o vietano l’entrata in fabbrica. Sia vera la ragione della miseria addotta dai genitori, o sia un pretesto addotto da questi per preferire all’adempimento dei loro doveri verso i figli altre egoistiche soddisfazioni personali, il risultato è il medesimo: il giovane povero in questi casi entra nella vita privo di cultura generale e di tirocinio tecnico. Rimane per tutta la vita un lavoratore semplice, non qualificato, incapace ad ottenere il salario corrente che si dà ai lavoratori non qualificati; facile preda della disoccupazione, della malattia, del vizio.
  • 2) Se non a tutti, se non ai più tenaci ed intraprendenti e intelligenti, la necessità del lavoro quotidiano immediato vieta a molti di trarre partito dalle qualità creatrici inventive organizzatrici che essi possono avere in sé. Quante invenzioni, quanti progressi tecnici rimangono soffocati in germe dal grigiore della fabbrica quotidiana, che dopo qualche anno trasforma il giovane pieno di speranze in uomo maturo rassegnato e sfiduciato! Anche chi non voglia esagerare l’importanza dei germi così soffocati, deve riconoscere che un certo peso esiste in questa argomentazione.
  • 3) La necessità di offrire subito la propria forza di lavoro non solo impedisce che questa venga poi sul mercato migliorata in qualità e fornita perciò di una produttività più alta, ma vieta che la concorrenza si attui in pieno. Molti i quali, sicuri dal bisogno per sé e la famiglia, preferirebbero la vita indipendente, il rischio della professione libera, del mestiere artigiano, della gestione di un proprio negozio, della coltivazione di un campo, di un orto, di un frutteto, di una vigna prima presa a mezzadria, poi in fitto e poi acquistata, sono, dalla necessità di guadagnare subito per vivere, costretti a locarsi altrui, come impiegati, salariati, manovali. Concorrenza vuol dire scelta, opzione, possibilità non solo di offrirsi sul mercato, ma anche di ritirarsi dal mercato. Anche chi dalle proprie osservazioni sia tratto a credere che la maggioranza degli uomini viventi in città sia desiderosa di vita tranquilla, con stipendio e salario certi, e non ambisca le incertezze delle professioni e delle occupazioni indipendenti, deve riconoscere che tale non è l’inclinazione degli uomini viventi in campagna, abituati dalla nascita a considerare naturali le vicissitudini e le incertezze dei raccolti; e tale non è l’inclinazione della minoranza più energica ed attiva degli uomini anche cittadini, sempre insofferente dell’ubbidire altrui. La possibilità di uscire dal mercato, data dalla pensione di stato, muterebbe i dati del problema e probabilmente farebbe aumentare il livello delle remunerazioni, sovratutto mutando ed innalzando la produttività del lavoro di coloro che continuassero ad offrirsi.
  • 4) I datori di lavoro, per far pendere la bilancia della scelta a proprio favore, per scemare l’interesse al moltiplicarsi delle piccole imprese indipendenti, industriali, e sovratutto agricole, dovrebbero sforzarsi ad attrarre a sé gli uomini non solo con l’offerta di rimunerazioni migliori, ma anche di condizioni esterne del lavoro medesimo più simpatiche. Sarebbe interesse degli imprenditori di accompagnare al compenso pecuniario quello che spesso, agli occhi del lavoratore, vale assai di più, e cioè il premio per il lavoro ben fatto, consistente in lodi, in distinzioni, in miglioramento di carriera, in invito a partecipare alla gestione ed al perfezionamento di quel ramo di lavoro, del reparto, dell’officina. L’operaio fedele e capace, l’impiegato anziano, acquisterebbe una posizione morale nell’impresa, di valore non minore dalla posizione finanziaria.

 

 

46. Gli argomenti contrari.

 

Alle ragioni favorevoli ora esposte si contrappongono due sostanziali argomentazioni:

 

 

  • 1) Anche se per avventura si ritenga che la attribuzione del diritto ad una pensione vitalizia atta a garantire l’indispensabile all’esistenza sia economicamente pensabile; anche se si reputi possibile, affermato il principio, limitarlo, ad es., alla cifra di 300 lire italiane ante-1914 all’anno, ed abbiamo già veduto a quale salto nel buio si andrebbe incontro, salto che si è preferito sopra non analizzare, trovandoci di fronte all’inconoscibile, non si può chiudere gli occhi dinnanzi al rischio sociale gravissimo che la proposta contiene: quella dell’incitamento all’ozio.

 

 

La natura umana è siffattamente impervia all’allettativa del vivere, anche soltanto nel grado inferiore considerato ammissibile secondo il costume del paese, senza lavorare, da poter essere sicuri che una percentuale notevole degli uomini viventi non preferisca l’ozio al lavoro? Basterà l’impulso dato agli altri 80% per compensare il minor prodotto dovuto all’ozio di un 20%? E se la percentuale degli oziosi crescesse, il problema non diverrebbe insolubile? Quale la influenza cumulativa dell’esempio offerto dalla vita oziosa della minoranza sul contegno di una maggioranza inizialmente energica e laboriosa? Domande alle quali ciascuno di noi è chiamato a dare una risposta seria a seconda della sua esperienza degli uomini, delle sue osservazioni, del luogo in cui vive, della sua professione e di quella dei suoi colleghi. L’essenziale è di persuadersi che i problemi sociali sono complicati, che essi non presentano soluzioni facili e che in un paese libero la classe dirigente deve abituarsi a discutere con serietà di studi, di osservazioni e di ragionamenti, stando lontana, come dalla peste, dai faciloni e dai demagoghi.

 

 

  • 2) Principiis obsta. Se anche dapprima si abbia la forza di fissare la pensione di stato ad un livello che sia un mero punto di partenza, siamo noi sicuri di poterci fermare a tal punto? Se 300 lire ante-1914, sono, ad ipotesi, quel minimo, chi potrà fermare a quel punto la concorrenza nel promettere e nel dare? Sarà possibile rifiutare, dopo aver dato il panem, anche i circenses? Già in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove il piano Beveridge è stato largamente discusso ed acclamato, vi è chi osservò che i 40 scellini per la coppia ed i 24 per l’uomo singolo a settimana provvedono solo ai bisogni ragionevoli, conformi al tenor di vita usuale oggi nelle classi lavoratrici, per l’abitazione, gli alimenti, i vestiti, le cure mediche e le altre concorrenze usuali indispensabili della vita. Ma l’uomo non vive di solo pane. Occorrono anche svaghi e riposi, qualche settimana in montagna od al mare, la frequenza di qualche cinematografo, o teatro, ecc. Ad un questionario recente diramato dal settimanale svizzero «Die Nation» (Berna, 11 maggio 1944) alla domanda: «quando e quale pensione per ogni singola persona vecchia ritenete dovrà essere assicurata dalla Confederazione?» il 58,9% rispose che la vecchiaia pensionabile cominciava ai 60 anni e solo il 41,1% preferì i 65 anni; e, relativamente al quantum, nessuno si contentò dei 600 franchi all’anno, solo il 5,5% di coloro che manifestarono un’opinione si rassegnò ai 900 franchi all’anno; ma il 16,5% preferiva i 1.200 franchi, il 13,7% i 1.500; il 21,2% saliva ai 1.800 franchi, il 25,5% ai 2.400 franchi ed un 17,6% chiese i 3.000 franchi all’anno.

 

 

La concessione di un dono gratuito non produce di solito gratitudine e sforzo per meritare il dono, ma recriminazioni per l’insufficienza di esso. Come le scene più abbominevoli di contegno indecente fra persone ordinariamente bene educate si osservano nei grandi ricevimenti, nei quali è offerto elegante ed abbondante rinfresco; così è temibile la corsa al chiedere da parte degli elettori e al promettere di partiti politici aumenti alla miserabile spregevole cifra della pensione di stato. Dopo brevissimi anni si dimenticherà la premessa essenziale del sistema: che la misura della pensione debba essere fissata ad un livello che sia un punto di partenza, e si finirà per mutarla in guisa che essa sia per i più il punto di arrivo, crescendo a dismisura lo stimolo dell’ozio. Anche limitata ai vecchi, la richiesta fatta dal nucleo più grosso di coloro che risposero al questionario di «Die Nation» di una pensione individuale di 2.400 franchi all’anno, è siffatta da far allibire i finanzieri più spregiudicati, ed i sociologhi più ottimisti. Quanto più si dovrebbe allibire rispetto al principio della pensione universale! Roma non cadde sotto i colpi dei barbari. Era già caduta prima, guasta dalla corruzione interna la quale aveva trovata lapidaria espressione nelle immortali parole panem et circenses.

 

 

Capitolo III. Le associazioni (sindacati, leghe) operaie

 

47. Premessa.

 

Accanto ai piani di sicurezza sociale e di pensione universale che trovano il loro punto di partenza in un intervento dello stato a favore dei più, fa d’uopo studiare le iniziative e le lotte condotte per il proprio innalzamento dai lavoratori medesimi. Si vuole accennare a quelle che si chiamano trade-unions in Inghilterra, syndicats ouvriers in Francia, leghe operaie in Italia[11].

 

 

48. La corporazione medioevale.

 

Poiché, in tempi recenti, si fece riferimento, anche nel nome, alle corporazioni medioevali d’arti e mestieri, giova notare che esse attraversarono due fasi nettamente di stinte, la prima quella che va dal Duecento alla fine del Quattrocento (1200-1500 d. C.) e l’altra che si può dire propria dell’epoca degli stati moderni accentrati (secoli 17esimo e 18esimo).

 

 

Qualunque sia stata l’origine delle corporazioni medioevali d’arti e mestieri, si ricolleghino esse alle scuole od associazioni romane o siano il risultato della lenta trasformazione di spontanee associazioni religiose le quali accomunavano gli uomini addetti al medesimo lavoro a scopo di preghiera, di funerali, di festa in occasione della ricorrenza del santo patrono, di mutua assistenza nei casi di malattia, noi vediamo sorgere la corporazione nelle città medioevali italiane del 1200-1300 per libero atto di volontà degli artigiani. Non lo stato (comune o signoria o vescovo) crea la corporazione; ma questa sorge dal bisogno sentito dagli uomini esercenti il medesimo mestiere od arte di riunirsi allo scopo di difendere gli interessi comuni, di stabilire regole di condotta nei rapporti con i clienti, nella fissazione dei prezzi, nella tutela della onorabilità del gruppo per quanto riguarda la genuinità e la bontà della merce. Accadde talora che le associazioni fra maestri e lavoranti divenissero fattori importanti della vita del comune e persino costituissero il comune medesimo, quando la somma del potere nel comune fu attribuita in tutto od in parte ai capi della corporazione (consoli). Ed accadde anche che le norme che le corporazioni avevano date a se stesse ricevessero una specie di crisma od approvazione da parte del comune; ma ciò non vietava che la legge potesse essere mutata dai componenti il corpo medesimo, richiedendosi nuovo crisma di approvazione dal comune e magari anche da qualche autorità superiore. Ma ciò non faceva venir meno il carattere essenziale della corporazione medioevale: quella di essere una creazione spontanea, volontaria e mutabile degli interessati. Essa non era rivolta a mantener privilegi; ché l’entrata nel mestiere era aperta a chi ne aveva la capacità; ed ancora non avevano preso piede le norme rigide, in virtù delle quali solo chi aveva seguito un periodo più o meno lungo di tirocinio (apprendista) poteva diventare garzone o lavorante; e solo chi aveva compiuto il capolavoro, maestro. Non erano rari i casi di giovani, i quali avendo attitudini e mezzi, impiantavano subito bottega e diventavano maestri o soci di maestri; laddove altri faceva a meno del tirocinio e diventava subito lavorante. La lotta politica e la lotta sociale, che erano caratteristica dei comuni medioevali, improntavano di sé anche le associazioni degli artigiani. Artigiani, e non operai semplici, ché la distinzione fra datori di lavoro e lavoratori era assai meno marcata d’oggi ed agevolmente si passava dall’una all’altra condizione; e la vita dei lavoranti e dei maestri era spesso comune, tutti facendo parte della medesima famiglia.

 

 

49. La corporazione decadente dei secoli XVII e XVIII.

 

Il quadro muta, quando dalla vita libera del comune medioevale si passa, attraverso lenta variazione, alla vita regolata e cristallizzata delle grandi monarchie dei secoli 17esimo e 18esimo, e delle minori aggregazioni politiche formatesi accanto ai regni di Francia, Inghilterra, Spagna ed all’impero di nazione germanica. I governi, a scopo di polizia e di dominazione, cercano di regolare quelle che un tempo erano libere associazioni di mestiere. Queste volentieri consentono ad accettare i regolamenti regi, dai quali traggono una posizione di privilegio e di esclusivismo; ed i governi a loro volta consentono ai privilegi, perché ne ricavano «finanze», ossia pagamento di tasse, che nel complesso danno al pubblico erario, in quei tempi ancora in cerca di entrate sicure, ragguardevole vantaggio. La descrizione che può farsi del sistema cosidetto corporativo verso la meta del secolo 18esimo è la seguente:

 

 

  • a) Esiste un inquadramento degli addetti ai diversi lavori in altrettante corporazioni. Coloro che attendono alla confezione delle scarpe nuove sono iscritti nella corporazione dei calzolai, coloro che le riparano in quella dei ciabattini. Gli addetti ai grossi lavori dei tetti e dei soffitti delle case o fabbricano ruote di carri, sono carpentieri; quelli che fabbricano vetture per viaggiatori sono falegnami specialisti e gli altri che attendono ai mobili ordinari o fini sono falegnami o stipettai. Ma il calzolaio non può fare il ciabattino e viceversa; il carpentiere che fabbrica travature di tetto o ruote di carro non può attendere alla confezione del corpo della vettura e viceversa; il falegname ordinario non può fabbricare il mobile impiallicciato; lo stipettaio non può invadere il campo del falegname. Nascono contese fra ciabattini e calzolai, fra carpentieri e fabbricanti di vetture, fra falegnami e stipettai per la determinazione dei confini rispettivi dei campi di lavoro. Le entrate delle corporazioni sono in gran parte assorbite, oltreché dalle spese per le feste in onore del santo patrono, da quelle per i litigi interminabili contro le «usurpazioni» delle altre corporazioni. Nuovo motivo di dipendenza delle corporazioni dai tribunali («Consolati») ordinati dal principe a risolvere le questioni economiche; e di servitù al potere politico.
  • b) Esiste una gerarchia fra i componenti le corporazioni. Queste hanno ottenuto il privilegio di provvedere, esse sole e cioè i loro membri, ai beni ed ai servigi desiderati dal pubblico, adducendo il motivo che soltanto così poteva essere assicurata ai clienti una merce genuina o garantito un lavoro ben fatto. Per dare al pubblico cotale garanzia, era necessario di assicurarsi che gli addetti al mestiere fossero idonei. Quindi, un vero e proprio sistema scolastico di corsi di insegnamento e di esami, simile a quello che comunemente si suole indicare col nome di mandarinato cinese. Lo statuto degli apprendisti del 1562 della regina Elisabetta stabilisce che nessuno possa, nelle «città di mercato», ossia nelle città industriali quali allora esistevano, diventare garzone (operaio), se prima non ha compiuto sette anni di tirocinio. Solo dopo un periodo più o meno lungo di tirocinio, l’apprendista, non pagato o male pagato ed obbligato a servire presso un determinato padrone per tutto il tempo del tirocinio, diveniva garzone, operaio libero di sé e di muoversi da un padrone all’altro. Ma egli non può aprire bottega o laboratorio per conto proprio se non dopo un certo congruo numero di anni, che gli statuti delle corporazioni determinano. Per diventare padrone o maestro il garzone deve compiere il cosidetto capolavoro: un paio di scarpe, un mobile, un carro agricolo, una vettura di lusso ecc. Giudici sono i maestri già esercenti la medesima arte.
  • c) La corporazione adempie ad un servigio pubblico. Poiché gli statuti corporativi prescrivono che soltanto apprendisti, garzoni e maestri approvati possano mettere sul mercato beni e servigi ben fatti, occorre che il pubblico consenta agli esercenti l’arte i mezzi di vivere onestamente, secondo il grado rispettivo che essi hanno nella società.

 

 

Da un lato, perciò, la corporazione deve garantire al pubblico la bontà del lavoro. Il che fa con regolamenti minuziosi, i quali prescrivono le materie prime genuine che sole possono essere adoperate ed i metodi e procedimenti di lavoro da seguire per la perfezione del lavoro. D’altro canto, la corporazione esige che il pubblico paghi per il lavoro compiuto prezzi o compensi che siano dalla corporazione medesima, con l’approvazione del tribunale, del consolato o dell’autorità regia competente, considerati adeguati. Sono previste sanzioni per chi esiga prezzi eccessivi o troppo bassi o compia lavori i quali si allontanino, per la materia adoperata o per il procedimento usato, dalle regole corporative. Le sanzioni vanno fino alla confisca della merce ed alla esposizione di essa e anche del colpevole alla pubblica berlina sulla piazza del mercato.

 

 

  • d) La gerarchia diventa una aristocrazia di uguali. Né i prezzi potrebbero essere mantenuti, né i metodi approvati sarebbero seguiti, se qualcuno dei maestri si elevasse troppo sugli altri, se, assoldando egli molti apprendisti e garzoni, aumentasse assai la produzione e, per venderla, dovesse abbassare i prezzi o deteriorare, a parità di prezzo, la qualità della merce. Le corporazioni perciò tendono, a tutela dei garzoni e dei loro salari, a limitare l’entrata nel mestiere, ossia il numero degli apprendisti; ed a tutela dei maestri, il numero dei garzoni giudicati degni di vedere approvato il loro capolavoro o capo d’opera. Oggi i collegi dei professori, incaricati di esaminare gli studenti universitari o medi o primari non hanno alcun interesse personale ad approvare pochi o molti studenti. Ma nelle corporazioni privilegiate del ‘600 e ‘700 i maestri in carica avevano interesse, in qualità di esaminatori, a non approvare i capolavori che erano ad essi presentati, allo scopo di non crearsi nuovi concorrenti. Erano facilmente ammessi i figli od i generi dei maestri in carica; agli altri l’accesso al libero esercizio del mestiere era ostacolato da ritardi o rifiuti di accettazione del capolavoro e da forti tasse di ammissione.
  • e) L’aristocrazia di uguali si trasforma in un corpo chiuso quasi ereditario; alla porta dei quali una folla di paria attende invano di poter essere autorizzata a guadagnarsi il pane od a guadagnarlo in modo indipendente. Ebbe grande successo nel 1768 una favola francese Chinki: histoire cochinchinoise, nella quale, attribuendola, secondo il costume del tempo, a lontani paesi asiatici, l’autore, un abate Coyer, raccontava la storia di due contadini, fratello e sorella, giunti dalla campagna per guadagnarsi il pane nella città, i quali, respinti, un dopo l’altro, da tutti i capi d’arte, finiscono per cadere fatalmente nella delinquenza e nella malavita. L’opuscolo fu bruciato, per ordine dei parlamenti (corti giudiziarie), sulle pubbliche piazze di Francia per mano dell’esecutore delle alte opere di giustizia; ma fu ciononostante largamente letto e contribuì efficacemente alla abolizione venuta poi delle corporazioni.
  • f) Gerarchie ed aristocrazie, di operai e di maestri, tendono a credere ad un sofisma tra i più divulgati: che è quello della quantità fissa di lavoro da farsi o di merce da vendere. La domanda di servigi o di beni viene considerata come un fondo od una torta che si tratti di dividere fra gli interessati. Quanto più cresce il numero degli interessati, tanto più, rimanendo invariata la torta, scema il quoziente di lavoro da fare o il guadagno o salario da percepire per ognuno dei maestri o lavoranti. Di qui l’avversione verso qualunque novità o progresso tecnico o commerciale, che faccia temere un aumento nella produzione, una variazione nella qualità ed un aumento nell’offerta, a cui sembra necessariamente conseguire, col relativo ribasso nei prezzi, una diminuzione nei guadagni o salari. La corporazione diventa un organo conservatore, di vecchi metodi e di beni e servigi antiquati. Le iniziative spontanee, le invenzioni industriali, le nuove vie sono negate e debbono necessariamente trovare altro sfogo.

 

 

50. L’abolizione delle corporazioni e la affermazione della libertà del lavoro.

 

Lo sfogo fu trovato in due maniere tipicamente diverse. L’uno è il mezzo rivoluzionario, alla francese. Dopo un primo tentativo di abolizione compiuto dal ministro Turgot nel 1776 e presto sconfessato dal debole Luigi Sedicesimo, una legge Chapelier del 1791 le abolisce definitivamente al momento della rivoluzione e, andando innanzi nella reazione contro gli abusi della decadenza corporativistica, dichiara illecita qualunque specie di associazione operaia o padronale intesa a conseguire con l’abbandono del lavoro (sciopero) o con la chiusura delle fabbriche (serrata) una variazione nelle condizioni del lavoro, un aumento di prezzi o simili.

 

 

L’altro modo è quello, tipicamente inglese, dell’aggiramento pacifico. Poiché lo statuto degli apprendisti della regina Elisabetta imponeva vincoli corporativi alle «città di mercato», gli individui più intraprendenti, gli operai che sarebbero rimasti, come paria, alla porta dei laboratori industriali, fondarono botteghe, laboratori, imprese fuor del territorio di quelle città. Manchester, Birmingham, Leeds, ecc. sorsero in rasa campagna o da piccoli borghi e diventarono grandi e potenti, a scapito delle vecchie città privilegiate, come York. Queste rimasero, coi loro privilegi, attaccate alla teoria del quantum fisso di lavoro e di domanda ed intristirono a poco a poco. Le nuove città industriali prosperarono e giganteggiarono ed, in un clima di libertà, coi fatti dimostrarono che il ribasso dei prezzi, che le nuove merci o quelle fabbricate con metodi diversi da quelli antichi prescritti dagli statuti creano nuova domanda e nuovo lavoro. Alla fine del secolo 18esimo la trasformazione era avvenuta ed una legge del 1799 dichiarava anche in Inghilterra illecita ogni coalizione di operai o di padroni che avesse per iscopo di chiedere o rifiutare aumenti di salario o diminuzione di ore di lavoro.

 

 

51. La riaffermazione della libertà di associazione nel secolo XIX

 

La reazione contro i vincolismi corporativi era giunta così all’estremo opposto, sino a negare, al principio del secolo XIX, il diritto degli operai e dei datori di lavoro ad associarsi insieme per raggiungere risultati di interesse comune, ed a reputare reato punibile lo sciopero e la serrata. Ma presto si delinea la resistenza contro l’estremo che, per assicurare la libertà, nega una delle libertà fondamentali dell’uomo che è quella di associazione.

 

 

Prima l’Inghilterra, dove una legge del 1824, promossa da un antico operaio divenuto industriale, Francis Place, dichiara lecite le associazioni operaie. Leggi successive (conseguenti ad una celebre sentenza giudiziaria del 1867 la quale aveva dichiarato privi di validità giuridica i contratti collettivi di lavoro, perché stipulati in offesa alla libertà di contrattazione da parte degli individui) del 1871, del 1906, e del 1927 costruiscono il sistema giuridico, da cui le leghe operaie inglesi traggono vita. Riconosciuta non solo la liceità delle leghe, ma anche la loro capacità a possedere un patrimonio e a stare ed essere convenute in giudizio per quanto si riferisce alla gestione del patrimonio medesimo, le leghe non possono però essere chiamate in giudizio ed essere dichiarate responsabili finanziariamente per le conseguenze che una loro azione relativa a contese del lavoro abbia arrecato alla parte padronale od a terzi. Gli atti relativi a scioperi ed a serrate non possono, se compiuti per decisioni collettive di leghe o ad istigazioni dei capi di queste, condurre i partecipanti a conseguenze penali o finanziarie diverse da quelle che si verificherebbero se fossero compiuti da individui singoli per deliberazione individuale; e d’altro canto nessun atto compiuto da una persona singola in relazione ad una contesa del lavoro dà luogo ad azione solo perché esso abbia per iscopo di indurre altri ad abbandonare il lavoro, violare un contratto di impiego od altrimenti interferire con la normale utilizzazione del capitale e del lavoro altrui. La lega insomma può consigliare, aiutare, organizzare abbandoni del lavoro o scioperi; non perciò essa può essere convenuta in giudizio ed essere chiamata, con i propri fondi, a risarcir danni che dall’abbandono del lavoro derivino altrui. Solo atti di violenza fisica o morale legittimano chiamate in giudizio degli individui singoli che se ne sono resi colpevoli.

 

 

In Francia una legge imperiale del 24 maggio del 1864 abolisce le pene criminali contro gli accordi per sospendere il lavoro ed una legge Waldeck Rousseau del 1884, revocando la legge Chapelier del 1791, regola in modo liberale le associazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro.

 

 

In Italia il nuovo codice penale del 1889 – facendosi eco di un celebre processo di Mantova, nel quale un giovane avvocato, divenuto poi noto professore e politico socialista, Enrico Ferri, s’era acquistata la prima fama ottenendo l’assoluzione di contadini accusati di avere, associandosi insieme, violato la legge, la quale proibiva le coalizioni a scopo di aumentare salari o variare le condizioni del lavoro – non parla più dei reati di sciopero, di serrata e di coalizione; e dichiara punibile esclusivamente il fatto di colui il quale, in occasione di sciopero o di serrata, commetta atti rivolti ad impedire, con la violenza fisica o morale, ad altri di lavorare o non lavorare a suo piacimento. La quale è la sola posizione giuridicamente corretta.

 

 

52. Le caratteristiche delle leghe operaie alla vigilia della grande guerra.

 

Sulla base della legislazione liberale ora accennata, il movimento associazionistico operaio e padronale si sviluppa nel secolo XIX in tutto il mondo di civiltà occidentale (Europa, al di qua della Russia, Stati Uniti d’America, Canadà, Australia, Nuova Zelanda, paesi latini centro e sud americani). Nella impossibilità di descriverne adeguatamente lo sviluppo, basti accennare alle caratteristiche principali, quali alla vigilia della prima grande guerra mondiale si erano andate precisando:

 

 

  • a) Le leghe operaie (dette con varietà di vocabolario, trade-unions in Inghilterra, syndicats in Francia, sindacati o leghe in Italia) potevano avere carattere politico confessionale. Siffatta caratteristica era minima in Inghilterra, dove la religiosità essendo generale e non avendo le diverse confessioni religiose proprie organizzazioni politiche, le leghe erano sorte al di fuori delle dispute religiose ed anche di quelle politiche. Le trade-unions rimasero e rimangono ancora ora al di fuori dei partiti politici. Il partito del lavoro sorse in parte dal loro seno, e la più parte dei trade-unionisti sono anche laburisti; ma tra i due movimenti non vi è connessione necessaria; né il partito laburista ha di fatto scopi di palingenesi sociale e si propone invece di conseguire risultati specifici legislativi di volta in volta favorevoli ai ceti operai.

 

 

Sul continente, le leghe operaie hanno invece sempre fin dall’origine, serbato legami stretti con i partiti politici. Dappertutto il grosso degli operai organizzati in leghe aderì al partito socialista. Venivano dopo le leghe cattoliche ed ultime vari tipi di leghe indipendenti o liberali e sovratutto (Francia e Italia) sindacaliste, che pare volesse significare un socialismo di tipo rivoluzionario, rivolto alla conquista ed alla gestione diretta della fabbrica.

 

 

Tra i due metodi si rivelò più saldo, e capace di conseguire risultati concreti progressivamente maggiori, quello britannico del non-confessionalismo, né religioso né politico. Ed è il solo che ancora oggi duri vigoroso.

 

 

  • b) Le leghe operaie appartengono al tipo dell’associazione libera. Non sono create dalla legge, né da questa regolate, se non per la forma esteriore, come Francia.
  • c) Le leghe operaie, derivando dalla volontà di associarsi di singoli individui, hanno grande varietà di forme, particolarmente nei paesi anglo-sassoni. Esistono ivi a lato a lato:

 

 

  • associazioni di mestiere, le quali accomunano operai appartenenti alla medesima arte o ramo di lavoro: macchinisti ferroviari, compositori tipografi a mano od a macchina (linotipisti), addetti alle macchine rotative, sarti da uomo, ecc.;
  • associazioni di industria, le quali comprendono insieme operai addetti alla medesima industria, come per esempio gli operai, uomini e donne, addetti alla filatura e alla tessitura della lana, dai semplici manovali, ai filatori, ai tessitori, agli stampatori, agli apprettatori, ecc. Non il lavoro compiuto, ma l’industria a cui si è addetti, è il criterio decisivo;
  • associazioni generali, le quali riuniscono insieme operai appartenenti ad industrie e lavori diversi.

 

 

Le prime (di mestiere) sono di solito le associazioni più antiche, più salde ed anche più esclusivistiche (per le condizioni di ammissione al mestiere); le ultime sono le più recenti, quelle che giungono a raggruppare sotto le proprie insegne più rapidamente un gran numero di lavoratori, ma anche sono soggette a defezioni altrettanto rapide in caso di insuccesso (tipico il Congress of Industrial Organization, il cosidetto C.I.O., contro l’antica differenziata American Federation of Labour, A.F.L.).

 

 

Contrariamente ai paesi anglo-sassoni, dove l’associazione di mestiere (craft) conserva grande importanza, sul continente il tipo dominante è dato dalle altre due forme: d’industria e generali; e queste talvolta si chiamavano camere del lavoro, sebbene questo nome più propriamente significasse luogo od edifici dove avevano sede materiale le varie associazioni. Ma il fatto di essere riunite in una sede dava alle associazioni di mestiere e di industria un carattere di generalità e di solidarietà con il resto del ceto operaio, che era estraneo alle più antiche leghe di mestiere.

 

 

  • d) La varietà di forme e la libertà di associazione escludevano, almeno in massima, i problemi di inquadramento. Gli operai e i datori di lavoro, non essendo obbligati ad iscriversi, potevano a loro piacimento scegliere la lega alla quale affidare la tutela dei propri interessi: se di mestiere o di industria o generale; e non era escluso che si affiliassero contemporaneamente a parecchie leghe. Ciò è vero ancora adesso, particolarmente nei paesi anglo – sassoni. Nei paesi continentali europei, forse anche per la forma di mente giuridica di taluni componenti il movimento, transfughi dalla borghesia (caratteristica quasi ignota invece nei paesi anglo – sassoni) affiorava già prima del 1914 la tendenza a volere estendere l’organizzazione operaia a tutti gli operai, chiamando i datori di lavoro a prelevare le quote di associazione con trattenuta sul foglio paga. Se il sistema fosse stato generalizzato, evidentemente si sarebbe imposto il problema dell’inquadramento, ossia della lega destinataria delle quote prelevate sul salario di tutti gli operai della fabbrica. Ma si era appena agli inizi ed alla pretesa i più resistevano ancora.
  • e) Le leghe, sorte dapprima dappertutto come associazioni locali, avevano presto veduto la necessità di federarsi con le leghe di località vicine; e via via di estendere la propria azione a circoscrizioni più vaste.

 

 

L’allargamento è connesso con la formazione delle associazioni di opposta parte padronale. Se una lega locale sorge a tutela degli operai tessili di un borgo biellese contro i datori di lavoro locali, essa può, con scioperi successivi nei singoli stabilimenti, durante i quali gli operai degli stabilimenti attivi sussidiano gli operai scioperanti dello stabilimento reso dallo sciopero inattivo, riuscire a battere ad uno ad uno gli industriali separati. Ma la manovra non riesce più, se gli industriali, svegliati dall’insuccesso, si riuniscono anch’essi in lega e rispondono, con la serrata di tutti gli stabilimenti, allo sciopero a spizzico. Gli operai replicano, federando la lega locale con le leghe locali del Biellese intiero; e ripetendo la manovra per singole località, facendo sussidiare gli operai a volta a volta scioperanti in un luogo dagli operai ancora attivi delle altre località della regione. Ma gli industriali replicano anch’essi federandosi in leghe provinciali. A poco a poco, al di sopra delle leghe locali, si costituiscono così da ambe le parti, federazioni provinciali, regionali, nazionali. E le federazioni nazionali delle diverse industrie si riuniscono in potenti Confederazioni, da un lato dei lavoratori e dall’altro dei datori di lavoro dell’industria.

 

 

  • f) A questo processo di allargamento corrisponde al tempo stesso un processo che si può chiamare di razionalizzazione delle contese del lavoro.

 

 

Quando le contese hanno contenuto locale, limitato ad una fabbrica di borgo o di città, ha gran peso l’elemento personale e sentimentale. Si sciopera per impulso di malcontento, per eccitamento provocato da un discorso eloquente di un propagandista politico. Il rischio è piccolo; si spera nella solidarietà e nei soccorsi degli amici, dei vicini, dei compagni rimasti al lavoro nelle fabbriche del luogo. Alla fine, se lo sciopero non riesce, alla peggio, saranno due o tre caporioni i quali pagheranno per tutti col licenziamento e con un viaggio verso un villaggio più ospitale.

 

 

Ma se la cerchia della contesa si allarga, lo sciopero non è più deliberato in un comizio improvvisato, ma è frutto meditato di deliberazioni e di rinvii, dal consiglio della lega locale a quello della federazione provinciale, e di qui alla federazione regionale ed a quella nazionale. Se occorre, si procede a referendum tra i soci. Bisogna che il caso sia davvero importante, perché interessi i soci di altri luoghi; occorre che le ragioni siano davvero solide e il momento davvero propizio per decidere i consigli della lega ad impegnare, a sostegno della domanda di una parte sola, le forze di tutti, ossia i fondi di riserva, alimentati con le quote volontarie dei soci, quote accumulate in anni di attesa. Non si rischiano alla leggera fondi, che possono servire per scopi più gravi, e che servono ogni giorno ad adempiere ai fini propri della lega, che non siano di resistenza: sussidi di viaggio ai disoccupati in cerca di lavoro in altre località, sussidi per malattie, disgrazie, casi particolari non contemplati dalle leggi assicurative in vigore; e, non dimentichiamolo, mantenimento del personale della lega.

 

 

Invero, non appena la lega ha cessato di essere un organo puramente locale, che il compagno più volenteroso fa vivere col lavoro di qualche ora strappata di sera o di domenica al riposo; ed è divenuta un organo provinciale o regionale o nazionale, è sorta la necessità di una burocrazia permanente. Una burocrazia non di impiegati nominati per concorso ed indifferenti allo scopo della lega; ma dei migliori compagni, tolti dalla designazione spontanea dei compagni al lavoro della miniera, della officina, del laboratorio, della terra e mandati a rappresentarli nel capoluogo, insieme ad altri migliori venuti da altre parti. Costoro sono talvolta, ma non necessariamente, i più eloquenti, spesso sono i più persuasivi, quelli che gli operai ritengono i migliori rispetto allo scopo della resistenza. I capi debbono pure avere modo di vivere; e ottengono uno stipendio a carico dei fondi della lega. Ma occorre perciò che i fondi ci siano e non siano dispersi in agitazioni futili, per intenti fuor del possibile pratico. Inconsapevolmente l’agitatore puro diventa prudente; sente che non basta l’entusiasmo per guidare i compagni alla vittoria nelle questioni di orario, di salario, di cottimi. L’entusiasmo può bastare all’agitatore politico per vincere una battaglia elettorale. Per spuntare una battaglia sui cottimi, occorre conoscere prezzi e costi, sapere valutare il rendimento e la velocità di una macchina; non rimanere a bocca aperta quando il segretario della parte padronale tira fuori disegni e calcoli quasi algebrici e formule con equazioni; non farsi mettere nel sacco a sentir parlare di corsi dei cambi e di dazi che impacciano la vendita all’estero. Tra periti bisogna farsi più che periti e essere più istruiti e più competenti degli avversari. Muta il tipo del capo; da agitatori importa diventare calcolatori; da garibaldini trasformarsi in generali curvi a disegnare mosse di eserciti su carte dello stato maggiore; artiglieri capaci di calcolare traiettorie per colpi che devono arrivare a segno a distanza. Anche dalla parte padronale si opera una analoga trasformazione; e gli industriali più intransigenti nella loro concezione del “dentro la mia fabbrica il padrone sono io” finiscono per adattarsi a riporre fiducia in negoziatori esperti, prudenti, accomodanti, ripugnanti a giocare alla leggera il tutto per il tutto.

 

 

Ecco aperta la via all’accomodamento, al compromesso, al contratto collettivo. Il diritto ad usare l’arma dello sciopero o della serrata, a ricorrere all’estrema ratio della prova di forza rimane sempre; ma vi si ricorre il meno che si può. Quanto più il campo della controversia diviene ampio, tanto più diventa necessario tener conto dell’opinione dei terzi, di coloro che dalla battaglia, dalla sospensione del lavoro rimarrebbero danneggiati, dei dipendenti delle industrie affini collegate, dei clienti, dei fornitori, dei bottegai. Se la contesa è nazionale, i terzi divengono moltitudini; e la loro opinione acquista peso grande nella decisione; e il peso può giungere al punto da imporre alle due parti, incapaci di venire da sole ad un compromesso, di adire all’arbitrato di un terzo imparziale, accettato da ambedue come perito e nel tempo stesso come giudice. Ma l’imposizione non è fatta dal comando della legge o dal pugno di un dittatore; è il frutto della convinzione intima, alla quale le due parti partecipano, della impossibilità di rimbalzare anche su moltitudini di innocenti estranei le conseguenze di una lotta a coltello combattuta fra contendenti accesi nella difesa di quel che ambedue ritengono il proprio buon diritto.

 

 

53. Differenze tra paese e paese.

 

La evoluzione sopra descritta aveva avuto la sua attuazione più precisa nell’Inghilterra antebellica, dove si era costituita una burocrazia trade-unionista, quella che oggi dà i migliori elementi anche al partito del lavoro, divenuto partito di governo; una burocrazia venuta dalla gamella, alla quale gli operai si mantengono fedeli, sinché il compagno scelto a capo adempie fedelmente al suo compito di difensore degli interessi morali e materiali dei mandanti; una burocrazia di organizzatori-periti, sicuri di non essere licenziati per capricci elettorali, ma di essere mantenuti a vita nel loro posto, sinché lavorano a vantaggio degli altri, perché i compagni hanno il senso del «diritto al posto» ed hanno scrupolo a rinviare al pozzo od al banco dell’officina od alla vanga chi per tanti anni, in loro difesa, si è dedicato al lavoro della lega.

 

 

Venivano a distanza, nell’attuazione di questo che può essere chiamato l’ideale trade-unionista:

 

 

  • gli Stati Uniti d’America, dove era ed è ancora grande l’instabilità sociale e dove l’uomo energico, con le stesse qualità con le quali si era saputo elevare a capo dei suoi compagni, poteva e può essere attratto a compiti economicamente più interessanti, di pioniere nella fondazione di nuove città o nella messa a coltura di nuove terre, di creatore di nuove imprese ecc. ecc.;
  • la Germania, dove per il genio del paese, per la commistione delle lotte del lavoro con le lotte politiche, lo stato maggiore operaio aveva largamente finito per trasformarsi in una burocrazia politica, preoccupata sovratutto di ottenere dallo stato leggi di tutela e di assicurazione e di vegliare alla osservanza di quelle leggi. Caduto, sotto i colpi del nazional-socialismo, lo stato della repubblica di Weimar, anche l’organizzazione leghista, burocratizzata fino all’eccesso, cadde;
  • la Francia, dove la costituzione frammentaria delle imprese – 8 milioni di imprenditori ed artigiani e coltivatori indipendenti contro 10 milioni di lavoratori indipendenti, industriali commerciali ed agricoli, alla vigilia della prima grande guerra – faceva e fa sperare a molti lavoratori di potersi «stabilire» per conto proprio e li fa perciò soci instabili delle leghe; e dove il contrasto politico fra socialisti rivoluzionari e marxisti e sindacalisti e comunisti e cattolici assorbiva e forse assorbe il meglio delle energie degli uomini che in Inghilterra sarebbero dei modesti laboriosi organizzatori di leghe rivolte ad ottenere risultati concreti immediati.

 

 

L’Italia, nonostante qualche superficiale rassomiglianza con l’instabilità politica francese, nonostante i contrasti verbali fra socialisti riformisti e sindacalisti e cattolici sociali, nonostante la grande importanza conservata dall’artigianato, dalla piccola impresa e dagli agricoltori indipendenti, aveva, nei grandi centri urbani ed industriali e nelle campagne della pianura padana toccato, col movimento delle leghe e con quello connesso delle cooperative di produzione, di consumo e sovratutto di lavoro, un grado di sviluppo, che, se non fosse stato turbato dalle intemperanze politiche del tempo disordinato del 1919-21 e dalla reazione successiva, lasciava bene sperare nella formazione di uno stato maggiore di organizzatori operai e padronali capace di risolvere le questioni del lavoro con soluzioni di compromesso non inferiori per duttilità e variabilità tecnica a quelle in uso nei più progrediti paesi anglo-sassoni.

 

 

54. L’ordinamento sindacale corporativo.

 

È noto quale sia il contenuto dell’ordinamento corporativo costituito in Italia dalla Carta del lavoro dell’aprile 1926 e dalle leggi successive al vario mobile ordinamento anteriore al 1922. Esso non aveva alcuna sostanziale affinità con l’ordinamento corporativo medioevale; e, se affinità c’era, riscontravasi con le corporazioni del ‘600 e del ‘700 ed era inconsapevolmente derivata dalla medesima origine spirituale: la monarchia burocratica accentrata dell’età moderna ed il totalitarismo dei moderni governi dittatoriali.

 

 

In apparenza, la Carta del lavoro consacrava il principio della libertà sindacale. Liberi i lavoratori ed i datori di lavoro di associarsi o non; liberi di costituire ed aderire alle associazioni da essi preferite. Ma se questa era la lettera della legge e giovò formalmente ad ottenere per i sindacati italiani del tempo fascistico l’ammissione ai consigli ed alle assemblee dell’Ufficio internazionale del lavoro di Ginevra, ammissione che era stata dapprima ad essi negata perché quei sindacati non erano ritenuti genuini rappresentanti degli operai, era di fatto vero:

 

 

  • che non era consentita ad altri che agli aderenti alla dottrina fascistica la costituzione e la iscrizione a sindacati operai e padronali. L’on. Rinaldo Rigola fu il solo a cui, per ragioni personali, fu consentito di mantenere in vita a Milano una «Associazione di studio dei problemi del lavoro» ed una rivistina «I problemi del lavoro»; associazione e rivista che si facevano perdonare la esistenza grazie ad ampie illustrazioni della politica e della giurisprudenza corporativa vigente in Italia. Ma poi anche quella associazione di semplice studio e quella rivista furono soppresse;
  • che non solo di fatto si poté costituire una sola associazione per ogni mestiere od industria; ma quella unica associazione per essere riconosciuta legalmente ed acquistare perciò la personalità giuridica doveva essere fascistica;
  • che la libertà di non associarsi era messa nel nulla dal fatto che i sindacati non ebbero origine da bisogni realmente sentiti da lavoratori e datori di lavoro; ma dopo di essersi sostituiti ai vecchi sindacati – i vecchi sindacati socialisti cattolici o sindacalisti si sciolsero presto – i nuovi si estesero gradualmente a tutto il territorio nazionale, non per creazione spontanea dal basso ma per propagginazione dall’alto, anche là dove nessun lavoratore o nessun datore di lavoro avesse prima espresso alcuna intenzione di riunirsi in associazione;
  • che i sindacati estesero la loro azione anche al difuori del loro campo proprio di azione, che sembra sia quello nel quale lavoratori e datori di lavoro debbono tra loro necessariamente discutere del contratto di lavoro. I sindacati corporativi italiani si estesero anche agli artigiani, per i quali la parte opposta è data dai clienti, ai professionisti ed agli esercenti arti liberali, per cui medesimamente non ha luogo la stipulazione di contratti di lavoro e per cui i sindacati fascisti presero il posto dei vecchi onorati ordini forense, medico ecc., che avevano compiti di disciplina morale e di tutela della dignità professionale.

 

 

In breve l’ordinamento sindacale corporativo comprese nelle sue fila tutta la popolazione lavoratrice e produttiva italiana e furono creati gli istituti:

 

 

  • a) della appartenenza obbligatoria di ogni italiano addetto a qualsiasi lavoro manuale ed intellettuale, indipendente o dipendente, ad un suo sindacato. La quale appartenenza dava luogo alla esazione di contributi obbligatori, esatti colle norme coattive delle imposte, e fluenti a vantaggio delle organizzazioni sindacali e quasi interamente nelle casse delle due grandi Confederazioni paritetiche (dei lavoratori e dei datori di lavoro) dell’industria, dell’agricoltura, del commercio, dei trasporti, delle banche e delle assicurazioni, dell’artigianato, dei professionisti ed artisti, ecc. ecc. Trattavasi di grossi bilanci, talvolta di centinaia di milioni di lire, sottoposti al cosidetto controllo parlamentare ed alimentanti una numerosa burocrazia, cresciuta a lato della burocrazia ministeriale e, in ragione, dicevasi, della men sicura carriera, assai più largamente, almeno nei gradi superiori, remunerata;
  • b) della iscrizione cosidetta volontaria. Tutti erano appartenenti e chiamati a pagare forzosamente i contributi obbligatori. Solo coloro che presentavano domanda, se privi di squalifiche morali o politiche, erano iscritti; e dovevano pagare contributi aggiuntivi volontari. In realtà, poiché la iscrizione ai sindacati era talvolta legalmente e per lo più di fatto richiesta per essere ammessi ai lavori od impieghi od all’esercizio di prestazioni professionali, a poco a poco la più parte dei lavoratori, dei datori di lavoro e dei professionisti dovette iscriversi; cosicché il numero degli iscritti tendeva ad avvicinarsi al numero degli appartenenti;
  • c) dall’istituto dell’appartenenza derivò logicamente l’altro dell’inquadramento, in tutto simile a quello proprio delle corporazioni decadenti dell’età assolutistica. Poiché tutti debbono contribuire forzosamente, è necessario sapere a quale sindacato si appartenga e si possa essere ascritto. Rinascono le contese fra sindacato come un tempo le risse fra calzolai e ciabattini. I mezzadri sono lavoratori o datori di lavoro; e debbono pagare tributo alla Confederazione dei lavoratori dell’agricoltura od a quella degli agricoltori? Trattandosi di milioni di persone, il punto era interessante e fu deciso che la qualità di prestatori d’opera manuale prevalesse nei mezzadri su quella di associati nell’esercizio e nella direzione dell’impresa agraria. Ma ogni tanto contese sottili del genere insorgevano e dovevano essere mediate.

 

 

Come le altre controversie, anche questa era mediata in base a criteri politici. Avrebbe dovuto in verità esistere una mediazione giuridica. La legge aveva sancito il principio che solo il sindacato «riconosciuto» – gli altri liberi, che non si formarono mai, non avevano personalità giuridica – avesse la personalità ed insieme la rappresentanza giuridica di tutti gli appartenenti, fossero o non fossero iscritti ai sindacati. Le condizioni del lavoro non potevano essere regolate con convenzioni particolari, se non quando la stipulazione individuale sancisse condizioni migliori, per il lavoratore, di quelle portate dal contratto collettivo. I contratti collettivi potevano essere stipulati solo dalle organizzazioni sindacali; e quando fossero approvati dalle organizzazioni e pubblicati nelle forme disposte dalla legge, acquistavano forza obbligatoria per tutti gli appartenenti all’industria od al mestiere, arte o professione. Per le arti e professioni, non potendo darsi controversia sul lavoro, ma solo controversie coi clienti e questi non essendo inquadrabili – col tempo si sarebbe giunti anche a tanto! – trattavasi di formulare tariffe di prestazioni d’opera, che i clienti avrebbero dovuto obbligatoriamente accettare.

 

 

Se i sindacati, se le federazioni o confederazioni contrapposte non riuscivano a mettersi d’accordo, la controversia poteva essere deferita al tribunale del lavoro, che era una sezione della Corte d’appello, a cui aggiungevansi dal presidente della corte taluni periti scelti su una lista paritetica da lui stesso compilata ogni anno su presentazione delle rappresentanze sindacali. Ma, se furono frequenti i ricorsi alla magistratura del lavoro relativi a controversie individuali, derivanti cioè dalla interpretazione contrastante delle leggi vigenti e dei contratti collettivi in essere, furono rare le controversie su punti nuovi per dissidi sulla formulazione di un contratto collettivo nuovo. Le controversie morivano prima, perché le due parti finivano per mettersi d’accordo.

 

 

Non però per incontro di due volontà opposte, di consenso collettivo contrattuale, come nelle leghe propriamente dette, ma per imposizione dall’alto.

 

 

55. Come il sindacalismo corporativo fosse una branca della pubblica amministrazione.

 

Ciò accadeva sovratutto per l’indole peculiare di quelle cosidette rappresentanze sindacali. Un sindacato o lega operaia o padronale, dove esiste sul serio, ha come sua caratteristica essenziale di essere una formazione spontanea. Operai si riuniscono dapprima all’osteria, poi sulla piazza, poi nei locali di un edificio eretto a spese del ceto operaio e che un tempo, già si disse sopra, chiamavasi camera del lavoro; industriali si riuniscono prima al ristorante, poi al circolo, quindi nelle sale di una apposita associazione; e li per atto di spontanea fiducia, scelgono coloro che li guidano nei rapporti con l’altra parte. Scelta, non elezione a data fissa; e se le elezioni regolari si fanno, è pura forma. L’uomo o gli uomini scelti vengono dalle file degli operai e degli industriali medesimi e rimangono in carica finché fanno bene, finché serbano la fiducia dei compagni o dei colleghi; o finché la fiducia medesima non li promuova a cariche più alte, di segretari o di presidenti della federazione provinciale, poi regionale e poi nazionale. L’elezione è un mero mezzo di manifestare o confermare apertamente un mandato di fiducia, che deve persistere di fatto in ogni momento, se il sindacato o la lega deve vivere. Manchi la fiducia; il fiduciario non metta più passione, entusiasmo, lavoro, studio nel compito quotidiano, e la fiducia vien meno, i soci non pagano più le quote, la lega intristisce; alle prime avvisaglie di nuove controversie si disanima perché si sa che la partita è perduta. Un’altra lega, condotta da uomini più zelanti e entusiasti, ne prende il posto. Al luogo della lega di mestiere sottentra quella di industria o quella generale; il posto della lega socialista è preso da quella sindacalista o cattolica.

 

 

Nel sistema corporativo italiano era sancito bensì il principio che gli uomini insigniti di cariche sindacali dovevano essere eletti dagli iscritti; e i primi eletti avrebbero dovuto eleggere i segretari e presidenti provinciali e via via più su, sino alle cariche supreme delle confederazioni nazionali. Ma il principio era rimasto lettera morta. Se talvolta i soci erano convocati, era per udir la lettura di nomi che venivano approvati ad alzata di mano ad unanimità. Ma i nomi venivano dall’alto, con designazioni fatte d’autorità, dalle gerarchie, come dicevasi, superiori.

 

 

Ossia i sindacati non erano sindacati; ma pure branche della amministrazione governativa centrale; branche parallele e simili a quelle che si chiamavano ministeri, prefetture, questure, podesterie, ecc. ecc. Il ministro o, meglio, il capo del governo, sceglieva e nominava i presidenti delle confederazioni e i funzionari più grossi; e, discendendo per li rami, i funzionari più grossi sceglievano i minori, e questi gli inferiori. Il reclutamento non avveniva per scelta spontanea dal basso, tra gli operai stessi, tra gli industriali che riconoscevano la qualità di segretario o presidente, o meglio capo, in chi aveva saputo convincerli meglio, in chi ne aveva espresso più opportunamente la miglior volontà consapevole; in chi, per auto-designazione, li aveva condotti alla vittoria o anche alla onorata sconfitta. No. Il reclutamento del personale dei sindacati fascistici o corporativi avveniva come quello di qualunque pubblica amministrazione, talora per pubblico concorso, più spesso per amicizia, raccomandazioni, meriti acquistati nel partito e simili. Popolavano quegli uffici ed erano qualificati delegati e ispettori di zona, segretari, ispettori o direttori locali, giovani laureati in legge e scienze economiche, diplomati in agraria, ragionieri, cavalieri e commendatori, in luoghi dove ci si sarebbe aspettato di trovare uomini, se non in tuta o in blusa e dalle mani callose, almeno abituati a linguaggio diverso da quello solito burocratico. Dietro gli sportelli stavano le solite signorine, come in qualunque ufficio postale. Erano quei sindacati organi diretti dello stato totalitario, i quali registravano e cercavano di attuare la volontà del «capo», strumenti di governo, grazie a cui anche i ceti indipendenti del governo venivano a poco a poco ridotti a dipendenti. L’industriale, il commerciante, l’agricoltore, il professionista, l’operaio, l’artigiano, non negozia più in regime corporativo i prezzi dei prodotti, il compenso delle prestazioni, non organizza più l’impresa nel modo che a lui sembra più conveniente, ma – attraverso gli ammassi ai quali deve versare i suoi prodotti, i contingenti grazie ai quali ottiene combustibili e materie prime, i consorzi pubblici i quali assegnano i concimi chimici ed il petrolio per la trattrice e lo zolfo e il solfato di rame per le vigne, l’ufficio di collocamento sindacale, che gli invia operai a tale o tale salario, i sindacati che gli prescrivono le condizioni del lavoro e gli vietano di aumentare i salari anche a coloro che lo meritano con la minaccia di togliere a chi lavora il libretto di lavoro, il permesso di residenza, lo obbligano a lavorare come e dove egli non vorrebbe – cessa di essere una persona, la quale ha una volontà e la può, senza pericolo di morte di fame, far valere nelle forme legali e diventa un impiegato, un servo di chi è al potere.

 

 

Questa è l’essenza del cosidetto sistema corporativo: la trasformazione di una società varia e sciolta di industriali indipendenti, di agricoltori padroni delle loro terre, di commercianti liberi di rischiare, di lavoratori liberi di muoversi da un’impresa all’altra, di uomini dotati ciascuno di una più o meno grande capacità di resistenza alle pretese altrui, capaci di associarsi diversamente per la difesa dei propri interessi, capaci di contrattare, e di non contrattare, liberi di manifestare il proprio pensiero, in una società di impiegati, molti impiegati anche nel nome e moltissimi solo nel fatto; impiegato anche se non percepisce stipendio propriamente detto, perché dipendente da qualcuno che sta sopra e gli ordina come e quanto produrre, a che prezzo comperare e a quale vendere, quale salario riscuotere, e se egli non ubbidisce, pronuncierà l’interdizione dell’acqua e del fuoco, gli nega – risuscitando con altro nome l’antico istituto della servitù della gleba – il permesso di residenza ossia gli toglie l’assegno delle cose necessarie per lavorare e l’accesso al lavoro.

 

 

56. Quid della sola variante all’ordinamento sindacale corporativo ritenuta necessaria dai più dopo la caduta del regime?

 

Quando, dopo il 25 luglio 1943, cadde il regime alla cui preservazione era volto l’ordinamento sindacale corporativo, l’opinione se non unanime, dominante, fra gli uomini che nei diversi partiti politici, risorti in quel tempo, si occuparono del problema, fu che sovratutto dovesse essere mutata una caratteristica di quell’ordinamento ed ai più non cadde in mente dovesse mutarsene alcuna altra: l’ordinamento, parve concludessero i più, può sussistere purché esso non riceva l’indirizzo dall’alto, ma derivi la vita dal basso. Eleggano operai e datori di lavoro, artigiani e professionisti con votazione libera segreta i loro rappresentanti sindacali nei sindacati locali, e questi alla loro volta eleggano i rappresentanti delle federazioni e confederazioni superiori. Le elezioni siano fatte a sistema proporzionale, così che ogni tendenza politica o sociale abbia modo di farsi valere proporzionatamente alle sue forze. Il sistema che fino a ieri, grazie alle scelte dall’alto, fu strumento di dominazione, diverrà senz’altro, con le elezioni dal basso, organo di democrazia.

 

 

57. Si inizia lo studio degli effetti delle leghe.

 

Importa studiare il problema richiamandoci ai principi fondamentali. Trattasi in sostanza di esaminare quali siano gli effetti derivanti dall’azione delle leghe operaie e di quelle padronali. Le osservazioni che per semplicità di discorso si riferiscono alle leghe operaie, si intendono applicabili senz’altro, con le sole modificazioni dovute alla diversità dei soggetti, anche alle leghe dei datori di lavoro intese a contrattare con quelle operaie le condizioni di lavoro. Pur per semplicità di discorso, si discorrerà soltanto del salario e delle sue mutazioni, come se nell’ammontare del salario si riassumessero tutte le condizioni del lavoro; e in verità, anche le variazioni dell’orario, del suo frazionamento, dei riposi, e delle altre condizioni del lavoro: di carriera, di sicurezza nel posto, di igiene, di vacanze gratuite o rimunerate, di doppie paghe o gratificazioni, possono, con opportuni accorgimenti, risolversi quantitativamente in un po’ più o in un po’ meno di salario.

 

 

58. Il salario nell’ipotesi di concorrenza perfetta.

 

Se supponiamo inesistente la lega, ma supponiamo che lavoratori e datori di lavoro siano capaci a contrattare, siano molti da una parte e dall’altra, siano atti ad entrare o a uscire a piacimento, nel o dal mestiere, essendo in grado di attendere senza costo apprezzabile il momento nel quale, a loro giudizio, è conveniente contrattare, se noi supponiamo cioè che esistano, sul mercato del lavoro, le condizioni note di piena concorrenza, noi diciamo che: il salario sarà quello, dato il quale, la quantità domandata di unità di lavoro (ogni lavoratore equivalendo ad una o più unità di lavoro a seconda del genere del lavoro compiuto, della sua perizia acquisita, della sua intelligenza naturale, della realtà delle sue attitudini, e di qui innanzi parlandosi di lavoratori si intenderà quello corrispondente all’unità in base a cui tutti gli altri lavoratori sono valutabili a seconda del loro proprio coefficiente di produttività) sarà uguale alla quantità offerta;

 

 

  • e poiché gli imprenditori hanno interesse ad impiegare tutte quelle unità di lavoro il cui salario non ecceda il prezzo che può essere ricavato, dopo dedotte tutte le altre spese non relative al salario (materie prime, combustibile, spese generali, imposte, interessi correnti sul capitale impiegato, profitti normali di impresa a copertura dei rischi e della remunerazione del lavoro di direzione, ecc. ecc.) dalla vendita del prodotto ottenuto con l’applicazione di quella medesima unità di lavoro;
  • e poiché la applicazione delle successive unità di lavoro dà luogo a prodotti diversi; ma finché il prodotto, per ogni successiva unità di lavoro applicata, copre i costi, non cessa l’interesse dell’imprenditore all’applicazione e quindi alla domanda di ulteriori unità di lavoro;
  • e l’interesse vien meno solo quando l’applicazione di una successiva unità di lavoro dà luogo ad un prodotto di valore inferiore al costo del salario per l’imprenditore;
  • resta perciò dimostrato che l’ammontare del salario, in condizioni di equilibrio, supposta agente in pieno la concorrenza, è uguale al ricavo netto della vendita del prodotto dell’ultimo lavoratore impiegato, lavoratore che perciò dicesi marginale. Se 100.000 sono i lavoratori (unità di lavoro) esistenti, e il ricavo netto del prodotto del lavoro dei primi 80.000 lavoratori è, suppongasi, di 12 lire (1914) per ogni giornata di lavoro a testa, degli ulteriori 10.000 è di 10 lire e degli ultimi 10.000 è di 8 lire, 12 lire sarà il salario di equilibrio se occupati sono 80.000 lavoratori, 10 lire se gli occupati sono 90.000 ed 8 lire se gli occupati sono 100.000. L’esempio è grossolano ed ipotetico, ed ha per iscopo di far vedere che il numero degli occupati è in funzione dell’ammontare del salario e questo è uguale alla produttività marginale del lavoro. Ma l’imprenditore non può pagare al giorno a testa 12 lire ai primi 80.000 lavoratori occupati, 10 ai successivi 10.000 ed 8 agli ultimi 10.000 perché:

 

 

  • a) non si può distinguere fra lavoratore e lavoratore (tra unità di lavoro), perché per la legge cosidetta di indifferenza dei prezzi, una stessa unità di lavoro non può essere pagata 12 lire per l’uno, 10 per l’altro ed 8 per il terzo lavoratore. In regime di concorrenza crescerebbe talmente l’offerta sul mercato dove si pagano 12 lire e si restringerebbe quella dove si pagano 8, da ricondurre i valori alla uguaglianza;
  • b) né si può fare una media ponderata e pagare:

 

 

 

 

 

a testa, perché all’imprenditore non conviene pagare 11,40 lire al penultimo gruppo che rende solo 10 lire e così pure all’ultimo che frutta solo 8 lire;

  • c) e d’altro canto per la medesima legge di indifferenza, il prezzo di ogni unità di tutta la quantità di prodotto ottenuto, se è, ad es., di 24 lire finché la produzione è solo quella dei primi 80.000 lavoratori, scema a 20 se la produzione cresce in funzione degli aggiunti penultimi 10.000 e scende a 16 se la produzione ulteriormente cresce per l’aggiunta degli ultimi 10 mila sicché all’imprenditore, se 100.000 sono gli occupati, non resta, pagate le altre spese, alcun margine per pagare ad alcuno un salario superiore a 8 lire. Notisi che affermando che 12, 10, 8 lire sono i valori di equilibrio e di mercato se gli occupati sono 80.000 e rispettivamente 90.000 e 100.000 non si afferma nient’altro se non che quelli sono i valori di mercato e che essi sono uguali alla produttività marginale degli operai. Costoro hanno, nelle condizioni postulate, tutto ciò che ad essi può essere pagato. Evidentemente, ove le condizioni mutino e ad esempio:

 

 

–       gli operai siano diversi da quelli che sono e la loro produttività diventi rispettivamente 15, 12,50 e 10,

–       gli altri fattori della produzione siano diversi da quelli che sono; e, ad esempio, il saggio di interesse da pagarsi sul capitale sia del 3 invece che del 5%, e i rischi dell’imprenditore siano minori di quello che sono, e diverse siano la sua capacità di organizzazione dell’impresa, la produttività delle macchine adottate, i metodi di produzione e di vendita, anche i valori di mercato saranno diversi. Il che si esprime dicendo genericamente che i valori (reali e non solo monetari) aumentano in funzione del progresso tecnico ed economico, dell’avanzamento delle invenzioni e del perfezionamento dell’organizzazione dell’impresa.

 

 

59. Degli effetti della lega operaia ferma restando l’ipotesi della libera concorrenza.

 

Qui possiamo vedere quali sono gli effetti che la lega operaia consegue a vantaggio degli operai, rimanendo entro i limiti della ipotesi della piena concorrenza. L’ipotesi implica che la lega non intenda mutare i termini dell’offerta sul mercato delle unità di lavoro esistenti: 80.000, 90.000, 100.000. La lega non varia il salario dalle 12, 10 e 8 lire, che, per ipotesi, sono, date le tre diverse quantità offerte, i valori di mercato. Non potendo essa, per sua virtù, mutare la produttività marginale del lavoratore, la lega non può mutare i valori da quello che è il livello di equilibrio.

 

 

La lega può tuttavia rendere più facile, meno lungo il processo del contrattare, alla fine del quale si giunge, supponendo che il numero dei lavoratori sia di 100.000 e la produttività marginale dell’ultimo lavoratore impiegato sia di 8 lire al giorno, ad un salario di mercato di 8 lire. Il suo compito è quello di superamento degli attriti che in ogni mercato vietano di raggiungere subito, senza costi inutili, la posizione di equilibrio.

 

 

Gli operai non sanno che in un luogo o in un’industria la richiesta di unità di lavoro è viva e nell’altra langue? E la lega, la quale accentra informazioni, avverte gli operai e ne facilita lo spostamento dai luoghi dove il salario è, per l’abbondanza dei lavoratori, 6 a quella dove per la scarsità è 10 e provoca la parificazione ad 8. La lega fa ciò, dando informazioni e accordando sussidi di viaggio a coloro che altrimenti mancherebbero di mezzi per spostarsi.

 

 

Gli operai, data la scarsità delle informazioni individuali possedute, di solito limitate ad una piccola cerchia di territori e di conoscenze, ignorano la possibilità che alcune industrie nuove promettenti offrono. La lega, agendo come una centrale di informazioni, facilita, se non agli anziani, attaccati al loro mestiere, ai giovani l’avvio verso i mestieri a produttività alta e contribuisce a togliere sperequazioni, che qua produrrebbero eccessi e là deficienze di produzione e così imperfezioni nella provvista dei beni domandati sul mercato.

 

 

Gli operai, pressati dalle esigenze di vita della famiglia, sarebbero disposti ad accettare salari inferiori al corso, 8 lire di mercato? È vero che l’inferiorità non durerebbe, per la conseguente intensificazione della domanda di unità di lavoro da parte dell’imprenditore che a 7 lire farebbero domanda, ad essi conveniente, di altri 5.000 lavoratori, e poiché costoro non esistono, per ipotesi, il salario dei 100.000 esistenti finirebbe per aumentare al livello di equilibrio di 8 lire. Ma il superamento dell’attrito può avvenire solo dopo settimane o mesi o forse anni. La lega, consentendo ai lavoratori di attendere qualche tempo e di locare la propria forza di lavoro a ragion veduta, consente di superare più rapidamente cotali attriti.

 

 

60. Degli effetti della lega nell’ipotesi di monopolio unilaterale della sola lega dei datori di lavoro ovvero dei lavoratori.

 

Se soltanto questi fossero gli scopi e gli effetti delle leghe operaie, essi non esorbiterebbero dagli scopi e dagli effetti di un bene organizzato ufficio di collocamento, collegato con una salda società di mutuo soccorso. Il mondo di idee e di sentimenti in cui sorgono le leghe operaie e un altro. Nel linguaggio proprio del ceto operaio quelle idee e quei sentimenti si riassumono nelle parole resistenza e conquista. Gli operai sentono di essere vittime di un sopruso, di una ingiustizia e reagiscono ed a loro volta intendono conquistare mete più alte. Se noi vogliamo spogliare le parole usate dal loro involucro sentimentale e ridurre quelle idee e quei sentimenti al loro contenuto puro economico, noi ci troviamo di fronte ad un caso tipico di applicazione della teoria del prezzo di monopolio. Gli operai sono persuasi che gli imprenditori, riuniti in lega, operanti come una persona sola tendano a ridurre i salari al minimo, al livello della pura sussistenza materiale, all’indispensabile per consentire la continuazione della specie e massimamente di un’abbondante fornitura di mano d’opera.

 

 

Astrazione fatta dall’intenzione e dai desideri, che nelle cose economiche non contano, noi diremo che il monopolista imprenditore (o la lega degli imprenditori) tende sul mercato del lavoro a domandare quella quantità di unità di lavoro ovvero a pagare quel salario (le due determinazioni sono alternative ed equivalenti), dato il quale diventa massimo il suo guadagno netto. Se cioè l’esperienza prova che il massimo guadagno netto si ottiene mettendo sul mercato quella quantità di merce la quale corrisponde ad una occupazione di 80.000 lavoratori, questa e non altra sarà la quantità di unità di lavoro domandata dall’imprenditore se monopolista. Ed in tale situazione non monta che la produttività marginale dell’ultimo degli 80.000 lavoratori occupati sia di 8 lire; il monopolista imprenditore o la lega padronale monopolistica pagherà quel salario di 7 o anche 6 lire, a cui la minaccia di un’armata di 20.000 disoccupati, i quali si offrono in concorrenza sul mercato, potrà costringere gli 80.000 occupati ad adattarsi, volenti o nolenti. Il monopolista non potrà offrire meno di 6 lire, per non degradare troppo la capacità produttiva del lavoratore e subire perciò un danno maggiore del vantaggio della diminuzione del salario; e 6 lire sarà il salario pagato nell’ipotesi fatta.

 

 

Supponiamo ora che non l’imprenditore o la lega degli imprenditori sia il monopolista, ma sia invece monopolista la lega dei lavoratori. Avremo in tal caso un monopolista, lega operaia, la quale contratta, per conto di tutti gli operai disponibili, con molti imprenditori fra loro concorrenti. La lega naturalmente, se non incontra alcun freno alla sua azione e se intende unicamente alla consecuzione del massimo vantaggio dei suoi soci, tenderà a determinare il saggio del salario ovvero il numero dei soci, la cui forza di lavoro sarà da essa offerta sul mercato, a quel livello che renda massimo il guadagno netto della lega medesima. Quando ciò si verificherà? Evidentemente, quando sia un massimo la somma dei salari individuali lucrati dai singoli lavoratori occupati, depurata dalla somma dei sussidi che la lega medesima dovrà pagare al residuo dei soci lavoratori rimasti disoccupati in conseguenza della sua politica dei salari. Se noi supponiamo, ampliando alquanto l’esempio sopra fatto:

 

 

  • che il numero totale dei lavoratori esistenti e tutti soci della lega sia di 100.000;
  • che i salari considerati e sperimentati dalla lega siano 8, 10, 12, 15 e 18 lire, al giorno;
  • che a questi salari il numero dei lavoratori domandati ed occupati dagli imprenditori sia rispettivamente di 100.000, 90.000, 80.000, 70.000 e 60.000, risultando correlativamente in 0, 10.000, 20.000, 30.000 e 40.000 il numero degli operai soci disoccupati;
  • che la lega abbia conseguentemente veduto la necessità di prelevare sul salario degli operai occupati un sussidio sufficiente a mantenere i soci disoccupati abbastanza soddisfatti sì da indurli a contentarsi del sussidio medesimo e ad astenersi dal recare sul mercato la propria forza di lavoro;
  • che il sussidio medesimo sia stato fissato dalla lega in 6 lire al giorno quando il salario degli occupati era fissato a 10 lire, in 7 contro un salario di 12 lire, in 9 contro un salario di 15 ed in 9,25 contro un salario di 16 lire, sussidio crescente col crescere del salario per non accentuar troppo la differenza fra il sussidio di disoccupazione ed il salario spettante al lavoratore;

 

 

il calcolo di convenienza della lega sarà il seguente:

 

 

Salario quotidiano del lavoratore

Numero dei lavoratori occupati

Salario complessivo dei lavoratori occupati

Numero dei lavoratori disoccupati

Sussidio individuale al disoccupato

Sussidio complessivo

Residuo netto a favore dei lavoratori occupati

Salario netto individuale quotidiano dei lavoratori occupati

in lire

in lire

in lire

 

in lire

in lire

in lire

in lire

1

2

1×2=3

4

5

4×5=6

3-6=7

7:2=8

8

100.000

800.000

800.000

8

10

90.000

900.000

10.000

6

60.000

840.000

9,33

12

80.000

960.000

20.000

7

140.000

820.000

10,25

15

70.000

1.050.000

30.000

9

270.000

780.000

11,14

16

60.000

960.000

40.000

9,25

370.000

590.000

9,83

 

 

Il calcolo è puramente esemplificativo, e suppone una compattezza così assoluta nella lega che ben raramente, salvo in talune leghe antiche di mestiere, con rigidissime norme di reclutamento, si può verificare. Ma qui si vuole soltanto studiare un estremo caso teorico. È chiaro che alla lega conviene mantenere 30.000 operai disoccupati, pagare ad essi un sussidio di 9 lire al giorno, pur di riuscire ad imporre un salario quotidiano di 15 lire, che, depurato da una trattenuta di 9 lire da versare al fondo disoccupati, dà luogo ad un salario netto di 11,14 lire al giorno. Alla lega non conviene chiedere 16 lire, perché il numero dei disoccupati salirebbe a 40.000, il fondo di sussidio riuscirebbe troppo gravoso ed il salario netto dei lavoratori occupati risulterebbe di sole 9,83 lire, anziché del massimo possibile di 11,14 lire.

 

 

Ecco dunque quali sono le due soluzioni nell’ipotesi dell’esistenza del monopolio unilaterale, da parte o dei datori di lavoro o dei lavoratori. Se esiste il solo monopolio dei datori di lavoro, il salario è di 6 lire al giorno per ognuno degli 80.000 lavoratori occupati ed esiste un’armata di 20.000 disoccupati rigettati a carico della pubblica carità. Se esiste il solo monopolio dei lavoratori il salario e di 15 lire al giorno per ognuno dei 70.000 lavoratori occupati, i quali prelevando 3,86 lire sul proprio salario e riducendolo così ad 11,14 lire nette, mantengono con un sussidio individuale di 9 lire i 30.000 operai disoccupati.

 

 

Ambe le soluzioni comportano conseguenze, che di solito si usa giudicare dannose. Il giudizio è solo in parte economico ed è sovratutto politico e morale. Economicamente, in ambi i casi si ha una diminuzione di produzione, dovuta all’ozio forzato di 20.000 ovvero 30.000 lavoratori, probabilmente connesso con l’ozio di altri fattori produttivi (macchine, terreni, ecc.) e con quello di altri lavoratori (intellettuali o manuali, dirigenti e esecutivi) che in caso di occupazione completa in quell’industria sarebbero stati occupati in altre industrie. Moralmente e politicamente, si hanno masse di lavoratori disoccupati che la pubblica carità o la solidarietà dei compagni deve mantenere a carico di un fondo di beni scemato in confronto a quello che sarebbe stato in condizioni di concorrenza.

 

 

Le due leghe, ragionando amendue per un campo ristretto, non si preoccupano delle ripercussioni che la loro condotta esercita sul mercato in generale, modificando offerta e domanda di merce, prezzi, costo della vita. Esse pensano che il loro interesse in queste modificazioni è infinitesimo ed il danno che eventualmente i loro soci subiscono per siffatte ripercussioni è così piccolo da non meritare di essere considerato.

 

 

61. Degli effetti della lega nell’ipotesi di monopolio bilaterale

(coesistenza di leghe monopolistiche, padronali ed operaie).

 

Quid se il monopolio esiste da ambo le parti? Se si erigono, l’una contro l’altra, due leghe monopolistiche, l’una dei datori di lavoro e l’altra dei lavoratori? È chiaro che il salario sarà fissato ad un prezzo che si trova situato fra i due estremi, l’uno delle 6 lire di massima convenienza per il monopolio leghista padronale e l’altro delle 15 lire di massima concorrenza per il monopolio leghista operaio. A qual punto esso si fisserà, è determinato dalla considerazione delle rispettive forze dei due enti monopolistici che si fronteggiano. Possiamo elencare alcuni elementi di forza nel modo seguente:

 

 

  • L’approssimazione maggiore o minore delle due leghe alla situazione di monopolio perfetto. Esistono dei selvaggi, detti black legs (gambe nere) nei paesi anglosassoni e crumiri in Italia, che minano la compattezza della lega? La lega padronale è riuscita ad instaurare un monopolio perfetto, o vi è pericolo che essa sia battuta in breccia da nuovi concorrenti, i quali siano disposti ad utilizzare l’armata di riserva dei disoccupati? Le dimensioni dell’impresa, le difficoltà di trovare disponibili i fattori produttivi necessari nei luoghi convenienti (terreni, caduta di acque ecc.), sono tali da sconsigliare ai nuovi venuti di accingersi al tentativo di scrollare il monopolio della lega padronale? Gli ostacoli posti dalla lega operaia al tirocinio degli apprendisti sono così forti da rendere vana la speranza degli imprenditori di trovare, fuori dalla lega, nuove reclute al lavoro? La solidarietà fra gli operai è così salda, da non rendere pensabili offerte al ribasso di disoccupati stanchi dell’elemosina ricevuta e dell’ozio forzato a cui sono condannati? A seconda della risposta di fatto data nei singoli casi ai quesiti, il salario si avvicinerà più all’uno che all’altro dei due opposti livelli monopolistici.
  • Le dimensioni rispettive delle riserve accumulate dalle due leghe monopolistiche contrapposte. Chi ha più filo fa più tela; quella delle due leghe la quale possiede, nelle sue riserve, il mezzo di far durare più a lungo i suoi soci nella lotta, quella riesce a definire la controversia nel senso a sé più favorevole.
  • La grandezza rispettiva delle perdite previste da ognuna delle due parti in caso di sospensione del lavoro. La lega operaia istituisce un bilancio dei profitti e delle perdite di quella che può essere chiamata la impresa dello sciopero: all’attivo del bilancio sarà iscritto il valore attuale dell’eccesso di salario oltre il livello attuale o dell’apprezzamento delle altre migliorie nelle condizioni del lavoro che si presumono conseguenti alla vittoria. Al passivo si iscriverà il valore attuale delle perdite subite dagli operai per i salari non ricevuti durante l’abbandono del lavoro e la diminuzione nelle riserve della lega. A seconda che il saldo sarà passivo od attivo e, se attivo, più o meno grande, la lega spingerà più o meno verso il massimo a sé favorevole le proprie richieste. Dal canto suo la lega padronale istituirà un calcolo analogo: all’attivo il valore attuale della diminuzione di salario o del peggioramento, per gli operai, delle condizioni di lavoro o del successo conseguito nella resistenza alle domande operaie, al passivo le perdite per commesse non eseguite, per multe o penalità da pagare in caso di non esecuzione tempestiva dei contratti, per spese generali di interessi, provvigioni e sconti bancari sui debiti, riparazioni e manutenzioni di impianti, custodia, imposte, ecc. ecc. che sono normalmente coperte dalla produzione e vanno egualmente sopportate in caso di sciopero o di serrata.
  • La valutazione subbiettiva data dalle due parti al saldo monetario così conseguito, quale interpretata dai dirigenti delle due leghe e quale modificata da un’interpretazione nella quale ognuno dei dirigenti fa, consapevolmente o no, entrare anche la valutazione subbiettiva dei vantaggi o danni personalmente subiti dai medesimi dirigenti. Il dirigente, invero, è tratto a tener conto, nell’apprezzamento dei risultati della lotta, degli effetti che, ad esempio, deriveranno da una diminuzione delle riserve e dalla difficoltà della sua ricostituzione in caso di sconfitta rispetto alla persistenza od alle dimensioni della remunerazione assegnatagli per la sua opera di dirigenza. Il capo-lega e, sovratutto, il segretario di una salda e vecchia federazione, ha l’occhio sempre rivolto alle possibilità del compromesso, il quale serbi intatte le riserve della lega per l’adempimento dei suoi obblighi di istituto, come amministrazione, mutuo soccorso, aiuto di disoccupazione e di viaggio agli operai.
  • La misura nella quale ognuna delle due parti contraenti prevede le mosse dell’altra parte.

 

 

In un mercato di concorrenza, dove contrattano molti operai e molti imprenditori, non si può tener conto nel contrattare, se non nel complesso generico, delle singole mosse altrui, essendo queste troppo numerose. Ma nella contrattazione a due, ognuna delle due parti, come nel gioco degli scacchi, decide le proprie mosse a seconda della previsione che può fare delle successive mosse della parte avversa, mosse che si devono supporre le più razionali possibili in correlazione alle nostre medesime. Non è detto che nella gara, le migliori previsioni siano fatte sempre dalla medesima parte; ché la prevalenza spetterà al dirigente più abile o perito, a qualunque parte appartenga.

 

 

  • La misura nella quale ognuna delle parti riuscirà a conquistare il favore dei terzi (opinione pubblica). Se si tratta di piccole contese relative a poche decine o centinaia di operai, il favore dei terzi poco conta. A mano a mano però che il numero degli operai e degli imprenditori interessati nella disputa cresce, cresce il numero delle persone che per ripercussione sono colpite dalle conseguenze di esse: appartenenti ad industrie fornitrici o clienti connesse, che si vedono mancare i clienti od i fornitori e debbono sospendere o limitare il lavoro, bottegai che perdono i clienti paganti e debbono porsi il quesito se convenga far credito ai disoccupati, municipi che debbono provvedere a soccorrere le famiglie degli scioperanti. L’opinione di costoro manifestata cogli atti e attraverso ai giornali ha una influenza economica e morale non piccola, e può determinare la vittoria di una delle parti a seconda del giudizio dato sul fondamento economico e sociale delle sue pretese o della sua resistenza.

 

 

Ha grande peso il fattore «sussidi pubblici agli operai disoccupati». Abbenché i sussidi di disoccupazione non riguardino in alcun caso gli operai disoccupati volontariamente e tali sono gli scioperanti, abbiamo già veduto (vedi cap. secondo, paragrafo 43) come il livello del salario abbia influenza sul quantum degli operai occupati, e come la lega operaia monopolistica unilaterale debba aver riguardo, nella determinazione del salario di massima convenienza all’ammontare del salario netto dall’onere della quota di sussidio a favore degli operai disoccupati; e poiché la quota di sussidio cresce, per il crescere del numero dei disoccupati, con l’aumentare del salario, così è possibile determinare il punto al di là del quale non conviene spingere il salario. Ma se invece il sussidio può essere fatto gravare, come accade ove esistono casse pubbliche di assicurazione contro la disoccupazione, sugli imprenditori e sovratutto sullo stato (contribuenti), e poiché in questo caso la disoccupazione non appare come volontaria, non derivando da sciopero (sebbene in realtà sia dovuta ad una consaputa politica dei salari deliberata dalla lega) e deve perciò legalmente dare luogo al pagamento del sussidio, la detrazione dal salario, della quale la lega deve tenere conto, è ridotta a quella minor parte del sussidio statale la quale grava sugli operai, ed è quindi fornita una spinta alla lega a spingere più in su le sue pretese.

 

 

62. Interessi comuni e interessi contrastanti delle leghe padronali ed operaie monopolistiche.

 

Ove si tenga conto dei fattori ora esaminati, le due leghe monopolistiche contrapposte hanno alcuni scopi comuni:

 

 

  • di mettere a carico di terzi (stato, ossia contribuenti) la massima parte dell’onere del mantenimento dei disoccupati, così da non dover esse più preoccuparsi, se non nella minor possibile misura, di questo fattore di diminuzione dei rispettivi redditi netti;
  • di ridurre la quantità delle unità di beni e servizi prodotti e messi sul mercato a quella che, moltiplicata per il prezzo relativo e dedotte tutte le altre spese gravanti sulla produzione ridotta al livello di massima convenienza, dà luogo ad un massimo di prodotto netto, intendendosi per prodotto netto la somma dei salari spettanti agli operai e dei profitti conseguiti dagli imprenditori.

 

 

L’accordo per la consecuzione dello scopo comune e, da ognuna delle due parti contraenti, subordinato alla condizione che la divisione del massimo di prodotto netto fra le due parti avvenga in modo che:

 

 

  • il salario dell’operaio sia superiore a quello che egli otterrebbe in condizioni di concorrenza;
  • il profitto dell’imprenditore sia medesimamente superiore a quello di concorrenza. Se così non fosse, ne la lega operaia avrebbe interesse a scemare la offerta di mano d’opera al disotto della totalità, né a quella imprenditrice converrebbe restringere l’utilizzazione dei fattori produttivi al disotto della utilizzazione totale. La situazione delle forze rispettive dirà a qual punto il salario sarà determinato, fra il minimo di miglior convenienza per la lega imprenditrice ed il massimo meglio conveniente per la lega operaia. Ma si può affermare che, sia che il livello del salario sia il massimo netto conveniente agli operai ed il minimo conveniente agli imprenditori, ovvero si fissi al contrario al massimo di convenienza per gli imprenditori e minimo per gli operai ovvero ancora tenga un luogo intermedio fra i due, i seguenti effetti sono acquisiti, diversi da quelli esaminati nel caso della lega la quale rispetti le regole di concorrenza;
  • nasce un esercito di disoccupati, il quale tende ad andare a carico del fondo delle imposte;
  • la quantità dei beni e dei servizi posti a disposizione dei consumatori scema;
  • alcuni consumatori, dal rialzo dei prezzi, sono costretti a rinunciare al consumo; ed i consumatori residui a consumare quantità minori;
  • la struttura dell’industria varia, riducendosi le sue dimensioni e variando così la quantità di fattori produttivi domandati e la massa dell’occupazione esistente nei rami industriali connessi;
  • varia la distribuzione delle ricchezze, crescendo da un lato la quota del flusso produttivo che va a vantaggio dei monopolisti, operai ed imprenditori, e crescendo il numero degli esclusi dalla distribuzione primaria del reddito totale sociale e costretti a contentarsi della distribuzione secondaria (elemosine e sussidi statali ad operai disoccupati e ad imprese decadenti) e di quella pubblica (lavori pubblici di fortuna, mantenimento artificiale di soldati sotto le armi per scemare l’eccesso della disoccupazione e per ovviare ai disordini sociali conseguenti all’ozio);
  • si accentuano da un lato i fattori di irrigidimento e di imprevedibilità delle azioni economiche, e dall’altro lato le caratteristiche di instabilità sociale e politica, le quali provocano sempre nuovi interventi dello stato; e questi crescono ulteriormente l’irrigidimento dell’organismo sociale e la sua incapacità a muoversi ed a mutarsi in funzione delle esigenze della mutata tecnica, dell’accresciuta capacità ad usare la ragione in conformità alle nuove esigenze tecniche ed economiche.

 

 

63. La norma comune del contratto collettivo ed i suoi effetti.

 

Un giudizio un po’ meno incompiuto degli effetti delle leghe operaie male potrebbe essere tuttavia dato se non si cercasse di rendersi conto del contenuto dell’istituto che alle leghe operaie è considerato come il frutto migliore della loro secolare opera e cioè «il contratto collettivo».

 

 

Noi possiamo, dal punto di vista economico, definire «collettivo» il contratto stipulato fra la lega degli operai e quella degli imprenditori per la determinazione della «norma comune» delle condizioni di lavoro (salario, orario, intervallo di riposo quotidiano, vacanze settimanali ed annuali, gratuite o pagate, conservazione del posto in caso di malattie, infortuni, invalidità, basi del cottimo, ecc. ecc.). Caratteristica essenziale del contratto collettivo è «la norma comune». Se noi riassumiamo «nell’ammontare del salario» tutte le varie condizioni del contratto di lavoro, è norma comune quella in virtù della quale l’ammontare del salario è fissato per tutti gli appartenenti alla lega in modo che nessun operaio possa ricevere e nessun imprenditore possa pagare meno del salario base. Il salario può essere a giornata ed allora si dirà che la norma è ad esempio 10 lire al giorno, od a cottimo, ed in tal caso si dirà che la norma è, ad esempio, x lire per ogni 1.000 colpi di spola per il tessitore in lana.

 

 

Effetto della norma comune sarebbe che non essendo consentito un salario inferiore a 10 lire al giorno, sono eliminati dal mercato del lavoro quei lavoratori la cui produttività netta è inferiore a 10 lire al giorno, sicché gli operai, per poter essere occupati debbono spingere la propria produttività, con tirocinio più perfezionato, con maggior diligenza o attenzione, sino a quel minimo. D’altro canto, possono rimanere sul mercato solo quegli imprenditori, i quali sappiano organizzare l’impresa e utilizzare i fattori produttivi in modo che il lavoratore meno produttivo lucri almeno 10 lire al giorno. Restano automaticamente eliminati dal mercato, grazie alla sanzione automatica del fallimento, quegli imprenditori i quali, pagando 10 lire, perdono, a causa dei maggiori costi derivanti dalla loro minore capacità in relazione al prezzo del mercato, che è uguale per tutti. La norma comune del contratto collettivo è causa di eliminazione degli operai e degli imprenditori inferiori e dell’innalzamento forzato di tutti coloro che possiedono attitudini latenti atte a giungere sino al minimo imposto dalla norma comune.

 

 

Il giudizio, implicitamente favorevole, che così viene dato del contratto collettivo, incontra taluni limiti i quali si possono così esporre:

 

 

  • è interesse collettivo che vengano eliminati dal mercato del lavoro tutti quei lavoratori, i quali per causa del sesso, dell’età più avanzata, di non rimediabili difetti fisici od intellettuali non giungono alla produttività richiesta, ma bene potrebbero essere occupati a salari di 9 o di 8 o 7 lire? Non è questa, in sostanza, una politica restrittiva della produzione? Restrizione di produzione e interesse collettivo, qualunque sia il criterio del peso rispettivo, sono due concetti compatibili fra loro? In un’epoca, nella quale cresce la proporzione degli uomini anziani e vecchi in confronto dei giovani e maturi, è conforme all’interesse generale la norma la quale tende ad eliminare dalla produzione una quota crescente della popolazione?
  • è nell’interesse generale che vengano parimenti eliminati quegli imprenditori i quali non riescono ad organizzare l’impresa in modo da utilizzare ad un costo non superiore a 10 gli operai i quali riuscirebbero a guadagnare 10 in un’impresa normale? Se la non utilizzazione dipende dall’incapacità dell’imprenditore, la norma non pare sia dannosa. L’eliminazione a mezzo del fallimento constata solo il fatto che quell’imprenditore non aveva le qualità necessarie al capo, pur avendo forse, ed eminenti, le qualità del dirigente e funzionario. È bene che egli sia, con gli argomenti propri dell’economia di mercato (perdita di capitale, credito, fallimento) indotto a dedicarsi a quell’ufficio al quale è più adatto. Ma la non utilizzazione fino al limite 10 può derivare dalla inferiorità di fattori produttivi diversi dal lavoro: località scelta per l’impresa meno favorevole per lontananza dalla città, dal luogo delle materie prime, dal mercato di smercio, dalla possibilità di facile riparazione al macchinario, dall’industrie complementari, ecc. ecc. Ragionando al puro punto di vista economico, può essere conveniente trasportare il luogo dell’impresa dal sito meno adatto a quello più adatto, il che spesso significa ubbidire alla regola di concentrazione di una o molte industrie in una località (grande, grandissima città) la quale trae dalla concentrazione medesima ragione di economie interne ed esterne ragguardevoli. Può darsi però che gli uomini siano di opinione diversa. Può darsi cioè che gli imprenditori si contentino di un profitto minore del profitto normale x, che gli operai si contentino del salario 8 invece di quello 10, perché essi apprezzano altri vantaggi non economici, come la residenza nella piccola città o nel borgo campagnolo, la vita condotta là dove tradizioni e relazioni di famiglia, affetto verso vicini, amici, abitudini di vedere quel campanile, quell’orizzonte, quelle case, rendono la vita medesima più piacevole, là dove si ritiene i figli possano ricevere un’educazione migliore. È conforme all’interesse collettivo che la norma comune del contratto collettivo costringa gli imprenditori a pagare 10 in moneta, senza tener conto dei complementi psicologici e sociali del salario, quando, tenuto conto di tutti gli elementi monetari e spirituali del calcolo, gli imprenditori sono soltanto disposti a pagare e i lavoratori sono contenti di ricevere solo 8? È vero che essi stimano almeno 2 i vantaggi non economici ora ricordati e sarebbero disposti a contentarsi di 8, ma, a causa della regola comune, l’imprenditore deve invece pagare 10 ed è perciò costretto dalla concorrenza del mercato ad abbandonare la partita.

 

 

È nell’interesse generale che la regola comune del contratto collettivo faccia passare i vantaggi calcolabili economicamente al disopra di quelli che hanno valore non calcolabile in lire, soldi e denari?

 

 

  • è nell’interesse generale che la norma comune favorisca il radicarsi nell’animo del lavoratore di sentimenti avversi a crescere la produzione al disopra di quella che basta a pagare il salario 10? È vero che, secondo l’opinione dei teorici del contratto collettivo, la norma 10 è solo un minimo, al disopra dei quali è lecito ricevere e pagare salari maggiori. Anzi la norma dovrebbe essere un punto di partenza per toccare produttività e remunerazioni più elevate. Ma è vero anche, per attestazione di osservatori imparziali e per testimonianza dei medesimi operai, che la norma comune fa sorgere e radica nell’animo del lavoratore l’idea che sia un male spingere la produzione troppo al disopra della fatica necessaria a guadagnare 10.

 

 

Due sentimenti confluiscono a radicare quell’idea.

 

 

In primo luogo il ripetuto sofisma della «quantità fissa di merce da produrre e vendere» e perciò della «quantità fissa di lavoro da fare». Si crede siano vendibili, ad esempio, 100.000 tonn. di un dato bene in una data unità di tempo. Se ogni operaio in quella unità di tempo produce 100 tonn., c’è lavoro per 1.000 operai; se ne produce 125 il numero degli operai occupati si riduce a 800. L’operaio «sente» che, per colpa sua, 200 suoi compagni sono disoccupati. È erronea la premessa della quantità fissa, essendo invece la quantità di merce producibile e vendibile in funzione del prezzo di vendita, dei beni concorrenti e complementari, del reddito monetario reale dei compratori, ed è perciò erronea la conseguenza semplicistica che gli operai ne traggono. Ma l’idea resiste ed opera sull’animo dei lavoratori inducendoli ad assumere la norma comune come il dettame della legge morale dalla quale importa non scostarsi.

 

 

In secondo luogo è vero che, in momenti di prevalenza della parte imprenditrice, la norma comune è stata fatta storicamente servire ad estorcere lavoro non pagato agli operai. Il criterio per la determinazione della norma, supponiamo, di «10 lire al giorno» nella fissazione dei lavori a cottimo è quello di una base (x lire per ogni 1.000 colpi di spola, y lire per ogni tonn. di carbone cavato dalla miniera e portato alla bocca del pozzo) siffatta che la grande maggioranza degli operai, data l’abilità e la forza da essi posseduta, dato lo stato della tecnica, data la organizzazione esistente dei fattori produttivi, riesce a guadagnare, moltiplicando la quantità x o y per il numero delle migliaia di colpi di spola o per il numero delle tonn. di carbone, almeno 10 lire al giorno. Guadagna meno o più di 10 lire soltanto una piccola minoranza di operai segnalati da uno scarto troppo forte dalla linea mediana. Se la base del cottimo è stata scelta con siffatto criterio, il lavoratore non ha ragione di lamentarsi, né si querela. Accade però talvolta che la base del cottimo è stata scelta in modo che solo una piccola minoranza di operai eccezionalmente dotati (detti tiracollo nel linguaggio degli operai di qualche regione italiana, o stachanovisti, se di tipo esageratamente propulsivo, nella Russia attuale) riesce a guadagnare 10 lire al giorno. La grande maggioranza sta al disotto, o se arriva sino a quel limite, può far ciò solo a prezzo di fatiche logoranti ed invecchiamento precoce. Dalla constatazione del fatto vero si comprende come le leghe operaie ragionevolmente pongano ormai la massima cura nello stabilire la norma comune a quel livello al quale la grande maggioranza degli operai può giungere con una prestazione normale di lavoro, ma si comprende anche come gli operai guardino a coloro i quali superano il salario uguale alla norma comune come a traditori della classe, a strumenti dell’imprenditore, il cui operato nuoce alla lega nelle trattative per la stipulazione del contratto collettivo. Tizio e Caio non sono forse giunti a guadagnare, su quella base, 12 o 15 lire? dicono gli imprenditori; e perché anche gli altri, con un po’ di buona volontà, non potrebbero fare altrettanto? Ed ecco, temono le leghe, la base del cottimo abbassarsi da x o da y ad x meno m ad y meno n. L’operaio teme di far meglio, anche quando potrebbe, perché non vuole essere strumento di depressione dei guadagni dei suoi compagni.

 

 

Non è questa una critica decisiva contro la norma comune, ma è critica la quale dimostra la delicatezza propria del processo di sua fissazione.

 

 

La norma comune fa sorgere nell’animo dei dirigenti leghe operaie sentimenti di avversione non solo a tutto ciò che tende a differenziare un operaio da un altro, ma anche a tutto ciò che gioverebbe a legare l’operaio all’impresa, a farlo salire nella gerarchia industriale. Si discorrerà in seguito dei sistemi di partecipazione ai profitti con le varianti di azionariato operaio e di partecipazione a gestione dell’industria); qui basti perciò accennare che solitamente le leghe operaie sono avverse a così fatti metodi di cointeressenza e di trasformazione dell’operaio verso il tipo dell’associato all’imprenditore. Partecipare agli utili dell’impresa, essere cointeressato nella gestione di questa, significa essere un transfuga della classe operaia. Invece di una fronte unita, taluni tra gli operai guardano con occhio benevolo verso l’altra parte, si sentono legati alle argomentazioni degli imprenditori. Per ottenere il piatto di lenticchie di una quota variabile di incerti profitti, gli operai sono invitati a rinunciare al loro diritto di primogenitura, che è la norma comune del contratto collettivo.

 

 

64. Il criterio di conformità dell’azione delle leghe all’interesse collettivo è l’approssimazione massima all’impiego di tutti gli operai occupabili.

 

L’economista, il quale ricerca quali siano i risultati delle azioni degli uomini, non ha, dopo quanto fu sopra esposto, il compito di pronunciare lodi o condanne delle leghe operaie e della loro politica. Abbiamo veduto quali siano gli effetti delle azioni delle leghe quando esse:

 

 

  • a) si limitano a correggere le imperfezioni proprie del mercato del lavoro anche in regime di concorrenza;
  • b) od invece tendono a creare a proprio vantaggio un monopolio di offerta di mano d’opera;
  • c) e, in questa seconda ipotesi, debbano tener conto dell’analogo tentativo dell’imprenditore di creare per conto proprio un monopolio della domanda medesima;
  • d) nello stipulare il contratto collettivo esse si attengano ad una norma comune, la quale si adatti alle esige, diverse per età, per abilità, forza, localizzazione dei diversi gruppi operai;
  • e) ovvero esse tendano a fissare la norma comune in guisa da essere adatta alla produttività di quegli operai soltanto che possono soddisfare a certe esigenze minime, irraggiungibili o repugnanti a forti gruppi di minoranza, ed abbiamo concluso che nelle ipotesi a) e d) l’azione delle leghe operaie deve in massima ritenersi conforme, e nell’ipotesi b), c) e e) disforme dall’interesse collettivo.

 

 

Questi effetti e le relative conclusioni si riferiscono ad una politica della lega operaia che potrebbe essere definita di assecondamento o di opposizione all’azione di quei fattori i quali da un lato favoriscono la realizzazione dell’ipotesi teorica di concorrenza e dall’altro tendono verso l’attuazione della realtà dell’ipotesi di monopolio.

 

 

È possibile enunciare in una proposizione semplice quale sia la politica delle leghe operaie che più si avvicina al limite della massima conformità all’interesse collettivo? Direi che la politica di massima conformità sarà quella il cui risultato sia l’impiego della totalità degli operai occupabili.

 

 

Se 100.000 sono gli operai occupabili, è conforme all’interesse collettivo quella politica, ossia quella norma comune del contratto collettivo in virtù della quale gli imprenditori hanno interesse ad impiegare tutti i 100.000 operai, ed è disforme quella per cui si crea nell’imprenditore l’interesse contrario. Quando si dice tutti gli operai occupabili si deve aggiungere occupabili tenuto conto dei fattori di occupabilità sui quali può influire l’azione della lega. Se ad esempio, una crisi economica di dimensioni eccezionali riduce da 100.000 a 50.000 il numero degli operai che gli imprenditori possono, nelle transitorie condizioni di mercato o di prezzo dei prodotti dell’industria, occupare, non è certo con la riduzione della norma comune da 10 lire ad 8, a 6 e magari a 4 lire, che può essere creato interesse negli imprenditori ad aumentare la domanda da 50.000 nuovamente a 100.000 operai. Troppe altre circostanze influiscono sulla soluzione del problema, perché il ribasso della norma comune giovi ad ottenere l’effetto desiderato. Potrebbe anzi quel ribasso condurre ad effetto opposto, se l’industria produce beni domandati dagli operai medesimi, riducendo la loro capacità di acquisto. Delicatissimi sono sempre i problemi i quali devono essere affrontati dai dirigenti le leghe operaie e padronali; e perciò si può bene concludere che il loro successo od insuccesso, la conformità o disformità della loro politica all’ o dall’interesse collettivo dipende in notevolissima parte dall’intelligenza e dalla perizia con cui essi sanno interpretare ed anticipare le incognite del mercato e ad esse adattare le soluzioni accolte in modo da raggiungere più rapidamente, con un minimo di attriti, quei risultati di piena occupazione degli operai disponibili che sarebbero più faticosamente ottenuti nei mercati imperfetti che in realtà noi conosciamo, per il libero gioco della domanda e dell’offerta.

 

 

65. La lega può aver cresciuto la produttività dell’operaio.

 

Nient’altro davvero? Sì. La lega operaia può pretendere correttamente di aver ottenuto, nei casi di azione conforme all’interesse collettivo, oltre il risultato di più rapida parificazione dei salari alla produttività marginale del gruppo totale dei lavoratori occupabili, anche un altro risultato e cioè quello del rialzo della produttività marginale medesima. Oltre ad aver fatto, in Italia e nella bassa padana, più velocemente salire il salario da 1-2 lire al giorno per il bracciante agricolo, quale era il salario corrente di fatto fra il 1870 e il 1880 a quello di 3 lire quale, in un mercato perfetto di concorrenza avrebbe dovuto essere allora il salario normale, non è escluso che la lega abbia cresciuto il salario normale medesimo da 3 a 5 lire al giorno, perché crebbe la produttività dell’operaio e creò interesse negli imprenditori ad impiegarli a 5 invece che a 3 lire al giorno. La lega, spiegò Vilfredo Pareto, non produsse per sua virtù specifica cotal risultato, che sarebbe stato miracoloso, e nelle cose economiche non si hanno miracoli. Essa poté avere quell’effetto indirettamente, perché essa agì come un fermento di elevazione, di trasformazione nella massa contadina ed operaia. Quei contadini e quegli operai, i quali prima non sapevano neppure di essere uomini, che quasi consideravano se stessi quali servi della terra, che non osavano chiedere miglioramenti, perché pensavano che i salari fossero stati fissati quali erano da una legge o fatalità contro cui era vano ribellarsi, che perciò erano tratti a lavorare ed a produrre nei limiti della rimunerazione ottenuta, si sentirono per la prima volta uomini tra uomini, compresero di valere qualche cosa se uniti con i propri compagni. La nuova consapevolezza del propria valore li trasformò, non subito, ma poco a poco; fece loro comprendere l’utilità del saper leggere e scrivere, del saper discutere dei propri affari. I giovani furono diversi dai genitori e dai nonni. Il mito dell’appartenenza ad una classe che poteva aspirare a qualche cosa perché lavorava la terra o nella fabbrica, li fece capaci di lavorare meglio. Divenuti diversi da quelli che erano, ottenuti i primi aumenti di salario, che probabilmente erano solo di avvicinamento e di parificazione alla produttività esistente, mangiarono vestirono e calzarono meglio, pretesero una casa più sana, riposi più lunghi, acquistarono in salute fisica, e in vigoria mentale. Furono migliori contadini e migliori operai. Non per virtù propria intrinseca ma per virtù del mito di elevazione che era contenuto nell’associazione, nell’unione ai compagni, nell’azione comune, nel convincimento nuovo di essere e di valere qualche cosa, la lega fece sì che l’uomo nuovo meritasse ed ottenesse un salario più alto.

 

 

Questa è la lega che eleva ed è conforme all’interesse collettivo. Accanto ad essa, talvolta confusa con essa, vive ed agisce un’altra lega: quella che crede nel mito della restrizione, del privilegio, del monopolio, della quantità di lavoro fisso esistente, che deve essere diviso per il numero minimo possibile di compagni. Il primo tipo di lega, creando nuova ricchezza, crescendo la produttività materiale e spirituale dell’uomo, eleva tutti gli operai; il secondo tipo, creando la carestia, favorisce gruppi ristretti a danno degli esclusi, crea un ceto di paria. Il primo tipo è proprio di una società sana, progressiva, stabile; il secondo è germe di malcontento, di invidia, di instabilità rivoluzionaria. L’economista, in quanto uomo, desidererebbe anche che gli altri uomini intendessero alla creazione del primo tipo ed oppugnassero il secondo tipo, ma, in quanto studioso di economia, non può non limitarsi a dire: queste sono le conseguenze dei diversi tipi immaginabili di azione. Spetta agli uomini la scelta.

 

 

66. La scelta fra molteplicità od unicità, libertà od obbligatorietà nelle leghe.

 

Ed ora si può affrontare la discussione del problema legislativo che si presenta in tutti i paesi ed anche in Italia: l’ordinamento sindacale ereditato dal ventennio scorso deve essere conservato nella linea essenziale, mutando solo il modo di reclutamento dei dirigenti, facendoli cioè eleggere dal basso, invece che nominare dall’alto, ovvero si deve ritornare al sistema vigente prima del 28 ottobre 1922? I quesiti sono questi: Molteplicità od unicità della lega? Libertà o obbligatorietà di appartenenza alla lega?

 

 

67. Contenuto del tipo delle leghe molteplici e libere.

 

Molteplicità e libertà delle leghe significa che ogni lavoratore è libero di iscriversi o di non iscriversi ad una lega, può scegliere quella fra le diverse leghe a cui gli piace iscriversi e paga quote o contributi solo alla lega prescelta e solo finché gli piaccia di rimanere ad essa iscritto. In questo tipo di leghe, che era il solo conosciuto nei paesi anglo-sassoni, il solo cioè che esistesse nei paesi in cui unicamente le leghe (sindacati) operaie ebbero vita secolare, continuamente progressiva e sempre più salda, il solo il quale abbia resistito alla prova del tempo ed abbia conseguito a vantaggio delle classi lavoratrici risultati non effimeri e sostanziali:

 

 

  • a) non hanno luogo elezioni determinate con regole generali dalla legge. Ogni lega si regge da sé secondo i propri statuti e secondo il suo costume;
  • b) il segretario dirigente della lega è scelto per designazione spontanea dei compagni, è il migliore del gruppo, è l’oratore naturale di esso. Egli dura in carica sinché dura la fiducia dei compagni. La fiducia non viene meno se non per cause serie. I compagni sanno invero che egli ha abbandonato il lavoro della miniera, del campo, dell’officina, per dedicarsi al lavoro dell’organizzazione, per trattare per conto dei compagni con i padroni, sanno che egli ha preso altre abitudini di lavoro e non potrebbe ritornare al vecchio mestiere. Se egli invecchia, i compagni lo designeranno ad un posto migliore o meno faticoso nella lega medesima, o nella federazione. Non lo abbandoneranno sul lastrico. Non si tratta di far prova, come nelle elezioni comunali e nazionali, della forza di un partito. Si tratta di non abbandonare chi ha dedicato la vita ai compagni. Se egli non è in colpa, è doveroso conservargli fiducia e posto. D’altro canto, il segretario dirigente sa che i compagni prelevano sul loro salario la quota necessaria per far vivere la lega e anche lui. Sa che e a quel posto per rendere servizio e che quel posto gli può essere conservato solo e finché rende servizi utili ai suoi compagni. Se egli si addormenta, se la lega non è attiva, non segue il mercato dei prezzi, non riesce a migliorare le condizioni di lavoro quando è possibile, i compagni non pagano più le quote e si iscrivono all’altra lega affine o diversa la quale dà prova di maggiore attività. Il dirigente non può addormentarsi. Non può agitarsi al solo scopo di agitarsi, perché condurrebbe la lega alla sconfitta e di nuovo i soci diraderebbero e la cassa della lega inaridirebbe. Deve ottenere risultati positivi concreti e l’esperienza gli ha appreso che questi si ottengono, più che con la lotta ad ogni piè sospinto, con le trattative ed i compromessi. Non si rinuncia alla estrema ratio della lotta, dello sciopero o della serrata, ma, salvo che a parole, se ne fa il minor uso possibile. Egli, che è il generale, ha il dovere di risparmiare la vita dei suoi soldati e di non condurli al macello;
  • c) per quanto faccia, l’organizzatore il quale vuole organizzare per organizzare, crear contese per procacciare soci alla sua lega, non ci riesce. Dove operai o padroni sono già d’accordo, dove già si pagano i salari normali, dove non esiste la materia del contendere, la lega libera non sorge, o se sorge non dura. A che pro organizzare, far pagare quote, crear liti al solo scopo di far vivere uno stato maggiore di organizzatori La lega si fonda e persiste e prospera colà dove essa ha una ragione di essere, dove rende servizi agli affiliati, dove essa consente ad altre leghe di offrire i propri servigi agli stessi affiliati, laddove è possibile il confronto con altre leghe di mestieri affini, dalle quali gli affiliati hanno ottenuto o si ripromettono di ottenere risultati migliori;
  • d) l’organizzatore non può esaurire, anche se lo volesse, il suo compito nella lotta e nella resistenza. Alla lunga l’atteggiamento fiero della lotta stanca e lascia malcontenti i soci, per la manchevolezza e il costo dei risultati. Occorre sostituire alla guerra qualche cosa d’altro, le trattative, le discussioni, gli accordi. Alla figura dell’agitatore, dell’oratore, del capo-sciopero si sostituisce la figura del delegato, del contraente, che impara le finezze del discutere, dell’opporre ragioni a ragioni, dati a dati, che è mosso da sentimenti, ma non li mette in mostra e preferisce ragionare di prezzi, di costi, di cottimi, di velocità e di rendimento di macchine e sa dimostrare essere possibile variare quel salario, quella base di cottimo, quell’orario, quell’intervallo di riposo senza condurre ad irreparabile rovina l’industria; sa ribattere i dati dell’altra parte, fondati su dati veri di costo assunti dai libri di un’impresa che lavora a costi alti, con dati di costo altrettanto veri applicabili ad un’impresa, la quale ha saputo ridurre i suoi costi ad un livello inferiore e così mettendo in luce il contrasto proprio dell’altra parte, quella imprenditrice, giova alla parte propria ed insieme spinge, con vantaggio dell’universale, l’impresa a perfezionarsi. Può accadere ed è accaduto che, ferma restando la regola che i capi delle leghe debbano provenire dalle file dei gregari ed avere esercitato un mestiere, si apra una gara fra i migliori, simili a quella dell’esame di concorso per l’accesso alle pubbliche cartiere; e nei libri dei coniugi Webb si leggono cenni su programmi di storia civile e del lavoro, di algebra e di disegno, di legislazione industriale e sociale, di elementi di finanza pubblica e privata, ai quali sono stati sottoposti gli operai desiderosi di adire agli uffici più delicati delle grandi federazioni. Avanzamento, questo, non esclusivo dei paesi anglo – sassoni, ché il senatore Francesco Ruffini amava raccontare agli amici di essere stato scelto, quando era rettore dell’università di Torino, a presidente, il che voleva dire arbitro della decisione, in un collegio paritetico di delegati della lega padronale e di quella operaia, e di aver avuto durante le discussioni, lunghe e faticose, avvenute in sua presenza, l’impressione di trovarsi dinnanzi a membri operai, i quali ragionavano così come avrebbero potuto fare i suoi colleghi giuristi della facoltà torinese di giurisprudenza ed a membri padronali, che egli metteva a paro dell’ottimo nostro bidello Talpone, benevolo consigliere di studenti e non di rado consultato anche dagli insegnanti come memore conservatore di venerande tradizioni accademiche. Agili e periti gli operai, tradizionalisti gli industriali. Questa era la meta, toccata solo in piccola parte, verso la quale tendeva, attraverso errori e incertezze, forse non in tutto inevitabili, il movimento operaio italiano nel dopoguerra: di giovare come pungolo al ceto industriale, talvolta propenso ad adagiarsi troppo sulle posizioni acquisite.

 

 

68. Contenuto del tipo della lega unica e obbligatoria.

 

Purtroppo, nello stesso movimento operaio affioravano altre tendenze, desiderose di rafforzare, col sussidio della legge, la situazione conquistata con lo sforzo e con la lotta. E fin da prima dell’altra guerra si udirono voci provenienti dalle leghe operaie di tendenza socialista, che erano indubbiamente le più forti, le quali reclamavano:

 

 

  • il diritto esclusivo per se stesse ad essere rappresentate nel consiglio superiore del lavoro, eliminando ogni rappresentanza delle leghe a sfondo cattolico o sindacalista od altro diverso;
  • l’obbligo legale degli imprenditori a trattenere sul foglio di paga degli operai le quote da versare nella cassa della lega, e si intendeva dai promotori fosse la lega più forte, quella a tipo socialistico. L’osservatore deve constatare che ogni istituzione che abbia avuto origine ed alimento da forza vera, che è solo la forza morale della libertà, è tratta, quando ha raggiunto un grado notevole di successo, a calpestare le ragioni della sua medesima grandezza ed a chiedere coazione, costrizione, privilegio, monopolio. Di questa tendenza, propria della natura umana, si giovarono, facendosene interpreti, coloro i quali attuarono il regime cosidetto corporativistico, sostituendo:
  • alla libertà di associazione l’obbligatorietà dell’appartenenza alla lega;
  • alla varietà e molteplicità e spontaneità ossia non universalità delle leghe l’unicità di esse.

 

 

I risultati si videro, e furono di asservimento di ambe le parti, operai e datori di lavoro, ad un unico comando, inteso a crescere e perpetuare il proprio dominio.

 

 

69. La variante delle elezioni dal basso nella lega unica ed obbligatoria.

 

Muterebbe qualche cosa al nuovo principio la mera variante delle elezioni dal basso al luogo della scelta dall’alto? In sostanza si tratterebbe di applicare alla gerarchia sindacale gli stessi metodi che si applicavano un tempo alle gerarchie amministrative comunali, provinciali e statali. Nello stesso modo, come, prima del 1922, gli elettori erano chiamati, per circoscrizioni territoriali, ad eleggere consiglieri comunali, provinciali e deputati al parlamento e dal seno degli eletti erano poi tratti i sindaci e le giunte nei comuni, i presidenti e le giunte amministrative nelle provincie, ed i consigli dei ministri nello stato, e sindaci, presidenti e ministri alla loro volta nominavano, sia pure con qualche garanzia di concorso, ma inevitabilmente dall’alto, tutta la gerarchia amministrativa dei funzionari centrali e locali, dai direttori generali e dai prefetti agli uscieri, per mezzo di cui la macchina comunale, provinciale e statale era fatta agire, così in avvenire gli elettori sarebbero chiamati, per circoscrizioni professionali, ad eleggere a suffragio maggioritario o, come pare, proporzionale, i capi-operai ed i capi-datori di lavoro da mettere alla testa dell’unica lega operaia o padronale, la quale, così come accadeva durante il ventennio, avrebbe la rappresentanza dell’intiera classe appartenente al mestiere o all’industria e stipulerebbe contratti collettivi obbligatori per tutti gli appartenenti, soci o non soci, così come le norme e le leggi approvate dai consigli provinciali, comunali, e dal parlamento erano obbligatorie per tutti i cittadini, fossero o non questi elettori votanti. Possono essere varie le opinioni intorno al modo di elezione dei capi delle federazioni provinciali e regionali, se cioè la elezione debba essere diretta da parte degli elettori della circoscrizione più larga ovvero a doppio grado facendo scegliere i capi delle federazioni provinciali dal voto dei capi delle leghe locali, e quelle delle federazioni nazionali dal voto dei capi delle federazioni provinciali. Qualunque sia il modo prescelto, sarebbe certo che i capi eletti avrebbero il compito di nominare, sia pure secondo date norme di reclutamento e a norma di dati requisiti, i quali, per il carattere pubblico della scelta, dovrebbero essere obbiettivi uguali per tutti, dimostrabili con titoli (di studio e di carriera precedente, ecc. ecc.) i funzionari od impiegati o comunque si vogliano chiamare, incaricati di far funzionare la macchina burocratica della rappresentanza professionale e di eseguire i molteplici incarichi di determinazione dei contratti di lavoro, della loro esecuzione, e dei conseguenti inevitabili interventi nella gestione dell’industria e del regolamento del lavoro.

 

 

Poco importa si dica che il meccanismo così creato dovrebbe essere agile, svelto, inspirato a concetti non burocratici e altrettali ottime intenzioni. Di fatto il sistema metterebbe:

 

 

  • a) al luogo di soci volontari, pronti ad andarsene e a non pagare quote, se il servizio ottenuto non risponda ai propri desideri, appartenenti obbligati a pagare contributi, necessariamente esigibili per mano dell’esattore delle imposte e con la procedura forzosa esattoriale;
  • b) al luogo di capi, scelti spontaneamente dai soci delle leghe e mutabili senza apparato di elezioni ove non soddisfino alle esigenze dei compagni, ma di fatto tenuti al loro posto sinché non abbiano demeritato, eletti non mutabili se non a date fisse, distanziate una all’altra da intervalli di almeno un anno e forse più, e soggetti, per la rielezione, ai mutabili umori del corpo elettorale;
  • c) al luogo di compagni che si prestino, per lo più gratuitamente, nelle ore serali a coadiuvare i segretari ed i presidenti permanenti delle leghe nei rapporti minuti personali quotidiani con i soci, funzionari posti dietro lo sportello di un ufficio, incaricati di sbrigar pratiche, per mezzo di moduli e questionari stampati;
  • d) al luogo di associazioni viventi di vita sovratutto morale, dimostrata dalla fiducia di soci volontariamente disposti a pagar quote, ma ugualmente pronti a non pagare più nulla, ove la lega dimostri di non giovare più di fatto ad una esigenza vera, enti di diritto pubblico viventi, anche contro la volontà dei soci, del provento di imposte obbligatorie, da cui trarrebbero l’autorità necessaria ad imporre servigi, siano e non questi richiesti;
  • e) al luogo di un limitato manipolo di capi numerati, finché servono, e di ausiliari spesso volontari gratuiti, tratti dalle file medesime dei soci, una burocrazia pagata dal fondo delle imposte e dotata delle qualità proprie di ogni burocrazia, che sono la moltiplicazione per scissiparità e la tendenza all’autogenerazione di sempre nuovi compiti, atti a giustificare il numero crescente di capi eletti e di burocrati scelti per concorso e l’inasprirsi progressivo dei contributi forzosamente prelevati a carico dei contribuenti.

 

 

Alle quali logiche caratteristiche del sistema che si vorrebbe perpetuare, illudendosi di mutarlo con la semplice introduzione di metodi elettivi alla base, ci si dovrebbe sottomettere, come ci si sottomette alla necessità della esistenza delle organizzazioni comunali, provinciali e statali, se fosse veramente vantaggioso alla collettività lo scopo che si vuole conseguire. Ma l’analisi fatta dinnanzi ha dimostrato che le leghe producono effetti vantaggiosi solo quando esse si propongono scopi di adeguazione dei salari e delle altre condizioni del lavoro al tipo che spontaneamente si attuerebbe in condizioni di perfetta concorrenza e quando esse si propongano altresì l’intento di trasformare l’uomo lavoratore ispirandogli consapevolezza del proprio valore morale e dandogli così nuova dignità di vita. E questi risultati si ottengono solo con la lega libera, opera volontaria e creatrice dell’uomo unito con i compagni e da questa unione reso capace non solo di volere ma anche di attuare propositi non accessibili all’uomo isolato. L’analisi ha dimostrato che le leghe invece producono effetti dannosi quanto più esse si avvicinano al tipo dell’ente il quale monopolizza la offerta e la domanda della mano d’opera; né i danni scemano in conseguenza dell’accordo eventuale fra i due monopoli stessi. Ma la lega unica e obbligatoria attua nel modo più perfetto che immaginar si possa il tipo dell’ente monopolisticamente padrone di tutta la offerta e di tutta la domanda di lavoro, e il carattere monopolistico è condotto al massimo dalla potestà che la lega unica ed obbligatoria ha di prelevare contributi, anche a carico dei ricalcitranti.

 

 

Rimane perciò dimostrato che se la lega volontaria e molteplice può essere campo di innalzamento dei lavoratori, la lega unica ed obbligatoria tende ad essere strumento di oppressione, e mezzo, inavvertito forse ma sicuro, alla prosecuzione o nuova instaurazione del tipo di stato autoritario e totalitario.

 

 

Capitolo IV. La partecipazione ai profitti

 

70. Perché si studia la partecipazione ai profitti e non altri metodi di partecipazione degli operai alla gestione dell’impresa.

 

Con l’assicurazione sociale, il lavoratore tende ad ottenere la sicurezza di un minimo di vita in tutti i casi nei quali a lui viene a mancare per infortunio, invalidità, vecchiaia, malattia, disoccupazione od è resa manchevole per oneri di famiglia la fonte normale del reddito, che è il lavoro. L’intento che dapprima si cercò di conseguire con il mutuo soccorso, ossia con le sole forze del lavoratore associato, oggi si vuole ottenere con i contributi, obbligatori per legge, del lavoratore medesimo, del datore di lavoro, e, per la collettività dei contribuenti, con le imposte di stato.

 

 

Con l’associazione – per lo più volontaria e molteplice, ma in alcuni stati e momenti storici obbligatoria ed unica – il lavoratore stipula con i datori di lavoro un contratto collettivo, nel quale sia sancita una norma comune, osservata da tutti gli appartenenti al gruppo, relativa alle condizioni di lavoro, norma la quale garantisca al lavoratore un minimo di vita durante il lavoro.

 

 

I due istituti della assicurazione e dell’associazione si integrano a vicenda, riferendosi a due momenti contrapposti della vita del lavoratore: quello del non lavoro e quello del lavoro.

 

 

L’uomo però auspica, al di là di un minimo, ad elevarsi. Il che si ottiene in variabilissime maniere, che qui non occorre esaminare tutte: col risparmio individuale, fondamento iniziale all’uscita dalla condizione di lavoratore semplice, con l’intrapresa di una bottega da artigiano, di un negozio commerciale, di un laboratorio industriale, con l’assunzione di un terreno in partecipazione, di un fondo rustico a mezzadria od a fitto e finalmente con l’acquisto della proprietà di una terra. L’elevazione si ha anche senza assunzione di un’impresa propria, come quando il lavoratore od impiegato acquista la casa propria o l’appartamento di abitazione, sia pagando l’intero prezzo, sia assolvendone solo una piccola parte in contanti ed impegnandosi a pagare il resto a rate. Del che si hanno in Svizzera numerosissimi esempi; e, tra le due grandi guerre, le cooperative edilizie britanniche provvidero a fornire ai loro soci oltre un milione di case a proprietà individuali con pagamenti rateali.

 

 

Trattasi tuttavia di metodi tradizionali di elevazione, che, per essere ben noti e per essere di virtù sociale altrettanto nota, non formano oggetto di viva controversia. Dibattiti più vivi si odono intorno ad altri mezzi di elevazione, i quali sembrano più moderni. Uno è quello della espropriazione, senza indennità o con indennità nominale (espressa cioè in una moneta destinata a perdere potenza di acquisto o calcolata con criteri tali da far rimanere l’indennità assai al disotto del prezzo corrente della cosa espropriata), degli attuali impianti industriali, ferroviari, navali ecc. e della loro successiva gestione da parte dei tecnici, impiegati ed operai.

 

 

L’altro è quello della preparazione alla futura gestione da parte operaia, attraverso l’esperienza e direbbesi il tirocinio di commissioni interne di fabbrica. Queste, variamente composte di tecnici impiegati ed operai, comincerebbero fin d’ora ad esercitare un controllo sulla gestione dell’industria, sia a tutela dei lavoratori, sia per giungere alla conoscenza esatta dei costi, dei metodi di lavorazione, di acquisto e di vendita, dei prezzi, sì da rendere a poco a poco i lavoratori capaci di partecipare alla gestione e ai guadagni dell’industria e finalmente atti ad assumere la gestione medesima, al luogo degli attuali proprietari. In un corso, il quale ha per iscopo di analizzare fatti esistenti, sembra meno adatto l’esame di proposte le quali sovratutto si riferiscono a quel che deve essere. La scienza economica non è una scienza di quel che deve essere – compito proprio della morale e della politica – ma di quel che è[12]. Essa analizza quel che è scomponendolo nei suoi elementi essenziali, sì da trarne luce per illuminare gli effetti di eventuali proposte di riforma; ma il punto di partenza è sempre l’analisi di qualche aspetto della realtà. Ora le proposte di espropriazione e di gestione dei lavoratori, di commissioni interne di controllo si trovano ancora troppo nel campo delle cose che dovrebbero essere, per poter fare vantaggioso oggetto di analisi.

 

 

Se noi facciamo astrazione dall’esperimento russo, troppo poco conosciuto nel suo funzionamento effettivo economico e sociale, epperciò di scarso interesse scientifico per quanto riguarda il suo ordinamento di diritto, tre sono gli esperimenti sociali compiuti dai lavoratori, da soli o con l’aiuto dei datori di lavoro, dei quali si hanno notizie abbastanza sicure perché sulla base di esse l’analisi economica possa dar luogo a qualche fruttuosa considerazione:

 

 

  • la partecipazione ai profitti;
  • l’azionariato operaio;
  • la cooperazione di produzione.

 

 

Essendo impossibile, per la ristrettezza del tempo, intraprendere lo studio di queste tre specie di esperimenti sociali realmente compiuti per un periodo di tempo lungo e per un numero di casi abbastanza grande, mi limiterò allo studio della partecipazione ai profitti. Questo presenta il vantaggio di essere oggetto attuale di proposte varie di applicazione obbligatoria su vastissima scala e di mettere a tempo stesso in luce elementi utili a dare un primo giudizio intorno agli altri due sistemi.

 

 

71. Cenni bibliografici e storici.

 

L’idea della partecipazione ai profitti presenta innanzitutto il vantaggio di una lunga storia[13] la quale potrebbe essere fatta risalire alla millenaria applicazione che nella sua formula più semplice si è fatta nell’agricoltura con la mezzadria e con le altre maniere di partecipazione del contadino al prodotto della terra, e nella pesca con la tradizionale divisione del prodotto in parti aliquote fra padroni della barca e marinai addetti alla pesca. Anche limitandoci alle applicazioni vere e proprie nell’industria, nel commercio e nella finanza, si può ricordare che il primo notevole documento sulla partecipazione è il decreto napoleonico, datato dal quartiere generale di Mosca il 15 ottobre 1812, il quale regola la partecipazione degli attori della Comèdie française agli utili netti dell’esercizio del Théâtre français. In virtù di quel decreto, gli attori oltre ad un assegno fisso annuo, aumentato dai feux, ossia da un supplemento per ogni recita, ricevono – e questa è la loro remunerazione essenziale – una parte degli utili netti della gestione, calcolati a fine anno. Gli utili sono divisi in 24 quote di cui una inviata a riserva per spese impreviste, una mezza quota ad un fondo abbellimento e riparazioni, un’altra mezza quota al fondo pensione, e le 22 rimanenti quote sono divise fra gli attori sociétaires, in ragione di un minimo di 1/8 di quota ai sociétaires più giovani e meno famosi sino al massimo di una quota ai più famosi ed anziani. L’utile è per metà versato in contanti ai beneficiari e per l’altra metà ad un fondo pensione per gli stessi attori.

 

 

Tra gli altri esempi più noti e tuttora in essere ricordiamo quello della Maison Leclaire iniziato nel 1842, del familistero di Guise, stabilito dal fondatore Godin nel 1876, entrambi caratteristici per la loro derivazione storica dall’ambiente del socialismo detto usualmente utopistico, alla Saint-Simon ed alla Fourier, dominante nella Francia della prima metà del secolo 19esimo e per la loro trasformazione in vere cooperative di lavoro e di produzione; quelli dei grandi magazzini del Bon marché e della Samaritaine, dove la generosità dei proprietari fa passare la proprietà e la gestione agli impiegati ed addetti, e quello Michelin (1898), nel quale è dominante il giudizio del datore di lavoro nella fissazione e distribuzione della quota utili al personale.

 

 

72. Definizione e requisiti essenziali della partecipazione.

 

Analizziamo il sistema quale lo si può ricostruire dall’esperienza ormai secolare. La definizione che sembra più adatta a riassumere questa esperienza è quella data dal Consiglio superiore del lavoro francese nella sessione del novembre 1923.

 

 

«La partecipazione ai profitti è un contratto in virtù del quale il datore di lavoro si impegna a distribuire, in aggiunta al pagamento del salario normale, fra i salariati della sua impresa, una parte degli utili netti, senza partecipazione alle perdite».

 

 

I requisiti essenziali della partecipazione sono dunque i seguenti:

 

 

  • a) essa risulta da una convenzione libera volontaria, tacita od espressa, stipulata fra datore di lavoro e lavoratori appartenenti alla sua impresa. Non si conoscono esempi di partecipazione obbligatoria, imposta in generale dalla legge, od almeno non si conoscono esempi di partecipazione obbligatoria generale, i quali siano stati applicati per periodi di tempo apprezzabilmente estesi;
  • b) la quota utile è una aggiunta al salario normale, ossia quel salario il quale è pagato all’operaio normale in virtù delle convenzioni di mercato, della consuetudine o delle tariffe sindacali. Perciò non possiamo considerare partecipazione vera e propria la quota che nella mezzadria agricola od in contratti analoghi costituisce il salario o parte integrante del salario spettante al lavoratore;
  • c) la quota assegnata al lavoratore è una quota degli utili eventuali ottenuti in un dato intervallo di tempo dall’impresa;
  • d) la partecipazione è agli utili e non alle perdite. L’operaio non è vero socio, il quale partecipi alla gestione sociale in ambo i sensi, ma quasi socio, il quale partecipa solo se e quando si ottengono utili. Non può essere neppure assimilato all’azionista privilegiato, perché questi ha bensì una priorità sull’azionista ordinario, se utili vi sono, ma se vi sono perdite e se a coprire queste non basta l’apporto del capitale versato dall’azionista ordinario, può l’azionista privilegiato essere chiamato a subirle, laddove il lavoratore partecipante non può essere chiamato mai a versare, neppure in piccola parte, le somme necessarie a colmare le perdite subite dall’impresa.

 

 

73. Tipi di partecipazione.

 

Se la partecipazione agli utili è attribuzione al lavoratore di una parte degli utili dell’impresa, vari possono tuttavia essere i tipi dell’impresa ai cui utili l’operaio è chiamato a partecipare. Ogni impresa può essere considerata nel suo complesso o frazionata in sotto imprese aventi ciascuna una propria autonomia economica. Se si fa astrazione dai casi nei quali non si tratta di una vera partecipazione agli utili, ma di quote di salario (quota mezzadrile, parte del pescatore, interessamento nelle vendite per il commesso di un negozio, un’annata di premio o percentuale di premio ai produttori di assicurazioni) possiamo elencare così i principali tipi:

 

 

  • a) L’impresa consiste nell’esecuzione di un determinato lavoro affidato al lavoratore singolo o più frequentemente ad un gruppo di lavoratori. Un rapporto della Maison Leclaire, la quale applica del resto la partecipazione anche al profitto dell’impresa nel suo complesso, così descrive il caso: «un contratto speciale permette alla squadra che ha finito un lavoro, di sapere se essa ha ottenuto un risultato conveniente per il suo lavoro. Noi sappiamo esattamente, alla fine dell’esecuzione di un contratto o di un lavoro qualunque, quanta mano d’opera e quanta materia prima sono state impiegate. Il misuratore passa, fa i suoi calcoli, redige un rapporto ed appura subito l’utile conseguito. Ciò incoraggia gli operai e ci permette ottenere utili». Il sistema ha il vantaggio di garantire all’operaio una quota degli utili alla cui produzione egli ha direttamente contribuito, senza interferenza dei risultati diversi e forse anche negativi ottenuti con l’esecuzione di altri lavori. L’alea del lavoratore è limitata ai risultati di un singolo lavoro.
  • b) L’impresa si estende all’insieme dei lavori compiuti in un determinato reparto di uno stabilimento, o in un dato stabilimento di un complesso industriale più vasto. In uno stabilimento cotoniero, il quale lavori il cotone dal momento nel quale esso è introdotto come greggio al momento della vendita all’ingrosso come tessuto, potremmo distinguere la lavorazione nei suoi stadi successivi della filatura, torcitura, coloritura, apprettatura. Ogni reparto è concepito come un’impresa a sé stante, la quale riceve in carico la merce greggia o semilavorata dal reparto precedente e la riconsegna lavorata al reparto susseguente, a prezzi predeterminati di carico e scarico dalla direzione generale. L’utile ripartibile è un utile «industriale» risultante dal saldo differenziale fra il prezzo di entrata più i costi specifici di lavorazione e generali dello stabilimento ed il prezzo di uscita, ambi i quali prezzi di entrata e di uscita sono prezzi non di mercato ma puramente contabili.

 

 

Impiegati ed operai sono interessati esclusivamente ad ottenere un massimo di utile industriale. Quel che avverrà della merce finita, quando essa passerà dai reparti industriali all’ufficio vendita, è estraneo al calcolo. I singoli reparti possono avere ottenuto un dato utile ripartibile e tuttavia l’azienda nel suo complesso può conseguire un utile diverso dalla somma degli utili passati e forse anche perdere, innanzitutto perché il prezzo di realizzo effettivo può essere diverso da quello calcolato finito all’ufficio di vendita, sia perché l’ufficio di vendita deve tenere conto di spese generali, rischi, insolvenze, ecc. ecc. propri, diversi da quelli attribuiti ai singoli reparti. I lavoratori cointeressati, come non devono temere i risultati negativi degli altri reparti, così non devono preoccuparsi delle eventuali perdite dell’impresa nel suo complesso. Se essi hanno contribuito efficacemente alla buona produzione del proprio reparto, hanno possibilità di partecipare ad un utile non annullabile del diverso meno operoso comportamento dei lavoratori appartenenti ad un altro reparto.

 

 

  • c) L’impresa ai fini della partecipazione degli operai agli utili si identifica con impresa considerata nella sua intierezza sia economica che giuridica. Questa è la partecipazione in senso proprio, della quale principalmente si discuterà qui, essendo quella che sola è considerata nei programmi e nei progetti venuti alla luce in questi ultimi tempi in Italia. Di essa quindi saranno in seguito più ampiamente studiati contenuto, requisiti e problemi.

 

 

74. Divisione degli utili.

 

Come è detto nella definizione il sistema vuole che una parte degli utili sia attribuita al personale dipendente dall’impresa. Quale parte? Escludiamo senz’altro la grossolana divisione a metà. Essa è spesso già disadatta nella mezzadria, dove l’uniformità della quota contrasta con le differenze di produttività dei fondi, per cui l’identica quota risulta ora più ora meno bastevole a compensare il lavoro della famiglia mezzadrile sicché fu necessario con patti addizionali vari trovare modo di ovviare alla sperequazione propria del sistema. Ma la sperequazione sarebbe intollerabile nell’industria, nella quale l’importanza del capitale e del lavoro variano moltissimo da caso a caso. Si devono dividere, ad esempio, gli utili di una miniera di carbone, di lignite, di ferro, di zolfo? Qui spesso, il costo del lavoro è parte rilevantissima, che può andare sino all’80 e 90% del costo totale del prodotto. In questi casi, l’attribuzione al lavoro del 50% dell’utile netto svaluta troppo l’apporto del lavoro e sopravaluta quello del capitale. Si deve ripartire l’utile netto di un impresa di produzione e di distribuzione dell’energia elettrica agli utenti industriali, esclusa la distribuzione minuta ai singoli consumatori di luce elettrica, che è compito di imprese affiliate? Qui il capitale investito è di centinaia di milioni, se non di miliardi di lire, ed invece, una volta costruiti gli impianti di presa, con i loro laghi artificiali, i loro canali di presa e le centrali di trasformazione, l’impresa è fatta funzionare da un piccolo numero di operai e tecnici, talvolta poche decine. La distribuzione degli utili metà a metà convertirebbe i pochi dipendenti in nababbi pagati assai meglio del più alto funzionario dello stato. Importa perciò che la divisione degli utili avvenga secondo l’importanza rispettiva del capitale e del lavoro, importanza misurata secondo criteri omogenei. Epperciò:

 

 

  • a) si tiene conto da un lato del capitale investito e dall’altro lato del valore capitalizzato dei servizi dell’operaio. Il metodo è poco usato, perché pone il problema della capitalizzazione del salario dell’operaio, problema complicato, dovendosi, come nel calcolo per indennità per infortunio, tener conto dei guadagni probabili futuri dell’operaio, della sua vita probabile lavorativa futura, e dello sconto dei guadagni medesimi al momento attuale. Calcolo necessario perché al capitale investito dall’imprenditore bisogna paragonare il capitale investito dell’operaio, che non è il suo salario, ma il valore della sua persona;
  • b) data la complicazione e l’incertezza dei quali calcoli, si preferisce tener conto da un lato degli interessi sul capitale investito dal datore di lavoro e dall’altro lato dei salari riscossi dai lavoratori. I termini del paragone sono omogenei, perché ambedue sono reddito o remunerazione dei due fattori capitali e lavoro. Se in un dato esercizio, nelle due imprese A e B, le somme ricevute a titolo di interesse del capitale e di salario e stipendi dai dipendenti furono rispettivamente:

 

 

 

Interessi

Al capitale

Salari e stipendi ai dipendenti

 

%

%

A

40.000.000

80

10.000.000

20

B

10.000.000

20

40.000.000

80

 

 

l’utile netto verrà in A attribuito per l’80% al capitale e per il 20% al lavoro, e in B inversamente per il 20% al capitale e per l’80% al lavoro.

 

 

Fissata la quota al lavoro, essa deve essere distribuita fra le diverse categorie di lavoratori. Sempre si distingue fra i dirigenti ed i dipendenti. Nel familistero di Guise, il 25% degli utili è assegnato alle cosidette capacità; il 4% all’amministratore gerente, tante volte 1% quanti membri del consiglio, ma non più del 16%, ai consiglieri, il 2% al consiglio di sorveglianza, il 2% a disposizione del consiglio per remunerare servizi eccezionali e l’1% per borse di studio ad uno o più allievi uscenti dalle scuole del familistero. Nello stabilimento Leclaire, il 15% degli utili va a favore dei due gerenti. Nei grandi magazzini del Bon marché di Parigi (Aristide Boucicaut vi iniziò la partecipazione nel 1877) il 2% è assegnato ai consiglieri di amministrazione e il 14% ai direttori e sottodirettori e agli impiegati superiori. Nella Samaritaine, pure grandi magazzini di Parigi, il fondatore Ernest Cognacq attribuì il 15% alla gerenza. È regola generale dunque tener conto dello specialissimo apporto che alla creazione degli utili apportarono i gerenti od amministratori o direttori.

 

 

La quota spettante ai dipendenti non è, inoltre, mai ripartita in parti uguali. I coefficienti dei quali si tiene conto sono per lo più i seguenti:

 

 

  • a) l’ammontare dello stipendio o salario ricevuto nell’anno, supponendosi che esso sia indice del contributo dato dall’operaio alla produzione;
  • b) l’anzianità nell’impresa, volendosi premiare i dipendenti che dimostrarono meglio il loro attaccamento all’impresa. Il criterio è visto di malocchio dalle leghe operaie, le quali vi scorgono un mezzo per legare l’operaio all’impresa singola e scemare la sua solidarietà con i compagni di lavoro;
  • c) la funzione coperta. È criterio che accentua quello dell’ammontare del salario e cresce la parte di coloro che, senza avere funzioni direttive hanno una posizione particolare di fiducia;
  • d) la remunerazione aggiunta per ore straordinarie o per gratifiche, reputandosi che siano indice di particolare operosità del dipendente;
  • e) i carichi di famiglia. Dove non esistono casse per assegni famigliari, la quota utili vien fatta servire ad integrare il salario con un sovrappiù proporzionato ai diversi carichi di famiglia. Lo scopo è sempre quello di rendere l’operaio affezionato all’impresa;
  • f) il merito individuale. È criterio riservato alla valutazione soggettiva del datore di lavoro. Il signor Michelin, che nel 1898 introdusse la partecipazione nei suoi stabilimenti per la produzione della gomma elastica a Clermont Ferrand, a spiegare la sua avversione alle regole fisse, scriveva:

 

 

«Nei primi tempi osservavo tra gli operai alcuni che erano una vera élite. La loro devozione mi era stata così utile ai nostri inizi ossia in un’epoca nella quale le difficoltà superavano di gran lunga i benefici, che mi risolsi a compensarli quando vennero anni migliori. Poiché essi avevano lavorato più di quanto mi dovessero per la loro paga, ritenni giusto di dover dar loro più della loro paga. Perciò fondai la partecipazione. Sapevo che essi prendevano a cuore in tutto l’interesse della casa e che essi, al par di me, volevano fabbricare il miglior pneumatico possibile. Essi curavano di evitare lo spreco delle merci e delle materie prime e di ben utilizzare gli strumenti del lavoro, perché capivano che in ciò sta una gran ragione di grande economia, e seguivano con la maggiore attenzione le consegne loro date, in modo che il loro lavoro fosse sempre perfettamente eseguito. Se essi reputavano vantaggioso modificare una maniera di lavorare o cambiare una macchina, lo dicevano ai capi, e li avvertivano quando qualche cosa non andava bene nelle gomme, nelle tele e nelle altre materie prime. E se capitava loro di commettere uno sbaglio, invece di nasconderlo e di dirsi: tanto peggio!, non se ne accorgeranno!, segnalavano la cosa ai loro capi affinché la fabbricazione non ne soffrisse. Per essere un buon partecipante, bisogna essere come costoro. Ci tengo ad affermare che se un uomo non ha tutte queste qualità, se egli non dà al lavoro una cura continua, se egli cerca di cavarsela, se egli non pensa: “Io voglio che il mio lavoro sia ben fatto”, costui non è degno di diventare e neppur di continuare ad essere un partecipante. Vennero operai da me dicendomi: “Ho sei anni di presenza nella ditta, dovrei essere partecipante”. S’ingannavano. La partecipazione non è fatta per premiare l’anzianità. La partecipazione è riservata agli uomini intelligenti e coscienziosi che ci aiutano con tutte le loro forze a far sì che il pneumatico Michelin sia sempre il miglior pneumatico del mondo».

 

 

Tipiche dichiarazioni, queste del Michelin, perché mettono in luce quella che vedremo essere la vera sostanza della partecipazione agli utili; che non è di dare agli operai una quota di utili venuti fuori, non si sa come, dall’impresa, sibbene di riconoscere che coloro i quali hanno contribuito a creare l’utile, hanno ragione di avere quella parte di esso che loro spetta. E se così è, la partecipazione ha un limite: il lavoratore ha ragione di ricevere l’utile, che egli ha creato e nella misura nella quale lo ha creato.

 

 

In tema di divisione degli utili, giova ricordare i casi monopolistici nei quali la partecipazione non può essere limitata ai datori di lavoro ed ai lavoratori. Poiché l’utile deriva in parte dalla situazione di monopolio nella quale si trova l’impresa, la divisione dell’utile fra le sole due parti sovraindicate avrebbe natura di divisione del bottino fra i complici di un ladrocinio. È accaduto perciò che il legislatore – qui è intuitivo il dovere del legislatore di intervenire per vietare ai complici di condurre a termine l’operazione di spoglio dei consumatori – intervenisse a regolare la divisione, imponendo che, se questa deve aver luogo, si badi prima all’interesse pubblico. Così ad esempio, i quaderni di concessione dell’impresa del gas nei quartieri meridionali di Londra, stabilivano che la South Metropolitan Gas Company, dopo aver versato il 5% di interessi alle azioni ordinarie, destini il 75% degli utili eventuali ad abbuoni di prezzo a favore dei consumatori di gas, il 12,50% agli azionisti ordinari (e cioè non ai privilegiati, i quali hanno una tal quale garanzia di reddito) e il 12,50% agli impiegati ed operai associati.

 

 

Ma la consecuzione degli utili è subordinata alla condizione che il prezzo sia inferiore ad 11 denari per therm, che è l’unità di misura del gas. Se il prezzo è di 11 d. o superiore ad 11 d. nessun utile può essere ripartito. Così si crea un interesse comune nell’imprenditore e nel lavoratore al ribasso del prezzo, ossia al vantaggio dei terzi prima che al proprio. Ma, anche ribassato il prezzo, poiché trattasi di impresa di servizio pubblico (gas) tipicamente monopolistica, il 75% dell’utile va devoluto ai consumatori e solo il 25% ai produttori (datori di lavoro e lavoratori).

 

 

75. Destinazione della quota spettante al lavoro.

 

Gli esperimenti fatti indicano tre vie principali.

 

 

76. Il pagamento in contanti.

 

È sistema preferito in Inghilterra e negli Stati Uniti dove si vuol dare immediatamente al lavoratore la sensazione di toccare con mano la somma alla quale ha diritto. Il datore di lavoro non pretende sostituirsi al dipendente nel giudizio intorno al miglior uso da dare alla quota utili e si affida al suo senso di dignità di uomo e di responsabilità verso la famiglia.

 

 

77. Il pagamento differito con capitalizzazione.

 

Altri invece teme che il lavoratore, ricevendo una somma discreta tutta insieme al momento della approvazione del bilancio sociale, sia tratto a sprecarla od a farne uso poco vantaggioso per sé e per la famiglia, e ricorre perciò al sistema di capitalizzare la somma medesima a vantaggio del lavoratore.

 

 

  • a) con iscrizione della somma in un libretto di risparmio individuale, cosicché si costituisca a poco a poco un patrimonio il quale diventerà disponibile per il lavoratore dopo il trascorrere di un dato numero di anni ed in seguito al verificarsi di un determinato tempo;
  • b) con versamento su un conto individuale presso apposita cassa allo scopo di costituzione di una pensione vitalizia, riversibile talvolta a pro della moglie e dei figli minorenni;
  • c) con una combinazione in proporzioni varie dei due sistemi precedenti;
  • d) con acquisto e custodia per conto del lavoratore di titoli di tutto riposo, disponibili come si è detto sopra.

 

 

I sistemi finora descritti hanno la caratteristica comune di essere investimenti operati nella moneta del paese. Funzionavano abbastanza bene nel secolo scorso dal 1814 al 1914 quando, per una combinazione di casi che può dirsi essere stata un unicum nella storia del mondo, si diffuse la convinzione essere conveniente per gli stati mantenere invariata la unità monetaria in peso e in titolo e quindi discretamente costante la potenza d’acquisto della stessa unità monetaria. Gli uomini durante quel secolo si persuasero esistesse in realtà quella mitica astrazione detta «investimento in titoli di tutto riposo», principalmente titoli di stato, di credito fondiario, crediti ipotecari e simili. Le svalutazioni monetarie susseguenti al 1914 riportarono gli uomini verso la realtà storica normale che è il disordine monetario, ossia le falsificazioni, ora dette svalutazioni monetarie. Salvo alcune eccezioni parziali, e paiono lodevolissime anche le parziali (Svizzera e paesi anglo – sassoni), non esiste più l’investimento di tutto riposo. Persino le assicurazioni sulla vita sono divenuti giochi d’azzardo sul valore futuro della unità monetaria.

 

 

Non per la sola ragione ora detta, ma anche per essa, si preferisce talvolta la capitalizzazione con:

 

 

  • e) acquisto di azioni o carature della medesima impresa, presso la quale il lavoratore è ammesso alla partecipazione agli utili. Queste dovrebbero avere il vantaggio, in confronto ai titoli cosidetti di tutto riposo, di essere quote di comproprietà nel patrimonio della ditta medesima, quindi quote parti di cose, di cosidetti valori reali, sottratte alle conseguenze delle svalutazioni monetarie, e per giunta quote parti del patrimonio di un’impresa alla cui prosperità il lavoratore è interessato e che egli conosce per pratica di vita quotidiana.

 

 

Essendo però dominante nel sistema della partecipazione il principio che il lavoratore non debba partecipare alle perdite, si vuole evitare, nei limiti del possibile, che anche nell’investimento della sua quota utili egli sia soggetto a perdite. Perciò non si offrono a lui azioni ordinarie o comuni, che sono le azioni le quali hanno il diritto a partecipare ultime agli utili, le quali ricevono cioè tutto quel che resta, ma solo quel che resta dopo aver pagate tutte le spese, alimentati i fondi di riserva, pagati gli interessi fissi agli obbligazionisti, i dividendi agli azionisti privilegiati, le interessenze agli amministratori ed ai delegati, e che, in caso di liquidazione dell’impresa, ricevono tutto ma anche qui solo quel che resta del patrimonio sociale, dopo aver provveduto al soddisfacimento di tutte le passività. Le azioni comuni od ordinarie possono ricevere un grosso dividendo e godere di notevoli aumenti del proprio valore, ma possono anche non ricevere nulla e ridursi a valore zero. Dati i quali rischi, si preferisce perciò di solito assegnare, in pagamento della quota utili ai lavoratori azioni privilegiate, le quali sono azioni ossia quote di patrimonio, che perciò non ricevono un interesse fisso convenuto, ma un dividendo variabile. Però, a differenza delle ordinarie, il dividendo è assegnato alle azioni privilegiate in precedenza a quelle ordinarie. Se utili ci sono, ad es., viene prima ripartito un dividendo sino al 5% alle privilegiate, poi, se resta qualcosa, un dividendo sino al 10% alle ordinarie, poi, se resta ancora qualcosa, tutto il supero può essere assegnato alle ordinarie, ovvero diviso fra queste e le privilegiate, con prevalenza a favore delle ordinarie, le quali correndo maggiori rischi, hanno diritto ad avere maggiori eventuali vantaggi.

 

 

Il sistema qui descritto chiamasi anche dell’azionariato operaio.

 

 

Non è indispensabile che i lavoratori diventino azionisti della propria impresa solo attraverso l’impiego della quota utili ad ognuno spettante. Essi possono investire in tal modo altri risparmi propri costituiti da altre fonti. Taluno vorrebbe investire in quelle azioni le somme destinate alle indennità di licenziamento od altrimenti promesse ai dipendenti. Naturalmente il possesso di azioni dà diritto al lavoratore di partecipare alle assemblee degli azionisti e il diritto di elettorato attivo e passivo per i consigli di amministrazione. Talvolta, si usa attribuire al gruppo dei lavoratori possessori di azioni sociali il diritto a sé stante di nominare, separatamente dagli altri azionisti, uno o più consiglieri di amministrazione, aventi i medesimi compiti degli altri membri del consiglio.

 

 

Il grave inconveniente dell’investimento in azioni è proprio quello di essere un investimento in azioni e di quella impresa. Ai piccoli risparmiatori, ai lavoratori, i quali cominciano la loro carriera di investitori non si può dare il consiglio di scegliere proprio quel tipo di investimento dei propri risparmi che corre un massimo di rischi.

 

 

Al tirocinante – risparmiatore occorre un investimento sicuro. A parte una riserva di depositi a risparmio presso di una cassa di risparmio per la somma minima necessaria a parare alle più urgenti necessità della vita (malattia, disoccupazione, funerali, ecc.) non coperte da particolari assicurazioni, si possono enunciare, in ordine di importanza e di sicurezza di investimento per il lavoratore: il mobilio e l’arredamento della casa, l’acquisto dell’appartamento, della casetta di abitazione, l’acquisto dell’orto o giardino. Investimenti che nei paesi socialmente più progrediti, come la Svizzera, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, sono facilitati da banche ipotecarie e da società mutue edilizie, le quali giungono ad anticipare l’80% e persino il 90% del prezzo di acquisto, con larghe more per il pagamento rateale della residua somma. L’investimento dicesi consigliabile, nonostante leghi l’operaio alla località dove egli risiede e ne diminuisca la mobilità, perché lo spinge ad ulteriore risparmio, lo affeziona alla famiglia, dà sanità ai figli; e dal punto di vista psicologico, l’oggetto in cui si è investito il risparmio rimane sotto gli occhi dell’investitore, il quale non solo gode i frutti, ma li gode direttamente traendone vantaggi morali oltre quelli puramente economici. Il risparmiatore risparmia i denari dell’osteria, e guadagna in salute nel lavoro dell’orto e consuma prodotti di valore superiore alla fatica del lavoro, divenuto quasi divertimento, e di sapore migliore di quelli acquistati sul mercato.

 

 

Più in là non si può andare nel dar consiglio al lavoratore- risparmiatore; non certo si può dare ad essi decentemente il consiglio di acquistare azioni dell’impresa presso cui lavorano. L’impresa può andar bene o male. L’azione acquistata a 100, anche se privilegiata, può ribassare a 70, a 50, a zero. L’operaio, anche se il consiglio era dato in buona fede, avrà certamente l’impressione di essere stato defraudato. Quel consiglio che a malapena si potrebbe dare ad un risparmiatore facoltoso, che può variare i suoi investimenti, che può correre il rischio di perdere una decima parte di essi, perché ha l’alea di non perdere o di guadagnare sugli altri, si ha il dovere morale di non darlo al lavoratore, per il quale la perdita di mille lire può essere cagione di scoraggiamento grave e forse di sofferenza. È evidente che un impiego che il consigliere finanziario imparziale ha il dovere di non dare al singolo, non può essere un mezzo per risolvere un problema importante per la collettività. Il giudizio può mutare se l’investimento in quote o azioni o carature di comproprietà significhi il passaggio della proprietà e della gestione dell’impresa dal datore di lavoro ai lavoratori. Siamo ai casi già ricordati della Maison Leclaire e del Bon marché e della Samaritaine di Parigi e del familistero di Guise. In questi casi, il datore di lavoro, avendo di mira lo scopo di donare l’impresa ai dipendenti, e nello stesso tempo volendo togliere l’apparenza del dono, che corrompe e crea malcontento in chi lo riceve, al quale sembra spesso di avere ricevuto troppo poco, sia in quantità assoluta sia relativamente agli altri beneficiati, immagina (Godin, nel familistero di Guise) espedienti allo scopo di dimostrare di aver rimborsato a se stesso il capitale con le quote utili che in ogni modo gli spettano, lega l’impresa in parte notevole ad un ente autonomo, creato nell’interesse dei dipendenti; e fa pagare le quote di comproprietà abbandonate ai dipendenti mercé le quote utili ad essi spettanti. Qui il lavoratore diventa non un azionista come tutti gli altri; ma un azionista il quale compera le azioni o carature in quanto continua a lavorare nell’impresa e sa che anche gli altri azionisti hanno le stesse opportunità ed a tutti i dipendenti è offerta la possibilità, osservate certe condizioni, di diventare azionisti. Sembra che il successo dell’esperimento sia anzitutto in ragione dell’efficacia delle condizioni poste al divenire ed al cessare di essere partecipanti (su di che vedi in seguito i paragrafi 80 ed 81).

 

 

78. Il pagamento alla collettività dei dipendenti.

 

Nella maggior parte dei casi la partecipazione agli utili, se conseguita in modo non contrario a ragione, ossia se proporzionale al peso del lavoro nella produzione del reddito, dà luogo ad una constatazione: in media la quota attribuita all’operaio singolo è una quantità così tenue, da parer irrilevante in confronto al salario normale, nulla più di una modesta gratificazione, neppure uguale a quei doppi mesi o doppie settimane che la consuetudine ed i contratti collettivi hanno generalizzato in molti paesi. In questi casi val la pena di iniziare un esperimento, il quale contrariamente alle grandi promesse, ubbidisce al proverbio: Parturiunt montes, nascitur ridiculus mus? è parso perciò a taluni datori di lavoro che si imponesse, data la modestia del risultato capace solo di creare malcontento, una destinazione degli utili che, evitando lo sminuzzamento della somma assegnata al lavoro in quote individuali impalpabili, raggiungesse effetti apprezzabili per il complesso dei lavoratori. Se cento lire a testa per operaio non mutano se non di poco la sua situazione economica, cento moltiplicate per diecimila o per centomila operai, consentono di destinare a scopo di interesse comune a tutti gli operai somme non spregevoli di 100.000 o un 1.000.000 di lire.

 

 

La casa Dollfus-Mieg et C.ie, primaria nell’industria tessile a Mulhouse nell’Alsazia, sovvenziona così sale di maternità, sale di asilo per bambini, scuole e patronati scolastici, sanatori, case di abitazione a buon mercato per gli operai e le loro famiglie; incoraggia assicurazioni ed investimenti volontari con concorsi percentuali che efficacemente integrano i risultati dello sforzo compiuto dall’operaio e così ne stimola le iniziative. È probabile che l’effetto utile dell’impiego a scopi collettivi sia superiore in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, a quello dell’impiego individuale. Talvolta i due mezzi possono essere usati contemporaneamente.

 

 

I signori Cognacq, nell’operare il passaggio della proprietà dei Grands Magasins de la Samaritaine di Parigi ai loro dipendenti, riservarono 18.000 azioni ad una fondazione Cognacq, la quale provvede al mantenimento di sale di maternità, ospedali, asili per bambini, case di riposo, abitazioni a buon mercato a favore dei dipendenti e delle loro famiglie.

 

 

79. Gestione dei fondi.

 

Quando gli utili non sono versati in contanti agli interessati, sorge il problema della loro gestione. Questa può essere affidata all’impresa medesima che vi provvede a proprio criterio. Se però le cose dell’impresa volgono male, i fondi spettanti agli operai corrono il rischio di essere considerati come un mero credito di questi verso l’impresa e di essere rimborsati agli operai in moneta di fallimento, nella stessa percentuale usata rispetto agli altri creditori. Si preferisce perciò affidare la gestione dei fondi ad un ente o cassa, costituita giuridicamente in forma autonoma, sicché le sue sorti siano indipendenti da quelle dell’impresa; e tale che dell’amministrazione facciano parte delegati degli stessi operai. Ad evitare anche la responsabilità dell’amministrazione separata, talune imprese usano versare le quote utili operaie ad una cassa pubblica di pensioni o di previdenza sociale, la quale abbia fini di vantaggio per le maestranze, analoghi a quelli che si è proposta l’impresa.

 

 

80. Inizio del diritto alla partecipazione e clausole di decadenza.

 

La semplice appartenenza come lavoratore all’impresa non basta quasi mai a dare diritto alla partecipazione. Nessuno pensa che l’avventizio, colui il quale fugacemente passa, come una meteora, in un’impresa, abbia ragione di partecipare agli utili. Occorre un minimo di collaborazione, di fedeltà, di dimostrata affezione all’impresa, minimo che può essere in rapporti alla durata dell’appartenenza (un anno o più), al grado raggiunto nella gerarchia, allo zelo dimostrato e simili.

 

 

Frattanto le quote utili si accumulano a credito dell’operaio, e gli saranno versate quando si verificherà l’evento, a cui sono state condizionate. Quid, se l’evento non si verificherà se, ad esempio, l’operaio non raggiunge i cinque, i dieci, i venti anni di servizio, dopo i quali soltanto il fondo accumulato a suo credito diventa esigibile? La quota, per lo più, non va a favore dell’impresa, la quale potrebbe essere sospettata di cercar pretesti di non pagare, a proprio vantaggio egoistico; ma a favore della massa dei partecipanti. Il che in modo particolare accade quando la gestione è affidata ad una cassa autonoma.

 

 

La clausola di decadenza per non compiuto periodo di appartenenza all’impresa è avversata dalle leghe operaie, le quali veggono in essa uno strumento per legare l’operaio all’impresa e togliergli quella libertà di movimento e di abbandono di lavoro che è condizione necessaria per ottenere il salario normale più favorevole. Per il piatto di lenticchie di una partecipazione differita l’operaio rinuncierebbe così al suo diritto di primogenitura che è l’associazione con i compagni di lavoro rivolta a conseguire il salario normale. L’obbligazione, tuttavia, non è perentoria e potrebbe far propendere verso il metodo (vedi sopra, paragrafo 76) di pagare la quota utili in contanti alla chiusura di ogni singolo bilancio.

 

 

La clausola di decadenza è frequentemente applicata nei casi nei quali la partecipazione agli utili si rivolge, più che agli operai, ad impiegati incaricati di funzioni di iniziativa. Tipici i cosidetti produttori nelle imprese di assicurazione, i quali ricevano, oltre un minimo insufficiente stipendio fisso, una quota dei premi riscossi nei contratti di assicurazione da essi messi in vita; od altrimenti partecipino agli utili dell’impresa con utili accantonati in un fondo. Il produttore si trova spesso dinnanzi all’alternativa: rimanere al servizio della compagnia e godere del fondo utili ovvero licenziarsi per passare al servizio di altra compagnia e perdere il diritto al fondo. Scelga egli stesso, si dice, fra il vantaggio della miglior paga presso il nuovo datore di lavoro ed il danno della perdita del fondo accumulato al suo credito. La cosa sembra avere importanza sovratutto morale, ché la prospettiva della perdita frena il produttore dal passare al servizio di altri, portando a questi, oltre alla sua esperienza, anche la clientela prima ottenuta a pro del primo datore di lavoro.

 

 

81. La condizione principale del successo nella partecipazione-gestione.

 

Se la partecipazione agli utili non si esaurisce nella distribuzione a fine d’anno di una somma in contanti ai partecipanti, ma vuol creare un vincolo più o meno permanente fra impresa e lavoratori, l’esperienza ha dimostrato la necessità non solo di una scelta, ma di una gerarchia nella maestranza. Il fondatore dell’impresa Leclaire, la più antica conosciuta nel campo industriale, distingue ad esempio i lavoratori in membri del noyau (o nocciolo della maestranza totale); ed in sociétaires, ausiliari ed apprendisti.

 

 

I primi costituiscono un corpo scelto, da una decima ad una sesta parte del numero totale, al quale sono affidati i compiti gelosi della nomina dei due gerenti dell’impresa, dei capireparto e del presidente della Société de prévoyance et de secours mutuels, instituita in seno all’impresa, ormai divenuta una vera cooperativa di produzione e di lavoro (decorazione case). Il noyau, costituito in origine dal fondatore, si perpetua col sistema della cooptazione o chiamata. Il sistema, essenzialmente aristocratico, era il metodo elettorale proprio delle costituzioni repubblicane di stati che durarono lunghi secoli (Venezia, Genova, città anseatiche ecc.) per la scelta di una parte degli ufficiali reggitori dello stato. Si conserva per tradizione nelle corporazioni o ghilde, che costituiscono la città di Londra; ed è in uso nelle facoltà universitarie e nelle accademie scientifiche. Qui nessun altro metodo migliore è stato trovato per assicurare la buona scelta di persone, le quali costituiscono o dovrebbero costituire un corpo scelto di uguali. Gli uguali già in carica sono investiti della facoltà di cooptare i nuovi membri in caso di posti vacanti, ossia di chiamare altri a far parte del loro gruppo; ed i chiamati diventano immediatamente gli uguali degli anziani. È la sola forma di democrazia la quale sia compatibile con la persistenza di un corpo aristocratico. Una elezione dal di fuori, ad esempio dal governo, dal parlamento, da un corpo elettorale più o meno vasto, guasterebbe immediatamente il corpo, ed introdurrebbe elementi di disgregazione e di faziosità, laddove il fattore esse di persistenza è la stima morale reciproca di uomini, i quali, cooptando il nuovo venuto, dimostrano di ritenerlo in tutto degno di divenire un loro uguale.

 

 

Nell’industria l’elezione dei capi col voto di tutti i lavoratori dipendenti dall’impresa sembra dall’esperienza essere dimostrato incompatibile con la persistenza dell’impresa. Non vi è nessuna ragione per credere che un corpo elettorale di 100, di 1.000 o 10.000 dipendenti di una impresa industriale, scelga come amministratori e dirigenti dell’impresa i migliori. Facilmente sono nominati coloro che promettono maggiori vantaggi immediati alla generalità, aumenti di salari, utili più alti. I capi eletti non possono più mantenere la disciplina fra gli elettori, da cui attendono la rielezione. L’impresa è votata, con sicurezza assoluta, alla rovina. D’altro canto, non esiste più, in questo tipo di impresa, un metodo che, venuto meno il «padrone» od «il consiglio di amministrazione nominato dall’assemblea degli azionisti», permetta di scegliere i dirigenti dall’alto. Non vi è altra scelta possibile: o l’impresa privata, in cui ai fornitori del capitale (soci, azionisti) è affidata la scelta dei dirigenti (amministratore delegato, consiglio di amministrazione, gerenti) e questi alla loro volta scelgono, scendendo gerarchicamente, i direttori, sotto-direttori, capi-reparto, impiegati ed operai; ed il sistema funziona, tutto sommato, con un successo notevole; ovvero l’impresa partecipante – cooperativa – associata, nella quale un nucleo limitato di partecipanti, scelto generalmente dal fondatore dell’impresa, si perpetua per cooptazione, ossia elevando o chiamando a se i migliori fra coloro i quali hanno dato prova di attaccamento all’impresa. L’impresa economica non può essere governata, se si vuole la sua persistenza, ossia «se si vuole che essa non fallisca», per elezione a suffragio universale; ma richiede il governo monarchico o quello aristocratico di un corpo di uguali.

 

 

Nel familistero di Guise, altro esempio classico di partecipanti agli utili, voltosi in gestione dei partecipanti per volontà del fondatore, la gerarchia è più complessa:

 

 

  • gli associés i quali devono abitare il familistero (città operaia creata dal fondatore attorno allo stabilimento, con abitazioni separate e servizi centrali facoltativi di cucina, lavanderia, ricreazione, asili per bambini, ecc., all’incirca secondo il modello di Fourier, di cui il fondatore Godin era un seguace) da almeno 5 anni, avere almeno 25 anni, possedere almeno una quota del capitale sociale ed essere stati cooptati dall’assemblea degli associati medesimi. All’assemblea generale degli associés spettano i poteri ultimi, che sono quelli della scelta dell’amministratore-gerente e del consiglio di gerenza; oltreché di consigli speciali per il familistero, di sorveglianza, ecc.;
  • b) i sociétaires, che possono essere ammessi dal consiglio di gerenza e dall’amministratore-gerente, dopo almeno 3 anni di abitazione nel familistero e 21 anni di età. Si veda che la condizione non è un dato numero di anni di lavoro nello stabilimento ma quella di un minimo di tempo di abitazione nel familistero. Poiché il numero degli appartamenti è inferiore al numero dei lavoratori, e poiché alcuni preferiscono abitare fuori, quel che si chiede non è solo la comunione del lavoro, ma questa insieme ad una comunione in un modo di vita, che dimostri la volontà dell’operaio di assimilare la sua alla concezione di vita dei suoi compagni. Si osservi ancora che laddove gli associés, ossia i lavoratori del nucleo centrale, sono scelti secondo il modo aristocratico di chiamata fra uguali (cooptazione), e questi nominano i capi; alla loro volta i sociétaires, ossia i membri del nucleo di secondo grado, sono scelti in modo autocratico dai capi (amministratore-gerente e consiglio di gerenza). L’insieme del nucleo centrale (associés) e del nucleo circostante (sociétaires) potrebbe in certa guisa paragonarsi al collegio dei cardinali, i quali sono nominati dal papa regnante ed alla loro volta scelgono nel proprio seno il novello papa. La persistenza bimillenaria del tipo di governo della chiesa è indizio che cotal metodo di scelta è favorevole alla vita dell’ente;
  • c) i partecipanti ammessi dal medesimo consiglio di gerenza insieme all’amministratore-gerente. Debbono lavorare da almeno un anno nello stabilimento, avere 21 anni di età ed abitare nel familistero;
  • d) gli ausiliari, personale fluttuante non ammesso alla partecipazione agli utili, ristretta ai primi tre gruppi;
  • e) gli intéressés, che erano e non sono più membri attivi della società; ma partecipano agli utili per la parte relativa alle quote di capitale che essi posseggono per eredità o per acquisto.

 

 

L’esistenza di questa ultima categoria segnala un pericolo che minaccia la vita dell’impresa in partecipazione e di quella cooperativa: la separazione progressiva delle persone dei lavoratori e dei possessori delle quote di capitale. Se anche, in un primo tempo, il fondatore ha provveduto a che le quote di comproprietà dell’impresa passassero, per attribuzioni di quote utili o per sottoscrizione, ai lavoratori, dal più alto ai minori operai, chi garantisce che le quote od azioni trapassino, per eredità o per acquisto, in mano di persone che appartengano al corpo dei lavoratori (dirigenti impiegati tecnici operai) effettivi dell’impresa?

 

 

Godin, fondando il familistero di Guise, ha cercato di garantire anche per l’avvenire la persistenza dell’associazione fra capitale e lavoro da lui voluta. Il possesso delle azioni è condizionato all’ufficio o lavoro prestato. Come il fondatore Godin ha rimborsato a se stesso il capitale con gli utili dell’impresa, così è prescritto che il gerente e gli associés o sociétairs, cessando di partecipare attivamente col lavoro possano ed i loro eredi debbano vendere le loro azioni ai loro successori nel nucleo o sotto-nucleo; e questi abbiano diritto di riscattare le azioni stesse, con pagamento graduale sia con la loro quota utili sia con risparmi altrimenti accumulati. Il fine è quello di operare una rotazione continua del possesso delle azioni, in guisa che la massima parte di queste siano in possesso dei lavoratori effettivi. Qualche residuo in mano di gruppi di intéressés è tuttavia sempre possibile e non si può negare che il sistema funzioni a questo riguardo con attriti non piccoli.

 

 

82. I problemi contabilistici della partecipazione.

 

L’utile da ripartire ha come punto di partenza il saldo del conto profitti e perdite dell’esercizio dell’impresa in un dato periodo di tempo, di solito l’anno; ed il saldo deve essere uguale a quello che risulta dall’inventario patrimoniale della fine dell’anno in corso, supponendo invariata la consistenza patrimoniale netta in confronto a quella dell’esercizio precedente. Così ad esempio:

 

 

CONTO PROFITTI E PERDITE

Profitti

Perdite

da merci vendute

18

spese generali

2

interessi attivi, provvigioni ecc.

2

spese lavorazione

8

 

Deperimento

4

 

interessi passivi e perdite

1

Totale

20

Totale

15

 

saldo utili

5

 

Totale

20

 

 

CONTO PATRIMONIALE

Attivo

Passivo

edifici e terreni

20

A terzi

impianti e macchinari

20

c/c passivi

10

scorte merci

10

obbligazioni

10

crediti e titoli

10

 

Totale

50

Totale

20

    riserva

5

    capit. netto

20

   

Totale

25

    saldo utili

5

   

Totale

50

 

 

Se tutti i dati dei due conti fossero dati di fatto oggettivi, la cifra dei saldo sarebbe anch’essa un fatto incontrovertibile oggettivo. Talune cifre sono di questo tipo: ad es., il ricavo delle merci vendute, gli interessi attivi incassati, le spese generali di lavorazione sostenute (stipendi, salari, assicurazioni), i prezzi delle materie prime, effettivamente pagate, gli interessi passivi e le perdite per insolvenze nel conto profitti e perdite; le somme dovute a terzi in conto corrente o per obbligazioni emesse; il capitale versato e le somme mandate a riserva. Ma tutte le altre cifre sono valutazioni e cioè ipotesi che l’amministratore fa intorno al valore delle diverse attività o passività elencate nell’inventario.

 

 

Le ipotesi variano a seconda della premessa dalla quale si parte.

 

 

Se si suppone che l’inventario sia compilato da un liquidatore di un’impresa la quale ha cessato di funzionare, la stima è informata a determinati criteri. In questo caso bisogna dare alle attività le valutazioni adatte ad una liquidazione; calcolare il prezzo che si può realizzare vendendo sul mercato cose le quali si ignora se potranno essere utilizzate ai fini per le quali furono costrutte; che forse dovranno essere trasformate per servire a qualche uso. Può darsi che il terreno, liberato dagli edifici che gli stanno sopra, valga come area edilizia di più di quello che valeva quando era vincolato all’uso precedente; ma è possibile che gli edifici abbiano solo valore di demolizione e che gli impianti e le macchine debbano essere venduti come rottami. Le sole scorte avranno un prezzo di mercato.

 

 

Se si suppone invece che il compilatore dell’inventario parta dalla premessa che l’impresa sia viva ed operante, farà una certa altra stima dei terreni, degli edifici, degli impianti e delle macchine. In questo caso non si ha bisogno di vendere l’impianto tutto assieme. Lo si vende, giorno per giorno, per frazioni piccolissime trapassate nel valore delle merci fabbricate, delle quali ogni unità contiene quella che si può chiamare l’usura (o deperimento) delle macchine, dell’utensile, dell’edificio, e delle altre attività deperibili, le quali vanno logorandosi durante la lavorazione. Perciò la stima che si fa delle attività è informata ad un altro criterio od almeno non è soltanto quella del prezzo che si potrebbe ricavare dalla vendita sul libero mercato. Fa d’uopo prevedere il prezzo ricavabile dalle unità piccolissime di macchine, di impianto, di edificio trasfuse nelle merci vendute e tal prezzo è dedotto, con opportuni ragionamenti tecnici ed economici, dal prezzo prevedibile delle merci che si venderanno in avvenire durante la vita della macchina che si tratta di valutare e nelle quali le macchine stesse si saranno, per lavorazione e logorio, convertite. Cotal prezzo sarà a sua volta diverso a seconda che lo stimatore considera più o meno lunga la vita dell’impresa viva ed operante. Se egli limita la sua considerazione ad 1 anno, la stima che farà delle merci vendibili, del costo loro di produzione, del reddito netto e della quota attribuibile di esso alla macchina sarà diverso da quello che farà se egli allunga il suo sguardo ad una vita di 5, di 10, di 50 anni od alla fine se egli la suppone perpetua. Mutano, col mutare delle premesse, le valutazioni.

 

 

Le premesse sono anche soggettive. Si può valutare una impresa allo scopo di soddisfare il desiderio dell’imprenditore di rendere conto a se stesso del proprio stato patrimoniale, ovvero allo scopo di rendere conto della propria gestione ai proprietari (azionisti di una società anonima o soci in nome collettivo od in accomandita) od a terzi creditori od allo stato tassatore. Ogni volta mutano i criteri di compilazione di bilancio. Il procuratore all’imposta di ricchezza mobile non accetta, sulla base delle proprie istruzioni e delle leggi che deve applicare, quasi mai criteri usati legittimamente per proprio conto dal contribuente; e nelle trattative tra le due parti, – e possono essere trattative condotte dalla finanza con le associazioni industriali, – si concordano criteri, che non sono sempre quelli seguiti nei confronti con gli azionisti e riconosciuti legittimi da periti e, occorrendo, da tribunali.

 

 

Se si sa quanto si è speso in salari, che cosa mai si può dire su quanto si è speso a titolo di deperimento impianti e macchinari? L’amministratore, il quale chiede al tecnico quanti anni la tale o tal altra macchina durerà, si sente rispondere: data la resistenza dei materiali di cui la macchina è composta, dato il lavoro che essa deve fare, il numero dei giorni all’anno e delle ore al giorno per cui deve lavorare e la velocità dei giri compiuti dalle sue ruote è prevedibile che la macchina duri 10 anni. Se la macchina è costata 100.000 lire, l’amministratore metterà da parte ogni anno 10.000 lire (ossia considererà come spesa nel conto profitti e perdite una quota deperimento di 10.000 lire) allo scopo di poter mettere insieme in 10 anni la somma di 100.000 lire necessarie per ricomperare una macchina nuova al luogo di questa vecchia, la quale dopo 10 anni avrà il valore del ferraccio di cui e composta. E l’amministratore, così operando, si metterà in pace con la sua coscienza la quale gli fa obbligo di conservare intatto il capitale esistente, non suo ma di spettanza degli azionisti. Un altro amministratore, più prudente, non si contenterà di valutare (e di accantonare) come spesa 10.000 lire all’anno; ma iscriverà 12.000 o 15.000 lire, perché pensa che, se la macchina potrà durare in stato di lavorare fisicamente per tutti i 10 anni, può darsi che dopo il settimo o l’ottavo anno essa sia divenuta antiquata a causa dell’invenzione di una nuova macchina più perfetta. Deperimento economico che si aggiunge al deperimento fisico.

 

 

Ad ogni voce patrimoniale, il medesimo dibattito si rinnova. Nel complesso, può essere ragionevole tanto una cifra di 4 come una cifra di 2 o di 6 milioni. Se si scrive 4, gli utili risultano, come nell’esempio fatto sopra, di 5 milioni, se 2, gli utili salgono a 7, se 6 gli utili scendono a 3 milioni.

 

 

All’attivo del conto patrimoniale, le scorte sono valutate 10 milioni. Si assume come criterio di valutazione il prezzo corrente delle scorte medesime (cotone o lana o carbone o filati o laminati, ecc. ecc.) al 31 dicembre, data di chiusura del bilancio? Criterio ragionevole, se il bilancio deve fotografare la situazione delle cose al 31 dicembre. Ma un altro amministratore avrebbe potuto valutare le scorte al prezzo d’acquisto effettivo che fu di 12 milioni. I conti non devono forse tener dietro ai fatti? In tal caso l’utile sarebbe aumentato da 5 a 7 milioni. Un terzo, presentando il bilancio ai soci ed azionisti al 31 marzo successivo, può credere opportuno di valutare le scorte al prezzo corrente, ancor più basso, del giorno in cui il bilancio è messo sotto gli occhi dell’interessato, che è di 9 milioni, riducendo gli utili, per questo motivo, a 4 milioni. Un quarto amministratore, infine, più prudente ancora, osservando la tendenza calante dei prezzi, prevede che quando le scorte saranno state lavorate e trasformate in filati o tessuti o rotaie, ed i prodotti finiti saranno venduti, egli ne ricaverà un prezzo ancor più basso, da non prevedersi superiore ad 8 milioni. Ecco gli utili scendere a 3 milioni.

 

 

I crediti ed i titoli esistenti in portafoglio sono stimati 10 milioni. Perché non 8 o 12 a seconda delle previsioni su fatti futuri, come il prezzo di vendita dei titoli nel giorno in cui si vorranno vendere o le insolvenze eventuali dei debitori?

 

 

A seconda dei criteri con cui è impostato il bilancio e di quelli più meno prudenti o larghi di valutazione, oscilla la cifra finale in cui tutte queste variazioni nelle stime vanno a cadere, che è la cifra degli utili. Possiamo avere scarti fra 5 milioni di lire di perdite e 10 milioni di lire di utili. E tutte le cifre diverse sono tutte egualmente vere. Nessuna è falsa per falsità oggettiva. Tutte opinabili. Quid est veritas? E se, per ipotesi assurda, esistesse in tema di finanza la verità vera converrebbe sempre dichiararla? Se l’anno si chiudesse con 5 milioni di lire di perdita, converrebbe dichiararla con scredito dell’impresa, diradando la clientela, allontanando i creditori, a causa di una circostanza che può essere transitoria? L’amministratore saggio non opererà bene, nell’interesse di tutti, degli azionisti, dei creditori, dell’impresa e quindi degli operai, sopravalutando edifici, terreni, impianti e scorte per 10 milioni e facendo così figurare un utile di 5 milioni invece di una perdita di 5? Se egli salva l’impresa, non avrà ben meritato della cosa comune? Se egli poi, in passato, aveva sottovalutato le stesse attività per la stessa cifra di 10 milioni (queste sottovalutazioni si chiamano riserve nascoste), non sarà nel suo pieno diritto oggi di riportare le valutazioni al vero, per non confessare una perdita, che pur ci fu nell’anno in corso ma che egli spera sia transitoria? Di nuovo, ubi est veritas?

 

 

Si tace qui, perché porrebbe problemi i quali dovranno essere risoluti quando le unità monetarie avranno finito di rotolare e si saranno riassestate, dell’incognita spaventosa derivante dalle svalutazioni monetarie. Una macchina della durata probabile di 10 anni e del costo di 50 mila lire può essere, in tempi di moneta stabile, ammortizzata accantonando annualmente 5 mila lire. Ma se alla fine del decennio quella macchina costerà 3 milioni, è evidente che un accantonamento di 5 mila lire non basta e sarebbe necessario accantonare annualmente 300 mila lire, e cioè una somma sei volte maggiore del prezzo nominale d’acquisto. Quando le monete ballano il ballo di San Vito, tutti i conti diventano un gioco del lotto.

 

 

Le osservazioni sin qui fatte hanno per iscopo di mettere in chiaro che la partecipazione ai profitti, il cui intendimento era di mettere pace ed armonia tra capitale e lavoro, incitando amendue a lavorare bene per crescere la torta degli utili da ripartire, in realtà può essere come il vaso di Pandora, da cui si drizzano fuori ogni sorta di serpenti velenosi. Avranno i datori di lavoro e lavoratori le medesime opinioni in merito alle valutazioni delle singole voci del bilancio? Se il datore di lavoro guarda al futuro e costruisce il bilancio con la prudenza che si addice a chi vuol conservare l’impresa viva per lunghi anni, l’operaio non avrà ragione di usare criteri propri del tempo breve, del solo anno per cui egli è chiamato al lavoro? Il domani che cosa è? Sarà l’operaio ancora al lavoro nello stesso stabilimento? Se l’anno 1944 dà un utile, perché accantonarne una parte a favore degli operai del 1945 o del 1946 o di anni ancora più lontani?

 

 

Se questa è una ragione ottima per riservare la partecipazione al nucleo degli operai anziani, affezionati all’impresa; non è motivo per negare agli operai partecipanti il diritto alla conoscenza dei criteri in base ai quali il bilancio fu compilato. Cotal diritto chiamasi controllo operaio. A un socio, ché tale è il partecipante, nonostante non partecipi alle perdite, non si può negare il diritto di vedere i conti. Ma i conti non si fanno esaminare compiuti neanche agli azionisti veri e propri. Con la spesa di poche centinaia di lire un tizio qualunque, magari l’avvocato o il fiduciario dell’impresa concorrente, acquisterebbe il diritto di penetrare entro i registri più gelosi dell’impresa, di conoscere fornitori e clienti, prezzi, costi di lavorazione, ecc. ecc. I codici commerciali non consentono diritti così estesi che potrebbero essere letali all’avvenire dell’impresa; né li si potrebbero consentire agli operai partecipanti, tra i quali si potrebbero infiltrare arnesi dei concorrenti. Tuttavia les bons comptes font les bons amis; e se la partecipazione deve poter funzionare bene, non può non accompagnarsi ad un certo grado di controllo da parte operaia. Di nuovo si palesa la condizione restrittiva che essa è qualcosa adatta ad un gruppo scelto, ad una aristocrazia degli operai, i quali conoscono i limiti della fiducia che essi devono ripone in chi amministra l’impresa e scelgono fiduciari revisori dei conti degni di fede, da cui si contenteranno di sapere, nulla chiedendo di più, se non che i conti sono stati redatti con i criteri più oggettivi e prudenti che in tale opinabile materia potevano essere adottati.

 

 

La partecipazione ai profitti non è dunque atta a risolvere problemi generali attinenti alla universalità degli operai; non è la soluzione di uno stato di guerra tra il datore di lavoro e lavoratore; ché anzi, essa per sua virtù esaspera gli attriti dai quali nasce la guerra. Essa è il coronamento di uno stato preesistente di reciproca stima e fiducia. Non crea la pace sociale; la rinsalda. È un fattore di pace, che agisce in seguito a lunghe esperienze ed a faticosa educazione economica. Imposta dal di fuori inferocisce gli animi e li eccita alla discordia; venuta su dal di dentro dell’impresa, prepara la trasformazione dei salariati in soci.

 

 

83. Problemi economici della partecipazione.

 

La conclusione si rafforza, se si bada all’aspetto economico del problema. Qui il profitto od utile dell’impresa non è più una mera cifra controversa contabile: saldo di conti. Occorre analizzare il contenuto sostanziale di quella cifra.

 

 

84. Utile (profitto) non è interesse.

 

È pacifico, anzitutto, che il saldo utile non comprende né la remunerazione corrente del lavoratore, che è lo stipendio o salario, ne la remunerazione corrente del capitale, che è l’interesse. Qui si assume la parola interesse in uno dei parecchi significati possibili: la remunerazione che sul mercato si determina per i capitali che l’imprenditore chiede a prestito da se stesso o da altri per l’esercizio dell’industria. Se la concorrenza è perfetta, questa è la remunerazione anche per i capitali già investiti. Nella misura in cui la concorrenza non è perfetta, il mercato determina la remunerazione, detta interesse, solo per i risparmi in cerca di investimento, e quelli investiti ricevono invece una rendita o quasi rendita. Sarebbe certo bene usare una terminologia meno incerta, anche per non complicare la faccenda col problema dell’interesse che non è una remunerazione, ma un semplice vincolo fra due quantità uguali, divise da un intervallo di tempo. Ai fini della presente discussione, la definizione data sopra sembra però sufficiente. Se l’impresa non riesce a pagare il salario ai lavoratori e l’interesse al capitale investito, essa non è viva né vitale. L’istituto della compartecipazione degli operai agli utili non è fatto per i morti ed i moribondi. Un’impresa, la quale non frutta al capitale almeno l’interesse che potrebbe conseguire investendosi in titoli detti di tutto riposo, in prestiti ipotecari, in cartelle fondiarie, è destinata a languire e morire. L’interesse comprende il compenso vero e proprio dell’uso del capitale, suppongasi il 3% ed il compenso per i rischi prevedibili in quel genere di impresa, suppongasi il 2 percento. Quando il 3% si ottiene depositando i propri risparmi in una cassa di risparmio, se si vuole indurre il risparmiatore a investire in una impresa industriale, la quale presenta un certo rischio di perdita e di insuccesso, bisognerà dargli una aggiunta, supponiamo il 2 percento. L’aggiunta non è un reddito propriamente detto, ma quel tanto che in media compensa il risparmiatore del rischio di perdere il capitale. Al risparmiatore resta solo netto l’interesse del 3% il supero in media per lui equivale a zero.

 

 

85. L’utile non esiste in condizioni di concorrenza.

 

Dedotto l’interesse (compenso netto del capitale più quota rischio), che cosa resta?

 

 

Fatta l’ipotesi di concorrenza, nulla. Non appena rimane un saldo residuo, se è vero che i fattori produttivi sono disponibili senza limite, che possono essere portati sul o ritirati dal mercato senza attrito, che sono mobili e divisibili, come può durare un utile? Subito nuovi imprenditori si volgerebbero verso quell’industria od i vecchi aumenterebbero la produzione, fino a che, ribassando i prezzi, l’utile scompaia. Neppure l’imprenditore potrebbe, in regime di concorrenza, ottenere una remunerazione superiore al salario normale per il lavoratore a cui sia affidata la direzione e gestione dell’impresa. Né più né meno come il salario per ogni altro lavoratore. Il profitto dell’imprenditore è un vero salario che il mercato determina al livello sufficiente a rendere l’offerta di quel particolare genere di lavoro, detto direzione dell’impresa, uguale alla domanda.

 

 

La partecipazione degli operai ai profitti non è mezzo adatto per diminuire l’interesse del capitale, né il compenso dell’imprenditore. Mezzi adatti sono, a scemare l’interesse, tutti quelli che giovano a crescere la produzione del risparmio (moneta stabile, sicurezza, giustizia, rispetto dei contratti), a diminuire i rischi dell’impresa; sono tutti gli strumenti che scemano la incertezza nel funzionamento del meccanismo economico (stabilità degli ordinamenti giuridici, assenza di arbitri e di favoritismi ecc.). Mezzi adatti a scemare il compenso degli imprenditori sono le scuole offerte a tutti, le borse di studio assegnate ai giovani volonterosi, la possibilità di aspettare a chi si sente di salire. Soltanto ciò può rendere meno rara la merce «imprenditore» e scemarne il prezzo, ossia il compenso.

 

 

Data una certa produzione di risparmio e una certa offerta di imprenditori, i saggi di interesse e di compenso del lavoro d’impresa sono quelli che sono. Ma, se esiste concorrenza, il profitto non esiste. Non esiste quindi possibilità di partecipazione degli operai ad un profitto inesistente. Vacuus cantabit contra latronem viator.

 

 

86. L’utile da monopoli artificiali.

 

Se profitto esiste, ciò accade in primo luogo, come fu spiegato nella lezione introduttiva, perché dazi doganali, contingenti, privilegi di appalto, limitazioni al sorgere di nuove imprese ed all’entrata nel mestiere, brevetti, danno luogo a monopoli artificiali pieni o parziali (cartelli, consorzi, trusts e simili). Ma in tal caso quell’utile è dannoso alla collettività. Scema la massa dei beni e servigi messi a disposizione degli uomini; e la minor massa è più disugualmente ripartita.

 

 

Una eventuale divisione del profitto da monopolio tra datore di lavoro e lavoratore equivarrebbe dunque alla divisione del bottino tra i ladroni. Socialmente la partecipazione dei lavoratori ai profitti di monopolio è dannosa perché interessa, oltre ai datori di lavoro, i lavoratori a spogliare la collettività dei consumatori. Altra via non v’è, per fare l’interesse dei più, fuor di sopprimere quel profitto abolendo le cause che vi diedero origine e che derivano da un atto del legislatore. Questi, che ha istituiti i dazi, li può abolire. Può modificare, ad esempio, la legge sui brevetti industriali, abolire le limitazioni al sorgere di nuove imprese. E così via.

 

 

87. L’utile da monopoli naturali.

 

Non ripeto cose già dette e note, intorno ai monopoli che hanno cause, dette naturali, perché non dipendenti da un atto positivo dal legislatore. È il caso delle ferrovie, delle tranvie, del gas luce, delle forze elettriche, delle aree edilizie, degli impianti con unità di grandi dimensioni non – divisibili ecc. ecc. Qui è più difficile trovar modo di eliminare il profitto; e la discussione verte sulle diverse maniere di statizzazione, municipalizzazione, enti autonomi, imprese delegate, così da scegliere quei tipi che meglio giovino a conseguire i due scopi della riduzione dei costi al minimo (in che si comprende non solo la riduzione dei costi di produzione dei prodotti noti, ma anche la «invenzione» dei prodotti nuovi) e della vendita ad un prezzo uguale ad un costo marginale tendente al minimo. Non sembra sia agevole scoprire sistemi di gestione pubblica i quali siano adatti a conseguire questi due fini contemporaneamente. Non ha importanza alcuna il fatto – che è un puro fatto bruto che può avere significati diversissimi – che l’impresa pubblica non ottenga profitti dove l’impresa privata sì. Se l’impresa pubblica produce al costo 10 e vende a 10, senza conseguire alcun profitto, laddove quella privata produce al costo di 8 e vende a 9, il profitto 1 è ottenuto senza danno, anzi con vantaggio dei consumatori, i quali guadagnano 1. In questo caso il profitto può essere oggetto di compartecipazione operaia, senza che con ciò si possa a costoro rimproverare di aver parte ad alcun guadagno monopolistico a danno dei consumatori.

 

 

Più grave è la discussione intorno al punto: trattasi, nei casi di consorzi, accordi, cartelli, trusts tra imprenditori, di veri casi di monopolio o meglio di oligopolio, intesi a conseguire veri e propri guadagni monopolistici, ovvero di strumenti, i quali assumono l’apparenza monopolistica, allo scopo di conseguire nei brevi periodi iniziali la possibilità di sormontare le perdite conseguenti alla necessità di lanciare nuovi prodotti, di esperimentare nuovi sistemi produttivi?

 

 

Se la sopravvivenza nella lotta economica impone che nei successivi:

 

 

tempi

I

II

III

situazione

si osservino i prezzi

10

8

6

A

invece che i prezzi variabili

da 11

a 7

da 9

a 5

da 8

a 4

B

 

 

i quali ultimi conseguirebbero ad un sistema di imprese concorrenti nel significato della concorrenza vera e propria;

 

 

  • e se la situazione B possa di fatto considerarsi come una situazione storicamente assurda, perché la lotta stremerebbe le imprese concorrenti nel tempo primo siffattamente da non consentire loro il tempo ed i mezzi di attuare quelle invenzioni di nuovi prodotti e di nuovi sistemi a cui esse intendono; di modo che non si possa comprendere con quali mezzi esse od altre imprese si troverebbero in grado di iniziare nel tempo secondo altre trasformazioni nell’offerta dei prodotti e nella struttura dei modi di produrli; e tanto meno ciò accadrebbe nel tempo terzo.
  • se, cioè, nella situazione A, grazie ad accordi tra imprese concorrenti od a manovre strategiche da parte dei più forti (segreti, brevetti, minacce di svendita in parte attuate ecc.), il prezzo si mantiene nel tempo relativamente costante intorno al livello 10, il quale consente un guadagno superiore a quello normale;
  • tale prezzo deve essere considerato un prezzo di monopolio; e devesi paragonare il prezzo 10 costante del tempo primo in regime di accordi a quello da 11 a 7, in media «più basso», che si sarebbe avuto in regime di concorrenza nel medesimo tempo; o non invece a quello 8 che si stabilisce nel tempo secondo e 6 nel tempo terzo, prezzi la cui esistenza effettiva fu l’effetto del mantenimento dei prezzi 10 ed 8 nei due tempi precedenti?

 

 

Domande alle quali non è agevole rispondere; e che lasciano permanere nella mente dell’osservatore un dubbio intorno alla effettiva natura di molti di quelli che si chiamano guadagni di monopolio. Sono essi veri e propri guadagni di monopolio che dovrebbe essere compito del legislatore di far scomparire, ovvero premi di assicurazione contro il rischio delle innovazioni industriali? In questo secondo caso l’indagine si sposta allo studio del problema discusso ulteriormente (vedi paragrafi 88 ed 89).

 

 

88. L’utile da rischi imprevedibili.

 

Si raggruppano in questa sezione i rischi i quali, per la loro imponenza e la loro relativamente scarsa frequenza, non sono oggetto normale di assicurazione presso imprese esercenti anche le branche più rare di assicurazione: guerra grossa, rivoluzioni sociali, svalutazioni e rivalutazioni monetarie aventi dimensioni eccezionali; rischi per cui è difficile trovare assicuratori persino nella cerchia dei Lloyds di Londra, dove notoriamente esistono persone o gruppi di persone pronte ad assumere a proprio carico i rischi più impensati.

 

 

Questi guadagni sono forse quelli i quali nei tempi recenti hanno maggiormente attirato l’attenzione pubblica ed hanno fatto pensare alla convenienza sociale di chiamare gli operai a parteciparvi. Essi sembrano avere le seguenti caratteristiche:

 

 

  • di essere, quando si verificano, imponenti;
  • di essere localizzati presso un numero ristretto di persone fisiche e giuridiche; speculatori avvertiti, faccendieri interponentisi fra privati bisognosi di permessi, autorizzazioni, assegni di valute, di contingenti di importazione di materie prime, e di esportazione di prodotti nazionali, di autorizzazioni a nuovi impianti e le autorità pubbliche incaricate di distribuirle; imprese particolarmente bene situate per profittare dei rivolgimenti pubblici sociali ed economici;
  • di essere apparentemente diffusi nella generalità ed invece in realtà concentrati presso pochi. Se, in seguito a svalutazione monetaria, i prezzi salgono, tutti sembrano essere avvantaggiati da salari stipendi profitti più vistosi. In realtà, sono beneficiati solo coloro i quali riescono a vendere i loro prodotti ed i loro servigi ad un prezzo proporzionatamente cresciuto di più di quanto sia cresciuto in media il prezzo dei prodotti e dei servizi che essi ordinariamente erano e sono soliti ad acquistare; e costoro sono quei pochi che già si disse sopra: speculatori, intermediari ed imprese industriali, agricole e commerciali venditrici di prodotti a prezzi cresciuti più dell’ordinario.

 

 

È chiaro che dovendo rispondere alla domanda quale sia la economica da osservare dallo stato rispetto a questi guadagni, la sola risposta logica è far quel che si possa per eliminare le cause le quali danno origine ai guadagni medesimi. Sicché questi non presentano interesse rispetto alla partecipazione ai profitti degli operai. Sembrerebbe anzi dannoso creare negli operai una qualsiasi aspirazione a partecipare ai guadagni tanto contrastanti con il vantaggio collettivo.

 

 

Per lo più la partecipazione non potrebbe aver luogo, non essendo speculatori, intermediari e faccendieri propensi ad impiegare in numero apprezzabile lavoratori; e se avesse luogo in talune grosse imprese creerebbe una classe di privilegiati tra i lavoratori, oggetto di invidia e di inquietudine per i dipendenti dalle più numerose imprese disadatte a prender parte alla baldoria dei prezzi.

 

 

89. L’utile da variazioni nell’organizzazione e nella struttura dell’impresa.

 

Rimane quella che è la sola fonte permanente di profitti, la sola la quale sia conforme all’interesse collettivo. Se l’imprenditore:

 

 

  • sa vedere, nell’infinita varietà delle pseudo-invenzioni offertegli, quelle le quali in verità consistono nel mettere sul mercato prodotti nuovi corrispondenti ad una domanda potenziale capace di voltarsi in effettiva (vetture automobili, grammofoni, frigoriferi, radio ecc. ecc.) o nell’introdurre nuovi o più perfezionati metodi tecnici di produrre o di vendere merci antiche o nuove;
  • sa intuire le variazioni dei gusti della clientela vicina o lontana, attuale o futura;
  • sa scegliere, meglio di altri, i suoi collaboratori, gli impiegati e gli operai; e sa organizzare e dirigere meglio il lavoro;
  • sa apprezzare i suoi collaboratori in guisa da far fare ad essi la carriera più adatta alle loro attitudini; sa risvegliare lo spirito di emulazione ed insieme di collaborazione; sa distribuire i premi in guisa che la diversità di essi sembri a tutti rispondente a giustizia; sa ricreare nel suo stabilimento la gioia del lavoro e con incoraggiamenti alle famiglie provviste di figliolanza, con asili e scuole, con opere sociali varie, con la costituzione di case operaie, creare un ambiente siffatto da migliorare e crescere la produzione;
  • sa creare simpatie tra sé ed i clienti, in modo da procurare la formazione di quella particolare invisibile ricchezza che dicesi avviamento (vetrine invitanti, commessi gentili, consegna a casa, cambio volenteroso e pronto di merce non perfetta ecc. ecc.);
  • sa usare mezzi strategici di accordi, invece che di lotta, con i concorrenti, atti a conservare, per brevi tratti di tempo, costanza ai prezzi e ad accumulare riserve convenienti a compiere un nuovo passo sulla via dei perfezionamenti tecnici e delle innovazioni e quindi della riduzione dei prezzi in un secondo tempo; e questa politica segue senza urtare contro la opinione pubblica;
  • costui, usando questi ed altri mezzi, che la sua fantasia creatrice gli additerà meglio di quel che altri possa descrivere in libri compilati in base all’esperienza del passato, guadagnerà profitti.

 

 

Sono questi profitti ripartibili con collaboratori, impiegati e operai? La risposta pare affermativa ed è subordinata, affinché si dia luogo alla creazione di un istituto permanente, alla sola condizione che la partecipazione agli utili degli operai sia essa stessa uno dei fattori di creazione dei profitti che si vogliono ripartire.

 

 

Essere questo fattore vuol dire:

 

 

  • che i partecipanti non temano dalla partecipazione alcuna conseguenza sfavorevole alle dimensioni del loro salario o stipendio normale;
  • che essi non temano dalla partecipazione medesima alcuna conseguenza sfavorevole alla loro mobilità ed indipendenza morale rispetto all’impresa;
  • che essi siano incoraggiati dalla partecipazione ad interessarsi meglio del lavoro che loro è affidato e a sentirsi parte operante dell’impresa, sì da assumere eventuali iniziative di proposte e suggerimenti;
  • che essi abbiano fiducia nella dirittura morale dell’imprenditore; sicché quando i fiduciari da essi medesimi scelti li assicurano che i conti redatti dall’impresa corrispondono al vero, non chiedano più in là, consapevoli che il successo dell’impresa può essere subordinato al mantenimento di segreti rispetto al pubblico, ai concorrenti ed ai dipendenti medesimi.

 

 

Le condizioni ora enunciate non possono essere soddisfatte dalle maestranze in genere ma da quella parte soltanto di esse che la permanenza in una impresa per un certo tempo minimo, il riconoscimento dei compagni, le mansioni coperte, hanno elevato al disopra del mero avventizio, dell’impiegato ed operaio casuale, e cioè solo dal nucleo più o meno ampio dei collaboratori, dal più umile al più elevato in grado, dell’imprenditore. Tutto ciò sembra anche significare che la partecipazione agli utili non può essere il risultato di una norma legislativa obbligatoria, necessariamente generale ed uniforme e probabilmente feconda solo di attriti, discordia e cresciuta instabilità sociale, ma, se vuole essere permanente, deve il frutto di uno spirito di collaborazione e di aperta discussione, il quale non può avere radice se non in un clima di liberi volontari esperimenti.

 

 



[1] Questa parte fu edita in litografia, in-4° grande, col nome dell’insegnante, in pp. 15 + 84 + 2 c. n. n. a cura del Campo universitario italiano della Università di Losanna (ma in unione al campo di Ginevra e col concorso del «Fonds européen de secours aux étudiants») dall’Ufficio dispense, Losanna 1944. Il capitolo primo di detta parte fu anche pubblicato, nello stesso formato ed a cura dello stesso Campo universitario di Losanna col titolo dell’indice e col sottotitolo «Lezione introduttiva al corso di politica economica tenuta all’Università di Losanna il 24 marzo 1944»; pp. 15, Losanna 1944.

[2] Gli studenti italiani hanno la fortuna di poter leggere, se in qualche biblioteca del paese che li ospita riescono a trovarla, la migliore guida che si possegga oggi, tra quelle che ci offre la letteratura scientifica non solo italiana ma straniera: l’Introduzione alla politica economica del prof. COSTANTINO BRESCIANI-TURRONI (seconda ed., Torino 1943). Occorre, nel leggerla, usare lo stesso metodo che si deve osservare per qualunque libro di scienza: ossia affrontarlo con la dovuta umiltà di spirito, quella che si usa nell’imparare i principi del calcolo o della meccanica razionale; nel caso presente liberando la propria mente da qualunque preoccupazione derivante dalla consueta letteratura deteriore, propagandistica, da qualunque parte la propaganda venga ed il cui solo frutto è quello di fare strage nella attitudine aperta che i giovani debbono avere ed hanno quando si tratta delle materie che fanno parte del loro curriculo tecnico di studi. Un altro libro, che forse si potrà trovare in una traduzione italiana o francese, e che merita di essere consigliato, è quello dell’olandese PIERSON, Problemi fondamentali di economia e di finanza (Torino, trad. it. verso il 1900). È consigliabile omettere, leggendo, le appendici allegate dal traduttore italiano, non perché non siano ottime, ma perché pare inutile studiare in un primo momento problemi italiani quali si presentavano verso il principio del secolo.

[3] La semplificazione implicita nell’uso degli strumenti di indagine accolti dagli economisti appare lecita in quanto questi strumenti sono definibili, in quanto cioè di essi si possono dare connotati abbastanza ben precisabili. La concorrenza ed il monopolio, così come sono definiti nel testo, ed altri simili come oligopolio, possono essere qualificati con gli aggettivi molti, non troppo dissimili, uno solo, unilaterale, o bilaterali ed altrettali. Vi sono invece altri schemi dei quali si parla molto, e vengono fuori spesso nei discorsi e nelle discussioni, come capitalismo, proprietà privata, proprietà collettiva, proletariato, borghesia e simili, i quali sono del tutto inservibili nella investigazione scientifica, non hanno mai condotto ad alcuna conclusione seria e perciò devono essere abbandonati ai dilettanti. La ragione della inservibilità sta nell’impossibilità di poter definirli in modo univoco e tollerabilmente precisabile. Un utile esercizio sarebbe quello di tentare di dare definizioni precise di questi altri concetti assai divulgati.

[4] Ma teoricamente potrebbe essere un ministro della produzione in uno stato collettivistico. PARETO e più largamente dopo di lui, il colonnello ENRICO BARONE, professore di economia politica nella facoltà economica di Roma, aveva dimostrato che il ministro della produzione, se vuole davvero raggiungere il risultato del massimo di produzione e di ofelimità (utilità economica) per la collettività, deve seguire né più né meno le regole che la teoria stabilisce per il caso della concorrenza. Leggere del primo il Cours d’économie politique, professato all’Università di Losanna (tradotto in italiano, Torino 1943), e del secondo il saggio Il ministro della produzione pubblicato originariamente nel «Giornale degli economisti» ed ora in «Saggi», e tradotto in inglese e francese nel volume di VON HAYEK, Economic Collectivist Planning (London e Paris). Le difficoltà che il ministro della produzione incontrerebbe per risolvere il problema del massimo che l’economia di concorrenza risolve automaticamente sono pratiche e di fatto insormontabili. leggere la dimostrazione che di ciò dà il BRESCIANI nel volume sopra citato.

[5] Non meraviglia che un grande filosofo, l’Hegel, colpito dallo spettacolo del mondo economico dominato dalla concorrenza nel quale si ottengono risultati che paiono miracolosi di massima produzione e di conformità ai contributi forniti dai singoli fattori di produzione, esclamasse: «Tutta questa moltitudine di atti apparentemente slegati e senza guida è tenuta insieme da una necessità che automaticamente interviene. Scoprire questa necessità è oggetto dell’economia politica, la quale è una scienza che fa onore al pensiero, perché trova le leggi di una massa di casi. È un interessante spettacolo il vedere come ogni cosa sia connessa all’altra e reagisca nell’altra, come le particolari sfere di azioni si raggiungano e influiscano nelle altre e da esse siano promosse e ingrandite. Questa concatenazione ella quale a prima vista non si crede, perché tutto sembra lasciato all’arbitrio del singolo, è oltremodo naturale e rassomiglia al sistema planetario, che all’occhio mostra soltanto movimenti irregolari; ma le cui leggi possono tuttavia essere conosciute». Riconoscimenti cosiffatti della bellezza della scienza economica provenienti da un grande pensatore in un’epoca in cui essa era ancora giovane possono consolare delle accuse provenienti dai laici.

[6] Se taluno degli studenti ha conoscenza della lingua inglese, non raccomanderò mai abbastanza la lettura, anzi lo studio attento del Common Sense of Political Economy del WICKSTEED recentemente ristampato a Londra, con un’introduzione del prof. Robbins. Un imperfetto surrogato di esso, imperfetto non per il valore dell’opera ma esclusivamente a causa della data (1884) della pubblicazione, è quel gioiello che ha per titolo Principii di economia politica di MAFFEO PANTALEONI. A coloro che volessero risalire più addietro, sono da segnalare i Principii, riesumati dopo molti anni da manoscritti e dispense litografiche, di FRANCESCO FERRARA (Zanichelli, Bologna), i quali danno un’idea di quello che era la nostra scienza in un momento in cui l’idea della «libertà» infiammava gli spiriti degli uomini anche nel campo scientifico.

[7] La legislazione lascia fuori del proprio campo quello che gli inglesi chiamano il submerged tenth, il decimo sommerso degli incapaci, dei costituzionalmente deboli, dei deficienti, dei criminali, dei vagabondi, degli oziosi. Qui non servono minimi, e non si fanno conquiste. La carità, l’educazione, la beneficenza, i riformatori, le case di salute debbono essere chiamati a raccolta per ridurre progressivamente il decimo ad una ventesima, ad una cinquantesima parte della società. Indagini recenti proverebbero che già si è in molti paesi al disotto del decimo. È significativo il fatto che Lord Beveridge, dopo avere scritto i due noti volumi sui metodi di intervento coattivo dello stato, intitolati l’uno Report on Social Insurance and Allied Services, del novembre 1942, e l’altro Full Employment in a Free Society, del novembre 1944 (trad. it., Torino 1948), abbia ritenuto necessario pubblicare quest’anno un terzo volume intitolato Voluntary Action, il quale illustra l’opera volontaria delle varie forme di carità e filantropia, volte in parte anche alla salvezza del decimo sommerso. [Annotazione apposta dal curatore della presente edizione nel dicembre 1948].

[8] Entrambi tradotti nella quarta e nella quinta serie della «Biblioteca dell’economista», con un’appendice tradotta nella «Nuova collana di economisti».

[9] Allo scopo di chiarire grossolanamente le idee, si può dire che i 40 scellini di cui si parla come di pensione o sussidio che sarebbe la base finale nel piano Beveridge corrisponderebbero all’incirca a 24 lire italiane ante-1914, circa 100 lire al mese. Nessuno può dire a quante lire correnti equivalgono ora le 100 lire ante-1914. Con le debite amplissime riserve, si può forse dire che esse corrispondono, per grandissimo circa, a 200 franchi svizzeri attuali (1944). E questi paiono bastevoli a mantenere in Svizzera, strettamente ma decentemente, la coppia indicata.

[10] Chi parla, ricorda sempre l’esempio di un vecchio, divenuto quasi immobile per gli acciacchi della vecchiaia, oggetto di compassione per gli altri e di avvilimento per se stesso. Ma il vecchio improvvisamente ricominciò a camminare e, nei giorni di festa, ripercorse la lunga strada che lo portava alla chiesa del villaggio ed ogni mese si recava all’ufficio postale. Era accaduto che la morte di uno dei figli nella grande guerra gli aveva fatto assegnare una modestissima pensione. Ma questa bastò per farlo ridivenire un uomo; per essere onorato e curato dai parenti e dai vicini e per vivere ancora assai anni vegeto e non inutile a sé ed agli altri. Né l’esempio fu l’unico; ed a chi sappia guardare, si ripete particolarmente per le vecchie vedove, non più derelitte e spregiate dalle nuore. Leggasi, purtroppo in un numero del tempo dell’Italia occupata dal nemico («Corriere della sera», 22 aprile 1944), un articolo (La nuova padrona di Giovanni Comisso) sulla sorte riservata alle contadine divenute vedove.

[11] Per quegli studenti i quali ne avessero la possibilità, si raccomanda la lettura delle opere seguenti:

 

  • G.SAINT-LEON MARTIN, Histoire des corporations d’arts et métiers.
  • ARMANDO SAPORI, Saggi di storia economica medioevale (per il tempo di fioritura delle corporazioni).
  • DAL PANE, Raccolta di documenti sul tempo della decadenza ed abolizione delle corporazioni in Italia (Ispi, Milano).
  • SIDNEY e BEATRICE WEBB, Storia del Trade-unionismo inglese e La democrazia industriale (nella quarta e quinta serie della «Biblioteca dell’economista», con appendice alla «Storia», nella «Nuova collana di economisti»).
  • ROBERTO MICHELS, Storia del movimento operaio e del movimento socialista in Italia.
  • RIGOLA, AZIMONTI, RIGUZZI, Opere varie sulla storia del movimento operaio in Italia, edite da Laterza (Bari) e dai Problemi del lavoro, Milano.
  • EINAUDI, Le lotte del lavoro (edite da Gobetti, Torino).

 

Si chiede venia, se non potendo citare i libri dopo controllo diretto, i titoli dovettero essere indicati approssimativamente.

[12] A chiarimento della affermazione fatta nel testo, si osservi che un qualunque ordinamento sociale ed economico si può studiare da due punti di vista.

 

Quello della sua formulazione scritta nei testi legislativi. Ad esempio, la carta del lavoro italiano del 1926 e le leggi connesse per quel che riguarda l’ordinamento corporativo italiano, la costituzione ultima delle repubbliche socialiste sovietiche russe, i progetti di falanstero compilati da Fourier. Questi documenti possono essere importanti per il giurista, il quale voglia esporre, ricostruendoli sistematicamente, i diversi sistemi deliberati dal legislatore (fascistici italiani o comunistici russi), od immaginati dal riformatore (Fourier). Lo studio di questi documenti può interessare il cultore di diritto pubblico, curioso di sapere in qual modo talun riformatore (Fourier ad es.) si propone di ricostruire il mondo, od in qual altro modo taluni gruppi di governanti (fascisti o comunisti) mettevano per iscritto la formula (Mosca) o il mito (Pareto) che ad essi appariva conveniente predicare allo scopo di guidare i governati ai fini, di solito ben diversi, della loro azione concreta. Quei documenti servono scarsamente ad interpretare una data realtà storica e sono di quella realtà spesso una raffigurazione volutamente addestrata. Più che per l’interpretazione della realtà essi servono all’interpretazione delle motivazioni pubbliche, esteriori, apparenti della realtà medesima, con la quale essi non hanno per lo più niente a che fare. Vedemmo nel capitolo precedente (terzo) come la formula dell’associazione sindacale corporativa italiana fosse la volontarietà con rappresentanza e come la realtà fosse invece l’obbligatorietà senza rappresentanza; questa seconda, ossia la realtà, è il solo oggetto di studio della scienza.

 

Per ciò, nello stesso modo come non interessa alla scienza lo studio della legge sindacale corporativa italiana o quello della costituzione scritta russa che non furono applicate e sono costruzioni astratte e non realtà viva ed è invece oggetto di studio scientifico la costituzione inglese o quella americana o lo statuto italiano del 1848, perché quelle tradizioni (costituzione inglese) o quei documenti (costituzione americana, 1787, e statuto italiano, 1848) durano o durarono specie trasformandosi lungo il loro operare; così non possono formare oggetto di studio scientifico i tanti progetti di commissioni interne volte a dare all’operaio il senso della gestione dell’impresa se non nella limitatissima misura nella quale quei progetti ebbero un primo inizio di applicazione; e formano invece oggetto di studio le applicazioni svariate dei concetti di partecipazione ai profitti, di azionariato operaio, di cooperative di produzione; perché queste applicazioni sona fatti reali, accaduti in passato o operanti al presente. L’esperienza fatta consente di esaminare come in verità gli uomini si siano comportati nel tentativo di attuare la formula, quali reazioni il tentativo abbia suscitato, quali effetti si siano ottenuti. Il ragionamento può analizzare quei fatti e quelle reazioni e quegli effetti nello stesso modo come analizza un fenomeno fisico od una reazione chimica. L’economista, come suole, sulla base di quella analisi può dire al politico: se vuoi raggiungere l’effetto a, comportati in tale modo, se vuoi raggiungere l’effetto b comportati in tale altro modo; e può dir ciò basandosi sull’analisi di fatti realmente accaduti, del comportamento effettivo dell’uomo dinanzi alle scelte a lui offerte e non su utopistici pronostici dei risultati di congegni immaginari descritti in certi documenti o libri e mai più veduti nella realtà.

[13] È di un’ampia letteratura, della quale si ricorderanno qui soltanto alcuni dei titoli più significativi:

 

Esiste innanzi tutto in Francia sino dal 1879 una Société pour l’étude pratique de la participation aux bénéfices, la quale pubblica sin dal medesimo anno una rivista trimestrale intitolata «Bulletin de la participation aux bénéfices», in cui sono riassunti periodicamente i risultati delle esperienze le quali si vanno facendo del sistema in Francia e negli altri paesi industriali del mondo.

 

Tra i libri vanno ricordati:

 

VICTOR BOHMERT, La participation aux bénéfices, Ètude pratique sur ce mode de rémunération du travail, traduit par Albert Trombert, Chaix et Guillaumin, Paris 1888. Tradotto anche in italiano in una edizione di Dumolard

 

ALBERT TROMBERT, La participation aux bénéfices, exposé des différentes méthodes adoptées, pouvant servir de guide pratique pour l’application du régime, Chaix, Paris 1924.

 

DAVID F. SCHLOSS, I metodi di rimunerazione del lavoro. Tradotto dall’inglese all’italiano nella «Biblioteca dell’economista», serie quarta.

 

Questi documenti e libri consentono di ricorrere a più ampia letteratura di inchieste e statistiche in materia, specialmente francesi, inglesi ed americane.

Sull’economia di mercato, introduzione alla politica sociale

Sull’economia di mercato, introduzione alla politica sociale[1]

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 3-36

 

 

 

 

1. Che cosa è un mercato.

 

Siete mai stati in un borgo di campagna in un giorno di fiera? In mezzo al chiasso dei ragazzi, alle gomitate dei contadini e delle contadine le quali vogliono avvicinarsi al banco dove sono le stoffe, i vestiti, le scarpe ecc. da osservare, confrontare, toccare con mano ed alle grida dei venditori, i quali vi vogliono persuadere che la loro roba è la migliore di tutte, la sola che fa una gran bella figura quando l’avete addosso, la sola che vi farà prima infastidire voi di portarla che essa di essere frustata, quella che è un vero regalo in confronto al poco denaro che dovete spendere per acquistarla? Quella fiera è un mercato, ossia un luogo dove, a giorno fisso e noto per gran cerchia di paesi intorno, convengono a centinaia i camion, carri ed i carretti dei venditori carichi delle merci, delle cose più diverse, dai vestiti alle scarpe, dalle casseruole da cucina ai vomeri per l’aratro, dalle lenzuola alle federe, dalle cianfrusaglie per i ragazzi ai doni alla fidanzata per le nozze. Sulla fiera si offre di tutto; e ci sono sempre molti che offrono la stessa cosa. E sulla fiera convengono da ogni parte, da gran cerchia di villaggi e di casolari posti attorno al grosso borgo, dove ci sono piazze ed osterie atte ad ospitare e dare da mangiare a tanta gente, migliaia, moltitudini di compratori, desiderosi di rifornirsi delle cose che ad essi mancano. Specialmente nella fiera di pasqua e in quella dei santi l’afflusso dei compratori e dei venditori è grande. Arrivano a torme i compratori perché sanno che dove c’è grande concorso è sempre più facile trovare ciò di cui si ha bisogno e trovarlo alle migliori condizioni di prezzo: e giungono numerosi i venditori, perché sanno che, dove c’è grande moltitudine di gente desiderosa di comprare, è sempre più agevole vendere la merce e venderla bene. I compratori desiderano di acquistare a buon mercato ed i venditori di vendere a caro prezzo. Spinti da motivi opposti essi si affrettano verso lo stesso luogo, verso la fiera, il mercato.

 

 

Anche la bottega è un mercato. Di botteghe dove si vendono le stesse verdure, la stessa carne, le stesse qualità di pane o di panni o di scarpe, ce ne sono molte nello stesso rione della città, spesso nella stessa via, se questa è un po’ frequentata. La gente passa dinnanzi alle vetrine, guarda qualità e prezzi e confronta. Se il cliente si decide ad entrare può darsi che egli si trovi solo a faccia a faccia col bottegaio. Ma in realtà né l’uno né l’altro è solo. Il bottegaio sa che accanto a lui ci sono altri bottegai, venditori della stessa merce, pronti a portargli via il cliente se egli pretenda un prezzo troppo alto. Il cliente ha già osservato e confrontato e sa che non gli conviene tirare troppo sul prezzo perché tanto egli non troverebbe la roba altrove a più buon mercato. I concorrenti, venditori e compratori, non sono lì presenti a strapparsi l’uno all’altro i clienti o la roba; ma sebbene invisibili, ci sono.

 

 

Forse vi sarà accaduto anche di passare un qualche mattino, tra le undici e il mezzogiorno, dinnanzi ad un palazzo su cui è scritto «BORSA». Se la curiosità vi ha spinto ad entrare nel salone centrale o ad avvicinarvi al padiglione vetrato che sta in mezzo al cortile d’onore, avrete osservato gran folla di signori, abbastanza ben vestiti, che ogni tanto tirano fuori di tasca un taccuino ed una matita e segnano qualcosa. Alcuni sono seduti e silenziosamente annotano in seguito a segni impercettibili che essi colgono a volo sulle labbra di qualche collega. Altri sono congestionati in volto e urlano parole che voi non capite a persone che stanno lontane ed urlano anch’esse parole incomprensibili. Ragazzi, fattorini e commessi corrono incessantemente tra il gruppo della gente silenziosa o vociferante e certe cabine poste lungo le pareti del salone e che voi scoprite essere cabine telefoniche e portano avanti e indietro messaggi verbali o rapidamente tracciati a matita su pezzi di carta. Anche quello è un mercato. Non vi si vedono le merci negoziate; perché per comprare e per vendere non è sempre necessario, come si fa sulle fiere e nelle botteghe, vedere e toccare con mano la merce. Nelle borse si vendono titoli di stato, azioni di società anonime, obbligazioni di comuni o di istituti di credito fondiario, ossia pezzi di carta aventi un valore più o meno alto ma tutti uguali, quelli della stessa specie, gli uni agli altri. Non è necessario vedere e toccare, perché il venditore non può consegnare, quando sia giunto il momento di eseguire il contratto, se non quel preciso pezzo di carta con su scritte quelle certe parole e non altro. Ci sono borse nelle quali, invece che pezzi di carta, si negoziano derrate e merci; frumento, granoturco, seta, lana, cotone, argento, rame, stagno, zinco, piombo, ghisa ecc. ecc. Qui parrebbe necessario vedere e toccare; ma sarebbe un grosso imbroglio per centinaia e migliaia di venditori arrivare in borsa ciascuno con un grosso carico, anche se si tratti di minuscoli campioni da distribuire ai compratori in pegno della qualità della merce che dovrà essere consegnata. I campioni ci sono; ma sono ideali e sono già fissati dai regolamenti della borsa. Ad esempio, quando si negozia frumento, compratori e venditori si riferiscono tacitamente ad un certo tipo o ad un certo altro tipo di frumento, d’inverno o di primavera, duro o tenero, di un certo peso specifico, per es. 78 kg per hl, con un certo grado di impurità, ovvero sia di materie estranee, supponiamo l’1 percento. Quello è il frumento che si contratta e che deve essere consegnato al prezzo convenuto. Si capisce che non sempre si potrà consegnare frumento di quella precisissima qualità. Forse il peso specifico sarà di kg 78,30, ovvero di 77,50 invece dei convenuti 78; ovvero le impurità saranno del 2 o del 0,50% invece che dell’1 percento. Ma il regolamento della borsa, conosciuto da tutti preventivamente, stabilisce già quali aumenti o quali diminuzioni percentuali si debbano apportare al prezzo convenuto se la qualità effettiva è alquanto migliore o peggiore di quella «tipo».

 

 

Si potrebbe continuare negli esempi; ma ormai pare abbastanza chiaro che cosa sia un mercato. È un luogo dove convengono molti compratori e molti venditori, desiderosi di acquistare o di vendere una o più merci. Invece di merci, si possono negoziare quelli che si chiamano servigi. Alla mietitura o alla vendemmia, tutti sanno che di gran mattino, fra le quattro e le sei, su certe piazze del borgo convengono i mietitori e le vendemmiatrici che intendono andare ad opera a servigio altrui e convengono altresì gli agricoltori i quali hanno il frumento in piedi da far mietere o le uve da staccare nella vigna. Nelle città il sistema è mutato un po’ e ci sono gli uffici di collocamento, privati e pubblici, dove convengono datori di lavoro che hanno bisogno di operai ed operai che desiderano trovare lavoro. Il punto essenziale da tenere in mente è che il mercato è un luogo dove convengono molti compratori e molti venditori. Bisogna aggiungere subito alla parola convengono anche qualche altra parola: è un luogo dal quale compratori e venditori possono uscire quando ad essi non convenga stipulare il contratto. Se ad es., il mietitore o la vendemmiatrice giunti sul mercato fossero presi per il collo, per modo di dire, dal carabiniere o costretti ad andare a lavorare a mietere per 30 lire al giorno quando il prezzo di mercato è 50; o a vendemmiare per 10 lire invece che per 20, quello non sarebbe più un mercato, ma uno strumento di schiavitù. Qui vogliamo spiegare che cosa sia un mercato e non che cosa furono in passato, o possono essere al presente in certi paesi, gli ergastoli degli schiavi. Parimenti, quando si tratta di merci, perché ci sia un vero mercato, occorre che il venditore possa rifiutarsi a vendere o il compratore possa rifiutarsi di comprare senza troppo grave suo danno. Certo, è sempre meglio, se conviene, vendere o comprare subito invece che aspettare; ma, entro certi limiti, l’aspettare può essere conveniente. Perché ci sia vero mercato, occorre però che le due parti siano libere di non mettersi d’accordo. Se il venditore dispone di una merce ingombrante e pesantissima che costerebbe l’ira di Dio a ritrasportare in magazzino, o di frutta o verdura che, se non è venduta subito, marcisce, non è che il mercato non ci sia più. Esso esiste sempre; ma comporta per una delle parti alcuni rischi di cui conviene tener conto preventivamente se non si vuole essere presi per il collo dall’altra parte.

 

 

2. Perché non si deve parlare di prezzo giusto od ingiusto.- Il prezzo di mercato.

 

Sebbene ciascuno si faccia un’idea propria di ciò che sia la giustizia, compratori e venditori, arrivando sul mercato aspirano ambedue, gli uni a pagare e gli altri a riscuotere il prezzo giusto. Innanzitutto bisogna ficcarsi bene in mente che l’aggettivo giusto, appiccicato dietro al sostantivo prezzo, è un corpo estraneo, il quale in verità non ha niente a che fare col mercato di cui ci occupiamo. Sul giusto e sull’ingiusto dà la sentenza il giudice, dinnanzi al quale vanno due i quali litigano intorno alla proprietà di un pezzo di terra od intorno al diritto di tenere aperta una finestra sull’orto del vicino. Il giudice può dare una sentenza, perché egli si può basare sul codice, sulle leggi, sui regolamenti, sui contratti scritti e verbali, sulle testimonianze, le quali lo istruiscono sul punto litigioso. Egli può dire ad uno dei due: tu sei nel torto e non hai il diritto di aprire la finestra sull’orto del vicino; oppure può sentenziare che egli è nel giusto ed il vicino ha torto a non volergliela lasciare aprire. Ma che cosa potrebbe dire il giudice a proposito di due contadini di cui l’uno pretende per la sua vacca 2.000 lire e l’altro non la vuol pagare più di 1.800 lire? Essi hanno amendue torto ed amendue ragione. A meno che una legge od un regolamento od una commissione, nominata in base ad una legge, eccezionalmente, come accade in tempo di guerra, dica che quella vacca vale 1.900 lire, il giudice non sa dir niente in materia. Ciascuno dei due contraenti ha le sue idee intorno al prezzo delle vacche. Il primo le ha sempre vendute, le vacche di quella razza peso ed attitudine a dar latte ed a far vitelli, a 2.000 lire e gli pare che gli si farebbe torto a dargli un soldo di meno. Oppure egli sa di averla comprata, quand’era una piccola manzetta, a 500 lire e poi gli è costata tanto fieno, tanta crusca, tanti mangimi a tirarla su ed a portarla al punto in cui si trova che proprio non può darla a meno di 2.000 lire, senza subire, come dice lui, una perdita. Oppure ha rifiutato alla fiera passata 2.100 lire, quando per quelle vacche tutti pagavano 2.150 lire, ed ora se si decide a darla a 2.000 lire è proprio per un tratto di amicizia verso il compratore che egli conosce da tanto tempo. In fondo in fondo, a pensarci bene, il venditore considera prezzo giusto per lui quel prezzo che gli darebbe il mucchio di denaro più grosso possibile compatibilmente con le idee che lui e gli altri si sono fatte sulla possibilità di ottenere un buon guadagno. Il venditore vorrebbe, arrivando sul mercato, non vedere nessuna altra vacca in giro o vederne il minor numero possibile. Per lui ci sono sempre troppe vacche in vendita. Il suo ideale è la scarsità.

 

 

Il compratore parte da idee opposte. Quando l’altro gli dice che non può dare la vacca a meno di 2.000 lire perché altrimenti perderebbe soldi in confronto alle sue spese, egli tra sé e sé pensa: «Costui dice di perdere; ma, anche se fosse vero, e non e`, perderebbe solo perché non conosce le sue bestie e le alleva male. In mano mia, con meno crusca e meno farinetta, che son troppo care, ma più fieno ed erbe passate al trinciaforaggi, più digeribili e meno sprecate, ne avrei tirato su una gran bella bestia spendendo meno. Non è giusto che egli pretenda tanto, solo perché non si intende di vacche. La si sarebbe potuta vendere a 2.100 lire la fiera passata? E che colpa ne ho io, se si è lasciata sfuggire l’occasione quando di vacche sul mercato ce n’erano poche e valevano molto? Adesso ce n’è abbondanza e sono ribassate». Il compratore è dunque colui che vorrebbe sempre l’abbondanza in giro, per pagare poco la roba.

 

 

Che cosa c’entra il giusto o l’ingiusto tra le due schiere che vengono sul mercato: i produttori, o venditori i quali vorrebbero la scarsità perché i prezzi fossero alti ed i consumatori, o compratori i quali sono fautori dell’abbondanza, perché i prezzi siano bassi?

 

 

Tra i due decide il mercato, il quale non afferma che un prezzo sia più giusto dell’altro; ma dice semplicemente: quello è il prezzo. Il prezzo che si paga sul serio, effettivamente; non il prezzo basso di abbondanza desiderato dai consumatori o compratori e neppure il prezzo di scarsità che sarebbe l’ideale dei produttori o venditori.

 

 

3. Come si fa il prezzo di mercato e che cosa esso vuol dire.

 

Il prezzo che si fa sul mercato, il prezzo che per usare il qualificativo più breve possibile possiamo chiamare prezzo di mercato, non è né giusto né ingiusto. È quello che è; è un prezzo fatto. Ecco tutto. E quale è il prezzo che si fa sul mercato? Supponiamo che per una data fiera dei santi (1 novembre) o di san Martino (11 novembre) siano arrivati 10.000 cavoli che i contadini e anche i non contadini sono soliti ad acquistare in quell’epoca per metterli in una fossa nell’orto ben coperti di terra e di frasche e consumarli a poco a poco d’inverno e sino a quando l’orto famigliare non abbia ricominciato a dare verdura fresca. I 10.000 cavoli sono giunti di gran mattino e sulla piazza c’era già un po’ di gente. Si cominciano a barattare parole, richieste ed offerte. Da 70 centesimi di offerta ed 1,20 di richiesta, finisce che in un batter d’occhio tutti i 10.000 cavoli sono venduti suppergiù a 90 centesimi l’uno. Certo, quello pareva un prezzo fatto, un prezzo di mercato. Capita tuttavia quella volta che, non appena la provvista esistente è finita, arrivano altri compratori, parecchi e parecchi altri compratori, e cominciano a gridare alla camorra: non essere giusto che quei primi arrivati abbiano accaparrato essi tutti i cavoli a 90 centesimi, e che essi, i nuovi venuti, ora li debbano pagare 1,20 ricomprandoli da coloro che li avevano accaparrati artificiosamente. Camorra sporca, perché i venditori si erano messi d’accordo coi pochi accaparratori per sbarazzare il mercato e non far più trovare niente in vista.

 

 

I compratori disillusi vanno dal sindaco o dall’assessore delegato per lamentarsi che non si sono fatte le cose per bene. Per impedire le beghe e le recriminazioni, il sindaco o l’assessore avrà però di solito previsto il caso; e sarà probabilmente stato approvato un regolamento, il quale dirà che non possono iniziarsi le contrattazioni prima di una certa ora. Che cosa significa ciò? Che non solo occorre, perché ci sia un mercato, che esistano molti compratori e molti venditori, che ognuno sia libero di comprare o di vendere o di andarsene senza aver concluso nulla, ma occorre anche che tutti, o almeno tutti coloro che hanno l’abitudine di arrivare sul mercato in ore ragionevoli possano dire la loro, sicché non ci siano favoritismi per l’uno o per l’altro degli intervenuti.

 

 

Se queste condizioni, ed altre che sarebbe troppo lungo e complicato enunciare, si verificano, noi possiamo dire che sul mercato le merci, le derrate ed i servigi sono negoziati e scambiati ad un prezzo, dato il quale, in quel giorno e nelle ore fissate dai regolamenti o dalla consuetudine, la quantità domandata è uguale a quella offerta. Se al prezzo di 1 lira, dopo che la campana od il banditore abbia dichiarata aperta la fiera, tutti i 10.000 cavoli offerti sono venduti, se alla tariffa di 50 lire al giorno tutti i mietitori disposti a lavorare a quel salario hanno trovato da collocarsi presso agricoltori pronti a pagare quel medesimo salario, noi diciamo che il prezzo di 1 lira l’uno per cavolo, ed il salario di 50 lire per la giornata di lavoro del mietitore sono quei tali prezzi e salari, i quali hanno fatto sì che tutti i venditori disposti a vendere i cavoli a 1 lira l’uno o meno e tutti i lavoratori disposti a lavorare alla mietitura a 50 lire o meno, trovassero compratori o datori di lavoro pronti a pagare quel prezzo o quel salario.

 

 

Il prezzo di mercato non ci dice nulla intorno alla giustizia in astratto di pagare 1 lira l’uno i cavoli o 50 lire la giornata i lavoratori. Ci dice solo che a quel prezzo il mercato si è vuotato. I compratori i quali hanno pensato che i cavoli fossero troppo cari ad 1 lira se ne sono tornati a casa; i venditori i quali sperano di venderli poi a 1,10, li hanno riposti in qualche magazzino e sulla fiera non è rimasta merce invenduta. I mietitori ai quali la giornata di 50 lire è parsa insufficiente, se ne sono tornati a casa, probabilmente perché hanno pensato che non ne valesse la pena di patire tutto quel caldo e quel sudore quando essi avevano una giornata meno faticosa assicurata per 30 lire. Gli agricoltori, a cui pagare 50 lire al giorno per la mietitura parve eccessivo, se ne sono andati pensando che in fin dei conti potevano ricorrere all’alternativa di sudare e mietere essi stessi un po’ più a lungo fino a notte inoltrata. La luna c’è e fa chiaro; e se anche si tira in lungo un giorno di più, il tempo volge al bello e il rischio della grandinata sul raccolto pendente non pare tale da spingere a tirar fuori di tasca le 50 lire. Ognuno ha fatto i propri calcoli individuali e ne è risultato che i cavoli che si sono venduti, hanno barattato padrone ad 1 lira ed i mietitori, che si sono allogati, hanno convenuto 50 lire: ed il resto se n’è andato con Dio. La piazza è pulita. Un altro prezzo non avrebbe vuotata la piazza. Se per esempio, il prezzo della giornata del mietitore fosse inizialmente di sole 45 lire, invece di 100 mietitori offerti e collocati a 50 lire, ce ne sarebbero 90 soli offerti e 110 domandati. Se fosse di 55 lire, ci sarebbe una offerta di 110 mietitori ed una domanda di soli 90. La situazione sarebbe falsa, non stabile, gli economisti direbbero squilibrata. Perciò il prezzo di una lira per cavolo o di 50 lire per giornata di mietitura che rende la domanda uguale all’offerta e vuota la piazza, si dice prezzo di mercato, o prezzo fatto. Sui libri scritti dagli economisti si chiama anche prezzo di equilibrio. Nel parlare comune, è più semplice dirlo prezzo di mercato.

 

 

4. In un mercato in concorrenza il prezzo tende al costo.

 

Quale è il significato o meglio il contenuto del prezzo di mercato in un mercato di concorrenza, ossia in un mercato dove intervengono molti compratori e molti venditori, dal quale tutti possono uscire senza comprare o senza vendere, un mercato in cui nessuno dei compratori o dei venditori sia così grosso e prepotente da dettare la legge agli altri, in cui tutti possano dire la loro uniformandosi ai regolamenti pubblici noti, in cui si sia sicuri che i contratti stipulati vengano adempiuti?

 

 

Il significato sostanziale ed essenziale è che quel prezzo tende ad essere quello che compensa le spese necessarie a produrre la merce, se si tratta di merci, o compensa, secondo il giudizio dato dagli interessati nelle condizioni in cui si trovano, la fatica del compiere il lavoro, se si tratta di servigi ossia di prestazioni di lavoro manuale o intellettuale. Se i cavoli costano per fitto del terreno, spese di coltivazione, concimi, raccolta e trasporto solo 80 centesimi l’uno, alla lunga 80 centesimi sarà il prezzo e non 1 lira. Al prezzo di una lira i coltivatori guadagnano troppo e ci sarà chi estenderà la coltura dei cavoli; e questi arriveranno sulle fiere dei santi in quantità aumentata. Se si vorrà venderli tutti bisognerà ridurre il prezzo ad 80 centesimi. Se la giornata di mietitura a 50 lire è superiore al compenso normale richiesto per quel genere di lavoro, la buona novella si diffonderà rapida come il lampo e dalle montagne e dai villaggi lontani arriveranno sul luogo nuovi mietitori che al paese guadagnavano soltanto 20 lire al giorno e sono disposti ad affrontare sulla piana il solleone di luglio per guadagnare anche solo 40 lire. Può darsi allora che per sbarazzare la piazza, data la maggior abbondanza di mietitori, occorra ridurre la giornata del mietitore a 45 lire: e quello sarà il nuovo prezzo di mercato.

 

 

5. Perché si paga un prezzo anche per i doni di Dio.

 

Il mercato non produce solo questi effetti: di uguagliare i prezzi che si fanno e le mercedi che si pagano per le diverse specie di lavoro. Si disse sopra che i cavoli possono costare solo 80 centesimi a produrli, perché tanto bisogna spendere per la coltivazione, la concimazione, la raccolta, il trasporto e per il fitto del terreno.

 

 

Che cosa è il capitolo di spesa che si chiama fitto del terreno? Si capisce subito che si debba pagare il necessario per il lavoro dei contadini che zappano il campo dove sono piantati i cavoli, che lo mondano dalle cattive erbe, che attendono al raccolto ed al trasporto del prodotto. Si capisce che si debba pagare il necessario per il lavoro di direzione e di amministrazione dell’agricoltore che corre il rischio di anticipare le spese e non sa se poi i cavoli potrà venderli bene od in perdita. Ma non si capisce perché si debba pagare qualcosa per l’uso della terra dove si piantano i cavoli. La terra non è forse un dono di Dio, un regalo della natura?

 

 

Due sole riflessioni in merito. Non è vero che la terra, almeno quella che noi conosciamo nei paesi civili e in particolare in Italia, sia un dono della natura. Un grande italiano, un grande patriota dell’epoca del risorgimento, Carlo Cattaneo, ha scritto che la terra non è una creazione, è una costruzione. Nella natura non esistono terre coltivabili; ci sono soltanto paludi, foreste, deserti, terre incolte improduttive. Il terreno che noi conosciamo in Italia è frutto di secoli, anzi di millenni di fatica, di intelligenza, di sacrifici delle generazioni passate degli italiani. Se gli uomini d’oggi si ostinassero a non voler pagare nulla per il suo uso, chi vorrebbe ancora far risparmi ed impiegarli a mantenere nello stato attuale ed a migliorare continuamente la terra? In pochi anni – bastano pochissimi anni a distruggere il lavoro di generazioni – la terra ritornerebbe allo stato selvatico improduttivo.

 

 

In secondo luogo se non si pagasse nulla per l’uso della terra allo scopo di coltivare cavoli, chi ci direbbe se sia meglio coltivare quella terra a cavoli od a patate?

 

 

6. Il mercato registra domande e non bisogni; ed indirizza la produzione in corrispondenza della domanda.

 

Qui siamo arrivati al punto centrale del discorso. Il mercato non è solo un mezzo per stabilire dei prezzi che soddisfino contemporaneamente produttori e consumatori e diano a ciascuno di coloro che hanno contribuito alla produzione un compenso proporzionato ai loro costi ed alla loro fatica, né più né meno del sufficiente a tale scopo, ma è sovratutto uno strumento, un meccanismo per mezzo del quale gli uomini indirizzano, guidano la produzione in guisa che si producano precisamente quelle cose, quei beni e precisamente di quella qualità e in quella quantità che corrisponde alla domanda che essi effettivamente fanno. Badisi bene che, affermando essere il mercato lo strumento adatto per indirizzare la produzione nel senso di produrre beni e servigi, precisamente nella quantità e della qualità corrispondenti alla domanda degli uomini, non si afferma che il mercato indirizzi altresì la produzione a produrre beni e servigi nella quantità e nella qualità che sarebbe desiderata dagli stessi uomini. Questi fanno quella domanda che possono, con i mezzi, con i denari che hanno disponibili. Se avessero altri e maggiori mezzi, farebbero un’altra domanda: degli stessi beni in quantità maggiore o di altri beni di diversa qualità. Sul mercato si soddisfano domande, non bisogni. Una donna che passa davanti una vetrina sente un bisogno intenso del paio elegante di calze che vi è esposto; ma non avendo quattrini in tasca, o non avendone abbastanza, non fa alcuna domanda. Il mercato è costruito per soddisfare domande, non desideri.

 

 

Gli uomini fanno domanda di cavoli e patate? Cavoli in tale quantità e patate in tale altra quantità? Disponendosi a pagare i cavoli 1 lira l’uno e le patate 100 lire al quintale, i compratori dicono agli agricoltori che hanno i terreni adatti: fate in modo da destinare ai cavoli i terreni che servono meglio a produrre cavoli ed alle patate i terreni che sono più adatti a produrre patate. Se gli agricoltori si sbagliano e coltivano patate in collina, in terreni aridi invece che in montagna, e cavoli in montagna invece che in pianura, i terreni male usati non lascieranno nessun margine dopo pagate le spese. Il coltivatore, l’affittuario non potrà pagare il fitto al proprietario del terreno e farà fallimento. Il fallimento è la sanzione, la pena, necessaria e vantaggiosa, per quegli affittuari, per quegli industriali, per quei negozianti che non sono capaci a fare il loro mestiere, che utilizzano male terre, capitali, materiali, macchine, impiegati, operai. Il fitto del terreno diventa massimo quando ogni terreno è destinato a quella coltivazione o a quella rotazione (successione di coltivazioni diverse in successivi anni o successive stagioni) che su di esso dà il miglior risultato. Ogni proprietario è interessato in questo modo a cercare ed a trovare precisamente quella coltivazione che per il suo fondo dà i risultati migliori. Se si pagasse ugualmente zero o cento o mille lire all’anno di fitto per tutte le specie di terreni, quale ragione vi sarebbe ancora di cercare la utilizzazione migliore dei terreni?

 

 

Nella stessa maniera il consumatore dà l’indirizzo alla migliore produzione industriale. Chi deve decidere se si devono produrre più locomotive ferroviarie o più vetture automobili? L’industria non ha per iscopo di fabbricare locomotive ed automobili. Essa è fatta invece per soddisfare la domanda degli uomini. Non sono le macchine e le cose che debbono comandare agli uomini; ma sono gli uomini i quali debbono dire che cosa si deve fabbricare per soddisfare ai loro desideri, a quei desideri che si manifestano con una domanda effettiva. Gli uomini viaggiano di più in ferrovia? Affollano i treni? Crescono perciò gli incassi delle ferrovie? E i dirigenti di queste daranno alle fabbriche competenti ordinazioni di vetture o di locomotive ferroviarie; e la gente viaggerà meglio in ferrovia, più rapidamente e più comodamente. Appunto come desiderava. Gli uomini preferiscono invece l’automobile? Si aspira a possedere, come in qualche paese ci si è già arrivati, almeno un’automobile per ogni famiglia? E gli uomini prenoteranno automobili, e i produttori le sforneranno a milioni all’anno. Tecnici, operai, ingegneri, contabili, verranno, coll’offerta di migliori salari, spostati da altre industrie verso quella automobilistica; ed i capi delle imprese automobilistiche faranno domanda di risparmi nuovi per acquistare macchine, allargare stabilimenti, comprare materie prime e porteranno via i risparmi ad altre imprese con l’offerta di un interesse più alto. Nella stessa maniera come i terreni capaci di fruttare i fitti più alti sono destinati alle colture più adatte, alle derrate più domandate dai compratori, così la necessità di pagare un interesse per i capitali fa sì che i risparmi si impieghino nelle industrie, che sono capaci di fruttare almeno quell’interesse e non nelle altre che non riescono a tanto; il che vuol dire che la necessità di pagare un interesse e il desiderio da parte degli imprenditori (industriali ed agricoltori) di guadagnare, oltre l’interesse da versare ai risparmiatori – capitalisti, il profitto più alto possibile per se stessi, spingono gli imprenditori a dedicarsi alla produzione di quei beni, di quei servigi per cui i compratori sono disposti a pagare prezzi più allettanti, ossia ancora precisamente quei beni e quei servigi che sono più domandati, con maggior relativa intensità di domanda da parte del compratore. Naturalmente, se taluni dei consumatori o compratori fossero meglio provveduti di mezzi d’acquisto (denaro), ed altri avessero a propria disposizione mezzi meno abbondanti, amendue farebbero domande diverse da quelle che fanno. Gli uni soddisferebbero, con una domanda maggiore, più largamente a certi loro bisogni che oggi debbono comprimere. Gli altri dovrebbero contentarsi di chiedere meno roba; lasciando insoddisfatti certi desideri, ai quali oggi indulgono.

 

 

Il mercato, che non conosce bisogni, ma domande, è il servo ubbidiente della domanda che c’è. Soddisfa quelle domande, che non rimangono nella sfera platonica dei desideri, ma si manifestano effettive, corroborate dal possesso di una corrispondente potenza d’acquisto (denaro). Esso indirizza la produzione nel senso di soddisfare la domanda esistente. Se cambiasse il tipo della domanda, il mercato, che è uno strumento e non un fine, si adatterebbe da sé, automaticamente, a soddisfare la nuova domanda. Non possiamo chiedere al mercato di darci più di quello che esso può dare, di dare ad esempio, del denaro (potenza d’acquisto) a chi non ne ha o ne ha poco per consentirgli di far domanda di cose atte a soddisfare desideri da lui sentiti magari intensamente, ma non potuti soddisfare; né di togliere denaro a chi ne abbia moltissimo e può far domanda di cose atte a soddisfare certi bisogni, che di solito si considerano dai più semplici capricci.

 

 

Il compito, caso mai ciò si creda opportuno, spetta non al mercato, ma ad altre istituzioni o ad altri meccanismi; ad es. alle imposte progressive sui grandi redditi da un lato, o alle indennità di infortunio, per citare un esempio, dall’altro lato. Il mercato registra quello che esiste. Muta la domanda? ed ecco il mercato registrare la domanda nuova, fissare nuovi diversi prezzi, nuovi diversi salari, dare nuovo diverso indirizzo alla produzione.

 

 

7. Non confondiamo il meccanismo del mercato col meccanismo della distribuzione della ricchezza.

 

Ci sono alcuni scrittori, tecnici o propagandisti, i quali immaginano di aver fatto una grande scoperta, col dire che la produzione in avvenire non dovrà più essere indirizzata allo scopo di dare un profitto agli imprenditori, bensì allo scopo di rendere servigio agli uomini, di soddisfare i bisogni veri dei consumatori. Costoro fanno una grande confusione. Essi confondono due meccanismi diversi che soddisfano a due diverse esigenze. L’un meccanismo è quello che, data la domanda che c’è, cerca di soddisfare a questa nel miglior modo possibile. Questo meccanismo, questo strumento è noto da secoli e non attende affatto di essere scoperto: quello strumento, quel meccanismo si chiama mercato ed è quello che, purtroppo con eccessiva brevità, si è cercato di descrivere sopra. Ed è anche il solo meccanismo efficace all’uopo, provato e riprovato da una esperienza secolare, anzi millenaria.

 

 

Esso è, si aggiunga, il solo efficace se ci si tiene fermi al principio che il padrone delle decisioni da prendere sia l’uomo medesimo, il quale, avendo desideri, aspirazioni e bisogni, cerca di soddisfarli, nella misura dei mezzi che egli ha a disposizione, e nel modo da lui stesso stabilito.

 

 

C’è o si desidera poi che esista un altro meccanismo, grazie al quale gli uomini, per soddisfare i loro desideri, abbiano una diversa, talvolta maggiore (e qui il pensiero va sovratutto ai poveri) e talvolta minore (e qui il pensiero corre ai ricchi e ricchissimi) disponibilità di mezzi d’acquisto, di mezzi atti a trasformare i desideri ed i bisogni in domanda effettiva? Che qualcosa ed anzi che molto possa farsi all’uopo è opinione diffusa. Ma per raggiungere l’intento, non giova distruggere il meccanismo esistente di mercato, costrutto per conseguire un dato scopo, quando invece si vuole raggiungere un altro scopo, anch’esso importantissimo. Giova invece creare un meccanismo separato non facile ad essere congegnato, probabilmente composto di pezzi numerosi e svariati, il quale sia atto a raggiungere il nuovo diverso scopo. Scopo il quale poi, in sostanza, è quello di una distribuzione dei mezzi d’acquisto, di quella che comunemente si chiama ricchezza e meglio direbbesi reddito, più ugualitaria, con minore miseria in basso e minore dovizia in alto.

 

 

Confondere idee diverse, vuol dire non concludere niente. Confondere, come qui si fa da tanti, meccanismi diversi, vuol dire fracassare amendue. Senza nessun costrutto.

 

 

8. Si può affidare a qualcun altro la decisione intorno ai bisogni degli uomini?

 

C’è un gruppo di questi confusionari i quali per meglio soddisfare i bisogni degli uomini, hanno cominciato a fare una bella pensata: quella cioè che gli uomini non sapessero quel che si facevano o facessero cioè domande non corrispondenti ai loro veri desideri, ai loro veri bisogni; e fosse perciò necessario che qualcun altro si incaricasse di decidere lui, per conto degli uomini, quel che costoro dovessero acquistare e comperare. Naturalmente, se noi partiamo dal principio che non gli uomini debbano, ognuno per conto proprio, decidere, in ragione dei mezzi posseduti, quel che essi vogliono acquistare; ma la decisione debba essere presa da qualcun altro, possiamo fare a meno del mercato. In certi casi può essere ragionevole, e può anche rispondere alla necessità e persino ad un vantaggio sociale, che la decisione su quel che l’uomo deve consumare spetti non a lui ma a qualcun altro. Si può e si deve anzi affermare che il campo entro il quale la decisione spetta a qualcun altro, diverso dall’interessato, in certe epoche storiche e in certe circostanze è stato grande e potrà di nuovo acquistare in avvenire importanza notevolissima.

 

 

Nel medioevo fiorivano i conventi e durano ancora oggi. Chi sono i monaci e le monache se non persone le quali hanno abdicato in mano dei loro superiori ad ogni facoltà di manifestare desideri, alla libera scelta delle loro soddisfazioni? Mangiano, vestono, dormono, vegliano, abitano così come vuole la regola e come ordina il padre guardiano. La loro economia non è di mercato: ma di ubbidienza agli ordini venuti dai superiori. Se essi sono felici di vivere così, perché non rispettare la loro volontà? Di solito, però gli uomini amano vivere a loro talento e non come i monaci del convento.

 

 

In una città assediata, in un paese, piccolo o grande, circondato da nemici, il mercato non può funzionare, perché se anche i consumatori richiedono maggior quantità di pane e niuna quantità di giornali, i produttori non possono seguire le loro indicazioni. Pane non se ne può produrre, tra un raccolto e l’altro, se non entro i limiti in cui esiste frumento, e di giornali se ne può produrre tutto quel numero che è consentito dalla disponibilità di carta da giornale. Perciò, accade che qualcun altro, e in questo caso il governo dica: affinché il pane duri fino alla fine dell’assedio o della guerra e affinché nessuno muoia di fame, occorre che ognuno consumi non più di grammi 100 o 150 o 200 al giorno di pane, – e occorre istituire razioni, tessere, ecc. Poiché qualcun altro, ossia di nuovo il governo, ha interesse che esistano giornali e si stampino le notizie e i comunicati da esso desiderati, può darsi che si ordini che le cartiere seguitino, con cellulosa di pioppo o paglia o altre materie prime, che potrebbero essere destinate a scopi forse ritenuti più urgenti dai compratori, a fabbricare carta da giornali per stampare e vendere molti giornali, con nomi diversi, ma tutti uguali l’uno all’altro, quando basterebbe un unico bollettino quotidiano su un foglietto di dimensioni ridotte a divulgare le notizie desiderate dal pubblico. Il qualcun altro fa per il pane quel che tutti desiderano, per i giornali quel di cui, se fossero liberi di decidere a loro talento, tutti farebbero probabilmente volontieri a meno. Se la necessità dell’assedio o della guerra impone razionamenti e tessere non è evidente però che, non appena sia possibile, tutti tireranno il fiato quando il mercato potrà essere ristabilito?

 

 

Talvolta, il qualcun altro non vuole, per ragioni che la opinione pubblica considera normalmente buone, che i consumatori possano liberamente manifestare i loro gusti sul mercato e così indirizzare la produzione. Ad es. quasi tutti gli stati perseguitano con imposte, proibizioni, limitazioni di orario e di vendita, rispetto a certi gruppi di persone (ad es. i giovani e le donne), la vendita delle bevande alcooliche; tutti vietano e puniscono l’acquisto e la vendita di stupefacenti. Limitano e sopprimono il mercato, per ragioni di igiene di moralità di salvezza delle nuove generazioni, di tutela contro le terribili malattie provenienti dall’uso degli stupefacenti e dall’abuso delle bevande alcooliche.

 

 

Per la maggior parte dei consumi, le scelte sono tuttavia innocue, non recano danno né a chi le fa né ad altri e possono perciò essere lasciate liberamente agli interessati. Tutto al più gioverà che qualcun altro, enti pubblici istituzioni religiose o filantropiche od educative, dia opera allo scopo di insegnare ai consumatori a fare scelte buone dal punto di vista della sostanziale utilità, giudicata con criteri scientifici obbiettivi, della merce e allo scopo di dissuaderli dall’acquisto di merci la cui utilità oggettiva, nutritiva, fisiologica ecc. è minore della perdita che si sostiene rinunciando ad altre cose che si potrebbero acquistare allo stesso prezzo. Il pubblico si lascia non di rado guidare da una pubblicità interessata e giova che una educazione scientificamente imparziale e oggettiva, attenui gli errori commessi dagli uomini nel distribuire il reddito tra i vari consumi, pur lasciando ad essi la decisione ultima.

 

 

Può anche darsi che il qualcun altro sia persuaso che molti uomini spendono male il loro reddito, consumando ad esempio troppe bevande o facendo troppo lusso inutile di frivole aggiunte al vestito o sprecando denari nell’adornarsi o nella toletta, e dedicando troppa poca parte del salario alla casa. Se l’uomo di stato ritiene che la buona vita famigliare, che il possesso di una casa anche piccola e di un modesto orto, sia saldo fondamento di una società sana e prospera, si può ammettere che lo stato, ad incoraggiare l’accesso delle classi operaie alla proprietà della casa e dell’orto, costruisca strade adatte prolungando le tranvie, faccia gli impianti necessari di illuminazione acqua fognatura e favorisca così la formazione, nella vicinanza della città, di borghi operai ameni ed attraenti. All’uopo esso li fornirà anche di giardini pubblici, di scuole, di servizi pubblici, di campi di divertimento, di chiese e simili.

 

 

Si può pensare che lo stato sussidi anche la costruzione delle case, cosicché queste possano essere vendute a prezzo inferiore al costo con concessione di lungo tempo per il pagamento a rate. Siccome probabilmente queste case saranno molto richieste e probabilmente in numero maggiore di quelle offerte, bisognerà trovare qualche altra regola diversa da quella del mercato per scegliere coloro che dovranno avere la casa: e si darà la preferenza per es. ai padri di famiglia con prole numerosa, agli anziani, ai più assidui al lavoro, ai domiciliati da più tempo nella località ecc. ecc.

 

 

9. Gli uomini non intendono rinunciare al loro diritto di scegliere le cose che vogliono acquistare.

 

Tengasi però bene in mente che si tratta di eccezioni, che sono approvabili ed anche utili sinché sono una eccezione. L’eccezione può anche diventare imponente senza abolire la regola della libertà degli uomini di indirizzare la propria domanda nel senso preferito individualmente da ciascuno di noi. Se diventasse regola, ciò vorrebbe dire che noi accettiamo il principio che gli uomini non possono più decidere essi quel che vogliono acquistare, ma deciderebbe sempre qualcun altro. È probabile che la grande maggioranza degli uomini desideri spendere i mezzi che possiede come meglio crede, senza lasciarsi dettare la legge da nessun altro, ossia desideri la continuazione del mercato, unico mezzo finora scoperto per ottenere lo scopo.

 

 

10. I monopolisti ed i prezzi di monopolio.

 

Non sempre però il mercato è quello che sopra fu descritto. I compratori per lo più sono sempre molti e si fanno concorrenza nel comperare e spingere su i prezzi, ma non sempre i venditori sono molti e pronti a farsi concorrenza. Capita che il fabbricante di una merce sia uno solo e domini il mercato. Oppure sono molti, ma ce n’è uno o alcuni tanto grossi che si dice che i prezzi sono «fatti» da essi. Forse avete sentito parlare di quel fabbricante di mattoni e tegole che nel proprio paese, dove è lui solo a venderli, vende i mattoni a 150 lire al mille, e le tegole a 200 lire (sono prezzi di qualche anno fa, prima della guerra presente): ed invece nei paesi un po’ più lontani, dove deve tener conto della concorrenza di altri mattonai, vende gli stessi mattoni e le stesse tegole a 120 e 150 lire rispettivamente. Bella giustizia, bel rispetto dei compaesani! dice la gente del luogo, far pagare cari i mattoni e le tegole a noi e darli a buon mercato ai forestieri!

 

 

Eppure, dal punto di vista del mattonaio, la cosa è naturale: in paese è egli solo a vendere, fuori c’è la concorrenza. La concorrenza, che è la salvaguardia del consumatore, in paese non c’è più; ed i clienti sono presi per il collo. Questi produttori che sono soli o quasi soli si chiamano monopolisti o quasi-monopolisti. Può darsi che essi siano parecchi ed anche abbastanza numerosi, ma capita che si mettano d’accordo ad agire come uno solo; ed in questo caso al loro complesso si dà il nome di consorzio, sindacato, trust, cartello.

 

 

Il risultato è sempre lo stesso: il monopolista non è più costretto dalla concorrenza a fissare un prezzo uguale al costo di produzione; ma può fissare lui la quantità di merce che vuol produrre o vendere ovvero il prezzo che vuol farsi pagare; epperciò il prezzo tenderà naturalmente ad essere quello che gli dà il massimo guadagno netto. Non sempre la cosa gli riuscirà completamente; perché un po’ di concorrenza c’è sempre ed egli può temere che, a guadagnare troppo come potrebbe, si risvegli la voglia in altri di impiantare una fabbrica concorrente. Ma in generale egli aspira e tende ad ottener il massimo guadagno netto.

 

 

11. Col monopolio si produce di meno e si distribuisce peggio il minor prodotto.

 

Ciò facendo, il monopolista è cagione, oltrecché di altri, sovratutto di due grossi malanni. In primo luogo, per guadagnare di più egli deve aumentare i prezzi, di poco o di molto, in confronto ai prezzi di concorrenza; e perciò, a prezzi più alti, egli vende e produce meno roba. Se al prezzo di 8 si domanda e si produce e si vende un milione di kg di una data merce, al prezzo di 10 la domanda e perciò la produzione e la vendita diminuiscono, ad es., ad 800.000 kg. C’è un bel numero di compratori, quelli che consumavano i 200.000 kg, i quali rimangono a bocca asciutta e devono stringersi la cintola; e ci sono coloro, i quali continuano a consumare gli 800.000 kg. rimasti, ma li devono pagare 10 invece di 8. In secondo luogo, nascono i profitti e guadagni di monopolio. Prima, quando il mercato era in concorrenza, i produttori si dovevano accontentare di guadagnare quel che era “necessario” per indurli ad arrischiare i loro risparmi e quelli presi a prestito dalle banche e per indurli ad organizzare e dirigere le imprese, che è una specie di lavoro indispensabile e assai produttivo. Ora, essi insaccano grossi guadagni supplementari, non più dovuti al merito di lavorare, organizzare ed arrischiare, ma dovuti al demerito di avere sbarazzato il campo di tutti i concorrenti o di essersi messi, gli antichi concorrenti, d’accordo per taglieggiare i consumatori.

 

 

12. Due specie di monopoli e due metodi di lotta contro di essi.

 

Si può dire perciò che, mentre il mercato in concorrenza è benefico e rende servigio, il mercato in monopolio è dannoso e rende disservigi alla generalità degli uomini. Siccome in queste pagine si vuole soltanto descrivere il mercato e spiegarne nelle somme linee il funzionamento, non è il luogo di descrivere anche i mezzi adatti a far venir meno o a diminuire i danni dei monopoli. Basti accennare che la lotta contro i monopoli deve essere considerata come uno dei principali scopi della legislazione di uno stato, i cui dirigenti si preoccupino del benessere dei più e non intendano curare gli interessi dei meno. La battaglia contro i monopoli può essere condotta lungo due direttive. Ci sono dei monopoli, la maggior parte a parere di taluni, i quali sono dovuti precisamente ad una legge dello stato. Se lo stato ha stabilito dei dazi doganali, dei contingentamenti, delle proibizioni contro le importazioni estere, dei divieti di stabilire nuove fabbriche ecc. ecc., lo stato con la sua legge medesima ha ridotto o distrutto la concorrenza che potrebbe venire dall’estero o da nuovi fabbricanti. In questi casi è chiaro che basta abolire la legge che ha creato il monopolio, perché questo sia distrutto. In altri casi il monopolio è dovuto a cause indipendenti dalla legge, a cause quasi tecniche. Ad es., la concorrenza in una stessa città e negli stessi rioni di molte tranvie, di molte imprese di acqua potabile o di gas o di luce elettrica, ed, entro certi limiti, la concorrenza di parecchie ferrovie tra le stesse città, non è possibile e, se tentata, non dura. Siccome qui il monopolio si può dire quasi naturale, non lo si può più abolire, e bisogna regolarlo. Lo stato interviene per fissare le tariffe massime, il genere dei servizi, ovvero può decidersi ad esercitare lui stesso l’industria monopolistica, facendosi rimborsare il puro costo. Purché non ci pigli troppo gusto. Secoli fa, quando si introdusse in Europa la foglia del tabacco, alcuni stati dissero appunto di voler esercitare essi quell’industria a tutela dei consumatori. Finì come tutti sanno, che il tabacco è venduto da certi stati a 3, 4 e in certi casi fin 10 volte il costo della produzione dei sigari e delle sigarette.

 

 

Capitò per accidente che i governi, profittando del monopolio del tabacco per farci su un guadagno enorme, fecero cosa inappuntabile. L’imposta che i governi percepiscono per mezzo del monopolio del tabacco è una delle migliori imposte che si possano immaginare. Dato che non possiamo fare a meno di imposte, è meglio che esse colpiscano una merce che è diventata di larghissimo consumo e per molti è necessaria quasi come il pane, ma la quale può tuttavia essere considerata indice di una disponibilità di reddito volontariamente destinato a soddisfare un bisogno considerato dal legislatore di intensità minore di quella da lui attribuita ai bisogni pubblici, disponibilità che perciò lo stato può senza troppo scrupolo colpire con imposta anche forte. Ma non bisogna generalizzare l’andazzo di monopolizzare questa o quella produzione a favore dello stato. Ebbe buoni effetti il «chinino di stato» che del resto non è un monopolio; ma li ha dannosi il monopolio del sale che è un alimento di prima necessità. E non è accaduto forse recentemente, quando le vetture automobili e gli autocarri cominciarono a fare una viva concorrenza alle ferrovie con grande vantaggio del pubblico, che parecchi stati proprietari delle ferrovie invece di rallegrarsi del vantaggio generale, si allarmassero per il danno alle proprie finanze e mettessero ogni sorta di bastoni fra le ruote alla benefica concorrenza dei nuovi sistemi automobilistici?

 

 

Nessun rimedio esiste contro questi pericoli, all’infuori di una vigile illuminata opinione pubblica, capace di scoprire la verità in mezzo all’imbroglio di pretesti o di frasi fatte con cui si riesce ad ingannarla.

 

 

13. I prezzi di mercato non sono arbitrari, né in potestà dei produttori.

 

Prezzi di un mercato dominato dalla concorrenza, prezzi di un mercato monopolistico e prezzi dei tanti altri tipi di mercato, nei quali non c’è più la perfetta concorrenza e non esiste ancora un monopolio perfetto, hanno in comune una caratteristica: quella di non essere arbitrari.

 

 

Una delle idee più comunemente diffuse è che i prezzi siano fatti da chi vende, da chi produce, da chi porta la roba sul mercato. Certo il produttore desidera vendere al più alto prezzo possibile. Ma di desideri è lastricato anche il pavimento dell’inferno. Tutti desideriamo qualche cosa che non abbiamo; ma poi ci adattiamo a fare quel che si può. Così anche i produttori, così i venditori. Persino il monopolista che vorrebbe vendere a 10 lire, deve poi adattarsi a vendere ad 8, se a 10 lire i compratori sfumano in troppi ed egli perde di più col vender poco di quanto guadagni coll’aumentare il prezzo. Se egli potesse prendere per il collo i compratori e costringerli a comprare quanta merce egli vuol loro accollare al prezzo da lui fissato, la sua prepotenza non avrebbe limiti. Fortunatamente per essi, i consumatori hanno una via di scampo: di piantarlo in asso, lui e la sua merce o, se non piantarlo, ridurre le compere, ricorrere a surrogati. Un bel giorno, accadde ad uno dei governi italiani di incoraggiare un sindacato siciliano degli zolfi, che aumentò i prezzi a carico degli inglesi e degli americani, gran consumatori di zolfo. Tanto sono ricchi – si diceva – e possono pagare! Invece quelli si inferocirono e cominciarono prima ad estrarre lo zolfo dalle piriti, e poi cercarono zolfo per mare e per terra e, cerca cerca, finirono per trovarne nel Texas, e, per giunta, estraibile a più buon mercato di quello siciliano. Ai brasiliani saltò in mente, un altro bel giorno, di valorizzare il caffè ossia di pretendere un prezzo del caffè di semi-monopolio. Siamo noi – dicevano – i principalissimi produttori di caffè del mondo; e converrà pure che gli americani del nord, francesi, italiani, ecc., gran bevitori di caffè, si indirizzino a noi! Mal gliene incolse loro; perché in altri paesi si estese la coltura del caffè e sovratutto, per l’attrattiva dell’alto prezzo artificiale, si estese nel Brasile medesimo. Ad un certo punto ci fu sul mercato tanto caffè che ai prezzi della così detta valorizzazione non fu più potuto vendere; e si ebbe lo scandalo, di cui tutti i giornali parlarono, del caffè gettato in mare od utilizzato come combustibile nelle caldaie delle locomotive ferroviarie. Non fu affatto uno scandalo; ma la logica conseguenza dell’errore di aver preteso, costituendo un monopolio, far pagare ai consumatori un prezzo troppo alto. Lo scandalo, sia detto tra parentesi, fu un altro: che i governi di certi paesi consumatori resero nello stesso tempo il caffè inaccessibile ai propri connazionali, sia col colpirlo all’entrata con dazi altissimi sia addirittura col proibirne la importazione.

 

 

In un mercato libero nessuno fa quel che vuole, né i produttori, né i consumatori. Il governo aumenta l’imposta sulle case? E tutti dicono: i proprietari non soffrono nulla, bastando ad essi aumentare i fitti. Errore. I proprietari desiderano sì aumentare i fitti; ma se l’avessero potuto fare li avrebbero aumentati senza aspettare lo stimolo dell’accresciuta imposta. Se non l’avevano fatto, ciò era accaduto perché gli inquilini non si possono prendere per il collo. Se i fitti aumentano, ci si restringe in appartamenti di un numero di stanze minore; si rinuncia a certe comodità; si va a vivere nei sobborghi. Vengono fuori alloggi sfitti; e se si vogliono affittare, i proprietari devono pure decidersi ad abbassare i canoni di locazione. La questione dell’influenza delle imposte sui prezzi è certamente più complicata di quel che ora si è detto. Basti qui avere osservato che, anche in questo caso, i proprietari non possono fare quel che vogliono.

 

 

Devono ubbidire al mercato, il quale automaticamente, per il gioco dell’affluire dei venditori quando i prezzi, rialzando, lasciano un margine attraente di profitto e dell’uscire dei compratori quando il rialzo li costringe a non far seguire ai desideri una domanda effettiva, e per il corrispondente gioco dell’uscire dei venditori ed affluire dei consumatori a prezzi calanti, fa sì che si stabilisca quel tal prezzo, dato il quale la quantità domandata è uguale alla quantità offerta. E così si stabiliscono automaticamente i prezzi del lavoro (salari e stipendi), dei capitali (interessi), delle terre (fitti). Forse che il proprietario di un’area fabbricabile nel centro di Milano o di Roma esercitava un arbitrio quando chiedeva ed otteneva (parliamo di una diecina di anni fa quando i prezzi in lire avevano un significato) un prezzo di 20.000 lire al metro quadrato, nel tempo stesso in cui in certe regioni italiane certi terreni agricoli valevano, sì e no, 10 centesimi all’uguale metro quadrato (1.000 lire all’ettaro)? No, il mercato compiva automaticamente, nel contrasto fra compratori e venditori, un processo che si chiama capitalizzazione dei redditi. È vero che l’area fabbricabile di Milano o di Roma non fruttava nulla, neppure una spiga di grano; laddove il fondo della Basilicata produceva qualche po’ di grano. Ma l’aspirante compratore dell’area faceva i suoi conti sul reddito del palazzo che avrebbe potuto costruire a sei ad otto o dieci piani e sul reddito netto che ne avrebbe potuto cavare affittandolo a negozi, uffici e appartamenti di abitazione; e se il calcolo gli dava come frutto netto da imposte, spese di gestione, assicurazione, riparazioni, ammortamento ed interesse sul capitale investito nella costruzione dell’edificio un residuo di 100 lire per metro quadrato e per piano, ossia moltiplicato per dieci piani, di 1.000 lire per metro quadrato, egli era disposto a pagare l’area a 20.000 lire al metro quadrato, perché avrebbe ricavato dall’investimento un frutto del 5%, che era quello corrente per quel tipo di impiego. Invece l’aspirante acquirente del fondo basilicatese se, fatti i conti dello stato del fondo, dei capitali scorte vive e morte da investire, del rendimento in frumento, dei costi di coltivazione, raccolta, trasporto, imposte, ecc. ecc., riusciva al risultato, possibilissimo, di un reddito netto di 50 lire all’ettaro, non era disposto a pagare, capitalizzando il reddito al saggio di interesse, supponiamo, del 5%, un prezzo capitale maggiore di 1.000 lire all’ettaro e cioè di 10 centesimi per metro quadrato. A formare questi due prezzi così diversi di 20.000 lire e di 10 centesimi per la stessa superficie (ma in luoghi diversi) di un metro quadrato, la volontà del proprietario detentore del terreno non c’entra né per cicca né per berlicca. Il mercato sovranamente decide e decide sulla base di un dibattito nel quale tutti i fattori rilevanti di decisione vengono messi in piazza da chi ha interessi contrastanti e non vuole lasciarsi mettere nel sacco: prospettive di prodotto, di costi, di incertezze di riuscita, probabilità di avvenimenti futuri. Tutto viene dosato e pesato; e dal tira e molla del mercato esce fuori in tempo talvolta brevissimo, quasi istantaneo (prezzi dei titoli in borsa), e talvolta lentissimo, defatigante, con un andirivieni di intermediari ripetuto le decine e centinaia di volte, a distanza di giorni, di mesi e di anni (prezzi dei terreni agricoli), il prezzo di mercato. A quel prezzo avviene il trapasso della merce, del servigio, del titolo, della casa o del fondo. Nulla sinora è stato inventato a sostituire il meccanismo del mercato, fuori della sua abolizione e della sua sostituzione con un ordinamento regolato dall’alto, in virtù di comandi e di decisioni abbassate dalle autorità supreme a quelle intermedie e da queste a quelle inferiori e finalmente ai cittadini; come è sempre accaduto nelle caserme e nei reclusori.

 

 

Chi non voglia trasformare la società intera in una immensa caserma o in un reclusorio, deve riconoscere che il mercato, il quale raggiunge automaticamente il risultato di indirizzare la produzione e di soddisfare alla domanda effettiva dei consumatori, è un meccanismo che non può essere alla leggera fracassato per vedere, come fanno i bambini per i giocattoli, come è fatto dentro. Esso merita invece di essere studiato attentamente per essere a poco a poco perfezionato. Innanzi all’altra grande guerra esso aveva raggiunto un alto grado di perfezione; e sarebbe un gran bel fatto se in qualche anno potessimo riguadagnare il gran terreno che negli ultimi trent’anni abbiamo perduto!

 

 

14. Quel che sta attorno alla fiera ed influisce su di essa.

 

Fin qui si è parlato del mercato sia di quello benefico in concorrenza, sia di quello dannoso in monopolio, come se fosse qualcosa che sta a sé. Bisogna, nello spiegarsi, per forza far così, per non far nascere confusione nella testa dei lettori. Il mondo vero è qualcosa di così complicato e vario e mutevole che per ordinare le idee e vederci un po’ chiaro, è necessario affrontare la sua descrizione ad un passo per volta. Così si è fatto sin qui per il mercato. Ma tutti coloro i quali vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe aver luogo se, oltre ai banchi dei venditori i quali vantano a gran voce la bontà della loro merce, ed oltre la folla dei compratori che ammira la bella voce, ma prima vuole prendere in mano le scarpe per vedere se sono di cuoio o di cartone, non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario ed il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno sulla fiera. E ci sono le piazze e le strade, le une dure e le altre fangose che conducono dai casolari della campagna al centro, ci sono le scuole dove i ragazzi vanno a studiare. E tante altre cose ci sono, che, se non ci fossero, anche quella fiera non si potrebbe tenere o sarebbe tutta diversa da quel che effettivamente è.

 

 

15. L’influenza delle abitudini sui prezzi.

 

In poche pagine, non si può descrivere a fondo l’influenza che quel che ci sta attorno esercita sul mercato. Bisogna necessariamente limitarsi ad alcuni casi.

 

 

Perché al contadino ed al borghigiano piace comperare alla fiera? Non solo perché egli vi ha una gran scelta di roba, che di solito nel villaggio non c’è; non solo perché ci sono molti venditori che si fanno concorrenza; ma anche perché egli non conosce personalmente i venditori e non ha alcun timore di offenderli a piantarli lì, se la roba o il prezzo non gli conviene e ad avvicinarsi ad un altro, per vedere se può fare un miglior contratto. Di solito nel paese suo, egli non osa comportarsi così. Suo padre, sua madre si sono sempre forniti in quella bottega. Sono, bottegaio e cliente, amici di famiglia. Se egli facesse risuolare le scarpe da un altro ciabattino, il giorno stesso in tutto il villaggio se ne parlerebbe e sarebbero guai per lui. «Che torto ti ho fatto, – gli chiederebbe o gli farebbe chiedere l’amico ciabattino, – perché tu mi abbia abbandonato? Forse che quell’altro lavora meglio di me?» Cosa rispondergli! Che la risuolatura è costata tre lire di meno? Ma la risposta è pronta: «Tuo padre, tua madre, tu, tua moglie non avete mai dovuto lamentarvi di me. Il mio lavoro è fatto secondo coscienza. Se badi alle tre lire, segno è che non hai riguardo al lavoro ben fatto». Come fare a dirgli che anche l’altro ciabattino lavora coscienziosamente? Sarebbero freddezze, dispiaceri, inimicizie. Il costume ha dunque non di rado grande importanza nel modificare i risultati in confronto a quelli che si otterrebbero in un mercato vero e proprio che è quello in cui compratori e venditori non si conoscono o si comportano come se non si conoscessero ed i prezzi sono determinati esclusivamente dalla convenienza. In un mercato vero e proprio dove nessuno conosce l’un l’altro o meglio, non ha ragioni di amicizia, soggezione o dipendenza verso altri, i prezzi, i salari, i fitti ecc. si muovono più rapidamente e continuamente; mentre dove dominano il costume, la consuetudine, le relazioni di vicinato e di famiglia, si paga per ogni cosa o per ogni servigio quello che si usa pagare, quel che è considerato giusto, quel che nella testa di ognuno corrisponde a quel che si deve pagare. È frequente sentirsi rispondere: «Faccia lei, lei ha più cognizione di me, lei sa quel che ha sempre pagato». La risposta è imbarazzante, e spesso costringe a pagare un po’ di più di quel che si sa essere il prezzo di mercato. Ma si paga per conservare le buone relazioni di vicinato e di saluto. Sarà più facile trovare la roba o ottenere qualche servigio la prima volta che se ne avrà bisogno.

 

 

16. L’influenza della legge sul mercato.

 

Non bisogna dimenticare, fra le circostanze che influiscono sul mercato, la legge. Anche se non conoscete il codice, quello civile o commerciale o penale, siete però probabilmente andati dall’avvocato o dal notaio perché vi redigesse un atto o vi sbrogliasse una vostra faccenda un po’ litigiosa. E vi siete accorti allora che voi non potete fare tutto ciò che volete; non potete nemmeno mettervi d’accordo a fare con altri quello che ad amendue piacerebbe di fare. Ci sono delle regole, alle quali si deve ubbidire; dei sistemi a cui vi dovete uniformare. Non si può, se si vuole fare testamento, lasciar tutta la terra a un figlio solo e niente agli altri; tutto ai figli maschi e niente alle femmine. Ai contadini per lo più parrebbe naturale di lasciar tutto ai figli maschi che hanno sempre lavorato coi genitori. Essi non credono di fare alcun torto alle femmine, lasciandole, nel giorno del gran viaggio ultimo, andare con Dio con la semplice loro benedizione. Perché non si devono contentare della dote che hanno ricevuto al momento del matrimonio? Se i mariti se ne sono accontentati allora, che ragione c’è che oggi vengano a ficcare il naso nella eredità e mettere nei guai i figli maschi, che già avranno tante difficoltà a dividersi tra loro in parti uguali quella poca terra? Eppure, devono rassegnarsi; il codice italiano passato permetteva ad essi di disporre solo della metà del patrimonio; l’altra metà, la legittima, doveva essere per forza divisa in parti uguali tra tutti i figli, maschi e femmine. Il codice nuovo riduce ancora di più la disponibile, fino ad un terzo od a un quarto. Il notaio vi ha forse spiegato che il codice civile vuole ciò per impedire che la terra resti tutta in proprietà dei primogeniti, come si usava una volta. Gli altri figli dovevano andare per il mondo a procacciarsi da vivere, ed il primogenito restava a casa, ben provveduto. Ed accadeva che, per queste ed altre ragioni, ci fossero troppe grandi tenute, troppi di quelli che nell’Italia, da Roma in giù, si chiamano latifondi, male coltivati, perché i proprietari hanno troppa terra. La divisione tra i figli, imposta dal codice, ha avuto per effetto che in parecchie regioni d’Italia, in Francia; in Svizzera, le grosse tenute si sono spezzate; ogni proprietario ha avuto meno terra da coltivare e l’ha coltivata meglio. La produzione dei terreni è aumentata. I contadini lavoranti, meglio richiesti, hanno ricevuto salari migliori e hanno lavorato per un numero di giorni maggiore. Sul mercato, tutto è mutato: salari, fitti e prezzi.

 

 

Certamente, non sono mutati solo per la ragione ora detta; ma questa ha contribuito in una certa misura al cambiamento. Si vede perciò come una disposizione della legge, come quella che il padre può disporre di una parte sola del suo patrimonio e la parte restante, spesso la maggior parte, deve dividerla ugualmente tra i figli, può influire sul mercato.

 

 

17. L’importanza delle imposte sulle eredità.

 

Voi sapete, anche perché siete andati o i vostri genitori sono andati a pagare qualche tassa all’ufficio del registro, che le eredità non spettano sempre tutte ai figli ed ai parenti, ma che lo stato se ne piglia la sua bella parte, una parte tanto più grossa quanto più grossa è la eredità o quanto più lontano nell’ordine della parentela è il parente beneficato. Ciò non accade solo perché lo stato deve pur vivere ed ha bisogno che i cittadini gli paghino le imposte. Accade anche perché coloro che hanno fatto le leggi hanno creduto bene che i figli ed i parenti lontani non godano tutto il frutto del lavoro e del risparmio dei loro vecchi e per impedire che le fortune rimangano immobilizzate di padre in figlio nella stessa famiglia. Dice il proverbio: il padre fa dei sacrifici, delle rinunce, risparmia e si fa un patrimonio; il figlio lo conserva ed il nipote se lo mangia. In generale ciò è probabilmente abbastanza vicino al vero. Ma i legislatori hanno creduto bene di dare una tal quale spinta a questo processo naturale, anche per arrivare in tempo a far godere almeno in parte la società intiera, rappresentata dallo stato, dei patrimoni accumulati in passato dagli avi, prima che i nipoti ed i pronipoti se li mangino. Mangiare per mangiare, si è detto, è meglio che mangi lo stato, a nome e per conto di tutti. Non bisogna, anche qui, spingere la tesi troppo oltre. L’ideale sarebbe che i patrimoni non li mangiasse nessuno, né i nipoti, né lo stato. E c’è anche l’altro motivo, già detto prima a proposito della legittima, che mettendo una tassa tanto più forte quanto più elevato è il patrimonio, si impedisce il perpetuarsi dei patrimoni troppo grossi e si favorisce il loro frazionamento.

 

 

C’è chi, tenendo conto dell’ora detto, vorrebbe che la tassa di successione fosse ancora modificata nel senso che i patrimoni pagassero di più non solo in ragione della loro grandezza, ma anche in ragione della loro antichità. Per esempio, quel fondo dovrebbe pagare il 10 per cento quando passa dal padre al figlio; lo stesso fondo pagherebbe un altro 40 per cento passando dal figlio al nipote; e finalmente il restante 50 per cento passando dal nipote al pronipote; cosicché il pronipote in realtà, di quel fondo, non erediterebbe più niente. Ma se il nipote ha aggiunto al fondo vecchio un altro nuovo, allora il pronipote pagherebbe su questo solo il 10 per cento e così via. Naturalmente, la tassa colpirebbe il valore del fondo e non il fondo per sé. L’essenziale della idea sarebbe che le eredità siano trasferite solo entro certi limiti da una generazione all’altra, per costringere le nuove generazioni a lavorare invece di perdere il tempo nell’ozio. Comunque sia di ciò, si vede come le leggi sulle eredità influiscano sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza e quindi sui mercati, sui salari e sui prezzi. Le leggi buone producono buoni risultati e quelle cattive li producono cattivi. Le une incitano allo spreco, le altre al lavoro. Sul mercato si formano sempre i prezzi in modo automatico; ma i prezzi che si formano sono diversi a seconda che ci sono pochi o molti proprietari, a seconda che la gente è spinta a lavorare, ad inventare, a progredire, od a seconda che languisce nell’ozio. Perciò grande è l’importanza del fare leggi buone.

 

 

18. L’influenza sul mercato della buona o cattiva moneta, dei buoni governi e di quelli cattivi.

 

Si pensi al danno che i più hanno dovuto sopportare ed ai guadagni che i meno hanno ottenuto a causa della cattiva moneta che i governi hanno stampato e mandato in giro nei diversi paesi.

 

 

Si ricordi quel che è accaduto al marco tedesco, alla corona austro-ungarica e in minori proporzioni alla lira italiana, al franco francese, al franco belga ecc. dopo l’altra grande guerra. I governi per far fronte alle spese pubbliche, non incassando abbastanza imposte e non trovando sufficiente credito, stamparono biglietti, taluni in misura stragrande. I cittadini, trovandosi tutta quella carta in mano – ricevuta per stipendi, paghe, forniture ecc. – cercavano di comprare merci e facevano salire i prezzi. I governi, che dovevano perciò pagare più caro tutto ciò che ad essi bisognava, dovevano stampare carta-moneta in quantità ancor maggiore di prima. Chi la riceveva a sua volta, volendola spendere, doveva pagare tutto ancor più caro. Era un circolo vizioso, senza fine dicendo. In tali condizioni nessuno risparmia. Perché risparmiare, se a mettere da parte 100 marchi o corone o lire o franchi che oggi comprano un litro di olio, domani le stesse 100 unità compreranno solo più mezzo litro di olio e poi un quarto di litro di olio? Ma, se nessuno risparmia, come le industrie troveranno domani i capitali di cui hanno bisogno; come si potranno far lavorare gli operai? Questi debbono ogni mese chiedere un aumento di salario, non per migliorare, ma semplicemente per compensare il crescente carovita; ma più crescono i salari, più la roba costa cara a produrre e bisogna aumentare i prezzi. È una corsa al disordine e alla rovina di tutti. Tutti sono sfiduciati e irritati. Guadagnano solo gli intermediari, gli speculatori, coloro che arrivano a vendere in fretta più cara la loro merce prima che siano aumentate le spese delle loro materie prime e i salari pagati ai loro operai. Cosa vale la fortuna dei pochi in confronto alla rovina del paese? Perché ciò è accaduto? Si potrebbe discorrere molto in proposito; ma la cosa essenziale da tenere in mente è questa: in Svizzera il paese è stato amministrato bene da un Consiglio federale, composto di gente per bene, onesta, che voleva fare l’interesse dei cittadini, dalla cui elezione esso in fondo proveniva. Esso ha fatto fronte ai bisogni della Confederazione (ed i governi cantonali a quelli dei cantoni ed i consigli municipali a quelli dei municipi) con i sistemi ordinari, senza ricorrere al torchio dei biglietti, ossia senza stampare nuovi biglietti, più del necessario. In Italia invece, le cose sono andate come tutti sanno; e mentre si diceva di volere difendere la lira fino all’ultimo sangue, si seguitò a stampare biglietti ed a furia di crescere, quella carta, di cui 20 anni fa ce ne erano in giro solo 20 miliardi ed ora ce ne saranno 200 e la cifra cresce quotidianamente, quella carta è diventata cartaccia e non vale quasi più niente. In Germania e in Austria marchi e corone andarono a finire a zero. Auguriamo e speriamo che in Italia stavolta la corsa al ribasso si arresti prima e che la lira possa essere fermata ad un certo punto. Ma il paragone si impone.

 

 

Ecco l’importanza di un buon governo e di un’amministrazione onesta che sappia ispirare fiducia nell’avvenire e sicurezza nel presente; ed all’opposto di un governo dal quale nascono solo sfiducia, cattiva sicurezza, disordine nei prezzi, nei valori, nei redditi, in tutto ciò che riguarda la vita quotidiana.

 

 

19. La libertà di associazione operaia e di sciopero ed i salari.

 

Un ultimo esempio – ma si potrebbe seguitare a lungo – sulla influenza delle leggi sui prezzi di mercato. Il salario è il prezzo che si paga per una giornata di lavoro dell’operaio. Varia, naturalmente, a seconda della specie del lavoro, della capacità e laboriosità dell’operaio e di molte altre circostanze. Ma varia anche a seconda del codice penale e del modo come esso è interpretato. Prima del 1880 la giornata del contadino bracciante nella valle del Po, nelle province più fertili dell’Italia, stava su una lira per gli uomini e sui 50 centesimi per le donne. Questo l’on. Giolitti, l’antico presidente del consiglio, ricordò più volte al parlamento. Le cause erano molte; ma una merita di essere ricordata; il codice penale di quel tempo considerava reato lo sciopero e reato l’accordo di più lavoratori e ancor più l’incitamento allo scopo di scioperare.

 

 

Come potevano i lavoratori, uno ad uno, far sentire le proprie ragioni? Essi erano, nel contrattare il salario, in condizioni di inferiorità di fronte ai padroni, i quali, essendo in pochi, si potevano, senza farlo sapere a nessuno, mettere facilmente d’accordo e tener bassi i salari. I lavoratori scioperarono lo stesso. Si ebbero alcuni processi celebri, fra cui quello di Mantova, i quali richiamarono l’attenzione del parlamento sull’ingiustizia del codice.

 

 

Un nuovo codice penale, del 1889, detto Zanardelli, dal nome del guardasigilli proponente, abolì il reato di sciopero. Gli accordi diventarono leciti e furono proibiti solo gli atti con cui si fosse tentato di impedire, con la violenza fisica o morale, di andare al lavoro a coloro che non volevano scioperare. Il che è giusto, perché ognuno deve essere libero di lavorare o non lavorare, a suo piacimento, se non si vuol far risorgere la schiavitù. «Il risultato fu che si cominciò a scioperare liberamente ed i salari salirono. I padroni per un po’ si lamentarono, ma alla fine avevano dovuto riconoscere che non tutto il male viene per nuocere. Sotto la spinta di salari più alti, essi, se non vollero andare in malora, dovettero usare macchine più perfezionate ed adottare sistemi produttivi più moderni nelle fabbriche. Nelle campagne provvidero ad usare concimi chimici, ad applicare rotazioni razionali fra le diverse coltivazioni, introdussero falciatrici, mietitrici meccaniche, motoaratrici; e, producendo di più, poterono pagare salari più elevati. Ecco come una modificazione del codice penale ha contribuito a far arrivare più grano, più bestiame sul mercato, a far ribassare i prezzi, a far aumentare i salari».

 

 

L’analisi del fenomeno, quale l’on. Giolitti usava fare, col solito suo metodo estremamente semplificatore, non era forse in tutto esatta. Non si può affermare che la liceità delle leghe e degli scioperi e l’azione delle leghe e degli scioperi siano state la causa determinante dei rialzi dei salari, dell’adozione delle macchine agricole e del perfezionamento dell’agricoltura italiana dopo il 1890. Anche qui non bisogna cadere nell’errore di credere che basti chiedere qualcosa e scioperare ed organizzarsi per ottenere quel che si vuole. Come gli industriali e gli agricoltori non possono fissare i prezzi che vogliono, così gli operai non possono ottenere i salari che vogliono. In definitiva il mercato comanda ad amendue. A sua volta, tuttavia, il mercato deve tener conto delle mutazioni che si sono verificate nel mondo. Quei contadini del mantovano o della bassa lombarda che erano pagati una lira al giorno erano gente miserabile, che aveva poca istruzione, che aveva sì poche pretese, ma rendeva forse ancor meno. I contadini della nuova generazione, capaci di intendersi e di associarsi, atti ad occuparsi della cosa comune, capaci di resistere con le loro leghe a quelle che essi considerano prepotenze, furono uomini diversi, i quali cominciarono ad apprezzare l’istruzione, anche tecnico-agricola e pretesero di essere meglio pagati sapendo di valere di più! È naturale che i loro salari diventassero più alti.

 

 

Erano altri e diversi i lavoratori i quali arrivavano sul mercato. Erano diversi anche gli agricoltori che li occupavano: capaci di applicare nuovi metodi colturali, di ottenere maggiori prodotti. Mutati i dati del problema, mutarono i risultati e si ebbero salari più alti, prodotti maggiori, redditi della terra cresciuti e prezzi capitali maggiori.

 

 

Dopo, venne un altro governo, che ritolse ai lavoratori il diritto di sciopero e vi sostituì le corporazioni con cui affermava di conciliare l’interesse di tutte le classi. In realtà quello fu un sistema che rappresentò l’interesse e la volontà di una persona sola e del gruppo che gli stava attorno. Pur non volendo qui fare della politica, si deve esprimere per lo meno il dubbio che il nuovo sistema abbia giovato alla nazione, ai produttori, ai lavoratori ed ai consumatori.

 

 

20. L’influenza delle possibilità per tutti di tirocinio e di istruzione.

 

Poiché parliamo di salari, discorriamo ancora di un fatto che forse avrà già attirato la vostra attenzione. Fattorini di banca, commessi di bottega, non quelli anziani, sperimentati, di fiducia, che tengono il negozio, ma quelli giovani, che fanno le corse, i ragazzi degli ascensori degli alberghi che aprono le porte, i portapacchi capaci di correre in bicicletta, sono spesso pagati poco e male. Pigliano dei gran scapaccioni, ma denari pochi. Passano così gli anni migliori della vita e dopo il servizio militare, se la caserma non li ha migliorati, non son più buoni a fare le corse e debbono adattarsi ad ogni sorta di mestiere. Mestieri qualunque che tutti son buoni a sbrigare, che non richiedono grande istruzione, lungo tirocinio e sono i peggio pagati di tutti. Eppure, se non avessero dovuto cominciare a quindici anni a fare il ragazzino delle corse, anche costoro avrebbero potuto imparare a fare qualche buon mestiere, con maggiori esigenze di tirocinio e di istruzione, ma in compenso più sicuro e meglio pagato.

 

 

La spiegazione che si dà è sempre la stessa: i genitori erano poveri ed avevano bisogno di mettere subito il ragazzo a lavorare. Ed i ragazzi, si sa, corrono volentieri in bicicletta e si pavoneggiano ad aprire porte di ascensori in una bella divisa con i bottoni luccicanti; tanto più se in giunta hanno qualche soldo in tasca ed acchiappano mance. Poi da vecchi la spurgano. Non sempre la spiegazione è buona; ché i genitori talvolta non erano tanto poveri quanto ubriaconi o noncuranti dei figli ed incapaci a indirizzarli. Comunque sia, c’è qualcosa che non va nella educazione di tanti ragazzi e di tante ragazze e nei salari che in conseguenza si formano sul mercato. Supponete che, invece di essere costretti o invogliati a lavorare troppo presto, quei ragazzi avessero potuto seguitare a studiare; a frequentare una scuola tecnica o industriale o magari il ginnasio, a seconda della inclinazione. Supponiamo che tutti i giovani volenterosi possano studiare sino a che il loro desiderio di apprendere sia soddisfatto; che senza incoraggiare i poltroni desiderosi soltanto di scaldare i banchi della scuola, si offrano a tutti coloro che lo desiderassero e che dimostrassero, studiando sul serio, di essere meritevoli dell’aiuto loro offerto, modeste sufficienti borse di studio; forse che sul mercato del lavoro non si sarebbero, giunti a diciotto, a venti, a venticinque anni, presentati in qualità di tecnici capaci di disegnare e di dirigere macchine, chimici periti in uno stabilimento, contabili pratici di tener conti, contadini capaci di potare frutta, periti di orticoltura, di floricoltura, di incroci di bestiame e di volatili ecc. ecc., gente insomma capace di contribuire all’incremento della produzione e di meritare salari assai migliori di quelli a cui può aspirare un pover’uomo che non è più in grado di fare le corse e di portare pacchi, ma sa fare solo cose che tutti sono buoni a fare? E si noti che anche quelli che fossero rimasti a portare pacchi ed a fare lavori comuni, trovandosi sul mercato in meno, potrebbero avere lavoro più sicuro e meglio rimunerato. Chi esclude che qualcuno di questi ragazzi, avendo la possibilità di studiare, non faccia qualche scoperta grande? Anche senza esagerare questa possibilità e, pur tenendo conto del fatto che chi ha davvero la scintilla del genio riesce non troppo di rado a trovare la sua strada attraverso le prove più dure, bisogna riconoscere che talvolta le difficoltà per i poveri sono così grandi che nessun volere è potere le può vincere. Ecco perciò come un cattivo o un buon sistema di educazione, come la possibilità offerta a taluni soltanto od a tutti di seguire i diversi stadi d’istruzione, dalla elementare alla media ed alla superiore universitaria, possa influire sulla vita economica, sulla formazione dei prezzi e dei salari e degli stipendi e dei profitti, possa rallentare o stimolare la produzione della ricchezza. Durante il secolo scorso e quello presente si sono, ricordiamolo per non incorrere nell’errore di credere che in passato non si sia fatto nulla, compiuti enormi progressi in materia di istruzione. Dal giorno in cui quasi tutti in Italia erano analfabeti ad oggi in cui l’analfabetismo è un’eccezione, si son fatti dei gran bei passi avanti. Appunto i progressi compiuti ci persuadono di quelli ugualmente imponenti che si debbono ancora fare. È un errore grave credere che sia dannoso mettere tanta gente allo studio. Non ce ne sarà mai troppa, fino a che tra i sei ed i venti – venticinque anni ci sarà qualcuno il quale non abbia avuto l’opportunità di studiare quanto voleva e poteva. Il male non sta nella troppa istruzione, come non sta nel produrre troppa roba. Di roba non ce n’è mai troppa al mondo. Quel che occorre è che non ve ne sia troppa di un genere e troppo poca di un altro. Parimenti, in fatto di educazione, il danno non è che ci sia troppa gente istruita, ma che ci siano troppi avvocati e troppo pochi medici o viceversa; troppi disegnatori e troppo pochi contabili o viceversa; troppi contadini che coltivano cereali e troppo pochi che piantino patate o viceversa; e così via.

 

 

21. Conclusione: il compito del mercato e come lo si può indirizzare.

 

A dare le opportune indicazioni, a dire quel che si deve fare e quel che non si deve fare, a indirizzare i produttori, industriali, agricoltori, commercianti verso i rami di lavoro nei quali esiste una scarsità relativa ed allontanarli da quelli nei quali c’è una relativa abbondanza in confronto alla domanda esistente dei corrispondenti prodotti, ad insegnare ai giovani od ai loro genitori quale è il tipo di istruzione che conviene più seguire in un certo momento, provvede il mercato. Vi provvede facendo ribassare i prezzi delle merci prodotte con abbondanza eccessiva, e rialzare quelli di cui vi è scarsità. Vi provvede facendo rialzare i salari degli operai più richiesti e ribassare quelli dei mestieri troppo affollati; vi provvede dando profitti agli imprenditori i quali scoprono le merci nuove o provvedono a servizi domandati dal pubblico e mandando in malora (fallimento) coloro che producono merci cattive, non richieste od a costo troppo alto.

 

 

Ma il mercato non può essere abbandonato a se stesso. Il legislatore, ossia noi stessi che dobbiamo eleggere coloro che fanno le leggi, dobbiamo sapere che il mercato può essere falsato da monopoli. Fin che si tratta di piccole trincee che ogni produttore scava intorno a sé per proteggersi contro i concorrenti, poco male. Possiamo tollerare, anzi non ci dispiace, che un negoziante gentile, con buone parole, sorrisi cortesi e ringraziamenti cordiali, eserciti una specie di monopolio sulla clientela a danno del burbero e maleducato; ma possiamo impedire che monopolisti veri e propri rialzino i prezzi, scemino la produzione e guadagnino grosso.

 

 

Così pure possiamo e perciò dobbiamo far sì che il mercato utilizzi le sue buone attitudini a governare la produzione e la distribuzione della ricchezza entro certi limiti, che noi consideriamo giusti e conformi ai nostri ideali di una società, nella quale tutti gli uomini abbiano la possibilità di sviluppare nel modo migliore le loro attitudini, e nella quale, pur non arrivando alla eguaglianza assoluta, compatibile solo con la vita dei formicai e degli alveari – che per gli uomini si chiamano tirannidi, dittature, regimi totalitari – non esistano diseguaglianze eccessive di fortune e di redditi. Perciò noi dobbiamo darci buone leggi, buone istruzioni, creare un buon sistema di istruzione accessibile e adatto alle varie capacità umane, creare buoni costumi. Dobbiamo perciò cercare di essere uomini consapevoli, desiderosi di venire illuminati e di istruirci e dobbiamo, in una nobile gara, tendere verso l’alto. Il mercato, che è già uno stupendo meccanismo, capace di dare i migliori risultati entro i limiti delle istituzioni, dei costumi, delle leggi esistenti, può dare risultati ancor più stupendi se noi sapremo perfezionare e riformare le istituzioni, i costumi, le leggi, entro le quali esso vive allo scopo di toccare più alti ideali di vita.

Lo potremo se vorremo.

 

 



[1] Ristampa di Che cos’è un mercato, Locarno, Tip. f.lli Mole, 1944, pp. 44, ripubblicato l’anno successivo col titolo I mercati e i prezzi in Uomo e cittadino, a cura del Comitato italiano di cultura sociale, Gümligen (Berna), YMCA, 1945, pp. 181-225.

Prefazione – Lezioni di politica sociale

Prefazione

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. XV-XVIII

 

 

 

 

Il presente volume fu dettato nell’anno 1944 quando l’Autore dimorava in Svizzera ed è il risultato dell’insegnamento da lui tenuto in quel paese.

 

 

La prima parte, di introduzione generale sul mercato economico, fu scritta per invito del «Comitato italiano di cultura sociale» allo scopo di fornire una traccia o testo, che servisse di norma agli incaricati di impartire le lezioni di speciali corsi di educazione civica i quali furono tenuti nei duecento campi nei quali erano albergati circa ventimila italiani rifugiati nella ospitale Svizzera fra il settembre e il novembre del 1943 allo scopo di sottrarsi al servizio dell’invasore. Altri rifugiati contribuirono con sommari intitolati Fede nell’avvenire, Sommario di un cinquantennio, Il cittadino e lo stato, La nazione nel mondo, L’economia regolata; toccò all’autore di compilare il capitolo su “Il mercato ed i prezzi” che qui si ristampa a guisa di introduzione.

 

 

La parte seconda è il rendiconto stenografico delle lezioni dettate dall’autore nel semestre di primavera del 1944 nei due campi universitari della Università di Ginevra e della Scuola di ingegneria di Losanna a studenti italiani iscritti nelle facoltà di giurisprudenza, scienze economiche ed ingegneria. A quei corsi collaborarono, ciascuno per la propria materia, professori svizzeri e professori italiani rifugiati in Isvizzera.

 

 

La parte terza contiene la materia delle prime lezioni del corso che l’autore doveva tenere nel semestre invernale nella medesima Università di Ginevra. Allo scopo di agevolare la compilazione delle dispense fino dall’inizio dell’anno scolastico, l’insegnante aveva messo per iscritto la materia delle prime lezioni. Risulta da una annotazione che il corso doveva iniziarsi con la trattazione del «concetto e dei limiti dell’uguaglianza nei punti di partenza», che qui si riproduce; proseguendo poi con la discussione di alcuni altri problemi fondamentali di politica sociale, determinati dalla importanza assunta nella economia contemporanea dai prezzi di monopolio o quasi monopolio (cartelli, consorzi, trusts ecc.); dalle modificazioni indotte dalla pubblicità nella domanda dei consumatori; dalla mancata coincidenza del risparmio e degli investimenti (crisi economiche); dalla estensione dei servizi pubblici gratuiti o semigratuiti. La partenza dalla Svizzera avvenuta nel dicembre 1944 di un gruppo di insegnanti e uomini politici italiani per invito del governo di Roma impedì che il corso avesse inizio e che la stesura delle lezioni continuasse oltre la materia delle prime lezioni.

 

 

Essendo ora le lezioni riprodotte così come furono dettate o preparate, si notano nel testo parecchie ripetizioni, nate da ciò che le diverse parti riguardavano un pubblico diverso (dirette a soldati la prima parte ed a studenti universitari la seconda e la terza) e momenti diversi di insegnamento. Ma si preferì non togliere le ripetizioni, allo scopo di non rimaneggiare un testo volutamente serbato nella stesura originaria.

 

 

La lontananza dalla suppellettile libraria esistente in Italia e la difficoltà di consultare nella Svizzera il necessario materiale bibliografico spiega perché le citazioni, ad eccezione di alcuni libri in lingua francese, siano fatte a memoria. Anche qui si preferì serbare la forma originaria, tuttoché talvolta approssimativa e quindi particolarmente invisa all’autore, del quale forse è nota la avversione a riferimenti bibliografici abbondanti ed inesatti.

 

 

È anche superfluo avvertire che gli esempi in lire e franchi si riferiscono al livello dei prezzi esistente nel 1944 ed al ricordo che l’autore aveva dei prezzi correnti in Italia nel 1943. Il richiamo che talvolta si legge tra parentesi a lire 1914 potrebbe facilitare, con l’uso di un moltiplico forse non inferiore a 300, la conversione approssimativa in lire attuali.

 

 

Dovrebbe essere inutile avvertire che il tipo del ragionamento adottato nelle presenti lezioni come in tutte le altre scritture dell’autore è sempre quello ipotetico: se noi supponiamo che esista una certa premessa, deriva da essa questa o quella conseguenza e non mai quella precettistica: è desiderabile, è bene, è comandato da qualcuno operare in questo o quel modo. Soltanto il primo tipo fa parte della scienza; laddove dovremmo riservare il secondo al territorio della morale o della politica. D’altro canto, la ripetizione continua nel parlare di forme a tipo ipotetico è, fa d’uopo confessarlo, estremamente fastidiosa per insegnanti ed ascoltatori; sicché può accadere che il discorso, invece di normativo, appaia talvolta inteso a dar consigli o precetti. Giova sperare che il lettore voglia, mentalmente, sostituire alla apparenza precettistica la sostanza ipotetica, introducendo la riserva tacita sempre presente del se noi supponiamo che. La riserva della presenza ipotetica prende in qualche caso la forma del: chi non voglia; seguendone che chi non voglia A deve volere invece B o C. Ad esempio, accade in qualche caso, particolarmente nella parte terza, leggere: chi non voglia il tipo di società collettivistico e, cionondimeno, per ragioni le quali non hanno nulla a che fare con la scienza economica, ma invece molto con la morale, con il costume, con la politica, con la stabilità sociale, reputi necessario evitare le conseguenze degli estremi di uguaglianza perfetta o di disuguaglianza troppo notabile nelle condizioni economiche tra uomo e uomo, epperciò ritenga vantaggiosa una certa uguaglianza nei punti di partenza, deve reputare logica questa o quella condotta del legislatore. Risulta da certi appunti che i paragrafi da 129 a 150 dovevano essere, e per le circostanze accennate sopra non furono, riscritti allo scopo di spiegare più ampiamente le ragioni, d’indole sovratutto morale e politica, per le quali non si riteneva desiderabile il tipo di società anzidetto; quel che monta è che, posta quella premessa, il ragionamento successivo sia logico. Compito della scienza non è di inculcare una fede; ma di insegnare il metodo di osservare i fatti (economici od altri) e di ragionare correttamente intorno ad essi. Perciò qualcuno stupirà che lo scrittore di queste pagine, volutamente semplici ed in qualche parte popolari, non abbia predicato quel verbo liberistico di cui lo si dice banditore; intrattenendosi invece quasi esclusivamente sui problemi attinenti alle limitazioni della libertà d’azione economica e sociale dell’uomo. Non poté predicare nessun verbo, né liberistico né comunistico, perché da più di duecento anni, da quel 1734 nel quale Cantillon scrisse l’Essai, la scienza economica studia le leggi le quali regolano le azioni degli uomini, e non fa prediche.

 

 

Possibilità di studio per tutti

Possibilità di studio per tutti

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 33-35

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 546-548

 

 

 

 

Poiché parliamo di salari, discorriamo ancora di un fatto che forse avrà già attirato la vostra attenzione. Fattorini di banca, commessi di bottega, – non quelli anziani, sperimentati, di fiducia, che tengono il negozio, ma quelli giovani, che fanno le corse, – i ragazzi degli ascensori degli alberghi che aprono le porte, i portapacchi capaci di correre in bicicletta, sono spesso pagati poco e male. Pigliano dei gran scapaccioni, ma danari pochi. Passano così gli anni migliori della vita e dopo il servizio militare, se la caserma non li ha migliorati, non son più buoni a fare le corse e debbono adattarsi ad ogni sorta di mestiere. Mestieri qualunque che tutti sono buoni a sbrigare, che non richiedono grande istruzione, lungo tirocinio e sono i peggio pagati di tutti. Eppure, se non avessero dovuto cominciare a quindici anni a fare il ragazzino delle corse, anche costoro avrebbero potuto imparare a fare qualche buon mestiere, con maggiori esigenze di tirocinio e di istruzione, ma in compenso più sicuro e meglio pagato.

 

 

La spiegazione che si dà è sempre la stessa: i genitori erano poveri ed avevano bisogno di mettere subito il ragazzo a lavorare. Ed i ragazzi, si sa, corrono volentieri in bicicletta e si pavoneggiano ad aprire porte di ascensori in una bella divisa con i bottoni luccicanti; tanto più se in giunta hanno qualche soldo in tasca ed acchiappano mance. Poi da vecchi la spurgano.

 

 

Non sempre la spiegazione è buona; ché i genitori talvolta non erano tanto poveri quanto ubriaconi o noncuranti dei figli ed incapaci a indirizzarli. Comunque sia; c’è qualcosa che non va nella educazione di tanti ragazzi e di tante ragazze e nei salari che in conseguenza si formano sul mercato.

 

 

Supponete che, invece di essere costretti o invogliati a lavorare troppo presto, quei ragazzi avessero potuto seguitare a studiare; a frequentare una scuola tecnica o industriale o magari il ginnasio, a seconda della inclinazione. Supponiamo che tutti i giovani volenterosi possano studiare sino a che il loro desiderio di apprendere sia soddisfatto; che senza incoraggiare i poltroni, desiderosi soltanto di scaldare i banchi della scuola, si offrano a tutti coloro che lo desiderassero e che dimostrassero, studiando sul serio, di essere meritevoli dell’aiuto loro offerto, modeste sufficienti borse di studio; forse che sul mercato del lavoro essi non si sarebbero presentati a diciotto, a venti, a venticinque anni, in qualità di tecnici capaci di disegnare e di dirigere macchine, chimici periti in uno stabilimento, contabili pratici di tener conti, contadini capaci di potare frutta, periti di orticoltura, di floricoltura, di incroci di bestiame e di volatili ecc. ecc., gente insomma capace di contribuire all’incremento della produzione e di meritare salari assai migliori di quelli a cui può aspirare un pover’uomo che non è più in grado di fare le corse e di portare pacchi, ma sa fare solo cose che tutti sono buoni a fare? E si noti che anche quelli che fossero rimasti a portare pacchi ed a fare lavori comuni, trovandosi sul mercato in meno, potrebbero avere lavoro più sicuro e meglio rimunerato.

 

 

Chi esclude che qualcuno di questi ragazzi, avendo la possibilità di studiare, non faccia qualche scoperta grande? Anche senza esagerare questa possibilità e, pur tenendo conto del fatto che chi ha davvero la scintilla del genio riesce non troppo di rado a trovare la sua strada attraverso le prove più dure, bisogna riconoscere che talvolta le difficoltà per i poveri sono così grandi che nessun «volere è potere» le può vincere.

 

 

Ecco perciò come un cattivo o un buon sistema di educazione, come la possibilità offerta, a taluni soltanto od a tutti, di seguire i diversi stadi d’istruzione, dalla elementare alla media ed alla superiore universitaria, possa influire sulla vita economica, sulla formazione dei prezzi e dei salari e degli stipendi e dei profitti, possa rallentare o stimolare la produzione della ricchezza.

 

 

Durante il secolo scorso e quello presente si sono, ricordiamolo per non incorrere nell’errore di credere che in passato non si sia fatto nulla, compiuti enormi progressi in materia di istruzione. Dal giorno in cui quasi tutti in Italia erano analfabeti ad oggi, in cui l’analfabetismo è un’eccezione, si son fatti dei gran bei passi avanti. Appunto i progressi compiuti ci persuadono di quelli ugualmente imponenti che si debbono ancora fare.

 

 

È un errore grave credere che sia dannoso mettere tanta gente allo studio. Non ce ne sarà mai troppa, fino a che tra i sei ed i venti – venticinque anni ci sarà qualcuno il quale non abbia avuto l’opportunità di studiare quanto voleva e poteva. Il male non sta nella troppa istruzione, come non sta nel produrre troppa roba. Di roba non ce n’è mai troppa al mondo. Quel che occorre è che non ve ne sia troppa di un genere e troppo poca di un altro. Parimenti, in fatto di educazione, il danno non è che ci sia troppa gente istruita, ma che siano troppi avvocati e troppi pochi medici o viceversa; troppi disegnatori e troppo pochi contabili o viceversa; troppi contadini che coltivano cereali e troppo pochi che piantino patate e viceversa; e così via.

Il sindacalismo corporativo

Il sindacalismo corporativo

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 104-106

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 504-506

 

 

 

 

Un sindacato o lega operaia o padronale, dove esiste sul serio, ha come sua caratteristica essenziale di essere una formazione spontanea. Operai si riuniscono dapprima all’osteria, poi sulla piazza, poi nei locali di un edificio eretto a spese del ceto operaio e che un tempo, già si disse sopra, chiamavasi camera del lavoro; industriali si riuniscono prima al ristorante, poi al circolo, quindi nelle sale di una apposita associazione; e li per atto di spontanea fiducia, scelgono coloro che li guidano nei rapporti con l’altra parte.

 

 

Scelta, non elezione a data fissa; e se le elezioni regolari si fanno, è pura forma. L’uomo o gli uomini scelti vengono dalle file degli operai e degli industriali medesimi, e rimangono in carica finché fanno bene, finché serbano la fiducia dei compagni o dei colleghi; o finché la fiducia medesima non li promuova a cariche più alte, di segretari o di presidenti della federazione provinciale, poi regionale e poi nazionale. L’elezione è un mero mezzo di manifestare o confermare apertamente un mandato di fiducia, che deve persistere di fatto in ogni momento, se il sindacato o la lega deve vivere. Manchi la fiducia; il fiduciario non metta più passione, entusiasmo, lavoro, studio nel compito quotidiano, e la fiducia vien meno, i soci non pagano più le quote, la lega intristisce; alle prime avvisaglie di nuove controversie si disanima, perché si sa che la partita è perduta. Un’altra lega, condotta da uomini più zelanti e entusiasti, ne prende il posto. Al luogo della lega di mestiere sottentra quella di industria o quella generale; il posto della lega socialista è preso da quella sindacalista o cattolica.

 

 

Nel sistema corporativo italiano era sancito bensì il principio che gli uomini insigniti di cariche sindacali dovevano essere eletti dagli iscritti; e i primi eletti avrebbero dovuto eleggere i segretari e presidenti provinciali e via via più su, sino alle cariche supreme delle confederazioni nazionali. Ma il principio era rimasto lettera morta. Se talvolta i soci erano convocati, era per udire la lettura di nomi che venivano approvati ad alzata di mano ad unanimità. Ma i nomi venivano dall’altro, con designazioni fatte d’autorità dalle gerarchie, come dicevasi, superiori.

 

 

Ossia i sindacati non erano sindacati; ma pure branche della amministrazione governativa centrale; branche parallele e simili a quelle che si chiamavano ministeri, prefetture, questure, podesterie, ecc. ecc. Il ministro o, meglio, il capo del governo, sceglieva e nominava i presidenti delle confederazioni e i funzionari più grossi; e, discendendo per li rami, i funzionari più grossi sceglievano i minori, e questi gli inferiori. Il reclutamento non avveniva per scelta spontanea dal basso, tra gli operai stessi, tra gli industriali che riconoscevano la qualità di segretario o presidente, o meglio capo, in chi aveva saputo convincerli meglio, in chi ne aveva espresso più opportunamente la miglior volontà consapevole; in chi, per auto-designazione, li aveva condotti alla vittoria o anche alla onorata sconfitta.

 

 

No. Il reclutamento del personale dei sindacati fascistici o corporativi avveniva come quello di qualunque pubblica amministrazione, talora per pubblico concorso, più spesso per amicizia, raccomandazioni, meriti acquistati nel partito e simili. Popolavano quegli uffici, ed erano qualificati delegati ed ispettori di zona, segretari, ispettori o direttori locali, giovani laureati in legge e scienze economiche, diplomati in agraria, ragionieri, cavalieri e commendatori, in luoghi dove ci si sarebbe aspettato di trovare uomini, se non in tuta o in blusa e dalle mani callose, almeno abituati a linguaggio diverso da quello solito burocratico. Dietro gli sportelli stavano le solite signorine, come in qualunque ufficio postale.

 

 

Erano quei sindacati organi diretti dello stato totalitario, i quali registravano e cercavano di attuare la volontà del “capo”, strumenti di governo, grazie a cui anche i ceti indipendenti del governo venivano a poco a poco ridotti a dipendenti. L’industriale, il commerciante, l’agricoltore, il professionista, l’operaio, l’artigiano, non negozia più, in regime corporativo, i prezzi dei prodotti, il compenso delle prestazioni; non organizza più l’impresa nel modo che a lui sembra più conveniente; ma – attraverso gli ammassi ai quali deve versare i suoi prodotti, i contingenti grazie ai quali ottiene combustibili e materie prime, i consorzi pubblici i quali assegnano i concimi chimici ed il petrolio per la trattrice e lo zolfo ed il solfato di rame per le vigne, l’ufficio di collocamento sindacale, che gli invia operai a tale o tale salario, i sindacati che gli prescrivono le condizioni del lavoro e gli vietano di aumentare i salari anche a coloro che lo meritano con la minaccia di togliere a chi lavora il libretto di lavoro, il permesso di residenza, lo obbligano a lavorare come e dove egli non vorrebbe – cessa di essere una persona, la quale ha una volontà e la può, senza pericolo di morte di fame, far valere nelle forme legali e diventa un impiegato, un servo di chi è al potere.

 

 

Questa è l’essenza del cosiddetto sistema corporativo: la trasformazione di una società varia e sciolta di industriali indipendenti, di agricoltori padroni delle loro terre, di commercianti liberi di rischiare, di lavoratori liberi di muoversi da un’impresa all’altra, di uomini dotati ciascuno di una più o meno grande capacità di resistenza alle pretese altrui, capaci di associarsi diversamente per la difesa dei propri interessi, capaci di contrattare, e di non contrattare, liberi di manifestare il proprio pensiero, in una società di impiegati, molti anche impiegati nel nome e moltissimi solo nel fatto; impiegato anche se non percepisce stipendio propriamente detto, perché dipendente da qualcuno che sta sopra e gli ordina come e quanto produrre, a che prezzo comperare e a quale vendere; quale salario riscuotere, e se egli non ubbidisce, pronuncerà l’interdizione dell’acqua e del fuoco, gli negherà – risuscitando con altro nome l’antico istituto della servitù della gleba – il permesso di residenza, ossia gli toglie l’accesso al lavoro.

Automi e uomini vivi

Automi e uomini vivi

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 233-238

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 316-319

Liberismo e liberalismo, RRicciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 185-190

La società pianificata

La società pianificata

Lezioni di politica sociale, Einaudi, Torino, 1949, pp. 225-231

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 310-316

 

 

 

 

Ecco la casa ad appartamenti in città. È comoda, ben congegnata: i quartieri sono minimi, di una o due stanze, con bagno e cucinetta. Riscaldamento centrale; nella cucinetta di tre o quattro metri quadrati, ghiacciaia, cucina elettrica od a gas, acqua corrente fredda e bollente, in tutte le ore del giorno e della notte. Radio, grammofono, telefono. Al piano terreno i servizi centrali. Ad ore fisse un impiegato della casa vien su a pulire e far le stanze, a tirar su il falso letto e nasconderlo, insieme con i materassi e le lenzuola, nell’armadio, sicché sino a sera la stanza diventa salotto da stare e cosidetto studio, dove si guardano le ultime novità prese a prestito dalla biblioteca circolante. Nella cucinetta, la signora prepara rapidamente il primo asciolvere del mattino, col latte che è venuto su ad ora giusta dal servizio centrale del pianterreno. Poi, ciascuno va al suo lavoro; ed i due si rivedono alle cinque, al tè presso amici o in una sala di tè. Hanno fatto colazione, in piedi o rapidamente, nel ristorante annesso all’ufficio od alla fabbrica dove lavorano. La sera, forse, la trascorrono insieme, se la signora non si annoia troppo a preparare il pranzo, sovratutto con roba in scatola. Ma al pian terreno, il ristorante comune è accogliente e risparmia fatica. Poi il cinematografo. Una lavanderia e una stireria comune provvedono, a prezzo fisso, alle esigenze di casa. Probabilmente, nel semisotterraneo vi è anche la bottega del barbiere, del manicure, e l’istituto di bellezza per la signora. La casa è quasi un albergo, dove i servizi funzionano automaticamente. Gli inquilini non è necessario si conoscano e si frequentino. Un cenno del capo, un atto di cortesia all’incontro nell’ascensore, ed è tutto.

 

 

Sono forse costoro uomini o non invece comparse le quali si dileguano indistinte dopo essere rimaste per qualche tempo sulla scena del teatro sociale? Amici od amiche o non invece conoscenze a cui si dà del tu, che si incontrano al circolo, al caffè, nei campi del golf o della pallacorda, nelle sale di conversazione e di conferenze, e, se non si incontrano più, si dura fatica a ricordarne il nome ed il viso? Che ci sta a fare il bambino in una casa ad appartamenti? Dove gioca, dove corre e cade, dove sono i piccoli amici coetanei? Fratelli non ci sono od al più ve n’è uno. Troppa noia allattare ed allevare tanti bambini. In quel piccolo appartamento non ci sarebbe più pace. Deve forse la donna rinunciare all’impiego ed al lavoro, che consentono comodità, vestiti, calze, cinematografo e gite? Sacrificarsi e perché? A vent’anni, se femmina, la bambina d’oggi è destinata ad andare, con un altro uomo, ad abitare in un altro appartamento; e la si vedrà di rado e di furia. Se maschio, l’impiego lo porterà forse in un’altra città. Una lettera ogni tanto ricorderà che un tempo si aveva avuto un figlio, che si è reso indipendente e probabilmente considera i genitori come gente antiquata, che ha altri gusti e con cui non c’è modo di capirsi. Frattanto, non c’è la sala per i lattanti, l’asilo per i bambini? Non vi sono forse suore, magnifiche di amore per i figli altrui, nutrici ed istitutrici educate in istituti appositi, le quali sono pronte a pigliarsi cura dei bambini della gente affaccendata nel non far nulla o costretta a lavorare per guadagnarsi la vita? Per la gente facoltosa vi sono filantropi intelligenti, pronti a sostituirsi ai genitori con l’aiuto di suore cattoliche o protestanti o laiche; per i mediocri ed i poveri provvedono lo stato, il comune e le istituzioni benefiche. Nessuno deve essere abbandonato a sé; tutti i nati hanno diritto alla medesima educazione ed istruzione; dall’asilo per i lattanti all’asilo infantile, su su fino alle scuole elementari, al ginnasio, al liceo, all’università.

 

 

Poiché tutti gli uomini sono uguali, qualcuno veglia affinché le medesime nozioni siano egualmente offerte a tutti, con la scuola unica in basso, sino almeno a tre anni dopo le scuole elementari. Poi si concede, con molta ripugnanza, che taluno impari il latino ed il greco e la filosofia; meglio sarebbe se tutti, per suggerimento di genitori o di maestri che tirano al sodo, attendessero in primo luogo alle cose tecniche, utili nella vita quotidiana, alla fisica, alla chimica, alla stenografia, alle lingue moderne, alla contabilità, al disegno, alla meccanica, relegando alle horae subsicivae quelle cose che i vecchi chiamavano umanità e mettevano a fondamento della cultura.

 

 

Così, a venti od a ventidue anni, il giovane si presenterà a correre la gara della vita alla pari con ogni altro giovane, maschio o femmina, tutti egualmente formati fisicamente ed intellettualmente, tutti uguali per vestito, scarpe ed acconciatura di testa. Tutti destinati a trascorrere le ore lavorative nell’ufficio o nello stabilimento, pubblico e privato, dove la carriera, dato l’uguale punto di partenza, sarà offerta con diversità nei punti di arrivo a seconda del merito. L’uno percorrerà solo i gradi dovuti all’anzianità; l’altro diventerà direttore generale o membro del consiglio di amministrazione. Ma ogni uomo vivrà con una donna in una casa ad appartamenti; l’uno fruendo di una stanza sola e l’altro di tre o quattro, arredate con maggior lusso e con maggior comodità di servizi comuni. L’uno avrà una sola vettura automobile e l’altro ne possederà una per ciascuna persona di famiglia. Ma nessuno avrà più di uno o due figli; e nessuno avrà gran casa, ché i domestici privati sono scomparsi, da quando gli uomini hanno cominciato ad apprezzare l’indipendenza. Il cameriere o la cameriera che fanno i servizi di pulizia giungono anche essi in automobile e, compiuto il servizio secondo l’orario stabilito, ritornano nella propria casa ad appartamenti, lontanissima, che si possa verificare quell’unicum, che fece riuscire l’esperimento in Germania? No. Vi sono, si, un milione circa di lavoratori disoccupati; ma dove sono, salvoché nell’industria tessile, la quale non ha bisogno di credito da nessuno, le scorte in attesa di lavorazione? Dove è il carbone giacente sui piazzali? Dove sono le macchine inerti? Dove è l’energia elettrica offerta dai produttori e rifiutata dagli utenti?

 

 

Perciò, se oggi si stampassero 300 miliardi di biglietti nuovi per offrire credito nuovo, aggiuntivo all’industria, l’effetto non sarebbe creazione di nuovo lavoro; ma famelico assalto degli industriali, provvisti di nuovo credito e di nuovi biglietti, alle materie prime esistenti, al carbone di mese in mese assegnatoci, all’energia elettrica, di cui oggi si lamenta la scarsezza. L’effetto unico sarebbe non l’aumento della produzione, ma l’aumento dei prezzi di ciò che è necessario all’industria per lavorare. Che cosa sta al disotto dell’aumento dei prezzi, il quale potrebbe essere un fatto puramente nominale, di numeri grossi sostituiti a numeri piccoli? Sta la continuazione del fenomeno più doloroso, anzi più atroce, più socialmente disintegratore tra tutti quelli i quali hanno sconvolto la società italiana in questo triste dopoguerra.

 

 

Chi paga l’aumento dei prezzi? Se tutti i prezzi, se tutti i salari, se tutti i redditi aumentassero nella stessa misura, sarebbe mera polvere negli occhi, sarebbe il solito manzoniano alzarsi in piedi di tutti i comizianti per veder meglio l’oratore. Ma così non è. Vi sono intiere vaste classi sociali, i cui prezzi, le cui remunerazioni non aumentano, o non aumentano proporzionatamente, all’aumento dei prezzi.

 

 

Vi sono i contadini delle Puglie, i quali lavorano 150 giorni all’anno per salari lentissimi a muoversi.

 

 

Vi sono i vecchi, le vedove, i bambini, i ragazzi i quali vivono del reddito fisso di risparmi passati e stanno lentamente morendo di fame, perché sarebbe stato necessario che gli appartenenti ai ceti medi indipendenti avessero risparmiato in passato dieci milioni di lire ciascuno dove alla lor volta i servizi sono compiuti da addetti dello stesso loro tipo.

 

 

Una società così composta può essere, per accidente una società libera; ma è accidente storico. Essa è, fatalmente, destinata ad essere governata secondo un piano, un programma bene congegnato, bene incastrato in tutti i suoi elementi.

 

 

La casa ad appartamenti è essa stessa un programma. A seconda del numero degli abitanti, delle vie, delle distanze, della localizzazione degli uffici, degli stabilimenti, dei luoghi di lavoro, vi deve essere un optimum nelle dimensioni di ogni singola casa. Trenta, quaranta appartamenti, con altrettante coppie di uomo e donna; tanti pasti in comune e tanti separati, tanti servizi di lavanderia, di stireria, di rammendo, di bucato. Il perito ingegnere od architetto costruisce la casa; altro perito maggiordomo organizza i servizi interni. E così per i servizi esterni: di ristorante, botteghe di caffè e di tè, teatri, cinematografi, asili, scuole, circhi, fori per adunanze e spettacoli. Parimenti per le fabbriche, le manifatture e le imprese agrarie. Uomini periti calcolano i chilogrammi di pane, di pasta, di carni, di pesce, di verdura, di frutta, i capi di vestiario e di scarpe, le lenzuola, i grammofoni, i dischi, le radio, gli apparecchi telefonici, le automobili, ecc. ecc., bisognevoli per ogni abitante in media. Poiché i desideri degli uomini sono suppergiù per ogni gruppo di reddito, statistici e contabili fanno i calcoli del fabbisogno; periti tecnici valutano gli ettari, le macchine, le superfici coperte occorrenti per la produzione; e nei luoghi opportuni, tenuto conto dei mari, dei fiumi, dei canali navigabili, delle ferrovie, delle distanze, delle montagne, costruiscono dighe, creano laghi artificiali, fanno impianti idroelettrici, fanno sorgere città industriali, dissodano ed arano e coltivano terreni. Perché l’uomo dovrebbe ribellarsi alla vita comoda, che gli è offerta al minimo costo, nella casa ad appartamenti, con gite in automobile, radio, grammofono, telefono e libri a prestito; e con i bambini curati in scuole ed asili luminosi e sani sino all’età nella quale potranno cominciare anch’essi a condurre la vita tranquilla e contenta in una casa ad appartamenti nuova di zecca, più comoda e meglio organizzata di quella dei genitori?

 

 

Quella che ora è stata descritta non è una caricatura. È l’ideale onesto di molti uomini. Una società, nella quale una parte degli uomini e delle donne abbia ideali simili a questi, non è una società corrotta e decadente. Questi uomini e queste donne, che lavorano in uffici ed in fabbriche e ivi danno un rendimento uguale perlomeno al salario ricevuto, possono tenere la testa alta. Non sono parassiti. Hanno gusti uniformi, desiderano i beni ed i servizi che tutti desiderano; non sono pronti a sacrificarsi troppo per le generazioni venture. Poiché lo stato provvede alla istruzione dei figli e li mette in grado di partecipare, a parità con altri, alla gara della vita, perché essi dovrebbero sacrificarsi di più? Poiché tutti coloro che lavorano sono sicuri di una carriera decorosa, poiché qualcuno provvede ai casi di malattia, di infortuni, di disoccupazione, poiché è assicurata una pensione di vecchiaia, vi è ragione di rinunciare a usufruire oggi dei beni della vita per un futuro posto al di là del termine della vita? I figli non godranno dei medesimi vantaggi e maggiori di quelli di cui fruirono i genitori?

 

 

Il vizio di una società cosiffatta è quello di essere composta di onesta gente di tipo normale. Gli uomini nudi o normali hanno l’animo dell’impiegato. Sono nati ad ubbidire. È normale che molti uomini, forse i più, siano nati ad ubbidire. Un esercito è composto di molti soldati e di un solo generale; e guai se tutti i soldati pretendessero di comandare e di criticare gli ordini del generale. Correrebbe diritto alla disfatta. Ma guai anche ad un esercito, di cui i soldati e gli ufficiali subalterni e superiori, su su sino al comandante in capo, attendessero sempre, prima di muovere un passo e sparare un colpo di fucile o di cannone, l’ordine del superiore gerarchico! L’esercito sarebbe sopraffatto dall’avversario più agile, più deciso, i componenti del quale fossero forniti, ciascuno entro i limiti del compito ricevuto, di spirito di iniziativa. Vedemmo centinaia, talvolta migliaia di uomini armati arrendersi a un pugno di uomini. Ma i primi aspettavano gli ordini degli ufficiali subalterni, e questi dei superiori e gli ufficiali superiori invano chiedevano nell’ora del pericolo istruzioni al comandante supremo; laddove i secondi erano guidati da un caporale risoluto, il quale aveva visto essere urgente ed efficace intimidire il nemico numeroso con l’uso pronto della mitragliatrice.

 

 

Così è in una società. Accanto agli uomini che ubbidiscono, i quali compiono degnamente il lavoro ad essi assegnato, adempiono scrupolosamente all’ufficio coperto, vi debbono essere gli uomini di iniziativa, i quali danno e non ricevono ordini, compiono un lavoro che nessuno ha ad essi indicato, creano a se stessi il compito al quale vogliono adempiere. La società ideale non è una società di gente uguale l’una all’altra; è composta di uomini diversi, i quali trovano nella diversità medesima i propri limiti reciproci. La società ideale si compone di gente che comanda e di gente che ubbidisce, di uomini al soldo altrui e di uomini indipendenti. La società non vivrebbe se accanto agli uni non vi fossero gli altri. Essa deve espellere dal proprio seno soltanto i criminali, i ribelli ad ogni disciplina sociale, gli irregolari incoercibili; e poiché espellerli non può, deve creare le istituzioni giuridiche necessarie a ridurre al minimo il danno della loro mala condotta. Per tutti gli altri, ossia per la grandissima maggioranza degli uomini viventi in società, l’ideale è la varietà e la diversità.

 

 

Non esiste una regola teorica la quale ci dica quando la diversità degenera nell’anarchia e quando la uniformità è il prodromo della tirannia. Sappiamo soltanto che esiste un punto critico, superato il quale ogni elemento della vita sociale, ogni modo di vita, ogni costume, che era sino allora mezzo di elevazione e di perfezionamento umano, diventa strumento di degenerazione e di decadenza.

Il messaggio dopo il giuramento

«Risorgimento liberale», 13 maggio 1948

Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Einaudi, Torino, 1956, pp. 3-5

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Buenos Aires, Asociacíon Dante Alighieri, 1965, pp. 35-38[1]

Nella seduta comune della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, del mercoledì 12 maggio 1948, il presidente della Repubblica lesse il seguente messaggio:

Signori senatori, signori deputati!

Il giuramento che ho testé pronunciato, obbligandomi a dedicare gli anni, che la costituzione assegna al mio ufficio, all’esclusivo servizio della nostra comune patria, ha una significazione la quale va al di là della scarna solenne sua forma.

Dinnanzi a me ho l’esempio luminoso dell’uomo insigne che per il primo ha coperto, con saggezza grande, con devozione piena e con imparzialità scrupolosa, la suprema magistratura della nascente Repubblica italiana. Ad Enrico De Nicola va il riconoscente affetto di tutto il popolo italiano, il ricordo devoto di tutti coloro i quali hanno avuto la ventura di assistere ammirati alla costruzione quotidiana di quell’edificio di regole e di tradizioni senza le quali nessuna costituzione è destinata a durare. Chi gli succede ha usato, innanzi al 2 giugno 1946, ripetutamente del suo diritto di manifestare una opinione, radicata nella tradizione e nei sentimenti suoi paesani, sulla scelta del regime migliore da dare all’Italia; ma, come aveva promesso a se stesso ed ai suoi elettori, ha dato poi al nuovo regime repubblicano voluto dal popolo qualcosa di più di una mera adesione. Il trapasso avvenuto il 2 giugno dall’una all’altra forma istituzionale dello stato fu non solo meraviglioso per la maniera legale, pacifica del suo avveramento, ma anche perché fornì al mondo la prova che il nostro paese era oramai maturo per la democrazia; che se è qualcosa, è discussione, è lotta, anche viva, anche tenace fra opinioni diverse ed opposte; ed è, alla fine, vittoria di una opinione, chiaritasi dominante, sulle altre.

Nelle vostre discussioni, signori del parlamento, è la vita vera, la vita medesima delle istituzioni che noi ci siamo liberamente date; e se v’ha una ragione di rimpianto nel separarmi, per vostra volontà, da voi è questa di non poter partecipare più ai dibattiti, dai quali soltanto nasce la volontà comune; e di non potere più sentire la gioia, una delle più pure che cuore umano possa provare, la gioia di essere costretti a poco a poco dalle argomentazioni altrui a confessare a se stessi di avere, in tutto o in parte, torto e ad accedere, facendola propria, alla opinione di uomini più saggi di noi. Giustino Fortunato, uno degli uomini che maggiormente onorarono il mezzogiorno e questa camera, sempre fieramente si leva contro le calunnie di coloro i quali, innanzi al 1922, avevano in spregio il parlamento perché in esso troppo si parlava; ed ascriveva a sua somma ventura di aver molto imparato ascoltando colleghi, di lui tanto meno dotti, ed a merito dei dibattiti parlamentari di aver creato un ceto politico, venuto su dal suffragio a poco a poco allargato e già divenuto quasi universale, un ceto politico migliore di quello che, all’alba del risorgimento, era stato fornito dal suffragio ristretto.

Or qui si palesa il grande compito affidato a voi, che avete il grave dovere di attuare i principi della costituzione ed a me, che la legge fondamentale della Repubblica ha fatto tutore della sua osservanza.

Tra le due date, del 1848 e del 1948, ricordate nel giorno centenario da ambedue i vostri presidenti, è nato un problema nuovissimo, che nel secolo scorso grandi pensatori politici avevano dichiarato insolubile: quello di far durare sistemi democratici quando a votare ed a deliberare sono chiamate non più ristrette minoranze di privilegiati ma decine di milioni di cittadini tutti uguali dinnanzi alla legge.

Il suffragio universale parve ed ancor pare a molti incompatibile con la libertà e con la democrazia. La costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida a questa visione pessimistica dell’avvenire.

Essa afferma due principi solenni: conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza. A quest’opera sublime di elevazione umana noi tutti, parlamento, governo e presidente siamo chiamati a collaborare. Venti anni di governo dittatoriale avevano procacciato alla patria discordia civile, guerra esterna e distruzioni materiali e morali siffatte che ogni speranza di redenzione pareva ad un punto vana. Invece, dopo aver salvata, pur nelle diversità regionali e locali e pur dolorosamente mutilata, la indistruttibile unità nazionale dalle Alpi alla Sicilia, stiamo ora tenacemente ricostruendo le distrutte fortune materiali e per ben due volte abbiamo dato al mondo una prova ammiranda della nostra volontà di ritorno alle libere democratiche competizioni politiche e della nostra capacità a cooperare, uguali tra uguali, nei consessi nei quali si vuole ricostruire quell’Europa donde è venuta al mondo tanta luce di pensiero e di umanità. Signori senatori, signori deputati, volto lo sguardo verso l’alto, intraprendiamo umilmente il duro cammino lungo il quale la nostra tanto bella e tanto adorata patria è destinata a toccare mete ognor più gloriose di grandezza morale, di libera vita civile, di giustizia sociale e quindi di prosperità materiale. Ancora una volta si elevi in quest’aula il grido di Viva l’Italia!


[1] Con il titolo Mensaje dirigido a las Cámaras reunidas en sesión conjuncta [ndr].

Giustizia e libertà

Giustizia e libertà

«Corriere della Sera», 25 aprile 1948

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 117-122

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 97-102[1]

 

 

 

 

Le due grandi guerre mondiali hanno prodotto alcuni stranissimi paradossali effetti.

 

 

Al par di tutte le guerre anche esse hanno sostituito alla libera economia di mercato, che dominava il mondo innanzi al 1914, una economia collettivistica o comunistica o socialistica. Così facendo, le grandi guerre mondiali non hanno nulla mutato, salvoché per l’ordine delle grandezze, alle fatali esigenze proprie della guerra. Una società in guerra è necessariamente una società collettivistica, dove il capo comanda e tutti gli altri ubbidiscono.

 

 

Il collettivismo è la legge ferrea dei tempi di guerra; legge eterna ed inviolata. Il paradossale e lo strano sta in ciò che i popoli, che sempre hanno riconosciuto la necessità dell’economia comandata dall’alto in tempo di guerra, in passato, dopo essersi rassegnati a sopportarla per la salvezza della patria finché era necessario, la abbattevano a gran furia al ritorno della pace; ed oggi invece, pur continuando a sopportarla come un male necessario durante la lotta e pur augurando ed a grandi grida chiedendo al ritorno della pace la scomparsa di quelle che si dicono le bardature di guerra, le vogliono poi perpetuare sotto altri nomi, di piani o di programmi o di coordinamenti che sono altrettanti sinonimi del collettivismo economico.

 

 

Questa del denunciare i nefasti del collettivismo bellico, che pur fu e sarà sempre necessario, e del celebrare i fasti del collettivismo di pace, che pure è certamente inutile e dannoso, è una delle tante manifestazioni patologiche dello stravolgimento mentale, da cui pare i popoli siano affetti da un terzo di secolo in qua. Sia lecito di affermare che lo stravolgimento ha la sua ultima origine nella supina irreflessiva accettazione di alcuni luoghi comuni, derivati da teorie divenute popolari verso la metà del secolo scorso, ignorate (sarebbe troppo onore dire confutate) da lunghi decenni nel mondo scientifico e sopravvissute ed anzi accettate come inconcusse verità solo nel mondo politico. In una delle sue tante pagine geniali, scintillanti di intuizioni pericolosamente assunte a guida sicura dai suoi ammiratori, Keynes scrisse che la caratteristica dominante delle dottrine correnti nei ceti e nei partiti politici avanzati è quella di farsi l’eco dello stato del pensiero scientifico economico corrente una o parecchie generazioni prima. Quello che i politici ritengono il non plus ultra del moderno, del nuovo, del socialmente rivoluzionario è invece l’eco stantia di ciò che alcuni studiosi, allora solitari, pensavano da trenta a cinquant’anni prima. Dopo, la scienza è progredita; ma i politici ancora rimasticano le vecchie dottrine tramontate. Fra trenta o cinquant’anni i politici si accorgeranno che al mondo pensarono e scrissero i Cournot, i Gossen, i Walras, i Menger, i Von Wieser, i Marshall, i Pareto, i Pantaleoni, i Wicksell, i Clark, per citare solo alcuni grandi morti che più influirono sul pensiero economico contemporaneo e forse opereranno sull’azione politica fra una generazione. Per ora i politici suppongono ancora che abbiano consistenza le teorie del valore e del sopravalore che Marx ed i suoi corifei avevano dedotto da Ricardo; ed ancora si sentono menomati da un complesso di inferiorità dinanzi a dottrinari intenti a ripetere teoremi che non hanno oramai diritto di cittadinanza in nessun manuale scolastico degno di essere offerto alla meditazione dei giovani.

 

 

Vogliamo invece tentare di esporre due tra i tanti canoni pratici che si possono dedurre da quello che può considerarsi il corpo accettato della dottrina economica contemporanea? Due soli; ma forse i più illuminanti tra quelli che i politici dovrebbero conoscere per sapere in quale senso si debba operare per correggere i vizi di quella meravigliosa economia di mercato od impresa libera che neppure il comunismo forzatamente imposto al mondo dalle due grandi guerre è riuscito a distruggere del tutto e che è ancora l’unico strumento vivo che salva gli uomini dalla carestia e dalla morte.

 

 

Il primo canone è che il male sociale ha le sue origini nel monopolio; e che la lotta contro le ingiustizie e le disuguaglianze sociali ha nome di lotta contro il monopolio. Il monopolio sta alla radice delle sopraffazioni dei forti contro i deboli, delle punte di ricchezze stravaganti ed immeritate, le quali provocano invidia e ribellione nelle moltitudini. È falso che la proprietà sia il furto. L’inventore della frase, Proudhon, oggi probabilmente la muterebbe, egli stesso, nell’altra: il monopolio è il furto. La proprietà frutto del lavoro e del risparmio non è ottenuta col danno altrui, bensì col vantaggio sovra tutto di chi non ha proprietà, del lavoratore padrone delle sole sue braccia. Se al mondo esistessero molte imprese concorrenti tra di loro; se l’accesso alle nuove imprese non fosse ostacolato da vincoli, il prezzo dei beni tenderebbe verso il costo di produzione marginale, ed il margine tenderebbe verso costi ribassanti per la concorrenza creatrice dei migliori contro gli incapaci. Se l’uomo ottiene le cose e i servigi di cui ha bisogno ad un prezzo tendente verso il costo del produttore migliore, mutar sistema sarebbe privo di senso comune e gioverebbe solo agli incapaci ed agli imbroglioni esperti nel conquistare, spacciando formule demagogiche, il potere a vantaggio proprio. In regime di concorrenza, anche i profitti degli imprenditori tenderebbero al costo, ossia a compensare i sacrifici ed il lavoro compiuti dall’imprenditore; e l’interesse del risparmio tenderebbe al minimo necessario per provocare la formazione del risparmio medesimo. L’esperienza prova che questa è la maniera meno costosa per la collettività di compensare imprenditori e risparmiatori, di gran lunga meno costosa dei salari, e compensi che si debbono pagare a funzionari e controllori e sorveglianti in una economia comunistica.

 

 

Il male, il furto nasce quando la legge in primo luogo ed in grado minore la tecnica sostituiscono alla economia di concorrenza la economia di privilegio e di monopolio. Quando lo stato, con le sue leggi, pone limiti, vincoli al sorgere di nuove imprese; quando con dazi, contingenti, favori fa si che taluno dei produttori possa impedire ad altri di fargli concorrenza, allora nasce, oltre al profitto corrente, dovuto alla abilità, alla energia, alla creazione intraprendente, il profitto di monopolio. Il profitto di monopolio è davvero il ladrocinio commesso a danno della collettività; è davvero il nemico numero uno della economia libera, della economia progressiva. Primo canone dunque: lotta contro il monopolio. E, prima di tutto, contro gli innumerevoli monopoli creati dalla legge e che sono serbati in vita dai mille e mille inganni con cui i falsi ragionatori riescono a persuadere i molti industriali danneggiati ed i moltissimi operai danneggiatissimi a farsi, per mezzo dei loro rappresentanti, paladini di protezioni, di favori, di vincoli. Smantellato l’edificio dei favori legali ai monopolisti, ben poco rimarrà in vita; e quel che rimarrà potrà essere combattuto con imprese pubbliche, esercite da enti creati all’uopo e vincolati nelle tariffe dei prezzi a carico dei consumatori.

 

 

Il secondo canone deriva dalla constatazione che, per se stessa, ove sia eliminato il monopolio, l’economia di concorrenza ottiene risultati di gran lunga più perfetti di quelli propri di ogni altro tipo economico, entro i limiti posti dalla domanda di beni e di servigi provenienti dagli uomini viventi in una data società. L’economia di mercato è indifferente, è agnostica rispetto alla natura propria della domanda e produce al massimo buon mercato ciò che il pubblico domanda. Se i consumatori domandano bevande alcooliche, l’economia di mercato produce spiriti; se veleni, veleni; se gioielli e pizzi, soddisfa a questa domanda con la stessa indifferenza con cui provvede al pane, alle scarpe ed ai vestiti.

 

 

Qui si apre un vasto campo agli sforzi degli uomini, intesi a migliorare le sorti degli uomini. Non si deve perciò distruggere la macchina che produce ai minimi costi; bensì, indurla a produrre quei beni che siano giudicati dai più come gli ottimi per la collettività. La via per raggiungere lo scopo è segnata da gran tempo. La imposta in genere, se adoperata entro i limiti posti dall’esperienza allo scopo di non distruggere l’incentivo a produrre ed a migliorare, è strumento efficace a tagliare gli alti papaveri ed a ridurre gli altissimi redditi a misure più modeste. Vi sono paesi, come la Svizzera e l’Inghilterra, nei quali, con aliquote meno bestialmente alte di quelle vigenti in Italia, ma osservate, le grandi fortune vanno diradandosi in modo siffatto da destare preoccupazioni rispetto alla possibilità di dare incentivo al nuovo risparmio. La imposta ereditaria può essere congegnata in maniera da costringere gli eredi a ricostituire entro due o tre generazioni le fortune ereditarie, se essi le vogliono conservare.

 

 

Tutto ciò ha un nome: far sì che gli uomini nella lotta per la vita possano partire da punti non troppo diversi. Il frutto delle imposte sui redditi e sui patrimoni più alti deve servire a dare a tutti, anche ai figli dei più poveri, le possibilità di essere educati ed istruiti, si da gareggiare con i figli di coloro che si trovano più in alto nella scala sociale. La società moderna che già provvede all’istruzione elementare gratuita, che già fornisce gratuitamente l’uso di molti servizi (parchi pubblici, asili infantili, ambulatori, cure mediche, acqua, fognatura, ecc.) deve proporsi mete ben più alte. Il confine tra i beni gratuiti ed i beni costosi deve essere gradatamente spostato a favore dei primi. Non sono un ideale assurdo un minimo di casa gratuita assicurata a tutti, l’istruzione gratuita fornita a tutti i meritevoli sino all’università ed oltre, la sicurezza di vita nella vecchiaia e tanti altri servigi che oggi neppure possiamo concepire.

 

 

Ma i due postulati fondamentali, lotta contro il monopolio e massima possibile uguaglianza nei punti di partenza assicurata ai poveri come ai ricchi, possono essere attuati solo se noi cercheremo di serbare in vita, perfezionandolo continuamente, il mirabile meccanismo di una libera economia che nel 1914 avevamo ereditato dai secoli passati e che, nonostante i nostri sforzi suicidi, non siamo ancora riusciti a distruggere. La lotta diuturna per la libertà, contro la tirannia dei monopolisti privati e del monopolista collettivo, è la premessa necessaria di una società economicamente e socialmente più equa. Giustizia non esiste là ove non vi è libertà.



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo Justicia y liberdad [ndr].

La terza via sta nei piani?

«Corriere della Sera», 15 aprile 1948.

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 359-364

Liberismo e liberalismo, Riccardo Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 203-207

Chi vuole dunque la libertà? La libertà pratica, quella che si desidera nei rapporti con i propri simili, con gli inferiori ed i superiori, con i governati ed i governanti; la libertà di muoversi, di parlare, di credere, di scrivere, di scegliere i propri modi di vita, di avere e di cercar di soddisfare i propri gusti senza chiedere il permesso altrui, di lavorare secondo la propria inclinazione e nel luogo di propria scelta? Né il monopolismo privato né il monopolismo pubblico soddisfano all’esigenza della libertà: non il primo perché rende gli uomini schiavi dell’unico o dei pochi proprietari degli strumenti di produzione; non il secondo perché instaura un rapporto di conformismo e di ubbidienza di coloro che sono collocati in basso verso coloro che stanno in alto nella gerarchia politica. L’uomo comune non è libero nell’uno né nell’altro tipo di struttura sociale, perché dipende per il pane, suo e della famiglia, da coloro i quali posseggono, se monopolisti privati, o regolano se monopolisti pubblici, i mezzi di produzione, epperciò distribuiscono i mezzi di vita.

Quale è dunque il tipo di struttura economica che soddisfa meglio all’esigenza della libertà? Troppa gente, a questo punto, comincia a balbettare, affermando di essere pronta ad accogliere le più coraggiose affermazioni delle idee nuove, di rendersi conto di quel che di buono c’è nel socialismo, nel collettivismo, nel comunismo; e conclude: siamo tutti socialisti – si tratta di misura e di gradualità – arriveremo anche noi alla stessa meta – si tratta di arrivarci con garbo e con le buone maniere. Fa d’uopo affermare che, cosi pensando ed operando, non ci si mette su una strada la quale possa condurre ad una meta qualsiasi. Combinando insieme ideali eterogenei e repugnanti, si arriva male, tardi e con gran costo alla meta finale comunistica, funesta a quella libertà che noi abbiamo sopratutto in onore. La terza via non si scopre con la confusione e cercando di conciliare il diavolo con l’acqua santa, il meccanismo esistente nell’Occidente con l’opposto regime orientale. L’unico risultato è quello di fracassare il meccanismo esistente senza mettere nulla al suo posto. La pianificazione o è collettivistica o non esiste; essa non può essere parziale e, per agire, deve essere totale.

Contro la confusione mentale noi dobbiamo innanzi tutto proclamare alto che sinora l’umanità non ha inventato nessun sistema economico produttivo di più copiosa ricchezza e meglio distribuita, nessun sistema atto a far vivere più largamente le grandi moltitudini umane di quello nel quale vive il mondo occidentale, il mondo di noi europei occidentali, degli americani e dei paesi politicamente indipendenti ed abitati e governati da discendenti di europei. Uno scrittore americano ha dato ad un suo libro il titolo: Capitalism the creator; il capitalismo creatore. Il titolo non è appropriato perché il capitalismo, come tutte le altre personificazioni in ismo, essendo esso stesso una creazione dello spirito umano, è esso stesso derivato da qualcosa d’altro e non può trasmettere altrui se non ciò che l’uomo gli dà. Ma il titolo serve a chiarire che oggi, come ieri, chi crea ricchezza, chi crea benessere, chi distribuisce equamente o ingiustamente i beni della terra è l’uomo; ed è l’uomo nella infinita varietà della sua natura, delle sue virtù e dei suoi difetti, dei suoi desideri e dello sforzo posto nel soddisfarli. Assoggettiamo l’uomo ad una regola uniforme, sia questa imposta da un’oligarchia di monopolisti privati, sia da un ceto di tecnici sapienti posti al vertice della macchina collettiva (monopolismo comunistico); e voi avrete, in ambi i casi, la tirannia economica, la distruzione del ribelle, l’uniformità nell’ubbidienza, la graduale scomparsa dello spirito creatore.

Viviamo invece nella nostra società contemporanea, difettosa sinché si voglia, ma varia, ma snodata, composta di milioni di imprese indipendenti l’una dall’altra, concorrenti tra di loro od a volta a volta indotte a collegarsi ed a riunirsi e poi, di nuovo, a frantumarsi ed a rivaleggiare, ed avremo creato l’humus fecondo per la creazione, per il progresso, per l’emulazione, per l’ascesa spontanea dei più operosi, dei più meritevoli e per la discesa dei neghittosi e degli incapaci. Le società dei monopolisti privati e dei monopolisti collettivi sono parimenti società nelle quali si sale non per virtù propria, non per il consenso spontaneo altrui; ma in virtù delle arti, moralmente degradanti ed economicamente distruttive, del favore cercato dall’inferiore presso il superiore. Se le amministrazioni pubbliche si salvano dal prevalere degli intriganti e dei piaggiatori, ciò accade perché esse sono solo una parte della società intera; e perché spontaneamente ad esse accorrono coloro che hanno l’animo del soldato e sentono, come un sacerdozio, l’ufficio del giudice o dell’insegnante o dell’amministratore. Ed altri invece, che ha l’animo volto alle cose economiche, fa il commerciante, l’agricoltore, l’industriale, l’artigiano e lucra o perde a seconda della sua capacità di organizzare bene o male la sua impresa. E v’ha chi non vuol correre rischi, né di comandi civili o militari, né di imprese economiche pio o meno fortunate, e si mette al soldo altrui. Egli preferisce od è costretto a preferire, perché non ha tempo o mezzi da aspettare, l’occupazione a salario altrui. L’agricoltore, il quale diventi insofferente di sopportare sul podere, suo o tolto in fitto od a mezzadria, le vicende delle stagioni, delle grandinate, delle piogge e della siccità si reca in città, dove sul salario non piove o non grandina, e dove si corre invece il rischio della disoccupazione. La caratteristica dei paesi occidentali non è, come si favoleggia negli imparaticci di una storia economica deteriore, quella entità mitica astratta detta capitalismo; ma sono invece quelle cose vive che si chiamano economia di mercato o ad impresa libera; dove gli uomini creano e contrattano fra di loro e non ubbidiscono né al monopolista privato, che essi, ove non ne siano impediti a forza dalla legge, ogni giorno combattono e distruggono; né all’unico datore pubblico di lavoro. Il ribelle non è, come nelle società monopolistiche e comunistiche, ridotto a paria; non è reietto, messo al bando, come nel medioevo, dall’acqua e dal fuoco. Egli crea ogni giorno, a migliaia, imprese concorrenti a quella che minaccia la libertà altrui con la sua forza prepotente; e tentando ogni giorno, in quella che scioccamente si chiama anarchia economica ed è invece continua perpetua creazione di nuove giovani imprese, rivali di quelle già stabilite, offre ai suoi simili il mezzo di salvarsi dalla tirannia. Coloro i quali nella concorrenza non riescono a durare, sono bensì colpiti dalla sanzione del fallimento, lievissima sanzione in confronto della morte economica, la quale si abbatte sui ribelli nelle società monopolistiche private o sui cosidetti sabotatori nelle società collettivistiche.

In una società economica, come quella italiana, nella quale, a fare un solo esempio, vi sono oggi 22.930.909 proprietari di terreni e vi sono 9.988.123 proprietà rurali, e queste vanno dalle minutissime alle grandissime, nel grande numero vi è la garanzia contro la dominazione dei pochi monopolisti privati o dell’unico dittatore pubblico. Nelle società nostre, dove, se si fa astrazione dai vincoli e dalle bardature ereditate dalla guerra e dalla dittatura, i ceti professionali non dipendono dallo stato, ma dal favore della clientela; dove gli agricoltori sono ancora re in casa propria e portano i propri prodotti al mercato e non sono costretti – e giova sperare che gli ultimi residui degli ammassi forzosi scompaiano – a consegnarli a prezzi fissati ad un padrone anonimo detto stato; dove esistono ed esisteranno sempre, ove non siano aboliti per legge, artigiani e commercianti ed industriali piccoli e medi, non è possibile, ove gli uomini ciecamente e supinamente non vi si sottomettano, la tirannia. Non siamo un paese dove tutti siano dipendenti da qualcuno posto in alto e dove si sia, per paura della fame, costretti a dir di sì a chi abbia conquistato il potere. Vivono nelle nostre società milioni di uomini appartenenti a ceti indipendenti dal monopolista privato o dal leviatano statale. Questi ceti indipendenti sono ancora, per fortuna, la grandissima maggioranza del popolo italiano, come degli altri popoli di civiltà occidentale; ed in questi ceti indipendenti sta il presidio ultimo della libertà civile e politica.

Noi dobbiamo conservare questa nostra preziosa struttura economica, frutto di esperienza secolare e causa e garanzia di avanzamento tecnico ed economico e di innalzamento mai più visto delle condizioni materiali e morali delle moltitudini. Le due grandi guerre mondiali hanno fatto compiere alla nostra struttura economica un lamentevole regresso verso il monopolismo privato (protezioni doganali, contingenti, restrizioni, divieti fecondi di camorre e di privilegi) e verso il collettivismo statale. La  gente frettolosa ha scambiato il regresso per il sole dell’avvenire ed annuncia la morte dell’economia libera, senza sapere che così prognostica e prepara anche la morte della libertà politica.

Agli uomini che vogliono mantenersi liberi fa d’uopo dire che essi debbono fermarsi sulla via del suicidio. La struttura economica attuale deve essere perfezionata ma non distrutta. Dobbiamo andare verso l’alto, verso una libertà maggiore, non scendere in basso verso la schiavitù. Si afferma con ciò che noi viviamo nel migliore dei mondi possibili, e che non c’è nulla da fare per migliorare la struttura sociale presente? Certamente no; ma altrettanto sicuramente bisogna aggiungere che perfezionare non vuol dire distruggere. È necessario abbattere tutto ciò che ostacola l’aumento della ricchezza e del reddito sociale totale; ed è necessario distribuire meglio, togliendo le punte estreme all’ingiù ed all’insù, la ricchezza esistente. Ma è necessario aver ben chiaro in mente che a ciò non si giunge togliendo forza a quella che è la virtù creatrice della ricchezza materiale come dei beni spirituali: la libertà.

Il Blocco nazionale a Campobasso. L’aiuto dello stato è strumento di solidarietà. Un elevato messaggio di Einaudi al comizio tenuto dagli on. Morelli e Colitto

Il Blocco nazionale a Campobasso. L’aiuto dello stato è strumento di solidarietà. Un elevato messaggio di Einaudi al comizio tenuto dagli on. Morelli e Colitto

«Risorgimento liberale», 13 aprile 1948

 

Chi vuole la libertà

Chi vuole la libertà

«Corriere della Sera», 13 aprile 1948

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 112-117

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 198-202

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 123-128[1]

 

 

 

 

La libertà di cui parlo non è quella della coscienza individuale la quale vive anche nelle galere e nei campi di concentramento e fa gli eroi ed i martiri; ma è la libertà pratica dell’uomo comune, dell’italiano medio di esporre pubblicamente, senza timore, il proprio pensiero e di difenderlo contro gli avversari; la libertà delle minoranze di far propaganda contro la maggioranza e di cercare di diventare maggioranza; la libertà di esercitare o non esercitare quel qualunque mestiere o professione piaccia al singolo, senza altri vincoli od impedimenti fuor di quelli richiesti dal diritto altrui di non essere danneggiato dall’operato nostro; la libertà di muoversi da luogo a luogo senza sottostare a vincoli che, quando ci sono, non sono nient’affatto diversi dal domicilio coatto o dalla servitù della gleba; la libertà di dir corna del prossimo e del governo e massimamente di questo, nei giornali e sulle piazze; salvo a pagare il fio, con adeguate pene in denaro o in anni di carcere, delle proprie calunnie ed ingiurie.

 

 

Quali sono i mezzi atti ad attuare queste libertà e le altre scritte nelle costituzioni di tutti i popoli liberi ed anche nella nuova costituzione italiana? Oggi è assai popolare ed accettata l’idea che le libertà civili e politiche, proclamate nelle carte dei diritti dell’uomo della fine del secolo XVIII non possano stare da sé, anzi non abbiano vita vera se non siano accompagnate da un’altra libertà, quella economica. A che serve la libertà politica a chi dipende da altri per soddisfare ai bisogni elementari della vita? Fa d’uopo dare all’uomo la sicurezza della vita materiale, dargli la libertà dal bisogno, perché egli sia veramente libero nella vita civile e politica, perché egli si senta davvero uguale agli altri uomini e libero dall’obbligo di ubbidire ad essi nella scelta dei governanti, nella manifestazione del pensiero e delle credenze. La libertà economica è la condizione necessaria delle credenze. La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica.

 

 

C’è del vero nella tesi. La libertà che per l’uomo singolo è un fatto morale, il quale esiste e fiorisce in qualunque clima economico, per l’uomo comune, nei rapporti con i suoi simili, è un fatto strettamente connesso con la struttura economica della società. Vi sono due estremi nei quali sembra difficile concepire l’esercizio effettivo, pratico della libertà: all’un estremo tutta la ricchezza essendo posseduta da un solo colossale monopolista privato; ed all’altro estremo dalla collettività. I due estremi si chiamano comunemente monopolismo e collettivismo: ed amendue sono fatali alla libertà.

 

 

Il primo estremo coincide suppergiù col termine ultimo assegnato alla struttura detta capitalistica della società nel manifesto dei comunisti del 1848: quando, divorati i piccoli industriali ed agricoltori dalla concorrenza vittoriosa dei medi e questi da quella dei grandi e così via dei grandissimi e dei colossali, tutta l’umanità gemerebbe sotto la ferula di un solo o di pochi monopolisti, padroni assoluti della sorte delle moltitudini. Nessuno potendo vivere se non a salario del monopolista, tutti sarebbero suoi schiavi ed ogni manifestazione del pensiero, della religione, della stampa, della parola sarebbe alla mercé dell’unico padrone. Arduo sarebbe invero immaginare che, in siffatta situazione economica, possa sopravvivere la libertà, eccetto che nel più intimo e nascosto foro della coscienza individuale. Se ciò è vero, bisogna aggiungere subito che la previsione del manifesto dei comunisti del 1848 appare oggi la più irreale delle tante farneticazioni scritte nelle mille e mille “utopie” di cui si ha notizia nelle storie delle dottrine sociali. La tendenza della concorrenza a distruggere se stessa ed a convertirsi nel suo opposto, nel monopolio, non trova conferma nella storia di nessun paese durante il secolo scorso dopo il 1848. In nessun paese lo spettacolo di autofagia descritto un secolo fa ha trovato attuazione; sicché, spazientiti, i comunisti quando vollero in Russia impadronirsi del potere non aspettarono il fatidico momento; ma colsero la prima occasione favorevole militare e politica senza altrimenti occuparsi della esistenza o meno di un propizio ambiente economico.

 

 

All’altro estremo, la ipotesi della ricchezza, dei beni strumentali, dei cosiddetti mezzi di produzione posseduti unicamente dalla collettività (ipotesi che si dice dai più collettivistica o comunistica ed alla quale io non vorrei affibbiare alcun aggettivo) è ugualmente fatale alla libertà. Se noi supponiamo che, salvo forse la casa, il mobilio e gli altri beni di consumo e forse un pezzo d’orto, in quantità definita, tutti i beni strumentali – terre, stabilimenti, scorte, ferrovie, strade, porti, ecc. ecc. – appartengano alla collettività, non avremmo forse noi riprodotto, salvo un particolare, la prima ipotesi della società capitalistico monopolistica? L’unico elemento differenziale sarebbe che, nella ipotesi del monopolio privato, il cosiddetto (adopero spesso l’aggettivo “cosiddetto” per mettere in guardia il lettore contro l’uso inevitabile di parole del linguaggio comune, parole spesso improprie e ribelli a definizioni precise) “profitto” spetterebbe al monopolista, laddove nel caso del monopolio collettivo o pubblico dicesi che il profitto spetterebbe alla collettività. Pur supponendo, cosa contestabilissima, che un profitto continui ad esistere e che, esistendo, sia destinato alla collettività, chiaro è che la libertà sarebbe morta. L’ipotesi suppone invero che l’economia di tutto il paese sia regolata secondo un piano fissato da una autorità centrale ed attuato da organi od autorità o corpi o uffici o organizzazioni o cooperative o comunità (il nome di nuovo non conta) via via sempre più localizzati o specializzati sino a giungere all’unità (stabilimento, reparto, fattoria, magazzino, ecc. ecc.) operante e lavorante. Il sistema non può operare se chi sta in basso non ubbidisce a chi sta in alto; ed esso non differisce sostanzialmente dalle organizzazioni che noi conosciamo sotto il nome di ministeri, con i loro gradi gerarchici e le loro categorie funzionali, muniti dei necessari uffici e sotto uffici periferici. In una organizzazione consimile, che un tempo si usava dire burocratica, ma non muta indole se, mutato nomine, la si dice pianificata, possono manifestarsi talune libertà specifiche, come quelle della critica alla bontà di questo o quel procedimento amministrativo o tecnico, di questa o quella determinazione delle merci da produrre e dei prezzi relativi. Le critiche possono risalire dal basso in alto e contribuire alla formazione definitiva del piano; ma la possibilità ed anche la eventuale frequenza delle critiche tecniche scendenti ed ascendenti non muta nulla alla necessaria struttura del tipo collettivistico della società; che è quello della dipendenza gerarchica di coloro che sono situati in basso da coloro che sono situati in alto; dell’operaio dal capo squadra; di questo dal capo reparto, del capo reparto dall’ingegnere direttore di sezione e così via, ascendendo per li rami ai direttori generali ed ai membri dei supremi consigli dei piani. In una struttura che è necessariamente gerarchica, il rapporto tra uomo e uomo non è quello di libertà, sibbene quello di dipendenza. Nessun uomo che non voglia porsi fuori del sistema può sottrarsi al rapporto di dipendenza. Anche l’uomo lavoratore, manuale o intellettuale, è un elemento del piano. Egli non può spostarsi a suo piacimento da mestiere a mestiere e da piano a piano, ma deve compiere quella funzione alla quale è ritenuto dai capi più adatto e nel luogo fissato dal piano. Se egli falla, le sanzioni sono, e non possono non essere, le solite: richiamo, rimprovero, ritardo nell’avanzamento, riduzione del salario, sospensione di esso e nei casi più gravi, licenziamento. Che cosa, logicamente, vuol dire licenziamento? L’impossibilità di trovar lavoro e pane, per sé e la famiglia, presso un altro imprenditore; ché questo in una società collettivistica non esiste. Se si vuole, ciononostante, lavorare e sopravvivere fa d’uopo rassegnarsi a qualche specie inferiore di lavoro; tipo colonie punitive, o lavori forzati.

 

 

Le considerazioni fatte sopra non sono una critica agli uomini i quali stanno al sommo della gerarchia in una società collettivistica. Essi debbono agire in questo modo, se vogliono che la macchina sociale agisca o funzioni; così come il generale dell’esercito non può tollerare, pena la dissoluzione e la sconfitta, indisciplina e disubbidienza tra gli ufficiali ed i soldati. Come in tempo di guerra, la sanzione ultima contro il ribelle è necessariamente la fucilazione, così in una società collettivistica la sanzione ultima contro il ribelle è, e non può non essere, il lavoro forzato. Dove sta di casa, in una società siffatta, la libertà? La libertà di lavorare e di non lavorare, la libertà di fare il contadino o diventare operaio in città; la libertà di parlar male e di agitarsi contro coloro che stanno in alto? La libertà di criticare non i particolari tecnici, i quali non contano nulla, ma la sostanza, il principio stesso del sistema? La libertà di agitarsi e tenere adunanze e comizi contro i capi dei piani, la libertà di scrivere libri e di pubblicar giornali per dimostrare che il tipo di società collettivistica nega la libertà all’uomo, gli vieta di esercitare il mestiere preferito, nel luogo prescelto dal singolo individuo? La libertà di produrre, per consumarli, prodotti non compresi nel piano voluto dalla collettività o meglio dagli uomini preposti agli organi supremi della produzione? La libertà di emigrare all’estero anche contro l’obbligo che il piano contempla di rimanere in paese, perché il piano suppone l’utilizzazione di tutti gli uomini viventi in quel dato territorio?

 

 

Il sistema partorisce necessariamente conformismo alle idee di volta in volta affermate in alto. Quando si sa che, espulsi dall’unico meccanismo produttivo, non vi ha più alcuna possibilità di vita, fuor dei campi di lavoro obbligatorio, gli uomini tendono ad assumere il colore dei superiori ed a mutare il proprio colore secondo le mutazioni di quello. Le intenzioni dei dirigenti possono essere ottime, possono essere nelle parole ed anche nelle intenzioni volte a dar benessere a tutti; ma la conseguenza logica del sistema e una sola: conformismo, ossia schiavitù spirituale e mancanza del bene supremo che è la libertà.

 

 

Conclusione: coloro i quali si acconciano al monopolismo economico privato, e coloro i quali predicano il collettivismo o comunismo economico pubblico sono, tutti, consapevolmente o non, nemici acerrimi della libertà.



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo Quién quiere la liberdad [ndr].

Chi vuole la pace?

Chi vuole la pace?

«Corriere della Sera», 4 aprile 1948

Chi vuole la pace? Vallecchi, Roma, pp. 5-10

La guerra e l’unità europea, Edizioni di Comunità, Milano, 135-141

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 638-643

Scritti sull’unità politica europea, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1995, pp. 63-69

 

 

 

 

Il grido: «Vogliamo la pace!» è troppo umano, troppo bello, troppo naturale per una umanità uscita da due spaventose guerre mondiali e minacciata da una terza guerra sterminatrice, perché ad esso non debbano far eco e dar plauso tutti gli uomini i quali non abbiano cuor di belva feroce.

 

 

Ma, subito, all’intelletto dell’uomo ragionante si presenta l’ovvia domanda: «Come attuare l’umano, il cristiano proposito?».

 

 

Non giova far appello ad ideali nuovi, a trasformazioni religiose o sociali. Unica guida sono l’esperienza storica ed il ragionamento. Questo ci dice che non può essere reputato mezzo sicuro per impedire le guerre quello che, pur esistendo, non le ha sinora impedite. Non è un mezzo sicuro una religione piuttosto che un’altra; perché le guerre si accompagnano alle religioni più disparate; e neppure la religione cristiana proibisce di difendere il proprio paese contro l’aggressione ingiusta. Sempre accadde, contro i comandamenti divini, che taluni uomini siano dediti al furto, all’ozio, al vagabondaggio, all’omicidio ed alle guerre; sicché ai buoni non resta che difendersi con la forza contro i malvagi. Non sono un mezzo sicuro le trasformazioni sociali; ché si combatterono guerre cruente in tutti i regimi sociali tra pastori ed agricoltori, in regime di proprietà collettive delle tribù e delle genti, durante il feudalesimo e la servitù della gleba, prima e dopo il sorgere e il fiorire della borghesia. La teoria dello spazio vitale imperversò prima e durante il nazismo; ed oggi pare guidare i comunisti russi. Eredi dei millenni, in cui gli uomini conducevano vita belluina ed antropofaga, gli uomini talvolta immaginano, sotto la guida di falsi profeti, di arricchire spogliando altrui. Gli uomini pacifici del mondo contemporaneo, i quali sapevano o facilmente intuivano che la guerra non doveva recare se non morte e rovina, si lasciarono ingannare dai pochi frenetici di dominio a guerreggiare a vicenda; ed i risparmiatori videro sfumati i loro risparmi, gli imprenditori minacciato il possesso delle fabbriche e delle terre ed i lavoratori ridotto il compenso della fatica.

 

 

Se un paragone si deve fare tra opposti sistemi di organizzazione sociale come fomentatori di guerre, la conclusione è una sola: tanto più facile è conservare la pace quanto più numerose sono le forze economiche esistenti in un paese che siano indipendenti dallo stato (cosidetta volontà collettiva) e tanto più è agevole scendere in guerra quanto più l’economia è accentrata sotto la direzione di un’unica volontà. Una società di milioni di proprietari indipendenti, di numerosi industriali e commercianti, è una società la quale intende agli scambi con i paesi stranieri, per vendere sui mercati migliori i propri prodotti ed acquistare a buon mercato i desiderati prodotti esteri. I molti che desiderano migliorare la propria fortuna hanno bisogno della pace ed aborrono dalla guerra. Nei paesi dove il potere economico è invece accentrato nello stato, ivi nascono i monopolisti, ivi si ottiene ricchezza cercando i favori dei governanti ed ivi gli ideali di vittoria e di gloria dei capi alimentano la sete di guadagni improvvisi e grossi degli avventurieri i quali stanno attorno al potere. Le società borghesi dove i privilegiati monopolisti concessionari di favori statali sono potenti, sono avventurose e bellicose.

 

 

Agli amatori di preda a danno dello straniero si possono opporre le sole armi che valgono contro i predoni della roba altrui a danno del compaesano e del concittadino. Quando non esisteva e là dove oggi non esiste uno stato bene organizzato, spesseggiano furti ed assassini. Che cosa hanno inventato gli uomini per tenere a segno ladri e assassini? Poliziotti, giudici e prigioni. Se non esiste lo stato, l’uomo giusto e buono deve difendersi da sé, con grande fatica e scarso risultato. Viene meno in lui la voglia di lavorare, di produrre e di risparmiare; e l’intera società immiserisce. Lo stato ha perciò assunto su di sé il compito di scegliere e stipendiare poliziotti, giudici e guardie carcerarie; sì che i buoni possano respirare, lavorare e contribuire a ridurre la miseria e a crescere il benessere universale.

 

 

Contro le carneficine ed i latrocini all’ingrosso compiuti col nome di guerre da un popolo contro un altro popolo non esiste rimedio diverso da quello di cui l’esperienza antichissima ed universale ha dimostrato l’efficacia contro gli assassini ed i furti compiuti ad uno ad uno dall’uomo contro l’uomo: la forza. Fa d’uopo esista una forza superiore agli stati singoli. Come lo stato con i poliziotti, i giudici ed i carcerieri fa stare a segno ladri ed assassini, così è necessario che una forza superiore allo stato, un superstato, faccia stare a segno gli stati intesi ad aggredire, violentare e depredare altrui.

 

 

Chi vuole la pace deve volere la federazione degli stati, la creazione di un potere superiore a quello dei singoli stati sovrani. Tutto il resto è pura chiacchiera, talvolta vana, e non di rado volta a mascherare le intenzioni di guerra e di conquista degli stati che si dichiarano pacifici. Giungiamo quindi alla medesima conclusione alla quale si era stati condotti altra volta, discorrendo della bomba atomica. Non basta gridare: abbasso la bomba atomica! viva la pace! per volere sul serio l’abbasso e il viva. Fa d’uopo volere o perlomeno conoscere qual è la condizione necessaria bastevole perché l’una e l’altra volontà non restino parole gettate al vento. Siffatta condizione si chiama forza superiore a quella degli stati sovrani, si chiama federazione di stati, si chiama super-stato. Se un giudice delle malefatte deve esistere, se l’aggressore deve essere preso per il collo e costretto a desistere dalla rapina, deve esistere una forza, uno stato superiore agli altri il quale possa farsi ubbidire dagli stati singoli, devono anzi gli stati singoli essere privati del diritto e della possibilità della guerra e della pace.

 

 

E, badisi bene, il super-stato non può essere una qualunque società delle nazioni od anche una organizzazione delle nazioni unite. Il 18 gennaio 1918 su queste stesse colonne sostenevo la tesi che l’idea della società delle nazioni – allora non ancora fondata, ma già rumorosamente propugnata da molti fantasiosi idealisti, tra i quali s’era cacciato, più rumoroso di tutti, quel Benito Mussolini che poi tanto la svillaneggiò e contribuì a distruggerla – era idea vana e destinata al fallimento. Non v’ha ragione di pensare oggi diversamente rispetto alla organizzazione che l’ha sostituita. Come i fatti mi hanno dato ragione per la società delle nazioni, così oggi tutti si avvedono che l’ONU non è efficace strumento di pace per il mondo. A che cosa serve una lega, una associazione, la quale deve ricorrere al buon volere di ognuno degli stati associati per mettere a posto lo stato malfattore recalcitrante al volere comune? Priva di forza propria militare, una società di stati è fatalmente oggetto di ludibrio e di scherno.

 

 

Sinché la Svizzera fu una semplice lega di cantoni sovrani, ognuno dei quali aveva un proprio esercito, proprie dogane e propria rappresentanza diplomatica con le potenze straniere, essa rimase soggetta ad influenze del di fuori e non possedeva vera unità nazionale. Solo nel 1848, creato finalmente dopo le tristi esperienze della guerra intestina un governo federale, abolite le dogane interne e passati dai cantoni alla confederazione il diritto di stabilire dazi al confine federale, il diritto di battere moneta, quello di mantenere un esercito e di avere rapporti con l’estero, sorse la Svizzera unita e federale. Una esperienza analoga s’era fatta due terzi di secolo innanzi in quelli che diventarono poi gli Stati Uniti d’America. Se gli Stati Uniti odierni nacquero e grandeggiarono, se nessuno minaccia la pace nel territorio della repubblica stellata, ciò è dovuto soltanto al genio di Washington e dei suoi collaboratori i quali videro che lo stato che essi avevano fondato nella guerra di liberazione era perduto se non si faceva il gran passo; se i singoli stati non rinunciavano al diritto di circondarsi di dogane, al diritto di battere moneta, a quello di mantenere un esercito proprio e di inviare all’estero una propria rappresentanza diplomatica. Rinunciando ad una parte della sovranità, i 13 stati confederati serbarono ed ancora posseggono il resto; che è il più perché riguarda i beni morali e spirituali del popolo. Il gran passo fu fatto quando la costituzione del 26 luglio 1788 ebbe cominciamento con le famose parole: We the people of the United States, noi popolo degli Stati Uniti e cioè non noi tredici stati, ma noi «il popolo intero degli Stati Uniti» abbiamo deciso di fondare una più perfetta unione. Con quelle parole, gli Stati Uniti d’America soppressero la guerra nell’interno del loro immenso territorio: creando un nuovo stato non composto di stati sovrani, ma costituito direttamente da tutto il popolo degli Stati Uniti; e superiore perciò agli stati creati dalle frazioni dello stesso popolo viventi nei territori degli stati singoli. Vano è immaginare e farneticare soluzioni intermedie. Il solo mezzo di sopprimere le guerre entro il territorio dell’Europa è di imitare l’esempio della costituzione americana del 1788, rinunciando totalmente alle sovranità militari ed al diritto di rappresentanza verso l’estero ed a parte della sovranità finanziaria. Se su questa via si deve e si potrà procedere gradatamente, siano benedette la unione doganale stipulata fra l’Olanda, il Belgio ed il Lussemburgo (Benelux) e quella firmata fra l’Italia e la Francia. Ma sia ben chiaro che si tratta appena di un cominciamento, oltre il quale dovrà farsi ben presto deciso e lungo cammino.

 

 

Quando noi dobbiamo distinguere gli amici dai nemici della pace, non fermiamoci perciò alle professioni di fede, tanto più clamorose quanto più mendaci. Chiediamo invece: volete voi conservare la piena sovranità dello stato nel quale vivete? Se sì, costui è nemico acerrimo della pace. Siete invece decisi a dar il vostro voto, il vostro appoggio soltanto a chi prometta di dar opera alla trasmissione di una parte della sovranità nazionale ad un nuovo organo detto degli Stati Uniti d’Europa? Se la risposta è affermativa e se alle parole seguono i fatti, voi potrete veramente, ma allora soltanto, dirvi fautori della pace. Il resto è menzogna.

Chi vuole la bomba atomica?

Chi vuole la bomba atomica?

«Corriere della sera», 28 marzo 1948

Chi vuole la pace? Vallecchi, Roma, pp. 11-17

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 634-638

Scritti sull’unità politica europea, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1995, pp. 55-61

 

 

 

 

Alla domanda: «sei contro l’uso della bomba atomica?» non c’è uomo al mondo che non risponda: «Sì!». Le incertezze ed i dissidi sorgono soltanto quando si continua domandando: «quale mezzo efficace proponi contro quell’uso?». Il mero divieto accettato e sottoscritto da tutti gli stati sovrani in una solenne convenzione internazionale, sarebbe quel mezzo? Suppongo che tutti si sia d’accordo nel ritenere che un patto internazionale, il quale puramente e semplicemente facesse divieto agli stati contraenti di ricorrere all’uso della bomba atomica, sarebbe uno dei tanti pezzi di carta destinati, quando sorgesse la necessità di applicarli, a finire nel cestino della cartastraccia. Un rinnovato patto Kellogg, il quale mettesse al bando dell’umanità gli stati e gli uomini rei di fabbricare e di usare la bomba atomica, sarebbe senza esitanza sottoscritto da tutti gli stati; ma non scemerebbe affatto la inquietudine da cui i popoli sono pervasi al solo pensiero che, nonostante il divieto, la fabbricazione del micidiale congegno continui, ed anzi crescerebbe il sospetto che taluno stato malintenzionato, fiducioso nella buona fede altrui, si prepari ad assaltare inopinatamente l’avversario. Non si distinguono cioè i fautori dagli avversari dell’uso della bomba atomica, per ciò solo che gli uni si rifiutino e gli altri accettino di sottoscrivere una convenzione di messa al bando dell’arma atomica. Chi abbia per avventura sottoscritto un manifesto contro l’uso della bomba atomica non ha alcuna ragione di tacciare colui che abbia rifiutato di sottoscrivere quel manifesto come nemico dell’umanità e propugnatore nefando dell’uso di questa micidialissima tra le armi. Potrebbe essere vero l’opposto: che cioè il sottoscrittore dei manifesti di bando sia, consapevolmente o no, appunto colui il quale, negando i mezzi per far osservare il divieto, di fatto è il più efficace banditore dell’uso della bomba. In questa materia, come in tale altre politiche e sociali, quel che non si vede è assai più importante di quel che si vede. Non basta scrivere sui giornali e gridare sulle piazze il proprio abominio contro la bomba atomica. Scritture e discorsi non servono a nulla, finché non si siano chiaramente indicati i mezzi sufficienti a fare osservare il divieto. Vi è un criterio in base al quale soltanto si può giudicare se alle parole corrispondano intenzioni serie, propositi decisi veramente ad allontanare dall’umanità il grande flagello. Il dilemma è: si vuole che il divieto agisca entro l’ambito della piena sovranità degli stati rinunciatari (all’uso della bomba atomica), ovvero si riconosce che il divieto presuppone una rinuncia alla sovranità medesima? Questa è la cote alla quale fa d’uopo saggiare la serenità e la sincerità dei propositi di coloro i quali affermano di essere contrari all’uso, della bomba atomica.

 

 

Se si parte dalla premessa di conservare la sovranità piena degli stati firmatari, è inutile procedere oltre. Quel patto sarebbe ipocrita e servirebbe soltanto ad alimentare sospetti e ad accelerare il fatale cammino verso la distruzione della civiltà umana. Inutile far seguire al bando la promessa di ogni singolo stato di non fabbricare l’arma vietata; vanissima la cerimonia della distruzione delle bombe esistenti; arcivana la obbligazione sottoscritta di lasciar ispezionare le proprie fabbriche da commissioni di periti internazionali, incaricati di andar cercando sospette fabbricazioni di prodotti atti ad essere poi insieme combinati per ottenere la deprecata arma. Pattuizioni, promesse, obbligazioni cosiffatte furono già sperimentate dopo la prima grande guerra contro la Germania vinta, e non impedirono che dieci anni fa la Germania si presentasse al mondo formidabilmente armata, anzi armatissima, in mezzo a nazioni quasi disarmate. Quale speranza v’ha di impedire ricerche, sperimenti, successi e fabbricazioni nei territori, talvolta vastissimi, spesso inaccessibili di taluni dei grandi stati moderni? Quale probabilità avrebbero quei disgraziati investigatori di avere effettivo accesso agli stabilimenti produttori, contro le mille arti con le quali uno stato sovrano può impedire che lo straniero sul serio indaghi, verifichi, si accorga in tempo del pericolo e lo denunci? Farebbe d’uopo immaginare che lo stato sovrano effettivamente rinunci, per convinzione unanime dei suoi cittadini, all’idea di servirsi di quell’arma; ma subito si vede trattarsi di una farneticazione irreale. Si può forse evitare che non sia universalmente riconosciuta ed affermata la necessità di proseguire e perfezionare gli studi sull’atomo a scopi scientifici ed industriali? Troppo promettenti sono le indagini e le scoperte in tal campo, perché dappertutto non si cerchi di non rimanere ultimi nella stupenda gara. Ma la gara volta a beneficio degli uomini è fatalmente congiunta con quella volta al loro sterminio. Come sarebbe possibile ai futuri ispettori dell’ONU o di altro consimile consesso di accertarsi, arrivando improvvisi sul luogo del meditato delitto, se un processo, se un impianto volto a fin di bene, non sia usato nascostamente a scopi bellici? Farebbe d’uopo che gli ispettori fossero essi stessi fabbricanti di bombe atomiche; appartenessero cioè ad organizzazioni segretamente mantenute da stati malfattori, ed intese a produrre bombe distruttive invece di energie benefiche. Soltanto coloro che fabbricano il prodotto proibito ne conoscono i segreti di fabbricazione; laddove gli ispettori internazionali conoscerebbero solo i processi leciti, quelli che conducono ad ottenere prodotti vantaggiosi all’avanzamento industriale. Vi ha qualche minima probabilità che lo stato contravventore impresti i propri tecnici, periti nelle fabbricazioni proibite, al corpo di ispettori internazionali incaricati di reprimere l’illecito?

 

 

Giuocoforza è riconoscere che, finché si rimanga nei confini del concetto degli stati sovrani, la proibizione dell’arma atomica è pura utopia. Poiché ogni stato sovrano ha il diritto, ha il dovere di vivere e di difendersi: proibizioni ed ispezioni servirebbero solo a tessere reciproci inganni, ad accelerare ricerche, a moltiplicare sperimenti, allo scopo di essere i primi a possedere le bombe sufficienti per prendere alla sprovveduta il nemico.

 

 

Il problema non si supera se non con la rinuncia alla sovranità militare da parte dei singoli stati. Vi è forse qualcuno dei venticinque cantoni e mezzi cantoni svizzeri o dei quarantotto stati nord-americani il quale abbia la menoma preoccupazione per l’uso eventuale della bomba atomica da parte di uno dei confederati? No; perché nessuno dei cantoni svizzeri o degli stati nord-americani ha una qualsiasi potestà militare, la quale spetta unicamente alla confederazione. Le armi, siano palesi o segrete, sono studiate perfezionate fabbricate conservate dall’unico governo federale; ed i cantoni e gli stati, privi di organizzazione militare propria, non hanno la possibilità di meditare ed attuare biechi disegni contro altri cantoni o stati facenti parte del medesimo corpo sovrano.

 

Su questa via sta l’unica speranza di salvezza. È una via lunga; ma occorre cominciare a percorrerla, se non si vuol perdere tempo in diatribe inutili od in camuffamenti ipocriti di propositi malevoli. Non giova delegare ad ispettori internazionali compiti assurdi; importa che gli ispettori siano anche i soli produttori. La prima esigenza è quella del trasferimento ad un corpo internazionale, ad un vero superstato, sia pure per il momento limitato nei suoi scopi del possesso di tutte le materie prime, di tutti i giacimenti di minerali atti alla produzione della bomba atomica. Nessuna fabbrica dovrebbe esistere fuor di quelle appartenenti all’ente internazionale atomico, il quale dovrebbe trarre il suo personale da tutti gli stati aderenti in condizioni di parità. Ma gli uomini appartenenti al corpo non sarebbero più funzionari americani o russi o inglesi od italiani o francesi ecc.; sarebbero funzionari dell’ente e legati da vincoli di fedeltà ad esso solo. Costoro, essendo parte di un ente produttore della bomba atomica e necessariamente periti nella conoscenza del punto nel quale la fabbricazione cessa di essere industriale e lecita e diventa bellica (sembra che un siffatto momento o punto esista e sia accertabile), non sarebbero dei meri ispettori spesso incapaci a penetrare nei segreti altrui; ma autori e partecipanti dei nuovissimi procedimenti tecnici, dei segreti più impensati e sarebbero in grado, in quanto ciò si possa sperare, di comprendere se in uno degli stati consociati si proceda oltre il punto lecito, sì da poter denunciare alla società degli stati firmatari il pericolo e dar tempo ad essa di reprimerlo. E poiché tra il momento in cui nella fabbricazione si valica il punto lecito e quello in cui la maledetta bomba atomica è perfetta pare intercorra oggi un tempo abbastanza lungo, gli stati innocenti, avvertiti della minaccia proveniente dallo stato malvagio, avrebbero il tempo di accingersi essi stessi alla produzione di bombe adatte alla controffesa.

 

 

Chi darà forza al corpo internazionale monopolista dei giacimenti di materie atte a fabbricare bombe atomiche? Monopolista della utilizzazione a scopi industriali di quella materia, od almeno controllore di quella utilizzazione? Chi vieterà ai singoli stati sovrani di impadronirsi delle fabbriche atomiche esistenti sul loro territorio e di nascondere l’esistenza di giacimenti atti a produrre le necessarie materie prime? Ardue domande; che occorre candidamente porci se vogliamo risolvere il problema della pace. Per ora ho cercato solo di dimostrare che un patto internazionale di bando della bomba atomica è proposito vano e probabilmente ipocrita; che altrettanto vano sarebbe un patto che, conservando la sovranità militare dei singoli stati, facesse ingenuo affidamento su un corpo di ispettori internazionali; e che condizione necessaria per la repressione dell’uso della bomba atomica è il trasferimento della proprietà e dell’impiego di tutto ciò che serve alla sua produzione ad un ente internazionale superiore ai singoli stati.

 

 

Ma è condizione possibile ed è essa sufficiente?

Il mito del colossale

Il mito del colossale

«Corriere della Sera», 29 febbraio 1948

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 355-359

 

 

 

 

Nessuna profezia è stata meglio contraddetta dai fatti di quella che venne di moda nelle pubblicazioni divulgative popolari del manifesto dei comunisti del febbraio 1848. La società capitalistica morirà di morte naturale, senza spargimento di sangue. Quando le medie imprese, producendo a più basso costo, avranno ingoiato le piccole; quando, per la stessa ragione, le grosse avranno distrutte le medie imprese, le grossissime le grosse e le colossali le grossissime; quando, in nome e per effetto della maggiore economicità e del più basso prezzo, alcune fra le colossali avranno conquistato l’intiero proprio mercato, basterà ai rappresentanti della grandissima maggioranza dei cittadini in ciascun paese mettere in pensione, anche con largo appannaggio, i pochi capitani e proprietari delle noverate colossali imprese superstiti, perché la società capitalistica si trasmuti in collettivistica. La sostituzione di una dozzina di imprenditori privati con altrettanti direttori generali nazionalizzati avverrà senza che quasi nessuno se ne accorga; nulla essendo sostanzialmente mutato nella struttura della società economica e nei rapporti fra le classi sociali.

 

 

Qualche attuazione della profezia si ebbe qua e là, in casi particolari, non per via del colossale, bensì di caratteristiche tecniche peculiari di talune industrie. Ad esempio, il nostro paese fu tra i primi a nazionalizzare l’istituto di emissione, estromettendo con indennizzo i vecchi azionisti ed affidando al governo la scelta dei capi della banca d’Italia; seguì la Francia, ed i due paesi latini furono recentemente imitati in Inghilterra.

 

 

Ma i casi sono rari e non probanti. Altre ragioni: la natura pubblica dell’industria, i suoi caratteri monopolistici, il tipo di prodotti fabbricati, come biglietti di banca ovvero cannoni e corazzate, spiegano siffatte nazionalizzazioni. Il “colossale” agì scarsamente ed agì a rovescio; come quando in Italia talune imprese, divenute nel tempo stesso grosse e decotte, dovettero essere accolte in un ospedale di stato, per ragioni d’ordine pubblico. Siffatta ragione, che è il contrario del basso costo, dura tuttavia e lo stato è “minacciato” ogni tanto di dovere accollarsi nuove imprese private, non perché la nazionalizzazione sia conveniente economicamente o socialmente, ma perché quelle imprese sono economicamente in stato fallimentare, e dicesi che allo stato faccia d’uopo assumerle, ben sapendo che le perdite cresceranno, allo scopo di serbare le maestranze al lavoro a spese di altri più numerosi e più miserabili lavoratori. Col quale metodo crescono povertà e disoccupazione.

 

 

Ma non v’ha segno veruno che la profezia del colossale “economico”, del colossale, schiacciante con l’arma dei bassi costi i grossissimi, i grossi, i medi ed i piccoli, stia per avverarsi. Non parliamo dell’Italia, terra classica di piccola gente, di tredici milioni di proprietari di terreni agricoli, più di uno per ogni famiglia, e di non so quanti milioni di proprietari di case, di medi e di piccoli industriali, di commercianti e bottegai, di artigiani indipendenti , sicché il numero dei cosiddetti capitalisti (parola questa spropositata e lontanissima dal raffigurare la realtà effettuale dei rapporti sociali) è superiore a quello dei cosidetti proletari (altra parola anacronistica); ma dove di palingenesi spontanea del capitalismo, destinato un secolo fa a diventare un mostro a sette teste che il nuovissimo gigante collettivo d’un colpo avrebbe tagliate, non v’ha traccia.

 

 

In tutto il mondo, dove ad ucciderla non si impieghi la forza coattiva delle forze armate dello stato, la media e la piccola gente è dura a morire; e quel che più conta, nonostante sia vessata da imposte differenziali, torturata da divieti, permessi, contingenti ed altre diavolerie inventate dagli amatori delle discipline e dei piani imposti dall’alto, resiste e prospera contro i colossi. Se talvolta i colossi trionfano, per lo più – vi sono eccezioni, ma sono numerate ciò accade non per virtù propria, ma grazie a privilegi e favori largiti dalla buona gente, la quale va farneticando intorno alla necessità di provvedere all’interesse ed al bene pubblico invece che al profitto privato e quasi sempre è vittima inconsapevole di chi architetta imbrogli a danno del prossimo.

 

 

Egli è che troppo si è dissertato nei trattati della scienza economica di quelle che sono chiamate nel linguaggio divenuto internazionale «economies of large scale’s production», economie che si possono ottenere producendo in dimensioni più vaste; e sarebbe tempo di studiare invece più attentamente le «diseconomies», gli aumenti di costo che derivano dall’aumentare, oltre ad un certo punto, le dimensioni dell’impresa. Troppo ci si è contentati di ripetere stupidi luoghi comuni sulle economie che si possono ottenere con l’aumentare le dimensioni dell’impresa e quindi col distribuire, dicesi, le spese generali e fisse su una massa maggiore di prodotti; e troppo ci si è scordati di quella faccenda del «sino ad un certo punto» che è la chiave di volta della soluzione del problema, non della più grossa dimensione, ma della “ottima” dimensione dell’impresa. Quei tali luoghi comuni sulla «large scale» che tengono così gran luogo ad un tempo in certi manuali scolastici e in opuscoli di propaganda collettivistica, dovrebbero essere soppiantati da indagini sul luogo della “ottima” impresa. Quel che si sa ci induce a concludere che quel luogo non sta esclusivamente, né nella piccola, né nella media, né nella grande o nella colossale impresa. Di volta in volta, di tempo in tempo, di luogo in luogo il punto od il momento dell’ “ottimo” si ferma su tutti i tipi di dimensioni. Non è lo stesso in pianura, in collina, o in montagna; non è lo stesso nei terreni irrigati od in quelli aridi; non è lo stesso nelle culture cerealicole o foraggere o nelle due insieme combinate, nei vigneti o negli oliveti e negli agrumeti. Non è lo stesso nell’industria di produzione ed in quella di distribuzione dell’energia elettrica; e, per questa, varia dalle agglomerazioni cittadine a quelle di campagna; e così via all’infinito.

 

 

Sovratutto non bisogna dimenticare che il maggior limite al grosso, al grossissimo ed al colossale è dato dal limitato potere del cervello e della volontà dell’uomo. Si possono ingrossare capannoni, treni di lavorazione, macchinari; ma il cervello e la volontà dell’uomo, la sua attitudine a vedere, a comprendere, ad organizzare ed a comandare sono quello che sono e non crescono nella stessa misura in cui si ingrossano gli impianti industriali. Val la pena di ascoltare quel che sino dal 1925 dichiarava ai suoi azionisti il presidente della General Motors Corporation, uno dei colossi industriali degli Stati Uniti, la quale normalmente impiega 250.000 persone: «Praticamente in tutti i nostri rami di attività noi soffriamo di quell’inerzia che è conseguenza delle nostre grandi dimensioni. È duro per noi trasformare in azione le idee che ci sembrano buone. Bisogna agire attraverso a tanta gente; e uno sforzo sovrumano (tremendous) è necessario per realizzare qualcosa di nuovo. Talvolta sono costretto a concludere che la General Motors è così vasta e la sua forza di inerzia così grande da rendere impossibile a noi di agire veramente come capi».

 

 

D’allora in poi la General Motors ha fatto sforzi notabili per controbilanciare i danni del colossale. Ha decentralizzato, ha spronato le sue trenta sezioni ad agire in modo autonomo, a farsi concorrenza l’un l’altra, a comprare ed a vendere da o ad estranei, a fare il meno possibile piani e programmi dall’alto. Qualche risultato sembra si sia ottenuto e pare anche che la società disputi passo a passo con un certo successo il terreno ai minori concorrenti. Ma il difetto dell’elefantiasi rimane. Più crescono le dimensioni dell’impresa, più il dirigente vede disperdere l’impulso del suo comando attraverso direttori, vice direttori, ispettori e sotto ispettori. Quel comando, quell’indirizzo, quel piano che nell’impresa governabile da un uomo solo non costa nulla, perché è il frutto immediato del cervello e della volontà di un uomo, diventa costoso quando deve attuarsi attraverso telefonate, lettere, ispezioni, scritturazioni contabili complicate, carte che vanno e vengono. Cresce il numero dei lavoratori non manuali, delle maniche con lustrino; e ad un certo punto – quel tale certo punto che è il dominus del problema delle dimensioni – la macchina dà rendimenti decrescenti. Ad un certo momento, scrive Dennison, non basta decentrare. Si presenta la scelta fra il “coordinare”, col rischio di restringere il margine lasciato all’iniziativa individuale, con i conseguenti pericoli di inerzia e di atrofia; ed il “decentrare” ed allora si evitano siffatti pericoli, ma nascono rischi di spreco e mala amministrazione per la mancanza di controllo da parte di coloro che soli hanno interesse a volere si facciano sul serio economie.

 

 

Coloro che chiacchierano di programmi generali, di coordinazione pianificata fra industria ed industria, fra regione e regione, fra paese e paese; che immaginano stravagantemente che le nazionalizzazioni siano una panacea per i mali sociali ed uno strumento per crescere la produzione dei beni e migliorarne la distribuzione, dovrebbero riflettere sull’insuccesso del colossale nell’economia e sui pericoli dell’inerzia dei colossi. Insuccessi e pericoli crescono a mille doppi in quel più vero colosso che è la macchina statale. Per il leviatano statale non si tratta soltanto di inerzia, la quale per fortuna, nei limiti nei quali agisce ancora l’economia di mercato, è combattuta dal fallimento del colosso e dalla vittoria dei concorrenti. Quando la macchina statale diventa colossale, non c’è solo più inerzia; nasce la ossificazione della società intera. Invece dell’inerzia limitata dal fallimento, c’è la tirannia, a cui nei tempi moderni il solo rimedio è la guerra sfortunata. Sullo sfondo delle nazionalizzazioni e dei piani si intravvede lo spettro della disfatta e della servitù.

Non cantabit

Non cantabit

«Corriere della Sera», 9 dicembre 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 350-354

 

 

 

 

Cantabit vacuus coram latrone viator. Ride cantando o canta ridendo il viandante sorpreso senza un soldo sulla strada maestra dal malandrino. Quando non si ha in tasca nemmeno l’orologio, e gli abiti non val la pena di portarli via, viandante e brigante possono darsi la mano ed andar ciascuno con Dio. Dionigi il Vecchio, tiranno di Siracusa, ad ogni stringimento di vite delle imposte mandava gli informatori per i crocicchi e per le piazze e finché le spie gli riferirono che i siracusani camminavano mesti ed irosi gli uni contro gli altri, seguitò a crescere i giri della vite. Solo quando, dopo il bando di nuovo feroce balzello, gli informatori gli raccontarono, stupefatti, di aver visto i cittadini incontrarsi ed abbracciarsi con ilare viso, pronunciò: «Ora basta! È chiaro che oramai nulla resta, per i miei esattori, da portar via ai cittadini».

 

 

Si può, oggi, prestare fede alla sapienza dei broccardi venerandi ed a quella dei racconti di Plutarco? Ahimè no, od almeno non gli può prestar fede il personaggio più nudo fra quanti viandanti errano, coperti di pochi drappi, per le vie della terra. Quel personaggio, si chiami, a seconda dei paesi e dei tempi, ministro delle finanze o del tesoro o del bilancio, se ne va oggi, un po’ dappertutto, povero e nudo e dovrebbe reputare di essere al sicuro dalle domande timide o minacciose dei suoi simili; chi nulla ha, che cosa può dare? A chi può unicamente rammostrare i 300 miliardi di disavanzo del bilancio pubblico che cosa si può chiedere? A chi possiede soltanto ricchezze o quantità che in aritmetica si dicono negative, od allinea costantemente da qualche mese nei saldi della sua contabilità cifre rosse; a chi sta cioè sotto zero, c’è qualcuno il quale osi chiedere, nonché miliardi, centinaia o migliaia di lire?

 

 

Eppure no. Quel che al misero uomo privato nessuno chiede, tutti chiedono al misero uomo pubblico. Accade per i denari quel che per i posti. Invano ti sforzi a spiegare al postulante che quell’istituto, che quella banca, che quell’ufficio non ha posti vacanti, che anzi vi sono più impiegati di quel che vi siano sedie disponibili, che v’è ingombro e sarebbe necessario licenziare gente per non perdere o per non fare acrobazie allo scopo di dimostrare di non perdere; che, a continuar su questa china, ben presto non si potranno più pagare stipendi e salari perché in cassa non ci sarà più un soldo, né si potrà più accattare una lira a prestito; tempo perso. Il postulante strizza l’occhio e replica: se lei vuole, può; a me basta un posto solo, un piccolo impiego, che basti a campare; siamo in tanti in casa ed il guadagno del padre non basta a sfamar tutti; un impiego di più non manda in rovina una casa così grossa, su cui vivono tante migliaia di impiegati. Viene in mente la favola dell’asino di cui la soma è caricata di un granello solo per volta. E così piccola cosa un chicco di grano! Eppure alla fine l’asino paziente stramazza a terra, per non alzarsi più.

 

 

Così è del bilancio dello stato. Non giova rammostrare i 300 miliardi di disavanzo, ricordare quel che dovrebbe essere evidente per tutti, non essere cioè un buco, un vuoto, una quantità negativa, un meno che zero materia interessante per nessuno. Acqua fresca che passa e non lascia traccia. I più benevoli strizzano l’occhio e: milione più milione meno, scusate l’errore: miliardo più miliardo meno non conta; potete aggiungere senza timore una unità al buco dei 300. I più impazienti inviano telegrammi furibondi, minacciosi di rappresaglie immediate se subito non si ubbidisce al comando di allargare il buco.

 

 

Se Tizio viene richiesto dall’amico di trarre a favor suo un assegno sul proprio conto corrente che ha già il saldo scritto in rosso, Tizio agevolmente si difende osservando di non volere, traendo un assegno a vuoto, andare in galera al solo scopo di usare compiacenza. Ma tuttodì siffatte richieste di trarre assegni a vuoto sono fatte ai tesorieri dello stato. Capitò in un solo giorno ad uno di costoro di vedersi presentare domanda di assegni a vuoto per 52 miliardi. Pochi, gli osservò un collega. Se si addizionano le cifre di parecchi giorni, si arrivi a montanti ben più grossi.

 

 

Come accade che gente per bene, la quale guarderebbe con orrore alla mera supposizione di potere per errore mettere la firma sotto un assegno tirato sopra una banca, senza essere sicuri di possedere i fondi necessari ad onorare l’assegno, come accade che questi dabbenuomini non si facciano alcuno scrupolo di richiedere e poi insistere nel richiedere e quindi gridare e minacciare se il tesoriere dello stato non si arrende subito, con entusiasmo, all’invito di commettere quel che per l’individuo sarebbe sicuramente un reato? Come accade che tutti strizzino l’occhio, guardino senza commuoversi la filza dei saldi scritti in rosso e concludano unanimi: poiché si fece trenta, si faccia trentuno. Un piccolo miliardetto, una piccola decina di miliardi in più non fa né ficca. Dopo il trenta viene il trentuno; se si sono dati miliardi per il nord, se ne devono dare per il sud; se si sono dati per le meccaniche, bisogna darli per l’olio che non si vende neppure ai prezzi d’ammasso; per la seta che non si vende affatto e su cui i setaioli perdono 3000 lire al chilogrammo; per le piccole e medie aziende, le quali non sono pagate dalle grosse; per gli artigiani i quali veggono i clienti disertare i loro laboratori; per gli agricoltori posti di fronte al rovinio dei prezzi del bestiame che debbono mandare al macello, perché i fienili sono paurosamente scarsi di fieno e così via dicendo.

 

 

Come accada che nessuno abbia la minima esitazione nel chiedere ai tesorieri dello stato di trarre assegni a vuoto su un conto corrente con saldo in rosso, ossia negativo, è notissimo. Esiste invero una differenza fondamentale fra il privato e lo stato. Il privato non può obbligare nessuno a pigliar sul serio i suoi assegni a vuoto; anzi se tenta il colpo corre il rischio di essere acciuffato e condotto a guardare il sole a scacchi. Ma gli assegni sul disavanzo, emessi dal tesoriere dello stato, si chiamano biglietti della Banca d’Italia ed hanno il privilegio del corso forzoso. I cittadini, il signor pubblico, il signor tutto il mondo, sono obbligati ad accettare in pagamento dei loro crediti gli assegni tirati dallo stato sui torchi della Banca d’Italia. Eccetto brevi intervalli, noi viviamo in regime di corso forzoso dei biglietti di banca sino dal 1866; e si può riconoscere l’impossibilità di presto uscirne; anzi si può riconoscere che il regime possa funzionare abbastanza bene, risparmiando al paese la fatica occorrente per cambiar metodo e ritornare al regime aureo, ed ancora si può ammettere che entro limiti prudenziali, si possa e talvolta si debba nell’interesse pubblico procedere, con i biglietti, a salvataggi di questa o quella impresa industriale od agricola o bancaria. Tanti anni fa, Maffeo Pantaleoni, acutissimo analizzatore dei disastri economici, in uno stupendo saggio su La caduta del credito mobiliare scrisse la teoria dei salvataggi; ed a quel che egli disse nulla vi è da aggiungere. Salvataggi se ne possono e se ne debbono fare in ogni momento storico, quando sia in gioco l’interesse pubblico.

 

 

Ad una condizione: che coloro i quali chiedono e coloro i quali autorizzano i salvataggi sappiano di commettere un atto moralmente condannabile, socialmente iniquo ed economicamente pericoloso. Posti dinnanzi alla scelta fra il pericolo immediato per l’ordine pubblico ed il male, ci si può decidere per il male; purché chi chiede e chi concede sappiano di chiedere e concedere il male.

 

 

Aumentare consapevolmente e volutamente la circolazione dei biglietti allo scopo di correre al salvataggio di questa o quella impresa pericolante, la quale non può pagare l’indomani i salari e non li può pagare, – in parte quale parte? – a causa di quel divieto dei licenziamenti, che è oggi il massimo produttore in Italia di disoccupazione operaia, ed in parte a causa di errori commessi in passato dai dirigenti, può essere e, in determinati casi, è una necessità politica; ma coloro i quali si sottomettono alla necessità debbono aver ben chiaro in mente che essi commettono un atto:

 

 

  • moralmente condannabile, perché è male trarre assegni a vuoto ed il male morale non cessa di essere tale solo perché compiuto dall’uomo pubblico invece che dal privato;

 

  • socialmente iniquo, perché la svalutazione della moneta, conseguente all’aumento della circolazione a scopo di salvataggio, va massimamente a danno delle classi non organizzate, dei ceti medi dei risparmiatori e dei lavoratori indifesi e, tra i lavoratori, di quelli peggio pagati;

 

  • economicamente pericoloso, perché con le emissioni a vuoto di pezzi di carta si tamponano per il momento le falle più pericolose negli argini del fiume in piena; ma il livello della piena continua perciò a crescere ed il tamponamento degli argini diventa di giorno in giorno più difficile.

 

 

Giova compiere un atto, sapendo che esso è moralmente condannabile, socialmente iniquo, ed economicamente pericoloso? Non so se il quesito sia ben posto di fronte ad un atto, il quale politicamente sia ritenuto necessario per la salvaguardia dell’ordine pubblico, supremo compito dello stato, di qualunque stato. Mi pare certissimo però che giovi sapere, nel momento dell’inchinarsi alla necessità, di compiere un atto il quale ha i connotati morali, sociali ed economici sopra elencati. Giova in quel momento non illudersi sulla natura di ciò che si fa, non immaginare di fare invece cosa buona, socialmente giusta ed economicamente vantaggiosa. Chi chiede salvataggi, li presenta sempre con l’orpello di false virtù e trova sempre patroni disposti ad avallare con sofismi inverecondi la tesi contraria alla morale ed alla economia. La consapevolezza del male compiuto può dunque porre freni al male medesimo, conseguendo così quel migliore risultato a cui, nell’ordine delle cose possibili, è consentito ai miseri mortali di aspirare.

Assemblea plenaria dei Comitati nazionali del Consiglio nazionale delle ricerche (15 dicembre 1947). Discorso dell’on. prof. Luigi Einaudi

Assemblea plenaria dei Comitati nazionali del Consiglio nazionale delle ricerche (15 dicembre 1947). Discorso dell’on. prof. Luigi Einaudi

«Ricerca scientifica e ricostruzione», dicembre 1947, pp. 1932-1933

In estratto: Spoleto, S. a. Arti grafiche Panetto & Petrelli, 1947, pp. 19-20

 

Chi vuole la disoccupazione?

Chi vuole la disoccupazione?

«Corriere della Sera», 12 novembre 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 345-350

 

 

 

 

Evidentemente, nessuno. Ma nel combatterla, si è tratti a percorrere la via più facile, quella che si vede subito, che appare la più plausibile, ad effetto immediato e certo. L’industriale licenzia operai? Obblighiamolo per legge ad astenersene, ed ecco creato il blocco dei licenziamenti. L’agricoltore non impiega i braccianti senza lavoro in lavori di miglioria o di bonifica? Obblighiamolo ad assumere, a seconda delle culture, un dato numero di braccianti per ettaro. Ecco l’imponibile della mano d’opera. Gli uomini stanno a casa, mentre le donne, pagate a salario più basso, sono occupate? Limitiamo la proporzione delle donne agli uomini negli impieghi. Reduci, mutilati, invalidi sono senza lavoro? Stabiliamo una percentuale obbligatoria di impiego a loro favore nelle imprese aventi più di 10 ovvero 20 o 50 dipendenti. C’è chi lavora 48 ore e fa, in aggiunta, ore straordinarie, e chi non lavora affatto? Fissiamo un massimo di 40 ore di lavoro per tutti; cosicché i disoccupati possano essere assorbiti dalle ore rimaste libere.

 

 

Sono, queste, norme umanitarie, che si raccomandano per la immediatezza dei loro effetti, ed innanzi alle quali si fa brutta figura a rimanere scettici. Purtroppo, però, è noto da gran tempo, almeno da quando, or è un secolo, Federico Bastiat scrisse con quel titolo un opuscolo famoso, è noto essere, nelle cose economiche, molto più importante quel che non si vede di quel che si vede. Di solito subito si vede il lato buono, umano delle cose e ci si dimentica del brutto e del dannoso che c’è sotto; ma, trascorso poco tempo, quel che c’è di malefico vien fuori ed allora coloro stessi i quali avevano voluto la causa del male gridano… contro chi? Non, come dovrebbero, contro se stessi; sibbene contro le solite teste di turco dette reazionari, capitalisti, speculatori, sfruttatori, economisti dottrinari sicofanti della borghesia.

 

 

Ove si voglia ragionare, fa d’uopo affermare che blocco dei licenziamenti, imponibile di mano d’opera, obblighi di assunzione di una determinata categoria o quantità di uomini o donne sono varietà particolari di una specie più ampia: ossia delle “imposte” il cui provento sia destinato a sovvenire i disoccupati. Invece di istituire un’imposta di ammontare sufficiente a mantenere, ad esempio, un milione di disoccupati che le imprese industriali o agricole non hanno convenienza ad impiegare e di usare provento dell’imposta per dare sussidi ai disoccupati ovvero per fare da essi eseguire lavori pubblici o di bonifica, si dice ai singoli imprenditori industriali ed agricoli: tu paga il salario a 100, tu a 1000 e tu a 5000 operai in più di quelli che ti occorrono, cosicché, tra tutti insieme, il milione di lavoratori non sia buttato sul lastrico.

 

 

Quale dei due metodi è relativamente migliore? Non dico assolutamente ottimo, perché l’ottimo si ha quando, senza imposte di sorta veruna, non ci sono disoccupati. Ma se per disgrazia i disoccupati esistono, quale dei due metodi si deve preferire, pur sapendo che amendue soffrono di inconvenienti ed incontrano ostacoli? Col sistema dell’imposta propriamente detta, il legislatore sceglierà quella che appaia meglio distribuita sui contribuenti in grado di pagarla e, trattandosi di un fine – lotta contro la disoccupazione – interessante tutta la collettività, l’imposta sarà fatta cadere non soltanto sugli imprenditori industriali ed agricoli i quali capitano a lavorare nei luoghi dove vivono i disoccupati, ma su tutti i datori di lavoro i quali abbiano redditi passibili di imposta. Dal punto di vista della equa, della giusta distribuzione delle imposte, non si vede la ragione per la quale quel particolare ammontare di imposta, il quale serve a conseguire il fine pubblico della lotta contro la disoccupazione, debba essere fatto gravare esclusivamente su quelle imprese nel cui seno e nata la disoccupazione, e non su tutti i membri della collettività nazionale giudicati atti a pagare imposte. Per opinare diversamente, sarebbe necessario dimostrare che gli imprenditori singoli sono responsabili, essi e non altri, del fatto che i loro operai sono rimasti senza lavoro. Naturalmente qui non si parla di responsabilità derivanti da altre cause diverse dal blocco dei licenziamenti e simili provvidenze legislative. Se un’impresa va male per incapacità dei dirigenti, per irrazionale programma di lavoro, per eccesso di immobilizzazioni e simili, le sanzioni sono in Russia l’invio in Siberia, e nei paesi occidentali la dichiarazione di fallimento o, nei casi dolosi, di bancarotta fraudolenta, con relative sanzioni penali. Non di questi casi si discorre qui; ma di quelli nei quali la disoccupazione sia connessa a fatti generali economici, quali sono costi alti, difficoltà di vendere, chiusure di mercati e simili. Non è escluso che talvolta possa dimostrarsi che la colpa della mancanza di lavoro è dovuta, anche in questi casi, esclusivamente agli imprenditori; ma sembra difficilissimo fornire in molti casi la necessaria prova, essendo contrario al buon senso che un imprenditore licenzi l’operaio se e finché il prodotto netto del lavoro dell’operaio medesimo sia uguale al salario pagato. Logicamente, l’imprenditore si decide a licenziare l’operaio solo quando il prodotto netto di questo vale solo 8 o 9 contro un costo di salario 10, e quando dopo lungo attendere non spera più che le cose si possano in qualche modo o tempo aggiustare ed i ricavi coprano di nuovo le spese. Finché si guadagna qualcosa, anche poco, od almeno non si perde, è assurdo che le imprese licenzino chi collabora con esse nel guadagnare od alla peggio, in attesa di tempi migliori, nel sopravvivere.

 

 

La ripartizione dell’imposta per la lotta contro la disoccupazione sui singoli imprenditori collegati con il fatto lamentato è dunque contraria alle regole fondamentali della perequazione tributaria; e, come tutte le violazioni di quelle regole, partorisce mali effetti. L’esistenza della sperequazione è anzi per lo più messa in luce dai suoi effetti malvagi. Non sono poche invero le imposte che il legislatore ha proclamato sagge ed eque e che l’esperienza dei cattivi risultati dimostra essere invece scempie ed inique.

 

 

Quali sono i mali effetti dei tipi di imposte in natura dianzi noverati aventi lo scopo di promuovere occupazione?

 

 

In primo luogo l’aumento del costo di produzione delle merci e derrate prodotte negli opifici dove il blocco dei licenziamenti costringe ad impiegare un numero notabile di operai in soprannumero. Sembra vero che in qualche paese del mondo, per ogni commessa di costruzioni di nuove navi a gran fatica strappata all’estero, si perdano fior di miliardi perché su quella nave gravano i costi dei lavoratori necessari e di quelli inutili; e poiché i clienti esteri pagano per la nave i prezzi di concorrenza sul mercato mondiale e non sono affatto disposti a pagarla il doppio del prezzo corrente solo per consentire a un certo numero di operai e di impiegati e di dirigenti di tirar la paga senza contribuire alla produzione, così accade che la farsa non può continuare a lungo. Finché si trova il merlo – chiamato in linguaggio nobile “stato” ed in linguaggio volgare pantalon dei bisognosi disposto a regalare i miliardi per tappare i buchi, si tira innanzi. Ma i nodi debbono pure un bel giorno venire al pettine; ossia si deve alla perfino riconoscere che il sistema dei costi artificialmente alti non può durare. Quando il merlo contribuente si rifiuta a pagare, la baracca si sfascia; l’impresa è decotta ed invece di 10 mila i disoccupati diventano 20 o 25 mila.

 

 

Se in una accademia o in una università c’è un accademico o un professore in soprannumero, il male finisce lì. Gli accademici, i quali in mancanza di assegno si contentano dappertutto di far parte di un corpo rigorosamente numerato, avranno il danno che l’onere, invece di ripartirsi su soli 40, si ripartirà su 41. Il professore in soprannumero dovrà cercarsi faticosamente gli studenti che lo stiano ad ascoltare, e potrà anche darsi che lo sforzo sia fecondo di bene. La macchina accademica od universitaria, se i soprannumero sono pochi, non è tuttavia guasta. Seguita a lavorare. I guai cominciano quando i soprannumero crescono a 10 od a 20. Costoro guatano in cagnesco gli anziani, nel subconscio ne augurano la dipartita anzi tempo od almeno la messa a riposo. Nascono e crescono i pettegolezzi e le discordie; e, se gli studenti se ne accorgono, la scuola va in rovina per indisciplina e rilassatezza.

 

 

Cosi è negli opifici. I lavoratori in soprannumero crescono i costi per un doppio verso: per il costo dei salari ad essi pagati a vuoto e per il disordine che essi creano nell’intero meccanismo. Se in un reparto bastano 100 fra dirigenti sovrastanti e lavoratori ed il loro prodotto netto, tolte le materie prime e gli altri coefficienti di costo, è 100.000; ove il numero cresca a 150, il prodotto non cresce né a 120.000 né a 150 mila, anzi probabilmente scema ad 80.000. L’inutile affollamento partorisce mala distribuzione del lavoro, ingombro, disordine, istintiva riduzione della assiduità e rendimento del lavoro; ognuno temendo, se lavora bene, di far palese l’inutilità dei soprannumero e forse di se stesso. Impossibile mantenere la disciplina. I capi, costretti a cercar lavoro purchessia, anche a perdita, per tenere occupata tanta gente, si avviliscono; ed i migliori se ne vanno, lasciando sul posto gli scoraggiati e gli ambiziosi carrieristi, proni ai voleri dei dipendenti più rumorosi, i quali temono di essere eliminati in caso di riordinamento. Ad un certo punto, hanno ragione gli operai, i quali affermano che l’impresa potrebbe rifiorire se fosse meglio organizzata: ma trattasi di un circolo vizioso, dal quale non si esce se non eliminando dirigenti deboli e lavoratori in soprannumero.

 

 

Se questi sono i tristi effetti delle imposte speciali, che si potrebbero dire in natura, fatte pagare ai singoli imprenditori, invece che alla collettività, la conclusione è chiara: i tipi di imposte detti blocco dei licenziamenti, imponibili di mano d’opera, ecc. ecc., sono cagione di alti costi. E poiché “alti costi” sono “sinonimi”, sono un’altra parola per indicare il fatto di produzione scarsa a parità di sforzi umani; e poiché “produzione scarsa a parità di sforzo” è a sua volta “sinonimo” di “scarso reddito nazionale totale” noi siamo autorizzati ad affermare che quei tipi di imposta cagionano, producono, partoriscono miseria, salari bassi, disoccupazione diffusa.

 

 

C’è invero una disoccupazione palliata nera miserabile la quale è peggiore della disoccupazione palese. Questa è visibile a tutti ed impone il soccorso, esige le provvidenze di sussidi legali o di lavori pubblici, compiuti altresì, secondo taluno oggi vuole, a mezzo di squadre di lavoro. Accanto ad essa c’è la disoccupazione di chi lavora a bassi salari e di chi lavora solo un giorno o due. In qualche paese del mondo, dove si afferma non esistere disoccupazione, siamo sicuri che a causa della bassa produzione media non imperversi la disoccupazione palliata? La scarsa occupazione di taluni contadini meridionali non è davvero per nulla collegata con le imposte del tipo particolare di cui si discorse sopra?

L’altro sofisma

L’altro sofisma

«Corriere della Sera», 26 ottobre 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 340-345

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 91-97[1]

 

 

 

 

I sofismi in materia di moneta sono come le ciliege, che una tira l’altra ed il gusto di mangiarne cresce più se ne mangia. L’altro giorno discorsi del sofisma della “produzione”, il quale, mutando i termini del problema: chi reca al mercato merci, attira a se stesso altre merci, fra le quali, se a lui conviene, anche la merce oro, dice: chi reca al mercato pezzetti di carta, chiamati biglietti o moneta bancaria, incoraggia o provoca la produzione di merci, laddove si sarebbe dovuto dire: attira a se stesso la merce che sarebbe spettata ad altri, senza aumentare di un etto il prodotto sociale totale. Stavolta si discorre di un altro sofisma, che si potrebbe chiamare della “proporzionalità susseguente”. I pseudo ragionatori dicono: «La quantità di moneta circolante è aumentata, a un dipresso, trenta volte, ma i prezzi delle cose e dei servigi sono aumentati, pure a un grande incirca, di cinquanta volte. È evidente lo squilibrio e sono evidentissimi i suoi danni. Industriali, agricoltori e commercianti devono spendere in media cinquanta volte più di prima per gli impianti, i macchinari, le materie prime, i combustibili, i salari, ecc. ecc., e dispongono solo di trenta volte più in circolante monetario. Mancano i biglietti per far girare la macchina produttiva. Aumentate anche la circolazione da 30 a 50 volte; non abbiate paura di crescerla da 640 a l000 miliardi di lire. Voi non avrete in questa maniera fatto dell’inflazione; avrete semplicemente ristabilito l’equilibrio di prima. Gli industriali ricevendo a titolo di sconti e di sovvenzioni 50 volte la moneta che ricevevano prima, saranno in grado di far fronte a 50 volte la spesa di materie prime, combustibili, rinnovamento macchinari, interessi, salari, ecc. ecc. Ristabilita così la loro tranquillità d’animo, non più assillati dalla necessità di procacciarsi affannosamente il denaro per far fronte alle esigenze quotidiane dell’azienda, le ruote della produzione ricominceranno a girare; gli operai lavoreranno, i prodotti saranno esportati, si otterrà valuta per acquistare grano, carbone, olii minerali, cotone, ecc.».

 

 

Il quadro è bellissimo; e sarebbe davvero un imperdonabile delitto rifiutare l’avvento del migliore dei mondi se a ciò bastasse una iniezione di carta moneta. Purtroppo, la esperienza di ogni giorno ci dimostra cosa accade ad occasione delle iniezioni di carta moneta sul mercato. Quel che taluno propone accade già e la sola differenza fra le proposte ed i fatti quotidiani è la seguente: che oggi la quantità della carta moneta cresce in conseguenza e dopo l’aumento dei prezzi, senza che ciò si faccia a bell’apposta; laddove i medici monetaristi vorrebbero che si anticipasse volontariamente, consapevolmente una fase di un processo a catena, nel quale non si sa bene che cosa sia il prima e che cosa sia il dopo. Non indaghiamo storicamente che cosa sia accaduto nel 1944, nel 1945 e nel 1946. La faccenda ha avuto aspetti diversi e talvolta prima venne la moneta e poi seguirono i prezzi; talaltra viceversa. Quando gli alleati scesero in Sicilia e poi avanzarono in Italia, sembra esatto dire che prima venne la cateratta delle am-lire e poi venne l’aumento dei prezzi; e pare altresì esatto dire che prima vennero gli 8 ed i 10 ed i 12 miliardi di lire di biglietti nuovi consegnati, ogni mese, per comando di Mussolini, dalle officine al nord della Banca d’Italia ai tedeschi, poi venne la splendida da parte di costoro e di qui seguì l’aumento dei prezzi.

 

 

Oggi, la successione cronologica e logica dei fatti è diversa. Non c’è nessuna Banca d’Italia la quale, piazzatasi sul mercato, inviti il colto pubblico e l’inclita guarnigione a venire alla raccolta dei biglietti. Oggi nessuno offre inizialmente biglietti nuovi a chi ne abbia bisogno ed offra garanzie sufficienti di rimborso. Il processo è inverso ed è di nuovo quello che un quarto di secolo fa, dopo l’altra guerra, mi descriveva Bonaldo Stringher, primo ad avere il titolo di governatore della Banca d’Italia: «Io non do via biglietti per il gusto di darli via. Aspetto di darli a chi ha il diritto di chiederli; e se i diritti si riferiscono a cifre più grosse di prima, purtroppo a me tocca di stampare e di dar via quantità maggiori di biglietti». Se, ad esempio, ogni mese lo stato usa pagare ai suoi impiegati, operai, pensionati civili, militari e di guerra, assistiti, ecc. ecc. 20 miliardi di lire ed a ciò bastano, per ipotesi benedetta, le sue entrate; ma ad un certo momento accade di dover pagare una tredicesima mensilità o di dover crescere stipendi, salari e pensioni di un decimo, i pagamenti si devono ugualmente e puntualmente fare, nonostante che dall’altra parte del conto tenuto dalla tesoreria Banca d’Italia le imposte o i buoni del tesoro non gittino abbastanza. La Banca d’Italia paga i 20 miliardi della tredicesima mensilità con biglietti nuovi ed addebita il tesoro di altrettanto.

 

 

Ecco una causa o se non una causa un fatto primo da cui deriva l’aumento della circolazione. Nel campo privato, il giro è un po’ più lungo, ma non perciò meno efficace. L’industriale ha bisogno di più biglietti per fare le paghe, per comprare il carbone od il cotone od il ferro, o le macchine ordinate un anno fa? Prima dà fondo al suo conto attivo in banca; poi chiede alla sua banca di sovvenirlo, con sconto di cambiali od affidamenti in conto corrente. A sua volta la banca provvede a fornire denaro ai clienti, ricorrendo prima ai denari che i suoi affezionati depositanti le hanno affidato; e poi, se questi non bastano, ritirando parte dei depositi che essa aveva presso il tesoro e l’istituto di emissione. Durante la guerra e nei primi tempi susseguenti, 1945 e parte del 1946, tutte le banche, non sapendo o non volendo impiegarli direttamente, usarono riversare parte dei depositi nelle casse del tesoro – sovratutto attraverso l’intermediario della Banca d’Italia -; e ciò fu cosa da esse desideratissima perché, in tempi di assenza di impieghi remunerativi, ne ricevevano un frutto dal 3 al 4,50 per cento. Ma nella seconda metà del 1946 e nel 1947, offrendosi sempre più facili occasioni di impiego nelle industrie, le banche ritirarono parte dei depositi fatti presso l’istituto di emissione; e, non bastando i ritiri, portarono, cosa mai più vista da anni, salvo che per i risconti degli ammassi grano, carta al risconto della Banca d’Italia. Per una via e per l’altra, le banche chiesero biglietti alla Banca d’Italia e costrinsero questa ad aumentare la circolazione. Se i biglietti aumentarono dal febbraio al maggio (ambi inclusi) di circa 61 miliardi e dal giugno al settembre di circa 111 miliardi, ciò non accadde per il gusto di stampare e cacciar fuori biglietti; ma perché taluni, stato o industriali premuti dalla necessità di spendere di più per l’aumento dei salari e dei prezzi, ritirarono denari propri o si procacciarono, con sovvenzioni, diritti a ritirare denari altrui; e queste domande finirono per gravare sull’istituto di emissione.

 

 

Sembra dunque abbastanza certo che oggi il prius non siano i biglietti, ma i salari ed i prezzi. Crescono salari e prezzi e quindi o, se non si vuole usare il quindi, dopo cresce la circolazione. La cosidetta restrizione del credito non è altro se non un tentativo di frenare la velocità del giro della spirale che dall’uno all’altro fatto, dal fatto aumento dei prezzi e dei salari al fatto aumento della circolazione, porta all’annientamento del valore della lira. La cosidetta restrizione dice una cosa modestissima: «Voialtre banche ponete un limite ai ritiri di fondi dal tesoro e dall’istituto di emissione, e scegliete oculatamente la carta da portare al risconto; eliminate, sfrondate il superfluo, così da ridurre la velocità del movimento che, se fosse lasciato libero, ci spingerebbe verso l’abisso».

 

 

Che cosa vogliono i sofisti della “proporzionalità susseguente”? Poiché oggi i prezzi ed i salari crescenti o cresciuti spingono all’aumento della circolazione ed alla loro volta i biglietti cresciuti consolidano ed inaspriscono gli aumenti avvenuti nei prezzi e nei salari, rovesciamo l’ordine attuale degli accadimenti e ritorniamo all’epoca delle am-lire e dei tedeschi nell’alta Italia. Invece di contemplare una Banca d’Italia che, riluttante, deve consegnare lire a chi ha acquistato il diritto di chiederle, invitiamo la Banca d’Italia a portarsi in piazza ed a suon di tamburo invitare il colto e l’inclita, ossia gli industriali a venire alla cerca di biglietti nuovi. Se questa non è roba da matti, io non so davvero dove stia di casa il manicomio. In un momento nel quale il processo inflazionistico opera da sé, e fa d’uopo mettere in opera tutti i freni – e quelli sin qui usati sono morbidissimi ed è sperabile possono rimanere tali, per la relativa tempestività dell’azione – per rallentarlo ed arrestarlo, si viene invece freschi freschi a dire: «Invece di freni, adoperate l’acceleratore; invece di limitare la domanda altrui di biglietti nuovi, offritene voi per correre dietro all’aumento dei prezzi».

 

 

Vanissima illusione questa di aumentare i biglietti, ossia in genere i mezzi di pagamento, nella speranza di raggiungere prezzi. Se, mentre la circolazione aumentava da 1 a 30, i prezzi aumentavano da 1 a 50 ciò non accadde senza qualche buona ragione. Sovratutto, la roba da far circolare, le merci e le derrate le quali sono le cose raffigurate nei prezzi, scemarono in quantità. Se 300 lire di biglietti si applicano a 6 unità di merci invece che 10 lire a 10 unità, è facile il calcolo. Prima c’erano 10 lire contro 10 unità di merce; e quindi ogni unità di merce valeva 1 lira; dopo ci sono 300 lire (30 volte 10) contro 6 unità di merce, quindi ogni unità di merce vale 50 lire (50 volte 1). Se ora le lire, per iniezione voluta di biglietti, aumentassero ulteriormente da 300 a 500 e le merci e derrate restassero 6 – ed ho cercato di far vedere nell’articolo precedente che solo per miracolo miracoloso l’incremento dei biglietti riesce ad aumentare la produzione è evidente che i prezzi aumenterebbero nel rapporto di 500 a 6, ossia a circa 80. Questo processo si è verificato in Germania ed in Austria e si chiama inflazione galoppante. Vogliamo noi che il processo si ripeta in Italia? A parole, tutti rispondiamo di no. Non pochi dicono di no ad alta voce, ma con ugual vigoria di parole, applicate ai disgraziati operai disoccupati e fabbriche chiuse, vogliono il si. È necessario perciò che siano smascherati i sofismi, con i quali coloro i quali vogliono il si e cioè vogliono la dissoluzione del paese, fingono di far coro con la brava gente che ha orrore dell’inflazione galoppante.



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo El otro sofisma [ndr].

Il sofisma

Il sofisma

«Corriere della Sera», 19 ottobre 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 335-340

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires,1965, pp. 85-90[1]

 

 

 

 

Il baccano sorto attorno alla cosidetta restrizione del credito ha dato luogo ad una fioritura di sofismi. Fioritura naturale, perché i ragionamenti nascono solo attorno ai fatti accaduti o probabili, laddove le immaginazioni spontanee od artefatte non possono non partorire sofismi. Che la restrizione sia un fatto non vero è oramai manifesto; ché: 1) nessun ordine o consiglio o sollecitazione di restringere il credito ad alcuno venne mai né dal tesoro né dall’istituto di emissione; 2) le banche impiegarono a favore dell’industria e del commercio tutto ciò che ricevettero dai risparmiatori: 252,5 miliardi impiegati contro 272,6 ricevuti nel 1946; 219,4 miliardi impiegati contro 188,1 ricevuti nei primi sette mesi del 1947; e per dare negli ultimi mesi più di quel che di giorno in giorno ricevevano dovettero ritirare e non dare fondi al tesoro ed alla Banca d’Italia; 3) le norme impartite dal comitato interministeriale per il credito ed il risparmio attenuarono e non inasprirono le norme precedenti e sono assai miti di quelle vigenti nella più parte dei paesi dove si ha cura di mantenere intatto il credito pubblico; 4) le norme stesse non vennero improvvise, ma furono preannunciate sin dal gennaio, dichiarate esplicitamente nel marzo ed a lungo discusse in adunanze di interessati e nella stampa tecnica dal febbraio all’agosto; 5) sicché le banche poterono il 30 settembre scorso trovarsi in generale in regola con le prescrizioni nuove senza aver versato, anzi dopo aver ritirato lungo l’anno decine di miliardi, col solo mantenere in essere i depositi ancora rimasti presso il tesoro e l’istituto di emissione.

 

 

Se dunque gli organi di tutela del credito e del risparmio nulla avessero detto o fatto, la restrizione del credito avrebbe ugualmente avuto luogo, con alcune varianti; di cui la principale sarebbe stata quella che le banche non avrebbero potuto darne la colpa ad inesistenti ordini, ma avrebbero dovuto dire il fatto nudo e crudo: che non potevano in avvenire essere consentite nuove aperture di credito se non nella misura in che nuovi depositi venissero dai risparmiatori. La banca essendo un mero intermediario, essa non può dare all’industria se non ciò che riceve dai depositanti.

 

 

No, si replica dai sofisti. Il dovere del sistema bancario, incluso l’istituto di emissione, ad un certo momento è di dare più di quel che esso riceve dal pubblico. Se, ad esempio, il totale dei depositi esistenti in Italia è di 1000 miliardi e se la prudenza consiglia di tenere investiti 150 miliardi (il famigerato 15 per cento) presso il tesoro e la Banca d’Italia, in conto corrente o in titoli ed altri 150 miliardi in contanti ed in titoli liquidi presso di sé ossia in totale quel 30 per cento che la esperienza indica come il minimo necessario per essere in grado di far fronte alle domande di rimborso; se quindi le banche possono dare e danno all’industria tutti i 700 miliardi disponibili, può darsi pure che i 700 miliardi non bastino. L’industria, piccola media e grande, ha d’uopo di credito più ampio. Essa può lavorare più intensamente di quel che far non si possa con un credito aperto dalle banche di 700 miliardi. La somma è per fermo egregia ed è tutto ciò che i risparmiatori hanno prodotto ed offrono, fatta deduzione dei 300 miliardi che le banche debbono investire in depositi e titoli liquidi, per essere pronte ad adempire il loro primo e sommo ed unico dovere, che è di rimborsare i depositanti. Unico dovere, dico, perché le banche sono le fiduciarie di coloro che ad esse hanno affidato i loro denari; ed esse possono servire l’industria nei limiti nei quali ciò è consentito dal dovere loro primo verso coloro che in esse hanno fiducia. Se si pensa che altrove, in Inghilterra e negli Stati Uniti, contrade pur non ultime nel progresso economico, le banche danno non più del 20 o 30 per cento dei depositi e conti correnti, si può facilmente osservare che dando il 70 per cento, le banche italiane offrono all’industria tutto e forse al di là di ciò che è possibile dare. Né il 30 per cento residuo resta ozioso, ché esso, attraverso il tesoro, sovviene alle esigenze delle imprese economiche statali.

 

 

Ma no, si afferma. L’industria non può contentarsi dei 700 miliardi. Essa ne può utilizzare ben di più: 800, 900 o 1000 miliardi. Qualcuno deve dare il di più. Se i depositi volontari del pubblico presso le banche non bastano, intervenga lo stato e provveda a fornire i 300 miliardi necessari in più di quelli offerti dal pubblico. Avremo un aumento della circolazione; i biglietti della Banca d’Italia cresceranno da 640 a 900 od a 1000 miliardi. Ma non saranno biglietti fabbricati a vuoto, e non faranno aumentare i prezzi; ché ai 300 miliardi di lire di biglietti in più corrisponderà un uguale o maggiore incremento della produzione, ossia di merci gettate sul mercato. Maggior produzione, minore disoccupazione.

 

 

È questo un ragionamento ovvero un sofisma? V’ha un caso nel quale ci troviamo di fronte ad un ragionamento; e quell’unico caso fu illustrato dall’amico Bresciani nel libro classico su La caduta del marco tedesco ed in numerosi articoli. Ridotto in moneta spicciola, lo si può formulare così: esiste in un paese un insieme di fattori produttivi disoccupati? Ci sono cioè in un paese, non solo centinaia di migliaia o milioni di operai disoccupati, ma ci sono anche contemporaneamente ed in giusta proporzione fabbriche inerti, macchinari che non lavorano, scorte abbondanti che nessuno acquista, mucchi di carbone sui piazzali che vanno a male, milioni di kWh di energia elettrica producibile che nessuno domanda? Se così è, può darsi che una iniezione artificiale di moneta biglietti o di moneta bancaria serva a mettere in moto la macchina arrugginita; a consentire agli industriali di combinare insieme lavoratori, fabbriche, macchine, scorte, carbone, energia elettrica, ecc. ecc., che oggi stanno con le mani in mano ed a dare quella spinta per cui, insieme collaborando, i fattori, ora inerti e disuniti, insieme combinati diano luogo ad una feconda produzione. Può darsi, dico, ma è rarissimo che la manovra riesca. Riuscì in Germania dopo la caduta del marco, perché di fatto esistevano le condizioni richieste: contemporaneità della disoccupazione di lavoratori, fabbriche, macchine, scorte, ecc., che attendevano la spinta e la spinta venne a tempo, un po’ ad opera dell’iniezione di credito ed un po’ ad opera della fiducia inspirata da nuovi governanti dell’epoca pre-hitleriana. Ma non riuscì, ed il fiasco fu clamoroso, né in Inghilterra né negli Stati Uniti, durante la grande crisi. Mancò in ogni caso qualcosa: o le fabbriche o le scorte o le macchine disoccupate o la spinta psicologica, la quale appartiene all’ordine degli imponderabili.

 

 

V’ha oggi in Italia una qualche probabilità, anche lontanissima che si possa verificare quell’unicum, che fece riuscire l’esperimento in Germania? No. Vi sono, si, un milione circa di lavoratori disoccupati; ma dove sono, salvochè nell’industria tessile, la quale non ha bisogno di credito da nessuno, le scorte in attesa di lavorazione? Dove è il carbone giacente sui piazzali? Dove sono le macchine inerti? Dove è l’energia elettrica offerta dai produttori e rifiutata dagli utenti?

 

 

Perciò, se oggi si stampassero 300 miliardi di biglietti nuovi per offrire credito nuovo, aggiuntivo all’industria, l’effetto non sarebbe creazione di nuovo lavoro; ma famelico assalto degli industriali, provvisti di nuovo credito e di nuovi biglietti, alle materie prime esistenti, al carbone di mese in mese assegnatoci, all’energia elettrica, di cui oggi si lamenta la scarsezza. L’effetto unico sarebbe non l’aumento della produzione, ma l’aumento dei prezzi di ciò che è necessario all’industria per lavorare.

 

 

Che cosa sta al disotto dell’aumento dei prezzi, il quale potrebbe essere un fatto puramente nominale, di numeri grossi sostituiti a numeri piccoli? Sta la continuazione del fenomeno più doloroso, anzi più atroce, più socialmente disintegratore tra tutti quelli i quali hanno sconvolto la società italiana in questo triste dopoguerra.

 

 

Chi paga l’aumento dei prezzi? Se tutti i prezzi, se tutti i salari, se tutti i redditi aumentassero nella stessa misura, sarebbe mera polvere negli occhi, sarebbe il solito manzoniano alzarsi in piedi di tutti i comizianti per veder meglio l’oratore. Ma così non è. Vi sono intiere vaste classi sociali, i cui prezzi, le cui remunerazioni non aumentano, o non aumentano proporzionatamente, all’aumento dei prezzi.

 

 

Vi sono i contadini delle Puglie, i quali lavorano 150 giorni all’anno per salari lentissimi a muoversi.

 

 

Vi sono i vecchi, le vedove, i bambini, i ragazzi i quali vivono del reddito fisso di risparmi passati e stanno lentamente morendo di fame, perché sarebbe stato necessario che gli appartenenti ai ceti medi indipendenti avessero risparmiato in passato dieci milioni di lire ciascuno per assicurare alle famiglie un reddito uguale a quello dell’operaio o dell’impiegato dei gruppi più numerosi.

 

 

Vi sono i pensionati la cui pensione non segue subito le variazioni, dei prezzi.

 

 

Vi sono, fra gli operai e gli impiegati pubblici e privati, i padri di famiglia i quali con un solo stipendio, debbono provvedere alla moglie ed ai figli in età non lavorativa.

 

 

Vi sono… Ma la lista è troppo lunga di coloro i quali sono andati o stanno andando a fondo nella atroce lotta sociale che è frutto della svalutazione monetaria.

 

 

Talvolta è necessario adattarsi al male. Il decreto in pro delle industrie meccaniche è senza dubbio inflazionistico. Sono, in valore attuale, 30 miliardi di credito derivante da risparmio forzato, risparmio compiuto da coloro che non possono rivalersi dell’aumento di prezzi provocato dall’inflazione con un aumento proporzionale dei propri redditi. Sono alcuni ceti di contadini, principalmente meridionali, sono gli appartenenti al ceto medio coloro i quali dovranno stringere un po’ più la cintola per impedire che talune imprese meccaniche, principalmente settentrionali, debbano chiudere. Ma sono 30 e non 300 miliardi; ma dovranno essere dati dagli amministratori del fondo solo a quegli industriali i quali dimostrino di potersi riorganizzare e vivere poi di vita propria.

 

 

Contadini meridionali ed appartenenti al medio ceto di tutta Italia sono pronti a qualche ulteriore sacrificio; ma non a morire a vantaggio altrui. Giunti ad un certo punto, bisogna dir basta!



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo El sofisma [ndr].

Questo titolo terzo

Questo titolo terzo

«Corriere della Sera», 21 maggio 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 330-335

 

 

 

 

[Questo titolo terzo] della Costituzione rassomiglia al secondo per alcune caratteristiche peculiari. A differenza del primo titolo, il quale detta norme sulle libertà essenziali dell’uomo (libertà personale, libertà di unione, di associazione, di religione, ecc.) e del titolo quarto il quale dichiara i diritti del cittadino (diritto al voto, accesso libero ai pubblici uffici, obbligo del servizio militare e simili), i titoli secondo e terzo proclamano aspirazioni, desideri, indirizzi, promesse. Si dice che questa sia la grande novità delle costituzioni modernissime, le quali in tal maniera intenderebbero elevarsi al disopra della concezione dei due secoli decimottavo e decimonono, preoccupati soltanto di garantire l’uomo singolo, il cittadino individuo contro le prepotenze dello stato. Oggi, si afferma, lo stato siamo noi; ed importa perciò che noi proclamiamo quali sono le nostre volontà di cittadini insieme associati per il bene comune.

 

 

Ho gran paura che, così pensando, noi viviamo in uno strano mondo di illusioni. L’opinione che i diritti dell’uomo e del cittadino abbiano perduto importanza in confronto ai diritti dell’uomo sociale non è affatto conforme alla esperienza storica. I diritti dell’uomo non corrono mai tanto pericolo di essere sopraffatti come nelle epoche storiche in cui domina il numero, in cui la volontà dei più informa la legislazione. In questi tempi è massima la propensione a costringere i meno ad uniformarsi alla volontà dei più, anche nel territorio che deve essere sacro contro l’invadenza della cosiddetta volontà comune. Accadde un giorno, durante il ventennio fascistico, che una camera deliberasse essere dogma economico l’autarchia ed anatemizzasse quei pochi teorici ostinati nel professare che l’autarchia era veramente una troppo povera cosa perché potesse essere discussa. E può accadere domani che un parlamento, espressione, della volontà popolare, anatemizzi i disgraziati che repugnassero ad accogliere e ad insegnare una qualche particolare teoria del valore o una peculiare interpretazione della storia e degli avvicendamenti delle classi sociali. Epperciò non è affatto inutile sancire nella costituzione il principio che l’insegnamento scientifico è libero. I compilatori dell’articolo, invece di contestarsi di affermare il diritto di ogni uomo ad insegnare e predicare quel che a lui pare e piace meglio, si imbrogliarono poi comicamente in un confuso congegno di scuole parificate o non, di esami di stato, di ammissioni ai diversi ordini di scuola, che dio solo sa che cosa abbiano a fare con quel documento solenne che si usa chiamare “costituzione”. Ma quel che vogliono dire i “diritti sociali” del titolo terzo è assai più difficile intendere. Si assuma ad esempio l’art. 39, oggi fuso con qualche altro; ma di cui la sostanza è rimasta invariata.

 

 

L’iniziativa economica è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

 

 

Lasciamo da parte l’ultimo mezzo periodo, che da tempo è entrato a far parte della legislazione universalmente accolta, con le norme sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sui limiti alle ore di lavoro, sulla igiene e sicurezza nelle fabbriche e nelle miniere. Caratteristico dello spirito dei redattori è il contrapporre due concetti dei quali l’uno dovrebbe limitare l’altro:

 

 

Concetto primo: l’iniziativa economica privata è libera.

 

 

Concetto secondo: essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale.

 

 

Il primo espone un principio di massima: gli uomini sono liberi di attendere a quelle imprese economiche che loro sembreranno più convenienti. Il secondo vuole limitare l’affermata libertà di iniziativa.

 

 

Il proposito non sarebbe malvagio se con la seconda proposizione si fossero messe insieme parole aventi un significato qualsiasi. Ma basta aprire un qualunque libro elementare per apprendere che “non esiste” una definizione scientifica dell’utilità sociale. Basta riflettere:

 

 

  • che l’utilità “sociale” non è quella dei “singoli” individui componenti una società;

 

  • che l’utilità “sociale” non equivale alla somma aritmetica delle utilità degli individui componenti la società. Essa risulta da una combinazione chimica spirituale dalla quale nasce qualcosa che non è misurabile;

 

  • che, se anche potessimo ammettere per un istante la ipotesi assurda che l’utilità del tutto sia uguale alla somma delle utilità degli individui, noi ci troveremmo dinnanzi ad uno dei più celebrati pons asinorum della scienza economica. Gli inglesi l’hanno chiamato l’ostacolo del no bridge e con queste due parole si insegna nelle scuole di tutto il mondo. Non esiste ponte tra l’utilità di un individuo Tizio e quella di un altro individuo Caio. Tizio sente per un pane l’utilità 10? Ciò vuole soltanto dire che nella “sua” testa egli dà il punto 10 al pane in confronto del punto 9 che dà al bicchiere di vino od al punto 8 dato alla sigaretta. Perciò lui Tizio preferisce il pane al vino od alla sigaretta; e se ha i soldi occorrenti in tasca, compra pane e non vino e non sigarette. È un affare, un calcolo individuale suo; dipendente dalla sua conformazione fisiologica e psicologica. Caio sente per l’identico pane l’utilità 15? Anche questo è un fatto suo, dipendente dalla stima diversa che gli fa del pane in confronto agli altri beni, i quali si offrono ai suoi sguardi in quel momento.

 

 

Diremo perciò che l’utilità sociale, che l’utilità di quella piccola società composta di due sole persone (se fosse composta, come tutte le società sono, di milioni o di decine di milioni il problema diverrebbe ancor più insolubile) sia di 10 più 15, ossia 25? No; ché Tizio sa che l’utilità del pane per lui è 10, perché così egli ha classificato il pane in confronto agli altri beni da lui desiderati; e parimenti Caio sa che la utilità del pane per lui è 15. Ma nessuno dei due e nessun altro sa se l’utilità del pane, se il piacere che Tizio prova nel consumare il pane, se il dolore che egli subirebbe se fosse privato del pane, piaceri o dolori a cui Tizio attribuisce il punto 10, sia maggiore o minore del piacere o dolore sentito da Caio ed al quale costui, nell’intimo foro della sua sensibilità, ha attribuito il punto 15. Sono due quantità di utilità eterogenee, le quali fanno capo ad individui senzienti diversi: eterogenee epperciò incommensurabili. L’operazione è altrettanto priva di senso, come sarebbe la somma di cani e di gatti, di cavalli e di topi.

 

 

I costituenti hanno immaginato di aver posto un limite alla libertà dell’iniziativa privata e non hanno detto nulla. Non dicendo nulla, hanno detto al legislatore futuro: «Tu interpreterai le parole “utilità sociale” come ti parrà più opportuno. Secondo vorrà la tua coscienza, secondo la interpretazione che tu darai di quel che alla coscienza popolare sembrerà essere in quel momento la quantità indefinibile detta “utilità sociale”, tu allargherai o restringerai a tuo piacere il campo della iniziativa privata, che io ho proclamato libera».

 

 

Può darsi che il non dir niente sia, dopotutto, il sommo della sapienza. Ma confessiamo che i legislatori moderni hanno grandemente perfezionato l’arte del non dir niente, attraverso un apparato mai più visto di parole. Si è battagliato mesi per giungere, in questo titolo terzo, a compromessi, il cui contenuto è zero.

 

 

In assemblea, vi fu chi, preoccupato di questo niente dell’art. 39, aveva immaginato di trovare il limite alla libertà assoluta della iniziativa privata, proponendo di cancellare le parole «in contrasto con l’utilità sociale» perché senza senso e di sostituirle con altre che a lui parevano più concrete:

 

 

La legge non è strumento di formazione di monopoli economici: ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta.

 

 

Quale è invero la sola, la vera degenerazione dell’iniziativa privata? Che essa, invece di svolgersi nell’ambito della concorrenza o di una tollerabile approssimazione allo stato di concorrenza, dia origine ad un monopolio. Se c’è e finché c’è concorrenza possiamo lasciar mano libera all’iniziativa privata. I prezzi delle cose prodotte e vendute tenderanno verso il costo di produzione (del produttore marginale); e che cosa il consumatore può pretendere di più?

 

 

Il danno nasce quando esiste monopolio, ossia quando una merce è venduta da un solo produttore o da un gruppo di produttori, i quali dominano il mercato. Il monopolista fissa i prezzi ad un livello tale che gli diano il massimo profitto; e perciò:

 

 

  • produce una quantità di beni minore di quella che si produrrebbe se la concorrenza esistesse;

 

  • fa sì che i consumatori debbano rinunciare ad una parte dei beni che, a prezzo minore, sarebbero disposti ad acquistare e debbano pagare il resto a prezzo di monopolio, rinunciando così al consumo di altri beni che pur desidererebbero acquistare;

 

  • costringe alla disoccupazione i lavoratori che sarebbero altrimenti chiamati a cooperare alla produzione di quel che oggi invece non si produce e non si consuma. Se si voleva dare un senso, un contenuto al comandamento di porre limiti razionali alla libertà dei privati produttori di fare quel che ad essi conviene, sarebbe stato necessario dire:

 

  • che la legge non deve essa stessa creare i monopoli economici, come ogni giorno fa con la protezione doganale, con i divieti ai nuovi impianti industriali, con i contingenti, con l’abuso dei brevetti, con le società a catena, ecc. ecc.

 

  • che, se, indipendentemente dalla legge, il monopolio esiste, esso debba essere sottoposto a pubblico controllo in una delle tante maniere che l’esperienza ha insegnato.

 

 

Naturalmente, nessuna cosa è tanto odiata dai politici e specialmente da quei politici i quali stravagantemente immaginano di avere scoperto nuove vie alla economie rimettono a nuovo regolamenti arcifrusti della più sciagurata ed oscura epoca di decadenza mercantilistica; nessuna cosa è tanto odiata quanto il parlar chiaro. Epperciò l’emendamento fu respinto e si preferì rimanere anche per l’art. 39 in quella nebbia che è propria di tutto il titolo terzo e sarà feconda in avvenire di quell’arbitrio che le costituzioni sono per l’appunto chiamate ad impedire.

Il diritto allo sciopero

Il diritto allo sciopero

«Corriere della Sera», 19 febbraio 1947

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 514-517

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 844-848

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 267-270

 

 

 

 

L’art. 57 del progetto di costituzione presentato dalla commissione dei 75 alla costituente dice: «Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero». È questa una formulazione alquanto diversa di un principio che il secolo scorso, 1800 anni dopo Cristo, aveva riaffermato, abolendo dapprima la tratta degli schiavi e poi mettendo fine quasi contemporaneamente, tra il 1860 ed il 1870, alla servitù della gleba (l’uomo non può abbandonare la terra dove è nato) in Russia ed alla schiavitù dei negri (l’uomo non può abbandonare il padrone) negli Stati Uniti.

 

 

Risorgono talvolta forme particolari di schiavitù, le quali legano l’operaio alla fabbrica destinata alla produzione bellica; ma sono norme di eccezione, rigidamente ristrette al tempo di guerra.

 

 

Il diritto allo sciopero è una applicazione del concetto, prevalso nelle società civili del secolo XIX, della abolizione della schiavitù e della instaurazione della libertà del lavoro. Che cosa infatti significherebbe la negazione del diritto di sciopero? Evidentemente l’obbligo del lavoratore di lavorare non quando a lui piace ed alle condizioni liberamente da lui discusse ed accettate, ma quando ad altri piace ed a condizioni diverse da quelle accettate da lui. Quest’obbligo ha un nome preciso e dicesi “schiavitù”. Non monta essere schiavi di un imprenditore privato o dello stato; ciò che all’uomo sovra ogni altra cosa importa essendo di non essere schiavo di nessuno.

 

 

Dovendo scegliere, è evidentemente preferibile essere schiavi (parola tecnica usata per indicare il fatto di non poter abbandonare il lavoro senza il consenso altrui) di un imprenditore privato che dell’imprenditore unico (stato). Infatti gli imprenditori privati sono molti e non è quindi assurdo fuggire, sia pure illegalmente, dall’uno all’altro, ed essere ricevuti a braccia aperte da quest’altro imprenditore bisognoso di lavoratori. Inoltre, è più facile, e l’esperienza storica reca di ciò testimonianze innumeri, ai lavoratori concertarsi contro imprenditori privati e riuscire a violare la legge vincolatrice della libertà umana, di quanto non sia agevole concertarsi contro lo stato, che fa la legge a suo piacimento. Dove esiste la schiavitù esiste invero altresì una qualche maniera di governo tirannico; ed il tiranno può avere interesse ad ingraziarsi i lavoratori contro gli imprenditori privati, non mai contro se stesso.

 

 

In ogni caso gli uomini giustamente desiderano di non essere costretti a fare scelta fra due mali; ma vogliono la libertà. Epperciò il diritto di sciopero è sacrosanto. I codici civili dei paesi moderni avevano già concordemente formulato il principio del diritto allo sciopero, affermando la nullità dei patti con i quali taluno si fosse obbligato a prestare, senza limiti di tempo, l’opera propria a favore altrui.

 

 

La abolizione della schiavitù od il suo sinonimo detto “diritto di sciopero” suppone tuttavia un dato clima economico. È un istituto che vive quando nella società agiscono determinate condizioni, tra le quali principalissima è quella ricordata sopra della libertà degli uomini di acquistare, a propria scelta, i beni ed i servizi da essi desiderati. Il lavoratore ha il sacrosanto diritto di abbandonare la fabbrica che non è in grado di pagargli il salario da lui giudicato bastevole a compensare le proprie fatiche ed a consentirgli quel tenore di vita al quale egli giudica di avere diritto. Ma il consumatore ha uguale ragione di non essere costretto da nessuno ad acquistare al prezzo di 20 mila lire un abito, solo perché i lavoratori chiedono – e scioperano per ottenerlo – un salario siffatto che il produttore non può mettere sul mercato l’abito ad un prezzo inferiore a 20 mila lire. Al diritto di sciopero dei lavoratori, alla loro esigenza di non essere sottoposti a schiavitù, corrisponde l’ugual diritto dei consumatori di non acquistare le merci prodotte dai lavoratori. Non sono due diritti diversi: bensì due facce del medesimo diritto. Tra i due, i lavoratori ed i consumatori, vi è l’intermediario detto comunemente industriale che gli economisti usano, dal 1738 in poi, chiamare “imprenditore”: colui il quale, a suo rischio e vantaggio, mette insieme i fattori produttivi – area, stabilimenti, macchine, scorte di materie prime e di semilavorati, dirigenti, impiegati, lavoratori -; ne paga il prezzo di mercato ed offre il prodotto finito al consumatore. Se i due estremi, lavoratore e consumatore, fanno sciopero, i primi perché non ritengono di essere pagati abbastanza, gli altri perché ritengono il prezzo dei prodotti superiore al vantaggio che si ripromettono dal loro acquisto, l’imprenditore, il quale sta in mezzo dei due, non può rimanere fermo. Anch’egli, se non vuol perdere i suoi capitali – e la perdita dei capitali non giova a nessuno – deve potersi muovere. Il suo diritto a muoversi ha un nome abbreviato ed è diritto alla “serrata”. In sostanza, il diritto alla serrata degli imprenditori ha un contenuto semplice e necessario. Non si può immaginare che, là dove i lavoratori hanno il diritto – sacrosanto diritto, innato nell’uomo libero – di incrociare le braccia e di rifiutarsi a lavorare a condizioni da essi non accettate volontariamente, vi sia talun altro il quale sia costretto a tenere il proprio stabilimento aperto ed a pagare salari che egli giudica superiori al ricavo, dedotte le altre spese del prodotto da lui posto sul mercato. Se l’imprenditore potesse “costringere” i consumatori a pagare il prezzo di 20 mila lire per un abito, che gli è costato, fra salari, materie prime, ammortamenti, interessi sul capitale preso a prestito od ottenuto dai soci, ecc., altrettanta somma, l’imprenditore potrebbe fare a meno di “serrate”. Basterebbe aumentare i prezzi e qualunque salario sarebbe razionale. Fatta astrazione dal significato monetario della manovra, non vi sarebbe alcun limite all’aumento dei salari.

 

 

Ma così non è. I consumatori non hanno nessun obbligo di acquistare alcuna merce ad alcun prezzo prefissato. Anch’essi hanno diritto allo sciopero. Anch’essi hanno diritto a non diventare schiavi di chi vuol vendere una data merce ad un dato prezzo. Essi scioperano, riducendo il consumo o rinunciando del tutto al consumo della merce rincarata. Epperciò, l’imprenditore, posto fra l’incudine ed il martello, ha il diritto di serrata, ossia di riorganizzare la sua impresa, di mutare il genere della produzione, di ridurre o crescere il numero degli operai, di tentare nuovi mercati per adattarsi alle condizioni contemporaneamente poste dai lavoratori e dai consumatori, tra le quali egli deve pur trovare un mezzo di conciliazione. Diritto di sciopero e diritto di serrata sono due fattori o condizioni di un sistema economico improntato a libertà. Se togliamo l’un diritto aboliamo anche l’altro. Se l’imprenditore non può aprire, chiudere, allargare, restringere l’impresa; se il lavoratore non può abbandonare il lavoro, ciò significa che noi viviamo nel clima economico della schiavitù: in quel clima nel quale un’autorità superiore, un tiranno dice al lavoratore: «tu lavorerai tante e tante ore al giorno, per tale e tale salario»; all’imprenditore: «tu comprerai la materia prima a tal prezzo, pagherai i lavoratori con tale salario e venderai i prodotti tuoi a tale prezzo»; ed al consumatore: «io ti distribuirò d’autorità i prodotti dell’industria in tale quantità e ad un prezzo tale, che tutto ciò che è stato prodotto secondo il nuovo piano sia compensato interamente ed a tempo debito». Ma gli uomini non amano vivere in un siffatto clima, odiano la schiavitù e sono persuasi di aver diritto, nelle diverse loro manifestazioni di lavoratori, di imprenditori, di consumatori, a scioperare contro chi pretende di farli vivere secondo le regole poste dai potenti della terra.

Intervista con Luigi Einaudi. Quali sono gli scopi del Fondo monetario e della Banca mondiale – I molteplici vantaggi e gli obblighi finanziari – Il contributo dei due istituti alla ricostruzione internazionale e allo sviluppo dei rapporti economici

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«Risorgimento Liberale», 5 ottobre 1946

Vocabolario

Vocabolario

«Corriere della Sera», 8 settembre 1946

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 326-330

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Firenze, Olschki, 2001, pp. 226-229

 

 

 

 

Il quasi venticinquennio di dominazione e di ricordi fascistici ha bruttato, fra le tante cose, anche il vocabolario italiano. Se governo democratico ha un significato, ciò accade esclusivamente e tutto perché esso sia sinonimo di governo di discussione. Camere, giornali, elezioni, sono strumenti efficaci di governo democratico non perché gli uomini di governo siano i tali invece dei tali altri, siano scelti in un modo piuttosto che in un altro. Suppergiù, in qualunque forma di governo, autocratico o democratico, esercitano la somma del potere coloro i quali desiderano il potere e riescono a conquistarlo in maniera conforme al regime. La differenza consiste solo in ciò che nei regimi autocratici giungono e restano al potere coloro i quali non possono sopportare la critica, perché questa, sovratutto se mossa dalle lance spezzate giornalistiche, dimostrerebbe che essi non posseggono le qualità intellettuali o morali necessarie all’esercizio del potere, ovvero compiono atti sconvenienti all’interesse pubblico od alla morale. Perciò, nei regimi autocratici, la critica, che per definizione è libera ed è mossa dal pubblicista anonimo inteso a servire i lettori e la propria parte politica contro le avverse fazioni, non esiste. Si muovono “attacchi” i quali vengono dal di dentro e sono autorizzati dal dittatore o dai suoi segugi. Chi è “attaccato” si sente perduto, perché egli non possiede l’ufficio per meriti suoi, ma perché reputato servitore utile della banda imperante. Se egli cade, cade nel nulla; a meno che gli si appresti, a guisa di pensione, una sinecura economicamente fruttifera. Colui il quale è pubblicamente criticato sui bollettini ufficiali che da sé ancora si appellano impropriamente giornali, sa quale è la sua sentenza. Egli si rassegna al sacrificio, salvo che egli abbia in mano documenti atti ad infamare l’attaccante, il quale ambisce al suo posto, e il suo patrono, e che di quei documenti possa servirsi.

 

 

Altri regimi si dicono e sono democratici perché e finché sono fondati sulla libertà illimitata di critica. Non le parole contano, ma la sostanza della critica. Un ministro del buon tempo antico, accusato alla camera come concussionario e dilapidatore del pubblico denaro, sorridendo si alzò e: «debbo supporre – disse – che l’onorevole collega abbia colle sue parole voluto manifestare il suo dissenso intorno al provvedimento che io ho l’onore di difendere oggi», e continuando dimostrò la fondatezza dell’opinione sua e l’inconsistenza delle critiche avversarie. Nulla deve essere ed è così grato all’uomo di governo in un regime democratico quanto la critica. Essa è il suo sostegno maggiore; essa gli permette di chiarire e di migliorare le sue proposte. Se non fosse criticato, egli dovrebbe temere di essere reputato uomo da nulla, il quale passa come ombra sulla scena politica, destinato a non ricomparirvi mai più. Può darsi che vi sia qualche malinconico sopravvissuto del tempo fascistico, il quale muova ancora “attacchi”. Ma poiché e se gli uomini di governo in regime democratico sono forniti di virtù proprie e non sono fantocci ubbidienti ad un tirafili, essi hanno il dovere di non curarsi degli attacchi o di interpretarli, ad imitazione del ministro del buon tempo antico, come maniere alquanto disadorne di critica. Un’altra parola degenerata nell’uso fascistico è quella di “speculazione”. Nobilissima parola, forse la più alta che a titolo di onore possa essere applicata all’opera di chi gerisce imprese politiche ed economiche; ma parola malamente usata nel venticinquennio scorso.

 

 

Cominciarono i fascisti a vituperare i loro avversari accusandoli di voler speculare sugli errori da essi, fascisti, commessi. Era un dovere preciso degli avversari di “trarre profitto od occasione o vantaggio” dall’assassinio di Matteotti per abbattere Mussolini e i suoi seguaci. Furono bollati come “speculatori” della Quartarella, e “speculazione” divenne parola infamante nel nuovissimo vocabolario fascistico. Ognuno il quale aprisse bocca per avanzare osservazioni riserve critiche fu tacciato di “speculazione” politica. Consueto stravolgimento del senso proprio delle parole, per cui l’infamia non cade sul ladro bensì su quegli che denuncia il ladrocinio.

 

 

L’uso della parola “speculazione” oggi si è alquanto attenuato, sebbene non scomparso affatto nel linguaggio politico. Invece di essere grato alle osservazioni altrui, le quali gli permettono di perfezionare opinioni e propositi, l’uomo criticato, sommando le due improprietà di linguaggio, grida alla “speculazione” di chi lo “attacca”.

 

 

Peggiore è il malo uso fatto della parola “speculazione” nel linguaggio economico. Qui l’errore è più antico, perché già l’on. Giolitti, alieno dalla teoria economica, sebbene fornito di buon senso quotidiano, usava qualificare le “borse”, le quali talvolta, come è loro ufficio, gli davano qualche dispiacere, per “antri di speculatori”. Si additano, ad esempio, al pubblico disprezzo coloro i quali in mercato crescente vendono ad un prezzo più alto di quello di acquisto. Di che cosa è composta la stalla dell’agricoltore? Di un certo numero di mucche da latte, si supponga 100 o di quel numero di pezzi di carta, ad esempio 100 mila lire l’una, che egli sborsò per acquistarle? Cento mucche ovvero 10 milioni di lire? Ogni persona di buon senso risponderà: 100 mucche e non 10 milioni di unità astratte, utili soltanto alla misurazione economica delle cose. Se ora ogni mucca aumenta di prezzo a 200 mila lire, l’allevatore dovrà vendere le sue mucche a 100 mila lire l’una (prezzo di costo) ovvero a 200 mila lire (prezzo di mercato)? Il politicante ordinario e lo scriba quotidiano, intesi ambedue a sollecitare l’invidia dei non pensanti, rispondono 100 mila lire e tacciano l’allevatore di “speculazione” se opta per le 200 mila lire. L’uomo di buon senso – non occorre essere economista di professione risponderà invece decisamente: il prezzo di vendita è 200 mila lire. Se l’allevatore vende a meno, costui non sa il suo mestiere ed è predestinato infallantemente alla rovina. Se egli vende infatti a 100 mila lire come rifornirà la stalla? Non al prezzo antico, che non esiste più, ma al prezzo nuovo. Col ricavo della vendita – 100 mila – della mucca vecchia egli può comprare, poiché il prezzo è di 200 mila lire, solo una mezza mucca nuova. Alla fine egli si troverà con sole 50 mucche nella stalla; ossia avrà diminuito il patrimonio zootecnico suo e per conseguenza quello nazionale alla metà di quello che era. Si vuole ciò? Si vuole che scemi la produzione del latte delle carni dei cuoi, si vuole che crescano i prezzi e diminuisca il reddito nazionale? Si costringano i produttori a vendere ai prezzi di costo invece che a quelli di mercato; si vituperino coloro i quali operano razionalmente con la taccia di speculatori. Si otterrà oggi il favore delle folle; ma si sarà fatalmente e giustamente lapidati domani dalle stesse folle.

 

 

Fa d’uopo riportare la parola “speculazione” al suo significato genuino; che è quello di chi guarda all’avvenire, di chi tenta, a suo rischio, di scrutare (speculare) l’orizzonte lontano ed indovinare i tempi che verranno. Purtroppo, gli “speculatori” veri sono rarissimi. Se la meteorologia a mala pena riesce a fare brevi previsioni sul tempo futuro, ancor più difficile è all’uomo fare previsioni sul futuro economico. Gli uomini dotati della facoltà divina della previsione sono rarissimi. La più parte di noi uomini comuni agisce come le pecore, che dove l’una va, le altre vanno. Ma quando tutti corrono in un verso, possiamo essere sicuri che quel verso conduce all’abisso. I rarissimi veri “speculatori” si sono oramai voltati da un’altra parte in cerca di quegli indizi che appena appena si intravedono all’orizzonte e che indicano le vie della nuova produzione dei nuovi gusti e quindi dei guadagni vantaggiosi agli speculatori ed alla collettività. Quel che tutti fanno – e tra i tutti si noverano massimamente i politici, intenti a seguire le folle e nemicissimi perciò degli speculatori – è certamente uno sbaglio. Vi è sempre un limite alla convenienza, ma poiché quel limite è sempre sorpassato dagli uomini, animali per essenza imitatori, è sommamente vantaggioso che i pochi “speculatori” suonino il campanello d’allarme per gli sbagli che si stanno facendo e additino le vie dell’avvenire. A costoro non occorre erigere statue, ché essi agiscono nel proprio interesse e corrono spontaneamente il rischio dei propri errori. Non intralciamone tuttavia l’opera feconda di guida alle moltitudini paghe di ripetere le idee lette ogni mattino; e, sovratutto, non copriamoci di ridicolo con lo storcere il significato corretto delle parole, innalzando idoli vani ed abbassando quel che nell’umanità è rarissimo.

Vocabolario

Vocabolario

«Corriere della Sera», 8 settembre 1946

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 326-330

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Firenze, Olschki, 2001, pp. 226-229

 

 

 

 

Il quasi venticinquennio di dominazione e di ricordi fascistici ha bruttato, fra le tante cose, anche il vocabolario italiano. Se governo democratico ha un significato, ciò accade esclusivamente e tutto perché esso sia sinonimo di governo di discussione. Camere, giornali, elezioni, sono strumenti efficaci di governo democratico non perché gli uomini di governo siano i tali invece dei tali altri, siano scelti in un modo piuttosto che in un altro. Suppergiù, in qualunque forma di governo, autocratico o democratico, esercitano la somma del potere coloro i quali desiderano il potere e riescono a conquistarlo in maniera conforme al regime. La differenza consiste solo in ciò che nei regimi autocratici giungono e restano al potere coloro i quali non possono sopportare la critica, perché questa, sovratutto se mossa dalle lance spezzate giornalistiche, dimostrerebbe che essi non posseggono le qualità intellettuali o morali necessarie all’esercizio del potere, ovvero compiono atti sconvenienti all’interesse pubblico od alla morale. Perciò, nei regimi autocratici, la critica, che per definizione è libera ed è mossa dal pubblicista anonimo inteso a servire i lettori e la propria parte politica contro le avverse fazioni, non esiste. Si muovono “attacchi” i quali vengono dal di dentro e sono autorizzati dal dittatore o dai suoi segugi. Chi è “attaccato” si sente perduto, perché egli non possiede l’ufficio per meriti suoi, ma perché reputato servitore utile della banda imperante. Se egli cade, cade nel nulla; a meno che gli si appresti, a guisa di pensione, una sinecura economicamente fruttifera. Colui il quale è pubblicamente criticato sui bollettini ufficiali che da sé ancora si appellano impropriamente giornali, sa quale è la sua sentenza. Egli si rassegna al sacrificio, salvo che egli abbia in mano documenti atti ad infamare l’attaccante, il quale ambisce al suo posto, e il suo patrono, e che di quei documenti possa servirsi.

 

 

Altri regimi si dicono e sono democratici perché e finché sono fondati sulla libertà illimitata di critica. Non le parole contano, ma la sostanza della critica. Un ministro del buon tempo antico, accusato alla camera come concussionario e dilapidatore del pubblico denaro, sorridendo si alzò e: «debbo supporre – disse – che l’onorevole collega abbia colle sue parole voluto manifestare il suo dissenso intorno al provvedimento che io ho l’onore di difendere oggi», e continuando dimostrò la fondatezza dell’opinione sua e l’inconsistenza delle critiche avversarie. Nulla deve essere ed è così grato all’uomo di governo in un regime democratico quanto la critica. Essa è il suo sostegno maggiore; essa gli permette di chiarire e di migliorare le sue proposte. Se non fosse criticato, egli dovrebbe temere di essere reputato uomo da nulla, il quale passa come ombra sulla scena politica, destinato a non ricomparirvi mai più. Può darsi che vi sia qualche malinconico sopravvissuto del tempo fascistico, il quale muova ancora “attacchi”. Ma poiché e se gli uomini di governo in regime democratico sono forniti di virtù proprie e non sono fantocci ubbidienti ad un tirafili, essi hanno il dovere di non curarsi degli attacchi o di interpretarli, ad imitazione del ministro del buon tempo antico, come maniere alquanto disadorne di critica. Un’altra parola degenerata nell’uso fascistico è quella di “speculazione”. Nobilissima parola, forse la più alta che a titolo di onore possa essere applicata all’opera di chi gerisce imprese politiche ed economiche; ma parola malamente usata nel venticinquennio scorso.

 

 

Cominciarono i fascisti a vituperare i loro avversari accusandoli di voler speculare sugli errori da essi, fascisti, commessi. Era un dovere preciso degli avversari di “trarre profitto od occasione o vantaggio” dall’assassinio di Matteotti per abbattere Mussolini e i suoi seguaci. Furono bollati come “speculatori” della Quartarella, e “speculazione” divenne parola infamante nel nuovissimo vocabolario fascistico. Ognuno il quale aprisse bocca per avanzare osservazioni riserve critiche fu tacciato di “speculazione” politica. Consueto stravolgimento del senso proprio delle parole, per cui l’infamia non cade sul ladro bensì su quegli che denuncia il ladrocinio.

 

 

L’uso della parola “speculazione” oggi si è alquanto attenuato, sebbene non scomparso affatto nel linguaggio politico. Invece di essere grato alle osservazioni altrui, le quali gli permettono di perfezionare opinioni e propositi, l’uomo criticato, sommando le due improprietà di linguaggio, grida alla “speculazione” di chi lo “attacca”.

 

 

Peggiore è il malo uso fatto della parola “speculazione” nel linguaggio economico. Qui l’errore è più antico, perché già l’on. Giolitti, alieno dalla teoria economica, sebbene fornito di buon senso quotidiano, usava qualificare le “borse”, le quali talvolta, come è loro ufficio, gli davano qualche dispiacere, per “antri di speculatori”. Si additano, ad esempio, al pubblico disprezzo coloro i quali in mercato crescente vendono ad un prezzo più alto di quello di acquisto. Di che cosa è composta la stalla dell’agricoltore? Di un certo numero di mucche da latte, si supponga 100 o di quel numero di pezzi di carta, ad esempio 100 mila lire l’una, che egli sborsò per acquistarle? Cento mucche ovvero 10 milioni di lire? Ogni persona di buon senso risponderà: 100 mucche e non 10 milioni di unità astratte, utili soltanto alla misurazione economica delle cose. Se ora ogni mucca aumenta di prezzo a 200 mila lire, l’allevatore dovrà vendere le sue mucche a 100 mila lire l’una (prezzo di costo) ovvero a 200 mila lire (prezzo di mercato)? Il politicante ordinario e lo scriba quotidiano, intesi ambedue a sollecitare l’invidia dei non pensanti, rispondono 100 mila lire e tacciano l’allevatore di “speculazione” se opta per le 200 mila lire. L’uomo di buon senso – non occorre essere economista di professione risponderà invece decisamente: il prezzo di vendita è 200 mila lire. Se l’allevatore vende a meno, costui non sa il suo mestiere ed è predestinato infallantemente alla rovina. Se egli vende infatti a 100 mila lire come rifornirà la stalla? Non al prezzo antico, che non esiste più, ma al prezzo nuovo. Col ricavo della vendita – 100 mila – della mucca vecchia egli può comprare, poiché il prezzo è di 200 mila lire, solo una mezza mucca nuova. Alla fine egli si troverà con sole 50 mucche nella stalla; ossia avrà diminuito il patrimonio zootecnico suo e per conseguenza quello nazionale alla metà di quello che era. Si vuole ciò? Si vuole che scemi la produzione del latte delle carni dei cuoi, si vuole che crescano i prezzi e diminuisca il reddito nazionale? Si costringano i produttori a vendere ai prezzi di costo invece che a quelli di mercato; si vituperino coloro i quali operano razionalmente con la taccia di speculatori. Si otterrà oggi il favore delle folle; ma si sarà fatalmente e giustamente lapidati domani dalle stesse folle.

 

 

Fa d’uopo riportare la parola “speculazione” al suo significato genuino; che è quello di chi guarda all’avvenire, di chi tenta, a suo rischio, di scrutare (speculare) l’orizzonte lontano ed indovinare i tempi che verranno. Purtroppo, gli “speculatori” veri sono rarissimi. Se la meteorologia a mala pena riesce a fare brevi previsioni sul tempo futuro, ancor più difficile è all’uomo fare previsioni sul futuro economico. Gli uomini dotati della facoltà divina della previsione sono rarissimi. La più parte di noi uomini comuni agisce come le pecore, che dove l’una va, le altre vanno. Ma quando tutti corrono in un verso, possiamo essere sicuri che quel verso conduce all’abisso. I rarissimi veri “speculatori” si sono oramai voltati da un’altra parte in cerca di quegli indizi che appena appena si intravedono all’orizzonte e che indicano le vie della nuova produzione dei nuovi gusti e quindi dei guadagni vantaggiosi agli speculatori ed alla collettività. Quel che tutti fanno – e tra i tutti si noverano massimamente i politici, intenti a seguire le folle e nemicissimi perciò degli speculatori – è certamente uno sbaglio. Vi è sempre un limite alla convenienza, ma poiché quel limite è sempre sorpassato dagli uomini, animali per essenza imitatori, è sommamente vantaggioso che i pochi “speculatori” suonino il campanello d’allarme per gli sbagli che si stanno facendo e additino le vie dell’avvenire. A costoro non occorre erigere statue, ché essi agiscono nel proprio interesse e corrono spontaneamente il rischio dei propri errori. Non intralciamone tuttavia l’opera feconda di guida alle moltitudini paghe di ripetere le idee lette ogni mattino; e, sovratutto, non copriamoci di ridicolo con lo storcere il significato corretto delle parole, innalzando idoli vani ed abbassando quel che nell’umanità è rarissimo.

Difesa della nostra storia. Gli uomini d’oggi non hanno il diritto di offendere la memoria dei loro vecchi, mutilando anche il ricordo di quel che le loro terre erano state, di quel che i loro padri avevano operato e sofferto

Difesa della nostra storia. Gli uomini d’oggi non hanno il diritto di offendere la memoria dei loro vecchi, mutilando anche il ricordo di quel che le loro terre erano state, di quel che i loro padri avevano operato e sofferto

«La Nuova stampa», 22 agosto 1946

«Il Mondo», settembre 1946, pp. 17-18[1]

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

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«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

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«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

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«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

 

Pianificazioni. Piani privati e piani statali. L’operaio svizzero e la sua casetta. Come si comporta il governo sovietico. Risparmio volontario e risparmio coatto. Si paga 10 al contadino e si vende 60 al consumatore

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«Il Subalpino», 21 maggio 1946

«Il Cittadino», 22 maggio 1946[1]

«La Verità», 25 maggio 1946[2]

«Corriere di Novara», 29 maggio 1946[3]

 

Il nuovo libro di Keynes

«Corriere della Sera», 22 gennaio 1926
Invece di pubblicare una seconda edizione del volume diventato celebre The Economic Consequences of the Peace, il Keynes ha preferito dargli un seguito con un nuovo volume A revision of the Treaty (Londra, Macmillan). Sarebbe stato augurabile che, contemporaneamente alla edizione inglese fosse uscita anche quella italiana. Gli italiani discorrono molto di problemi economici e sociali e delle ingiustizie del Trattato di Versaglia; ma non hanno molta pazienza di leggere neanche questo che è sicuramente il più chiaro, perspicuo, ben ragionato libro che sia comparso sull’aspetto economico della pace. I pochi che hanno voglia di informarsi direttamente, di prima mano e non per sentito dire, faranno bene ad ogni modo a procurarsi questo secondo volume. Come del primo, la lettura ne è affascinante. Il Keynes è un economista che sa scrivere e sa presentare ragionamenti non facili con forma cristallina. Al suo libro converrà attingere forse parecchie volte e per dilucidare parecchi problemi. Oggi, mi limito ad estrarre i dati i quali sono necessari ad illustrare la sua proposta finale e pratica.

La tesi fondamentale del libro è che i due anni passati dopo la pubblicazione del primo volume hanno dimostrato la verità di ciò che egli allora affermava. Le successive conferenze: Sanremo (19-26 aprile 1920), Hythe (15 maggio e 19 giugno 1920), Boulogne (21-22 giugno 1920), Bruxelles (2-3 luglio 1920), Spa (5-16 luglio 1920) Bruxelles (16-22 dicembre 1920), Parigi (24-30 gennaio 1921), Londra (1-7 marzo 1921), Londra di nuovo (29 aprile e 5 maggio 1921) sono altrettante tappe verso il ricupero della sanità mentale in materia di riparazioni. Quanto cammino si è fatto dal giorno in cui, nell’autunno del 1918 il Signor Lloyd George conquistava una schiacciante maggioranza nelle elezioni generali alla Camera dei Comuni sventolando dinanzi al corpo elettorale il programma: la Germania deve pagarci tutte le spese e perdite di guerra!, ad oggi, in cui lo stesso Lloyd George si apparecchia ad ottenere dagli elettori una maggioranza ugualmente favorevole di deputati al grido: Via da noi il calice amaro delle riparazioni tedesche! Noi non vogliamo accettare dalla Germania neppure uno scellino! L’esame critico delle frasi e delle teorie grazie a cui si è operata una così stupefacente trasmutazione di idee, frasi e teorie inventate di volta in volta dagli uomini politici e dai giornalisti per acquetare le voglie di quella terribile tiranna che è la pubblica opinione, è un esame esilarante e mortificante, comico e tragico nel tempo stesso. Per ora riassumiamo, riproducendo uno schema del Keynes, le frasi successive del cambiamento. Le cifre segnate qui sotto sono quelle che la Germania avrebbe dovuto ogni anno pagare per trent’anni in miliardi di lire-oro:

Fase prima: Somma promessa nelle elezioni generali inglesi del 1918 …………………36,0

Fase seconda : Previsioni del ministro delle Finanze francese,

signor Klotz, nella seduta della Camera del 5 settembre 1919 ………………………….22,5

Fase terza: Somma fissata dalla Commissione delle Riparazioni

nell’aprile 1921 ……………………………………………………………………. 10,3

Fase quarta: Somma fissata nell’accordo di Londra del maggio

1921, nell’ipotesi che le esportazioni tedesche raggiungano i

10 miliardi di marchi, ossia il doppio del 1920 ……………………………………. 5,8

Eppure, anche questa cifra che è meno di un sesto di quella sbandierata nel fervore della vittoria e poco più della metà di quella fissata a Londra, è da relegare nel dominio delle utopie. Il Keynes adduce a prova della sua tesi molti fatti, di cui ne ricorderò solo due: il primo è che il bilancio in corso dell’impero tedesco, supponendo che 1 marco oro sia uguale a 20 marchi carta – ed una diversa ipotesi ingrosserebbe le cifre da una parte e dall’altra senza mutare la sostanza delle cose – reca un’entrata di 59 miliardi di marchi contro un’uscita di 93,5 miliardi di marchi, non comprese le riparazioni. Poiché queste oscillano, a seconda delle esportazioni, da 70 a 90 miliardi di marchi, è evidente che le entrate dovrebbero essere triplicate per poter far fronte alle spese correnti ed alle riparazioni. È ciò possibile? Il Keynes ne dubita assai ed adduce a conforto del suo dubbio quest’altra considerazione: il reddito medio di ogni tedesco, supponendo, sempre 1 marco oro uguale a 20 marchi carta, non può oggi calcolarsi superiore a 5.000 marchi carta. Il carico delle riparazioni, anche calcolate solo a 70 miliardi di marchi carta, risulta di 1.170 marchi a testa, maschi e femmine, vecchi e bambini compresi. Ove si riesca a ridurre le spese pubbliche da 93 a 60 miliardi all’anno, con uno sforzo difficilissimo a compiersi, sono 1.000 marchi di imposta, oltre ai 1.170 per le riparazioni che ogni tedesco dovrebbe pagare. A lui rimarrebbe un reddito netto di 2.830 marchi carta, qualcosa come 177 lire oro all’anno, aventi probabilmente la potenza d’acquisto che oggi avrebbero in Italia da 1 a 1,50 lire al giorno delle nostre attuali lirette carta. È possibile che per trenta anni di seguito un Paese di 60 milioni di abitanti si assoggetti alla dura esistenza che sarebbe richiesta per vivere con poco più di una delle nostre attuali lire al giorno a testa, allo scopo di potere pagare agli alleati le riparazioni, sia pure ridotte alla cifra fissata nel maggio a Londra?

Siccome la politica dovrebbe fondarsi su realtà e non su chimere, il Keynes propone di adattarsi alla realtà, cancellando in primo luogo dai 132 miliardi di marchi oro (in capitale) fissati dalla commissione delle riparazioni, i 74 miliardi corrispondenti al valore capitale attuale delle pensioni e sussidi dovuti ai superstiti della guerra ed alle loro famiglie. Bisogna cancellarli, sia perché non c’è la lontana probabilità di riscuoterli, sia perché essi sono stati richiesti, se non ingiustamente in senso astratto, in contrasto con la lettera e con lo spirito del patto d’armistizio, in seguito a cui la Germania abbassò le armi, patto che era debito d’onore degli alleati osservare.

I restanti 58 miliardi si debbono, a loro volta, ridurre, secondo il Keynes, a 30 miliardi, poiché gli alleati presentarono conti esagerati del valore dei danni arrecati dai tedeschi e dai loro alleati nelle terre invase. Il punto è disputabile; ma certo le osservazioni fatte dall’autore sulle esagerazione dei valori attribuiti alle case distrutte nella Francia e nel Belgio fanno riflettere. Ai 30 miliardi aggiungendo i 6 miliardi che pacificamente la Germania si è obbligata a pagare al Belgio, in rimborso dei prestiti fatti a questo dagli alleati, giungiamo ad una indennità totale di 36 miliardi di marchi oro. Questa è una cifra che il Keynes dichiara nel tempo stesso giusta e sopportabile dalla Germania; ed egli propone di attribuirne anzitutto 18 miliardi alla Francia e 3 miliardi al Belgio. Il resto, ossia 15 miliardi, andrebbe pro-forma ripartito così: 11 miliardi all’Impero britannico, 2 miliardi agli Stati Uniti, 1 miliardo all’Italia ed 1 miliardo agli altri Paesi riuniti insieme. In realtà, il piano delle indennità tedesche, dovrebbe essere congiunto ad una contemporanea rinuncia alla esazione dei propri crediti da parte almeno dell’Inghilterra e possibilmente dagli Stati Uniti, rinunciando in compenso gli altri Paesi, salvo la Francia ed il Belgio, alle indennità tedesche. Il piano, che il Keynes giudica ora il più vicino alle possibilità si svilupperebbe nel seguente modo:

Francia . – Oggi ha diritto sulla carta a riscuotere dalla Germania da 1,85 a 2,39 miliardi di marchi oro all’anno; ma deve all’Inghilterra ed agli Stati Uniti 1,48 miliardi per il servizio dei prestiti ricevuti. Incasso netto problematico da 0,37 a 0,91 miliardi all’anno. Con la proposta Keynes, la Francia rimarrebbe creditrice di soli 18 miliardi di marchi oro in capitale, equivalenti a 1,08 miliardi all’anno; ed in compenso non dovrebbe più nulla agli Stati Uniti ed alla Inghilterra. Il credito verso la Germania, essendo di tanto più piccolo, sarebbe molto più sicuro; e l’incasso netto sarebbe superiore.

Belgio . – Adesso legalmente ha diritto, ad una cifra incerta tra 280 e 368 milioni. Riceverebbe invece 3 miliardi in capitale, ossia 180 milioni quasi certi all’anno.

Inghilterra . – Oggi ha teoricamente diritto al 22 per cento dei 132 miliardi in capitale, ossia a 29 miliardi. Con le proposte Keynes essa avrebbe diritto ad 11 miliardi, a 10 dei quali dovrebbe senz’altro rinunciare a beneficio della Germania. Il miliardo residuo lo riscuoterebbe, mettendolo però a disposizione dell’Austria e della Polonia, affinché questi Paesi, aiutati molto moderatamente, possano mettere in ordine il loro meccanismo monetario e finanziario. Essa dovrebbe rinunciare altresì a tutti i propri crediti verso la Francia, l’Italia, il Belgio e gli altri Paesi alleati, a condizione che questi rinunciano alle indennità tedesche. Nonostante queste rinunce, l’Inghilterra dovrebbe rimborsare i suoi debiti verso gli Stati Uniti.

Italia. – Questa ha oggi il solito diritto teorico al 10 % delle indennità tedesche, ossia a 13,2 miliardi, più un diritto, ancor più problematico, ad una maggiore proporzione delle indennità austriache e bulgare. Dovrebbe darvi di frego, ricevendo in compenso il condono di 476 milioni di lire sterline di debiti verso l’Inghilterra e l’impossibilità morale per gli Stati Uniti di esigere i propri crediti, oggi valutati a 1.809 milioni di dollari. Anche astrazion fatta di questi ultimi, la cancellazione di un debito di 476 milioni di lire sterline equivale bene ad un credito incerto di 13,2 milioni di marchi oro.

Il congegno poggia tutto, come si vede, sulla buona volontà dell’Inghilterra e degli Stati Uniti di rinunciare ai propri crediti. Il Keynes dice che la buona volontà dell’Inghilterra è sicura; che nessuno dei suoi concittadini considera possibile o pensabile di far pagare gli alleati; ed afferma che, nonostante ogni apparenza in contrario, presto si vedrà che gli Stati Uniti sono della stessa opinione. L’Inghilterra, sopra tutto, ha interesse grandissimo a far bella figura, rinunciando alle indennità tedesche ed ai crediti verso gli alleati e pagando viceversa i suoi debiti verso gli Stati Uniti, perché ha interesse alla pacificazione dell’Europa. Questo risultato, se ottenuto, vale, e al di là, ogni sacrificio pecuniario. Gli altri paesi, Francia, Italia e Belgio, lucrano tutti dalla sistemazione proposta. Alla Germania viene consentito, con un debito ridotto a 18 miliardi verso la Francia e 3 verso il Belgio, di riprendere una nuova vita pacifica nel consorzio delle nazioni europee. Questo il piano del Keynes.

Albi di giornalisti

Albi di giornalisti

«Il risorgimento liberale», 12 dicembre 1945

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 592-597

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 972-978

Giornali e giornalisti, Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 43-50

The future of the Italian press

The future of the Italian press

«Foreign affairs», aprile 1945, pp. 505-509

«Nuova antologia», luglio 1945, pp. 207-216[1]

 

 

 

 

Italy lost her last remnants of liberty when the freedom of the press was abolished in January 1925 and all Italian newspapers became, despite their different titles, nothing but Official Gazettes or Master’s Voices. A proper solution of the problem how to restore that lost freedom is essential to the restoration of truly democratic government in Italy.

 

 

Until Italy is completely liberated from the Germans and neo-Fascists, and so long as newsprint continues to be extremely scarce, some regulation of the number and size of newspapers is obviously unavoidable. The responsible occupying authorities limited the number of papers to one for each political party. This makeshift, however, cannot be prolonged if the aim is to revive truly free political life in Italy.

 

 

Italy has never had anything to compare with the weeklies of Anglo-Saxon countries, and past experience does not encourage us to rely on the weekly press for the political education of the people. Dailies will continue to be almost the only channel through which electors can be led to form a strong democratic government truly representative of the will of the people. Today nobody knows what this will is; probably, indeed, no such thing as a popular will exists. Hopes, fears, shibboleths, slogans, rumors sway the country. Without a truly free press, representing all shades of opinion, the general elections to be held eventually will be much more like a Napoleonic, Mussolinian or Hitlerian plebiscite than a reasoned selection of the best men to be put at the helm of the state.

 

 

II

The party press: its merits and limitations

The new dailies – whether published legally in Naples or Rome, or illegally in Milan or Turin, and including the local papers in the smaller cities – are organs of the different political parties. In this respect the old newspapers like «Avanti!» which were suppressed in Italy during the Fascist regime may be classified as new also; for they are party organs too. To the extent that the mouthpieces of the parties – Liberal, Conservative, Christian-Democratic, Action, Socialist, Communist – openly declare their affiliations their standing is perfectly honorable. Indeed, they form a strong and necessary pillar of any proper political structure. It is all-important that people who for 21 years were kept in absolute darkness about the differences of political parties should be able to consider programs and hear contrasting views as to how best to achieve the country’s economic, social and moral reconstruction.

 

 

In addition, there will, of course, be dailies which are organs of various economic and social organizations. Trade unions, for instance, will publish their daily newspapers. Well and good, provided they admit that they are published to represent the ideas and interests of such-and-such a group. But the party papers and those devoted to representing special economic or social interests do not together form the press which is needed most urgently in Italy. The party press and the group press are not an independent press. They are the loyal and useful organs of their respective parties and groups, cogs in the party or group machinery. Not the editor is master, but the party caucus, the organization meeting. Only conformist opinions will have any chance of reaching the eye of the public. An outsider, the independent critic, the man in the street, will find it as difficult to catch the public eye as it is difficult for a back-bencher in the House of Commons to catch the eye of the Speaker. If all dailies are bound to be the organs of a political party or of a social or economic group, it will be necessary to organize a new party or a new trade union before undertaking to publish a new daily, thus increasing the fearful profusion and confusion of parties already existing in liberated Italy. Too many parties are perhaps an unavoidable reaction to the one-party Fascist system; but the reaction threatens to go so far as to make any strong government impossible.

 

 

There lurks a danger in the party press. It is highly improbable that party programs will establish general political and social aims corresponding to what the people at large would spontaneously desire. In countries such as Great Britain or the United States, where political discussion has never been interrupted, the attention of the public is focussed on specific problems. Full employment, education, housing policy, reclaiming of arid or waste lands, flood control and the development of waterways offer American examples. They are usually concrete problems, more or less capable of solution in practical terms. The political class in Britain or America is an established group; it changes slowly and its leaders are well known. New men emerge from time to time; but their appearance does not revolutionize what happens in the political arena.

 

 

In Italy things are very different. On July 25, 1943, the Fascist world disappeared at a stroke. New men emerged whose names were as unknown as those of the old guard who had survived in exile. The best of them have spent years in Fascist prisons or camps. Born and educated in a climate of revolt and conspiracy, they think in terms of revolutionary change, of the inevitability of great social upheavals. Many of the younger men are pure intellectuals, with no background of solid economic and social training.

 

 

The so-called corporative theories which were taught during the Fascist regime were an ill-digested abracadabra of slogans, which changed rapidly according to the whim of the dictator. In their place, the generation 20 to 40 years of age is now eagerly absorbing other ill-digested propaganda, mostly abridgements of Marxism or Leninism.

 

 

In this climate, where old men, half forgotten, are reappearing, and where new young men are emerging and striving to form a new political class, radical solutions are apt to feature all party programs and their slogans in the daily press. Apart from how to liquidate the remnants of Fascism, the problems most discussed in Italy today are: republic or monarchy, the socialization of banks and great industries, distribution of the land, workers’ councils in the factories, profit-sharing, the introduction of the Russian kolhoz system on the land, etc. Nobody knows if the Italian people want these or other things, because none of them is discussed on its merits. All are accepted, more or less, by the parties because they think that something big must be done to satisfy the masses, which are suffering the consequences of 20 years of Fascist rule and the present war. With parties which court the electoral favor of the masses, and a daily press whose editors will not dare to do battle against slogans apt to catch votes for their masters, who will undertake the urgent task of forming a reasoned public opinion? Only a daily press whose editors have a strong background of ideals of political and social freedom, but who at the same time are independent of parties.

 

 

III

 

The independent press before fascism

Before 1922, and even until January 4, 1925, Italy had a great independent press. Its origin was very much like that of the great press in England, where the «Times« had at its start a Walter, the «Manchester Guardian» a Scott, the «Economist» a Wilson. A few cases may be mentioned. A strong journalist, Botero, created the «Gazzetta del Popolo» in 1848 in Turin, when that city was the moral capital of divided and Austrian-ruled Italy; and the newspaper remained the property of Signor Botero and of his associate and follower, Signor Cerri, and their descendants, until the advent of Fascism. In Turin, also, an even older daily with a small circulation, called until 1896 the «Gazzetta Piemontese», was renamed the «Stampa» by a young man, then a lecturer at the University, Signor Frassati, who worked hard and gained for it second place among Italian newspapers: its circulation in time reached 500,000 copies. He remained the exclusive proprietor until 1925. First place surely was held by the «Corriere della Sera» of Milan, created in 1876 by a great journalist, Signor Torelli Viollier, with the aid of a small group of devoted friends. At his death, the editor’s chair was given to his former secretary, Signor Luigi Albertini, a young man who began his career as an economist with a book on the eight-hour day. Under his editorship, the «Corriere della Sera» reached a circulation of over a million copies.

 

 

These dailies, and many others, had the following characteristics:

 

 

  1. They were independent of financial or economic big interests. In some cases, like that of the «Corriere della Sera», industrialists were among the proprietors; but the editor of that paper, first Signor Torelli Viollier and then Signor Albertini, was its sole manager, with unlimited liability and responsibility, and his associates had only control over the yearly balance-sheet. The «Gazzetta del Popolo» and the «Stampa» were exclusively family concerns.

 

  1. The editors were persuaded that honesty was the best rule and that the only road to financial prosperity was to rely exclusively on the daily nickel, the yearly subscriptions of regular readers, and advertisements. Once a newspaper accepted subventions from private interests it was doomed. Whereas the independent dailies achieved circulations of half a million or a million copies, those which were subsidized by financial or other interests sank to ten or twenty thousand copies and registered losses instead of profits for their proprietors. Advertisers had no influence whatever on the political or economic policies of the independent newspapers. It has often been alleged that almost all the big French newspapers sold their pages to various banking or economic interests and even to foreign governments: but no such reproach could be made to the great Italian press. Its moral standards were of the highest, and it made money, in some cases a great deal of money. Honesty did pay. The capitalized value of one of the above-mentioned newspapers, in which only $50 had originally been invested, was valued at one time at over $4,000,000.

 

  1. The newspapers were ruled by an autocrat called the editor. No party caucus or political friend had any power to influence his policy. A few editors, such as Signori Frassati, Albertini and Bergamini, after they had achieved supremacy in the journalistic world, were made senators, but they were not truly political men. The politicians in general hated them because there was no way of obtaining anything from them, their aim being the successful performance of a public duty. They had, indeed, political tendencies; but they remained above all critical. Their task was to report, as fully and as impartially as possible, facts and opinions. They tried hard to guide and form the opinions of their readers. In a country where protectionism prevailed in the programs of practically all parties, the economic pages of the «Corriere della Sera» and of the «Stampa» were entrusted by the editors to two university professors who for 25 years, from 1900 to 1925, struggled to enlighten public opinion about the vagaries and effects of protectionism, bad money, monopolies and economic privileges. The advent of Fascist totalitarianism marked the end of independent journalism in Italy. One by one, the old editors were obliged to surrender. Owing to a technical fault in the deed of association, Senator Albertini was obliged to withdraw from the editorship and his family from the proprietorship of the «Corriere della Sera». Senators Frassati (Stampa) and Bergamini (Giornale d’Italia) were likewise obliged to sell their property rights respectively to the FIAT concern and to a Signor Armenise. The «Gazzetta del Popolo» passed from the Cerri family and its associates to the SIP (electricity) concern. If they had not sold their interests, the newspapers would have been suppressed by the Fascist Government. Thus, violence – a legal violence indeed, but violence all the same – expelled the old editors and proprietors in 1925 from the guidance of the Italian press.

 

 

IV

The present situation and the future

In the interval between 1925 and 1944 these glorious old newspapers were prostituted. They became mere propaganda tools in the hands of the Fascists. Therefore some say: «Their very name means shame. Suppression is the only way to make them expiate their sins».

 

 

Beware of too-logical reasoners. Their moralism cloaks a struggle among the political parties. Every party would be only too glad if it could become the master of the «Corriere della Sera» or the «Stampa»; but as it is afraid that some other party might be the winner in the race, it prefers that none should have them. This is the gist of the matter. This is the real reason why they want the old papers eliminated and only those dailies published which are party organs. Nor can the problem be solved by having the government, or some government-controlled committee, take over the management of the old papers.

 

 

Any such course means the suppression of critical independent opinion. The Socialist, Communist and Christian-Democratic Parties are mass parties, well organized. Their official newspapers, «Avanti!», «Unità» and «Popolo», will obviously have a following among the organized members of their respective parties. Intermediate, liberal opinions are to be found among the middle class, in the professions, both public and private, and also among independent agriculturists, artisans, small and medium landed and house proprietors. They were never organized in the past; and it is improbable they ever will be. These classes, which are the backbone of Italian society and control perhaps a majority of votes, cannot be reached by the party press. Cut them off from the great daily press, and they are practically cut off from political life.

 

 

The Italy of the future will be ruled by the men elected by the people at large. What is wanted is that all shades of opinion can be presented to the public so that the electors will make a reasoned choice. What is wanted is that independent public opinion should be placed again in the position of relying upon an independent press. This situation is not especially Italian; it is worldwide. Italy has a chance to give a sound solution to a general problem presented in many countries.

 

 

The principles which should govern the renaissance of the independent press are the following:

 

 

  1. Present proprietors must be expelled, for two reasons. First, their position is morally indefensible. They ignominiously made themselves subservient voices of the dictator. Second, they are suspected of being voices of private interests. The «Stampa» (Turin) is now the property of the gigantic FIAT concern (automobiles and engineering); the «Gazzetta del Popolo» of the SIP (one of the biggest electricity trusts); the «Corriere della Sera» of the Crespi family (cotton); the «Giornale d’Italia» of a Signor Armenise who was recently indicted before the Court of Justice as a Fascist profiteer.

 

  1. The present proprietors must be duly indemnified. A judicial expert can estimate the present value of the expropriated concern. The buyers will have to pay the price. If the state has a claim on the proceeds because of taxes, general or special, such as taxes on Fascist profiteering, a special lien should be placed upon it.

 

  1. An option should be given the old proprietors who were expelled from their property in 1925, or to their heirs, or to a group headed by them, to repurchase, at the stated price, the concern which was formerly their property. In many cases, the option will be taken up. In a regime of freedom, the daily press, if well managed, is bound to be again, as of old, one of the most prosperous ventures of the country.

 

  1. Guarantees should be exacted to make sure that special private interests will not acquire predominance.

 

  1. The editor should be solely responsible for the political, economic, financial and general policy of the newspaper. If he is willing, he should also be entrusted with the management of the concern (as was the rule before 1925 for the «Corriere della Sera», the «Stampa», and probably others also). Once appointed, the editor should not be dismissed nor have his powers restricted without the consent of the body outlined below.

 

 

The present offers an unhoped-for occasion for adopting in Italy a method which I think was first initiated in Great Britain, when the proprietorships of the «Times» and of the «Economist» were transferred from the Walter and Wilson families to shareholders’ companies. It was deemed necessary to guarantee that these world-famed institutions should not become the property of financial or other interests which might have policies running contrary to the public interest. A body of trustees was created – men enjoying universal respect – with the duty and right of consenting to the appointment of new editors and to any transfer of shares, thereby ensuring the future independence of the newspapers.

 

 

There would not be any difficulty in adopting some such device in Italy. Of course the system need not be enforced for the small fry. Only those newspapers which have reached a circulation of at least 100,000 copies and are not the official organs of a political party or of a trade union or other economic association need appoint a Board of Trustees. Once selected, the Board should be self-recruiting.

 

 

An editor who is bound to obey the directions of a party caucus is not a true editor. He is a servant of other men. He cannot create: he can only follow. His paper will never be great. Only the editor who is free to diffuse independent ideas can make and keep a newspaper great. Italy, and all Europe, needs great independent newspapers to lead men again into the ways of freedom.

 

 



[1] Ristampato con il titolo Il problema dei giornali [Ndr.].

Il problema dei giornali

«Nuova Antologia», vol. 434, luglio 1945, n. 1735

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 559-570 e 579-592

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 932-971

Giornali e giornalisti, Sansoni, Firenze, 1974, pp. 51-94

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 157-184

Dopo un breve periodo di limitazione, vi è stata, particolarmente nella capitale, una fioritura di giornali, che ci può sembrare eccessiva e non è nuova. In ogni momento di grandi commozioni politiche, dal 1789 al 1793 in Francia, nel 1798 e 1799, quando crollavano i regni e fiorivano le repubbliche in Italia, e di nuovo nel 1848 e nel 1849, e poi nel 1859 e nel 1860, nei momenti critici del nostro risorgimento, il numero dei giornali, dei fogli e delle effemeridi di ogni sorta si moltiplicò. Fioritura destinata ad essere effimera, anche se ai tempi rivoluzionari non avessero fatto seguito, come dopo il 1800 od il 1849, anni di governo illiberali o tirannici. Alla lunga tutti si stancano di perdere denaro, anche in difesa propria, quando ci si avvede che lo scopo non può essere conseguito per quella via. Giova per ora alla moltiplicazione dei fogli quotidiani e delle riviste la stessa scarsità della carta, divenuta perciò un bene razionato e distribuito con criteri detti “di giustizia”, i quali forse sono necessari ad evitare accaparramenti da parte degli imprenditori meglio provveduti, ma sono certamente irrazionali e dunque sostanzialmente ingiusti. Il favore del pubblico non giova a far crescere la tiratura del giornale ben fatto, il quale fornisce notizie vere e commenti reputati indipendenti ed aggiustati dai lettori; ché il distributore ufficiale di un bene scarso (carta), è costretto a seguire criteri oggettivi di graduatoria, come l’uguaglianza o l’anzianità od altrettanti metri formali. Di qui nasce, come per tutti i beni scarsi, l’effetto ovvio dell’aggiustamento illegale, grazie al quale i giornali scarsamente venduti trasferiscono ai giornali più diffusi l’eccesso delle assegnazioni a prezzi di mercato nero. Ma l’aggiustamento è imperfetto, sia perché l’industria del fondare giornali allo scopo di non essere letti ed aver largo margine di carta vendibile (diceva già Costanzo Chauvet, desideroso di non sprecare in carta l’assegno ricevuto sui fondi segreti: «a me basterebbe stampare tre copie del Popolo romano: una per il ministro dell’interno, una per il procuratore del re ed una per me”), diventa sempre meno redditizia quanto più cresce il numero dei concorrenti al riparto del bene scarso, sia perché i prezzi esorbitanti di mercato nero pongono un limite alla convenienza dell’acquisto di carta da parte dei giornali diffusi. Il rimedio si avrà quando la carta tornerà ad essere una merce venduta a prezzi uguali al costo marginale, e il rimedio si attuerà tanto più presto quanto più liberamente si consentirà l’entrata della carta dall’estero. In regime di mercato libero, il pubblico deciderà sovranamente quali giornali debbano sopravvivere e quali morire; e la sua sarà una decisione presa di giorno in giorno spontaneamente, senza minacce e pressioni di governi, di spiriti o di gruppi sociali; né gli inserzionisti potranno opporsi al voto segreto e libero dei compratori al minuto e degli abbonati, essendo evidente il loro interesse a preferire i giornali a tiratura maggiore e migliore.

Rimarranno in vita i giornali “dichiaratamente” di partito o di gruppi sociali e quelli indipendenti. Tutt’e tre le specie hanno ragione di vita e posseggono dignità morale; le due prime perché ogni partito ed ogni organizzazione economica o sociale ha diritto di esporre e difendere i propri convincimenti e di attirare a sé il maggior numero di partitanti o di organizzati; e la terza perché partiti politici ed organizzazioni sociali sono, per definizione, corpi già costituiti e l’interesse massimo della collettività è invece volto all’avvenire, al nuovo, al non ancora costituito, all’idea che non ha ancora acquistato favore bastevole a giustificare la formazione di un partito o di una lega o sindacato. Solo l’uomo, la persona, il cervello pensante è capace di creare il nuovo, di non inchinarsi agli andazzi, di pronunciare le verità spiacevoli ai più. Solo il giornale indipendente espone l’idea nata nel cervello di chi la mette sulla carta e non quella che è riuscita già ad affermarsi nei consessi o nei consigli dei partiti politici e dei gruppi sociali, e che, per essere riuscita a tanto, dimostra senz’altro di essere un’idea non certamente nuova, probabilmente già passata al vaglio di parecchie generazioni, forse già antiquata o, come si usava dire nel tempo fascistico per le idee fornite dell’attributo di giovinezza eterna, superata. Poiché una società qualsiasi lentamente muore se vive solo di idee vecchie, ed anche rapidamente si dissolve se corre esclusivamente dietro alle idee “nuove”, fondate per lo più su ragionamenti formalmente veri, i quali tengono conto solo di taluni elementi della complicatissima struttura sociale e sono perciò storicamente e razionalmente falsi, in una società progressiva e salda debbano coesistere giornali di partito, giornali di gruppo e giornali indipendenti.

Per restringerci a questi ultimi, il metodo accolto rispetto alle imprese proprietarie dei grandi giornali indipendenti parmi pericoloso. Invece di espropriare coloro i quali fecero scempio di onorande testate e di restituirle agli antichi proprietari i quali fossero disposti a pagare a chi di ragione – e questi potrebbe essere in parte l’erario pubblico – il pieno prezzo odierno di stima, si sottoposero quelle imprese, per ora, sembra, senza il diritto a comparire col titolo antico, ad un regime commissariale, del quale, astrazion fatta dalla dignità degli odierni commissari, le conseguenze non possono non essere politicamente pessime. Se il regime commissariale ha una significazione, esso significa dare il giornale in mano al governo od al comitato di partiti il quale designa i commissari. Si perpetua il sistema dei giornali i quali paiono tali e sono invece, come al tempo fascistico, bollettini ufficiali o voci del padrone. Non monta che della voce del padrone si facciano eco comitati interni eletti dai redattori, impiegati ed operai dello stabilimento nel quale si stampa il giornale, o fiduciari di uno o di parecchi partiti, i quali siano riusciti ad impadronirsi dell’impresa. Quello non è un giornale indipendente; ma un organo del governo o del ministro o del comitato che nominerà il commissario. Anche le gazzette ufficiali hanno un proprio ufficio; ma importa che il pubblico sia addottrinato intorno a questa loro vera natura. Il metodo, che pare sia stato tentato a Milano di un Corriere di informazioni il quale, per la rassomiglianza della testata e dell’aspetto tipografico, fu dal pubblico ricevuto come un surrogato del Corriere della Sera, apparve subito essere espediente incongruo. Non basta che il direttore sia una egregia persona ed al gerente o commissario sia affidato esclusivamente il compito di conservare intatto il patrimonio dell’impresa. Né il direttore puòdirigere, se non sia interamente e contrattualmente indipendente da governi, da partiti, da ingerenze dei proprietari dell’impresa; né l’impresa vive, quando chi la gerisce abbia unicamente il compito di conservarla. Solo un’impresa liberamente indirizzata dal direttore-gerente o dal direttore, al quale il gerente sia subordinato, è viva e vitale. Un’impresa che sia altrimenti congegnata può sopravvivere a lungo, vivendo del suo passato; ma è destinata a morire.

Il problema non è dunque quello di rappezzare ibridi metodi; ma l’altro di garantire l’indipendenza della stampa, non affiliata in modo dichiarato ad un partito o ad un credo o ad un interesse (di operai, di contadini, di imprenditori, di banchieri, di proprietari, di artigiani, di mezzadri, ecc.), contro il pericolo che oggi si definisce delle «forze oscure della reazione in agguato», ed è, se si voglia parlare in lingua volgare, quello della partigianeria, delle informazioni inesatte o false o capziose, dei commenti inspirati ad interessi particolari, contrastanti con l’interesse dei più.

Si vuole per lo più conseguire l’intento, indubbiamente alto, anzi imperiosamente richiesto dal bene comune, con mezzi legali. Dei quali il primo è una variante dell’antico “diritto di rettifica”, consentito a coloro i quali ritengono che, a lor danno, un fatto sia stato narrato in maniera non rispondente al vero o si sia pubblicato un commento ingiurioso o diffamatorio. Si vorrebbe cioè che, in ogni giornale una determinata quota dello spazio, ad esempio, una decima od una quinta od altra parte, sia riservata alla inserzione di rettifiche o di repliche inviate dai direttori o redattori od anche lettori di altri giornali, i quali reputassero lesa in qualche modo la verità nella narrazione e la equità del commento degli accadimenti quotidiani. Il lettore del Corriere della Sera – supponiamo per un momento di ritornare ai tempi antichi pre-fascistici – non correrebbe il rischio di essere addormentato da un commento troppo prudente o da una versione attenuata di un incidente parlamentare, od inferocito da un articolo acceso o da una narrazione ingrossata ad arte; ché, il giorno dopo, potrebbe leggere sul suo stesso giornale la rettifica o la replica del direttore dell’Avanti!; e lo stesso accadrebbe per i lettori dell’Avanti!, ammoniti subito, nel corpo del loro stesso giornale, dell’esistenza di circostanze taciute o male narrate o di possibili diverse interpretazioni dei redattori o lettori del Corriere della Sera.

Le varianti del concetto sono molte; ma suppergiù si possono ridurre all’idea che sia opportuno far presenti ad ogni lettore le diverse facce dello stesso fatto o problema. Per fermo la cosa è opportuna, ma il mezzo è incongruo. Innanzitutto la diversità nel vedere e nel commentare il medesimo fatto è insopprimibile. È impossibile che occhi appartenenti ad uomini diversi veggano uniformemente il medesimo fatto. Non esiste la storia o la cronaca oggettiva. Per ciò solo che un fatto, per essere appreso, dovette passare attraverso gli occhi e il cervello di due uomini diversi, quel fatto è e non può non essere narrato in modi diversi e forse contraddittori. A seconda della conformazione del cervello, dell’educazione, delle tendenze religiose o politiche, delle relazioni sociali, degli affetti familiari, quel che sembrò all’uno atto di ascesi religiosa, pare all’altro affetto da bassa superstizione; l’entusiasmo politico prende aspetto di gregarismo follaiuolo; il fervore rivoluzionario di brigantaggio. Ubi est veritas? Il lettore del Corriere della Sera, che probabilmente non sdegna di leggere spesso o talvolta l’Avanti!, sarebbe, invece che convertito, irritato dalle rettifiche impostegli, in virtù di legge, sul suo proprio giornale dall’avversario; e la rettifica sortirebbe effetto contrario a quello auspicato; così come accade od accadeva per quelle che i giornali pubblicavano obtorto collo sotto il titolo: «Riceviamo per mano d’usciere e pubblichiamo a norma di legge».

La rubrica delle rettifiche e dei dibattiti forzosi finirebbe per cadere in disuso, perché i lettori non comprenderebbero la necessità di leggere sul proprio giornale il riassunto delle notizie e delle argomentazioni che più ampiamente e genuinamente potrebbero scorrere nelle colonne del giornale avversario. Il direttore di un giornale, il quale indulgesse a siffatta pratica verso i giornali avversari, finirebbe per essere reputato uomo di poco buon gusto ed essere tenuto in conto di giornalista attaccabrighe, nomea, alla quale nessun uomo di valore è particolarmente affezionato. Il rimedio della “rettifica” è uno dei tanti esempi di degenerazione “legale” di un “costume”, il quale merita di entrare “volontariamente” nell’uso. Derivano dal “costume” e non dalla “legge” la rubrica delle “lettere al direttore”, oramai principalissima e popolarissima nei giornali di lingua inglese e palestra preferita dei lettori convinti della bontà di idee contrarie a quella del direttore; e quella, già divulgata in Italia innanzi al 1925, dei brevi riassunti degli articoli principali degli altri giornali; e finalmente la larghezza con la quale i giornali di informazione italiani trasmettevano da Roma i commenti dei giornali delle più diverse tendenze. Ma il rimedio, efficace se volontario, diventa irritante e fastidioso se coattivo. La libertà di stampa trova in se stessa rimedio alla propria unilateralità. Se il direttore di un giornale indipendente il quale non informa i lettori sulle opinioni diverse dalle sue, non sa l’abici del suo mestiere, il direttore, che vuole a forza far entrare le sue idee nella testa dei lettori del giornale d’altra tendenza, presto o tardi finisce di essere giustamente reputato da tutti, ed a giusta ragione, seccatore e jettatore. Ambedue sono destinati a condurre il proprio giornale a rovina.

Maggior favore incontrò in passato e incontra di nuovo rimedio della “pubblicità”. Si vuole che nella gestione dei giornali si possa guardare da tutti, come in una casa di vetro; e che perciò debbano essere resi di pubblica ragione i nomi dei proprietari, dei soci, dei fornitori di capitali in conto corrente od a mutuo, dell’importo delle quote e crediti di ognuno e di tutte le variazioni di esso; e siano pubblici, insieme con i documenti giustificativi, anche i conti delle entrate per vendita al minuto, abbonamenti, pubblicità e sovvenzioni d’ogni specie; e così pure delle spese tipografiche, telefoniche, telegrafiche, di quelle per stipendi assegni e gratificazioni; a direttori redattori impiegati ed operai; così che si possa ad ogni momento conoscere l’origine e la destinazione delle somme passate attraverso il giornale. Scopo della pubblicità è di sapere se il giornale sia assoggettato all’influenza di forze economiche o finanziarie o politiche, le quali possono essere contrarie all’interesse pubblico e, se queste forze esistono, denunciarle al tribunale dell’opinione pubblica e, smascheratele, ridurle all’impotenza.

L’esigenza della pubblicità merita di essere discussa ai fini del raggiungimento di fini pubblici diversi da quelli sopra considerati. Se si ritiene necessario di accertare i redditi netti assoggettandoli all’imposta, il legislatore può dare al procuratore alle imposte ampia facoltà di visione dei libri e documenti sociali. Siffatte facoltà son già date, amplissime, in Italia; e non si vede come il farne oggetto di nuova legiferazione possa crescerne l’uso efficace. Può darsi, parimenti, che in avvenire si diano a taluni pubblici ufficiali o magistrati facoltà di investigazione nei libri e nella contabilità di private e pubbliche imprese, allo scopo di accertare se esse usino metodi monopolistici, come, ad esempio, accordi per minimi di prezzo, restrizioni di clientela, accaparramento di brevetti e simili, atti a danneggiare i consumatori. Nella recente pratica nordamericana si hanno esempi cospicui di tali investigazioni promosse da magistrati o da commissioni pubbliche per combattere coalizioni monopolistiche.

Dubito che un sistema di pubblicità particolare per i giornali sia efficace a dar purezza allo scrivere quotidiano. Quando mai si vide che diffamatori ricattatori intimidatori pistolettatori non sapessero vestire purissime candide vesti di difensori della verità, di propugnatori di sacrosanti principi, pronti a morire per la difesa della loro fede? Quando mai si vide che il prezzo del ricatto fosse scritturato sui libri regolarmente tenuti dall’impresa giornalistica, creata allo scopo di ricattare diffamare intimidire e puntar pistole? Vedemmo prima e durante il ventennio fascistico nascere e fiorire giornali fondati sulla intimidazione; eppure i loro libri non avrebbero dato modo all’investigatore più sottile di trovare la prova del reato commesso. Forseché è vietato ad una banca di versare il prezzo dell’abbonamento per conto di dieci cento o mille dipendenti? È forse illecito preferire l’uno all’altro giornale per la pubblicità? Chi può conoscere i biglietti da mille forniti, senza alcun contrassegno, a titolo di ricordo, fra le pagine di un libro donato al giornalista dalla penna agile a scrivere sentenze vantaggiose al donatore? In questa delicata materia giornalistica l’arma della pubblicità è a doppio taglio. Si parte dalla premessa, dimostrata agli occhi miei dalla esperienza universale, che l’impresa giornalistica, la quale ubbidisce ad interessi particolari diversi da quello proprio del giornale – vender notizie vere e scrivere commenti ritenuti corretti da chi scrive – non può guadagnare; anzi è condotta necessariamente alla meta fatale: scarsa vendita e perdita in conto esercizio e in conto capitale. Se gli interessi difesi dal giornale sono particolari, gli interessati ben sapranno mettere a capo dell’impresa filantropi o credenti disposti a sacrificar tempo e denaro per la difesa di quel particolare interesse, che può essere quello della protezione doganale ad una industria, del promuovimento di una iniziativa anti-economica. Quei filantropi stipendieranno sociologhi ed economisti, pronti a dimostrare che solo così si dà lavoro ad operai disoccupati e stringeranno alleanza con organizzatori sindacali illusi che quella sia la via migliore a procacciar lavoro ai loro operai. Chi oserà condannare il filantropo il quale perde denari?

Il giornale “indipendente” definito come scrissi nel 1928 e ripetei nel 1944, se è diretto da uomo capace energico ardente e credente nella sua missione, ubbidiente solo a Dio ed alla sua coscienza ed a nessun altro, non può non guadagnare. Poiché Dio concede a pochissimi uomini, in ogni generazione e in ogni grande paese, le qualità di capacità energia fede ed ardente visione, necessarie a fare il capo di un giornale indipendente, così è fatale che quell’uomo faccia guadagnare assai all’impresa. Egli vende notizie e pubblicità a prezzi di mercato, a prezzi non superiori, anzi inferiori, se misurati per unità di pubblicità venduta, a quelli degli emuli, i quali perdono; ma poiché il pubblico lo segue, egli guadagna dove gli altri perdono. Guadagna, perché rende servizi migliori, perché sa procacciare al suo giornale le notizie più fresche dai paesi più lontani, perché si circonda di redattori e collaboratori scelti con cura e remunerati meglio di quelli dei giornali concorrenti. Come in tutte le imprese bene organizzate, egli vende a buon mercato e guadagna assai, perché i suoi costi sono alti, perché remunera largamente i suoi collaboratori, dal compositore al redattore capo, perché alla fine dell’anno od al chiudersi di qualche brillante servizio invia, senza attendere richiesta, a chi rese il servizio, particolari eccezionali guiderdoni.

Eccolo, in regime di pubblicità giornalistica, fatto oggetto di accuse invereconde. Guadagnò? Perciò rubò. La canea dei versipelle pennivendoli non consente al pubblico, ignaro del meccanismo della grande fortunata impresa giornalistica, di far propria l’idea elementare che sta a fondamento del successo: che solo il venditore onesto di notizie vere e di commenti creduti veri da chi li scrive può aver fortuna. Poiché si tratta di idea elementare, della stessa idea per cui fa, alla lunga, fortuna, modesta o grande non monta, colui che produce e vende frutta serbevole e sapida e non marcia e verminosa, vino genuino e non acqua tinta, panni duraturi e non stracci che la prima pioggia dissolve; quella idea stenta ad entrare nella testa del pubblico, invincibilmente tratto a comprare il giornale buono e altrettanto invincibilmente credulo alle calunnie più inconsistenti contro di esso.

Impotente a seguire la gente prezzolata da interessi inconfessabili, la pubblicità imposta dalla legge, praticata da autorità obbligata ad agire per regole generali, inspirata dall’odio istintivo contro chi si eleva per meriti propri, assai difficilmente riesce a punire il colpevole, e facilmente giova a frastornare ed impedire il bene. Congegnata così come si legge nei testi legislativi di prima il 1914, essa è impotente a conseguire l’unico suo fine pubblico, non proprio all’industria giornalistica, intendo dire il fine della lotta contro i monopoli. In Italia non è attuale il problema che si pone in Inghilterra e negli Stati Uniti per alcuni gruppi giornalistici di grande tiratura e di scarsa influenza politica; non già per i Times od il Manchester Guardian e lo Scotsman, ma per i Daily Mail, i Daily Sketch e simili, e cioè i cosiddetti giornali gialli a tiratura di milioni di copie. Essi spesso sono una piccola rotella in gigantesche imprese che vanno dal possesso delle foreste alle cartiere, dalle cartiere ai mezzi di trasporto, dalle agenzie fornitrici di notizie ai giornali quotidiani della metropoli e della provincia, alle riviste settimanali e mensili, alle biblioteche circolanti. Il problema si pone: sono vantaggiose queste imprese verticali? Non minacciano l’esistenza del giornale indipendente, impresa a se stante, ridotta a mendicare la carta e le notizie dal colosso monopolizzatore che gli è sorto accanto? Per togliere il pericolo, giova statizzare od altrimenti dar pubblico carattere al colosso, asservendolo allo stato ed al partito dominante e così distruggendo per altra via l’indipendenza che è garanzia di libertà? Formidabili problemi, i quali si profilano appena sull’orizzonte, ché la concorrenza tra i parecchi colossi è ancora viva, e prosperano tuttora, nonostante il fracasso, i giornali indipendenti, i soli i quali abbiano presa sulla opinione pubblica; conservatrice The Times, liberale The Manchester Guardian o laburista The Labour Herald. Ad escludere il pericolo, basterà in Italia aprir le porte alla carta straniera da giornali, in esenzione di dazio.

Fa d’uopo persuadersi che non esiste e non esisterà mai alcun rimedio legale atto a garantire l’indipendenza della stampa quotidiana. Anche il rimedio da me segnalato nella nota dei Foreign Affairs[1] a nulla varrebbe se fosse imposto dalla legge. Se il legislatore imponesse di istituire, «accanto al consiglio di amministrazione delle imprese giornalistiche un consiglio di fiduciari» incaricato di dare il benestare alla scelta del direttore ed al trapasso delle azioni o carature dall’uno all’altro socio, avremmo creato soltanto un organo cartaceo, privo di efficacia, qualcosa di simile ai soliti “collegi sindacali”, a cui è affidato il controllo della veridicità dei conti delle società anonime. Se tutti i giornali debbono avere al loro lato un collegio di probi uomini incaricati di affermare, secondo il dettame della loro coscienza, che il tale scelto come direttore dai proprietari è persona onorevole e veritiera, dove si troveranno i probi uomini pronti a scartare il tal’altro perché disonorevole e bugiardo? Se i probi uomini debbono affermare per tutti i giornali, ed anche solo per quelli che superano una data tiratura, che l’aspirante azionista o caratista non ha interessi contrastanti con l’interesse pubblico, quale mai probo uomo oserà diffamare il suo simile affermando l’impurità dei suoi propositi? No. Siffatti metodi riescono solo se volontari ed eccezionali. Quando gli inglesi seppero che i proprietari dei Times o dell’Economist a salvaguardare in perpetuo la buona fama del loro giornale, avevano affidato ad un collegio composto dei tali e tali uomini eminenti ed universalmente stimati l’ufficio di approvare le scelte dei futuri direttori ed i trapassi futuri delle azioni, si sentirono rassicurati. Badisi però che la scelta del collegio iniziale fiduciario non fu imposta da alcun pubblico potere né fu affidata ad alcuna autorità. Quei tali uomini parvero bene scelti; e parve a tutti buona cosa che, venendo a morire alcuno di essi, i sopravvissuti scegliessero, fossero statutariamente chiamati a scegliere, con giudizio insindacabile, l’uomo destinato a sostituirlo e così via in perpetuo.

In questa materia non giovano le elezioni, le scelte fatte da corpi pubblici e simili. Siamo in un campo assai vicino a quello delle accademie scientifiche o delle facoltà universitarie. Questi sono corpi chiusi, necessariamente chiusi, ai quali non si addicono metodi qualsisiano di suffragio di estranei. La loro prosperità dipende da una scelta iniziale. Siano venti o quaranta o cento persone autoelettesi in società private e poi riconosciute dal governo, come accadde in Inghilterra od in Piemonte; o siano originariamente scelte da un Richelieu o da un Federico II, la vita dell’accademia dipende dalla cooptazione che di nuovi membri faranno man mano i sopravissuti, cooptazione e cioè chiamata insindacabile e non motivata, fatta dai soci in carica, di altre persone che essi stimano via via degni di essere fatti senz’altro uguali a se stessi. Il metodo della cooptazione durò per secoli a garantire la stabilità degli ordinamenti statali nelle repubbliche marinare di Venezia e Genova; e poi fu disusato nelle cose politiche. Ma nessun altro metodo mai si inventò e probabilmente mai si inventerà a garantire la buona scelta dei membri dei corpi accademici. Quel metodo affida agli accademici ed agli insegnanti in carica il duro compito di scegliere coloro che, appena scelti, diventeranno in tutto gli uguali degli elettori, ed ai quali sarà affidato in avvenire l’arduo ufficio di perpetuare la reputazione del corpo. Non esistono regole le quali garantiscono la buona scelta; ché il giudizio, se deve essere primamente scientifico, deve in ugual misura essere anche morale e riguardare la dirittura di carattere degli aspiranti ad entrare nel corpo. Perciò ottimi sono quegli statuti, i quali più che sancire il diritto delle maggioranze a cooptare un nuovo socio, garantiscono il diritto di veto di una piccola minoranza, in taluni casi persino del quinto dei cooptanti, contro le nuove ammissioni. In una piccola società è sacro il diritto, se non dell’uno, dei pochi, di non ammettere nel proprio seno persona della quale non si abbia stima e della quale non si vorrebbe essere costretti a stringere la mano. Chi si senta menomato dal rifiuto di cooptazione dei soci di un accademia sia libero di fondarne una nuova libera. Se conquisterà fama, col tempo otterrà degno riconoscimento; e sarà anch’essa aristocratica, come quella alla quale in origine si contrappose.

Avrà successo quel giornale il quale primo oserà sottoporre volontariamente la scelta del direttore e dei soci futuri al giudizio di un consiglio fiduciario, purché la scelta originaria dei fiduciari incontri il consenso spontaneo dell’opinione pubblica. In un primo momento pensai che forse i fiduciari potrebbero essere tali in ragion dell’ufficio coperto: il primo presidente della corte d’appello, il rettore dell’università, il cardinale arcivescovo, il presidente della massima associazione operaia locale e simiglianti autorevoli persone. Ma al metodo ostano due difficoltà: di cui la prima si è che non sempre quegli uomini possono essere vogliosi od atti ad assumere il fastidioso e geloso incarico; e la seconda è che le medesime persone potrebbero esser chiamate a dare giudizi, sia pure di sola dirittura morale, intorno a uomini appartenenti a differenti e contrastanti tendenze politiche, religiose e sociali e correrebbero il rischio di essere trascinati in mezzo a spiacevoli competizioni di parte. Perciò val meglio riconoscere francamente il fatto: che il responso dei fiduciari non ha e non può avere alcuna virtù tratta dalla legge o dall’autorità. Nessuno può asserire, in virtù dell’ufficio coperto, che il tale è uomo moralmente probo. Questo è un giudizio personale insindacabile, del quale non può essere fornita alcuna prova. Dinnanzi a siffatta impossibilità, sembra ottimo partito rinunciare alle finzioni legali e concludere: «questi sono gli uomini, uomini e non cariche, ai quali, ed ai successori che essi liberamente vorranno scegliere, noi affidiamo il giudizio morale sulla rettitudine dei direttori e dei proprietari futuri del giornale. Se noi avremo scelto bene e se essi sceglieranno bene i loro successori, il pubblico avrà fiducia in noi e crederà nella nostra parola. Se noi ci saremo sbagliati, pagheremo il fio del nostro errore. Altri, che avrà scelto meglio, acquisterà credito e lettori e ci sopravanzerà».

La conclusione è destinata a lasciare disillusi coloro i quali credono nei rimedi legali ai mali morali. Poiché è certo che a siffatti mali non giovano anzi nuocciono quei rimedi, giova tentare la via opposta: che è di promuovere il volontario ricorso ad un rimedio puramente morale.

 

[1] «Il momento attuale offre un’occasione insperata per adottare in Italia un metodo che io credo abbia avuto inizio dapprima in Gran Bretagna, quando le aziende del Times e dell’Economist passarono dalle famiglie Walter e Wilson nelle mani società per azioni. Si ritenne necessario garantirsi che questi istituti di fama mondiale non avessero a diventare proprietà di gruppi finanziari o d’altra specie, gli interessi dei quali potessero imporre direttive contrarie all’interesse pubblico. Fu creato un comitato fiduciari (Board of trustees) composto da uomini di sicura stima con l’obbligo e il diritto di approvare o meno la nomina di nuovi direttori e ogni trasferimento di azioni, assicurando in tal modo, per l’avvenire, l’indipendenza di quei giornali. Non ci sarebbe alcuna difficoltà a adottare in Italia un qualche espediente analogo. Non occorrerebbe, senza dubbio, applicare il sistema ai casi di minimo rilievo. Soltanto quei giornali che avessero raggiunto una tiratura, dicasi, di almeno 100 mila copie e non fossero gli organi ufficiali di un partito politico o di un sindacato o di un’altra associazione economica, dovrebbero essere sottoposti al controllo del “comitato dei fiduciari”. Una volta scelto, il comitato dovrebbe provvedere alla propria continuazione mercè il metodo della cooptazione». (Dall’articolo The future of Italian press pubblicato sul quaderno dell’aprile 1945 di «Foreign Affairs», pp. 505-509 e ripubblicato in italiano su «La nuova antologia» del luglio 1945, unitamente al presente articolo).

Il giornalismo italiano fino al 1915[1]

Il giornalismo italiano fino al 1915[1]

«Nuova antologia», luglio 1945

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 559-570

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 932-971

Giornali e giornalisti, Sansoni, Firenze, 1974, pp.51-94

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 157-184

 

 

 

 

La Storia del Croce rimarrà nella nostra letteratura per avere primamente narrato il travaglio della vita italiana durante un periodo storico (1871-1915), intorno al quale era venuta formandosi, fin da quando esso era in pieno sviluppo, l’opinione con facilità accettata e divenuta quasi pacifica, di mediocrità grigia, di abbassamento morale intellettuale ed economico, di disintegrazione politica e sociale. Si contrapponeva quel periodo al glorioso risorgimento nazionale e si provava una stretta di cuore a tanta decadenza. Gran merito del libro di Croce è di aver dimostrato, in modo definitivo, che l’Italia dal 1871 al 1915 non fu né mediocre né decadente, né disintegrata; che in quegli anni grandi problemi furono posti, vissuti e, per quanto si possono risolvere problemi, risoluti; che una intensa e varia esperienza economica e intellettuale fu accumulata, sicché alla fine l’Italia era diversa da quella del 1860 – 1870 e perciò più atta a superare le nuove prove che l’attendevano nel 1915. Naturalmente, il Croce, filosofo e storico, dà la dimostrazione del suo assunto in conformità al suo abito mentale, alla sua concezione della vita, così come da tutti gli storici sempre si fece e, sinché non si scopra quell’entità fantastica detta storia “oggettiva”, sempre si farà. Perciò ognuno di noi, leggendo, pensa che, se egli si fosse sentito da tanto da scrivere quella storia l’avrebbe scritta diversamente, perché, trattandosi di accadimenti vicini, ricordati ancora da molti, ognuno se ne era fatta un’idea propria, diversa probabilmente da quella che espone il Croce. Il guaio si è che bene spesso le idee dei lettori sono confuse e non organate; laddove il Croce ha rivissuto quel periodo, lo ha riorganizzato nella sua testa e ci ha dato una storia dove si legge almeno chiara una affermazione conclusiva: che un’Italia c’era e che quel che essa fece dal 1871 al 1915 non fu né mediocre né infecondo. Altri dirà che l’Italia d’allora fu diversa da quella che vide il Croce e che le cose compiute furono quando mediocri e quando alte per ragioni e in momenti differenti da quelli osservati da lui; e potrà darsi che queste altre storie, quando saranno scritte, siano anch’esse degne di rimanere come quella che ci sta dinnanzi agli occhi. Allo scopo di recare un lievissimo contributo a questa opera di revisione continua del concetto che noi ci facciamo del passato, io, invece di riassumere un libro che, immagino, sarà stato già meditato da tutti coloro sotto i cui occhi cadranno queste linee, rileverò una lacuna che mi pare di scorgere chiaramente nella Storia.

 

 

Parmi cioè che il Croce dia troppa importanza, quanto a capacità di foggiare i destini italiani, ai dibattiti che si accendevano sui piccoli fogli d’avanguardia mensili o settimanali, che si scrivevano e leggevano tra giovani e certamente contribuirono assai a creare le correnti di idee dominanti poi nel paese; troppa non in sé, ma in rapporto allo scarsissimo peso che egli dà a quell’altra specie di fogli, che era la sola letta dal pubblico, la sola attraverso a cui le idee elaborate dai filosofi e dagli scienziati ed agitate dai giovani giungevano al grosso pubblico, agivano sugli uomini politici e li facevano determinare a questa o quella azione concreta. La lingua batte dove il dente duole; e si perdonerà perciò a chi, in altri tempi, per quasi trenta anni, visse la vita del giornalismo quotidiano, di augurare che qualcuno scriva la storia del giornalismo italiano dal 1860 al 1915. Sarebbe un capitolo non ultimo della storia generale d’Italia in quel tempo e dimostrerebbe quanto si fosse allora faticato e che cosa grande fosse stata costrutta in quel campo. I più avevano avvertito che a poco a poco il giornalismo si era trasformato; e per lo più si lamentava che da foglio di idee, fatto vivere dai fedeli di un gruppo o di un partito, per difendere le idee del partito, il giornale fosse diventato un notiziario fondato su calcoli mercantili di vendita di copie al pubblico e di avvisi agli inserzionisti di pubblicità. Ed altro ancora si lamentava: che i giornali non più facili a fondare da chi aveva molte idee in testa e punti denari in tasca, dovessero essere mantenuti, a suon di milioni, da gruppi bancari ed industriali, intesi, in tal modo coperto, a difendere i propri interessi privati, per lo più contrastanti col pubblico interesse. Uomini di alto sentire nutrivano opinioni così fatte; ai quali era impossibile persuadere esistessero giornali che non fossero l’organo di questo o quell’interesse, dei cotonieri, dei siderurgici, degli armatori, degli agrari e via dicendo. Non faccio nomi, ché sarebbero invidiosi; ma ognuno, riandando mentalmente a quei tempi, sa porre sotto la finca dei cotonieri e dei siderurgici e degli armatori e degli agrari il nome del giornale o dei giornali universalmente reputati essere l’organo di quei particolari interessi. E questi si dicevano “inconfessabili” e si promuovevano disegni di legge in virtù dei quali i gerenti dei giornali avrebbero dovuto farne confessione periodica ed aperta.

 

 

Questa sarebbe, se la si facesse scrivere dal così detto uomo della strada, uomo, per convinzione propria, accorto e bene in grado di non lasciarsi ingannare dalle apparenze, la storia, in riassunto, del giornalismo italiano dopo il 1860 e fino al 1915. Una storia dunque di decadenza, di abiezione materialistica, di penne prezzolate; con forse qualche eccezione per i giornali di partito, superstiti quasi soltanto nel campo dei partiti estremi. Non giurerei, a vederlo citare così pochi giornali e questi quasi soltanto di color rosso, che il Croce non partecipi alquanto al sentire comune; e non abbia giudicato necessario di parlare della forza e della influenza dei giornali, perché li reputava probabilmente mancanti di forza propria, meri traduttori in carta stampata di quelle altre forze, economiche per lo più e raramente di partito, le quali sole erano vive ed originarie.

 

 

Eppure nessuna storia sarebbe così lontana dal vero come questa scritta dall’uomo della strada; cieco dinanzi al sorgere e all’affermarsi di una delle forze più vive ed autonome caratteristiche della civiltà moderna. Esistevano, è vero, giornali di interessi e giornali di partito; ma i pratici di giornalismo sapevano che i giornali di interessi, se erano numerosi e clamorosi, erano tuttavia un investimento a fondo perduto da parte dei siderurgici armatori agrari cotonieri, allo scopo di poter addormentare la coscienza degli uomini politici a cui si chiedevano provvedimenti protezionistici o favori di appalti o di sovvenzioni e si doveva far mostra di chiederli in nome di qualche principio. Ma non erano letti da nessuno e non esercitavano alcuna presa sull’opinione pubblica, perché, in regime di concorrenza di idee, il fiuto del pubblico era infallibile ed esso, pur protestando che i giornalisti erano tutte penne prezzolate, comprava e pagava solo quei fogli che in cuor suo sentiva non essere pagati da altri che dai suoi soldi. Pur letti erano i giornali di partito, specialmente quelli socialisti, quasi soli sopravissuti della specie; ma quelli stessi che avidamente li compravano e li leggevano per rafforzarsi nella propria fede religiosa, spesso acquistavano un secondo e un terzo giornale, di notizie, per sapere, dicevano essi, come andavano le cose in questo vil mondo borghese. Le grosse tirature dell’«Avanti!» non fecero diminuire mai, ed io sono persuaso crebbero la vendita dei fogli di notizie.

 

 

Che cosa era quest’ultima varietà giornalistica? Era la creazione di alcuni pochi uomini, tanto pochi che forse si stenta a far passare, noverandoli, tutte le dita di una mano, i quali avevano capito che nel mondo moderno c’era posto per una industria nuova, indipendente da tutte le altre industrie, intesa a vendere al pubblico notizie e avvisi di pubblicità. Sembra un’idea da poco; ma quegli industriali, i quali fornivano milioni per fondare giornali e poi si arrabbiavano nel constatare che nessuno leggeva i loro giornali ed essi avevano buttato i milioni, non avevano capito che i milioni erano inutili anzi dannosi; ché il mezzo più sicuro per non vendere neppure una copia era quello di spendere denari di altre industrie per far vivere quella giornalistica; che l’unica speranza di successo era, per il fondatore di un giornale, di non accettare quattrini da nessuno e far fuoco con la propria legna. Ignoravano, costoro, che il maggior giornale italiano di notizie era stato iniziato dal suo fondatore senza un soldo, sulla base di una modesta cambiale firmata da alcuni suoi facoltosi amici, e scontata nei modi ordinari; cambiale che fu a poco a poco rimborsata coi proventi del giornale medesimo; il quale, d’allora in poi, sempre pagò a quegli amici ed ai loro eredi fior di dividendi e, sempre dando e mai ricevendo alcunché, poté perciò mantenersi, anche nei loro rispetti, indipendentissimo. Ignoravano che il secondo, per tiratura, giornale di notizie fu assunto, da chi ne rimase proprietario per circa un trentennio, con un modesto apporto, impiegato a salvare la continuità del nome dalla rovina a cui l’aveva tratto l’essere stato sino allora un giornale di partito e di battaglia politica. E dopo quel primo ed unico apporto, sempre quel giornale fornì utili generosi, perché non ricevette mai nulla da nessuno, fuorché dai soldi dei suoi lettori e dal prezzo degli avvisi di pubblicità apertamente stampati e venduti come tali. Da questa premessa perentoria nacque la conseguenza che il giornale di notizie dové, per vivere, vendere unicamente quelle notizie e quegli avvisi che erano meglio in grado di crescere la sua vendita, ossia i suoi introiti. Nella lotta della concorrenza sopravvissero quei giornali i cui dirigenti avevano, dopo la prima fondamentale detta sopra, afferrata un’altra idea semplice; che il pubblico voleva avere, in cambio del suo soldo, merce genuina e non avariata e cioè notizie vere e non false ed avvisi utili e non ingannevoli. Anche qui so di andare contro a un vezzo, che i lettori comunemente affettavano, di reputare fandonie molte delle cose lette sui giornali e imbrogli il più degli avvisi che si leggevano nelle quarte pagine. Ma era un’affettazione, contraria alla convinzione sostanziale di quei medesimi lettori, i quali ben sapevano scegliere il grano dal loglio, l’inventore di notizie sensazionali dal pacato espositore di fatti accaduti secondo le diverse versioni appurabili nel febbrile volgere di poche ore e di pochi minuti; le quarte pagine degli appuntamenti amorosi e della chiave infallibile per vincere al lotto del frate napoletano, dalle quarte pagine, dove, accanto ai residui di specifici farmaceutici ancora, non si sa perché, richiesti dal pubblico, si leggevano sovratutto avvisi di prodotti industriali, richieste ed offerte di lavoro, di case, di oggetti ed altrettanti servigi di intermediazione forniti gratuitamente ad un pubblico, che in cambio del suo soldo aveva già ricevuto abbondante pascolo di notizie. Raccolta e diffusione di notizie vere ed interessanti e fornitura di avvisi utili, ecco i prodotti venduti da questa nuova industria. Se la fabbricazione di tessuti, di macchine, di frutta serbevoli richiede miracoli di intelligenza, di organizzazione, di collaborazione di migliaia di persone, una dall’altra dipendenti ed insieme operose per un fine comune; non è a dire quali tesori di intelligenza, di prontezza di decisione, di sapiente ed elastica organizzazione richiedesse la fabbricazione di quel prodotto immateriale delicatissimo che è la notizia vera e l’avviso utile. L’Italia assolse mirabilmente quel compito e l’assolse ad un costo così basso che aveva del miracoloso. Chi ricorda il soldo dell’anteguerra e paragona mentalmente i grandi giornali italiani di quel tempo ai «Times» di Londra, «Temps» di Parigi, alla «Frankfurter Zeitung» tedesca, ai «New York Times» od alla «Chicago Tribune» deve concludere che i nostri giornali non erano secondi a nessuno; e se riflette poi al minor avanzamento in materia di avvisi, assai più sordi, in paragone, per la minore ricchezza italiana, a rispondere agli sforzi dei direttori di giornali, concluderà forse che, per quanto tocca la materia propria del giornale, in punto di fattura tecnica, di buon gusto nella presentazione e di eleganza nella esposizione delle notizie, a qualche giornale italiano doveva senza fallo essere attribuito il primato assoluto in tutto il mondo.

 

 

Su questo granitico fondamento industriale erasi, a poco a poco, innalzata una nuova forza sociale e politica, indipendente da governi, da partiti e da gruppi economici. Se si volesse definire con una parola sola od una frase questa nuova forza si resterebbe imbarazzati. Non si identificava con l’elettorato, perché quei giornali spesso non avevano per sé i risultati delle elezioni politiche ed amministrative; e di qui traevano argomento gli avversari o meglio i criticati da quei giornali a dire che questi rappresentavano solo se stessi. Non si identificava con il favore momentaneo del pubblico, perché quei giornali per lo più rimanevano freddi di fronte agli idoli od alle passioni del momento. Se una parola può grossolanamente essere adoperata, si può dire che quei giornali rappresentavano, a lungo andare, una delle correnti dominanti nel paese di quella cosa indistinta e inafferrabile, ma tuttavia reale ed esistente, che è l’opinione pubblica. Gli uomini politici del tempo, i partitanti, i difensori di questo o di quel gruppo economico, grandemente si inquietavano quando si agitava dinanzi ad essi lo spettro dell’opinione pubblica; ed i capi dei partiti parlamentari non capivano perché, usciti vittoriosi dalle elezioni che avevano dato loro il crisma del suffragio dell’opinione pubblica “legale”, non potessero attuare il loro programma o far trionfare le loro tesi, dinnanzi alle critiche di quelli che si proclamavano da sé rappresentanti dell’opinione pubblica “vera” del paese. Anche qui essi non avevano capito che elezioni voto parlamento erano necessarie forme legali; mere forme esteriori, tuttavia, di un qualche cosa di più profondo che era la libera discussione tra tutti coloro i quali avevano qualcosa da dire intorno ai problemi importanti per la nazione. Discutere il pro e il contro di un provvedimento, le varie soluzioni di un problema, decidersi a ragion veduta per la soluzione più conveniente, era il vero bisogno del cittadino non quello di sapere se la soluzione era conforme al credo dell’uno o dell’altro partito, alla fede di uno od altro uomo politico. Ciò videro subito i giornali di notizie, i quali aprirono le loro colonne alla discussione dei problemi più importanti di politica estera ed interna economici, militari e culturali del paese; e li discussero necessariamente all’infuori dei reticolati dei partiti, degli interessi dei gruppi e delle predilezioni occasionali degli uomini politici. Essi non potevano fare diversamente, perché se avessero condisceso agli interessi dei gruppi od avessero difeso ad oltranza i programmi di un partito essi sapevano che avrebbero, forse, acquistato il favore del momento di un pubblico facilmente persuaso da pseudo ragionamenti con cui si possono sempre coonestare programmi partigiani o interessi particolari; ma a scapito del favore permanente di quel medesimo pubblico, risvegliato ad un tratto dall’insuccesso di una politica popolare o messo sull’avviso dalla critica dei gruppi danneggiati. Poiché la vita del giornale andava al di là di quella effimera di un gabinetto o di un partito, il giornale di notizie doveva mantenersi indipendente da ministri e da parlamentari, ai quali non poteva, con loro grande rabbia e scorno, rendere servigio di articoli laudativi, di rendiconti estesi di discorsi e di programmi e talvolta doveva infliggere critiche irriverenti per insulsaggini dette o per errori commessi; sicché da ministri e da parlamentari il giornale di notizie era insieme temuto e cordialmente odiato. Odiato, anche perché quei giornalisti professionali, i quali avevano creduto di farsi sgabello della loro forza giornalistica per far carriera politica, si erano veduti bellamente messi alla porta dai direttori dei giornali di notizie, subito dall’esperienza fatti persuasi essere, per la loro impresa, mortale il pericolo nascente dalla subordinazione dell’indirizzo del giornale o anche di una sola rubrica di esso ai fini privati od all’ambizione, sia pur nobile, di un redattore o collaboratore.

 

 

Non minore era l’odio dei gruppi economici, i quali non riuscivano, a cagion d’esempio a comprendere perché i soci di qualche potente giornale non avessero alcuna voce in capitolo nel determinare l’indirizzo politico e sovratutto economico del giornale; e talun collega di industria di qualcuno di quei soci, male sapeva spiegarsi come costoro, molto correttamente, non varcassero mai le soglie della stanza di direzione, neppure per avanzar il sommesso desiderio di veder trattato in un senso o nell’altro qualche grosso problema di dazi o di imposte o di sovvenzioni che stava a cuore della classe; e si angustiavano apprendendo che della soluzione da darsi, sul giornale, a quei problemi era arbitro, non il socio o padrone del giornale, ma un semplice teorico, il quale non riceveva nessuno, ma godeva la fiducia personale del direttore. Ma quei soci e quei proprietari e quei direttori sapevano che solo così, in perfetta indipendenza da partiti e da gruppi, si creava una forza destinata a far presa sull’opinione pubblica ed a crescere autorità morale ad una impresa sorta come una bottega di notizie e di avvisi, ma capace di conservare a sé una clientela affezionata, solo a condizione di darle, insieme con le notizie vere e gli avvisi utili, un lume, una guida per orizzontarsi nel groviglio dei problemi contemporanei politici internazionali economici culturali.

 

 

Che anche su questa via, illuminata da grandi esempi forestieri, l’Italia si fosse avanzata dal 1860 al 1915 in guisa che ciò che era inesistente prima era un fatto compiuto allo scoppio della guerra e compiuto in maniera non inferiore a quella osservata nei paesi di esperienza più antica, parmi fatto storico abbastanza importante da meritare un capitolo in una storia che narri gli accadimenti italiani di quel tempo. Importante, perché la creazione di una forza economica e tuttavia diversa e indipendente dalle altre forze economiche, di una forza politica, separata e indipendente dai partiti politici, di una forza culturale diversa e non coincidente né con la scuola né con i gruppi di filosofi o letterati; di una forza la cui condizione assoluta perentoria di vita era il rendere servigio al pubblico di notizie vere, di avvisi utili e di discussioni indipendenti, era un grandissimo passo compiuto nella elevazione del cittadino italiano, messo in grado di giudicare, tra il cozzo di opinioni differenti, le soluzioni che gli erano presentate da gruppi economici, da partiti politici, da scuole, da chiese e da sette. Ed era, quello, un avvenimento storicamente importante anche perché cresceva il numero delle forze che si contendevano il dominio del paese e, tenendo a freno gruppi economici e partiti politici, potentemente giovava a dare, in tutto, la supremazia a quell’intelligenza meditante o filosofica che, fra le altre forze, più merita, secondo la sentenza di Platone, di guidare i popoli. Ma come poteva farsi sentire la divina filosofia nel clamore degli interessi materiali e nella vociferazione dei partiti politici, ansiosi di afferrare, la mercé di un qualunque simbolo, il potere, se non si fosse costituita una forza nuova, dalla necessità di vita costretta a scoprire, sia pure con ritardo e con ovvia circospezione, la via atta a giovare permanentemente alla nazione?

 

 

Il fiorire del giornale vivo di una vita propria rispondeva altresì ad una mutazione profonda verificatasi inavvertitamente, in Italia in proporzione forse meno rilevante di altrove, ma tuttavia abbastanza marcata, nei metodi di effettivo governo dei popoli. Le costituzioni, sorte alla fine del secolo XVIII in Europa e in America ed estese poi dappertutto, avevano creato un meccanismo di elezioni parlamentari gabinetti, a cui legalmente era affidata la somma dei poteri legislativi ed esecutivi. Sinché le funzioni degli stati rimasero ristrette, quel meccanismo funzionò abbastanza bene, anche perché al potere si avvicendavano gruppi ristretti di uomini appartenenti a classi politiche esercitate nella difficile arte di governare gli uomini. Col giganteggiare degli stati moderni, con l’affittirsi dei loro compiti, divenuti ognora più tecnici e delicati, con l’estendersi dell’interesse politico a strati sempre più larghi della popolazione, il vecchio meccanismo costituzionale diventò presto insufficiente alla bisogna. Quei pochi uomini che formavano i parlamenti e si alternavano al potere nei gabinetti, diventarono incapaci a dominare la grande e crescente mole degli affari pubblici. Non perciò era possibile e conveniente mutare metodi di governo. Coloro che allora proclamavano il fallimento dei politicanti incompetenti e affannosamente cercavano e discutevano soluzioni di parlamenti professionali, in cui il potere fosse affidato ai competenti dei singoli rami di industria o di commercio o di agricoltura o di arti o di scienza, non s’erano avveduti che sotto ai loro occhi il problema andava, faticosamente e per tentativi, risolvendosi. La soluzione non stava nel far legislatori i competenti dei diversi rami dell’attività umana: ché, come ben dimostrò il Croce in altro luogo, l’attività politica è diversa dall’attività professionale e tecnica; ed una congrega di industriali, di negozianti, di artisti e di scienziati non sarà mai, appunto perché composta di uomini ottimi in altri diversi campi della attività umana, un’assemblea politica. La soluzione stava nel conservare il potere in mano ai politici; e nel tempo stesso nel rendere questi accessibili alle influenze dei gruppi sociali. Il processo era visibilissimo sovratutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove ogni interesse, anche minimo, ogni idea, anche balzana, si trasformava in un’associazione, in un movimento, in un circolo; e ognuno di questi raggruppamenti si sforzava di far proseliti, di acquistare rinomanza e forza, di farsi sentire nelle aule legislative. I grandi emendamenti alla costituzione americana non originarono dalla classe politica propriamente detta. Basti citare l’emendamento che introdusse l’imposta sul reddito nel sistema delle imposte federali, dovuto alla tenace propaganda scientifica di pochi studiosi, tra cui eccelle il Seligman, e quello che proibì le bevande alcooliche, imposto da associazioni proibizionistiche e da gruppi religiosi.

 

 

Il meccanismo suffragistico e parlamentare era la forma legale, attraverso a cui facevasi sentire l’impero effettivo dei raggruppamenti professionali, degli interessi economici, delle nuove correnti di idee. Ma il tipo di governo della cosa pubblica, che così andavasi costituendo, aveva questo di caratteristico: che nessuna legge riconosceva i gruppi, le associazioni, le organizzazioni economiche religiose e classistiche. Era un caleidoscopio di forze, che si formavano, divenivano potenti e si scioglievano. Ad ogni decennio le forze dominanti erano diverse da quelle che nel decennio precedente avevano tenuto il primo piano sulla scena del mondo. Tale associazione che aveva in un certo momento fatto tremare la società dalle fondamenta qualche anno dopo era un mero ricordo storico. Nessuna legge l’aveva riconosciuta, nessun testo ne aveva irrigidita la struttura e l’aveva perpetuata nel tempo. Ogni forza si faceva sentire sinché aveva un’anima, un pensiero, qualcosa da dire al mondo, una battaglia da sostenere e forze atte a vincere.

 

 

Il giornale di notizie ebbe gran parte nello scoprire, nell’incoraggiare le forze sociali, meritevoli di esercitare un’influenza sulle sorti del proprio paese. Poiché la sua forza consisteva nel farsi eco delle correnti di opinione pubblica, nel sentire i bisogni del popolo del cui favore quotidiano viveva, il giornale doveva ogni giorno scoprire i bisogni di carattere pubblico che erano insoddisfatti e pur meritavano attenzione. Il quotidiano veniva, in questo ufficio, rimorchiato dai fogli settimanali e dai giornali d’avanguardia, il cui compito era per l’appunto di far sapere che un’idea era sorta, che un gruppo si era formato, che qualche nuovo scopo pretendeva di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, del parlamento e del governo. Ma, sebbene venisse dopo, il grande giornale di notizie non aveva perciò un compito meno grave; spettando ad esso di scegliere, fra i mille e mille, quegli scopi, quegli interessi, quelle iniziative che rispondevano davvero ad un bisogno reale del paese. E scelti, farsene paladino e imporli all’attenzione dei politici. Si capisce perciò come ai giornali di notizie interessassero poco le elezioni o queste dessero loro torto; poiché quando uno scopo, un programma era talmente maturo da essere fatto proprio dai politici e da mutarsi in ragione di lotta elettorale, altri gruppi, altre idee, già stavano formandosi; la collettività, che si era scissa secondo certe linee in relazione ai vecchi problemi, già si scindeva diversamente in rapporto a nuovi problemi; ed il giornale, per ufficio suo chino coll’orecchio a terra per intuire la direzione delle nuove onde sociali, bandiva nuove campagne, poneva nuovi problemi, con inquietudine dei politici arrivati, i quali vedevano messa in forse la propria situazione, nel momento in che credevano di aver raggiunto la meta. La guerra interruppe questo lento lavorio di trasformazione sostanziale degli ordini costituzionali, entro i quadri immutati delle forme antiche; e subordinando tutti gli intenti a quello della salvezza dello stato, ridiede importanza alla classe politica propria in confronto alle altre forze sociali.



[1] Nel quaderno del settembre-ottobre del 1928 della mia rivista «La Riforma Sociale», pubblicavo, a titolo di recensione di alcuni scritti di Benedetto Croce, principalissimo tra i quali la Storia d’Italia dal 1871 al 1915, una nota intitolata Dei concetti di liberismo economico e di borghesia e sulle origini materialistiche della guerra. Sia perché l’argomento esorbitava da quello proprio del saggio, sia perché la nota aveva già assunto dimensioni ragguardevoli, non trovarono luogo in quel quaderno gli ultimi nove paragrafi, i quali discutevano il problema del compito avuto nella storia italiana d’innanzi al 1922 dai giornali detti di informazione. Nell’occasione della raccolta in un volume di Saggi (Torino, 1933, un vol. in ottavo di pp. x-161-550), degli estratti degli studi comparsi sulla mia rivista, quei nove paragrafi, videro la luce da carte 142 a 151. Ma il volume giacque pressoché inedito essendo stato stampato in sole cento copie, subito distribuite tra amici. Quando perciò Alberto Albertini, scrivendo la vita del fratello (Luigi Albertini, Roma, aprile 1945), documento insigne di storia e di biografia, ricordò quei paragrafi e taluno me ne richiese, durai fatica a rintracciarne qui in Roma una copia, che mi fu cortesemente data a prestito dalla vedova dell’allievo ed amico non dimenticato Carlo Pagni. Da quella copia trascrissi le pagine contenenti l’analisi storico – critica del giornale “indipendente” in Italia; e le ripubblico oggi quali le scrissi allora, senza nulla mutarvi, sembrandomi che esse non siano prive di qualche interesse nel dibattito che oggi si conduce nel nostro paese a proposito della stampa quotidiana.

La teoria del non intervento

La teoria del non intervento

«Il risorgimento liberale», 19 giugno 1945

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 630-633

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 141-144

 

 

 

 

Le discussioni di San Francisco si trascinano più a lungo di quel che forse una parte della opinione pubblica immaginava, perché in quella città gli uomini si trovano davvero dinnanzi al dilemma essenziale, il quale travaglia e travaglierà ancora per gran tempo le società moderne: debbono queste essere organizzate a forma di stati sovrani, ovvero ognuno degli stati esistenti deve rassegnarsi all’intervento degli altri stati nei propri affari interni?

 

 

Il problema fondamentale della società moderna non sarà avviato a soluzione, se gli uomini non si persuaderanno che esiste un solo vero nemico del progresso e della libertà e questo è il mito dello stato sovrano, il mito della assoluta indipendenza degli uomini viventi in un dato corpo politico dagli altri uomini viventi in ogni altro corpo politico. Quel mito e null’altro fu alla radice delle due grandi guerre mondiali, poiché lo stato, ove sia sovrano perfetto, non può non essere autosufficiente in se stesso, ed è costretto a conquistare lo spazio vitale bastevole alla sua propria vita indipendente. Deve perciò conquistare il mondo. L’Attila di ieri fu un mero strumento di questa idea infernale. Un pazzo si fece banditore dell’idea, ma l’idea era e rimane radicata nell’animo di molti, di troppi uomini. Sinché non l’avremo strappata dall’animo nostro, non avremo pace. Coloro i quali fanno risalire il trionfo della guerra o della pace al prevalere di questa o quella classe sociale, capitalistica o proletaria, non sanno ragionare. Industriali ed operai, proprietari e contadini, professionisti ed artigiani, tutti sono dal proprio interesse costretti a volere la pace; poiché la pace vuol dire arricchimento altrui e quindi arricchimento proprio; vuol dire mercati fiorenti e quindi alta produzione; vuol dire progresso tecnico, epperciò incremento del benessere. Il mondo civile, attraverso guerre che oggi appaiono piccole, ebbe pace dal 1815 al 1914; e mai non si ebbe tanto avanzamento economico in tutte le classi sociali, tra i lavoratori non meno che tra gli industriali, come in quel secolo d’oro.

 

 

Ma se gli uomini cadono preda del sofisma dello stato sovrano assoluto autonomo indipendente, essi vogliono logicamente anche lo stato autosufficiente, conquistatore dello spazio vitale, spinto da una forza fatale alla conquista del mondo intero, perché solo con la conquista totale si raggiunge l’autosufficienza e la indipendenza compiuta. Sovranità piena politica non è pensabile se non esiste anche la indipendenza economica. Se si debbono chiedere altrui materie prime, carbone, se si deve chiedere altrui licenza di passare attraverso mari e stretti non si è veramente sovrani perfetti. Sovranità ed autosufficienza economica (autarchia) sono indissolubilmente legate l’una all’altra. Chi vuole sovranità ed autosufficienza vuole perciò la conquista senza fine di tutto il mondo conosciuto, vuole la guerra perpetua.

 

 

Il mito della sovranità perfetta dello stato è dunque la vera solo causa della guerra. Stati tirannici artistocratici o democratici, individualisti o socialisti, oligarchici od operai, se cadono vittime di questo mito, se rifiutano di riconoscere la verità che l’esistenza propria è condizionata all’esistenza altrui, si fanno inconsapevolmente paladini del principio della autosufficienza economica; e di fatto quasi sempre gli stati, credendosi sovrani, furono ugualmente, senza distinzione di regime, in passato e saranno in avvenire protezionisti contro le merci straniere; vietarono e vieteranno l’immigrazione dello straniero; vietano e vieteranno ai nazionali di conoscere le civiltà straniere se queste siano più alte; mossero e muoveranno alla conquista di fiumi, di mari, di porti e di mercati; furono e saranno conquistatori di terre abitate da altre genti. La teoria dello spazio “vitale” non fu peculiare all’Italia fascista od alla Germania nazista. La vedemmo trionfare in Persia, in Roma, in Egitto, nella Spagna di Filippo II, nella Francia di Luigi XIV e di Napoleone; spingere la Russia comunistica al par di quella zaristica alla conquista dei continenti e dei mari caldi, portare, quasi per caso ed in ossequio a cieche forze elementari, l’Inghilterra nell’India, in Australia, e farle attraversare tutta l’Africa da Alessandria d’Egitto alla Città del Capo. L’uomo di stato il quale crede alla autonomia perfetta dell’idea di stato, è costretto a battagliare senza tregua per toccare la meta ultima irraggiungibile del dominio universale, alla pari di colui che, cavalcando la tigre, non può – ammonisce la leggenda indiana – balzare a terra per la paura di esserne divorato.

 

 

Perciò coloro i quali ancora restano fedeli alla teoria del non intervento degli stati stranieri negli affari interni di ogni stato sovrano, teoria cara agli italiani nell’epoca del risorgimento per naturale reazione all’Austria, pronta a reprimere i moti insurrezionali negli stati minori italiani, non hanno imparato la lezione delle due ultime guerre. La guerra mondiale fu combattuta contro la teoria del non intervento. Gli alleati, qualunque sia stata l’occasione della loro entrata in guerra, in verità combatterono per affermare l’obbligo di intervenire negli affari interni di uno stato, il cui regime era una minaccia continua alla loro esistenza. Essi lottarono e sacrificarono vite ed averi per proclamare solennemente che non è tollerabile la persistenza in un qualunque angolo del mondo di uno stato inspirato ad ideali distruttivi tirannici e totalitari. A stento, con repugnanza, trascinati a viva forza, gli alleati dovettero riconoscere che il regime di ogni stato non è un affare interno, che esso invece è un affare il quale interessa lo straniero non meno che il nazionale, perché un regime, il quale opprime la libertà umana all’interno, è un germe di infezione per tutto il mondo. Perciò occorre armarsi e combattere e soffrire per abbattere il regime che, abbandonato a sé, rovinerebbe il mondo intero. Perciò è assurdo pensare che gli alleati possano, dopo la vittoria, disinteressarsi del regime politico interno dei così detti stati sovrani. La vittoria degli alleati è vittoria dell’idea, della interdipendenza reciproca degli stati, vittoria del principio che nessuno stato può considerarsi sicuro se non esiste nel mondo intero un comune modo di pensare e di operare nei rapporti fra individuo e stato, fra stato e stato, fra stato e regime, fra stato e chiesa, fra stato ed associazioni. Gli uomini non potranno reputare se stessi veramente liberi, veramente franchi dal pericolo della tirannia, veramente capaci di progresso e sottratti ad ogni pericolo di reazione, se non quando sapranno che il loro proprio stato nazionale, sia esso vincitore o vinto, sia legato da un sistema di vincoli e reso impotente ad andare al di là dei limiti infrangibili posti dalla volontà comune degli uomini appartenenti al mondo civile. L’equilibrio fra stati sovrani, che era un tempo mero rapporto di forze contrastanti, deve oggi nascere dalla limitazione dei poteri degli stati sovrani. La limitazione vorrà tuttavia dire esaltazione. Lo stato, reso impotente ad armarsi contro gli altri stati, a chiudere le proprie frontiere contro gli uomini ed i prodotti stranieri, costretto dal diritto delle genti a rispettare la libertà e la personalità dei propri cittadini, a cui sia nuovamente consentita facoltà di sottrarsi con la emigrazione ai propri governi tirannici, lo stato troverà finalmente lo stimolo e la forza di adempiere ai fini suoi propri di benessere, di cultura, di giustizia.

Giraudoux, la leggenda e noi (a proposito di alcuni brani di «Sans pouvoirs», citati dall’articolo «L’Attesa» nel numero del 24 febbraio)

Giraudoux, la leggenda e noi (a proposito di alcuni brani di «Sans pouvoirs», citati dall’articolo «L’Attesa» nel numero del 24 febbraio)

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 10 marzo 1945

Il nuovo liberalismo

Il nuovo liberalismo

«La Città libera», 15 febbraio 1945, pp. 3-6

«L’Opinione», 20 maggio 1945

Poiché si parla di nuovo liberalismo, viene spontanea la scettica domanda: in che cosa il nuovo liberalismo si distingua dal vecchio. La risposta è ovvia: non esiste alcuna differenza sostanziale, di principio, fra i due liberalismi. Il liberalismo è uno e si perpetua nel tempo; ma ogni generazione deve risolvere i problemi suoi, che sono diversi da quelli di ieri e saranno superati e rinnovati dai problemi del domani.

Perciò anche i liberali debbono porsi ad ogni momento il quesito: come debbo oggi risolvere i problemi del mio tempo, in guisa che la soluzione adottata giovi a conservare il bene supremo che è la libertà dell’uomo, il che vuol dire la sua elevazione morale e spirituale?

Il liberale non risolve i problemi d’oggi ripetendo come un pappagallo: libertà! libertà! Perciò i liberali possono essere ma non sono necessariamente “liberisti”. Sono tali in dati campi e sovrattutto in quello delle dogane per ragioni di calcolo economico e di convenienza morale-politica; ma non sono tali in altri campi.

Adamo Smith, colui che dagli illetterati (in economica) è proclamato l’arci-liberista per antonomasia – ed i suoi seguaci sono detti, in segno di disprezzo, liberisti smithiani – è anche colui il quale proclamò che la difesa della patria è molto più importante della ricchezza: «defence is more important than opulence»; – difese storicamente l’atto di navigazione, ossia la protezione della marina mercantile; – scrisse parole di fuoco contro la proprietà assenteista della terra. Non so che cosa scriverebbe Adamo Smith se vivesse oggi; ma certamente dovrebbe porsi e cercare di risolvere non i problemi del 1776, sì quelli del 1945.

I liberali negano che la libertà dell’uomo derivi dalla libertà economica; che cioè la libertà economica sia la causa e la libertà della persona umana nelle sue manifestazioni morali e spirituali e politiche sia l’effetto. L’uomo moralmente libero, la società composta di uomini i quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni economiche. La macchina non domina, non riduce a schiavi, a prolungamenti di se stessa se non quegli uomini i quali consentono di essere ridotti in schiavitù.

Esiste un legame fra la libertà economica da un lato e la libertà in genere e la libertà politica in particolare dall’altro canto; ma è legame assai più sottile di quel che sia dichiarato nella comune letteratura propagandistica.

Non è vero che nella società moderna agli uomini faccia difetto la libertà perché la proprietà dei mezzi di produzione spetti ad una classe detta capitalistica. Astrazion fatta dalla circostanza che in molti paesi, e fra essi si devono noverare assai regioni italiane o, meglio, amplissime zone di ogni regione italiana, il numero dei capitalisti supera quello dei non capitalisti, ed astraendo anche dal fatto certissimo che la divisione della società nelle due classi dei capitalisti e dei proletari non è nemmeno una astrazione teorica atta a raffigurarci qualche aspetto fondamentale della storia umana e che invece le classi ed i ceti sono molti ed intrecciati e che non vi è quasi uomo, non vi è famiglia la quale non faccia parte contemporaneamente di parecchie categorie sociali; astrazion fatta da queste che sono circostanze di gran rilievo, fa d’uopo affermare che nessuna soluzione, né quella privata, né quella pubblica della proprietà dei mezzi di produzione, per se stessa è capace di aiutare a risolvere il problema della libertà.

Al limite, non lo risolve il sistema della proprietà privata piena, quiritaria, nella quale la terra, le acque, le miniere, gli impianti industriali, le scorte di lavorazione sono nel possesso assoluto del proprietario, che ne dispone come crede senza dover rendere conto a nessuno del suo operato. Tutti i legislatori di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno negato il principio della disponibilità illimitata ed assoluta della cosa da parte del proprietario ed hanno fissato limiti entro i quali la libertà d’azione del proprietario deve muoversi. Limiti più stretti per le miniere e per le acque, più larghi per la terra e più ampi ancora per i macchinari e le scorte. La analisi economica moderna, ignorata a torto dagli scrittori socialisti, risale al libro scritto nel 1838 da Agostino Cournot ed addita nel monopolio il fattore essenziale e si può dire unico per cui la proprietà dei mezzi di produzione, cessando di rendere servigi e di farli pagare ad un prezzo uguale al costo minimo del produttore marginale, diventa invece causa di disservizio e fa pagare i beni prodotti a prezzi di monopolio, con guadagni inutili al punto di vista produttivo ed antisociali al punto di vista distributivo.

I liberali non dicono con Proudhon: la proprieté c’est le vol, la proprietà è il furto, ché la proposizione proudhoniana è falsa storicamente ed è smentita dall’esperienza quotidiana; ma affermano: le monopole c’est le vol, il monopolio è il furto. Consapevoli della verità dell’analisi economica moderna, i liberali affermano che la schiavitù economica non è possibile là dove esiste la concorrenza, dove contro gli imprenditori esistenti, possessori di imprese in atto, agrarie industriali e commerciali, possono opporsi nuovi imprenditori, nuovi commercianti, nuovi speculatori sul futuro; ed affermano nel tempo stesso che là dove esiste il monopolio la produzione tende a diminuire, la domanda di lavoro ed i salari a diminuire, i profitti ultranormali a nascere ed ingigantire e la distribuzione del reddito nazionale a guastarsi a profitto di un numero ristretto di privilegiati ed a danno delle moltitudini. Perciò essi non vogliono l’intervento dello stato contro la proprietà, la quale è risparmio, è indipendenza, è autonomia della persona, è continuità della famiglia, è stimolo ad avanzamento economico; e non vogliono distruggere né la proprietà privata dei beni di consumo, né quella degli strumenti di produzione. I liberali non partono in guerra contro la ricchezza risparmiata, né contro quella ottenuta in libera concorrenza dagli uomini dotati di iniziativa, i quali osano, rischiano e riescono. Essi non vogliono neppure sopprimere la speculazione, se questa vuol dire antiveggenza, adattamento dei mezzi presenti a bisogni futuri, che i più non veggono, che l’occhio di lince dei pochissimi scopre innanzi agli altri e di cui, scopertili, lo speculatore preordina, con lucro proprio e vantaggio di gran lunga maggiore dei più, i mezzi di soddisfacimento.

Ma i liberali vogliono, poiché essi l’hanno conosciuta, andare alla radice del male, del danno sociale, che è il monopolio. Vogliono che la spada della legge scenda, inesorabile, su coloro i quali hanno costruito attorno alla propria impresa una trincea, per impedire l’accesso altrui a quel campo chiuso. Poiché molti, forse la maggior parte dei monopoli, sono artificiali, ossia creati dalla legge medesima, essi vogliono abolite le proibizioni, i vincoli, i dazi, i privilegi i quali fanno sì che non tutti quelli i quali vogliono lavorare, lo possano, tutti quelli i quali vogliono iniziare nuove imprese, nuovi commerci, tutti quelli i quali vogliono muovere concorrenza alla gente già collocata, già a posto, riescano ad attuare i loro propositi.

Via i dazi, via i contingentamenti, via le concessioni esclusive, via i brevetti a catena perpetuantisi, via le società privilegiate, via le compagnie monopolistiche, via tutto ciò che soffoca, che, col pretesto di disciplinare, strozza gli uomini intraprendenti, e li costringe a corrompere coloro i quali danno le concessioni, i permessi, le licenze.

Ma i monopoli non sono soltanto quelli creati dalla legge, che, per abbatterli, basta volere distruggere la legge che li ha creati. Vi sono anche monopoli “naturali”, i quali traggono origine dalla impossibilità di moltiplicare le imprese concorrenti; e contro questi monopoli, i liberali vogliono l’intervento dello Stato, il quale a volta a volta assuma o controlli o regoli l’esercizio dell’industria monopolistica. Essi ricordano che, tant’anni innanzi che la socializzazione divenisse una parola di moda, due grandi liberali, Camillo di Cavour e Silvio Spaventa, avevano voluto l’esercizio di stato delle ferrovie; rammentano che, col loro appoggio, Ivanoe Bonomi nel 1916 aveva dichiarato pubbliche, ossia nazionalizzate tutte le acque italiane da cui possono trarsi derivazioni di forza idraulica o di irrigazione.

Essi vogliono proseguire su questa via e sono pronti a proporre ed a discutere caso per caso la via più opportuna per sottrarre al dominio privato le industrie le quali abbiano chiare le caratteristiche monopolistiche; via la quale nell’un caso sarà quella dell’esercizio diretto, in un altro quello della creazione di enti autonomi, in un terzo quello della società anonima con maggioranza statale nel possesso delle azioni, e tal volta anche nell’esercizio delegato ad imprese private con quaderni d’onere rispetto all’esercizio ed alle tariffe. Attorno ad un tavolo verde gli uomini di buona volontà possono e debbono mettersi d’accordo, avendo di mira lo scansare i due pericoli massimi, i quali incombono sul mondo economico moderno; il primo dei quali si è l’impero dei sindacati, dei consorzi, dei trusts, siano essi monopoli o sindacati di industriali o di lavoratori, ed il secondo si è la formazione del più colossale e spaventevole monopolio, che è quello dello stato. All’altro limite invero, il luogo della proprietà privata assoluta è preso dalla proprietà assoluta dello stato padrone di tutti i mezzi di produzione.

Nessuna tirannia più dura si può immaginare di quella la quale fa dipendere la vita dell’uomo, la sussistenza della famiglia dalla volontà di chi comanda dall’alto. Non ha importanza alcuna sapere se chi comanda si sia impadronito del potere con la forza o l’abbia ottenuto per elezione. Importa invece sapere se chi vuole lavorare debba chiedere lavoro, avanzamento, agiatezza, fama, unicamente ad un capo, ad un gruppo che possiede il potere politico o possa, ove voglia, conquistare tutto ciò facendo appello direttamente, colle sue forze, ai compratori dei beni e servizi che egli crede di essere capace di offrire. Dove tutto dipende dallo stato, ivi è schiavitù, ivi al posto dell’emulazione nasce l’intrigo, al luogo dei migliori trionfano i procaccianti. Perciò i liberali vogliono sia distinto il campo dell’azione privata da quello dell’azione pubblica. Discutiamo se questa specie di attività economica debba essere lasciata, e con quali regole giuridiche, all’iniziativa privata e se quell’altra specie debba invece essere assunta o concessa o regolata dallo stato. Il criterio di distinzione tra l’uno e l’altro campo non è il piccolo od il grosso, il piccolo lasciato ai privati ed il grosso assunto dall’ente pubblico. Questa è distinzione grossolana; ché il grosso merita di cadere nel campo pubblico solo quando esso sia sinonimo di monopolistico.

Ma i liberali non reputano che il problema del massimo di produzione sia il solo e possa essere posto da solo. Quando anche si riesca a foggiare il meccanismo produttivo, per mezzo di una ricca varietà di tipi privati e pubblici di intrapresa, in guisa da raggiungere un massimo di produzione, noi avremo soltanto toccato un massimo entro i limiti della domanda esistente. Se in un paese vi è un ricchissimo solo ed un milione di uomini sprovveduti di beni di fortuna, noi possiamo, sì ottenere un massimo di prodotto; ma è il massimo proprio di quel tipo di distribuzione della ricchezza. Tutto diverso è il massimo che si otterrebbe in un altro paese dove tutti gli uomini avessero uguale reddito individuale. Diversi i massimi e diversi i tipi e le varietà dei beni prodotti. Noi liberali giudichiamo, per ragioni morali, detestabili ambi quei tipi, perché ambi forieri di servitù per gli uomini. Servo nel primo paese il milione di uomini dell’unico proprietario; servi nel secondo di un tiranno, perché è impossibile mantenere tra gli uomini, disuguali per intelligenza, per attitudine al lavoro ed al risparmio, per inventività, la uguaglianza assoluta senza la più intollerabile costrizione. Noi liberali auspichiamo una società nella quale la distribuzione del reddito nazionale totale sia siffatta che non esistano redditi inferiori al minimo reputato generalmente in ogni paese sufficiente alla vita che ivi può condursi in relazione alla massa totale del flusso del reddito nazionale; e non esistano neppure redditi permanentemente superiori ad un livello reputato socialmente pericoloso. A tal fine due principalissimi strumenti debbono essere adoperati, dei quali l’uno è l’imposta e l’altro è la scuola.

L’imposta, sul reddito e successoria, deve essere congegnata in maniera da incoraggiare la formazione dei nuovi e dei cresciuti redditi e da decimare i redditi antichi e costituiti, sicché ad ogni generazione i figli siano costretti a rifare in parte ed i nepoti e pronipoti a rifar ancora per la restante parte la fortuna avita ove intendano serbarla intatta; sicché se non vogliano o non vi riescano siano costretti ad andare a fondo. La scuola, al limite, deve essere congegnata in modo tale che tutti i giovani meritevoli possano gratuitamente, senza pagamento di tassa veruna, percorrere tutti gli ordini di scuola, dall’asilo infantile alle scuole di perfezionamento post-universitario, ed essere provveduti di vitto, alloggio, assistenza sanitaria, libri ed altri strumenti di studio. Solo così sarà possibile abolire quella che è la macchia fondamentale dell’ordinamento sociale moderno; che non è tanto la disuguaglianza nelle fortune esistenti, rimediabile con l’imposta, quanto la disuguaglianza nei punti di partenza. Quando al figlio del povero saranno offerte le medesime opportunità di studio e di educazione che sono possedute dal figlio del ricco; quando i figli del ricco saranno dall’imposta costretti a lavorare, se vorranno conservare la fortuna ereditata; quando siano soppressi i guadagni privilegiati derivanti da monopolio e siano serbati ed onorati i redditi ottenuti in libera concorrenza con la gente nuova e la gente nuova sia tratta anche dalle file degli operai e dei contadini, oltre che dal medio-ceto; quando il medio-ceto comprenda la più parte degli uomini viventi, noi non avremo una società di uguali, no, che sarebbe una società di morti, ma avremo una società di uomini liberi.

Ben è vero che l’ideale di una società varia di tipi di intrapresa, di istituti pubblici e privati, ricca per l’aggiunta di sempre nuovi redditi e per la eliminazione dei redditi parassitari è un ideale che non può essere raggiunto in breve giornata. Ma vi sono paesi i quali da quell’ideale non sono lontanissimi, dove in tempo di pace i massimi redditi pagano allo stato, ove non si calcoli il gravame delle imposte successorie e di quelle sui consumi, il 60-70 per cento del loro ammontare; ed in tempo di guerra assolvono il 97 per cento; dove le imposte successorie costringono alla liquidazione dei patrimoni aviti ed alla vendita dei libri dei quadri ed altri oggetti artistici familiari, coloro che non sanno col lavoro ricostituire ogni giorno le fortune ereditate; dove gli sforzi per garantire a tutti l’uguaglianza nei punti di partenza datano da più di cent’anni ed ognora vanno intensificandosi.

Questi paesi possono essere detti capitalistici da chi non ne conosce il meccanismo intimo e la sua capacità di adattamento; in verità essi tendono verso la creazione della città libera, nella quale a tutti gli uomini è dato, ove vogliano lavorare, di conquistare l’indipendenza economica, indipendenza da qualsiasi padrone, sia esso un privato imprenditore od un capo gerarchico o, peggiore di tutti i padroni, una entità misteriosa lontana anonima chiamata stato. Se l’uomo può dire: questa è la mia casa, questa è la mia terra, questa è la mia arte, il mio mestiere, il mestiere del quale i miei simili hanno bisogno; se egli può ergere la fronte dinanzi a chi vuole imporgli un contrassegno di fede o di partito per consentirgli di lavorare, non perciò l’uomo è già libero. Ma poiché egli possiede una riserva e non è più obbligato a mendicare altrui ogni giorno il diritto di lavorare, nemmeno da taluno che egli abbia in qualche giorno dell’anno eletto a suo capo, egli non è più schiavo e se anche egli non sia un eroe, se anche egli sia un uomo qualunque, uno dei molti uomini che trapassano facendo semplicemente il loro dovere, può credersi ed essere uomo libero.

Il mito dello stato sovrano

Il mito dello stato sovrano

«Il risorgimento liberale», 3 gennaio 1945[1]

«L’Italia e il secondo risorgimento», 10 marzo 1945[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 625-630

Scritti sull’unità politica europea, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, 1995, pp. 35-40[3]

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 96-100

 

 

 

 

In una lettera indirizzata a Luigi Albertini, direttore del «Corriere della Sera» e pubblicata (a firma “Junius” e ristampata dai Laterza di Bari nelle Lettere politiche di Junius) nel numero del 5 gennaio 1918, criticavo i disegni di una costituenda «Società delle nazioni», quando altri, che poi fu gran parte nel distruggerla, presiedeva ad una adunata di popolo indetta allo scopo di propugnare la costituzione di una associazione italiana per il promuovimento della idea societaria. Sostenevo nella lettera la tesi che l’idea medesima della società delle nazioni era sbagliata in principio e perciò caduca e promuovitrice di guerra. Facile era la profezia; ché il presidente Wilson, apostolo nobilissimo dell’idea della società delle nazioni, non aveva bisogno di appellarsi ad esempi storici memorandi di insuccesso, come quelli della lega anfizionica del sacro romano impero di nazione germanica o della santa alleanza. Gli bastava guardarsi indietro, indagando le ragioni per le quali i tredici stati originari del suo grande paese avevano dovuto mutare alla radice il loro ordinamento. Scrivevo in quella oramai vecchia lettera:

 

 

Leggesi in tutte le storie come gli Stati Uniti siano vissuti sotto due costituzioni: la prima disposta dal congresso del 1776 ed approvata dagli stati nel febbraio 1781, la seconda approvata dalla convenzione nazionale il 17 settembre 1787 ed entrata in vigore nel 1788. Sotto la prima, l’unione nuovissima minacciò ben presto di dissolversi; sotto la seconda gli Stati Uniti divennero giganti. Ma la prima parlava appunto di «confederazione ed unione» dei 13 stati, come oggi si parla di «società delle nazioni» e dichiarava che ogni stato «conservava la sua sovranità, la sua libertà ed indipendenza ed ogni potere, giurisdizione e diritto non espressamente delegati al governo federale». La seconda invece non parlava più di «unione fra stati sovrani», non era più un accordo fra governi indipendenti; ma derivava da un atto di volontà dell’intero popolo, il quale creava un nuovo stato diverso e superiore agli antichi stati. «Noi – così dice lapidariamente il preambolo della vigente costituzione federale – noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di fondare una unione più perfetta, stabilire la giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere per la comune difesa, promuovere il benessere generale e garantire le benedizioni della libertà per noi e per i posteri nostri, decretiamo e fondiamo la presente costituzione per gli Stati Uniti d’America». Ecco sostituito al «contratto», all’«accordo» fra stati sovrani per regolare “alcune” materie d’interesse comune, l’«atto di sovranità del popolo americano tutto intero», il quale crea un nuovo stato e gli dà una costituzione e lo sovrappone, in una sfera più ampia, agli stati antichi, serbati in vita in una sfera più ristretta.

 

 

Ve n’era urgente bisogno. Quei sette anni di vita, dal 1781 al 1787, della “società” delle 13 nazioni americane, erano stati anni di discordie, di anarchia, di egoismo tali da far rimpiangere a molti patrioti il dominio inglese e da far desiderare a non pochi l’avvento di una monarchia forte, che fu invero offerta a Washington e da questi respinta con parole dolorose, le quali tradivano il timore che l’opera faticosa sua di tanti anni non dovesse andare perduta. La radice del male stava appunto nella sovranità e nell’indipendenza dei 13 stati. La confederazione, appunto perché era una semplice “società” di nazioni, non aveva una propria indipendente sovranità, non poteva prelevare direttamente imposte sui cittadini. Dipendeva quindi, per il soldo dell’esercito e per il pagamento dei debiti contratti durante la guerra dell’indipendenza, dal beneplacito di 13 stati sovrani. Il congresso nazionale votava spese, impegnava la parola della confederazione e, per avere i mezzi necessari, indirizzava richieste di danaro ai singoli stati. Ma questi o negligevano di rispondere o non volevano, nessuno tra essi, essere i primi a versare le contribuzioni nella cassa comune. «Dopo brevi sforzi» – così scrive il giudice Marshall nella sua classica Vita di Washington, riassumendo le disperate e ripetute invocazioni e lagnanze che a centinaia sono sparse nelle lettere del grande generale e uomo di stato – «dopo brevi sforzi compiuti per rendere il sistema federale atto a raggiungere i grandi scopi per cui era stato istituito, ogni tentativo apparve disperato e gli affari americani si avviarono rapidamente ad una crisi, da cui dipendeva l’esistenza degli Stati Uniti come nazione … Un governo autorizzato a dichiarare guerra, ma dipendente da stati sovrani quanto ai mezzi di condurla, capace di contrarre debiti e di impegnare la fede pubblica al loro pagamento, ma dipendente da 13 separate legislature sovrane per la preservazione di questa fede, poteva soltanto salvarsi dall’ignominia e dal disprezzo qualora tutti questi governi sovrani fossero stati amministrati da persone assolutamente libere e superiori alle umane passioni». Era un pretendere l’impossibile. Gli uomini forniti di potere non amano delegare questo potere ad altri; ed è perciò quasi impossibile, conchiude il biografo, «compiere qualsiasi cosa, sebbene importantissima, la quale dipenda dal consenso di molti distinti governi sovrani». Ed un altro grande scrittore e uomo di stato, uno degli autori della costituzione del 1787, Alessandro Hamilton, così riassumeva in una frase scultorea la ragione dell’insuccesso della prima società delle nazioni americane: «il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche, è un puro nome».

 

 

Questi ammonimenti solenni non possono essere dimenticati. Oggi, vi è in Italia un gruppo di giovani, temprati alla dura scuola della galera e del confino nelle isole, il quale è deliberato a mettere il problema della federazione in testa a tutti quelli i quali debbono essere discussi nel nostro paese. Non senza viva commozione ricevetti, durante i lunghi trascorsi anni oscuri, una lettera scrittami dal carcere da Ernesto Rossi, nella quale mi si ricordava l’antica lettera e mi si diceva il suo deliberato proposito di volere operare per tradurre in realtà l’idea federalistica. L’opera sinora si è forzatamente limitata, dentro e fuor del confino, in Italia ed all’estero, a convegni, ad opuscoli, fogli tiposcritti e giornaletti a stampa. Sia consentito all’antico oppugnatore dell’idea societaria, di aggiungere, agli opuscoli già divulgati in materia, una professione di fede.

 

 

Noi federalisti non difendiamo una tesi la quale sia a vantaggio di alcun paese egemonico, né dell’Inghilterra, né degli Stati Uniti, né della Russia. Vogliamo porre il problema nei suoi nudi termini essenziali, affinché l’opinione pubblica conosca esattamente quali condizioni debbano essere necessariamente osservate affinché l’idea federale possa contribuire, invece di porre ostacoli, al mantenimento della pace. Se si vuole fra venticinque anni una nuova guerra la quale segni la fine d’Europa, si scelga la via della società delle nazioni; se si vuole tentare seriamente di allontanare da noi lo spettro della distruzione totale, si vada verso l’idea federale. La via sarà tribolata e irta di spine; né la meta potrà essere raggiunta d’un tratto. Quel che importa è che la meta finale sia veduta chiaramente e si intenda strenuamente raggiungerla.

 

 

Perché l’idea della società delle nazioni è infeconda e distruttiva? Perché essa è fondata sul principio dello stato “sovrano”. Questo è oggi il nemico numero uno della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste. Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso. Quel concetto è un idolo della mente giuridica formale e non corrisponde ad alcuna realtà. In un mondo percorso da ferrovie, da rapide navi, da aeroplani, nel quale le distanze sono state annullate da telegrafi e telefoni con o senza fili, gli stati, che un giorno parevano grandi, come l’Italia, la Francia, la Germania, l’Inghilterra, a tacer di quelli minori, sono diventati piccoli come nel quattrocento eransi rimpiccioliti i liberi comuni medievali, e Firenze e Bologna e Milano e Genova e Venezia avevano dovuto dar luogo a più ampie signorie e queste poi nel 500 e nel 600 dovettero cedere il passo dinnanzi ai grandi stati moderni. Pensare che uno stato, sol perché si dice sovrano, possa dare a se stesso leggi a suo libito, è pensare l’assurdo. Mille e mille vincoli legano gli uomini di uno stato agli uomini di ogni altro stato. La pretesa alla sovranità assoluta non può attuarsi entro i limiti dello stato sedicente sovrano. Gli uomini, nella vita moderna signoreggiata dalla divisione del lavoro, dalle grandi officine meccanizzate, dalle rapide comunicazioni internazionali, dalla tendenza ad un elevato tenore di vita, non possono vivere, se la loro vita è ridotta ai limiti dello stato.

 

 

Autarchia vuol dire miseria; e necessariamente spinge gli uomini alla conquista. Gli uomini viventi entro uno stato sovrano debbono, sono dalla necessità del vivere costretti ad assicurarsi fuor di quello stato i mezzi di esistenza, le materie prime per le proprie industrie e gli sbocchi per i prodotti del loro lavoro. Qualunque sia il regime sociale che gli stati si sono dato, essi sono costretti alla conquista dello spazio vitale. L’idea dello spazio vitale non è frutto di torbide immaginazioni germaniche od hitleriane; è una logica fatale conseguenza del principio dello stato sovrano. Quella idea non ha limiti. Necessariamente porta al tentativo di conquista nel mondo. Andrebbe al di là, se fosse fisicamente possibile. Non esiste uno spazio vitale autosufficiente. Quanto più uno stato si ingrandisce, tanto più le sue industrie ingigantiscono e diventano voraci assorbitrici di materie prime e bisognose di mercati sempre più ampi. Quando pare di essere giunti alla fine, sempre fa difetto una materia essenziale, senza di cui il meccanismo economico, divenuto colossale, si incanta. La necessità del dominio mondiale è carne viva e sangue rosso indispensabile alla vita del mito dello stato sovrano. Ossia, poiché tutti gli stati sovrani vantano il medesimo e giusto diritto allo spazio vitale, al dominio mondiale, perché senza di esso non possono vivere o vivrebbero solo se si rassegnassero ad una vita miserabile economicamente ed oscura spiritualmente, indegna della società umana, il mito dello stato sovrano significa, è sinonimo di “guerra”. La guerra del 1914-18, quella presente e l’orrenda maggiore carneficina che si prepara per l’avvenire furono sono e saranno il risultato necessario del falso idolo dello stato sovrano. Uomini più ossessionati degli altri hanno assunto la responsabilità di scatenare gli eccidi. Ma la causa profonda era la falsa idea della quale essi si fecero apostoli.

 

 

Fa d’uopo che tutti ci facciamo apostoli dell’idea contraria. Quella della società delle nazioni non solo è monca, ma va contro il fine che si vuol raggiungere. Poiché essa è ancora una lega fra stati “sovrani”, essa rinnega il principio dal quale muove. Ponendoli gli uni accanto agli altri, acuisce gli attriti fra stati, li moltiplica, proclama al mondo la volontà degli uni a non volere adattarsi all’uguale volontà degli altri, epperciò cresce le occasioni di guerra.

 

 

Altra via d’uscita non v’è, fuor di quella di mettere accanto agli stati attuali un altro stato. Il quale abbia compiti suoi propri ed abbia un popolo “suo”. Invece di una società di stati sovrani, dobbiamo mirare all’ideale di una vera federazione di popoli, costituita come gli Stati Uniti d’America o la Confederazione elvetica. Gli organi supremi, parlamento e governo, della confederazione non possono essere scelti dai singoli stati sovrani ma debbono essere eletti dai cittadini della confederazione. Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche fondamentali del sistema. Gli stati restano sovrani per tutte le materie che non siano delegate espressamente alla federazione; ma questa sola dispone delle forze armate, ed entro i suoi confini vi è una cittadinanza unica ed il commercio è pienamente libero. Fermiamoci a questi punti che sono gli essenziali e da cui si deducono altre numerose norme. Entro i limiti della federazione la guerra diventa un assurdo, come sono divenute da secoli un assurdo le guerre private, le faide di comune e sono represse dalla polizia ordinaria le vendette, gli omicidi ed i latrocini privati. La guerra non scomparirà, ma sarà spinta lontano, ai limiti della federazione. Divenute gigantesche le forze in contrasto, anche le guerre diventeranno più rare; finché esse non scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla mente degli uomini l’idolo immondo dello stato sovrano.



[1] Con il titolo Contro il mito dello stato sovrano [ndr].

[2] Con il titolo Contro il mito dello stato sovrano [ndr].

[3] Con il titolo Contro il mito dello stato sovrano [ndr].

Maior et sanior pars

«Idea», 1, gennaio 1945[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 92-112

La costituzione degli stati moderni è fondata sul principio della maior pars, della maggioranza. Quando i cittadini, in voto libero e segreto, hanno dichiarato, con la maggioranza della metà più uno, di voler il tale uomo a capo del governo, accolto il tale principio nella raccolta delle leggi, osservata una politica di pace oppure di guerra, nazionalizzata ovvero restituita alla privata iniziativa una data industria, attuato un piano economico governato dall’alto invece che dal mercato, preferita la libertà dell’insegnamento al monopolio scolastico dello stato o viceversa, il sindacato unico obbligatorio ai sindacati liberi e molteplici oppure il contrario, quando la maggioranza dei cittadini ha votato, direttamente o per mezzo dei suoi rappresentanti, nell’uno o nell’altro senso, tutto è finito. Vox populi vox Dei. La questione è decisa ed alla minoranza non rimane se non inchinarsi ed ubbidire. Anche se la minoranza sia composta di quarantanove su cento e minima sia la disparità con la maggioranza di cinquantuno, la voce della major pars ha parlato. Se questa voce non fosse ubbidita, la minoranza comanderebbe alla maggioranza; i quarantanove prevarrebbero sui cinquantuno. Ed è certamente più irrazionale che i quarantanove comandino ai cinquantuno di quanto non sia che la volontà dei cinquantuno prevalga su quella dei quarantanove. Tutta la logica del governo democratico sta in questo semplice nudo ineccepibile ragionamento. Eppure, noi sentiamo di non essere persuasi. Sentiamo che vi può essere una tirannia dei cinquantuno altrettanto dura, altrettanto odiosa, come la tirannia dell’uno, dei pochissimi su cento. Da secoli, da millenni la sapienza popolare ha affermato la distinzione fra la democrazia e la demagogia; fra la democrazia che è il governo della maggioranza “vera” e la demagogia che è il governo della maggioranza “falsa”. Ambedue sono il governo che deriva dai cinquantuno su cento; e tuttavia c’è nell’aria, c’è nel metodo di governare, c’è nelle leggi, c’è nel modo di vita, nei costumi, nelle relazioni sociali, nella vita spirituale qualcosa che ci dice: quello non è governo di popolo, non è governo di una maggioranza che abbia diritto di governare.

A varî segni noi siamo tratti ad affermare che quella, se è la major pars non è la sanior pars, che i meliores sono rimasti tra i meno ed i pejores hanno dominato i più ed hanno parlato come se fossero la voce di tutti. Accade ciò perché tra i più sono numerosi gli ignari, i quali non hanno alcuna attitudine a giudicare dei grandi problemi della cosa pubblica; od i poltroni, pronti ad usare del potere di coazione dello stato per vivere a spese di coloro i quali lavorano; o gli egoisti individuali, repugnanti a sacrificare il momento che fugge alle ragioni dell’avvenire; od i procaccianti, larghi promettitori alle folle di prossimi avventi del paradiso in terra? Chi non sa la difficoltà del mantenere, largamente promette e procaccia a sé il facile suffragio delle maggioranze. Alla major pars l’istinto spontaneo dell’uomo vivente nella società politica contrappone la sanior pars degli scolastici, la classe politica di Gaetano Mosca, la élite di Vilfredo Pareto[2].

Ma già Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto avevano chiarito che né le classi politiche né i ceti scelti (le élites) si identificano con i meliores, con i «savî» con i «prudenti», con i «buoni uomini», ai quali nelle ore del pericolo gli uomini ricorrono per averne consiglio o guida. La classe politica può essere moralmente od intellettualmente inferiore alla media degli uomini componenti la società dalla quale è tratta. Il problema fondamentale politico non sta nel costituire veramente un governo di maggioranza. Qualunque sia la struttura formale dello stato, il potere spetta sempre ad una piccola minoranza. Se noi chiamiamo società democratica quella nella quale il governo sia intento a procacciare il bene morale e materiale massimo possibile degli uomini componenti oggi e dimani la collettività nazionale, noi diremo che il fine della società democratica ha tanto maggiori probabilità di essere raggiunto quanto meglio la «maggioranza» riesce ad identificare gli eletti con la sanior pars del ceto politico. Al suffragio della maggioranza si offrono molti gruppi politici concorrenti, i quali presentano qualità morali intellettuali speculative esecutive economiche diversissime. Tra essi si noverano uomini che intendono, pur conservando le forme della libertà legale, a tirannia, ossia a procacciare onori ricchezze potere a se stessi; ed altri che, se anche siano mossi da legittima ambizione di primeggiare, vogliono elevar se stessi procacciando il bene dei più. La scelta, che la maggioranza faccia di un gruppo piuttosto ché di un altro non risolve il problema; essendo notevoli le probabilità, che in tutti i gruppi politici concorrenti vi sia una frequenza pressoché costante di qualità demagogiche e cioè egoistiche a favor del gruppo e di qualità democratiche e cioè volte al bene comune. Ove non esistano freni al prepotere dei ceti politici, è probabile che il suffragio della maggioranza sia guadagnato dai demagoghi a procacciare potenza onori e ricchezze a sé, con danno nel tempo stesso della maggioranza e della minoranza. I freni hanno per iscopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori. In apparenza è violato il principio democratico il quale dà il potere alla maggioranza; in realtà, limitandone i poteri, i freni tutelano la maggioranza contro la tirannia di chi altrimenti agirebbe in suo nome e, così facendo, implicitamente tutelano la minoranza. I freni esistono ed agiscono se gli uomini sono disposti a «tolleranza». La maggioranza, la quale avrebbe il potere di legiferare e decidere, tollera che la minoranza le vieti di agire a sua posta. I freni possono essere scritti nelle tavole fondamentali della legge. Se il principio della maggioranza fosse davvero decisivo, il comando legislativo ed esecutivo dovrebbe essere assunto dalla maggioranza della camera eletta a suffragio universale e segreto dei cittadini. Entro i limiti logici di quel principio non hanno luogo né la seconda camera, né le prerogative del capo dello Stato, né le dichiarazioni di incostituzionalità da parte di alcuna suprema corte giudiziaria. Tutti questi istituti non hanno ragion d’essere se si pensi che la maggioranza dei designati dal suffragio universale e segreto abbia diritto di avere una volontà e di farla eseguire. Essi vivono invece perché la maggioranza tollera che altri dica: tu sei la maggioranza dei delegati dei cittadini contati per teste; ma accanto a te esiste un’altra maggioranza di taluni uomini designati dall’eredità, dalle cariche coperte, dalla nomina regia o presidenziale, da corpi territoriali (stati, regioni, comuni)o professionali (università, accademie, corporazioni professionali) e talvolta, come accadeva in talune repubbliche saggiamente amministrate, persino dalla sorte. Siano costoro chiamati anziani o savi o senatori, essi hanno per legge il compito di rivedere, ritardare, modificare la volontà manifestata dalla maggioranza. Si riconosce, accanto al principio del contare le teste, che è il fondamento del governo democratico, sostituito al principio dello spaccarle, fondamento del governo tirannico, un altro principio: quello del pesarle; e si escogitano criteri oggettivi non arbitrari i quali facciano riconoscere le persone alle quali si vuole affidare il compito ritardatore dell’attuazione immediata della volontà della maggioranza. Non si nega che questa debba da ultimo prevalere; ma la si vuole difendere contro la sua propria intemperante frettolosità. Le passioni politiche possono persuadere a sopraffazione contro la parte avversaria; la riflessione imposta dall’obbligo di sentire gli anziani induce a tolleranza. Talvolta la moderazione è imposta dall’obbligo fatto dalla costituzione alla maggioranza di interrogare nuovamente se stessa a distanza di qualche tempo. Se la sua volontà è ugualmente ferma su quel punto, essa dimostra di essere dovuta non ad impulso improvviso, ma a ponderato giudizio; e la volontà può dar luogo all’azione.

L’obbligo delle maggioranze speciali, dei due terzi, dei tre quarti e perfino dei quattro quinti dei votanti o degli aventi diritto al voto è un altro aspetto dei vincoli che la maggioranza impone a se stessa contro la intemperanza, che nei momenti di grande passione politica la condurrebbe a sopraffare le minoranze. La volontà della maggioranza semplice non è ritenuta bastevole, se non è confortata da un più largo assenso. Alla formazione iniziale dello stato nella maniera odierna ha presieduto un equilibrio di forze sociali o territoriali, di tendenze di pensiero, di correnti politiche, mancando il quale lo stato non sarebbe sorto ed oggi sarebbe diversamente costituito. È naturale che le forze le quali erano giunte ad un dato equilibrio, quando per la fondazione o la nuova costituzione dello stato occorreva il loro consenso unanime, non intendono consentire ad una mutazione notabile di quell’equilibrio in seguito ad un subitaneo rivolgimento nella volontà della semplice maggioranza momentanea dei cittadini. Sarebbe troppo facile ad un gruppo numeroso di sopraffare un altro più sparuto dopoché questi ha rinunciato, entrando a far parte del nuovo stato, a quelle armi che prima gli avrebbero consentito di resistere alla sopraffazione altrui. Un tempo, innanzi alla rivoluzione francese, la resistenza alla volontà della maggioranza prendeva la forma di franchigie, di atti di dedizione, di statuti municipali o regionali, i quali non potevano essere violati dal principe, in cui si incarnava la volontà generale, senza che su di lui cadesse la taccia di mancata fede a giuramenti solenni. Nelle costituzioni federali odierne la volontà della maggioranza semplice od anche speciale più alta dei cittadini dell’intiera federazione non può prevalere contro la resistenza dei cittadini appartenenti alla minoranza degli stati federati. Questi si unirono inizialmente agli altri a date condizioni, le quali non possono essere mutate ove non concorra il loro particolare consenso. La maggioranza semplice può deliberare per le cose le quali non toccano negli stati unitari i principi fondamentali della vita civile e politica e negli stati federali, inoltre, i principi regolatori dei rapporti fra gli stati singoli e la federazione; ma per queste materie essenziali la maggioranza deve tollerare che la minoranza si opponga all’attuazione di nuove norme, le quali non sarebbero state consentite dai fondatori dello stato ove questi, al tempo in cui vissero, avessero dovuto deliberare tenendo conto delle nuove circostanze del tempo presente. Si vede qui la ragione profonda dei freni al potere delle maggioranze. I freni sono il prolungamento della volontà degli uomini morti, i quali dicono agli uomini vivi: tu non potrai operare a tuo libito, tu non potrai vivere la vita che a te piaccia; tu devi, sotto pena di violare giuramenti e carte costituzionali solenni, osservare talune norme che a noi parvero essenziali alla conservazione dello stato che noi fondammo. Se tu vorrai mutare codeste norme, dovrai prima riflettere a lungo, dovrai ottenere il consenso di gran parte dei tuoi pari, dovrai tollerare che taluni gruppi di essi, la minor parte di essi, ostinatamente rifiutino il consenso alla mutazione voluta dai più. Noi non volemmo porre i freni per capriccio o per smisurata opinione di noi stessi. Noi, che forse uscimmo da lotte cruente, che sapemmo quali ostacoli si debbono superare per fondare uno stato atto a durare nel tempo, sapevamo che uno stato si fonda e dura quando raccoglie attorno a sé il consenso della quasi universalità dei suoi cittadini. Noi non volemmo creare qualcosa che rispondesse alle aspirazioni fuggevoli della nostra sola generazione; ma riassumemmo nella nostra volontà quella di molte generazioni le quali avevano lottato e sofferto perché noi avessimo la ventura di toccare la meta che essi si proponevano. Perciò non volemmo che gli uomini viventi accidentalmente in un istante della successione dei secoli potessero sconvolgere d’un tratto l’opera nostra ed, obbligandoli a riflettere e ad ottenere il consenso dei meno, volemmo assicurare che la loro volontà fosse derivata da convinzioni profonde.

I freni legali scritti nelle costituzioni sono rigidi. La maggioranza speciale dei 66 su 100 non ha alcun rimedio contro l’ostinazione dei 34 su 100, i quali si rifiutino di accettare le proposte di legge presentate dalla maggioranza, nei casi gravi in cui la costituzione richiegga il consenso dei due terzi, il che vuol dire di 67 su 100. Se il 67° voto, che è decisivo, rimane fermo, l’ostacolo legale non può essere superato. In momenti di grande tensione politica, quando gli uomini diventano intolleranti, la mancanza di una valvola di sicurezza può condurre ad un mutamento violento del regime. La maggioranza la quale governa può essere tratta ad usare della forza per superare l’ostinazione della minoranza aggrappata al suo diritto di sbarrare la via alle riforme richieste ad alte grida dal popolo.

Il valore dell’ostacolo non deve essere esagerato. Se una minoranza di senatori americani rifiutò il voto al trattato di Versailles ed impedì l’adesione degli Stati Uniti alla Società delle Nazioni, quella minoranza si faceva in quel momento eco dell’opinione dei moltissimi ben decisi a ritornare all’isolamento tradizionale ed a non lasciarsi impigliare nelle contese europee; e la maggioranza incerta non era bene convinta della saggezza delle deliberazioni alle quali aveva acceduto. Quando invece il presidente Roosevelt volle superare l’ostacolo del diniego alla costituzionalità delle leggi del New Deal ostinatamente opposto dalla maggioranza dei giudici della corte suprema, egli si trovò dinnanzi a due contrastanti affermazioni della volontà della maggioranza dei cittadini. I quali erano bensì convinti che le leggi del New Deal dovessero entrare in vigore; ma erano altrettanto decisi a impedire che il presidente potesse, con un’infornata di nuovi giudici – egli aveva chiesto al congresso una legge la quale sanzionasse l’aumento del numero dei giudici della corte suprema e la legge, se votata, sarebbe certamente stata costituzionale, ed i nuovi giudici scelti dal presidente, avrebbero mutato la maggioranza della corte – sopraffare la volontà della corte quale essa era costituita. Dal dilemma legalmente insolubile si uscì grazie al senso di responsabilità storica dei giudici medesimi, alcuni dei quali, rinunciando a valersi della inamovibilità vitalizia garantita dalla costituzione e più dalla consuetudine ultrasecolare, richiesero di potersi ritirare dall’ufficio; e diedero così modo al presidente di compiere il numero antico scegliendo giudici favorevoli al New Deal. Ma la resistenza della corte suprema non fu vana; ché le nuove leggi approvate dal congresso attenuarono le punte le quali avevano eccitato critiche ragionate tra il pubblico ed i giudici più conservatori.

Un vecchio broccardo inglese afferma che la camera dei comuni può far tutto, salvo trasformare un uomo in donna e viceversa. Come tutti i broccardi, esso tace che vi sono tante cose che il legislatore potrebbe fare, ma non fa, perché un’invisibile misteriosa mano gli chiude la bocca e gli vieta di dire una parola diversa da quella che i secoli hanno inciso nelle coscienze degli uomini. I popoli hanno continuato per secoli a dilaniarsi ed a distruggersi per imporre altrui il proprio credo e da ogni strage nascevano nuovi martiri a chiedere la libertà di coscienza; sinché gli uomini si sono persuasi di non potere rinunciare alla libertà di professare la religione che essi individualmente preferiscono. Per millenni gli uomini hanno prima ucciso e divorato, poi ucciso e dato in pasto alle belve, poi ridotto in schiavitù il nemico, il forestiero, il debole; ma poiché gli schiavi hanno seguitato a ribellarsi, i popoli hanno scritto nei codici il principio che nessun uomo possa essere privato, anche se egli consentisse, della sua libertà personale, salvo nei casi contemplati dalla legge penale. Poiché i potenti, i re, i dominatori hanno usato sottoporre ad arresto arbitrario coloro che essi reputavano loro avversari o trattenere in carcere gli accusati di un delitto senza tradurli dinnanzi al giudice od inquisire a libito loro nelle case private, gli uomini insorsero e combatterono contro l’arbitrio e fu sancito il principio che il cittadino non potesse essere arrestato o la sua casa perquisita senza mandato del giudice; e nessuno potesse essere trattenuto in arresto preventivo, ma dovesse immediatamente essere deferito al giudizio del magistrato; e giudice dovesse essere quello proprio dell’accusato, colui cioè al quale la legge attribuiva l’ufficio innanzi che il presunto reato fosse commesso. Per secoli gli uomini furono perseguitati, incarcerati, martoriati, perché essi dichiaravano un pensiero, professavano opinioni, pubblicavano scritti sgraditi al ceto dominante ed alla maggior parte della popolazione; ma poiché i perseguitati, i bruciati vivi, i sepolti nei mastii delle fortezze dicevano parole ascoltate dagli uomini ed i tiranni sono vinti più dalla forza del pensiero che da quella delle armi, fu sancito nei codici il diritto di ognuno di esprimere liberamente il proprio pensiero colla parola e con gli scritti, purché la manifestazione esteriore del pensiero non ecciti il turbamento violento dell’ordine pubblico. È divenuto così, tra i popoli civili, dogma accettato che la maggioranza credente debba tollerare la pubblica espressione di altre fedi o della mancanza di fede; che la maggioranza repubblicana debba tollerare la pubblica propaganda della monarchia e viceversa; che la maggioranza anticomunista debba tollerare la divulgazione colla parola e cogli scritti dei principi comunistici, e viceversa; che i propugnatori della libertà degli scambi internazionali debbano tollerare ed anzi eccitare la dimostrazione della bontà dei vincoli doganali; che i legislatori debbano considerare come tabù, come cosa intoccabile i principi della libertà di coscienza, di religione, di pensiero, di stampa, della inviolabilità della persona umana e del domicilio privato contro gli arresti e le perquisizioni arbitrarie. Se in qualche contrada nuovamente imperversarono le polizie segrete, i giudizi amministrativi, i confinamenti politici, i tribunali speciali, noi giudicammo che quelle contrade erano sottoposte a tirannia e non facevano più parte del consorzio dei popoli civili.

Qual è la fonte da cui vien fuori l’alone di intoccabilità posto attorno a certi principi? Se si ficca lo sguardo in fondo, si giunge a Cristo, il quale annunciò agli uomini che essi erano tutti uguali innanzi a Dio e, dichiarandoli uguali, proclamò che il fine della vita era il perfezionamento, l’elevazione morale della persona umana. Tuttociò che degrada, opprime la persona umana, tuttociò che costringe l’uomo a fingere di credere, di pensare, di agire in modo contrario alla coscienza, è il male, è il peccato. La legge esteriore, la norma coattiva non può entrare nel dominio riservato alla coscienza, senza violare deformare sminuire la persona umana; e non può impedire neppure la manifestazione esteriore della fede e del pensiero perché l’uomo non vive isolato nella società e, quando non violi l’uguale diritto altrui, ha diritto di far proseliti, di conquistare nuove coscienze alla propria fede ed al proprio pensiero. Erra chi afferma che la fede, che la credenza in una data visione della vita sia un affare privato. Colui il quale ristringe la fede alle pratiche del culto e non informa a quella fede tutta la propria vita, la vita religiosa e quella civile, la vita economica e politica, la vita del pensiero e quella dell’operare pratico, non è un vero credente. Colui il quale assume a principio regolatore la libertà, non può limitarlo alla libertà del pensare solitario, ma deve vivere e predicare ed agire conformemente alla sua convinzione della vita. Poiché i principi della libertà di coscienza, di religione, di pensiero, di stampa sono divenuti carne viva dell’uomo moderno, l’offesa recata in questa materia alla libertà di un uomo solo in una società composta di milioni di uomini è giustamente reputata offesa recata a tutti gli uomini.

Giungiamo qui all’estremo della tolleranza; che è l’intolleranza verso qualunque potere di una maggioranza anche fortissima che si arrogasse di toccare i diritti fondamentali della persona umana. In quel campo neppure l’unanimità di tutti gli uomini viventi in una società politica varrebbe a giustificare la legge coercitiva negatrice delle libertà fondamentali dell’individuo. Quella invero non sarebbe unanimità, ché gli uomini viventi oggi non possono negare l’eredità dei loro padri, la quale ha diritto di rivivere nei figli ancora non nati. Gli uomini possono rinunciare temporaneamente all’esercizio di date libertà esteriori, quando il pericolo incombe di vedere rovinare la società politica, la patria e con essa le vere libertà che sono quelle interiori e spirituali. Salus publica suprema lex esto;, ed i popoli affidano perciò temporaneamente ad un dittatore poteri di vita e di morte. Ma poteri siffatti possono essere affidati solo a chi sia pronto a rinunciarvi non appena sia passato il pericolo; né mai i poteri stessi possono estendersi sino a sopprimere i diritti della persona umana i quali non siano incompatibili con la salvezza dello stato in guerra. Anche nell’ora del pericolo, giova che la libertà di coscienza e di pensiero, che il diritto della libera critica dell’opera dei governanti siano serbati vivi. Unico limite alle libertà fondamentali è il pericolo di giovare al nemico, che quelle libertà vuole distruggere. Perciò sono razionali le norme che l’ordinanza del consiglio federale svizzero del 22 settembre 1939 sulla protezione della sicurezza del paese ha dettato per limitare in tempo di guerra i diritti individuali di libertà:

  • Ogni persona deve ottemperare all’ordine che l’organo competente dell’esercito gli dia in ordine alle esigenze della sicurezza del paese. Gli organi competenti dell’esercito hanno il diritto di penetrare in qualsiasi momento negli immobili costruzioni ed altri locali e farvi perquisizioni ove la sicurezza del paese lo richiegga. Essi possono procedere a perquisizioni sulla persona di persone sospette. Su richiesta di un organo competente dell’esercito, ogni persona ha l’obbligo di aprire i locali ed i mobili di cui essa dispone e di esibire tutti gli oggetti e documenti che vi siano contenuti. Gli oggetti ed i documenti medesimi possono essere sequestrati.
  • In tutti i paesi in guerra o soggetti a pericolo nemico sono ordinate temporanee limitazioni alla libertà del singolo. Nella medesima maniera si risolvono i quesiti relativi alla repressione dei tentativi di sovvertire gli ordinamenti politici e sociali vigenti in un paese. Verso la metà del secolo scorso un gruppo di scrittori politici cattolici si fece paladino di una tesi respinta poscia dai dottori della chiesa.

Noi vogliamo utilizzare il principio, posto dalle leggi liberali, della libertà di insegnamento, di religione, di stampa, di riunione per far propaganda a favore di un ordinamento cristiano e cattolico dello stato. Ma quando noi avremo, col favore della libertà, conquistato il potere, noi non potremo dimenticare di essere, noi cattolici, possessori della verità, e di avere il dovere di inculcarla altrui e di opporci a qualsiasi insegnamento o propaganda contraria alla verità di fede. Perciò noi sopprimeremo quelle libertà che ci avranno consentito di conquistare il potere. Noi siamo logici ora, perché invochiamo le leggi liberali vigenti e saremo logici in seguito, quando obbediremo all’obbligo che la nostra fede ci fa di combattere l’errore.

Poco prima due uomini insigni, due pensatori i quali esercitarono una influenza profonda sul pensiero moderno, Enrico di Saint-Simon ed Augusto Comte sostennero, partendo da un principio diverso, la medesima tesi. Se la scienza è vera scienza, come può essa condurre all’errore? Se lo scienziato consiglia, se il legislatore legifera e il ministro esegue sulla base di un principio scientifico, di una verità dimostrata dalla matematica, dalla fisica, dalla chimica, dalla meccanica razionale, come potrebbero le conseguenze dell’azione essere erronee? Come potrebbero essere ammesse tergiversazioni e discussioni e contrasti intorno al miglior modo di far leggi? Vi è un «unico modo di risolvere i problemi ed è quello indicato dalla “scienza”». Ogni altra maniera è assurda ed antisociale. Lo scienziato, il quale conosce la verità, il quale sa le vie lungo le quali la verità si attua, non tollera, non può tollerare discussioni e resistenze. C’è forse qualcuno il quale neghi la verità della legge di gravitazione? Perché si dovrebbero negare le verità della meccanica sociale scoperte dalla scienza? Non esistono due verità scientifiche intorno al medesimo problema; la vera verità, che è una sola, si impone. Chi la nega è un criminale antisociale e deve essere eliminato.

Più di cent’anni fa, Saint Simon, il grande precursore del socialismo pianificatore, proclamando che un ordine sociale perfetto è possibile solo se «assegniamo ad ogni individuo o nazione la precisa specie di attività a cui sono adatti», si scagliava contro la «rivoltante mostruosità», contro il «dogma antisociale» della libertà di coscienza e dichiarava essere necessario un «potere sprituale» il quale deliberatamente costruisca il codice morale che gli uomini debbono osservare (nel Producteur 1825-1827). Dopo venti anni di intrinsichezza spirituale con Augusto Comte, altro precursore del socialismo organizzatore, Giovanni Stuart Mill era costretto a concludere melanconicamente nell’Autobiografia che i piani di organizzazione scientifica della società, accarezzati anche da lui per tanto tempo, erano «il più compiuto sistema di despotismo spirituale e temporale mai uscito da cervello umano, eccetto forse quelli concepiti da Ignazio di Lodola». Sentenze intolleranti verso la libertà di coscienza e del pensiero si leggono nuovamente in modernissimi libri i quali pretendono di illustrare i compiti sociali della scienza. In Inghilterra studiosi ammiratori dei piani “scientifici” atti ad amministrare le cose sociali, scrivono  (I.G. Crowter, The social relations of Sciences, 1941; L. Hogben, Science for the Citizen, 1938; ed altri) libri di 665 pagine per dimostrare che non solo si debbono far piani scientifici per organizzare l’umana gente e condurla al porto della felicità, ma che anche la scienza deve proporsi come “unico” scopo il bene sociale. Ogni ricerca scientifica cosidetta disinteressata, rivolta alla scoperta della verità pura è perciò antisociale e futile. La resistenza degli scienziati al controllo sociale delle loro ricerche e la loro pretesa ad una compiuta libertà di pensiero è irragionevole.

Non v’ha dubbio che da queste correnti di pensiero discendono nel tempo stesso la morte della scienza e la fine della libertà pratica. Non esiste libertà pratica, non esiste ordinamento democratico libero se ai cittadini non si dia ampia facoltà di parlare ed agire allo scopo di mutare gli uomini ed i sistemi esistenti di governo. L’ordinamento detto “totalitario”, qualunque sia il suo nome, qualunque sia la sua ideologia, è sinonimo di tirannia; nega la ricerca scientifica, la quale consiste nel sostituire una visione più perfetta dei fatti e della vita ad una visione più imperfetta; ma la visione più perfetta dell’oggi è pur sempre monca e probabilmente erronea ed importa sia continuamente provata e riprovata alla cote della critica, allo scopo di giungere via via a verità più alte o più generali, sebbene probabilmente sempre imperfette. Quell’ordinamento nega medesimamente la libertà pratica degli uomini, perché li costringe a vivere secondo una norma che è detta ottima da taluni uomini, i quali negano agli altri il diritto di proporre altre norme di vita, che i cittadini forse preferirebbero.

Il quesito politico il quale deve essere risoluto è: dobbiamo tollerare la esistenza di gruppi e di partiti, decisi a profittare della libertà ad essi garantita dagli ordinamenti democratici per abolire, una volta conquistato legalmente il potere, quella libertà di pensiero e di azione che aveva ad essi consentito di giungere al potere? Una società di uomini liberi non deve sbarrare il passo a coloro i quali, apertamente od implicitamente, si propongono il fine di costituire uno stato tirannico, in cui il gruppo che è riuscito ad ottenere per una volta la maggioranza dei suffragi, impedirà in seguito alle minoranze di muovere, nelle maniere legali, opposizione al governo costituito e di tentare di divenire nuovamente maggioranza? È doveroso che i poteri legislativi, esecutivi e giudiziari di un paese democratico dicano: «noi siamo decisi a garantire il rispetto più ampio al diritto di opposizione di qualunque partito, qualunque sia il suo credo politico sociale religioso morale. Ad una condizione: che si tratti di partiti ugualmente decisi, ove ad essi riesca di conquistare il potere, a garantire a noi, divenuti minoranza, uguale diritto di critica, di opposizione e di propaganda. Noi non possiamo consentire il diritto di propaganda a chi professa di volere distruggere la base medesima dell’ordinamento democratico, che è la libertà di critica e di opposizione». Questa posizione del problema deve essere nettamente negata. In primo luogo perché essa è futile. Gli uomini i quali, una volta conquistato il potere, negheranno la libertà, manderanno a morte, alla galera, al confino o, se vorranno dar prova di straordinaria mitezza, all’esilio gli oppositori, oggi certamente sono tra i più ferventi paladini di libertà. Nella fase preparatoria della conquista del potere, nessuno è, più di essi, fervente assertore di libertà per tutti i partiti. Finché siano minoranza, essi affermano il diritto di critica, di opposizione e di propaganda per tutti i partiti. Come distinguere, fra i tanti partiti che tutti, in tutti i paesi, vogliono la libertà ed oppugnano la tirannia, quelli i quali negheranno la prima ed instaureranno la seconda? Sarebbe d’uopo fare il processo alle intenzioni; inquisire nei più riposti segreti della mente umana; creare strumenti polizieschi propri della tirannia medesima, dalla quale si aborre. Oppure bisognerebbe argomentare dalla dottrina del partito che si presume negatore futuro di libertà alle sue conseguenze liberticide logicamente necessarie. Ma non basta, ad esempio, che nel programma dei comunisti si parli di dittatura del proletariato, per dedurre che il comunismo è “necessariamente” un regime di tirannia, sia pure a vantaggio degli operai. Il postulato può interpretarsi nel senso che, giunta la pienezza dei tempi, l’ordinamento attuale della proprietà appaia privo di contenuto, sicché la sua sostituzione con un ordinamento comunistico sia conforme all’interesse generale e non sia contestata se non da minoranze insignificanti e rassegnate a non diventar mai più maggioranza. L’interpretazione è fondata su previsioni storicamente ed economicamente assai dubbie; ma non può essere esclusa a priori; ed a priori non possono essere escluse costruzioni teoriche di economie comunistiche pianificate dal centro, le quali siano o sembrino compatibili con il mantenimento della libertà.

I credenti nell’idea della libertà non fondano tuttavia la loro negazione su una argomentazione empirica. Essi affermano che un partito ha diritto di partecipare pienamente alla vita politica anche quando esso sia dichiaratamente apertamente liberticida. Allo scopo di sopravvivere, gli uomini liberi non debbono rinnegare le proprie ragioni di vita, la libertà medesima della quale si professano fautori. Bisogna combattere i partiti liberticidi, mettere in luce l’errore dei loro programmi, usare di tutti i mezzi di propaganda offerti per convincere i cittadini dell’errore che essi commetterebbero rinunciando, in cambio della promessa, impossibile a mantenersi, di un bugiardo effimero apparente vantaggio materiale, al bene supremo della libertà spirituale e morale, dalla quale unicamente derivano i beni terreni. Gli uomini amanti della tolleranza civile hanno il dovere di combattere sino all’ultimo; ma, combattendo, non possono rinunciare ad essere se stessi. Epperciò essi debbono concludere: «se, nonostante la nostra parola e la nostra opposizione, i cittadini preferiscono i liberticidi a noi, segno è che essi non apprezzano il bene supremo, e fruges consumere nati, rinunciano alle ragioni della vita, che è liberazione continua dal male, che è lotta, che è sofferenza, aspirazione verso l’alto, verso il perfezionamento morale. Tale essendo la loro volontà, la loro sorte è segnata. Noi destinati a morire, formuliamo l’augurio che l’esperienza non sia troppo dura e troppo lunga per il popolo accecato e non occorra in avvenire troppo sangue e troppa fatica per riconquistare la perduta libertà. Sinché avremo fiato e potremo parlare seguiteremo ad ammonire i concittadini sulla sorte che li attende ove porgano ascolto alle parole lusingatrici della Circe liberticida; ma se gli uomini vorranno seguirla e tramutarsi in bestia, tal sia di loro».

Nulla può dunque fare lo stato democratico per impedire che gruppi o partiti liberticidi minino le sue stesse fondamenta? Nulla che violi la libertà degli uomini di darsi, se credono, un governo tirannico; ma tutto ciò che valga ad impedire che alla mutazione degli ordini liberi si giunga colla violenza e coll’inganno, fuor della volontà, liberamente manifestata, dei cittadini. Perciò mi sembrano indice di tolleranza e di libertà le seguenti norme, che leggo nell’ordinanza del 5 dicembre 1938 del consiglio federale svizzero, le quali puniscono variamente:

  • chi intraprenda a rovesciare o mettere in forse in modo illecito l’ordinamento sulla costituzione della confederazione o di un cantone;
  • chi, in particolare, favorisca una propaganda straniera tendente a modificare le istituzioni politiche della Svizzera;
  • chi, pubblicamente ed in modo sistematico, vilipenda i principi democratici, i quali stanno a fondamento della confederazione e dei cantoni, ed in particolare coloro i quali consapevolmente lancino o diffondano a tal uopo informazioni inesatte;
  • chi pubblicamente ecciti all’odio contro taluni gruppi della popolazione per ragion di razza, religione o nazionalità.

E queste altre le quali integrano quelle ora riprodotte:

Il consiglio federale può sciogliere i gruppi o le imprese che compromettano la sicurezza esterna od interna del paese o limitare ovvero interdire la loro attività politica e confiscarne i beni.

Il consiglio federale può, se necessario, vietare espressamente talune specie di propaganda dirette contro le fondamenta politiche e culturali della Svizzera.

Anche quando nessuna persona determinata può essere accusata o condannata, il consiglio federale può vietare per un massimo di sei mesi o per sempre in caso di recidiva, i giornali o periodici i quali abbiano servito alla perpetrazione di uno degli atti previsti nella ordinanza.

Le autorità cantonali debbono vietare le manifestazioni e particolarmente le radunanze ed i cortei, i quali si presuma possano dar occasione o provocare infrazioni alla ordinanza; e, se necessario, il consiglio federale medesimo può pronunciare il divieto.

Le norme, sebbene redatte in linguaggio generico, sono evidentemente indirizzate contro le mene naziste – quelle fascistiche, sebbene non ignote, non ebbero mai sostanziale importanza – di sovvertimento dei liberi ordini politici della confederazione; ma potrebbero essere e furono applicate anche contro tentativi comunistici. Esse in sostanza non sono volte contro la parola o gli scritti intesi a negare le basi dell’ordinamento democratico; sì contro i mezzi illeciti, contrari alle leggi, usati nella propaganda liberticida; contro la calunnia, la diffamazione, il vilipendio sistematico, l’opera di odio antisociale, specie se assoldata da potenze straniere. Lo stato rispetta tutte le idee, anche quelle più repugnanti all’uomo libero; ma non tollera che la propaganda delle idee antiliberali assuma forme esteriori nocive all’ordine pubblico ed alla sicurezza della nazione. La linea di distinzione fra il mezzo lecito e quello illecito, fra la predicazione pacifica e l’eccitamento alla violenza ed al disordine, fra la convinzione spontanea e la professione esterna assoldata dal nemico è, sì, sottile. Ma ogni distinzione giuridica di tal genere è delicatissima; e l’unica guarentigia per la libertà del cittadino contro i soprusi dell’autorità politica è l’indipendenza della magistratura. Se esistano magistrati consapevoli della loro missione, il cittadino non corre alcun pericolo a causa dei divieti posti a tutela dei liberi ordinamenti. Là dove i magistrati ubbidiscono al cenno del politico, a che pro andar cercando guarentigie nella lettera delle leggi? La legge, sia d’ordine costituzionale che ordinaria, non può essere opera della sola maggioranza. Almeno non può essere tale, ove essa debba durare a lungo ed essere applicata fruttuosamente. Se la norma di legge fu voluta dalla maggioranza contro la netta opposizione di una minoranza notabile e convinta; se essa lasciò uno strascico di importanti interessi lesi e se la lesione è reputata ingiusta da forti gruppi di interessati; se essa offese ideali cari a talune regioni o città o gruppi sociali, non illudiamoci. Quella chiamasi legge, ma è un’arma di lotta di gruppo contro gruppo, di regione contro regione, di città contro città. Essa eccita resistenze, provoca nuove lotte, inacerbisce gli animi. Può darsi essa prevalga alla lunga sulle forze che la contrastano; ma gli strascichi di odii e di vendette che essa lascia dietro di sé sono forse più dannosi dei benefici che se ne ritraggono.

La legge duratura, feconda ha per caratteristica essenziale l’adesione della minoranza ai deliberati della maggioranza. Adesione non vuol dire voto favorevole. La critica, il contrasto all’approvazione di un disegno di legge, articolo per articolo, capoverso per capoverso, parola per parola è collaborazione altrettanto efficace alla nuova legge quanto e forse più, della difesa del testo originale. L’oppositore, il quale, dopo vivacissima discussione e lunghe schermaglie, è riuscito a far modificare la dizione di un articolo, a far introdurre un nuovo comma, ad attenuare o ad accentuare la norma originariamente proposta, è forse più orgoglioso della variazione chiesta ed ottenuta con tanta fatica di quel che non sia il ministro proponente del suo trionfo nel voto finale. La legge diventa il frutto comune della maggioranza e della minoranza. Anche colui il quale ha dato il voto contrario deve riconoscere che nella formulazione ultima si è tenuto conto del suo contributo, che in essa si rispecchia un aspetto della sua volontà ed è tratto ad inchinarsi alla volontà della maggioranza. Il tipico risultato del contrasto liberamente manifestato è il compromesso fra le parti e le tendenze opposte; ed il compromesso conduce alla adesione leale della minoranza alla decisione lungamente contrastata alla quale la maggioranza finalmente è giunta.

Il “compromesso” ha due significati opposti: del do ut des fra interessi opposti e dell’avvicinamento fra partiti estremi. Il primo è moralmente e politicamente deprecabile; il secondo è strumento di stabilità sociale. Il compromesso del do ut des non è indice di tollerante adattamento parziale alle idee opposte, sì invece di puro calcolo partigiano egoistico. L’avvocato degli industriali cotonieri freddamente calcola quanti voti può aggiungere a quelli dei suoi fidi se egli, mercanteggiando, promette il voto favorevole dei venti suoi affiliati alle proposte sostenute singolarmente dagli avvocati dei lanaiuoli, dei siderurgici, dei meccanici, dei cerealicultori e dei viticultori. Nessuno di questi gruppi ha ideali da difendere, nessuno bada all’interesse generale. Basta ad ognuno di contrattare con i rappresentanti di interessi diversi la propria adesione alle richieste altrui pur di ottenere l’adesione altrui alle richieste proprie. Così nascono le tariffe doganali, le quali proteggono non le industrie le quali abbiano ragioni di interesse generale da far valere (industrie nascenti, industrie in transizione o soggette a svendite temporanee ecc. ecc.), ma quelle le quali sono politicamente forti e possono influire su un numero maggiore di rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori. Così nascono le distribuzioni dei lavori pubblici tra regioni diverse e tipi diversi di occupazione. Non si bada al piano preordinato in tempi prosperi, di lavori atti ad assorbire, nella maniera più adatta a compiere opere di interesse generale, gli operai che saranno disoccupati nei tempi di crisi; ma si contrattano opere per soddisfare ad esigenze politiche elettorali nei tempi e nei luoghi preferiti dalle parti le quali dispongono dei voti necessari a formare maggioranze parlamentari. Ovvero anche, nel sistema proporzionale, quando i partiti si moltiplicano e basta il possesso di un quoziente elettorale per dar luogo ad un partito, ognuno di essi intende ad attuare il proprio piccolo programma, che può essere il voto alle donne o la parificazione della scuola privata a quella pubblica o il divorzio o la proibizione delle bevande alcooliche o il dazio sul grano o l’unicità dei sindacati operai e padronali e simili cose sconnesse tra loro e forse derivanti da correnti ideali opposte; ed ogni partito vende all’altro il voto nelle cose altrui per conseguirne l’assenso al proprio postulato. Questo è falso compromesso, il quale trasforma i codici in antologie di norme arlecchinesche e dà il governo in mano a faccendieri intriganti.

Il vero compromesso è invece avvicinamento tra gli estremi, superamento degli opposti in una unità superiore. In verità maggioranze composte di uomini fermamente convinti della bontà di un programma non esistono. Pochi uomini posseggono un proprio sistema di idee, una ferma convinzione intorno ai problemi fondamentali della convivenza sociale. Intorno ai pochi si adunano i seguaci, e con essi formano parti politiche, scuole letterarie od artistiche, raggruppamenti sociali o religiosi. Pochi sono i capi ed i seguaci veramente convinti e sono minoranze più o meno attive nella predicazione e nella propaganda. La grande maggioranza degli uomini non pensa colla propria testa. Aderisce al pensiero ed alla volontà altrui. Ma vuole essere persuasa. Alla grande massa che non pensa, dispiacciono, salvo quando essa è folla radunata in piazza, i colori vivi abbaglianti; e la attirano invece le sfumature, le finte di transizione. Per conquistare gli incerti, i dubbiosi, i non pensanti è necessario che i partiti organizzati abbandonino una parte di se stessi, quella parte che allontanerebbe un troppo gran numero di titubanti. Fa d’uopo che ogni parte faccia proprio quel che di buono, di attraente per la moltitudine degli incerti vi è nel programma della parte avversa. In questa necessità di ottenere e conservare il favore della moltitudine politicamente passiva è radicato il gioco politico dell’appropriazione dei punti migliori dei programmi avversari. La legislazione sociale, le riforme tributarie ed agrarie, proposte dapprima da filantropi solitari, da apostoli di comunismo e di socialismo utopistico o rivoluzionario, da organizzatori operai, da liberali utilitaristi, furono quasi sempre attuate, nei paesi politicamente sani, dai conservatori. Non a caso; ché, filtrate attraverso il vaglio della discussione, le riforme perdono della asperità e crudezza originarie; da enunciazioni vaghe di principi si voltano in norme precise giuridiche, da paurose minacce di sovvertimento sociale in garanzie feconde di elevazione di tutti gli uomini. I conservatori, i quali hanno il vanto di attuare la riforma, non ne sono in verità i soli e neppure forse i veri autori; ché nel linguaggio tecnicamente perfetto della legge sono tradotte le predicazioni del filantropo, gli insegnamenti del sacerdote, le arringhe degli oratori comunisti, gli eccitamenti degli organizzatori, i ragionamenti degli economisti liberali. Filantropi, sacerdoti, socialisti, organizzatori, economisti non sono pienamente contenti della traduzione che i conservatori hanno fatto delle loro idee; e tuttavia veggono in quelle formule giuridiche, in quelle norme precise riprodotta, quando sia giunta la pienezza dei tempi – ed il contributo dei conservatori lungiveggenti sta appunto nella scelta del momento più adatto alla riforma – la sostanza del loro pensiero, in quanto essa è atta ad essere tradotta in azione. Sicché, quando la norma è da ultimo promulgata, come legge, essa non è in verità l’espressione della volontà di una parte intesa a sopraffare l’avversario, ma della volontà generale. La legge è osservata da tutti, è legge attiva e fruttuosa perché è frutto del compromesso fra gli opposti, e della adesione dei meno alla norma deliberata da coloro che si sono fatti l’eco della volontà dei più. La legge è sempre formalmente coattiva; ma è viva ed operosa solo se ad essa aderisce subito, senza rimpianto, la minoranza vinta. Soltanto allora il popolo dice: questa e legge. E ad essa ubbidisce.

 

[1] Con il titolo «Maior et senior pars», ossia della tolleranza e dell’adesione politica [ndr.].

[2] Della distinzione, usata dai canonisti medievali, fra major e sanior pars, avevo letto primamente in Il principio maggioritario, di Edoardo Ruffini, Bocca, Torino 1927.

I problemi economici della federazione europea

I problemi economici della federazione europea
Ed. La Fiaccola, Milano, 1945

 

 

 

 

«Avec le principe sacré de la liberté du commerce, tous les prétendus intérêts de posséder plus ou moins de territoire, s’évanouissent par ce principe, que le territoire n’appartient point aux nations, mais aux individus; que la question de savoir si tel canton, tel village doit appartenir à telle province, à tel Etat, ne doit être décidée que par l’intérêt qu’ont les habitants de tel canton, de tel village, de se rassembler pour leurs affaires dans le lieu où il leur est le plus commode d’aller». Turgot

 

 

CAPITOLO I

I COMPITI ECONOMICI DELLA FEDERAZIONE

 

1. Necessità di elencare tassativamente i compiti

 

Federazione europea dal punto di vista economico vuol dire attribuzione alla autorità federale di alcuni compiti economici definiti tassativamente nel documento costitutivo della federazione, definiti cioè in modo tale che la autorità federale abbia soltanto il potere di attendere ai compiti compresi nell’elenco, tutti gli altri non elencati rimanendo di competenza dei singoli stati federati. Giova perciò, allo scopo di attenuare i sospetti ed i timori di larghe correnti di opinione o di forti gruppi di interessi, ridurre al minimo assolutamente necessario il numero dei compiti attribuiti alla federazione fin dal principio. Col tempo, l’esperienza fatta ed il consenso crescente dei popoli consentiranno che l’elenco di quei compiti venga allungato osservando le formalità prescritte per l’approvazione di emendamenti alla costituzione federale; formalità che saranno certamente non facili ad osservare: maggioranza speciale, superiore alla metà dei voti delle due camere del parlamento federale, maggioranza speciale degli stati federati espressa con modalità particolare. Se gli ostacoli all’approvazione degli emendamenti saranno superati, ciò accadrà perché l’estensione dei compiti dell’autorità federale sarà entrata nella coscienza della grandissima maggioranza dei cittadini della federazione ed insieme dei cittadini della massima parte degli stati federati, persuasi dei benefici ottenuti dall’esperienza passata. Frattanto giova che la esperienza iniziale sia ristretta a quei compiti senza adempiere ai quali la federazione sarebbe praticamente non esistente.

 

 

2. Posta, telegrafi, telefoni, trasporti internazionali per ferrovia, per mare, per aria, su canali e su fiumi. Quid delle forze idrauliche?

 

Alcuni di questi compiti hanno indole tecnica e sono quelli che già sin d’ora sono internazionalizzati od il difetto della internazionalizzazione dei quali fa apparire, con la forza dell’evidenza intuitiva, anacronistica la persistenza nel mondo contemporaneo degli stati singoli sovrani: la posta, il telegrafo, il telefono, il regolamento dei trasporti interstatali per ferrovia, per fiumi e canali navigabili, per mare e per aria. Una amministrazione postale telegrafica e telefonica federale può evidentemente gestire questi servizi, di natura evidentemente tecnica, con molto più economicità e in modo assai più efficace di quanto possa accadere con amministrazioni separate. Ed è chiaro anche come il regime dei laghi alpini, dei grandi fiumi come il Danubio, il Rodano, l’Elba, il Reno ed, attraverso il Ticino, il Po, possa essere meglio regolato da una autorità federale, la quale tenga conto di tutti gli interessi particolari e possa disporre le opere d’arte necessarie nei luoghi più adatti, che non da singoli stati gelosi custodi di interessi locali non sempre coincidenti con quelli generali. I problemi connessi con il regime degli stretti e del sorvolo aereo degli spazi territoriali nazionali trovano una soluzione nell’ambito federale assai più agevole che non nel contrasto fra i singoli stati sovrani.

 

 

Oggetto di controversia può essere il punto se anche il regolamento delle forze idrauliche debba diventare materia federale; e pare ovvio che all’autorità federale debba essere attribuito il regolamento di quelle forze idrauliche le quali derivano o sono strettamente connesse con il regolamento dei laghi e dei fiumi interstatali. Per le altre forze idrauliche i pareri possono essere discordi, ai vantaggi connessi con la possibilità di utilizzare, con scambi opportuni, al massimo le forze aventi origine in territori statali diversi e periodicità diversa di massime e di minime stagionali, contrapponendosi da taluno l’opportunità di non offendere troppo i sentimenti di priorità e di proprietà propri delle popolazioni in cui le forze idrauliche sono localizzate. E costoro perciò sostengono essere meglio rinviare, a scanso di opposizioni iniziali, la federalizzazione delle forze idrauliche, fatta la eccezione sopradetta, ad un momento futuro.

 

 

3. Moneta e surrogati della moneta. Vantaggi del trasferimento alla federazione

 

Non parrebbe controversa la devoluzione alla Federazione del regolamento della moneta e dei surrogati alla moneta. Il disordine attuale delle unità monetarie in tutti i paesi del mondo, le difficoltà degli scambi derivanti dall’incertezza dei saggi di cambio tra un paese e l’altro e più dalla impossibilità di effettuare i cambi medesimi, hanno reso evidente agli occhi di tutti il vantaggio che deriverebbe dall’adozione di un’unica unità monetaria in tutto il territorio della Federazione. Se dappertutto in Europa o almeno nell’Europa federata, si ragionasse e si conteggiasse e si facessero prezzi di beni e di servigi, ad esempio, per adoperare una parola neutra, in lire zecchine, quanta semplificazione, quanta facilità nei pagamenti, nei trasferimenti di denaro, nei regolamenti dei saldi! Nel caso che, l’autorità federale intendesse ritornare al sistema aureo, ciò vorrebbe dire avocazione all’autorità medesima del diritto di adottare l’unica nuova unità monetaria d’oro ed i necessari sottomultipli divisionari d’argento, di nikel, di rame per i minuti pagamenti, come pure del diritto di istituire un’unica Banca Centrale o di emissione incaricata di emettere i biglietti permutabili a vista in oro. Nel caso nel quale non si intendesse ritornare al tipo aureo, l’autorità federale, pur riservandosi il diritto di battere nuovamente ed eventualmente moneta d’oro, avrebbe sempre l’esclusività della battitura delle monete divisionarie d’argento, di nikel e di rame e della emissione dei biglietti della Banca centrale espressi nella nuova unità monetaria, pongasi la lira zecchina. Sarebbe abolito cioè il diritto dei singoli stati federati di battere moneta propria con denominazioni, pesi e titoli propri e di istituire banche centrali con diritto di emissione indipendente di biglietti. Potrebbe essere solo consentito che la zecca o la Banca centrale, agendo forsanco per mezzo di filiali locali, battesse esemplari di monete, con impronte diverse per ogni stato ma con denominazione, peso e titolo uniformi. Sarebbe ben chiaro che questa diversità avrebbe indole puramente sentimentale; ché i biglietti e le monete diversamente improntate sarebbero emessi esclusivamente dall’autorità federale e nella quantità da essa e non dai singoli stati fissata; e tutti dovrebbero essere mutuamente intercambiabili senza alcun ostacolo.

 

 

Il vantaggio del sistema non sarebbe solo di conteggio e di comodità nei pagamenti e nelle transazioni interstatali. Per quanto altissimo, il vantaggio sarebbe piccolo in confronto di un altro, di pregio di gran lunga superiore, che è l’abolizione della sovranità dei singoli stati in materia monetaria. Chi ricorda il malo uso che molti stati avevano fatto e fanno del diritto di battere moneta non può aver dubbio rispetto alla urgenza di togliere ad essi cosifatto diritto. Esso si è ridotto in sostanza al diritto di falsificare la moneta (Dante li avrebbe messi tutti nel suo inferno codesti moderni reggitori di stati e di banche, insieme con maestro Adamo) e cioè al diritto di imporre ai popoli la peggiore delle imposte, peggiore perché inavvertita, gravante assai più sui poveri che sui ricchi, cagione di arricchimento per i pochi e di impoverimento per i più, lievito di malcontento per ogni classe contro ogni altra classe sociale e di disordine sociale. La svalutazione della lira italiana e del marco tedesco, che rovinò le classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause da cui nacquero le bande di disoccupati intellettuali e di facinorosi che diedero il potere ai dittatori. Se la federazione europea toglierà ai singoli stati federati la possibilità di far fronte alle opere pubbliche col far gemere il torchio dei biglietti, e li costringerà a provvedere unicamente con le imposte e con prestiti volontari avrà, per ciò solo, compiuto opera grande. Opera di democrazia sana ed efficace, perché i governanti degli stati federati non potranno più ingannare i popoli, col miraggio di opere compiute senza costo, grazie al miracolismo dei biglietti, ma dovranno, per ottenere consenso a nuove imposte o credito per nuovi prestiti, dimostrare di rendere servigi effettivi ai cittadini.

 

 

4. Di alcune riserve teoriche al governo federale della moneta

 

Il trasferimento alla Federazione del diritto esclusivo di battere moneta e di emettere biglietti non opererà da solo il miracolo di garantire ai popoli una moneta buona. Miracoli non accadono mai in materia economica. Ma la possibilità di falsificare l’unità monetaria scema con lo scemare delle probabilità di guerre e di rivolgimenti sociali violenti; epperciò scema in un sistema federale che toglie le cause di siffatti eventi od almeno le rende meno potenti. La grande pubblicità dei dibattiti nelle assemblee federali, il contrasto degli interessi regionali, il vigile controllo dei rappresentanti dei singoli stati contribuiscono al medesimo risultato.

 

 

Di fronte al quale cadono talune riserve le quali sono messe innanzi da un gruppo di teorici, particolarmente inglesi, di cui il più noto e rappresentativo è Lord Keynes, e che qui non è il luogo di discutere particolareggiatamente. Riassumendo, dicono costoro che ad un singolo stato può convenire in dati momenti, particolarmente di crisi, svalutare l’unità monetaria (cambi esteri variabili) e tenere fermi i prezzi all’interno, piuttosto che tener ferma l’unità monetaria (cambi esteri costanti) e lasciare ribassare i prezzi all’interno. Si dice che il primo metodo è più dolce e blando dell’altro, perché non ribassando i prezzi nominali all’interno non occorre ribassare i salari nominali in moneta. Nulla cambia alla sostanza delle cose, trattandosi solo di differenti metodi di ovviare o di limitare i danni delle crisi. Come bene afferma il Robbins, non occorre che i federalisti prendano posizione in tale delicata e difficile materia. Se, come si deve, spetterà all’autorità federale di regolare la materia monetaria, l’autorità medesima potrà, in casi particolarmente gravi, deliberare di fare omissioni particolari di biglietti circolanti o di allargare le aperture di credito da parte della banca centrale di emissione solo nel paese dove cotal metodo di cura apparisse conveniente e potrà in tal caso stabilire saggi particolari di cambio fra i biglietti la cui circolazione sia ristretta ad un solo stato ed i biglietti aventi circolazione federale. Ma si ricorda la riserva quasi solo per memoria essendo praticamente certo che in un grande stato federale quel metodo di cura delle crisi apparirà senz’altro sconsigliabile di fronte ad altri più efficaci, e che le crisi medesime saranno meno gravi di quel che siano in un mondo spezzettato ed irto di gelosie internazionali.

 

 

5. Delle imposte da attribuirsi alla Federazione. Dazi doganali ed accise. Esclusione dei contributi statali e di sovrimposte federali sulle imposte statali. L’imposta federale sul reddito netto totale. Esclusione di un’imposta successoria federale

 

Si può rimanere alquanto più incerti intorno alla attribuzione del diritto di stabilire imposte alla federazione. La regola che a questa spettino soltanto quei compiti i quali esplicitamente le sono assegnati nella Carta costituzionale deve essere approvata anche in questa materia. Se è facile l’accordo sul principio che la Federazione debba poter prelevare solo alcune date imposte elencate e nessun’altra, meno agevole è la risposta alla domanda: quali imposte elencare? Su un gruppo di esse non cade dubbio: poiché, come si vedrà subito, alla sola Federazione spetta il regolamento del commercio internazionale, così, per logica conseguenza, alla sola Federazione spetta l’esazione dei dazi doganali sulle merci importate dall’estero entro la nuova allargata linea doganale e di quegli eventuali rarissimi dazi di uscita sulle merci esportate all’estero e degli ancor più rari dazi di transito che venissero conservati o nuovamente istituiti. Ai dazi doganali sono parificati tutti i diritti di statistica, di registro, le sovratasse ferroviarie, portuali, fluviali, aeree gravanti sul trasporto di merci tra uno stato e l’altro e con l’estero, sotto la apparenza dei quali si possono mascherare impedimenti al traffico interstatale. Alla sola Federazione spetta di regolare, con imposte e tasse, questa materia. Per illazione altrettanto logica spetta unicamente alla Federazione il diritto di stabilire imposte sulla produzione o fabbricazione di merci all’interno (accise). Dazi sulle merci estere ed accise sono come fratelli siamesi, ché dove sono gli uni anche le altre forzatamente compaiono. Se un dazio di 1000 lire al quintale colpisce lo zucchero importato dall’estero, altrettanta accisa deve colpire lo zucchero fabbricato all’interno; altrimenti, se l’accisa fosse solo di 800 lire, nessuno comprerebbe zucchero estero e lo stato perderebbe il provento del maggior dazio; e se l’accisa fosse di 1200 lire, nessuno fabbricherebbe zucchero all’interno, ché tutti acquisterebbero lo zucchero estero. Bene la Federazione potrà stabilire, a suo criterio, accise di 1000, 800 o 1200 lire, ma deve, essa sola e non gli stati federati, essere padrona di decidere in argomento, se non si vuole che ognuno degli stati federali ad arbitrio annulli gli effetti della politica economica voluta dalla Federazione.

 

 

Sebbene sia accertato che i proventi doganali e delle accise sono stati bastevoli a sovvenire in passato ai bisogni di talune Federazioni (Stati Uniti d’America e Confederazione svizzera), si deve constatare che non sono più bastevoli oggi e che non v’ha ragione di affermare lo debbano essere in una futura Federazione europea. Un metodo che pare debba essere escluso è quello dei contributi degli stati federati, siffattamente misurati da bastare al disavanzo fra le spese federali ed il gettito dei dazi ed accise. Le esperienze fatte nella Federazione australiana e quelle che, in materia analoga, si possono ricordare per i rapporti fra stato, comuni e province nel Regno delle due Sicilie ed in Toscana dimostrano le difficoltà di sovvenire congruamente in tal modo ai bisogni federali senza eccitare malcontento e resistenza negli stati federati. Nemmeno sembra conveniente dare alla Federazione il diritto di sovrimporre con decimi o centesimi addizionali sulle imposte statali; ché la distribuzione delle imposte sui cittadini europei varierebbe da stato a stato a seconda della gravezza delle imposte e dei metodi di accertamento usati nei singoli stati. All’identico servizio pubblico federale contribuirebbero qua, dove l’imposta statale è fortemente progressiva, più i ricchi e meno i modesti contribuenti, là, dove l’imposta statale è proporzionale o blandamente progressiva, meno i ricchi e più i modesti, con offesa al principio della uguaglianza fra tutti i cittadini appartenenti alla federazione. La soluzione che finì per imporsi nelle maggiori Federazioni (USA) e che converrebbe accogliere sin dal principio nella Federazione europea, pare sia l’attribuzione a questa del diritto di stabilire in concorrenza, ossia contemporaneamente ai singoli stati federati, una propria imposta a base generalissima, che il consenso pressoché universale addita nella imposta sul reddito netto complessivo dei cittadini. Nulla di male accadrà se la Federazione e i singoli stati, adoperando il medesimo strumento tributario, lo applicheranno con criteri differenti rispetto alla graduazione (progressività), ai minimi esenti, alle detrazioni per oneri di famiglia, per assicurazioni, per debiti, e ai metodi di accertamento. La varia esperienza la quale così si farà, l’emulazione nella ricerca e nell’accertamento della materia imponibile non mancherà di produrre il buon effetto di additare a poco a poco alla Federazione ed agli stati federati la via migliore comune da seguire.

 

 

Data la elasticità e la larghissima base della imposta sul reddito, non pare consigliabile di dare alla Federazione le facoltà di esigere altre imposte; nemmeno quelle successorie, le quali dovrebbero essere riservate ai singoli stati troppo stretti essendo i legami di esse col diritto di famiglia e delle successioni, che ogni stato continuerà a regolare secondo le proprie tradizioni storiche e i propri ideali sociali.

 

 

6. Il regolamento federale dei trasporti delle cose e delle persone. Duplice contenuto di esso.

 

Più vivaci i dubbi opposti all’attuazione del postulato fondamentale: alla sola Federazione spetta il regolamento dei trasferimenti di persone e di cose fra l’uno e l’altro stato federato e fra la Federazione e l’estero. Due sono le affermazioni contenute nel postulato. In primo luogo alla sola Federazione spetta il diritto di conchiudere trattati di commercio, di navigazione e di emigrazione con gli stati esteri. In secondo luogo è fatto divieto ai singoli stati federati di imporre qualsiasi restrizione al traffico interstatale di persone e di cose con divieti di immigrazione, restrizioni di domicilio e di residenza ai cittadini appartenenti ad altro fra gli stati federati, con dazi di entrata, di uscita o di transito, con tariffe differenziali ferroviarie, fluviali, lacuali, marittime, automobilistiche, con privative industriali, marchi, contrassegni, diritti di sosta, licenze, visite e limitazioni a proposito di malattie contagiose ed altrettanti pretesti di qualsiasi genere. Tutta la materia del traffico interstatale di persone o cose è unicamente regolata dalle autorità federali.

 

 

7. Attribuzione all’autorità federale del commercio con gli stati esteri. Federazione è sinonimo di unico territorio doganale.

 

Non v’ha sostanziale controversia sul primo punto. Libero scambisti e protezionisti sono d’accordo nel ritenere che quel qualunque regime il quale sarà ritenuto più conveniente per l’Europa federata nel suo complesso di fronte al resto del mondo debba essere deciso dal Parlamento federale e non dal Parlamento dei singoli stati. Il Parlamento federale deve avere la potestà di decidere se l’Europa debba circondarsi di alte frontiere contro le importazioni dalla Russia, dagli Stati Uniti, dai paesi asiatici ed americani meridionali, dall’Australia, ovvero se essa debba adottare una politica di protezione moderata o di dazi puramente fiscali. Il solo Parlamento federale dovrà decidere quale sia la politica doganale da adottare nei rapporti con le colonie appartenenti ai singoli stati o alla Federazione. Solo al Parlamento federale spetterà di decidere se la emigrazione e l’immigrazione siano libere o contingentate e quali trattati siano in proposito da stipulare con i paesi d’immigrazione. Il territorio federale non è forse unico? Le dogane non sono forse un’entrata esclusiva del tesoro federale? Una diversità di dazi per i diversi tratti della frontiera internazionale avrebbe per unico effetto di fare affluire le merci ai porti a dazi minimi, dai quali le merci si irradierebbero per tutto il territorio federale. La necessità di un unico sistema federale doganale è talmente evidente che nessuna controversia mai è sorta in proposito. Federazione vuol dire innanzitutto lega doganale, vuol dire unico territorio doganale.

 

 

8. Divieto di ostacoli al commercio interstatale. Sua evidente necessità per togliere una causa potente di guerra.

 

La necessità della seconda parte del postulato economico, ossia del divieto fatto ai singoli stati federati di opporre essi un qualsiasi impedimento, con qualsiasi pretesto e con qualsiasi denominazione, al traffico interstatale di persone e di cose entro l’unico territorio federale, è altrettanto evidente; ma per l’appunto siffatta evidente necessità è l’ostacolo massimo, di natura economica, alla Federazione. Questa è voluta per togliere la possibilità di guerre; e poiché le barriere doganali fra stato e stato, gli impedimenti di ogni altra specie al commercio interstatale, le varie forme di autarcia sono una potente causa di guerra, così è necessario che siano abolite le barriere fra uno stato e l’altro stato federato e sia costituito un unico territorio entro il quale uomini e cose possano liberamente muoversi. La Svizzera non sarebbe una Federazione se il Cantone di Ginevra potesse chiudersi in se stesso, proteggere le proprie industrie «nazionali», stabilendo dazi contro le merci provenienti dal cantone di Vaud o di Friburgo o di Berna; e se così potesse fare ogni cantone, che è uno stato sovrano, contro le merci di ogni altro cantone. Gli Stati Uniti di America non sarebbero una Federazione, se lo stato di New York potesse vietare, a protezione della sua agricoltura, l’introduzione della carne proveniente dagli ammazzatoi di Chicago o del frumento degli stati del centro; e se ognuno degli stati volesse far sorgere una propria industria automobilistica e perciò gravasse di forti dazi le automobili di Ford, solo perché questi ha i propri stabilimenti a Detroit, in un altro stato.

 

 

Appunto perché un’Europa federata vuol dire unico territorio doganale, liberamente aperto, senza alcun impedimento all’infuori di quelli naturali della distanza e dei relativi costi differenziali di trasporto alle importazioni di merci provenienti da qualunque altro punto del territorio federato, si moltiplicano le diffidenze ed i dubbi e le critiche.

 

 

CAPITOLO II

LA FILOSOFIA DELLA SCARSITÀ

E QUELLA DELL’ABBONDANZA

 

1. Fra le opposizioni, quelle provenienti dal campo agricolo non sono le più vivaci. Le regioni agricole europee sono più complementari che concorrenti

 

Volendo por mente alle più probabili critiche ad una Federazione europea, forse le più vivaci non provengono dai rappresentanti dell’agricoltura. Gli agricoltori temono sovratutto la concorrenza del frumento della Russia, del Canadà, dell’Argentina, dell’Australia, della carne congelata dell’Argentina o australiana, della lana australiana od argentina, del cotone americano. Ma tutte queste derrate alimentari e materie prime vengono da paesi situati all’infuori del territorio probabile di una Federazione europea e questa, se così delibererà il parlamento federale, potrà sempre difendersi contro importazioni le quali sembrassero pericolose per gli agricoltori. I paesi situati entro i limiti del territorio federato sono piuttosto complementari che concorrenti. L’Italia e la Francia del nord, la Germania il Belgio, l’Olanda, i paesi scandinavi, a tacere di quelli polacchi, sono pronti ad assorbire masse crescenti di frutta, di agrumi, di ortaggi, di fiori, di olio, di vino dei paesi meridionali; né, tanta essendo la sete di latticini tra i consumatori, è probabile che il burro della Danimarca ed i formaggi svizzeri facciano venire meno la produzione locale degli altri paesi. In un grande mercato unificato, la concorrenza orizzontale fra agrumi, i vini, gli olii, gli ortaggi, le frutta delle penisole iberica, italiana e greca diventerà emulazione feconda, come quella che esiste fra la California e la Florida negli Stati Uniti d’America; emulazione nell’offrire prodotti migliori, meglio presentati e scelti ad un pubblico più ampio ed avidissimo di consumare.

 

 

2. Mutazione del tipo dell’impresa in funzione della estensione del mercato

 

Avidissimo perché in una Europa unificata, la capacità produttiva del lavoro e del capitale sarà grandemente accresciuta in confronto a quella che è oggi in una Europa spezzettata in più di venti stati. Può sembrare che la estensione territoriale non abbia nulla a che fare con la maggiore o minore produttività delle singole imprese agricole ed industriali. Non sono, in uno stato piccolo o grande, ugualmente disponibili le macchine, gli utensili, gli impianti? Non ci sono gli stessi campi, le stesse vigne, gli stessi orti? Non vivono, nei campi e nelle officine, gli stessi uomini e non sono atti a compiere lo stesso lavoro? Anche in stati piccoli di territorio come la Svizzera e la Cecoslovacchia o la Danimarca, non vi è forse la possibilità di applicare sino ai suoi limiti estremi quella divisione del lavoro, alla quale si fanno risalire i maggiori progressi della produzione? Non occorrono le centinaia di milioni, bastano anche i semplici milioni di abitanti per consentire la più specificata divisione di compiti e di lavorazioni; e ne sia testimone la Svizzera, la quale si è imposta per taluni prodotti fini – orologio, macchinario elettrico ecc. – su tutti i mercati del mondo. Ma l’esempio medesimo della Svizzera prova invece quale sia l’importanza somma del fattore «estensione» del mercato per la prosperità di un paese. Coefficiente massimo e condizione necessaria della grandezza industriale di questo piccolo paese è la possibilità per esso di estendere la sua attività ad un mercato assai più ampio di quello suo ristretto nazionale. Consideriamo per un istante quel fattore semplicissimo della produzione che si chiama «albero da frutta», sia pesco, o melo, o pero. Molti di noi hanno assistito durante la loro vita alla trasformazione radicale del modo di coltivare ed utilizzare l’albero produttivo di frutta. Quando il mercato era ristretto al villaggio od al grosso borgo vicino, l’albero era a pieno vento, situato dove il buon Dio aveva fatto cadere e fecondato il seme, nei campi e nei prati; il contadino lo lasciava venir su alla ventura; i ragazzi vi si arrampicavano sopra per mangiare i frutti acerbi, come oggi accade ancora spesso per le ciliege; e quel che non marciva caduto per terra o non si metteva in serbo per l’inverno per uso famigliare, si portava in ceste o su carretti al mercato, vendendolo bene o male, a seconda dell’accidentale abbondanza o scarsità della merce presente in quel giorno sul mercato. Il ricavo della frutta non contava nel bilancio dell’agricoltore. Era un dippiù. Ad un certo momento, taluni cominciarono a capire che la frutta scelta può essere venduta in città, nel capoluogo della regione, a Torino, a Genova, a Milano. Il contadino vede che gli conviene potare gli alberi per indurli a fruttificare regolarmente e non sprecare tanto terreno per niente. Ma, finché gli alberi sono così sparpagliati e alti, il raccolto è costoso, le cure insetticide, le irrorazioni cupriche od altre contro le malattie delle piante, sono costose per la gran perdita di tempo e lo spreco della roba. Questi alberi nei campi disturbano l’aratura, specialmente se divenuta nel frattempo meccanica, od impacciano la falciatura dell’erba. Con le loro fronde vigorose fanno ombra alle culture sottostanti. Frattanto compaiono mercanti cittadini i quali vanno in giro a vedere se loro convenga fare acquisti in blocco di frutta e, discorrendo, fanno capire ai contadini come ad essi non convenga comprare la frutta a ceste, una qui l’altra là, di qualità, forma e dimensioni svariate, lisce o bitorzolute, mal presentate o belle, alla rinfusa. Un po’ per volta, la scena cambia. I grandi alberi a pieno vento, sparpagliati qua e là, sono abbattuti; e si vedono crescere nei siti più riparati dal vento, meglio soleggiati, alberi di mezza statura, tenuti mondi da rami infruttiferi, bene aereati all’interno, potati con arte, o, meglio, l’albero cessa di essere tale, diventa nano, ad altezza d’uomo, regolato, costretto, deformato a spalliera, a cordone verticale od orizzontale. Il contadino è divenuto un artista; è andato a sentire le lezioni di potatura del professore ambulante; possiede arnesi; maneggia pompe e irrora a tempo le gemme, le foglie, le bacche da frutta; pulisce il tronco e lo dipinge di bianco o di verde; colloca al piede anelli di panno, entro cui si ricoverano le larve dannose, che egli poi brucia. La raccolta medesima è addomesticata; si fa in tempi diversi, a poco a poco, in guisa da distaccare la frutta quando è il momento migliore per la spedizione. Nasce la divisione del lavoro. Un contadino non porta più la frutta al mercato a spalle nelle ceste o nel carretto che l’ammacca tutta con i suoi sobbalzi. Poiché ne val la pena, il mercante passa a parecchie riprese nell’anno sul fondo dove l’agricoltore ha un terreno specializzato, un raccolto pendente che giunge oramai alle decine di quintali: a consigliare cure, a contrattare in primavera il prezzo del raccolto intiero per quando sarà maturo a rischio e pericolo suo; ad effettuare la raccolta, con personale suo, con mezzi suoi di trasporto, con una prima cernita. A poco a poco le cose si perfezionano. L’agricoltore non coltiva più una miscellanea di frutta di diverse qualità e denominazione, mature ad epoche diverse, ma si specializza in tre, due, e forse una sola qualità, quella di rendimento massimo, più adatta al clima ed al terreno. Alla fine, quello che era un ingombro, una perdita di tempo, una occupazione di ragazzi festanti e quella frutta che, se non era lasciata marcire per terra, andava a finire nel truogolo del maiale, è diventata la materia prima di una grande industria, la quale non si conclude nella campagna. Sorgono laboratori e magazzini per la scelta, l’impaccatura, la messa in iscatole, in ceste ben confezionate, la spedizione; per la destinazione di talune qualità alle fabbriche di conserve, di marmellate. Il lavoro dell’uomo, gli alberi, il terreno che prima erano malamente utilizzati e sprecati, ora sono trasformati. In luogo del contadino ignorante ci sono ora agricoltori che conoscono i nomi in latino delle diverse qualità di frutta, che maneggiano arnesi e prodotti chimici, che apprezzano i diversi tipi di potatura. Altra gente e che merita di essere pagata per quel che vale. Ci sono negozianti, che, senza prendere per il collo l’agricoltore come accade nei giorni di mercato abbondante, pagano la merce ai prezzi noti di mercato; ci sono, industriali speditori, i quali sanno dove spedire la merce per ricavarne il maggior utile.

 

 

Da quale causa è venuta la trasformazione? Dall’allargarsi del mercato. Quella frutta, la quale finiva un tempo sulle tavole dei professionisti e negozianti e signori del borgo, che si accontentavano dei tipi locali e li trovavano, anche se malamente presentati, migliori per sapore, di quelli di ogni altro paese del globo terracqueo, ora va nelle grandi città dell’alta Italia, della Germania, dell’Inghilterra, in Scandinavia. Occorre che sia ben presentata, incartata, fresca, non ammaccata, tutta uguale, senza vermi, senza semi, colla pelle sottile. Perciò, la frutticoltura è divenuta un’industria ed un’arte. Se invece di barriere e di dazi ad ogni piè sospinto, di fermi alle frontiere, di documenti complicati di esportazione, tutta l’Europa fosse un mercato unico, quanto più facile vendere, quanta maggiore domanda nascerebbe, che oggi è latente e non può essere soddisfatta! Oggi una famiglia di agricoltori, può vivere e vivere bene attendendo ad una fatica interessante, attenta ed intelligente in un ettaro solo di terreno, là dove invece occorreva sfaticare in venti. In luogo di sprecare alberi, terreno e fatica l’uomo è stato persuaso dalla ampiezza del mercato a trasformare se stesso e la terra e gli alberi sì da renderli dieci e venti volte più produttivi. Si sarebbe ottenuto tutto ciò senza l’allargamento del mercato? Su un piccolo mercato il contadino non avrebbe avuto interesse a trasformarsi in frutticoltore, per la mancanza di clienti abbastanza numerosi e raffinati da richiedere frutta scelta e ben presentata. Non avrebbe avuto ragione d’essere un ceto di negozianti raccoglitori ed un altro di mercanti esportatori, non si sarebbero potute impiantare scuole di frutticultura, né da queste sarebbero usciti i tecnici specializzati nella produzione di piantine delle qualità migliori da vendere agli agricoltori e nell’insegnamento sul luogo delle pratiche di potatura e di medicazione delle piante. Quanto più si allarga il mercato, tanta maggiore è la probabilità di trovare clienti desiderosi di consumare prodotti di qualità e pronti ad offrire il prezzo occorrente a coprire i costi più alti del prodotto fine. Ma l’esistenza di uno smercio sufficiente di prodotti fini, rendendone comune la conoscenza, divulgando i metodi di produrli, finisce alla lunga per diminuire i costi medesimi. Quello che prima era merce offerta ai pochi, deve essere offerta, se vuol essere venduta ai molti nella quantità crescente la quale arriva sul mercato, a prezzi ribassati, i quali tuttavia, compensano i costi. La concorrenza, che con un mercato ampio è assai più arduo sopprimere o limitare che su un mercato ristretto, agisce e costringe i produttori a ridurre i prezzi sino al livello del costo marginale.

 

 

3. La tendenza dei profitti derivanti da nuovi metodi produttivi a scomparire col tempo a causa della concorrenza. Reazioni dei produttori. Varie maniere di restrizione della produzione.

 

È naturale che i produttori vedano di mal occhio la lotta reciproca, la concorrenza, la quale li costringe a rinunciare ai profitti appena intravisti. Vi è un tipo di profitto, tutti i costi sopportati durante la produzione, compresi nei costi l’interesse corrente sul capitale investito ed il compenso normale per l’opera di direzione e di organizzazione dell’impresa, il quale è socialmente ed economicamente vantaggioso; ed è il profitto che va a colui il quale primo inventa un nuovo prodotto od un nuovo modo di fabbricare il prodotto antico a costo minore, il quale primo sa apprezzare una nuova invenzione, una nuova macchina, un nuovo processo chimico, una più felice maniera di presentare la merce al cliente, una disposizione più attraente ed artistica della merce offerta in vetrina, una combinazione più comoda di pagamento, di rimessa della merce a domicilio, anche in luoghi lontani della città, di ordinazione su cataloghi o su listini. Sono infinite le maniere con le quali il produttore (agricoltore, industriale, negoziante) si industria a rendere al cliente un servigio migliore e riesce così ad ottenere un profitto. Ma il profitto guadagnato in tal maniera logora l’intelletto, impone una tensione continua per la ricerca del nuovo e del diverso, ed è temporaneo, sfuggente. L’idea nuova oggi non lo è più domani, il nuovo prodotto, il nuovo processo tecnico, la nuova presentazione della merce, non appena conosciuta, subito si divulga. La concorrenza la sfrutta, i prezzi ribassano ed il profitto sfuma. Contro la malaugurata tendenza dei profitti a svanire nel nulla, i produttori reagiscono nei modi più svariati. Talvolta in maniera corretta, come quando tentano di mantenere il segreto intorno ad una invenzione (forse che il tale ristorante non profitta a causa del mistero da cui è circondata la manipolazione del giusto punto di cottura e con la dovuta manipolazione di ingredienti, di una celebre bistecca di formaggio o di una pizza alla napoletana ancor più famosa? Ed i clienti non si lagnano sebbene la loro curiosità di penetrare il mistero non possa essere soddisfatta), o ricorrono alla protezione legale di un brevetto temporaneo. Ma spesso essi non si contentano delle maniere corrette, e tentano tutte le vie possibili per rendere permanenti quei profitti che hanno la brutta abitudine di dileguarsi troppo presto. A tale scopo essi sostituiscono i disservigi ai servigi; invece di accrescere la produzione tendono a limitarla; invece di aumentare la massa dei beni migliori messi a disposizione degli uomini, la diminuiscono, invece di diminuire i prezzi li aumentano. Il produttore se è costretto dalla concorrenza a rendere servigio altrui col ribasso dei prezzi o col miglioramento della qualità o in ambedue i modi, per se stesso ci ripugna. Se potesse faticare poco o nulla, vendere ad alto prezzo e guadagnare molto lo farebbe volentieri. Non perché sia un produttore ed i produttori siano peggiori degli altri uomini. Lavorare meno che si può e tirare la paga egualmente è una tendenza connaturata all’uomo od almeno alla grande maggioranza degli uomini. Gli altruisti, i filantropi, i francescani, sono i meno, e fa d’uopo confessare essere un bene che ce ne siano ad esempio e monito altrui, ma siano pochi. Che cosa sarebbe il mondo se tutti fossero seguaci di S. Francesco?

 

 

4. Lo stato piccolo favorisce la restrizione, il disservizio; lo stato grande la concorrenza ed il servizio. La difesa contro l’inondazione; l’invasione della merce straniera. Dazi, contingenti, restrizioni di valuta.

 

Se è naturale che la maggior parte degli uomini cerchi di fare l’interesse proprio, è anche ovvio impedire che, nel fare il proprio interesse, gli uomini, scelgano la via più comoda, che è quella di rendere disservizio altrui con lo scemare la produzione e crescere i prezzi. Fa d’uopo invece creare un ambiente esterno siffatto che l’uomo sia costretto a rendere servizio con l’aumentare la produzione e diminuire i prezzi. Orbene, vi è a questo riguardo un contrasto stridente fra lo stato piccolo e lo stato grande; intendendo oggi per stato piccolo tutti quelli che hanno la estensione e l’importanza economica della Francia, o dell’Italia o della Germania e per stato grande quelli che hanno l’estensione e l’importanza economica degli Stati Uniti d’America. Poste, ferrovie, piroscafi, telegrafi, telefoni, radio, velivoli hanno resi economicamente piccoli gli stati che all’epoca delle guerre di nazionalità sembravano grandissimi. All’ombra dei piccoli stati la politica della restrizione, del disservizio, si afferma e facilmente trionfa. L’industriale e l’agricoltore nazionale fanno appello con successo a sentimenti profondamente radicati nell’animo. Lo straniero, il vicino, ecco il nemico contro il quale occorre difendersi. Occorre difendere ‘agricoltura nazionale, l’agricoltura italiana o francese o germanica contro, non si dice alla concorrenza, che potrebbe sembrare l’espressione di un interesse privato, ma contro l’invasione del frumento straniero russo od argentino, del vino straniero spagnolo od italiano, delle cotonate straniere inglesi, delle vetture automobili straniere, italiane, tedesche o nordamericane. Bisogna difendere l’industria nazionale contro l’inondazione dei prodotti esteri, i quali col loro vile prezzo minacciano di distruggere l’economia nazionale, di togliere lavoro agli operai nazionali, di gettare sul lastrico in preda alla carestia milioni e decine di milioni di disoccupati. Per non creare la fame in mezzo e per causa della abbondanza bisogna difendere il popolo contro il nemico che ci minaccia dal di fuori; per creare lavoro bisogna rendere costosa con dazi doganali l’importazione delle merci estere concorrenti con le nostre; e se non bastano i dazi, bisogna limitare a quantità prefissate (contingenti) l’importazione delle merci che assolutamente non si possono produrre in paese; e se ancora non basta bisogna limitare i mezzi di pagamento, per coloro i quali vorrebbero importare merci dall’estero, alla esatta misura nella quale l’estero acquista merci nazionali (compensazione o clearing bilaterale); ed alla fine, se occorre, vietare addirittura l’importazione di tutte le merci iscritte nella lista delle merci proibite. La campagna dei proibizionisti o restrizionisti si fonda in gran parte sull’uso di parole trasferite dal significato proprio ordinario ad un significato traslato per figura poetica o bellica. Difendersi si deve contro il nemico aggressore; e perciò il restrizionista addita lo straniero, il quale in verità si presenta come amico pacifico venuto ad offrire le cose sue a buone condizioni, quasi fosse nemico venuto a recarci offesa.

 

 

5. Accordi, cartelli fra industriali protetti allo scopo di limitare la produzione. Divieti di nuovi impianti.

 

Frattanto all’ombra di queste figure rettoriche, le quali fanno colpo sulle moltitudini attonite ed impreparate a vedere la realtà attraverso il trucco poetico, gli industriali nazionali, sicuri contro la concorrenza estera, stipulano tra loro accordi di prezzo o si ripartiscono, come gli antichi feudatari, i mercati paesani, e praticano la loro politica restrizionistica di aumenti di prezzi e di diminuzione della produzione, che sono fatti sinonimi tra di loro. Per aumentare i prezzi bisogna ridurre la quantità di merce prodotta ed offerta all’interno. Caso mai, se si è prodotto un supero, lo si svenderà all’estero (dumping) a prezzo più basso che all’interno. Non arrivano a contarsi sulle dita di una mano sola in tutto il mondo gli esempi di consorzi, trusts, o cartelli di industriali, i quali abbiano venduto all’interno a miglior mercato che all’estero ed il caso è tanto incredibile e raro che nei libri se ne ricorda un esempio solo, quello del sindacato tedesco della potassa, che, per un certo tratto della sua vita, vendette in Germania, a favore dei suoi propri connazionali quel concime chimico a prezzo più basso che ai forestieri. Normalmente gli stranieri, i quali possono comprare altrove, sono favoriti contro i nazionali i quali sono pigliati per il collo e non potendo, perché i dazi e i contingenti e i clearing lo vietano, dirigersi altrove, sono forzati a dire grazie! al compaesano, nell’atto in che costui porta via il loro denaro di tasca.

 

 

Anzi, poiché, se la concorrenza estera non c’è più od è limitata, possono sempre venir fuori nuovi concorrenti dall’interno medesimo, si inventano altre figure rettoriche, e, piangendo sull’«anarchia» della concorrenza «sfrenata», si impietosiscono gli organi legislativi e li si inducono a votare leggi in virtù delle quali nessun industriale può costruire nuovi od allargare vecchi impianti senza un’autorizzazione governativa. E questa viene data solo se, studiata la domanda, sentite le osservazioni degli industriali già esercenti, il governo si persuada che quel nuovo impianto è davvero necessario per soddisfare i bisogni effettivi della popolazione. Il che è cosa senza senso, in primo luogo perché nessuno conosce quali siano i bisogni potenzialmente effettivi degli uomini riguardo a beni vecchi o nuovi, ed in secondo luogo perché la sola quantità nota, ed è la domanda, varia in funzione del prezzo; e se è di un milione di quintali, se il sindacato degli industriali esistenti mantiene i prezzi a dieci, diventerebbe di un milione e mezzo se la concorrenza del nuovo imprenditore consentisse di scemare i prezzi a sette. Ma i vecchi, influendo con i loro piagnistei e con la corruzione politica sulle deliberazioni dei corpi incaricati di autorizzare quella nefanda novità che sono i nuovi impianti, strozzeranno questi in fasce e disciplineranno, con parola rubata anch’essa al proprio linguaggio militare o scolastico, la produzione affinché questa sia la più scarsa possibile.

 

 

6. Alla filosofia della scarsità, propria dello stato piccolo, si contrappone la filosofia dell’abbondanza, propria dello stato grande. Le maggiori difficoltà di accordi e di un loro successo in una Federazione europea in confronto alla facilità negli stati nazionali.

 

Alla filosofia della scarsità impersonata nello stato piccolo si contrappone la filosofia dell’abbondanza propria dello stato grande. Non già che lo stato grande sia per se stesso il rimedio contro i restrizionismi, le proibizioni, le protezioni. Anche in un’Europa unificata l’autorità federale potrà, come già dicemmo, stabilire dazi, divieti, restrizioni alle importazioni dall’estero, ma, come accade ora negli Stati Uniti di America, per l’ampiezza medesima del mercato interno i danni del restrizionismo incidono assai meno gravemente in uno stato grande che in uno stato piccolo. Sarà assai più difficile mettere d’accordo gli agricoltori della Danimarca con quelli della Sicilia per chiedere protezioni contro i cereali russi o canadesi o argentini; perché se alcuni cerealicultori siciliani, quelli grossi o grossissimi se pur ci saranno ancora, nel silenzio della grandissima maggioranza di proprietari agricoli della stessa regione, che sono quelli medi e minuti delle zone costiere, o intensamente coltivate, chiederanno di essere protetti, gli agricoltori danesi protesteranno perché interessati ad ottenere a buon mercato cereali di qualità per se stessi e cereali inferiori per il bestiame lattifero, ed in queste proteste saranno spalleggiati dagli agricoltori olandesi e da quelli lombardi, interessati per le medesime ragioni a diminuire il costo ed a crescere col basso prezzo lo spaccio delle carni e dei latticini. Sarà parimenti più difficile mettere i siderurgici tedeschi e francesi e italiani e cecoslovacchi d’accordo, per chiedere protezione contro una ipotetica importazione nordamericana, con gli industriali meccanici che dall’importazione a buon mercato del ferro e dell’acciaio attendono ribassi di costi. Quand’anche poi una tariffa doganale alla frontiera europea potesse essere in qualche modo imbastita, come lo è negli Stati Uniti, la vastità del mercato interno, la osservanza del principio del libero commercio fra gli stati federati, il nessun interesse di ognuno degli stati federati di limitare i nuovi impianti nel proprio territorio e l’interesse evidente di ognuno di essi di promuovere le nuove iniziative interne renderebbero più difficili gli accordi ed in ogni modo meno nocivi, per la incapacità dei sindacati, i quali pure si formassero, di reprimere il sorgere di nuovi concorrenti. Gli argomenti sentimentali, retorici, razionalistici, i quali oggi hanno tanto peso a persuadere il grosso degli elettori a sottomettersi alle taglie dei monopolisti nazionali per il bene e a difesa della patria italiana o francese o tedesca o ungherese, perderebbero assai della loro capacità di presa quando l’ente da difendere fosse l’Europa nella sua integrità ed il nemico da combattere diventasse il «pericolo bolscevico», il «pericolo giallo» o il «pericolo americano». Gli eccitatori di discordia e di odio internazionale non trovando più eco col ricorso ad argomenti sentimentali, dovrebbero far appello ad argomenti economici concreti del tipo che si usa chiamare realistico.

 

 

7. Lo stato più grande è favorevole ai consorzi?

 

Si oppone da taluni a siffatta visione ottimistica degli effetti della federazione la probabilità che i grandi complessi industriali, ad esempio quelli della siderurgia della Ruhr o della Slesia, giovandosi delle loro dimensioni colossali e non più impediti dalle difese doganali, possano distruggere ad una ad una le migliori imprese preesistenti in Italia, in Francia, in Spagna e negli altri più piccoli stati federati. All’uopo la ditta gigante può temporaneamente ribassare i prezzi sui mercati proprii della ditta minore, costringendola al fallimento od alla resa a discrezione, e può far ciò perché le perdite così subite possono essere, per la maggior produzione e le più ampie riserve, più facilmente sopportate da essa che dalla impresa meno grande.

 

 

La teoria suppone implicitamente che il colossale sia sinonimo di forza e di bassi costi, che basti cioè ingrandirsi a dismisura per ripartire le proprie spese generali su una massa maggiore di prodotti, diminuire così i costi ed essere in grado di battere la concorrenza dei produttori a dimensioni minori. La verità è diversa: ché l’ingrandimento delle dimensioni è vantaggioso sino ad un certo punto, sino a quel punto cioè nel quale si sia raggiunta la combinazione ottima dei fattori produttivi. Sino a quel punto ingrandimento significa possibilità di applicare meglio gli ultimi ritrovati della tecnica, della lavorazione in serie ed a catena, di sfruttare al massimo i vantaggi della localizzazione vicino alle miniere ed alle materie prime, della divisione del lavoro. Ma al di là di quel punto, ingrandimento vuol dire solo giustapposizione di impianti simili gli uni agli altri, moltiplicazione delle gerarchie e dei controlli, con perdita economica per la efficacia e la rapidità delle deliberazioni. Molti cosidetti colossi hanno i piedi di argilla, perché la loro grandezza dipende solo dalla possibilità di sfruttare i margini eccessivi di profitti consentiti dalla chiusura del mercato interno alla concorrenza estera. Il colossale che sia anche «naturale», ossia che per vivere deve fondarsi esclusivamente sulle sole sue forze, non può eccedere nel fissare i prezzi, perché la stessa sua grandiosa produzione lo costringe, per esitarla, a tenersi moderato nei prezzi. L’ingrandimento ottenuto, così come si narra, con battaglie condotte ad uno ad uno contro i rivali fino ad assorbirli, aumenta il capitale che deve essere remunerato ed aumenta i costi, scemando la capacità della grandissima impresa di sostenere la concorrenza della impresa nuova costituitasi sulla base delle dimensioni ottime razionali, la quale non ha da remunerare se non il capitale minimo indispensabile alla produzione.

 

 

È del resto compito del legislatore intervenire contro talune maniere di condotta economica le quali abbiano caratteristiche manifestamente aggressive. Già in tutti i paesi è stato accolto ed è osservato il principio, ad es., che la ferrovia debba pubblicare le sue tariffe per trasporto merci ed applicarle ugualmente in confronto a tutti gli utenti. Essa può applicare tariffe più basse a chi faccia una spedizione a carro completo in confronto a chi spedisca la stessa merce a colli o casse separate, ma deve applicare tariffa uguale, senza favorire Tizio o Caio, a chiunque spedisca a carro completo. È probabile che lo stesso principio della pubblicità dei prezzi e delle tariffe si applichi in avvenire ad un maggior numero di beni e di servizi, sicché il prezzo basso di vendita adottato dal colosso in una data zona allo scopo di costringere qui alla resa un concorrente diventi immediatamente applicabile su tutto il mercato federale ed ogni cliente possa pretendere il rimborso della differenza ed il risarcimento dei danni in caso di discriminazione. In avvenire gli stati dovranno più frequentemente che in passato intervenire nelle cose economiche, talvolta, in casi ben precisi e ragionati, per sostituirsi all’azione manchevole o dannosa dei privati, più spesso per porre le regole necessarie a far sì che l’azione dei privati si svolga in conformità alle regole del gioco di concorrenza. Tra le quali regole vi sono quelle della possibilità di conoscere i prezzi correnti sul mercato e l’altra della unicità del prezzo dello stesso bene sullo stesso mercato e nel medesimo tempo. Non si nega che questi interventi non siano delicatissimi e di non facile esecuzione, ma è chiaro che non si deve rinunciare ai vantaggi della concorrenza su un mercato vasto solo perché l’ingrandimento del mercato impone allo stato federale la soluzione di problemi più complicati di quelli che si presentano su un mercato piccolo.

 

 

8. I piccoli stati sono più moderati dei grandi nella loro politica protezionistica?

 

Vi è chi obbietta alla federazione non essere provato che i piccoli paesi siano più esclusivisti dei grandi ed anzi si afferma che essi sono costretti dalla piccolezza a tenere le porte aperte alle importazioni allo scopo di approvvigionarsi più agevolmente sui mercati di maggior convenienza e di poter ottenere alle proprie esportazioni più favorevoli accoglienze nel maggior numero dei paesi stranieri. Laddove invece il grande stato accarezza l’idea della autosufficienza ed è più pronto ad aggredire i vicini allo scopo di procacciarsi i vantaggi del cosidetto spazio vitale. La teoria ha una qualche riprova parziale nei fatti. Vi fu chi ha calcolato il livello delle tariffe daziarie nei diversi paesi europei, intendendo per livello (od indice di altezza) dei dazi doganali la percentuale media dell’ammontare del dazio rispetto al valore delle merci soggette al dazio. Ed ha trovato che il Belgio ha aumentato dal 1913 al 1931 il livello della protezione doganale solo dal 14,2 al 17,4%, la Svizzera dal 10,5 al 26,4% e la Svezia l’ha ridotto dal 27,6 al 26,8 per cento. Ma, in compenso la Rumania, pur paese economicamente piccolo, crebbe il livello protettivo dal 30,3 al 63%, la Jugoslavia dal 22,2 al 46%, la Cecoslovacchia dal 22,8 al 50%, l’Ungheria dal 22,8 al 45%, l’Austria dal 22,8 al 36%, la Bulgaria dal 22,8 al 96,5%, la Finlandia dal 35 al 48,2%, e su su salendo in dimensioni, la Spagna andò dal 37 al 68,5%, la Polonia si mantenne alta fra il 72,5 ed il 67,5%, la Francia passò dal 23,6 al 38%, l’Italia dal 24,8 al 48,3%, la Germania dal 16,7 al 40,4 per cento. In verità salvo alcuni pochi paesi tradizionalmente liberistici e ragionevoli, il virus protezionistico e monopolistico è potente e di sé infetta tutti i paesi, quando si riesca a far vibrare la corda del nazionalismo e dell’indipendenza politica ed economica. Gli stati piccoli moderatamente liberistici, Svizzera, Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca, Norvegia, sono tutti paesi industrializzati o ad agricoltura specializzata, laddove gli stati piccoli protezionistici sono paesi ad agricoltura estensiva. Anche se i primi potranno subire qualche momentaneo danno da una eventuale politica protezionistica della Federazione, in complesso la bilancia sembra pendere a favore della inclusione in una grande area doganale, entro la quale essi potranno costituire un fattore potente di moderazione.

 

 

Solo coll’allargare lo spazio doganale e col privare gli stati singoli del diritto di chiudersi in se stessi, si riesce a mettere un freno all’imperversare dell’idea per cui non solo ogni stato, ma ogni provincia, ogni distretto ed ogni comune e quasi ogni casa vorrebbe essere in grado di difendersi contro ogni altro paese, provincia, distretto, comune o casa. Potrà darsi che l’Europa unificata si cinga di alte barriere doganali contro le altre costellazioni politiche mondiali, ma non è probabile. I contrasti fra stati interessati alla libertà degli scambi col resto del mondo e quelli desiderosi di chiudersi in se stessi, fra i ceti commerciali e quelli agricoli, la esistenza di una concorrenza vivace già nell’interno della federazione indurranno ad un a politica moderata. A che prò rialzare i dazi contro gli Stati Uniti od il Giappone o la Cina, quando già nell’interno della federazione i prezzi sono tenuti a freno dalla concorrenza? Se anche poi l’Europa volesse emulare gli Stati Uniti nell’adottare a sbalzi una politica protezionistica, il male sarebbe attenuato dalla ampiezza del mercato interno entro cui liberamente beni e servizi potrebbero circolare.

 

 

CAPITOLO III

CHE COSA FAREMO SE NON SAREMO PIÙ PROTETTI?

 

1. Dell’argomento protezionistico dell’industria bambina. Errore di concepire l’entità «industria» invece di quella «impresa». Premi invece di dazi. Confronto fra i due sistemi di incoraggiamento alle industrie nuove.

 

La Federazione potrà, se vorrà, continuare a proteggere con dazi le industrie interne, e gli stati federati potranno aggiungere premi a favore delle imprese nuove sorte nel territorio statale.

 

 

Se si comincia a ragionare, subito si vede che la Federazione non è pericolosa, anzi favorevole al fiorire delle industrie. Argomento principe, quasi si direbbe unico, addotto a favore della protezione doganale è quello che si chiama delle industrie bambine. È argomento che si intitola al nome dell’economista Giovanni Stuart Mill che lo consacrò nei suoi famosi Principi di economia politica. Lo consacrò, e non lo inventò, ché lo leggiamo esposto prima, ad esempio, in un non meno celebre rapporto sulle manifatture dell’americano Hamilton (1791). Dice l’argomento delle industrie giovani o bambine: un paese agricolo, il quale voglia diventare anche industriale – e si può consentire che questa sia ambizione legittima di ogni paese – si trova dinnanzi a un ostacolo: la concorrenza dei paesi industriali vecchi, i quali posseggono già una industria antica, bene attrezzata, bene organizzata, padrona della clientela. La nuova, giovane industria, la quale deve fare le ossa, che deve educare la maestranza, formarsi uno stato maggiore di tecnici e venditori, introdursi nella clientela, non può per qualche anno vendere ad 8, che è il prezzo di mercato corrente, poiché i suoi costi sono 10. Economicamente quell’industria non può nemmeno nascere. Eppure, superato quel primo periodo di infanzia, forse, l’industria nuova sarà capace di vendere non che ad 8, persino a 7, con vantaggio dei consumatori. Dia lo stato una protezione temporanea, per 5 anni, per 10 anni, per il tempo necessario a fare le ossa, alla industria bambina. Trascorso il periodo dell’allevamento, essa butterà via le dande o le grucce dei dazi e si reggerà da sé, liberamente, per le vie del mondo.

 

 

Forse nessun ragionamento economico apparentemente impeccabile fu mai più solennemente sconfitto dalla realtà. L’esperienza insegnò che mai nessuna industria divenne da bambina, giovane e, da giovane adulta; ma tutte bamboleggiarono invecchiando e chiesero e non di rado ottennero sempre più alti dazi. Sicché il grande divulgatore medesimo della teoria Giovanni Stuart Mill, in lettere posteriori di un ventennio alla pubblicazione dei Principi ed indirizzate ad autorevoli parlamentari dell’Australia, dove la sua teoria aveva goduto notevole popolarità ed ottenuto favorevole accoglienza, si indusse a solenne abiura. Era accaduto là, ed accadde altrove sempre, che, dopo il pasto, la fiera belva avesse più fame che pria. I teorici erano invero partiti da una idea fantastica: che esistesse una entità detta «industria». Molti partono anche oggi da questa che è una pseudo idea. Nessuno mai vide la cosa detta «industria»: e solo si vedono e si contemplano «imprese industriali» od «imprese agricole», appartenenti a Tizio od a Caio, alla società alfa od alla società beta. Può darsi che, a fine di brevità espositiva, si dia al complesso di tante imprese di filatura del cotone esistenti in Italia il nome di industria italiana della filatura del cotone; ma non dimentichiamo che la realtà vera è composta dalle singole imprese appartenenti a Tizio o a Caio, ad alfa od a beta. Supponiamo pure che nel paese di «Nuova Terra» nell’anno di grazia 1944 esista bambina, anzi neonata l’industria composta delle quattro imprese appartenenti a Tizio, Caio, alfa e beta. Lo stato concede per dieci anni un dazio sufficiente a far superare a queste quattro imprese il difficile periodo dell’allattamento, svezzamento ed allevamento. Chi vieterà a Sempronio ed a Mevio, alla società gamma ed a quella delta di nascere in «Nuova Terra» rispettivamente nel secondo, quarto, sesto ed ottavo anno del decennio? E perché a Marco non sarà lecito di impiantare una nuova fabbrica allo scadere del decennio? Il dazio non era stato invero stabilito per creare un monopolio a favore dei già nati, ma per offrire alla collettività allo scadere del decennio, una «industria» vitale atta a vivere da sé colle proprie forze. Alla fine del decennio lo stato potrebbe bensì abolire i dazi per quel che ha tratto alle imprese di Tizio, Caio, alfa e beta; ma che cosa farà dinnanzi alle querele delle ancora giovinette od infanti imprese di Sempronio e Mevio, di gamma e di delta; e come si comporterà di fronte alla mamma ancora fresca di parto del neonato Marco? Giocoforza sarà prorogare la vita dei dazi, sino alla virilità universale; la quale non giunge mai, essendo che le imprese vecchie, al par degli uomini vecchi usano morire e sempre nuove imprese neonate allietano con i loro vagiti la «Nuova Terra» i cui padri coscritti non trovano mai il momento buono per allentare o togliere le dande ai bambini pullulanti. Talché il padre putativo della teoria, Giovanni Stuart Mill, concludeva essersi ormai convinto che bisognasse mutar strada ed in luogo dei dazi concedere premi alle «imprese» nascenti. Essere i dazi illusori e corruttori, perché il pubblico si persuade che essi non costino nulla a nessuno e, col solo limitare od impedire la importazione delle merci concorrenti estere, facciano coltivare campi, innalzare e fumare comignoli di fabbriche, diano lavoro ad operai e simili cose miracolose. Laddove il dazio, che è una cifra, un comando di legge, da solo non crea nulla e non fa crescere neppure uno spigo di grano. Se ha una virtù è quella di spostare capitale e lavoro esistenti da un impiego ad un altro. Gli uomini, se non esistesse il dazio, non starebbero con le mani in mano. Coltiverebbero pomodori o mele o viti non protette; ed il dazio li induce ora a coltivare grano, che essi prima non coltivavano perché ad essi costava, a produrlo, 25 franchi al quintale, laddove veniva importato dall’estero al prezzo di 17,50 franchi. Se ora il grano estero è colpito da un dazio di franchi 7,50, lo si può coltivare perché anche l’importatore dall’estero non lo può vendere a meno di 17,50 più 7,50 = 25 franchi.

 

 

La differenza fra 17,50 prezzo antico (o prezzo della concorrenza estera o prezzo in regime di libertà) e 25 prezzo nuovo (o prezzo interno al riparo della protezione di 7,50) si divide in due parti. La prima non frutta nulla ai proprietari [sic] di terreni a frumento; è puro rimborso di costo. Il proprietario vende bensì il grano a venticinque invece che 17.50; ma poiché a lui costa 25, il suo utile è zero. La differenza è assorbita dalle maggiori spese di lavorazione, di concimazione e di raccolta del grano. Si dà lavoro ai contadini che coltivano i campi a grano; ma è un lavoro fatto a vuoto, fatica fatta per faticare, senza costrutto. Lo scopo del produrre non è quello di far lavorare ossia di provocare fatica; ma è quello di ridurre la fatica al minimo possibile, a parità di prodotto. Se quei contadini, facendo la fatica misurata con franchi 17.50, producevano prima tanti pomodori o frutta o vino od agrumi, con cui avrebbero potuto acquistare un quintale di frumento estero, c’è qualche sugo a far fare loro la maggior fatica misurata con franchi 25, per avere la soddisfazione di mangiare un pane costoso? Non è quella fatica sprecata? Non avrebbero quei contadini fatto meglio a far la fatica di 7.50, e col resto del loro tempo occuparsi a produrre qualcosa d’altro o magari occuparsi a far niente? L’ozio, il riposo, è un bene come un altro ed è compito dell’educazione insegnare ad occuparlo bene, nell’istruzione propria, nell’educazione dei figli, nell’abbellimento della casa, nell’interessamento alla cosa pubblica.

 

 

Ma non è necessario che i proprietari di terreni a grano spendano tutti 25 franchi a produrre il grano all’interno. Vi sarà chi spende 25, chi 20, chi solo 18 e magari, coloro che son più bravi o dispongono di terreni migliori, perfino solo 15. Poiché il prezzo della concorrenza estera senza dazio era di 17.50 ed ora col dazio è di 25 anche il prezzo interno è, nei due casi, 17.50 e 25. Quando il prezzo è di 17.50 producono grano solo coloro il cui costo va dai 15 ai 17.50; e costoro guadagnano da 2.50 a zero. Quando il prezzo è 25, la coltivazione si allarga e producono grano tutti coloro il cui costo va da 15 a 25 con un guadagno che va da 10 a zero per quintale. L’effetto del dazio perciò è:

 

 

  • 1) di aumentare il prezzo per tutti i consumatori da 17.50 a 25, ossia di 7.50 franchi al quintale. Se il consumo nazionale è di 80 milioni di quintali di frumento, l’onere per i consumatori è di 600 milioni di franchi;

 

 

  • 2) di far guadagnare qualcosa ai proprietari di terreno a grano. Se noi supponiamo, per fare il caso semplice, che 10 milioni di quintali siano prodotti al costo di 15 franchi, 30 milioni al costo di 25 franchi; i primi guadagnano 10 franchi al quintale (100 milioni in tutto), i secondi 7 (210 milioni) i terzi 1 (20 milioni) ed i quarti nulla. Il guadagno netto dei proprietari sarà di 100 + 210 + 20 + 0 = 330 milioni, contro una maggior spesa dei consumatori di 660 milioni. La differenza, come si disse sopra, di 270 milioni è sfumata in fatica senza costrutto, in spese senza corrispettivo.

 

 

C’è una buona ragione perché gli agricoltori si illudano di guadagnare 600 milioni e guadagnano in realtà 330 milioni? Per quale legge divina od umana è lecito inoltre trasferire questi milioni da una categoria all’altra dei cittadini? Se si dicesse ai cittadini consumatori: andate in giro e quando vedete su una porta di una casa, scritto: Tizio, proprietario di terreni coltivati a grano, entrate e pagate a Tizio, ora 10, ora 7, ora 5, ora 3 ed anche 1 franco per quintale di grano da lui prodotto e pagate ciò senza nulla ricevere in cambio, nemmeno la ricevuta, non sareste indignati della proposta e, potendo, non rovescereste il governo ed i deputati che avessero fatto la strana proposta? Eppure questo è ciò che i cittadini di molti stati fanno, perché si sono lasciati imbrogliare la testa dalle figure retoriche della difesa della patria contro l’invasione, contro l’inondazione delle merci estere.

 

 

La Federazione europea eliminerà, nell’interno del territorio europeo, lo scandalo per quel che si riferisce alla concorrenza interstatale, e lo renderà più difficile per quanto riguarda la protezione contro il frumento proveniente dagli stati posti fuori della Federazione. Ché se l’autorità federale, il Parlamento federale riterrà essere nell’interesse generale (ad esempio per assicurare contro il pericolo di restare privi di frumento in tempo di guerra) promuovere la coltivazione del frumento su terreni dove esso costi più di 17.50 franchi al quintale – supponendo sempre che 17.50 sia il prezzo della concorrenza nordamericana, argentina, australiana – essa avrà sempre a propria disposizione, un mezzo chiaro, onesto, meno costoso di raggiungere il risultato: quello di dare un premio per ogni quintale di frumento prodotto in più di quella certa quantità che si produceva o si sarebbe prodotta senza premio. Agronomi periti non si troveranno di fronte all’impossibile quando fossero chiamati a rispondere al quesito: su questo o quel fondo quanto grano sarebbe conveniente produrre al prezzo di 17.50 franchi? Stabilita la base, il punto di partenza, non è impresa assurda fissare il premio di 5, di 10 franchi al quintale, necessario a spingere la produzione al più alto limite desiderato. Se la Federazione non intende imbarcarsi nell’impresa, ben lo potrebbe fare ogni stato federato o persino ogni regione o provincia o contea o comune. Decideranno gli elettori se ad essi convenga di sobbarcarsi all’onere, se convenga costruire una scuola, fare una fognatura, creare un parco pubblico, ovvero incoraggiare questo o quel ramo di agricoltura o di industria.

 

 

O non ha il comune di Savigliano in Piemonte offerto un sussidio, in terreni ed in denaro, a chi fondasse sul suo territorio uno stabilimento, che prese infatti il nome di «Officine di Savigliano» e prospera ancor oggi? Oh! non danno la Federazione ed i cantoni svizzeri a gara sussidi a chi prosciuga paludi, costruisce canali irrigatori? Oh! non si danno in Italia ed altrove aiuti a chi, con costo troppo alto e non remunerativo per lui, intraprende opere utili anche all’universale? Non furono costruite così la più parte delle ferrovie in un’Europa montagnosa e difficile ad essere trasformata ed unificata? Perché dovrebbe essere più difficile seguitare a promuovere culture e industrie reputate di interesse pubblico in un’Europa federata che in un’Europa divisa? Tutto ciò che si risparmierà in armamenti destinati ad ammazzarci l’un l’altro ed a distruggere la civiltà europea, potrebbe essere destinato a gara dalla Federazione, dagli stati federati, dai cantoni, dalle provincie, dai comuni a promuovere ogni iniziativa che fosse reputata utile all’universale. Purché i cittadini sappiano perché si spende; decidano a ragione veduta il quanto da spendere e le imposte da prelevare all’uopo ed a carico di chi: purché siano resi i conti delle spese e dei risultati ottenuti. Il dazio è la finanza illusoria, che dà l’impressione di non spendere molto ed anzi di non spendere nulla e di ottenere solo vantaggi. Il premio è la finanza onesta che squaderna il dare e l’avere e pone i cittadini dinnanzi al dilemma che ognuno di noi risolve ogni giorno per le occorrenze quotidiane della vita: questo paio di scarpe oppure questo cappello; questo libro ovvero questi divertimenti; questo appartamento di tre stanze, oppure quest’altro appartamento di due camere sole ed il margine per andare a passare un mese ai monti? Sussidiare quel proprietario affinché produca 100 quintali di frumento in più, oppure lasciarlo arbitro di tenere il suo terreno a pascolo od a bosco? Se ben ragionato, il sussidio può essere conveniente. Purché se ne conosca l’ammontare, sia dato a tale o tal’altra persona conosciuta per nome e cognome, in cambio di un impegno preciso da parte sua di far qualcosa che non farebbe se non fosse sussidiata; e purché il sussidio continui solo finché consigli comunali o provinciali, parlamenti statali o federali giudichino opportuno di farne sopportare l’onere ai contribuenti per raggiungere lo scopo voluto.

 

 

2. La regola del forte che porta il debole in un’Europa federata. La questione del nord e del sud Italia; degli stati poveri e degli stati ricchi in Europa.

 

Il discorso potrebbe finire qui, con la dimostrazione che la Federazione non ostacola, anzi agevola quella qualunque politica di incoraggiamento che i singoli stati federati volessero condurre a pro di questa o quella branca di industria incipiente o pericolante o altrimenti reputata di interesse generale. Nessun cantone svizzero si è mai sentito impedito di fare opera vantaggiosa a pro delle iniziative locali a causa della esistenza della Confederazione. Anzi i cantoni più poveri, quelli che per la loro situazione montagnosa o poco fertile devono più duramente lottare contro le difficoltà opposte dalla ingrata natura, usano per l’appunto presentare le loro «rivendicazioni» alle autorità federali e queste concorrono alle iniziative locali, considerate utili anche nell’interesse generale, in ragione inversa alla ricchezza: più ai cantoni più poveri e meno a quelli più ricchi, secondo la regola del «forte il quale porta il debole». In un’Europa federata, gli stati più ricchi ed industriosi vedrebbero immediatamente la convenienza di attrezzare economicamente e di elevare verso il proprio livello i territori e gli abitanti degli stati più poveri; e l’opera di elevazione sarebbe favorita dalla facilità dei traffici, dall’unica cittadinanza, da regole uniformi di diritto per i rapporti interstatali e dall’unicità della moneta. Il commercio non prospera nella miseria altrui e sul latrocinio a danno dei clienti; suppone, invece, e provoca arricchimento reciproco.

 

 

La considerazione ora fatta annulla il rimprovero mosso al concetto federativo di tendere a concentrare l’industria nelle località più favorite: nord della Francia, regione renana, Slesia, nord d’Italia, lasciando deserte di commerci e di industrie vastissime regioni, dove le condizioni appaiono meno propizie. L’argomento è artificioso, in quanto suppone una limitazione delle opportunità di lavoro che in realtà non esiste. Ogni regione ha attitudini sue proprie, non esistono regioni sfornite addirittura di ogni attitudine. Il problema vero è quello di scoprire e sfruttare nel miglior modo possibile le attitudini proprie di ogni contrada; non nel ridurre tutto il mondo ad un deserto agricolo o pastorale allo scopo di concentrare l’attività di elaborazione delle materie prime in pochi centri manifatturieri. Presto si vedrebbe che questi centri, privi di sbocchi inaridirebbero ed impoverirebbero. Perché i centri, prosperino occorre che il resto del mercato abbia un’alta capacità di acquisto; e questa non si ottiene se gli uomini si dedicano soltanto alla agricoltura ed alla pastorizia. Negli Stati Uniti medesimi, dove lo sviluppo industriale aveva dapprima seguito le indicazioni naturali offerte dalle miniere di carbone e di ferro, dalla vicinanza alle coste marittime ed ai grandi laghi, lo studio più attento delle risorse naturali ha persuaso ad una più larga diffusione dell’attività industriale. La istituzione della Tennessee Valley Authority per lo sfruttamento delle forze idrauliche dei grandi fiumi degli stati centrali, prelude ad uno spostamento dell’industria verso il sud centrale. Le urgenze della guerra hanno fatto sorgere nuove industrie belliche negli stati, prima quasi esclusivamente pastorali e minerari, delle Montagne Rocciose ed è probabile che larghi residui di queste nuove attività rimarranno anche in pace. Come nella Svizzera i singoli cantoni, così negli Stati Uniti i vari stati federati fanno a gara nell’attirare a sé capitali in cerca di impiego e chiedono alle federazioni aiuti atti a promuovere l’utilizzazione delle risorse sinora non abbastanza sfruttate. Non vi è ragione perché lo stesso indirizzo non abbia a prevalere in una Federazione europea e di questo non abbiamo ad avvantaggiarsi massimamente le regioni più arretrate e depresse. Furono scritti in passato libri intitolati Nord e Sud, nei quali si voleva dimostrare la tesi che le regioni meridionali erano state, in Italia, danneggiate, nella ripartizione delle spese pubbliche, a vantaggio delle regioni settentrionali. Proporzionalmente alla loro ricchezza, poiché questa era sovratutto territoriale e visibile, le regioni meridionali pagavano maggiormente delle regioni settentrionali la cui fortuna era mobile ed occultabile al fisco. Laddove, quanto a spese, il Nord si avvantaggiava per la localizzazione dei corpi d’armata verso il confine politico, per i porti militari pure situati nel nord, per le maggiori richieste per le scuole, strade, ponti, ferrovie presentate dagli abitanti del nord in confronto a quelli del sud. I libri valsero a suscitare vive discussioni; fu riformato il sistema tributario ed oggi è probabile, ed è anche giusto, che le proporzioni siano rovesciate e che l’Italia meridionale riceva, tenuto conto delle necessità tecniche proporzionatamente alle imposte pagate, una quota maggiore di quella attribuita all’Italia settentrionale dei vantaggi delle spese pubbliche. È probabile che altrettanto accadrebbe nell’Europa federata; e che il ricavo delle imposte fiscali sarebbe distribuito proporzionatamente di più a favore, ad esempio, della Spagna, della Balcania, della Grecia, dell’Italia meridionale e delle isole, della Polonia, che del Belgio e dell’Olanda, dell’Italia settentrionale, della Francia, della Germania, della Svizzera e dei paesi scandinavi, dove il reddito individuale ed il tenor di vita è più alto.

 

 

3. La distribuzione delle imposte nuove in un’Europa federata necessariamente favorirà le regioni meno ricche. Così pure la distribuzione del credito da parte della Banca centrale europea.

 

Ciò accadrà però, si osserva, grazie a nuove imposte, in aggiunta ed accanto a quelle antiche. Conserveremo, si teme, tutte le antiche imposte pagate ai comuni, alle provincie ed agli stati; ed in aggiunta pagheremo nuove imposte alla Federazione. Cosicché il vantaggio delle spese federali sarà illusorio; ché ce le pagheremo ognuno di noi, di tasca nostra, con nuove imposte federali.

 

 

L’osservazione non è in primo luogo esatta; poiché talune imposte statali saranno necessariamente trasferite alla Federazione, come quelle doganali e le imposte di fabbricazione; e col loro provento si dovrà provvedere alle spese della difesa nazionale, trasferite completamente alla Federazione. Per quel che non sarà coperto dai dazi e dalle accise, la Federazione dovrà istituire certamente nuove imposte. Ma noi possiamo prevedere con sicurezza a quale tipo di imposte ricorrerà la Federazione, osservando su quale base siano imperniati i sistemi tributari dei paesi più ricchi. Si tratterà di una imposta sul reddito complessivo dei contribuenti – persone fisiche, ad aliquota crescente col crescere del reddito. Anche se si partirà dal basso, anche se saranno chiamati a pagare tutti i contribuenti aventi un reddito, ad ipotesi da 100 lire sterline in su, si tratterà pur sempre di reddito di almeno 1500 lire italiane ante 1914 (in Italia prima del 1914 il minimo imponibile per i redditi di lavoro era di 640 lire all’anno), qualcosa come 7500 lire del 1922, come 12.000 del 1938, come 20.000 del 1943, ecc. ecc., ossia qualcosa che all’incirca potrà essere considerato come il reddito sufficiente ad una vita normale della famiglia operaia. La imposta su questi redditi, già superiori al minimo, sarà ad aliquota minima, ad es. del 0,50%; ed andrà via via crescendo sino, ad es., al 10% per i redditi da 10.000 sterline in su (150.000 lire italiane ante 1914). La Federazione dovrà mantenersi moderata nelle sue aliquote perché sullo stesso reddito graveranno inoltre imposte statali, provinciali, comunali e di enti diversi. Siccome in realtà non esiste un’Italia povera ed una Francia ricca; ma vi sono italiani poveri ed italiani ricchi, francesi poveri e francesi ricchi, svizzeri poveri e svizzeri ricchi, non esisterà uno scaglionamento di paesi in relazione al pagamento delle imposte, ma uno scaglionamento di individui italiani, francesi, svizzeri, tedeschi, mescolati insieme e susseguentisi l’un l’altro a seconda dei rispettivi redditi. Così come oggi si fa già nei singoli stati, saranno i contribuenti più ricchi coloro i quali dovranno sopportare il peso proporzionatamente maggiore delle spese pubbliche, e se i contribuenti più ricchi saranno più numerosi nell’Italia del nord che nell’Italia del sud, in Germania, in Francia, in Svizzera, nel Belgio, in Olanda, in Scandinavia piuttostoché nel bacino del Danubio, in Polonia, nei Balcani, in Grecia, in Spagna, nell’Italia meridionale, saranno gli stati della prima categoria quelli sui quali cadrà proporzionatamente il peso massimo delle imposte. Se poi, come è ovvio e ragionevole supporre, la Federazione cercherà di migliorare i servizi pubblici, per quanto ad essa spetta – grandi vie di comunicazione, ferrovie, porti, linee marittime ed aeronautiche – nelle regioni che ne sono più difettose piuttostoché in quelle che ne sono già provvedute, gli stati più poveri della seconda categoria ne profitteranno in maggior misura. Se, grazie, all’unificazione della moneta e della circolazione monetaria, l’Istituto centrale federale eserciterà una influenza notevole sulla distribuzione del credito in un’Europa unificata, sarà altresì ovvio e razionale che le correnti di credito siano da esso dirette dagli stati e dai centri dove si accumula, per la maggior parte del risparmio possibile e dove è meno probabile trovare nuove vie all’investimento dei capitali, verso gli stati più poveri, dove esistono ancora possibilità di investimenti per il grado più basso, a cui è giunto il livello della vita economica. Accadrà in una Europa federata quel che è accaduto nell’Italia unita. Non si sono visti i risparmi ed i capitali disponibili risalire dalla Sardegna, dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Basilicata verso Genova, Torino e Milano; non fosse altro perché quei risparmi erano miseri e diffidenti. Furono invece i capitali del Nord che iniziarono le centrali elettriche, che impiantarono stabilimenti nella zona del porto di Napoli, che intrapresero talune importanti bonifiche agricole. Con ciò non si vuole affermare che il più non sia stato fatto dai meridionali medesimi, rinati a nuova operosità per il risvegliato spirito di emulazione verso quel che altri aveva già fatto. Si vuol soltanto dire che i risparmi affluiscono dai paesi già civilizzati, dove le occasioni di investimento sono forse più facili ed ampie ma meno allettanti, per la maggior concorrenza ed il più diffuso spirito di iniziativa, verso i paesi più arretrati, dove le occasioni di investimento, per la minore disponibilità di risparmio e la minore educazione industriale degli abitanti, sono più promettenti, e non viceversa. L’Italia, tra il 1860 ed il 1890, ha costrutto la sua attrezzatura ferroviaria, stradale, portuale, ha iniziato le prime bonifiche (esempio classico quella ferrarese, arditamente intrapresa da capitali stranieri, precipuamente svizzeri, e chiusa infelicemente come accade quasi sempre ai pionieri, per passare a mani italiane, che ne godettero poi i frutti con una saggia amministrazione, sinché nel dopoguerra le azioni caddero in mano a filibustieri) in parte con risparmi propri; ma in parte con capitali presi a prestito all’estero. Capitali che poi furono restituiti. La Federazione, facilitando al massimo i rapporti finanziari fra stato e stato, accrescendo la sicurezza degli investimenti, garantendo l’osservanza delle leggi con un imparziale tribunale federale, non potrà non giovare grandemente a un tale processo di trasfusione di capitali dagli stati più ricchi a quelli più poveri.

 

 

4. La domanda del «cosa produrremo?» se la Federazione avvilirà i prezzi delle cose che prima conveniva produrre nel chiuso mercato statale.

 

Nonostante l’evidenza di queste argomentazioni persistono i dubbi, retaggio naturale di secoli di diffidenza e di lotta, e le incertezze di coloro i quali si sono adagiati in situazioni di fatto esistenti e temono il finimondo se queste dovessero essere mutate. Che cosa faremo noi, chiedono alcuni, se l’unificazione economica del territorio europeo, ci costringerà ad affrontare la concorrenza dei prodotti degli altri stati federati? Che cosa produrremo al luogo del frumento, della carne, del vino, delle vetture automobili, delle macchine, che prima noi producevamo nel territorio italiano e che non potremo più vendere e quindi produrre, di fronte alla concorrenza vittoriosa dei produttori germanici o francesi o svizzeri o cecoslovacchi! Che cosa ne sarà della Fiat la quale dà lavoro ad un terzo, se non alla metà della popolazione torinese? Che cosa della Pirelli, della Montecatini, dell’Ansaldo, dell’Ilva, della Cogne? Che cosa di tant’altre imprese, le quali affermano di vivere solo grazie al possesso assicurato, col mezzo della protezione daziaria, del mercato interno?

 

 

5. L’esperienza dello Zollverein tedesco e della unificazione italiana. Il caso delle vetture automobili. Non esistono fattori insuperabili di maggior costo. Insussistenza dell’argomento delle imposte.

 

Che cosa accadrà? Quel che deve accadere in un paese nel quale si è lasciata facoltà agli industriali, agli agricoltori, ai lavoratori di scegliere le vie le quali ad essi appaiono più remunerative invece di quelle che appaiono tali ad altri. Quando l’Italia fu unificata nel 1860, quando in Germania fu conclusa nel 1833 la Unione doganale (Zollverein), ci furono Cassandre le quali predissero il finimondo: in Piemonte la rovina delle industrie della seta e della lana non più protette contro la concorrenza della più agguerrita industria lombarda, la quale disponeva del grande mercato austriaco; nel napoletano la rovina delle industrie locali, fortemente protette, per la concorrenza di quelle settentrionali. Dopo un non lungo periodo di assestamento, le industrie ritrovarono il loro equilibrio e cominciarono, grazie alla maggiore capacità di assorbimento del mercato nazionale triplicato e quintuplicato per estensione e numero di consumatori, la ascesa la quale condusse nel 1914 il paese a possedere una vigoria economica ed una attitudine di adattamento alle esigenze grandiose della prima guerra mondiale, quale nessuno avrebbe potuto immaginare nel 1860.

 

 

Per quale ragione mai non si dovrebbe continuare a fabbricare vetture automobili ed autocarri in Italia? Il maggior costo, in confronto al costo estero, dei materiali, adoperati nella costruzione, è quantità trascurabile in confronto al costo totale il quale consta essenzialmente di interessi e quote di manutenzione ed ammortamento sugli impianti e sul macchinario, sugli edifici, sul terreno, di mano d’opera e di spese generali. In un mercato ampio come l’europeo, impianti e macchinari possono essere acquistati da una fabbrica italiana alle stesse condizioni come da una fabbrica francese o tedesca od inglese. A meno di supporre che gli ingegneri ed i funzionari, solo perché italiani, siano meno capaci di organizzare il lavoro e gli acquisti e le vendite degli ingegneri e dei funzionari inglesi, tedeschi o francesi; a meno di supporre che gli operai, solo perché italiani, siano meno in grado di maneggiare i loro utensili e di sorvegliare ed utilizzare le macchine dei loro compagni stranieri, quale ragione vi è perché il costo di una vettura o di un carro sia superiore al costo straniero? Le spese generali? Dipenderà dalla abilità dei dirigenti di farle diminuire, approfittando della potestà di vendere, senza ostacoli di dazi, le vetture in un mercato di parecchie centinaia di milioni di compratori, in media meglio provveduti, di mezzi di acquisto, piuttosto che su un mercato di soli quarantacinque milioni di compratori ridotti, dall’alto prezzo, ad invidiare altrui le possibilità di fornirsi del comodo mezzo di trasporto. Le imposte? L’argomento delle forti imposte le quali si debbono pagare in paese in confronto di quelle più basse che si pagano all’estero è messo nel nulla dal fatto che esso si ascolta, identico, in bocca agli industriali di tutti i paesi; dove, senza eccezione, ci si lamenta di trovarsi, per questo riguardo, in condizioni di inferiorità rispetto all’estero. Fosse anche, il che non è, fondato, quale sarebbe la portata dell’argomento? Forse che, aumentando, col dazio, il prezzo delle automobili in Italia, il peso delle imposte in Italia scema? No, anzi cresce. Le imposte, che esistevano prima, restano tali e quali. Il dazio sulle automobili straniere non fa diminuire di un soldo il fabbisogno dello stato. Se questo aveva prima trenta miliardi all’anno di spese da sopportare e di conseguenti imposte da prelevare sui contribuenti, trenta miliardi restano né più né meno. La fabbrica di automobili seguita a pagare le imposte che pagava prima. La sola differenza è che essa riesce, se già non ci riusciva prima, a farsele rimborsare dai compratori d’automobili, grazie al maggior prezzo di vendita che può riscuotere, non avendo più da sopportare la concorrenza estera. Passando sopra a qualche complicazione, tutta la sostanza dell’argomento a favore dei dazi si riduce ad una diversità di opinione intorno al miglior metodo di ripartire le imposte. È meglio che le imposte, delle quali lo stato non può fare a meno, siano pagate (sotto forma di imposte sui fabbricati, di ricchezza mobile, di negoziazione e sui dividendi e interessi delle azioni, di registro e bollo ecc. ecc.) dai fabbricanti di automobili, di seterie, di lanerie, di cotonate, di rayon, di macchine, di navi, dai produttori di frumento, di vino, di bestiame, di formaggi, ovvero dai consumatori acquirenti di tutte queste cose sotto forma di rimborso delle imposte medesime ai produttori attraverso un più alto prezzo delle cose vendute? Poiché le imposte debbono essere pagate, dal dilemma non si esce. Chi è meglio le paghi? Se i fabbricanti di automobili, di frumento, di cotonate, ecc. ecc. sono persuasi della bontà della loro causa si facciano avanti e sostengano la tesi: noi non vogliamo più pagare imposte sul reddito della nostra terra, dei nostri fabbricati e della nostra industria, sui dividendi e interessi distribuiti ad azionisti ed obbligazionisti; e riteniamo giusto che le imposte siano pagate solamente da chi acquista e compera automobili, macchine, vestiti, scarpe, pane, carne e vino.

 

 

Se avranno buone ragioni a sostegno della loro tesi, nessuno rifiuterà di ascoltarli. Non è escluso che l’opinione pubblica in qualche caso li conforti col suo appoggio. Può darsi, ad esempio, che, pur non esentando i fabbricanti di automobili dall’obbligo di pagare imposte sui loro redditi, l’opinione pubblica riconosca unanimemente essere corretta una imposta sui consumatori di automobili per due ragioni; in primo luogo a titolo di rimborso dell’usura particolare che il traffico automobilistico provoca alle strade ordinarie; ed in secondo luogo perché l’uso di una vettura può essere l’indizio di un reddito posseduto dal possessore della automobile, reddito, che può ritenersi opportuno di tassare per mezzo di quell’indizio. Ma, salvo pochi casi ben specificati e ben dimostrati, è difficile che, dinanzi al tribunale dell’opinione pubblica trionfi, se chiaramente e nettamente posta, la tesi che debba toccare al consumatore del pane o delle scarpe o dei vestiti o dell’aratro l’obbligo di pagare la imposta che di solito è fatta gravare sul reddito di coloro i quali hanno contribuito a produrre tutti questi beni. Per farla trionfare, gli industriali e gli agricoltori debbono imbrogliare le carte e lasciare intendere che, con i dazi, si sia inventato un metodo miracoloso per non più pagare le imposte. Sia ben chiaro che i dazi non aboliscono nessuna imposta; e l’unico effetto in proposito è di farle pagare a chi è meno in grado di sopportarle. Ciascun paese, ciascun popolo è chiamato a sopportare le conseguenze di quelle disgrazie od inferiorità che lo affliggono: a cercare di cavarne quel migliore partito che gli è mai possibile. Se la sfortuna volle che esso fosse mal governato e che quindi su di lui cadessero imposte gravose, egli non rimedia alla disgrazia col caricarsi di un’altra imposta, quale è un dazio doganale. Unico rimedio è cangiar governo e stabilirne uno il quale gli faccia pagare imposte poco gravose. Badisi che imposta «poco gravosa» non vuol dire imposta «bassa», perché se un’imposta è alta, ma il governo amministra bene, dà pubblici servizi vantaggiosi, può darsi, anzi è certo, che quell’imposta alta pesa meno di una imposta apparentemente bassa, ma riscossa da un governo prevaricatore.

 

 

6. In un mercato ampio, aperto alla concorrenza, gli imprenditori dovranno ingegnarsi. È vantaggioso che così sia.

 

Se gli ingegneri e gli agronomi sono poco periti nel loro mestiere o sono rari o addirittura non ci sono, se non ci sono maestranze, se i capitalisti non osano arrischiare i loro risparmi nelle industrie, il rimedio non consiste nel chiudere le frontiere alle merci estere. A quei malanni non si rimedia dicendo agli ingegneri: non logoratevi il cervello a fabbricare automobili per il popolo che si possano vendere a 200 dollari l’una, suppongasi a 1000 lire ante 1914; ciò è faticoso e logorante e vi farà guadagnare quattrini solo se riuscite a vendere, invece di 20.000 automobili nuove all’anno, almeno 200.000. Il governo stabilirà un dazio alla frontiera, vieterà ai concorrenti esteri di impiantarsi in Italia, salvo col vostro consenso; e così voi potrete sfruttare il mercato interno vendendo le stesse automobili popolari a 400 dollari l’una e contentandovi di venderne solo 20.000. Non fa d’uopo che il governo dica ai contadini: se volete diventare buoni meccanici, non basta fare un qualche tirocinio dal biciclettaio o dal fabbro o dal riparatore del paese, ma occorre che facciate in città qualche più lunga e grama vita di apprendista, che andiate a qualche scuola serale, e che vi rendiate capaci di guadagnarvi il salario decente che spetta ad un operaio che si rispetti. Con un bravo dazio, il fabbricante è sicuro di sé e potrà impiegarvi anche se renderete poco. Paga il consumatore forzato ad acquistare la macchina paesana invece di quella estera. Ai capitalisti timidi il dazio dice: state tranquilli che io vi garantisco un onesto frutto del vostro capitale. Sarà ottenuto alle spalle dei vostri concittadini; ma sarà certo. Così i capitalisti restano timidi; ma chi non risica non rosica e le grandi imprese importano sempre grandi rischi.

 

 

Chi vuole la Federazione europea offre il vero rimedio alla gravità delle imposte, alla timidità dei capitali, all’imperizia delle maestranze ed alla ingordigia degli industriali. La Federazione, abolendo gli eserciti e le marine e le aviazioni «statali», ne diminuisce il costo; ché un esercito solo, sebbene meglio armato e meglio istruito costa, per testa di abitante, meno di quattro o cinque grossi e di una ventina di piccoli eserciti separati, di cui solo un paio agguerriti sul serio, e diminuendo le probabilità di guerra, scema il costo di preparazione alla guerra. Le imposte diventeranno forse ancora più alte d’adesso; ma essendo indirizzate ad opere di pace saranno meno gravose di quelle odierne e, se gli italiani ed i francesi e i tedeschi non più guasti da nazionalismi rabbiosi sapranno darsi buoni governi nazionali, saranno persino feconde ossia non costeranno nulla, perché un servizio non costa nulla quando avvantaggia almeno tanto quanto costa. I capitalisti, non avendo la comodità di sottoscrivere prestiti statali senza limiti per far fronte a spese di guerra o di preparazione alla guerra, dovranno rassegnarsi a ricevere interessi, invece che del 4 o del 5%, solo del 3 e del 2 e forse anche dell’1%, e saranno costretti a cercare impieghi più attraenti, sebbene più rischiosi, nell’industria e nell’agricoltura. Se a coltivare frumento la terra renderà troppo poco e forse nulla, i proprietari dovranno rassegnarsi a restringere le superfici coltivate a cereali ai terreni più adatti, dove sarà possibile produrre frumento a prezzi di concorrenza, supponiamo 4 o 5 dollari attuali al quintale equivalenti all’ingrosso a 12/15 lire ante 1914. Non si produrranno forse più 80 milioni di quintali all’anno, ma se ne produrranno sempre molti; ché i contadini i quali vivono sul proprio ed i mezzadri ed i fittuari vorranno sempre produrre in casa, per una vecchia abitudine difficile a smettere, il pane che mangiano; e vi saranno sempre agricoltori, i quali, fatti i conti, riscontrando che in un’Europa unificata, potranno procurarsi concimi chimici, aratri, aratrici, mietitrici, trebbiatrici, petrolio a prezzi di concorrenza, non gravati da dazi, la coltivazione del frumento non sarà del tutto da disprezzarsi, e che, con una buona rotazione, con arature profonde e concimazione adeguata, sarà possibile cavar dal fondo quei 20/40 quintali secondo le stagioni e le esposizioni ed il clima ed i terreni, i quali, anche a 12/15 lire ante 1914, daranno un reddito netto relativamente remunerativo. Che se qualche terreno non converrà assolutamente coltivarlo a grano, e se si tratterà non di qualche ettaro, ma anche di forse 2 sui 5 milioni di ettari coltivati a frumento in Italia, non perciò cascherà il mondo. In molti casi il proprietario agricoltore avrà fatto i suoi conti e, non più sostenuto dalla protezione doganale e dai conseguenti prezzi alti, avrà ripetuto il motto di un grande agricoltore del mezzogiorno, uno dei maggiori agronomi dell’epoca immediatamente susseguente al Risorgimento, il senatore De Vincenzi: «nel mezzogiorno coltivare frumento è come giocare a primiera». L’agricoltore semina ed il vento che viene dall’Africa si porta via la messe prossima a maturazione. Se vorrà salvarsi occorrerà si ingegni. Acquisterà trattrici e metterà sossopra il terreno, cercando di immagazzinare negli strati profondi quella poca acqua venuta dal cielo e rullando con altre macchine il terreno superficiale per non lasciarla evaporare. O trivellerà il fondo per captare le correnti d’acqua sotterranee cercando di congiungere insieme acqua e sole, che sono gli agenti più fecondi della produzione agraria nei climi mediterranei. Innalzerà barriere di piante ai limiti dei campi contro l’imperversare dei venti. Alleerà la sulla ed altre foraggiere ai cereali e arricchirà di humus la terra, intraprenderà culture industriali di ortaggi, se avrà potuto provvedersi di acqua; o ricorrerà alla vite, all’olivo, al mandorlo, ecc. ecc. se la sua terra è pertinacemente asciutta. Si adatterà a non avere redditi per anni e forse per decenni lavorando per i figli e per i nipoti. Se non vorrà o non potrà far nulla di ciò, perché gli faranno difetto la perizia, la volontà tenace ed il credito – ma il credito va sempre a chi ha perizia e volontà – neppure in tal caso cascherà il mondo. Basterà che egli se ne vada fuori dei piedi e cessi di disturbare il prossimo seguitando a ripetere al caffè o al circolo la solita solfa: cosa dobbiamo coltivare al luogo del frumento se ci levano il dazio? Andarsene con i suoi piagnistei e con i suoi debiti ipotecari improduttivi e lasciare il luogo a chi non si quereli e non chieda l’elemosina a nessuno.

 

 

Se altro risultato l’abolizione del dazio sul frumento e sulle altre derrate agrarie, compreso il vino, l’olio, le frutta, il bestiame non dovesse avere sarebbe già questo un grande risultato: di sbarazzarci dei proprietari neghittosi, dei latifondisti i quali vivono in città, della gente che affitta le terre ad intermediari e si interessa solo a riscuotere fitti. Tanto meglio se quei terreni non renderanno più nulla e, gravati di imposta invariabile, dovranno essere venduti a prezzo eguale ad una metà, ad una terza o ad una quarta parte dei prezzi toccati in regime di protezione. Qualche altro le comprerà. I compratori saranno di due specie. Capitalisti cittadini, disposti ad investire capitali in migliorie, in costruzione di strade e di case, in arature profonde, in complementi di bonifiche, in opere secondarie di irrigazione, – le opere grosse di bonifica di irrigazione e di rimboschimento non possono che essere l’opera di consorzi pubblici – in piantagioni. Sarà la minor parte come superficie e saranno, come sempre accadde in Italia, di esempio e di sprone agli altri. Gli altri compratori saranno i contadini, i quali con il loro lavoro sapranno coltivare il frumento con vantaggio dove i vecchi proprietari non riuscivano; ed a poco a poco inizieranno, forse un po’ in disordine e senza un piano, tante altre coltivazioni alle quali i signori che al caffè discutevano del dovere del governo di proteggere l’agricoltura nazionale non avevano mai pensato. Questi contadini converrà che lo stato, libero dalle cure della guerra, grazie alla Federazione europea, li aiuti, aprendo esso le strade, promuovendo la costruzione delle case e incoraggiando con sussidi quei complementi di opere di bonifiche e di irrigazione alle quali il capitalista cittadino provvederà poi da sé. Lo stato nazionale provvederà a costruire nei centri naturali, dove già non esistano, case e per l’acquisto di concimi, sementi, attrezzi, affidati a consorzi liberamente costituiti dagli stessi contadini od affittati a volenterosi negozianti, i quali volessero tentare la fortuna nelle campagne. Ed accanto alla scuola, vi sarà il podere sperimentale, con l’agronomo del villaggio pronto a recarsi dappertutto a dar consigli gratuiti e rassegnato a non vedersi ascoltato, se i suoi consigli saranno imparaticci libreschi e non frutto di esperienza illuminata dal sapere.

 

 

Non è così, o suppergiù così, che in tanta parte della Liguria, dove fu possibile, i sassi furono trasformati in giardini di fiori? Se quei liguri avessero seguitato a chiedere agli uomini politici e agli economisti: cosa faremo adesso che il frumento ci arriva da tutte le parti del mondo, e nonostante il dazio, si vende a prezzi che sono la metà od il terzo del costo a cui noi lo produciamo sui quattro palmi di terra che a furia di muretti e di gerle abbiamo accumulata sui greppi dei nostri colli? Che cosa faremo, oggi che gli olivi invecchiano e le olive son scadute di prezzo, sicché non franca neppure la spesa di abbacchiarle e di raccoglierle? Che cosa faremo noi che, con reddito zero, dobbiamo pagare imposte e sovraimposte fondiarie sproporzionate? Poiché nessuno rispondeva, ché non è mestiere né dei politici né degli economisti rispondere a siffatte domande, qualcuno ha cominciato a dar l’esempio; e su quei greppi e in quelle brevi piane ha costruito cisterne e ha ampliato quelle vecchie; ha, con spese diaboliche, raccolto a goccia a goccia l’acqua piovana; ha costrutto, per poterla centellinare, canaletti in cemento o in piombo ed ha coltivato ortaggi e fiori. Sono venute su primizie, che il pioniere ha cominciato a vendere a Savona e a Genova, eppoi, estendendosi il mercato, a Torino ed a Milano. Dopo di lui sono venuti altri, molti altri, la più parte proprietari non di un ettaro, che è già una specie di latifondo, ma di mezzo ettaro, di un quarto di ettaro, di mille metri quadrati e meno; ed i fiori della Liguria sono giunti a Nizza, a Parigi, a Londra, a Berlino, a Stoccolma; e sarebbero seguitati ad andare, in sempre e più belle e nuove varietà, iniziate da qualcuno ed imitate dagli altri, se la guerra non avesse rovinato anche questa iniziativa. La Federazione europea, la quale vuole togliere le cause della guerra in Europa, farà rifiorire questa industria e provocherà il fiorire di tante altre industrie agricole, dal vino all’olio, dalle pesche alle pere, dagli ortaggi agli agrumi.

 

 

7. L’autarcia, lo spezzettamento dei mercati non producono materie prime, carboni e capitali. L’esempio svizzero. La scoperta di vendere ad alto prezzo beni di qualità fina.

 

Ai soliti piagnoni i quali chiedono: come faremo senza materie prime, senza carbone, senza denari a ricostruire l’Italia dopo la guerra distruttrice? rispondiamo: le grosse spese militari, i dazi doganali, l’autarcia, ci hanno forse dato in passato materie prime, carbone e quattrini? Non c’erano, quando i dazi erano moderati e non esisteva l’autarcia[1]; ma dazi ed autarcia non ci diedero le miniere di ferro e di carbone, i pozzi di petrolio che non avevamo, le piantagioni di cotone e di gomma elastica, a cui i nostri terreni non sono adatti e le greggi di pecore alle quali mancano i pascoli, da noi trasformati a culture più redditizie. Eppure, se confrontiamo il 1914 col 1860 l’Italia aveva progredito parecchio e teneva un luogo non ultimo nello arringo delle nazioni produttrici. Perché dubitare che in un mercato più ampio, in un clima politico più libero e sicuro, non si sappia progredire almeno come si fece quando eravamo soli? Perché ritenerci da meno della Svizzera, la quale senza carbone e senza ferro, senza piombo e senza stagno, senza rame e senza zinco, senza cotone e senza gelsi da seta, senza cacao e senza agrumi, senza petrolio e senza gomma elastica, non solo conserva la tradizionale industria alberghiera, non solo mantiene il primo posto nell’industria orologiaia, ma vende in tutto il mondo macchine elettriche, motori, autocarri a prezzi di affezione, cioccolata e conserve di frutta ed alimentari? Li vende perché si è specializzata in prodotti fini ed ha fatto la scoperta ovvia e nello stesso tempo geniale che a vendere roba buona ad alto prezzo, si trova sempre, in un mondo il quale va elevandosi in benessere materiale, qualcuno pronto ad acquistarla. Questa è la nostra via; e non giova rimuginare sui benefici che si possono ottenere seguitando a produrre, all’ombra dell’autarcia economica e dell’isolamento politico quel che tutti son buoni a produrre, le merci ordinarie, come il frumento che è meglio lasciar coltivare dove la terra val poco, perché non esistono altri usi alternativi, o tessuti ordinari, che è preferibile lasciar filare e tessere agli indiani ed ai giapponesi che dicesi per ora si contentino, per vivere, di un piatto di riso cotto nell’acqua e infilato in bocca con le bacchettine.

 

 

CAPITOLO IV

DI ALCUNI ERRORI E TIMORI VOLGARI IN MATERIA ECONOMICA

 

1. L’uso nelle discussioni economiche di parole trasportate dal proprio ad altro significato.

 

Per ora nessuno propone di includere cinesi, giapponesi ed indiani nella costituenda Federazione europea; epperciò questa potrà, se lo riterrà opportuno, difendersi, circondandosi di una barriera doganale bastevolmente alta, contro l’importazione delle merci a buon mercato prodotte dalle genti divoratrici di riso; ma non è fuor di luogo chiarire quanto siano infondate le preoccupazioni di coloro i quali temono, dalla costituzione di un grande mercato europeo, entro il quale uomini e merci possano liberamente muoversi, danni senza numero per il loro paese. Questi danni sono convenientemente descritti in maniera pittoresca con frasi del seguente tipo: – il paese sarà «inondato» da merci estere a buon mercato; – ci sarà una «invasione» di merci a basso prezzo, contro la quale i produttori nazionali saranno impotenti a resistere; – in breve ora, dinnanzi alla strapotenza dei concorrenti esteri agguerriti, forniti di capitali a buon mercato, la capacità di acquisto del paese sarà esaurita. Esaurite le poche scorte d’oro, incapace a vendere all’estero le proprie merci a prezzi abbastanza bassi, con che mezzi il paese acquisterà ancora il necessario per alimentarsi e vivere? Gli stranieri si precipiteranno come cavallette sul paese, e acquisteranno, a vil prezzo, le nostre terre, le nostre case e le nostre fabbriche, sin che alla fine i nazionali siano ridotti allo stato di salariati proletari, al soldo del forestiero; – ovvero, se vorremmo mantenerci indipendenti, mancherà il lavoro, i fumaioli saranno lasciati spegnere, le maestranze dovranno emigrare in cerca di un pane; e il paese ritornerà allo stato della pastorizia e della caccia. Rimarranno nelle città guide per istruire e mendicanti per divertire i forestieri, amanti di antichità, di musei e di rovine.

 

 

Il quadro è terrificante; ma deriva gran parte del suo valore dall’uso di figure rettoriche le quali non hanno niente a che vedere con la sostanza del problema. Le parole «inondazione», «invasione», «guerra economica», «conquista» sono importate da fatti che appartengono ad un mondo tutto diverso da quello degli scambi economici, dei quali unicamente si tratta. Un terreno è «inondato» dall’acqua straripante dai fiumi e torrenti, quando l’acqua, coprendolo di sabbia e di sassi, distruggendo raccolti, colmando canali, guastando strade e piantagioni, ne riduce per anni ed anni la produttività ed è causa di sforzo grande per ricondurlo alla fertilità antica. In che modo possiamo assimilare a tal fatto indubbiamente dannoso l’importazione a basso prezzo di prodotti esteri? Importazione di frumento a 15 lire ante 1914 al ql., invece che a 25 od a 30, per sé significa soltanto «messa a disposizione di uomini di una massa maggiore di frumento». Anche se l’inondazione di frumento giungesse sino al punto, che è assurdo, di consentirci di entrare gratuitamente in possesso del frumento necessario ai nostri bisogni, il fatto in sé non potrebbe da nessuno essere considerato dannoso. Eliminata la necessità di fare lo sforzo necessario a procurarci il frumento, noi potremmo dedicare tutta l’opera nostra resa così disponibile a far qualcosa altro; per esempio, a fabbricare, perdendo all’uopo solo una parte del tempo reso libero dal regalo che qualcuno ci farebbe della materia prima, pane così ben fatto, di forme ed aspetti così diversi ed attraenti, paste alimentari così ben confezionate ed a prezzi così bassi da essere accessibili a tutte le borse e così gradite al palato da crescere l’appetito e la salute dei felici consumatori. Questo, e nient’altro, vuol dire per se stessa «l’inondazione» delle merci estere.

 

 

Parimenti, «l’invasione» delle medesime merci non è connessa col clangore delle trombe, con il fischio delle palle, il tuonare dei cannoni, l’urlo delle bombe cadenti dall’alto, il fumo ed il terrore degli incendi, con cui nella immaginazione degli uomini è connessa l’invasione nemica vera e propria. L’invasione delle merci estere è per sé medesima connessa con l’idea di offerte attraenti al prezzo 5 di merci che noi eravamo abituati ad acquistare al prezzo 6 od 8 o 10, di merci più solide o nuove al posto di altre di scarsa durata e di forma antiquata, di cataloghi ben redatti, i quali ci offrono piantine straniere di rose novità al prezzo di 1 lira l’una al luogo di piantine nazionali al prezzo di lire 2, di commessi i quali ci assicurano che quella stoffa è pura lana forestiera, laddove quella nazionale è mista di cotone e di rayon. Se le allegazioni sono vere, quella è per fermo una invasione sui generis, dalla quale non ci sentiamo danneggiati, una invasione la quale per sé cresce la comodità della nostra vita. In fondo in fondo noi ci augureremo che così gentile invasione giungesse sino al punto di riempirci la casa di ogni ben di Dio mangereccio, di mobili eleganti, di ninnoli graziosi, di scarpe e di vestiti, durevoli e gradevoli all’occhio.

 

 

2. L’importazione di merci estere ci priva dei mezzi di acquistarle?

 

Se qualche dubbio rimane in noi dinnanzi ad inondazioni ed invasioni di indole così peculiare, esso deriva da una preoccupazione: di non avere i mezzi di provocare inondazione ed invasione, di essere ridotti allo stato del Re Mida che moriva di fame perché tutto quel che toccava si convertiva in oro. Al contrario, noi non potremmo, per mancanza di mezzi, toccar nulla delle belle cose straniere, le quali ci inonderebbero, ci invaderebbero, ci assalirebbero da ogni parte. Non potremmo nulla toccare perché le merci stesse straniere ci avrebbero privato dei mezzi di acquistarle.

 

 

Come ciò possa accadere, si tenta di spiegare nella seguente maniera: il consumatore nazionale, provveduto di una data somma di denaro, andando sul mercato segue la regola della miglior sua convenienza; e se la merce straniera, di uguale qualità gli è offerta a prezzo minore, sceglie questa. I produttori nazionali sarebbero nella impossibilità di vendere e quindi di produrre. E poiché nessun consumatore è tale, nessuno è provveduto di denaro, se non ha prima venduto qualcosa – il suo lavoro, i servigi della sua casa, del suo terreno, della sua industria – se nessuno ha potuto vendere niente per la concorrenza al ribasso della merce estera, nessuno è provveduto di denaro e nessuno può acquistare le merci estere delle quali benevolmente i produttori stranieri ci vorrebbero inondare, o con le quali essi vorrebbero invadere le nostre case. La inondazione o la invasione producono così l’effetto terrificante di inaridire i nostri campi, di spegnere i nostri fumaioli pure restandosene nell’alveo dei fiumi o non valicando i sacri limiti della patria. Basta, in questo genere particolarissimo di operazioni belliche, la pura minaccia per produrre l’effetto voluto dal nemico.

 

 

3. Insussistenza di siffatta condotta economica. La divisione del lavoro. Producendo un bene, gli uomini in realtà mirano ad un altro o ad altri beni. Lo scambio incrociato con tre o più permutanti. Le cose prodotte misurano il costo, le cose acquistate il compenso della fatica della produzione.

 

In verità non si comprende quale vantaggio possa il nemico ripromettersi da una siffatta condotta della guerra economica. Vuole o non vuole l’avversario – seguitiamo per il momento ad usare la barocca terminologia usata per indicare la persona di chi ci offre «senza costringerci ad accettare», una merce a noi presumibilmente gradita ad un prezzo minore di quello preteso da altri – vuole o non vuole venderci la sua merce? Se sì, quale interesse ha a privarci del mezzo di acquisto? Per lui la vendita non ha lo scopo di procurarsi denaro. In ogni caso non ha lo scopo di procurarsi la nostra moneta nazionale, che oggi in ogni paese consiste di biglietti, pezzi di carta stampata con su certe parole e certi ghirigori, i quali non hanno corso se non nel paese d’origine. Lo scopo, al più, è quello di procacciarsi moneta universale, avente corso dappertutto, ossia moneta d’oro. Ma l’esperienza, ovvia costante e generalissima, ci dice che neppure questo è il fine vero dello scambio. Gli uomini quando hanno ricevuto oro, moneta universale, non trovano ad essa nessun uso diretto. A meno di essere avari, assorti nella contemplazione e nel palpeggio delle monete d’oro, ognuno si affretta a cambiare l’oro in merci, in derrate, in servigi (fitti di casa, rappresentazioni teatrali, viaggi, servigi personali di domestici, di parrucchieri, di manicuri ecc. ecc.). Se, per il momento, l’uomo non ha desideri abbastanza intensi da indursi a separarsi dalla moneta, la deposita in banca, riservandosi di ritirarla più o meno presto, quando vorrà convertirla in merci o servigi; e la banca la dà a mutuo a chi se ne serve per comprare merci o servigi (materie prime e mano d’opera per l’esercizio dell’industria sua) salvo a restituirla quando avrà rivenduto il prodotto delle sue operazioni in industriali. In ogni caso il produttore produce merci e le vende non per procurarsi denaro, il quale non ha per lui nessuna utilità diretta, bensì, per mezzo del denaro, per acquistare le merci ed i servigi dei quali ha bisogno. L’avvocato dà pareri, in parte per il gusto di esporre la propria opinione su argomenti che lo interessano; ma, al punto di vista economico, dà pareri allo scopo di procurarsi vestiti, alimenti, casa, riscaldamento per sé e per la famiglia. L’artigiano intarsia, sì, con diligenza lo stipo, ordinatogli dal cliente, perché a lui piace il lavoro ben fatto; ma lo scopo del suo lavoro non è di fabbricare e possedere stipi intarsiati; ma, col mezzo di questi provvedere sé e la famiglia di alimenti, scarpe, vestiti, casa, medicine e via dicendo. Lo scopo della sua produzione non sono le cose da lui prodotte; sono quelle da lui desiderate ed acquistate.

 

 

L’avvocato e lo stipettaio hanno riflettuto che se volessero da sé produrre le scarpe, i vestiti, gli alimenti, l’appartamento di cui hanno bisogno, non verrebbero probabilmente a capo di nulla; e, volendo far tutto da sé, si ridurrebbero a vivere, come i selvaggi o come Robinson Crosuè, in grotte od in capanne di frasche, miseramente ed in continuo affanno di morire di fame o di freddo; ed hanno concluso che il partito migliore era quello di fabbricare solo pareri e solo stipi. Essi si sono specializzati in questa bisogna e vi hanno raggiunto un grado più o meno alto di eccellenza. Così hanno fatto tutti gli altri uomini; e così è nata quella la quale si chiama divisione del lavoro. La quale non conosce confini di stati o di province o di comuni. Se non esistessero dazi e confini e passaporti, tutto il mondo sarebbe un paese solo; e tutti gli uomini si scambierebbero i loro prodotti l’un l’altro. A nessuno verrebbe in mente di parlare di inondazioni di stipi in casa dell’avvocato e di pareri in casa dello stipettaio; perché tutti comprenderebbero che l’avvocato ricorre allo stipettaio soltanto quando desidera uno stipo e che lo stipettaio ricorre all’avvocato soltanto quando sa di avere vantaggio ad ascoltarne il parere. Non occorre, perché lo stipettaio possa vendere lo stipo all’avvocato, che egli attenda il momento, che potrebbe non giungere mai, di aver bisogno dei suoi pareri. A questo mondo, basta che ci sia sempre qualcuno bisognoso di pareri d’avvocato, per es. il sarto a cagione di un cliente litigioso. Il sarto chiede e paga il parere dell’avvocato; questi, colla moneta ricevuta acquista lo stipo; e lo stipettaio a sua volta si fa fare il vestito dal sarto. Così il sarto ha avuto il parere, che era il bene da lui desiderato, l’avvocato possiede e gode lo stipo e lo stipettaio veste panni. Estendiamo, a 100, a 1000, ad 1 milione, a 100 milioni di persone l’esempio ora fatto per tre persone e, salvo la complicazione, nulla sarà cambiato al quadro. In regime di divisione del lavoro, ognuno produce non per sé, ma per gli altri; ed ognuno considera il costo della merce da lui acquistata in ragione del costo, della fatica sopportata nel produrre la merce da lui data in cambio. Per l’avvocato il costo dello stipo non è dato dal numero delle lire da lui pagate per acquistarlo, ma dalla fatica durata, dal tempo consumato nel pensare e nell’elaborare il parere da lui dato al sarto. Le lire sono numeri astratti, che per sé non significano nulla. Quel che conta è la fatica, l’energia mentale spesa nel produrre il parere. Si potrebbe anche dire che per l’avvocato il costo dello stipo è dato dal sacrificio sofferto nel rinunciare a quell’altro bene, ad es. un grande trattato giuridico, a cui egli ha preferito lo stipo. Mentalmente, lo stipettaio reputerà caro od a buon mercato l’abito nuovo paragonandolo al numero di giorni consumati ed all’abilità impiegata nel fabbricare lo stipo. Se egli, vendendo lo stipo, riesce a procurarsi un vestito, un paio di scarpe ed un cappello, riterrà di avere avuto tutta questa roba a buone condizioni; se solo il vestito, si lagnerà che il lavoro dello stipettaio è male remunerato. E così per il sarto.

 

 

4. Gli scambi hanno luogo fra persone e non fra stati.

 

Le merci ed i servigi si pagano con le merci ed i servigi; ed il denaro serve solo per facilitare gli scambi. Se l’avvocato e lo stipettaio si trovassero uno di fronte all’altro, non avverrebbe alcuno scambio; ché l’avvocato desidera bensì lo stipo, ma lo stipettaio non sa cosa farsene dei pareri dell’avvocato. Per fortuna c’è il sarto, il quale ha litigato con il suo cliente, ed ha urgenza del parere dell’avvocato; mentre lo stipettaio è disposto a farsi fare il vestito dal sarto; e così tutte le cose si accomodano.

 

 

Si accomoderebbero anche fra sarti, stipettai ed avvocati o meglio fra fabbricanti di panni inglesi, segherie produttrici di assi per mobili della Scandinavia e fioristi della riviera ligure; se i singoli stati non costituissero unità territoriali separate e non venisse in mente l’idea balzana che gli scambi, invece di verificarsi fra fabbricanti i panni inglesi i quali hanno bisogno di mobili fabbricati con assi scandinavi, segherie scandinave, i cui proprietari vogliono rallegrare la loro merce con fiori freschi recisi liguri, e fioristi liguri i quali vogliono vestire panni inglesi, si verificano invece fra Inghilterra, Svezia ed Italia. Ed allora, invece di concepire i tre scambiatori come tre brave persone le quali, dopo avere un po’ litigato sul prezzo, si mettono d’accordo per effettuare lo scambio tripartito conveniente a tutti e tre, si guarda a tre stati, a tre paesi, a tre nazioni le quali, ringhiando l’una contro l’altra, si «inondano», si «invadono» reciprocamente con merci destinate a mandare in rovina il nemico, l’avversario intento a distruggere l’industria nazionale.

 

 

5. Anche il produttore peggio situato può combinare la produzione in guisa da avere qualcosa da vendere.

 

Nove decimi delle contese fra stato e stato derivano da finzioni e trasposizioni verbali di questo genere; ma questa è certamente la più balzana fra le figure retoriche adoperate nel linguaggio volgare e politico per rappresentare tragicamente un fatto elementare della vita quotidiana; gli scambi avvengono a causa della divisione del lavoro introdottasi tra gli uomini per accrescere la massa di ricchezza prodotta da tutti e per accrescere quindi la massa di beni che ognuno può procacciarsi vendendo agli altri le cose da lui stesso prodotte in maggiore abbondanza, grazie alla specializzazione del lavoro. Non vi è uomo, per quanto inabile e scarsamente fornito di capitali, il quale qualcosa non sia in grado di produrre. Anche l’agricoltore italiano il quale sia ridotto a coltivare un terreno ingratissimo, qualcosa è in grado di produrre. Egli può scegliere due vie: o coltivare in quel terreno tutte le derrate di cui ha bisogno; frumento, granoturco, erba per le pecore, bosco per trarne legna da riscaldamento, viti per il vino, olivi per l’olio, ortaggi per il desco famigliare. Egli spera in questo modo di non aver bisogno di acquistare nulla, ché il poderetto gli fornisce tutto ciò di cui ha bisogno. Nel forno famigliare cuocerà egli stesso il pane; la donna sua gli filerà e tesserà la lana delle pecore; nel frantoio e nella cantina produrrà olio e vino; ortaggi e frutta basteranno alla parca mensa. Oppure egli, osservando che nel pascolo l’erba viene grama, le viti non prosperano e le pannocchie di granoturco riescono stente, si ridurrà a coltivare, oltre l’orto di casa, frumento alternato con culture erbacee miglioratrici ed a curare bene e rinnovare gli olivi esistenti sul fondo. In verità, egli non ha la libertà di scelta fra le due vie; ché in ogni caso ha bisogno di vendere qualcosa per procacciarsi i beni ed i servizi, che assolutamente non può produrre da sé: le scarpe, i vestiti, il petrolio o l’acetilene o la luce elettrica per la illuminazione, i servigi pubblici (imposte), i libri scolastici per i ragazzi, le medicine ecc. Il contadino fa il conto, pressapoco, quale sia l’ammontare complessivo che egli deve spendere in denaro per procacciarsi le cose di cui ha bisogno e che non può cavare dal podere, supponiamo 3.000 lire; e, fatte le sue esperienze, si appiglia a quella combinazione di culture ed a quel reparto della superficie di terreno del suo podere che gli dà, oltre alle derrate da lui direttamente consumate, la possibilità di procurarsi, con il minimo di fatica, le 3.000 lire a lui necessarie. Fra le tante combinazioni di frumento, erbe foraggere (il che vuol dire bestiame grosso o minuto da vendere, latticini, formaggi) ed ulivi una ve ne sarà che gli dà il desiderato risultato. Se la sua terra è povera, forse non riuscirà a cavarne le 3.000 lire per gli acquisti in denaro; ed in tal caso egli un po’ rinuncerà a consumare una quota ulteriore dei suoi prodotti ed un po’ ridurrà le spese fatte fuor del podere, ad esempio, da 3.000 a 2.500 lire.

 

 

La sterilità della sua terra non gli impedisce di vendere; riduce solo la massa dei beni che egli può offrire in vendita e quella dei beni che egli può comprare. Se un dazio aumenterà il prezzo del suo grano, non perciò cresce la quantità di grano che, con identica fatica, egli si procura; cresce solo la quantità dei beni che egli si può procurare. Egli sta meglio; ma sta peggio il consumatore del grano, suo connazionale, il quale sarà costretto ad acquistare il pane a più alto prezzo ed avrà, ad ugual fatica, una massa di beni minore a sua disposizione. Potrà darsi e sarà in media anche probabile, che quel consumatore di pane stenti la vita ancor più del contadino produttore del pane. Ad ogni modo, non è vero che la mancanza del dazio protettivo per il grano costringa ad abbandonare i terreni a grano. Costringe a variare le culture per produrre il sovrappiù necessario alla vita e che il contadino non può produrre da sé. Seppoi un terreno è veramente tanto sterile che il contadino, stentando e logorandosi, non riesce a cavarne il necessario ad una vita miserabile, forseché sarà un male se quel fondo ritornerà a pascolo od a bosco e se il contadino, rimasto disoccupato, andrà in città a fare un mestiere che gli dia qualcosa di più di quel che gli offre la terra grama? L’abbandono della montagna, attorno a cui si sparge tanto inchiostro, è un fatto economicamente logico. Invece di consumare 10 o 20 giorni di lavoro a produrre un quintale di segale su un terreno impervio, il montanaro preferisce lavorare 5 soli giorni in fabbrica, lucrando così la somma occorrente per acquistare un quintale di buon frumento. C’è sugo a indurre col dazio il montanaro a seguitare nella coltura della segale con gran fatica, quando con minor fatica e col solo abbandono della terra a segale in montagna, egli si procura egualmente il buon pane? Lo scopo dell’attività umana non è quello di faticare a coltivare terre in luoghi ingrati; ma di far vivere gli uomini in condizioni degne. Se gli uomini ritengono di potersi procacciare i mezzi di vita altrimenti che col coltivar terreni sulla cima del monte Bianco, sarebbe assurdo rendere conveniente ad essi faticar molto per ottenere poco. Anche se questo poco sarà venduto ad alto prezzo, gli uomini potranno nel loro complesso consumar poco e dovranno vivere malamente.

 

 

6. L’errore di rallegrarsi della diminuzione delle importazioni e dell’aumento delle esportazioni. È vero, a parità di altre condizioni, il contrario. Le esportazioni sono il costo, la fatica; le importazioni sono il compenso, lo scopo della fatica durata nel lavorare.

 

Posti così, nella loro nudità, i fatti, è evidente essere errata la concezione che comunemente si espone nel parlare e nello scrivere quotidiano, delle importazioni e delle esportazioni. Per lo più, giornalisti ed uomini politici si rallegrano quando possono annunciare che le importazioni dall’estero sono diminuite e le esportazioni verso l’estero sono aumentate, sia in volume che in denaro. Sembra che il paese arricchisca perché incassa molto e spende poco. Può darsi che ci sia del vero nell’opinione così esposta; se ad esempio ciò vuol dire che noi esportando un miliardo di più di quanto non abbiamo importato, abbiamo esportato macchine locomotive, rotaie, ecc. ed abbiamo così fatto investimenti di capitale all’estero, senza subito ottenere il pagamento. Lo otterremo poi, si spera con utile, ricevendo negli anni futuri interessi, dividendi e quote di ammortamento. Può anche darsi che, esportando un miliardo di più dell’importato, abbiamo rimborsato un debito vecchio, liberandoci dell’onere di pagare in avvenire i relativi interessi. Possono darsi altre ipotesi ancora, le quali spiegano razionalmente il fatto. Ma, parlando in generale, che cosa vuol dire importare? Evidentemente, ricevere merci e derrate che noi desideriamo e che godremo; le quali ci serviranno a soddisfare nostri diretti bisogni od a fare impianti industriali o migliorie agricole fruttifere in avvenire. Cosa vuol dire esportare? Altrettanto evidente, dare merci e derrate che a noi costano fatica, privarcene, rinunciare a farne uso. Le esportazioni sono il sacrificio, il costo da noi sostenuto; le importazioni sono il vantaggio, il bene da noi desiderato. Razionalmente discorrendo, i nazionali di qualunque paese hanno interesse a ridurre al più possibile le esportazioni ad aumentare il più possibile le importazioni. Le esportazioni sono il costo, che noi vorremmo minimo, delle importazioni che noi vorremmo massime. Se noi discorressimo, cosa che è fuor di luogo, in termini morali, dovremmo dire che le esportazioni sono il male e le importazioni sono il bene. Nella vita privata quando di solito ragioniamo bene, tutti desideriamo esportare poco, ossia dare pochi pareri d’avvocato, pochi stipi o vestiti ed importare in cambio assai, ossia l’avvocato uno stipo preziosamente intarsiato, il sarto un parere ben elaborato, che gli faccia vincere la causa col cliente, e lo stipettaio un vestito di lana pura ben confezionato. Poiché tutti desideriamo la stessa cosa: esportare molto ed importare assai, i desideri non possono per nessuno essere pienamente soddisfatti. Il mercato deciderà quali siano le ragioni di scambio, ossia il prezzo dei pareri degli avvocati, degli stipi più o meno bene intarsiati o dei vestiti di lana pura o mista. Resta il fatto che nessuno, né individuo, né quella accolta di individui che è detta stato, corre il pericolo, che sarebbe augurabile, di restare soffocato dalla inondazione delle merci. Ognuno compra, ai prezzi del mercato, solo quella quantità di beni e servigi che uguaglia quella che può dare in cambio e nessuno, a meno che egli sia un mendicante od un lestofante, gli darà mai nulla in cambio di niente.

 

 

7. Bassi salari dei paesi poveri ed alti salari dei paesi ricchi. Insussistenza dei reciproci timori; e spinta verso l’alto in virtù della vicendevole concorrenza.

 

Una volta che ci si sia ben messi in mente che i beni ed i servigi si scambiano esclusivamente con beni e servigi, verrà meno la preoccupazione che, a sentir parlare di federalismo europeo, è messa innanzi da parti opposte; dai danesi, i quali pagando ai loro casari alti salari per la confezione del burro e del formaggio venduto in Inghilterra, temono la concorrenza del burro e del formaggio della Lombardia, dove i salari monetari sono uguali alla metà di quelli correnti in Danimarca, o, peggio, dei prodotti degli Abruzzi e delle Calabrie dove forse non arrivano alla quarta parte; e nel tempo stesso dai lombardi e dagli abruzzesi i quali temono, quando tutto il mercato europeo fosse unificato, di non potere resistere alla concorrenza, nonostante i bassi salari da essi pagati, dell’industria casearia danese, fornita di impianti, di meccanismi, di frigoriferi tanto più perfezionati e di mezzi di comunicazione tanto più rapidi.

 

 

Intanto si rifletta che formaggi lombardi e caciocavalli abruzzesi coesistono in Italia; e sinora non si sono distrutti a vicenda, nonostante i bassi salari, la primitività dei mezzi produttivi e le abitudini randagie di transumanza degli abruzzesi, ed i più alti salari, la sedentarietà nelle stalle e gli impianti più perfezionati dei lombardi. Se gli abruzzesi sono più sobri ed i lombardi più esigenti, c’è però una punto di incontro nel prezzo dei prodotti rispettivi, i quali, a parità di bontà e di altre qualità di sapore e di profumo variamente apprezzate dai diversi consumatori, debbono avere un prezzo identico sullo stesso mercato e nello stesso momento. Se a parità di prezzo di vendita del prodotto, il casaro lombardo riceve venti lire al giorno di salario ed il pastore abruzzese solo dieci lire, ciò vuol dire che si è formato un equilibrio per cui le due industrie possono coesistere nonostante la diversità dei salari. Dobbiamo anche qui rovesciare la proposizione solita: non già i salari determinano il prezzo, ma il prezzo determina i salari. Sul mercato italiano unificato, con molti attriti e molte deviazioni dovute alle peculiarità dei formaggi prodotti, dei gusti delle diverse regioni, dei costi dei trasporti, si forma dall’incontro delle quantità offerte e domandate di formaggio un prezzo dello stracchino lombardo e del caciocavallo abruzzese. Da quel prezzo dipende il ricavo dell’impresa casearia nelle due regioni. Se il salario è di 20 lire al giorno in Lombardia e di 10 lire ai giorno negli Abruzzi, ciò vuol dire che l’impresa casearia è organizzata in tal maniera nelle due regioni, la qualità e la produttività dei prati e dei pascoli è tale, le razze del bestiame lattifero e la offerta e la domanda di mano d’opera sono rispettivamente siffatte che dal ricavo della impresa l’imprenditore è messo in grado ed è costretto dalla concorrenza degli altri imprenditori a pagare venti lire al casaro lombardo e solo dieci lire al pastore abruzzese. Col tempo, tutte queste condizioni potranno mutare; anzi sono già mutate. La transumanza, ossia l’emigrazione delle pecore dalle montagne abruzzesi alle piane della campagna romana durante l’inverno ed il ritorno alla montagna nell’estate, si è attenuata col progredire dell’agricoltura stabile nella campagna romana. Oggi, maggior copia di latticini si produce in loco nelle grandi imprese della campagna, con mezzi tecnici perfezionati ed a cosidetto alto costo, ossia pagando alti salari non dissimili da quelli usati in Lombardia; ma l’alto costo è la conseguenza, non la causa, dell’alto prezzo a cui i nuovi latticini di qualità si vendono sulla piazza di Roma. Si sono trasformati i prodotti; e per trasformarli si è dovuto organizzare l’industria su basi tecniche moderne. Il pastore abruzzese il quale si contentava di dieci lire al giorno, perché la sua produttività era quella che era e correlativamente le sue esigenze di cibo, vestito e casa erano quelle che erano, si è trasformato in operaio specializzato, di cui il numero, la produttività, le esigenze sono diverse, ed a queste differenti condizioni del mercato del lavoro corrispondono salari di venti lire al giorno; e questi salari maggiori, possono essere pagati perché il latte è venduto in condizioni ed a prezzi diversi da quelli propri del caciocavallo abruzzese. Se la trasformazione tecnica ed economica della industria continuerà, accadrà probabilmente che non si sentirà più parlare di pastori abruzzesi pagati a dieci lire al giorno, di transumanza delle pecore e siffatte tradizioni antiche. Ma il latte pastorizzato ad alto prezzo non avrà ucciso il caciocavallo pecorino; né gli alti salari avranno eliminati i bassi salari o viceversa. Nessuno sarà morto; ma si sarà, anzi si è già operata una trasformazione nel tipo dell’industria casearia per la quale, col progredire della tecnica produttiva, quei lavoratori, i quali prima dovevano contentarsi di partecipare al magro banchetto di una industria a bassa produttività per unità di lavoro impiegata, oggi ed in avvenire potranno partecipare al prodotto crescente di una industria progredita. Che se l’industria danese è già oggi ad un livello più alto di produttività di quella lombarda ed i suoi casari possono perciò godere di salari, ad esempio, di 40 lire al giorno, né essi avranno a temere della concorrenza dei produttori lombardi od abruzzesi, né questi di quella dei danesi. Costoro pagano salari alti perché hanno saputo organizzare tecnicamente la produzione del latte in maniera più complessa, specializzandosi nella produzione del burro per il mercato inglese; epperciò rinunciando da un lato alla elaborazione del latte nelle singole aziende rurali e dall’altro all’alimentazione del bestiame lattifero col solo o col prevalente prodotto del podere.

 

 

L’industria si è specializzata e diversificata. Importatori e produttori di mangimi specialmente destinati alle vacche da latte forniscono agli agricoltori una quota notevole degli alimenti necessari alla stalla; sicché quelli prodotti dal podere diventano quasi parte secondaria o subiscono essi stessi una trasformazione preventiva, aiutata da sostanze importate dal di fuori ed utili a conservare sapidità e freschezza. Né l’agricoltore elabora il latte; il quale invece due volte al giorno è trasportato, grazie ad una particolare organizzazione cooperativa di trasporto, a latterie pure cooperative, dove, coi mezzi tecnici più moderni, dal latte si ottengono i diversi prodotti ai costi minimi; ed i residui sono restituiti alle fattorie medesime per l’alimentazione del bestiame, specie porcino, laddove il burro, controllato e stampigliato ed impaccato, è spedito in Inghilterra da imprese di trasporti marittimi, pure essi facenti parte della organizzazione cooperativa danese. I salari alti pagati ai contadini ed agli operai specializzati, i quali contribuiscono al prodotto ultimo non debbono essere considerati come un costo dell’impresa, ma invece come il frutto della organizzazione diversa e più produttiva che in quel paese si è saputo instaurare. Il basso salario del pastore abruzzese non può fare concorrenza all’alto salario del casaro danese; perché a raggiungere l’intento della concorrenza, quel salario, rimasto invariato, dovrebbe incastrarsi in una organizzazione simile a quella danese; ma in tal caso il casaro abruzzese non sarebbe più tale e, diventato operaio specializzato pretenderebbe ed otterrebbe, data la sua diversa e maggiore produttività salari uguali a quelli danesi. Né i salari alti della Danimarca fanno concorrenza a quelli più bassi abruzzesi; perché ad ottenere l’effetto di porre eventualmente lo stesso prodotto (burro) sul medesimo mercato (inglese) a prezzo minore di quello possibile per l’industria casearia abruzzese fu d’uopo che quella danese si attrezzasse in modo compiutamente diversa; sicché il prezzo eventualmente più basso del burro e il risultato non dei soli alti salari, ma della divisione del lavoro fra importatori e produttori di mangimi specializzati, agricoltori produttori di latte, cooperative di ritiro del latte nelle fattorie, e di una trasformazione nelle latterie, imprese di trasporto per mare, imprese di distribuzione nei centri di consumo. Se l’industria danese volesse anche conquistare il mercato italiano, dovrebbe attrezzarsi all’uopo, sopportare costi di trasporto e di vendita probabilmente più alti. Alla lunga l’esempio delle imprese meglio organizzate reagisce su quelle antiquate; ma il processo non è rapido e lascia tempo agli adattamenti necessari per spingere in alto la produttività ed i salari dei luoghi più arretrati. Una Federazione economica europea, rendendo i mercati nazionali intercomunicanti tra di loro, accelera il processo, con vantaggio particolarmente dei paesi a bassi salari, obbligati dalla concorrenza a perfezionare i loro sistemi produttivi ed a mettersi in grado di rimunerare più largamente le diverse categorie dei propri collaboratori.

 

 

CAPITOLO V

FEDERALISMO E VALORI SPIRITUALI

 

Gli avversari del federalismo muovono un’accusa finale contro di esso. Partendo dalla premessa che i valori spirituali, che il fervore degli studi scientifici, che l’intensità della vita letteraria artistica musicale, che la cultura politica debbano avere come fondamento un grande rigoglio economico, affermano che in un’Europa federata scompariranno le culture nazionali od almeno queste inaridiranno, accentrandosi ogni movimento culturale nei luoghi dove sarà concentrato il movimento economico.

 

 

Innanzitutto, osserviamo nuovamente che Federazione europea è sinonimo di divisione del lavoro e non di accentramento economico. Può darsi che talune industrie, come quella siderurgica, si concentrino nei luoghi più vicini alle miniere di ferro ed alle miniere di carbone. Ma i luoghi così designati dalla natura non sono uno solo e non si trovano in un solo paese. D’altro canto, località sprovviste di carbone e di ferro, come il litorale ligure, possono essere accessibili alle materie prime per la facilità dei trasporti marittimi e, perciò solo, essere in grado di produrre a buon mercato. Lo sviluppo delle industrie di macchinario elettrico e dell’orologeria in Svizzera dimostra che quel che conta per la attitudine a progredire economicamente è sovratutto la capacità degli uomini ed organizzare le imprese al punto di vista della perfezione tecnica ed a quello vendita.

 

 

Nella storia, gli esempi più illustri di prosperità economica, non sono legati ad una specializzazione imposta dai luoghi, ma alla capacità di saper lavorare bene in luoghi talvolta sprovvisti dalla natura di fertilità naturale, di abbondanza di miniere, di retroterra ampio: Venezia, Genova, Firenze, le città olandesi sorte in mezzo alle acque, le città anseatiche, Trieste e Londra. Il fatto veramente importante della prosperità economica è l’uomo. In un’Europa unificata, la attività economica, sarà il frutto della capacità degli uomini a sapere sfruttare le meravigliose occasioni offerte da un mercato amplissimo, nel quale la domanda prenderà aspetti tanto ricchi e varii da stimolare al massimo l’ingegno degli eletti chiamati a dirigere imprese. Nulla ci dice che la percentuale degli organizzatori economici sia minore in un paese che in un altro; e che la emulazione di essi debba assumere l’aspetto di una corsa di tutti verso pochi luoghi che nessuna Provvidenza ha designato al privilegio del monopolio economico.

 

 

La esperienza dei paesi federati esistenti non ci fornisce alcun indizio di un siffatto concentramento: né nella Svizzera l’industria si è concentrata nel cantone dove risiede la città capitale; ma fatta ragionevole parte alle occasioni diverse presentate dalle montagne, dai fiumi e dai laghi, si può dire che lo sviluppo sia in diversa maniera equamente distribuito su tutto il territorio della Confederazione. Negli Stati Uniti d’America, la vita economica non è concentrata nella Empire city di New York; ma la Nuova Inghilterra, gli stati della costa atlantica, le città centrali dei grandi laghi, i centri carboniferi come Pittsburgh, le città della costa del Pacifico ed ora anche le regioni delle montagne rocciose (Far West) e quelle della costa del golfo del Messico partecipano vivamente allo sviluppo economico. Dovunque esiste la possibilità di un profitto, ivi accorrono i capitali; e poiché le possibilità di profitti sono date dalla terra, dal clima, dalle miniere, dalle acque, soltanto i nudi deserti o le alte montagne sfuggono alla legge della progressiva utilizzazione; ed anzi anche i deserti e le montagne, col diffondersi della ricchezza e delle possibilità di ozio risanatore, offrono lo strumento all’esercizio di una delle industrie, quella turistica, destinata col tempo ad assumere uno sviluppo sempre più grandioso. La guerra, e non la pace, favorisce concentramenti artificiali ed i monopoli. La Federazione, garantendo la pace, dà modo ad ogni regione o meglio ai suoi abitanti di far valere al massimo le proprie attitudini.

 

 

Non vi è traccia, nelle federazioni esistenti, di alcuna tendenza a concentrare la vita intellettuale e spirituale in alcune poche località disertando le altre. L’esempio della Svizzera insegna di nuovo. Sebbene la costituzione del 1874 lo consenta, la Confederazione non ha fondato, accanto al Politecnico di Zurigo, nessuna Università federale; e non vi è alcuna probabilità lo faccia, dinnanzi alla gelosa cura con la quale i Cantoni difendono e fomentano le proprie università, dalla più antica dalla vita semimillenaria di Basilea, attraverso quelle di Ginevra, Losanna, Berna, Zurigo, Neuchâtel, all’ultima di Friburgo. Gareggiano fra di loro i centri culturali ed editoriali di Ginevra, di Zurigo, di Basilea, di Losanna; e neppur centri minori, come quello del Canton Ticino, difettano di una simpatica attività letteraria ed artistica. Non vi è una città la quale imponga alle altre i proprii giornali; e diarii pubblicati a Ginevra, a Losanna, a Zurigo ed a Basilea hanno sempre avuto fama ed autorità internazionali, nonostante il limitato numero di lettori ai quali si indirizzano.

 

 

Negli Stati Uniti si osserva il medesimo fenomeno. New York non è il centro della vita culturale americana. Ai giornali ed agli editori di New York fanno concorrenza, spesso vittoriosa, giornali ed editori di Washington, Filadelfia, Boston, Chicago e San Francisco. Talune delle riviste settimanali di maggior diffusione, come la Saturday Evening Post e Life non vedono la luce nella capitale commerciale del nuovo mondo. Università di gran fama sorsero fuori di New York: a Cambridge Mass (Harvard) a New Haven (Yale), a Princeton (Princeton Un.), od in città solo in seguito diventate gigantesche, come la Chicago University. La università di California non sorse a S. Francisco, ma in una piccola cittadina del golfo; e la Stanford University fu eretta in rasa campagna. I singoli stati e gli uomini del luogo hanno l’orgoglio di fondare e far prosperare una università propria in concorrenza con quelle degli stati e delle altre città.

 

 

Il che non accade per accidente. Federazione invero è il contrario di assoggettamento dei varii stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, come la Francia (Parigi), la Germania (Berlino), la Spagna (Madrid), dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto al basso. Ma Federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici: difesa nazionale, moneta e comunicazioni. La funzione di difesa e di offesa contro il nemico richiede il massimo di concentrazione di comando in un solo luogo e di ubbidienza delle varie parti dell’organismo nazionale. Sono le funzioni economiche del governo della moneta, delle poste, telegrafi e telefoni, delle ferrovie, della navigazione aerea e simili che richiedono unicità di direttive. Liberiamo gli stati da questi compiti accentratori, affidandoli a corpi tecnici federali, quanto più è possibile privi di splendore esteriore; facciamo sì che siano adempiuti da tecnici militari ed economici; e noi avremo non scemata ma accresciuta l’importanza morale e spirituale dei singoli stati, ai quali continuerà a spettare il governo delle cose che sono veramente importanti per gli uomini: la giustizia, la sicurezza, l’educazione, i rapporti di famiglia, la tutela dei deboli, le assicurazioni sociali, la lotta contro la indigenza, le bonifiche, i rimboschimenti. La Federazione ha bensì un fondamento economico. Essa è il risultato necessario delle moderne condizioni di vita le quali hanno unificato il mondo al punto di vista economico, trasformandolo in un unico mercato. Spiritualmente, essa mira però alla meta opposta; che è quella di liberare l’uomo dalla necessità di difendere a mano armata il proprio piccolo territorio contro i pericoli di aggressioni nemiche ed a lui, così liberato, consente di aspirare a prendere parte, utilizzando al massimo le risorse del proprio piccolo territorio, alla vita universale. Liberazione dalla materia e non asservimento ad essa: questa è la ragion d’essere della Federazione; epperciò anche è sua ragion d’essere non la mortificazione ma la esaltazione dello spirito.

 

 



[1] Seguito a scrivere autarcia e non autarchia; perché, come ha dimostrato, primo in Italia, il Brondi in una vecchia nota presentata all’Accademia delle scienze di Torino, lo scrivere autarchia è uno sproposito, quella parola riferendosi esclusivamente alla sovranità politica, laddove la parola greca la quale significa autosufficienza economica è precisamente autarcia.

Governo parlamentare e presidenziale

Governo parlamentare e presidenziale

«La nuova Europa», 31 dicembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 85-92

Riflessioni di un liberale sulla democrazia (1943-1947), Olschki, Firenze, 2001, pp. 90-95

 

 

 

 

In un articolo, nel quale ho letto un riferimento assai benevolo al mio ritorno in Italia, “il politico” definisce «pura astrazione» un quadro da me delineato sul Risorgimento liberale del tipo di governo con un primo ministro. Che questi, una volta designato, scelga i suoi colleghi in guisa che rappresentino le forze parlamentari da cui è stato designato, ma con scelta insindacabile e che il gabinetto così costituito debba governare come un tutto unitario, cessando i singoli ministri di rappresentare i partiti, da cui trassero origine, pare al “politico” «un punto di arrivo ideale» piuttostoché «una situazione concreta in continuo svolgimento, attraverso la quale è necessario tendere a quel punto». Ed “il politico” aggiunge che qui si scambia il governo parlamentare (tipo inglese) con quello presidenziale (tipo americano, o svizzero, quest’ultimo però, fatto capitale, collegiale).

 

 

Vorrei, senza fare alcun riferimento alla situazione politica attuale italiana, offrire qualche chiarimento intorno ai due tipi di governo, quello parlamentare e quello presidenziale, che la “dottrina” classica considera come assai diversi l’uno dall’altro e quasi contrapposti. Ma la “dottrina” è stata fabbricata dai cultori del diritto pubblico, i quali argomentano dal testo delle costituzioni scritte e si accorgono delle consuetudini solo quando esse sono codificate in trattati venerandi per l’autorità degli scrittori.

 

 

Sarebbe parlamentare quel governo, il quale deriva sostanzialmente la sua origine, costituzione autorità dalla camera elettiva, nasce in virtù di un voto di fiducia e muore in conseguenza di un voto di sfiducia della stessa camera; e questo sarebbe il tipo dominante nella Gran Bretagna e nei Dominions e quello che correva o tendeva ad affermarsi nei paesi scandinavi, nell’Olanda, nel Belgio, nella Francia e nell’Italia di prima il 1922. Sarebbe presidenziale quel governo, il quale trae la sua autorità dal voto diretto degli elettori. Questi (Stati Uniti) scelgono il presidente ed il presidente a sua volta sceglie i membri del gabinetto, responsabili solo verso di lui e non verso le due camere del congresso, del quale non sono mai parte ed al quale non possono neppure presentarsi. Le due camere discutono, in assenza dei ministri, le proposte di legge presentate dal presidente, e modificate o sostituite dalle commissioni delle due camere ed, a parità, i disegni di legge offerti dai singoli rappresentanti o senatori.

 

 

Il legame fra il potere esecutivo (presidente) e quello legislativo (congresso) si crea attraverso ad “amici” ufficiosi del presidente, membri di una delle due camere e sostenitori in esse delle idee e delle proposte dell’”amministrazione”. Il sistema funziona, nonostante attriti non piccoli, in virtù di quella mirabile capacità di adattamento alle istituzioni esistenti, che è propria degli anglosassoni. Recentemente, il signor Cordell Hull ha iniziato una mutazione di fatto nei rapporti fra “amministrazione” e “congresso” per mezzo di relazioni orali presentate ai senatori ed ai rappresentanti riuniti in sedute ufficiose (informal), e con rapporti quotidiani coi membri più influenti dei due corpi, intesi a tenerli al corrente dei propositi dell’amministrazione e ad eccitare i pareri di essi, innanzi che si traducano in realtà. Siamo ancora lontanissimi dal sistema dei voti di fiducia; ma si tende a creare un ponte tra i due poteri, cosicché il legislativo sia informato preventivamente delle intenzioni dell’esecutivo e diminuisca così il pericolo di un voto contrario al fatto compiuto, da parte del congresso e specialmente del senato, come quello che impedì la ratifica del trattato di Versailles.

 

 

Il caso svizzero è peculiare. Non tanto perché l’esecutivo (governo) è nominato dall’assemblea nazionale, ossia dai membri delle due camere invece che dal voto popolare, come accade per il presidente americano, e neppure perché non esiste un “presidente”, capo dello stato o capo del governo, ma solo un collegio di ministri, che è nel tempo stesso posto a capo dello stato e del governo ed è presieduto a turno da uno dei suoi componenti, fornito di poteri puramente cerimoniali; quanto perché la consuetudine ha profondamente innovato nella lettera la costituzione, la quale prevede la nomina quadriennale. Sia nei cantoni come nella confederazione, la consuetudine ha mutato di fatto la nomina dei membri del collegio governante da quadriennale (in genere temporaneo) in vitalizio. Non si può parlare di cariche a vita in senso stretto, ma di cariche le quali durano, come dice la terminologia anglosassone, during good behaviour, finché il ministro reputa di essere in grado di adempiere convenientemente al proprio ufficio. Vi furono consiglieri federali (ministri) i quali si dimisero o non accettarono la rielezione per ragioni di famiglia, di salute o di età o per mutate circostanze politiche (è il caso recentissimo del Pilet Golaz); sono rarissimi i casi di consiglieri non rieletti, quando essi allo scadere del quadriennio avessero nuovamente posto la loro candidatura. Una volta eletto a far parte del governo, il ministro rinuncia all’esercizio della professione liberale od alle cariche economiche lucrative prima coperte. Se dopo quattro od otto anni lo si mandasse a spasso gli si farebbe un torto grosso, che l’opinione pubblica guarderebbe di traverso. Come potrebbe egli riconquistare la clientela o riottenere la perduta carica? Il diritto di non rielezione rimane in vigore come valvola di sicurezza; ma di fatto non è esercitato se non rarissimamente. Ad agevolare le volontarie dimissioni per ragioni di età o di malattia, sono stati via via stabiliti termini relativamente brevi per l’acquisto del diritto a pensione; e ad accentuare la stabilità sono adottate in un numero sempre maggiore di cantoni norme di divieto di esercizio di professioni private per i consiglieri di stato in carica.

 

 

Se il “vitaliziato” sia un istituto il quale possa applicarsi nei nostri paesi non so; ma par lecito affermare che esso è uno dei fattori, e non il minore, di quella buona amministrazione per cui la Svizzera può essere additata ad esempio agli altri paesi del mondo. Forse non è favorevole ai voli dei “grandi” uomini o degli uomini “di genio”; ma è dubitabile se al buon governo dei popoli giovino più gli uomini “grandi”, ovvero quelli semplicemente “savi”.

 

 

Più complicata è la trasformazione del tipo di governo parlamentare via via avvenuta nei paesi riuniti dal simbolo della corona britannica. La teoria dice che gli elettori eleggono i membri della camera dei comuni e che questa è la vera sovrana: fa e disfà i ministeri, fa leggi, può fare qualunque legge, anche la più innovatrice, eccetto, dice la dottrina, quella di cambiare gli uomini in donne e viceversa. La realtà d’oggi – frutto di un’evoluzione storica la quale non data né dalla seconda né dalla prima grande guerra, ma ha origini assai più lontane – è tutta diversa. La camera dei comuni non fa né disfà i ministeri, non vota mai leggi le quali abbiano origini nella camera medesima e vota quasi sempre e soltanto i disegni di legge che le sono messi innanzi dal governo. Essa ha ancora un compito importantissimo: che è quello di interrogazione e di critica dell’operato del governo. Colle interrogazioni, i deputati obbligano il governo a render conto delle proprie azioni, colle critiche essi riescono a variare in meglio od in peggio i disegni di legge. Talvolta, la camera vota contro taluna singola proposta del gabinetto; ma i voti contrari non fanno crisi, come la buonanima di Depretis legiferò laconicamente tant’anni fa a proposito di un voto a lui contrario del senato italiano: «il senato non fa crisi». La camera dei comuni registra, accetta le crisi che sono imposte al gabinetto, all’infuori dell’aula, da quella forza indefinibile che si chiama l’opinione pubblica. Nei grandi momenti storici, quando l’opinione pubblica diventa agitatissima, anche la camera dei comuni si commuove, ma la commozione non giunge al voto contrario.

 

 

Essa è legata, come i vassalli al signore feudale, da una specie di giuramento di fedeltà. Come il vassallo era leale e fedele verso il signore, così il membro della maggioranza è leale e fedele verso il primo ministro, e quello della minoranza verso il capo o leader dell’opposizione. Si può votar contro nelle faccende tecniche, di minor conto. Chi votasse contro nelle cose di gran momento, senza prima sciogliersi solennemente, con una lettera scritta, datata e sottoscritta, dal vincolo di fedeltà verso il capo, sarebbe squalificato per sempre. Si resta persone onorevoli e si può aspirare in avvenire ad una carica di governo, solo quando si sia chiesto lo scioglimento dall’obbligo di fedeltà. Solo così si soddisfa al dovere della loyalty, della leale osservanza del dovere di fedeltà al capo.

 

 

Non si tratta qui di reminiscenze feudali; ma di istituti nuovi, imposti dalla complicazione della vita moderna. Quando lo stato adempieva a pochi e ben definiti uffici, e gli impiegati erano in scarso numero, ci si poteva prendere il lusso di cambiare ministri e ministeri, di lasciar proporre e fare le leggi ai singoli deputati. Ma da quando la macchina amministrativa e quella legislativa si sono complicate ed ingrossate a dismisura, si è dovuto riconoscere che la macchina si sarebbe incantata e non avrebbe più lavorato, se non ci fosse stato un capo che vi mettesse ordine. Ordine rigoroso nel calendario, anzi nell’orario della camera dei comuni; tante ore ed anzi tanti minuti alle interrogazioni; tanti giorni ed ore alla discussione dei disegni di legge; tali giorni, ben misurati, alle questioni di politica interna ed internazionale od ai problemi della guerra. Ordine nella distribuzione del lavoro amministrativo fra i membri del governo. Occorre un capo per tenere a segno gli ottanta e talvolta più membri del ministero, fra ministri, sottosegretari, commissari, segretari parlamentari, segretari privati, tratti dalle due camere, e guidare la decina o quindicina di membri del gabinetto propriamente detto ed i cinque o sei membri del gabinetto di guerra.

 

 

Epperciò è sorta ed è ingigantita la figura del primo ministro. Trent’anni fa, in nessun testo di legge era menzionato il primo ministro. Era già allora il primo personaggio del regno; ma, quando i comuni si recavano alla sbarra della camera dei signori a sentir leggere il discorso della corona, il primo ministro era un commoner qualunque, mescolato alla folla degli M.P. (members of parliament). Oggi, le elezioni si fanno nel suo nome ed in quello del capo della o delle opposizioni. Gli eletti della maggioranza debbono fedeltà a lui, perché sono stati da lui presentati agli elettori; e nello stesso modo gli eletti della minoranza debbono fedeltà al loro capo, perché si presentarono agli elettori sotto la sua egida. Il capo della maggioranza è anche il primo ministro; ed il capo della minoranza è il futuro primo ministro, è colui che ha l’ufficio di dimostrare che le proposte del governo sono disadatte, monche od addirittura cattive. Anche questo è un ufficio pubblico. Come il primo ministro forma il ministero in carica, così il capo dell’opposizione ha dietro di sé un’ombra di ministero (shadow cabinet); ed ambi i ministeri, quello in carica e l’altro che gli si oppone, stanno l’uno di fronte all’altro seduti in prima fila, nella camera dei comuni. Dietro, e parecchi di essi in piedi, sta la folla dei deputati, i back benchers. I primi riescono facilmente a parlare; i secondi stentano assai a farsi innanzi; e si dichiarano fortunati se riescono a colpire l’occhio dello speaker (presidente della camera) e ad ottener licenza di parlare. Il capo dell’opposizione è un personaggio ufficiale; è remunerato con uno stipendio ed ha stanze apposite, con qualche impiegato, affinché egli possa sostenere il carico senza troppo disagio.

 

 

Come immaginare che, in ambiente siffatto, la camera dei comuni possa originare essa una crisi politica? La crisi nasce fuori della camera; quando il primo ministro segue una politica la quale ha condotto all’insuccesso o non e più conforme all’opinione pubblica, manifestata nei giornali, nei comizi, nelle adunanze dei partiti e dei gruppi politici. Neppure allora la maggioranza abbandona il suo capo. Questi riceve qualche lettera di fedeli, i quali dichiarano di non poter più far parte del partito di maggioranza. Ma sono poche ed i più, mormorando, restano ligi alla bandiera. Spetta al capo sentir la voce del tempo e dimettersi, affinché il re, capo dello stato, possa scegliere nella maggioranza un altro primo ministro. Per lo più, il primo ministro prega il re, – nei Dominions il viceré o governatore suo rappresentante – di usare della prerogativa di indire nuove elezioni, affinché gli elettori, interrogati, decidano chi, tra il primo ministro in carica ed il capo dell’opposizione, debba assumere il potere. La decisione spetta in realtà non a tutti gli elettori, ma ai soli indecisi, agli incerti, i quali col loro spostamento fanno inclinare il grosso del numero da una parte o dall’altra. Gli elettori conservatori o laburisti o liberali, che siano ben fermi nelle loro convinzioni, contano poco nell’agone elettorale. Il loro voto si sa a priori quale è; ed e sempre voto di minoranze relativamente piccole. Decisivo è il voto di coloro, i quali stanno a vedere e si voltano verso l’una o l’altra parte, a seconda del successo ottenuto, o dell’insuccesso subito dal governo e dell’attrattiva esercitata dal programma del capo dell’opposizione.

 

 

Il quadro che ho tracciato del governo parlamentare è testimonianza di una profonda trasformazione avvenuta in esso. Come negli Stati Uniti, la figura ed i poteri del presidente sono dominanti; così sono passati al primissimo luogo nella Gran Bretagna, nell’Australia, nella Nuova Zelanda, e nell’Unione Sud Africana, nel Canada e nell’Irlanda la figura ed i poteri del primo ministro. Le camere elettive hanno pur sempre compiti di grandissimo momento, ché la discussione dei progetti di legge e la critica degli atti di governo acquistano ognor più importanza nelle nostre complicate società moderne. Tutto fa credere tuttavia che di fatto, se non nella dottrina, sempre tarda a teorizzare la realtà, si assista nel mondo contemporaneo ad un avvicinamento sempre maggiore fra i due tipi di governo, presidenziale e parlamentare. Sopravviverà forse questa sola distinzione: che il tipo presidenziale americano è rigidamente codificato nella legge scritta; mentre il tipo del primo ministro all’inglese è più sciolto, perché regolato dalla sola consuetudine. Se il primo tipo non diede luogo a rotture violente, ciò si deve non alla rigidità del sistema, ma al senso di rispetto alla legge proprio di quei cittadini ed ai poteri di interpretazione del valore della legge, arrogatisi dalla corte suprema ed oramai non contraddetti da alcuno. Se la scioltezza della consuetudine inglese non degenerò in licenza, ciò è dovuto forse alla sana imperturbabilità del medio uomo britannico, il quale, posto dinanzi ad una novità, comincia a dire: è assurdo, e poi sentenzia: non è scritto nella Bibbia; e finalmente, se la novità s’impone con l’evidenza del bene, conclude: l’ho sempre detto!

Tutti facciamo piani

Tutti facciamo piani

«Il risorgimento liberale», 19 dicembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 321-326

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Asociacíon Dante Alighieri, Buenos Aires, 1965, pp. 129-134[1]

Il governo dell’industria in Italia, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 80-82

 

 

 

 

Forse non è inopportuno ridurre al loro reale significato talune parole, le quali hanno finito per assumere un valore mitico, quasi misterioso. Fra di esse hanno avuto luogo notabile negli ultimi tempi quelle di “piani”, “pianificazione”, piani “quinquennali”, “decennali”, “settennali” e simili. C’è attorno ai piani, un alone mitico, e par quasi che basti fare un piano perché qualcosa di buono o nuovo o rivoluzionario abbia ad uscirne fuori. Un’idea sembra non acquisti dignità politica od economica se non è tradotta in un piano. Antiche istituzioni, radicate nei secoli e via via integrate e cresciute attorno al tronco tradizionale, commossero l’opinione pubblica britannica solo quando la loro codificazione, snellimento e perfezionamento presero il nome di “piano Beveridge”, e quel piano divenne segnacolo in vessillo di programmi anche in paesi, come l’Italia o la Francia o la Germania o la Svizzera, dove una parte e spesso una gran parte degli istituti contenuti nel “piano Beveridge” esisteva e operava da tempo e tutti ne avrebbero potuto studiare i risultati talora ottimi e talvolta mediocri o perfino dannosi.

 

 

Tant’è: il “piano” è divenuto un “mito” e, come tale, corre il mondo, suscitando entusiasmi e timori, sicché è divenuto persino difficile dichiarare in parole semplici quel che un “piano” sia. Per sormontare la difficoltà creata dal mito, ricordiamo che ognuno di noi, nessuno escluso, fa continuamente piani e ogni giorno li rinnova e muta ed adatta alle circostanze. La massaia, la quale al mattino riflette intorno al modo di risolvere il tormentoso problema di alimentare i suoi cari, fa nella sua mente un piano: ricapitola le esigenze passate; fa passare in rassegna le botteghe e le vie nelle quali la ressa è minore, dove i padroni o le commesse la conoscono e le usano qualche gentilezza, e dispone, e cioè “pianifica”, la successione delle sue corse allo scopo di renderle più efficaci che le sia possibile. Confronta, partendo sempre dall’esperienza passata, i prezzi con i desideri, fa e rifà i conti e si sforza di ottenere quella distribuzione delle lire possedute che meglio soddisfi alle esigenze famigliari.

 

 

Ciascuno di noi nell’esercizio del proprio mestiere è costretto a far piani. Da quasi mezzo secolo esercito il mestiere dell’agricoltore; e, naturalmente, ho commesso in principio un mucchio di spropositi, ed, altrettanto naturalmente, dalle esperienze fallite, ossia dai piani sbagliati, è venuta fuori la possibilità di far piani tollerabilmente corretti. Ad esempio, dovendo costruire una casa rustica, allo scopo di frazionare il fondo di 18 ettari in due fondi più piccoli, ho, vista l’esperienza dei vicini, fatto il contrario di quel che, in quei luoghi, tutti fanno. Il “piano” del contadino delle mie colline piemontesi, quando si tratta di sdoppiare tra due fratelli un podere, è quello di stare appiccicati il più possibile gli uni agli altri. Pur di fare economia: un pozzo solo, un abbeveratoio solo, un’aia comune; muri divisori ai quali ci si può appoggiare. Il “piano” dei periodi “brevi”, direbbero gli economisti. Ma il piano a breve scadenza, se risparmia subito qualcosa nella spesa in conto capitale aumenta notevolmente le spese di esercizio, con la creazione di servitù di passaggio, di vista, con il fomento dei litigi tra donne per le pecore, le galline, le uova, che non si sa di chi siano, per l’acqua del pozzo insufficiente, ecc. ecc.

 

 

Perciò il “piano” del periodo “lungo” conduce alla conseguenza della costruzione isolata, nel centro tecnico economico più adatto dell’appezzamento che si vuole separare dal podere od erigere in podere separato. Dove si costruirà la casa? Quale la via di accesso migliore alla strada pubblica, indipendente da quella che conduce alla casa originaria? Quale il numero e l’ampiezza delle camere di abitazione del mezzadro; quali le dimensioni della stalla, del fienile, degli accessori? Dove ci costruirà il pozzo? Come sarà orientata la casa, in relazione al sole, alla protezione contro i venti ed alle comodità di aia e di accesso? Tutti questi problemi richiedono soluzioni diverse a seconda dell’estensione del podere; della connessa composizione della famiglia colonica e del numero dei capi di bestiame i quali possono essere allevati nel podere. Anche questo piano può essere concepito in ordine al tempo breve od al tempo lungo. Se si bada alla produzione presente od a quella presumibilmente prossima, le dimensioni, ad esempio, della stalla, dei portici per i carri e gli attrezzi agricoli e dei fienili sono tali e tali; né conviene abbondare nei margini per non gravare troppo nel costo capitale. Ma l’improbabile di oggi può diventare la realtà del domani, epperciò anche nel piano minimo di una casa colonica occorre far si che l’ampliamento sia possibile, senza che faccia d’uopo di guastare nulla del già fatto, per semplice adesione, che non turbi la logica del fabbricato e la sua attitudine a soddisfare alle esigenze della famiglia colonica e della coltivazione del podere.

 

 

Quelli dei quali ho discorso sono “piani” individuali, famigliari, propri delle economie singole di consumo o delle minime imprese produttive. Di qui si sale via via ai piani della costruzione e dell’esercizio di un negozio, di uno stabilimento industriale, di una impresa di esercizi pubblici (tram, gas, luce elettrica); e più su ai piani di coordinamento di più imprese appartenenti ad una medesima industria, di complessi di imprese estese ad industrie diverse, di esercizio di reti ferroviarie nazionali, di porti connessi con ferrovie e linee di navigazione. Più su ancora, i piani possono estendersi al complesso delle imprese agricole, commerciali, industriali di un paese, e, andando ancora innanzi, al coordinamento di imprese appartenenti a stati diversi.

 

 

In sostanza, il “piano” non è altro che un insieme di atti o di propositi con i quali si studiano e si precisano i mezzi più congrui per raggiungere un dato fine. Il fine che si vuol conseguire può essere piccolo o grande, può essere presente o posto nel futuro vicino od in quello lontano. Il piano di una massaia concerne un fine immediato, quello della costruzione di una casa di abitazione ha un fine posto nel futuro prossimo; laddove un piano di bonifica integrale (prosciugamento di paludi sistemazione di torrenti o fiumi, imbrigliamento di terreni franosi e rimboschimenti) riguarda un futuro non prossimo ed anzi per lo più lontano. Vi sono piani per un giorno, un anno, cinque anni e vi sono piani secolari. I singoli, di solito, attendono ai piani brevi; gli enti pubblici a quelli lunghi, ed ambedue i tipi di piano sono necessari.

 

 

La distinzione fondamentale tra i piani è quella di buoni e cattivi, ossia fra quelli in cui i mezzi adeguati sono adatti e quelli in cui sono disadatti al fine che si vuol conseguire. Valente è il tecnico il quale fa piani buoni, anche e sopratutto dal punto di vista economico, e non pare che di tecnici valenti ci sia abbondanza. Né pare che i piani buoni coincidano con i presupposti ideologici che stanno a fondamento delle varie dottrine politiche e sociali. Non è dimostrato che sia necessariamente buono il piano comunista o quello liberale o quello corporativo.

 

 

La sola verità che si può ritenere certa in merito ai piani è questa: che cinque o dieci uomini, appartenenti a correnti differenti d’opinione, sono fatalmente portati a discutere a perdifiato senza giungere mai ad alcuna conclusione, se la discussione punta sul miglior sistema di piani da adottare in relazione ad un qualunque sistema ideologico socialistico, liberistico, comunistico, corporativistico. Ma gli stessi cinque o dieci uomini chiamati a discutere quale sia il miglior piano da adottare per un dato preciso fine, che sarà il ristabilimento della rete ferroviaria del mezzogiorno d’Italia, il rimboschimento di un dato gruppo di montagne dell’Appennino, la ricostruzione di una città distrutta o danneggiata dai bombardamenti, si mettono, si devono certamente mettere d’accordo. Nello stadio attuale della tecnica, nelle condizioni presenti della provvista dei mezzi economici, in quel dato luogo e tempo, esiste certamente la soluzione “ottima” di quel problema; ed è inverosimile che tra quei cinque o dieci uomini non vi sia chi la veda, e sottoposto al fuoco di fila delle osservazioni e delle critiche degli altri non la rimugini, la modifichi e la conduca a quella massima perfezione che è possibile in questa nostra valle di lagrime. Il perché del successo ottenuto nelle faccende sociali ed economiche dagli anglosassoni, il perché dell’alto tenor di vita toccato da essi, il massimo conosciuto tra i popoli civili, è anche oserei dire in notabile misura, dovuto alla loro repugnanza invincibile a porsi i problemi “ultimi” nel far piani, alla loro incapacità istintiva a porsi i grossi problemi giuridici e politici di principio ed alla loro inclinazione a spezzare i problemi grossi in problemi piccoli e ad affrontarli ad uno ad uno senza impacciarsi soverchiamente della euritmia e della logica, delle quali sono invece innamoratissimi i francesi. La logica verrà poi, necessariamente, da sé. Quando tutti i problemi singoli sono sul serio ben risoluti, secondo la loro logica intima, le parti vi incastrano bene l’una nell’altra e l’insieme opera con efficacia. Una visione d’insieme deve esistere, ma essa in fondo consiste nell’usare i mezzi congrui per raggiungere i singoli fini.

 

 

Sempre si fecero e sempre si faranno piani. Ma chi li fa? Qui il problema si sposta e si riduce ad una discussione sui limiti di due opposti metodi di compilare piani: l’uno che procede dal basso e l’altro che parte dall’alto; l’uno che nasce dal mercato libero e l’altro da una autorità di comando. Questa è la vera distinzione sostanziale fra i piani; non quelle che si attaccano a parole indefinibili, né la distinzione è fatta per scegliere tra l’uno e l’altro metodo, quasi essi si escludano a vicenda. Vi sono estesi campi nei quali sarebbe errore grave abbandonare il metodo dei piani, spontaneamente nati sul mercato nella concorrenza dei molti consumatori e dei molti produttori, e vi sono campi, probabilmente non meno estesi, nei quali sarebbe errore parimente grave non attenersi al metodo dei piani formati dall’autorità dall’alto.

 

 

Qui, nella ricerca della linea “ottima” di confine tra i due campi, fervono vivacissimi i contrasti. Non tuttavia per ragioni economiche sostanziali, sibbene per l’impeto delle passioni politiche e sociali.

 

 

Il metodo ed il contenuto dei piani pongono, si, problemi intricati e difficili, ma questi paiono e talvolta diventano insolubili solo perché gli uomini, più che a discutere, intendono a sopraffarsi ed a distruggersi l’un l’altro ed insieme a rovinare l’umanità medesima.



[1] Tradotto in spagnolo con il titolo Todos hacemos planes [ndr].

Prime impressioni

«Risorgimento liberale», 13 dicembre 1944

Giovani dalla parola infiammata, ardenti di passione patriottica e civile, desiderosi di bene, fiduciosi nel valore della propria parte politica; un uomo grande, venerato ed ammirato per l’altezza del pensiero, il quale rinuncia a continuare la pubblicazione della rivista a cui egli aveva dato valore universale, per diventare guida ed animatore di quei giovani: ecco le primissime impressioni di Roma. Di fronte a questo quadro romano di ardore e di fede, nel paese per quattordici mesi ospitalissimo, un’aula elettorale silenziosa, dove al banco alcuni uomini verificano tranquillamente le carte dell’elettore, e poi questi adempie al suo ufficio dietro una tenda che assicura il segreto. Nell’anticamera i rappresentanti dei partiti offrono taciti i programmi e le liste. Alla fine della giornata si fanno calcoli complicati per proclamare gli eletti; e l’indomani la vita politica continua ordinatamente. Nuovi uomini seguono ai vecchi, lentamente; le parti mutano nome e fini, non metodi. I radicali dominatori assoluti della Svizzera nel 1848 e poi ancora nel 1874, oggi conservano ancora tre posti di consigliere federale su sette; ma gli altri sono attribuiti ai conservatori cattolici e protestanti, al rappresentante dei contadini e a un socialista. Presto i socialisti diventeranno due; e, passata la guerra, ove acquistino nuovi proseliti, il partito comunista, che ora per stare nella legalità si chiama partito del lavoro, avrà il suo rappresentante nel consiglio federale.

Già ne ha uno, nel Consiglio di stato del cantone di Basilea città. I due quadri della lotta, dell’entusiasmo, della fede e del lavoro pertinace di preparazione da una parte e della gestione pacifica preceduta da discussioni cortesi dall’altra, non si contraddicono. Forse si suppongono.

Quaranta anni fa, l’ultimo dei tre Naville, che si succedettero nell’insegnamento filosofico di Ginevra, nel cortile del palazzo di città di quella piccola repubblica un tempo commossa da lotte civili acerbissime mi diceva: «qui, giovane, feci anch’io alle fucilate. Oggi, invece, discutiamo sui giornali e decidiamo con la scheda». E mi esaltava il valore delle alte imposte da lui pagate a cagione della politica sociale e dei servizi pubblici perfezionati dai padri coscritti ginevrini.

I contrasti appassionati odierni possono condurre al bene. Vedo che oggi si discute in Italia intorno alla fonte del potere politico. Qualunque siano le opinioni che ognuno di noi può avere intorno alla migliore organizzazione politica, se di monarchia ovvero repubblica, se di presidenza all’americana od alla francese, se di capo unico o di consiglio direttoriale, vi sono alcuni punti fondamentali che, se non sono osservati, non esiste un governo, un governo qualsiasi e lo stato non funziona.

La fonte del potere politico è una sola: la volontà del popolo liberamente manifestata, nel segreto dell’urna, per mezzo della scheda elettorale. Dove vi è intimidazione o paura, da qualunque parte provenga l’intimidazione e qualunque sia la causa della paura, ivi non hanno luogo elezioni, ma si celebra un rito funebre ad opera di minoranze audaci e decise al colpo che dovrà ad esse dare il potere assoluto.

Accanto al depositario della volontà popolare, vi deve essere colui che la interpreta. Re ereditario o presidente eletto, egli non ha il compito di governare, ma di accettare la designazione che gli elettori hanno implicitamente fatto di colui il quale dovrà costituire il governo. Talvolta la designazione è dubbia. Non lo è quasi mai in Inghilterra, dove la corona sa di «dovere» rivolgersi a Gladstone od a Disraeli, a Lloyd George od a Salisbury, a Mac Donald od a Baldwin, a Chamberlain od a Churchill. In caso di dubbio il Primo Ministro in carica prega il Sovrano od il Presidente di interpellare il popolo affinché, in nuove elezioni, meglio chiarisca la sua volontà.

Quando la volontà sia chiara, il primo ministro sceglie i suoi colleghi. Naturalmente, li sceglie in guisa che essi rappresentino le varie correnti della maggioranza, od, in caso di coalizioni, necessarie nelle ore gravi, sovratutto di guerra, le diverse opinioni esistenti in seno ai parlamenti. Ma la scelta è fatta a suo giudizio insindacabile, perché i ministri da lui scelti costituiscono un gabinetto che deve governare solidariamente ed unitamente. Nessun governo può esistere, se i singoli ministri non assumono l’impegno morale e lealmente vi tengono fede di lavorare in modo esclusivo alla attuazione di quei fini in cui sono caduti d’accordo. La constatazione più sicura che hanno potuto fare coloro i quali hanno dovuto per le note circostanze osservare la vita politica svizzera è questa: che i consigli federali ed i consigli di stato che là governano la confederazione ed i cantoni, sebbene composti di uomini di parti differenti, governano come un tutto. Non esiste la volontà del ministro delle finanze federale socialista, o di quello degli esteri radicale o dell’altro delle ferrovie cattolico, ma una volontà unica, formatasi discutendo attorno al tavolo ministeriale. Il consigliere federale (ministro) socialista cessa, non appena diventi membro del corpo supremo esecutivo della confederazione, di rappresentare la volontà del partito, per trasformarsi in esecutore della volontà unica del consiglio federale. Egli influirà ovviamente, in relazione alle sue attitudini intellettuali e politiche ed alla forza della parte sua politica, sulle decisioni del governo; ma queste sole hanno valore, non i deliberati delle parti, da cui i singoli ministri provengono. Qualunque mandato imperativo i parlamentari, od i comitati che provvisoriamente possono sostituirli, volessero dare o qualunque organo di controllo essi volessero istituire accanto al gabinetto, è atto solo a produrre anarchia ed a rendere impossibile ogni specie di governo. Se il gabinetto governa male, unica arma legale è il voto di sfiducia, che obbliga il capo dello stato a seguire la nuova designazione gli venga fatta dalla maggioranza parlamentare. Rimane fermo il punto capitale: che la volontà popolare, attraverso alle elezioni od a spontanee formazioni, designa l’uomo al quale il capo dello stato affida il compito di comporre un governo il quale riscuota la fiducia dei parlamenti (o dei comitati provvisoriamente sostituiti ai parlamenti). Ma il governo o gabinetto non può essere l’emanazione delle parti politiche singole od associate. Un governo diretto di parlamenti o di gruppi politici è sinonimo di tirannia.

Parlamenti e gruppi politici designano e giudicano; non possono né devono governare.

La via breve

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 2 dicembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 75-85

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 79-87

Nel febbraio del 1921 il problema della finanza italiana era stato risoluto mercè l’abolizione del prezzo politico del pane, causa di un disavanzo di 500 milioni di lire al mese, il quale non poteva essere coperto né da imposte né da prestiti. Era chiusa così definitivamente la fonte da cui traeva origine la finanza dei biglietti, che minacciava di trarre al nulla il valore della lira. Stabilizzata di fatto questa intorno ad un livello, che finì di aggirarsi sulle 120-130 lire per ogni lira sterlina oro, era tolta la causa essenziale di insicurezza, di disordine mentale e morale, che impediva la ripresa.

Gli uomini politici, ubbidienti alla abitudine tradizionale del loro ceto di vedere ingigantiti i segni del passato e di non scorgere quelli dell’avvenire, seguitavano ad essere pessimisti. Nitti, uomo di prontissimo ingegno, ma facilmente soggetto alle impressioni del momento, nel marzo del 1922 faceva a Melfi lugubri pronostici sul pericolo della fame incombente nell’Italia, sull’eccedenza di un miliardo al mese in lire oro del consumo sulla produzione italiana, sui 31 miliardi di buoni del tesoro in circolazione, sulla caduta della Banca italiana di sconto. Qualche mese dopo, il buon Facta, dimentico di nutrir fiducia, malinconicamente esclamava: «Noi stiamo peggio della Francia, che ha ferro e carbone e basta a sé per il grano; peggio della Germania, che ha segale e carbone e lignite; peggio dell’Inghilterra, che ha carbone e cotone e domina colle sue flotte il mare libero». Invano, taluno ammoniva che nel 1921 il capo delle tempeste era stato sorpassato; che l’abolizione del prezzo politico del pane, deprecata od auspicata dai partiti detti di massa come segnacolo in vessillo della sollevazione degli operai, non aveva avuto alcuna eco, dimostrandosi col fatto avere il popolo maggior buon senso dei suoi capi, ed essere il popolo pronto a riconoscere l’assurdità di pagare una lira al chilogrammo quel pane che costava tre lire. Invano si ricordava che il grano, come in genere tutte le materie prime, al ritorno della pace doveva cessare di essere una merce rara per i consumatori affamati e doveva ridivenire un ingombro per i produttori. Invano, quello stesso taluno, memore di avere il 12 agosto 1919 scritto sul Corriere della Sera che il problema delle materie prime non era un problema economico, bensì un problema morale e che dinnanzi ad un popolo serio, lavoratore, tecnicamente capace, tutti i provveditori di materie prime si sarebbero messi in ginocchio; essi, “non noi”; constatava il 17 aprile 1922 che la sua facile profezia si era avverata e «che le materie prime erano oramai preoccupanti non per noi che le consumiamo, ma per i paesi produttori che non trovano a venderle».

L’andazzo era di far eco al pessimismo. Di fatto la marea insurrezionistica andava ritirandosi. L’occupazione delle fabbriche era finita ed erasi mutata in scioperi per adeguamento di salari alle mutate circostanze, in agitazioni e contrasti per ottenere il riconoscimento del diritto degli operai al controllo delle condizioni del lavoro nelle fabbriche ed alla cognizione dei redditi, cognizione preliminare ad una partecipazione alla gestione e al prodotto delle industrie. L’invasione delle terre si trasformava in un tentativo confuso di spezzamento del latifondo, ossia di posizione aperta di un problema, il quale deve essere affrontato con mezzi adeguati alla grandezza del fine da raggiungere. Quell’invasione diveniva il preludio della sostituzione avvenuta di poi di affittuari grossi e piccoli, di mezzadri e di contadini coltivatori diretti nella proprietà di un milione di ettari posseduti prima da gente disadatta a continuare nel possesso di una terra non amata.

Scioperi, serrate, agitazioni agrarie, richieste di controlli e di partecipazioni operaie erano sintomi di rigoglio, di vita fervida, che sarebbe stato d’uopo padroneggiare e guidare. I ceti politici, i quali erano stati capaci di condurre l’Italia alla vittoria, i quali avevano saputo organizzare le forze vive del paese per la resistenza contro l’invasore nemico, non furono pari all’impresa sociale. Sorpresi dalle conseguenze non della guerra, ma dei turbamenti sociali connessi indirettamente con la guerra (svalutazioni monetarie e conseguenti impoverimenti ed arricchimenti in parte reali ed in parte numerici o nominali) in un momento nel quale una profonda trasformazione si operava, per il suffragio universale, nel loro seno, irrigiditi nei rispettivi vangeli dall’introduzione del sistema proporzionalistico, il quale aggravava le difficoltà inevitabili del passaggio dal governo eletto da tre a quello eletto da dieci milioni di elettori, quei ceti, non più vecchi e non ancora nuovi, non furono capaci di costituire un governo. Vano è, oggi, pesare, col bilancino dell’orafo, le responsabilità delle parti contrastanti, e sentenziare se sia stata maggiore la colpa dei demagoghi vociatori, i quali come accadde ognora in passato, ed accadrà di nuovo domani, e sarà in avvenire, auspicavano rivoluzione, bagno di sangue, tagli di teste, conquista del potere e così terrorizzavano la grande maggioranza dei cittadini, ricchi, mediocri e poveri, la quale in Italia possiede la virtù massima politica che è il buon senso – sola corte sovrana, la quale, ammoniva Ferdinando Galiani, non faccia mai vacanza – e la spingevano a partiti estremi di resistenza; ovvero quella dell’on. Giolitti quando scetticamente volle che gli operai si rompessero le corna coll’esperimento della occupazione delle fabbriche ed ancora oggi trova laudatori, immemori che dovere d’ogni governo è far rispettare la legge qualunque essa sia, salvo poi a mutarla nelle maniere legali; oppure se a tutte sovrasti la colpa di un piccolo gruppo ­– e fu certamente un piccolo gruppo, al quale rimasero estranee la grandissima maggioranza dei medi e piccoli industriali e proprietari di terreni, ed una minoranza non irrilevante degli stessi maggiori industriali ed agricoltori, incolpevoli dell’assalto al pubblico danaro – di industriali e di agrari, impervi di fronte alle esigenze di ascesa dei ceti lavoratori e decisi a conservare ad ogni costo le posizioni monopolistiche conquistate in passato.

L’Italia non risorgerà se al motto nefando: «a noi il paese!» ed alla risposta dissolvente: «la colpa è degli altri!», gli italiani, dopo avere affidato al giudice il compito di punire i colpevoli di reato comune, di tradimento, di favoreggiamento verso il nemico, di illecito arricchimento, non reciteranno, ciascuno nell’intimo foro della coscienza, il mea culpa. Chi ricorda quegli anni tra il 1919 ed il 1922, sa l’ansia dalla quale tutti erano tormentati, ansia di uscire da due incubi, l’uno bellico e l’altro postbellico. L’incubo bellico era quello dei legamenti, detti allora bardature, i quali avevano reso tutti dipendenti dallo stato, per ottenere permessi di comprare e di vendere, di lavorare o non lavorare, di essere assunti in uno stabilimento, di avere iniziative di commercio o di industria o di migliorie agricole od edilizie. Roma incombeva su tutto ed una burocrazia onesta, ma tarda pareva aduggiasse l’operosità di tutti. Si voleva respirare, si voleva agire, si voleva lavorare senza ad ogni istante presentarsi ad uno sportello a piatire da un impiegato indifferente la definizione di una pratica resa interminabile dal moltiplicarsi di formalità e dall’andirivieni di cartacce inutili. Ci si era dimenticati che i legamenti, che le bardature erano una necessità assoluta dello stato di guerra; e si voleva ridivenire subito uomini liberi. L’incubo postbellico era quello della discordia e della incertezza. Ne erano oppressi tutti: operai ed industriali, commercianti, impiegati, agricoltori, contadini. In fondo agli scioperi apparentemente più violenti stava il desiderio degli operai di non essere più in balia dell’ignoto, di ricevere un salario che, stabilizzata la lira, volesse dir qualcosa di concreto, di essere assicurati contro le eventualità che minacciano la salute, la continuità del lavoro, la sussistenza e la pace famigliare. I profeti promettevano tutte queste cose in fondo all’attuazione di un loro vangelo; ma gli uomini volevano, più che il vangelo, la sostanza, che era vita sicura ed avvenire sereno. Gli uomini, tutti, avevano dimenticato che l’ansia e l’incertezza sono le compagne inseparabili della vita; e che sicurezza assoluta e vita tranquilla sono sempre desiderati, ma non mai raggiunti né raggiungibili se non attraverso una lotta di tutti i giorni, una fatica sempre rinnovata. Poiché si erano oltrepassati i limiti entro i quali gli uomini tollerano i vincoli da una parte e l’ansia dall’altra, gli italiani desideravano libertà dai vincoli e sicurezza contro l’ignoto; né avvertivano che a poco a poco essi andavano già liberandosi dai vincoli di guerra e riconquistando la sanità mentale, attraverso discussioni e concessioni reciproche.

In quel momento apparve il salvatore e promise agli italiani libertà dai vincoli: «Noi vogliamo – così fu proclamato nel discorso di Udine del 20 settembre 1922 – noi vogliamo spogliare lo stato di tutti i suoi attributi economici. Basta con lo stato ferroviere, con lo stato postino, con lo stato assicuratore. Basta con lo stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello stato italiano». Il salvatore promise anche sicurezza ed elevazione morale, indicando i compiti i quali sarebbero rimasti allo stato: «Resta la polizia che assicura i galantuomini dagli attentati dei ladri e dei delinquenti; resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l’esercito che deve garantire l’inviolabilità della patria e resta la politica estera. Non si dica che così vuotato lo stato rimane piccolo. No! rimane grandissima cosa, perché gli resta tutto il dominio dello spirito, mentre abdica a tutto il dominio della materia».

La promessa non poteva essere mantenuta. Lo stato non può abdicare al dominio della materia, la quale, per l’uomo, è tutt’uno con lo spirito. Non è possibile limitare i compiti dello stato. Né lo stato si identifica con il governo centrale ma comprende le regioni, le provincie, i comuni e l’infinita varietà degli enti con fine pubblico. Così inteso, lo stato non è indipendente e nemico dei cittadini; ma è una continua creazione di essi ed adempie a tutti i fini, che i cittadini non possono raggiungere da soli, o raggiungono meglio se la loro azione consociata è rivolta a fine pubblico. La promessa non poteva essere mantenuta anche perché non si dice ad un uomo: fa tu, salva tu il paese per imporgli poi di non far nulla. L’uomo fece quel che era consentaneo alla natura sua e di questo aspetto dell’opera sua qui non giova occuparsi. La storia dei vent’anni seguiti al 28 ottobre 1922 dipese solo in parte, forse in piccola parte, dall’indole dell’uomo. Dipese sovratutto dal sistema. La dittatura romana, duratura per sei mesi od un anno, non toccava gli ordinamenti fondamentali della società, poiché era destinata a sormontare un pericolo grave ed imminente; e questo venuto meno, il, dittatore ritornava ad arare il campo. I pieni poteri in un paese, nel quale la stampa sia libera ed i controlli parlamentari agiscano, sono limitati nel fine e nel tempo e non guastano la struttura politica ed economica del paese. Chiuso, ad esempio, il tempo di guerra, la vita normale riprende, con quelle modificazioni che i parlamenti vorranno deliberare, anche in base all’esperienza compiuta.

La dittatura moderna è fatalmente cosa diversa. Essa vuole salvare il paese dal disfacimento economico sociale e ricreare lo stato. Per qual via? Per quella breve, del comando dall’alto. Non la discussione che si accusa di tirare le cose in lungo; non la deliberazione dei corpi legislativi, i quali si dice essere impotenti, nel contrasto tra i partiti e le classi, ad esprimere una volontà unica e pronta. Questa della discussione, sui giornali o nella bottega delle chiacchiere parlamentari (anche qualche impaziente inglese parla della britannica talking shop) è la via lunga, tortuosa, a giravolte, con cadute e ritorni su se stessi. Si imbocchi la via breve, diritta che porta sulla vetta senza pentimenti. Alla discussione si sostituisca l’azione; quella che non lascia luogo a dubbi, del capo che sa e comanda.

Il terreno era propizio in Italia; come fu propizio in altri tempi in Francia e lo era, per antica tradizione, in Germania. Napoleone aveva creato la macchina di governo, pronta al servizio del capo. Bastava insediarsi al ministero dell’interno per aver sottomano la tastiera dei prefetti e dei questori, abituati ad ubbidire a direttive venute dal centro. Nei governi parlamentari quelle direttive erano talvolta incerte, perché dovevano tener conto delle varie correnti dell’opinione pubblica. In regime di dittatura le direttive parvero risolute e precise; ma, poiché i fatti e le situazioni cangiano ognora, divennero mutabilissime e contraddittorie. Fu necessario, a mascherare le incessanti fatali mutazioni, persuadere le genti che il governo dall’alto è sempre saggio. Ove non odano critiche, le genti sono facilmente credule e le altre pecore vanno dove l’una va. Non a caso si dovette a poco a poco, trasformare la camera in una accolta di “sì”; e sopprimere i giornali. Era necessario che al luogo dei giornali fossero istituiti bollettini riproducenti, secondo gli ordini quotidiani romani, un’unica voce, quella del padrone. Il capo redasse, come già faceva Napoleone, i bollettini quotidiani delle sue vittorie; e le voci diverse commentarono ed amplificarono. Condizione necessaria perché un paese possa essere condotto alla meta da un capo, è che il popolo creda nella verità e nella bontà della meta designata e dei mezzi adoperati. Come potrebbe un esercito vincere, se i soldati potessero discutere l’ordine del capitano? In un esercito ben condotto, non debbono esistere corpi ed amministrazioni indipendenti.

Non può restare indipendente la magistratura, perché la legge, più che quella scritta, è quella che volta a volta il capo crea, per risolvere caso per caso i problemi che ogni giorno sorgono ed hanno sempre aspetti singolari. La volontà del capo non è arbitrio, ma interpretazione pronta della legge non scritta della salvezza del paese.

Non può restare indipendente la scienza, l’università, la scuola. A che giova la scienza, se non al progresso della patria? Via dunque gli ideologi, disse già Napoleone, i quali perseguono il fine egoistico della ricerca della verità per se stessa. Quella sola verità merita di essere cercata, la quale è rivolta al bene ed alla grandezza del paese, così come grandezza e bene sono interpretati dal capo.

Non possono essere indipendenti industriali, agricoltori, commercianti, professionisti, operai, contadini. Non può essere data licenza di lottare gli uni contro gli altri per fini di classe. Epperciò essi siano organizzati in sindacati pubblici, messi al luogo dei sindacati che operai e contadini ed industriali avevano variamente foggiato per la tutela dei propri interessi. Al di sopra dei sindacati stiano le corporazioni, organi parastatali creati allo scopo di dire ad ognuno ciò che sia lecito fare nell’interesse pubblico. Solo quando ognuno, per lavorare a salario od esercitare mestiere manuale o professione liberale o per acquistare semenze o concimi o materie prime od aprir bottega o laboratorio o per costruire un edificio o fare un impianto industriale debba essere socio di un sindacato e soltanto grazie alla tessera ricevuta riceva licenza di lavorare o di produrre, si può avverare la profezia dell’Apocalisse (cap. XIII, versetti 16 e 17) del tempo in cui «tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e servi debbono mostrare nella mano destra il carattere e chi non ha il carattere (la tessera) o non invoca il nome (del capo) non può comprare né vendere».

Soltanto quando non vi sia nel paese alcuno il quale possa orgogliosamente affermare di non dipendere in alcuna maniera dal capo, soltanto quando tutti, per vivere, debbano mostrare nella palma della mano il segno della ubbidienza, soltanto allora sarà raggiunta la pienezza dei tempi.

La via breve, la via regia, la via diritta dell’affidarsi al salvatore condusse sì alla pienezza dei tempi. Ma quali tempi? Anche qui la meta era segnata e non fu arbitraria. Centosessant’anni prima che gli italiani scegliessero la via breve del salvazionismo, nel 1760, uno scrittore oggi letto solo dai pochi curiosi della storia delle teorie economiche, il marchese di Mirabeau, padre del grande rivoluzionario, scriveva:

Ove un solo centro di distribuzione e una sola città esistano nel reame, tutti sono occupati ad ottenere posti ed impieghi, a sollecitare aumenti di stipendi e di pensioni, ad aver parte alle elargizioni del principe…, a giungere alla fortuna con tutti i metodi di intrigo suggeriti dalla cupidigia… Gli arricchiti fanno sfoggio di lusso, poiché il buon uso delle ricchezze male acquistate è rarissima cosa in questo mondo e poiché, per sentire il valore della ricchezza, bisogna averla acquistata a gran fatica. I favoriti approfittano delle debolezze del principe per impadronirsi del denaro pubblico e per acquistare una potenza dannosa allo stato. La giustizia diviene venale e le leggi medesime creano il male, perché il loro simulacro è un mero spettro favorevole all’ingiustizia. I soli speculatori potranno accumulare ricchezze e, per mezzo dei loro corrispondenti all’estero, assicurarle con investimenti solidi. Il congegno dello stato e della società si riduce ad una cornice vuota destinata a frantumarsi al primo urto del nemico. Quando il nemico giunge, lo stato è già in situazione di piena anarchia e non ha più alcuna consistenza ed alcuna durata.

Ventinove anni più tardi, nel 1789, il nemico previsto da Mirabeau padre venne dall’interno; e lo stato, ridotto ad una cornice vuota, ad un corpo senza anima, si dissolse perché non esisteva più.

Nel 1943, quando il nemico sbarcò in Italia, lo stato italiano era ridotto anch’esso ad una cornice vuota, ad un corpo senza anima. Quando la vita politica, economica, spirituale di una nazione di 45 milioni dipende da un unico centro; quando a poco a poco tutte le forze indipendenti dello stato sono venute meno; quando non esistono più comuni, province, corpi universitari e di magistratura, perché tutti guardano a Roma per essere nominati e promossi ed insigniti di onori; quando i quadri dell’esercito sono composti di uomini i quali attendono da un uomo o da un partito, qualunque esso sia, la promozione e la carriera; quando non esistono più né industriali, né agricoltori, né proprietari, né artigiani, né operai, né contadini i quali siano tali di fatto invece che soltanto di nome; quando industriali ed operai, proprietari e contadini, artigiani, commercianti e professionisti sono divenuti tutti dipendenti dal governo, da cui attendono permessi, licenze, forniture e che vieta ad essi di agire liberamente e di associarsi e discutere; quando persino la chiesa, pur rimanendo ultima forza autonoma a confortare i disperati nell’ombra dei templi, non può uscire all’aperto se non per atto di cerimonie esteriori, che cosa è rimasto dello stato?

Lo stato non è una organizzazione meramente giuridica sovrapposta dall’alto sui cittadini. Lo stato vive nei cittadini medesimi, nei loro eletti al governo politico; ma anche e sovratutto nei comuni, negli enti pubblici, nelle chiese, nelle scuole, nel foro, nelle fabbriche, nei campi dove gli uomini operano, vengono a contatto, si associano e si dissociano, pensano, pregano e si divertono. Quando persino il gioco dei fanciulli ed i divertimenti degli adulti, quando persino la ricerca della salute nei mari e sui monti sono disciplinati dall’alto ed i giovani debbono trovare la gioia del divertirsi in un dopolavoro ufficiale, che cosa è lo stato, se non una struttura estranea all’uomo, una cornice vuota? Nella estate del 1943 gli italiani erano giunti in fondo alla via che essi avevano scelto ventun’anni prima. Su quella via, breve e diritta, erano balenati dinnanzi ai loro occhi imperi, fortune e grandigie; ma poiché quella via significava la rinuncia degli italiani alla dura lotta, al diuturno sforzo, al rischio continuo in favore della chimera della sicurezza, della pace, della tranquillità, della prosperità assicurata e promessa da altri, quella via doveva necessariamente fatalmente condurre sull’orlo dell’abisso. Chiunque fosse stato il salvatore, il messia, qualunque fosse stato il verbo, il vangelo, quella era la meta alla quale si doveva arrivare. A quella stessa meta si giungerebbe di nuovo, fra dieci, fra vent’anni se nuovamente gli italiani, ansiosi di trarsi indietro dall’abisso al quale oggi sono affacciati, si affidassero ad un uomo, ad un partito, ad un mito, ad una forza venuta dal di fuori: russa, inglese od americana. Dobbiamo, sì, recitare il mea culpa; ma dobbiamo anche orgogliosamente affermare: La salvezza è in noi e soltanto in noi!

Il grande esperimento

Il grande esperimento

«L’Italia e il secondo risorgimento», 25 novembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 68-75

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 73-79

 

 

 

 

Venticinque anni fa, gli italiani furono posti dinnanzi ad un grande problema: il massimo problema che le società moderne debbono risolvere se non vogliono perire: l’immissione del popolo, di tutto il popolo nello stato. Non era un problema nuovo, né peculiare all’Italia. Un secolo innanzi Alessio di Tocqueville, traendo nel gran libro su La démocratie en Amérique le fila di quel che aveva visto negli Stati Uniti, si poneva, angosciato, il quesito: sopravviverà la democrazia, sopravviverà la civiltà quando la società non sarà più composta di proprietari, di industriali, di artigiani, di commercianti, di professionisti, di uomini indipendenti, ma di grandi masse umane proprietarie delle loro sole braccia, non attaccate da alcun vincolo materiale e spirituale alla terra, al borgo, alla città e pronte a darsi in braccio al demagogo che ad esse faccia promesse di benessere e di felicità?

 

 

Quarant’anni dopo, il grande storico Jacob Burckhardt, meditando nel suo studio basilese sulle sorti di Europa, vedeva ripetersi la vicenda dell’impero romano distrutto non dai barbari, ma dalle folle dei circhi avide di panem et circenses; e lo stato, per assicurare alimenti e divertimenti alle masse, s’era irrigidito, era divenuto una macchina colossale comandata dall’alto, priva di spontanea interiore, tutti servi del principe e da questi ordinati in cerchie ed in corporazioni chiuse e legati insieme da mortale meccanica solidarietà; finché, all’urto del barbaro, condotto talvolta da romani, fuggiti nelle selve germaniche in cerca di vita più sciolta e libera lo stato era caduto perché l’uomo il quale non ha in sé le ragioni di vita, non è capace di alzare il braccio per difendersi.

 

 

Angosciato anch’egli, Jacob Burckhardt chiedeva nel 1870: che cosa sarà dell’Europa quando le moltitudini andranno all’assalto dello stato dietro la guida dominatrice di un capo popolo?

 

 

Fra il 1912 ed il 1918 l’Italia aveva affrontato il grande problema, attribuendo il diritto di suffragio prima a tutti i maggiorenni forniti di un censo minimo e di studio elementare e poi a tutti i maggiorenni in genere ed anche ai minorenni i quali avessero combattuto nella grande guerra. Il corpo elettorale era salito improvvisamente da 3 a 9 e poi a 10 milioni di uomini; e fra essi un quarto erano analfabeti. Una improvvisa profonda mutazione del ceto politico si imponeva. Al luogo del gruppo ristretto di uomini probi, illustri gli uni per ingegno e per scritti, amati gli altri per le lunghe prove sofferte nelle galere e negli esili, sperimentati i più nelle cariche pubbliche amministrative, i quali avevano, tra l’indifferenza universale, compiuta la miracolosa opera del risorgimento, entrava sulla scena politica un ceto nuovo di uomini in gran parte ignoti; e tra non pochi demagoghi, i migliori di essi erano organizzatori operai e contadini, nuovi tuttavia alla pratica legislativa ed all’amministrazione dello stato.

 

 

L’esperimento del governo dei più, anzi di tutti, fu turbato e reso più aspro dalla guerra del 1914-18. Non sovratutto a causa delle sofferenze umane e delle perdite materiali.

 

 

Le perdite di uomini e le sofferenze dei mutilati e dei combattenti furono sopportate con animo virile. Le perdite materiali, limitate del resto al Veneto, non superarono la capacità di resistenza del paese. Siccome le spese di una qualunque guerra sono coperte esclusivamente con mezzi presenti; siccome è assurdo il concetto si possano costruire cannoni e fucili, fabbricar munizioni, vestire e nutrire soldati con mezzi futuri; così fu la generazione di uomini vissuta tra il 1914 ed il 1918 e, per qualche strascico di liquidazione, tra il 1919 ed il 1922, quella che sopportò tutto l’onere, tutta la fatica della condotta della guerra. In lire del 1914, quella guerra costò all’Italia 46 miliardi di lire (gli altri 19 furono pagati dalle anticipazioni di carbone, ferro, grano, cotone, lana, armamenti, ecc., fatteci dagli alleati a titolo di prestiti mai restituiti e quindi non gravanti sul reddito nazionale); onere enorme per un paese, il cui reddito annuo totale (somma dei redditi individuali di tutti gli italiani) era calcolato allora in 20 miliardi di lire. Dal 30 al 50 per cento del reddito nazionale fu assorbito dalle spese di guerra.

 

 

Ma l’onere non avrebbe lasciato traccia alcuna, se vi si fosse potuto provvedere con imposte e con prestiti propriamente detti. Finita la guerra, il reddito nazionale rimasto invariato avrebbe subito una non grande variazione nella sua distribuzione a causa del pagamento degli interessi del nuovo debito pubblico dai contribuenti ai creditori dello stato.

 

 

Non fu così, perché il sistema tributario preesistente al 1914 non era fornito della elasticità necessaria, ossia della capacità ad espandersi, la quale è data sovratutto da una ben congegnata imposta sul reddito complessivo, atta ad essere temporaneamente cresciuta da aliquote del 10 per cento ad altre più alte del 20, del 30, del 50 per cento del reddito. Insigne per altri rispetti, il sistema tributario italiano soffriva e soffre tuttavia per l’altezza grossolana delle aliquote sue anche in tempo di pace. Come aumentare il gettito di imposte sui terreni e sui fabbricati che, se si tiene conto dei cosiddetti centesimi addizionali comunali e provinciali, giungevano in pace al 20, al 30 e al 40 per cento del reddito, a seconda dei luoghi? Come triplicare o quadruplicare la massima imposta sul reddito, quella di ricchezza mobile, se questa era già, nella sua aliquota generale, del 20 per cento? Si quadruplica un 10 per cento; è difficile quadruplicare – eppur sarebbe necessario in tempo di guerra – un 20 od un 30 per cento.

 

 

Fu giuocoforza istituire la pessima tra le imposte, che fu il torchio dei biglietti. Non essendo riuscito a farsi consegnare a forza, con le imposte, o per invito, con i prestiti volontari, tutto il fabbisogno per la condotta della guerra, lo stato dovette stampare biglietti. All’incirca la quantità dei biglietti di banca fu, tra il 1914 ed il 1919, aumentata da 2,2 a 10 miliardi di lire. Lo stato poté così, con gli 8 miliardi di lire di biglietti, che al tesoro costarono solo le spese di carta e di stampa, recarsi sul mercato ed, in concorrenza con i cittadini provvisti di soli 2,2 miliardi di lire di potenza di acquisto, acquistare i beni ed i servizi a se stesso necessari.

 

 

La massa dei beni e dei servizi (reddito nazionale) prodotta ogni anno rimanendo la stessa, un po’ per volta, a mano a mano che i biglietti crescevano, si trovò di fronte non più due, ma tre e poi quattro e poi cinque, sei, sette, otto, nove e dieci miliardi di biglietti. Ossia i prezzi aumentarono e con essi aumentarono le quattro o cinque volte i redditi dei cittadini, i quali altro non sono se non la somma dei prezzi delle merci e dei servizi prodotti e venduti dai cittadini.

 

 

Il reddito del contadino è la somma, ad esempio dei prezzi dei quintali di grano da lui venduti; il reddito del medico è la somma dei prezzi (onorari) dei suoi servizi di medico. Moltiplicandosi i prezzi per cinque, si moltiplicano automaticamente per cinque i redditi.

 

 

Anche qui, i risultati sarebbero stati del tutto innocui se, nel 1919 tutti i redditi si fossero contemporaneamente visti moltiplicati per cinque. Sarebbe accaduto un fenomeno simile a quello che Alessandro Manzoni descrisse, parlando della folla che s’alzava in punta di piedi per vedere il gran cancelliere Ferrer quando nella carrozza portava in salvo il tremante vicario di provvisione: tutti alzandosi in punta di piedi per veder meglio, ognuno vedeva esattamente come prima.

 

 

Se tutti i redditi crescono nel tempo stesso da uno a cinque, ognuno resta nella medesima situazione sociale di prima. Sono mutati i nomi, sono mutate le voci numeriche delle cose; tutti paiono essere divenuti più ricchi per numero di lire ricevute o possedute; ma la massa dei beni e dei servizi acquistati con quelle tante più lire e invariata.

 

 

I risultati non furono tuttavia innocui; ché i prezzi ed i redditi non variano tutti insieme e tutti nella stessa misura. Vi sono redditi i quali restano fissi per ragion contrattuale: chi aveva dato a mutuo allo stato 100.000 lire e riceveva 3.500 lire di interesse annuo, con cui una famiglia di medio ceto poteva modestamente vivere, continuò a ricevere 3.500 lire svalutate e poté vivere per due o tre mesi, invece che per un anno. La rendita essendo perpetua, il creditore non poté chiedere alcun aumento di interesse. Chi poté, alla scadenza, farsi rimborsare il capitale, si trovò fra mano 100.000 lire svalutate, il cui reddito, anche se eventualmente cresciuto a 4.000 o 5.000 lire, ebbe però una potenza di acquisto grandemente inferiore a quella antica delle 3.500 lire pre-1914. I pensionati vecchi, provvisti di pensioni di 100 lire al mese – ed erano, allora, pensioni discrete -ottennero sussidi di caro vita di qualche decina o cinquantina di lire, insufficientissimi al cresciuto costo della vita. Gli impiegati stentarono a far aumentare gli stipendi da uno a tre ed alla fine, con i prezzi cresciuti a cinque, subirono un abbassamento nel loro stato sociale. Gli operai riuscirono meglio ad equilibrare salari con prezzi; ma tardi ed attraverso ad agitazioni ed a scioperi costosi e perturbati. Gli inquilini si avvantaggiarono a causa del vincolo dei fitti, a danno dei proprietari di case; gli affittuari a danno dei proprietari dei terreni.

 

 

Fu, sovratutto, la distruzione e l’impoverimento dei ceti medi, viventi in parte del frutto dei risparmi compiuti in passato da essi medesimi o dai loro vecchi. Fu l’inoculazione di un microbo sociale distruttivo: il paragone insidioso che ogni uomo fa delle proprie mutate sorti con quelle di ogni altro uomo. Sinché una società è stabile, sinché le mutazioni dei redditi, dei ceti, delle industrie, delle professioni sono graduali, vi può essere lotta, emulazione, anche malcontento che sono sempre stimolanti; ma non esiste la rabbia di tutti contro tutti, che conduce alla dissoluzione sociale. Anche chi ha veduto i propri redditi crescere da uno a cinque e perciò non ha sofferto nulla per la svalutazione monetaria, non si volta indietro a commiserare coloro i quali sono rimasti fermi all’unità od hanno visto aumentare i propri redditi solo da uno a due, a tre od a quattro e sono perciò immiseriti. No. Costui guarda innanzi, a coloro, i quali, per essere agricoltori coltivatori diretti o fittavoli, o industriali, o commercianti o speculatori hanno profittato subito e meglio dell’aumento dei prezzi ed hanno visto aumentare i propri redditi a sei, a sette, a dieci. Chi si locupletò, col crescere del reddito a dieci, guarda al fortunatissimo, che fruì del moltiplico venti. Nessuno è contento. Tutti sono dominati dall’ansia del futuro incerto. Scriveva nel 1771 Ferdinando Galiani, forse l’italiano di più vivo pronto penetrante ingegno del secolo XVIII: «Se la svalutazione monetaria violasse soltanto la fede pubblica, sarebbe peccato venialissimo. Essa fa ben peggio: essa uccide la gioia pubblica… La gioia interna del cuore dell’uomo, la vera gioia è il risultato del riposo e della sicurezza che l’uomo sente rispetto al suo stato ed al suo avvenire. Se il valore monetario di tutte le cose è mutato, il turbamento si impadronisce di tutti i cuori, tutti ignorano la propria sorte e la gioia scompare dal mondo» (a p. 280 dei Dialogues sur le commerce des blés).

 

 

Questo era lo stato degli animi nel momento nel quale dovevano vedersi i primi frutti del grande esperimento del suffragio universale iniziato nel 1912 e sospeso dalla guerra. Le riforme sociali, le quali avrebbero potuto aver luogo con successo in un ambiente di fervida discussione; le lotte del lavoro (alcuni miei articoli di prima e d’allora furono poi raccolti con questo titolo di Lotte del lavoro da Piero Gobetti, indimenticabile allievo) che dovevano essere e sarebbero state feconde di progresso sociale, caddero in un clima stravolto di odi passionali di classi contro classi, tutte scontente e in aspettazione dell’avverarsi del millennio, dell’avvento del Salvatore.

 

 

Le prime risultanze del nuovo parlamento eletto dalle masse popolari, improvvisamente chiamate a partecipare alla vita dello stato, furono causa di terrore per molti. Grossi e piccoli, ricchi e mediocri ed umili tremarono: che sarà di noi, fuscelli travolti nella bufera? Piccoli episodi parvero giganteschi. Ricordo Giovanni Faldella, antico giornalista, scrittore di penetranti schizzi di Montecitorio e di lievi novelle a sfondo piemontese, in vecchiaia senatore ed assiduo frequentatore della biblioteca di quel corpo, dirmi un giorno: hai visto che nella camera ci sono persino dei tiraborse? Alludeva ad una domanda di autorizzazione a procedere per lieve furto presentata contro un neo deputato. Al mite Faldella, passato intatto, come la grande maggioranza dei parlamentari suoi coetanei, attraverso gli scandali della Banca romana, quella domanda di autorizzazione a procedere pareva annunciatrice della decadenza dell’elettorato che inviava e della camera che accoglieva uomini imputati di cosa tanto degradante.

 

 

Pochi si sottraevano all’impressione pessimistica. Giustino Fortunato, grande e da tutti onorato parlamentare tra il 1880 ed il 1920, persisteva invece nell’aver fiducia. Egli che aveva avuto famigliarità con molti venerandi uomini del risorgimento ed aveva assistito a discussioni non seconde a nessuna delle più famose della camera dei comuni, sosteneva che le violenze verbali ed i tumulti della nuova camera sorta dal suffragio universale non dovevano spaventare, ma invece essere presagio di bene. Era necessario che gli uomini nuovi, che gli organizzatori di leghe operaie e contadine mandati in parlamento dai loro compagni a popolare le file dei socialisti e dei cattolici, facessero il loro tirocinio, si addestrassero al lavoro di far leggi e di controllare il governo. Tra quegli uomini nuovi sarebbero certo emersi amministratori seri e governanti esperti, e sarebbero stati non inferiori persino agli uomini della antica destra, i quali furono sinora il fior dei nostri consessi legislativi. Migliori perché scelti non dai pochi, ma dai più.

 

 

Questa era la sentenza vera che ancora oggi deve darsi di quell’esperimento. Era naturale, era fatale che in quei primi anni venissero alla ribalta della scena politica i demagoghi, i promettitori larghi, gli annunciatori di messianici rivolgimenti; ma era altrettanto certo che negli uffici, nelle commissioni i dove si compie il vero lavoro legislativo, avrebbero finito per imporsi i lavoratori seri e che, alla scuola degli anziani, dal mondo operaio e contadino sarebbero venuti fuori politici di prim’ordine, capaci di trovare le vie per portare, senza scosse distruttive, il nostro paese a più alto grado di vita civile. Ed era certo che, scomparso il disavanzo dal bilancio dello stato in virtù della legge Giolitti-Soleri del 27 febbraio 1921, abolitrice del prezzo politico del pane, e tolta così la causa “unica” la quale faceva lavorare il torchio dei biglietti, avrebbe avuto termine la svalutazione della lira. Chiuso il ciclo dei disavanzi e delle degradazioni monetarie, gli uomini avrebbero ricominciato a guardare fiducia nell’avvenire, e l’esperimento del governo di tutti avrebbe potuto compiersi in un ambiente economiche non più turbato dallo spettro dell’abisso, nel quale tutti avevano paura di cadere ad ogni istante.

 

 

L’esperimento non poteva allora essere condotto a termine, e non potrà esserlo in avvenire, senza lotta e senza dolori. I ceti possidenti, i ceti medi avrebbero dovuto rassegnarsi a dimostrare ad ogni giorno, ad ogni ora il proprio diritto a vivere in virtù dell’opera ogni giorno ed ogni ora compiuta; avrebbero dovuto rassegnarsi a guardare in faccia questa verità: essere oramai tramontato “per sempre” il sogno della vita tranquilla all’ombra di un investimento sicuro dei propri risparmi.

 

 

Per non avere voluto riconoscere la verità che la vita è lotta continua – e tutti in quei fatali anni dal 1919 al 1922, tutti senza eccezione di ceti o classi, di ricchi e di poveri anelarono alla tranquillità, alla sicurezza, alla prosperità riposante – per aver voluto quasi unanimi sottrarsi alla lotta, che abbatte i deboli ma innalza i forti, gli italiani furono condotti ad un porto di pace. Pace sì, ma quella che regna a Varsavia. Fu la pace del reclusorio.

 

 

Junius

Giornalisti e leghe

Giornalisti e leghe

L’Italia e il secondo risorgimento, 18 novembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 571-579

Giornali e giornalisti, Fondazione Luigi Einaudi per studi di politica ed economia, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 31-41

 

 

 

 

Il problema dei giornalisti è, nonostante i numerosi punti di contatto, distinto da quello dei giornali. Esso è stato posto un mese fa dal congresso delle leghe dei lavoratori britannici, il quale ammise nell’aula, dove si tenevano le sedute, solo i giornalisti iscritti alla lega. Per rappresaglia, i direttori dei giornali britannici decisero di boicottare le sedute del congresso, astenendosi dal pubblicarne i resoconti. Non so se ed a quale compromesso si sia giunti in Inghilterra; ma so che la questione è importante sia per quanto riguarda la libertà di stampa, sia per quel che tocca il diritto dei lavoratori del giornale ad organizzarsi per la tutela dei loro interessi.

 

 

Si premetta innanzitutto che il problema non tocca il diritto indiscutibile dei redattori, cronisti, collaboratori ed altri lavoratori intellettuali del giornale di organizzarsi in associazioni intese a difendere gli interessi economici e morali dei loro soci.

 

 

Il problema è unicamente quello di sapere se, al diritto indiscutibile delle associazioni giornalistiche ad esistere, corrisponda l’obbligo dei direttori dei giornali di assumere soltanto giornalisti iscritti alla associazione. Il che vuol dire esclusione dal lavoro giornalistico di tutti coloro i quali non siano iscritti alla associazione.

 

 

Faccio astrazione dal quesito connesso, ma non identico, se l’iscrizione possa avvenire ad una tra parecchie associazioni concorrenti o debba aver luogo presso una sola associazione, la quale, essendo unica, dovrebbe avere necessariamente carattere pubblico. Il quesito è importantissimo, ma non è peculiare alle associazioni giornalistiche e deve essere discusso a parte, per non confondere problemi differenti.

 

 

Il problema dell’obbligo generico dell’appartenenza ad una qualunque associazione (lega, sindacato, ordine, ecc.) è più generale; ma nel caso dei giornali esso assume aspetti singolari, i quali toccano davvicino l’interesse pubblico.

 

 

Quale motivo addusse il congresso 1944 delle leghe dei lavoratori britannici a sostegno del rifiuto di ammettere nell’aula delle sedute giornalisti i quali non fossero iscritti all’associazione? Pare che il motivo addotto fosse questo: che solo un giornalista giudicato degno di far parte dell’associazione giornalistica presenti le garanzie morali necessarie richieste a chi deve compilare un rendiconto imparziale, oggettivo, non tendenzioso di una discussione, di un fatto, di un avvenimento.

 

 

Il motivo era bene scelto; ed era in verità il solo che potesse essere addotto. Il congresso delle leghe operaie, come la camera dei comuni, od il consiglio comunale o la qualunque assemblea, o comizio, o consiglio di ente pubblico o privato ed in generale la persona od ente la quale compia fatti od assuma posizioni, discuta, agisca in modo che i suoi atti o decisioni o parole possano presentare un interesse per il pubblico, può essere considerato come un fornitore di notizie, di giudizi, di discussione ai giornali; ed ha un interesse a che le notizie, i giudizi e le discussioni giungano al pubblico in modo rispondente a verità.

 

 

Questo, del rispetto alla verità, è il solo interesse che abbia carattere pubblico e sia rispettabile. Non è interesse pubblico e non è rispettabile il desiderio dei congressi, parlamenti, consigli, comizi, enti e persone che le notizie ed i fatti siano riferiti esclusivamente da proprî affiliati, obbligati a seguire quelle che siamo stati abituati a sentir chiamare le “direttive” del fornitore delle notizie e dei fatti. Se l’obbligo della iscrizione del giornalista alla lega volesse dire che, nel compilar rendiconti e nel narrare fatti, il giornalista deve seguire le direttive o gli ordini della lega, dove mai andrebbe a finire la libertà di stampa? Durante il ventennio fascista non esistettero giornali nel nostro paese, perché i giornalisti dovevano ubbidire a “direttive”. C’è forse differenza tra il ricevere direttive da un ministero della stampa e propaganda ovvero da una lega o dal gruppo o partito il quale comanda alla lega? Assolutamente no. Perciò la lega non può arrogarsi il monopolio di fornire le notizie al pubblico, col mezzo di giornalisti ubbidienti alle direttive della lega.

 

 

Difatti, sembra che il congresso britannico pretendesse soltanto che l’iscrizione alla lega fosse lo strumento necessario ed efficace a garantire l’indipendenza e l’imparzialità del resocontista. Il congresso, fornitore di notizie, afferma cioè in sostanza che la iscrizione alla lega non è richiesta nell’interesse proprio, egoistico di fornitore di notizie, ma in quello generale, pubblico della consecuzione della verità. Non la tutela propria mosse il congresso; bensì quella del pubblico desideroso di conoscere la verità e di non vederla contraffatta dall’interesse di parte o di classe. Il terreno era indubbiamente bene scelto, poiché nessuno può affermare che sia invece interesse pubblico che i fatti od i dibattiti giungano a notizia dei lettori dei giornali in maniera difforme dalla verità.

 

 

Il problema sembra ora chiarito e si riduce al punto se l’appartenenza alla lega giornalistica sia garanzia di verità.

 

 

Vi son casi nei quali l’interesse pubblico ha richiesto per determinati uffici la appartenenza ad un ordine: degli avvocati, dei medici, degli ingegneri, dei notai, ecc.

 

 

Si può dubitare sino a qual punto siano valide codeste ragioni; ma non si può contestare che esse traggono dalla concorde esperienza dei tempi e dei luoghi un notabile fondamento.

 

 

È lecito estendere il ragionamento da questi pochi casi a quello dei giornalisti? Si può asseverare che la appartenenza all’ordine dei giornalisti sia prova delle qualità intellettuali e morali richieste per la trascrizione fedele e veritiera dei fatti e degli avvenimenti?

 

 

Le qualità intellettuali si provano per gli avvocati, i medici, gli ingegneri, i farmacisti, i notai con esami sostenuti dinnanzi a commissione universitarie o statali. Dobbiamo istituire scuole di giornalismo e diplomi o lauree come condizione alla appartenenza all’ordine o lega o sindacato dei giornalisti? Nessuna idea può apparire più ingenua e lontana dal raggiungimento dello scopo come la scuola di giornalismo. Questa fa il paio con altre scuole balorde, come degli organizzatori sindacali, che vedemmo istituite nel ventennio passato allo scopo preciso di rendere spregevole e ridicola la funzione coperta. Vedemmo giovanotti diplomati far da sopracciò nei sindacati operai e padronali in luogo dei soli organizzatori degni di questo nome, che sono gli uomini venuti su dal piccone di muratore, dalla zappa di contadino, dall’ufficio di direzione e venuti su perché chiamati dalla fiducia dei compagni. Così dei giornalisti. Orator fit. Non esistono scuole di oratoria. Oratori si nasce o si diventa per esperienza. Non esistono cattedre o scuole di giornalismo. Solo giornalisti falliti possono dedicarsi a questo secondo mestiere. Un giornalista nato o fatto si ride dei professori di giornalismo. È bene che i giornalisti conoscano storia od economia o filosofia; ma devono essere storie od economie o filosofie vere, non ridotte ad uso dei giornalisti. È bene che i giornalisti sappiano scrivere; scrivere, casomai, si apprende nei licei e nelle facoltà di lettere, non in scuole per giornalisti. E non occorre affatto aver licenze liceali e lauree in lettere per avere idee e saperle mettere per iscritto.

 

 

Manzoni e Leopardi non avevano licenze e lauree; né Benedetto Croce si laureò mai in nessuna università. Winston Churchill, grande giornalista, fu pessimo scolaro; né portò a termine, pare, regolarmente gli studi. Nessuno dei veri grandi giornalisti del nostro tempo attribuì ai papiri delle lauree e dei diplomi, anche se li possedeva, il menomo peso. Furono giornalisti nonostante e non mercé le lauree ed i diplomi.

 

 

Ove si lasci da un canto questa buffa storia delle dimostrazioni da darsi, con una qualche maniera di esami, della attitudine ad essere iscritti nell’ordine giornalistico, resta la prova della attitudine morale a dir la verità. C’è qui un barlume di vero; ma direi che esso sia limitato ai corpi chiusi. È vero ed è necessario che le facoltà universitarie e le accademie scientifiche e, in un campo diverso, i circoli di società valutino attentamente le qualità morali di coloro i quali aspirano ad entrare nella facoltà od accademia o circolo. Vi è una cattedra vacante in una facoltà composta di 12 membri e concorrono due scienziati, ambi valorosi, dei quali il primo ha maggior valore scientifico, ma è noto come attaccabrighe o scontroso con gli allievi, od ha una vita privata dubbia? È chiaro che gli undici votanti preferiranno quasi sempre ad unanimità l’aspirante valoroso scientificamente, sebbene in grado minore dell’altro e lasceranno che l’uomo più celebre e giustamente più celebre gridi all’ingiustizia ed alla camorra. Essi lo hanno valutato anche, come era loro stretto dovere, al punto di vista morale e, avendolo trovato calante, hanno preferito l’uomo più modesto ma inattaccabile.

 

 

Quel diritto di esclusiva, il quale necessariamente deve essere esercitato nei piccoli corpi chiusi, come le facoltà e le accademie, può essere esteso ai grandi corpi aperti, come le associazioni dei giornalisti? Le differenze sono notevoli. Là, non si tratta di un problema economico. Il professore resta professore, anche se da Siena non è chiamato a Firenze, o da Parma a Pavia. La non chiamata non toglie all’insegnante o all’aspirante accademico i mezzi di vita. Invece, il rifiuto di iscrizione in un sindacato giornalistico, toglierebbe, se l’iscrizione fosse necessaria per esercitare la professione, la possibilità di vita all’escluso. Vogliamo ricostituire la scomunica medievale e, per giunta, affidarne l’esercizio ai concorrenti del giudicabile? I consigli dei sindacati giornalistici sono composti di giornalisti; e sarebbe atroce se a costoro fosse data facoltà di negare ad un giovane (od anche ad un anziano o vecchio) il diritto di esercitare il mestiere, sotto pretesto di inettitudine a dire la verità. Se un giornalista si è reso moralmente indegno, siano i tribunali ordinari od i giurì d’onore a condannarlo per i reati o per le indelicatezze commesse. Nessun direttore di giornale vorrà assumere al suo servizio un condannato per reati comuni. Nemmeno a questi si nega, tuttavia, la possibilità dell’ammenda; e si fondano patronati per i liberati dal carcere allo scopo di facilitare ad essi la ripresa del lavoro e la redenzione. Il problema è di costume morale e deve essere risoluto caso per caso dai direttori dei giornali, i quali, nell’interesse proprio, sono i migliori tutori della illibatezza della impresa da essi governata. Sarebbe immorale che il giudizio sulla moralità dei giornalisti fosse pronunciato dai soci dei sindacati giornalistici, i quali hanno un interesse economico alla limitazione del numero di coloro i quali hanno il diritto di esercitare la professione. Risusciteremmo in pieno la vecchia corporazione, non quella viva e vigorosa dei comuni medievali, ma quella decadente dei secoli XVII e XVIII, quand’era divenuta mancipia dell’assolutismo; e la risusciteremmo nel suo contenuto peggiore, che era il diritto di esclusiva aris et focis dei giovani aspiranti ad esercitare un mestiere.

 

 

Se escludiamo il diritto delle associazioni giornalistiche a giudicare, come maestri, delle attitudini intellettuali, e, come magistrati, della dignità morale dei giornalisti, che cosa rimane del problema posto? Unicamente questo: e l’associazione dei lavoratori del giornale lo strumento adatto a garantire al pubblico che i rendiconti e le notizie ed i commenti pubblicati dai giornali siano veritieri e non tendenziosi? Qui siamo giunti al nocciolo sostanziale del problema; e qui la soluzione è una sola: non esiste il giudice, perché il solo fatto del porre il problema dimostra che chi lo pone è nemico della verità e della libertà di stampa.

 

 

Esiste invero un solo criterio per giudicare se una affermazione o un principio o una notizia sia vera o falsa: la libertà di contraddirla. Chi afferma che può esistere un giudice della verità, della tendenziosità, della capziosità, afferma necessariamente, trattandosi di sinonimi, che è lecita la censura della stampa, che è cosa buona esista qualcuno il quale dichiari che quello è il rendiconto esatto, che quella è la notizia vera, che quello è il commento o giudizio imparziale. Chi afferma ciò, afferma necessariamente che deve esistere un ministero della stampa e propaganda, il quale abbia diritto di segnare le “direttive” ai direttori dei giornali e di censurarne l’operato. Che il censore si chiami ministero della stampa e propaganda e trasformi i giornali in bollettini della voce del padrone; o si chiami associazione dei giornalisti, non monta. Salvo che in tempo di guerra e per le notizie relative alla guerra, nessun censore di nessuna specie e sotto qualsivoglia nome, è tollerabile in paese libero.

 

 

Dobbiamo dunque rassegnarci alle notizie tendenziose, se non apertamente false ed ai commenti capziosi, se non chiaramente calunniosi? Ebbene sì. La tendenziosità e la capziosità sono inevitabili in ogni notizia ed in ogni commento o giudizio. Che cosa è uno scrittore il quale non abbia i suoi occhi per vedere, il suo cervello per giudicare? Egli è un manovale del giornalismo, non un giornalista. Non v’è occhio che veda come vedono altri occhi, non v’è cervello che giudichi come gli altri cervelli. Se esistono, quelli sono occhi di un cieco, cervelli inetti a pensare. Ogni cronaca, ogni rendiconto, ogni giudizio se è vivo e pensato deve offendere, come scorretto e tendenzioso e capzioso, qualcuno che ha visto o giudicato lo stesso fatto con altri occhi e con altro cervello.

 

 

Nulla di più irriverente alla libertà del pensiero di andar cercando rimedi a siffatto irrimediabile e necessario e benefico stato di cose. L’oratore in un’assemblea o in un comizio non può sperare di ottenere imparzialità, la imparzialità da lui desiderata, nemmeno se egli fornisce il testo preciso del discorso da lui pronunciato al giornalista; poiché è diritto assoluto, irrecusabile del giornalista di tagliare, sfrondare e riassumere il discorso secondo il criterio suo proprio; e tagliando, sfrondando e riassumendo ricreare il discorso secondo detta il suo cervello, quello del giornalista e non quello dell’oratore. È chiaro che la eccellenza nell’arte giornalistica sarà conseguita da colui il quale riesce ad immedesimarsi siffattamente nel pensiero dell’oratore, da riprodurlo o riassumerlo con la fedeltà ed obbiettività massima; ma è chiaro altresì che l’eccellenza raggiunta è opera esclusiva insindacabile del giornalista. Chi si lagna della infedeltà nei rendiconti, dimostra di essere uomo di cattivo gusto. Nove volte su dieci è un esibizionista, il quale pretenderebbe che i giornali si occupassero di lui e dei suoi cosidetti pensieri, sebbene egli sia il signor “nessuno” ed i suoi pensamenti siano rifriggiture di nozioni mal digerite. Quell’una volta su dieci, in cui la querela abbia un certo fondamento, il, chiamiamolo così, danneggiato ha diverse maniere di ristabilire quella che a lui pare la verità. La peggiore di tutte è la richiesta di una rettifica, per mano di usciere o per atto di cortesia, al giornale colpevole di tendenziosità o di capziosità. Se non si tratti di rettificare fatti o dati precisi, la rettifica finisce di essere più lunga della notizia o del commento tendenzioso e la richiesta dell’inserzione offende il diritto sacrosanto del direttore del giornale di comporre il giornale secondo i criteri i quali paiono buoni a lui e di non lasciarsi trascinare a polemiche e controrettifiche e spiegazioni quasi sempre inconcludenti e noiose.

 

 

Esistono sempre giornali di altri partiti, di altre tendenze, i quali saranno ben lieti di ospitare, non rettifiche (le quali indicano la mancanza di ogni più elementare senso di buon costume giornalistico in chi, facendole, non si limita a restaurare dati precisi di fatto senza apprezzamenti o controversie), ma riesposizioni o rielaborazioni di pensiero o di condotta letteraria o politica od artistica. Che cosa sono i giornali di parti avverse se non mezzi di far giungere al pubblico la espressione di pensieri contrastanti? E non è forse uno dei tanti modi di esprimere pensieri contrastanti quello di narrare il medesimo fatto in maniere differenti, di giudicare pessimo quell’atto o giudizio che altri considera ottimo? Il pubblico, nel contrasto, è il solo giudice sovrano. È ovvio ed è bene che i giornali di parte, dove i fatti e i giudizi sono necessariamente tendenziosi, siano letti soltanto dai seguaci risoluti di quella parte e dagli avversari altrettanto decisi a cercare motivi di polemica; ed è ugualmente ovvio che il grande pubblico si rivolga invece di preferenza ai giornali i cui direttori si sforzano di raggiungere la obbiettività massima compatibile con la fralezza della natura umana. Ma è anche ovvio e necessario che gli uni e gli altri giornali non siano frastornati dai rompiscatole, sempre pronti ad accusare di tendenziosità o di parzialità o di incompiutezza ed a pretendere rettifiche ed integrazioni. Costoro, i rompiscatole, meritano ed ottengono, in regime di vera libertà di stampa, una sanzione decisiva; il silenzio. Silenzio di tomba sui loro atti e misfatti, sui loro pensieri o pensamenti.

 

 

Sino a che non si giunga all’ingiuria, alla diffamazione od alla calunnia, il giornale deve essere libero di scrivere e non scrivere, di far rendiconti lunghi o brevi, di esporre notizie nel modo che meglio talenti al direttore, di giudicare bene o male, di ragionare colla testa o coi piedi. Si può essere sicuri che, in regime di libertà compiuta di stampa, il giornale sistematicamente tendenzioso o falsificatore sarà giudicato tale anche dai lettori e vedrà ridursi la sua tiratura e la sua pubblicità. Se vorrà, nella gara quotidiana, sopravvivere, dovrà correggersi da sé. Se non lo farà, andrà a fondo.

 

 

L’ingiuria, la calunnia e la diffamazione sono materia di tribunali penali. Fummo, in Italia, indulgentissimi in proposito; e converrà cambiar metro. Norme severe, se necessario, dovranno essere introdotte ed osservate per punire i calunniatori, gli ingiuriatori ed i diffamatori a mezzo dei giornali, alla pari dei colpevoli ordinari di calunnia, di ingiuria e di diffamazione. Anzi più. La circostanza che il reato fu compiuto a mezzo della pubblica stampa deve essere considerata come un’aggravante e la pena deve essere perciò accresciuta e non diminuita. Se l’opinione pubblica incoraggerà i giudici ad essere severissimi, spietati contro i reati di giornalismo, grande giovamento ne ritrarrà la nostra missione.

 

 

Junius

Contro la proporzionale

«L’Italia e il secondo risorgimento», 4 novembre 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 59-67

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 125-139

“Proporzionalismo” è, come la più parte delle parole in “ismo”, parola degenerata; variazione impura dell’idea di “proporzione” che è bellezza, che è giustizia, che è sapienza, che è uguaglianza. Il Partenone, che non è perfetto rettangolo, che non è perfettamente perpendicolare, le cui colonne non sono perfettamente equidistanti, è proporzione ed è perciò bellezza perfetta. Il grattacielo novecentistico che ubbidisce compiutamente alle regole della uguaglianza e perpendicolarità è bruttezza perfetta. Uomini ubbidienti alle regole della uguaglianza e della giustizia numericamente perfetta inventarono il metodo detto “proporzionale” nella formazione dei consessi legislativi. Il metodo non si applica ordinariamente nella scelta dei membri dei senati o camere alte, sia che essi derivino, in tutto od in parte, da nomina regia o presidenziale o siano tratti da particolari gruppi o ceti sociali ovvero siano i delegati di stati o comuni federati o di circoscrizioni territoriali più o meno autonome. Qui ebbero gran peso gli accidenti storici, i quali presiedettero alla formazione degli stati moderni, e le forze sociali o politiche o militari, dalle quali sorse un dato tipo di stato o di costituzione; e poiché gli accidenti e le forze non ubbidiscono alle regole della logica pura, le camere alte sono necessariamente costruzioni violatrici per antonomasia dei comandamenti della logica pura e della geometria politica. Non per questa ragione esse operano bene o male; ma per altre cause che qui sarebbe fuor di luogo esaminare.

Le esigenze della giustizia si impongono invece ovviamente, a parere dei più, nella scelta dei membri delle camere elettive. Nessun altro metodo migliore essendosi nei tempi moderni escogitato fuor del contare le teste e del dare il maggior peso politico al maggior numero degli elettori, il problema parve ridursi a quello della scoperta del metodo migliore da usarsi nel contare le teste degli elettori. Due metodi opposti si possono applicare in proposito: quello del collegio elettorale piccolo, i cui elettori sono chiamati ad eleggere a maggioranza un solo deputato e quello del collegio grande, in cui gli eletti siano scelti in base alla forza proporzionale degli aderenti ai vari partiti concorrenti.

Ove si scelga il primo metodo e si supponga che la futura camera italiana sia composta di 500 membri, come era all’incirca prima del 1922 e che gli italiani giungano a 45 milioni, dovremo dividere il territorio nazionale in 500 collegi, ognuno dei quali, forte di circa 90.000 abitanti, sarà chiamato ad eleggere un deputato.

In Italia lo si usava eleggere a maggioranza assoluta dei votanti. Se gli elettori iscritti, supponendo per il momento che le donne siano escluse dal voto, sono, ad es. 25.000, ed i votanti 20.000, era dichiarato eletto quel candidato il quale riportava almeno 10.001 voti. In Inghilterra, basta la maggioranza relativa; e, perciò, se i candidati sono tre e 20.000 i votanti ed il candidato conservatore riporta 9000 voti, quello laburista 8000 e il liberale 3000 voti, è dichiarato eletto il candidato conservatore, sebbene rappresenti solo una minoranza degli elettori votanti. Anche in Italia poteva accadere che i candidati fossero tre o più e nessuno di essi riuscisse eletto a maggioranza assoluta alla prima votazione; ed allora si procedeva nella successiva domenica ad una seconda votazione detta di ballottaggio, limitata però, nell’esempio fatto sopra, ai due soli candidati conservatore e laburista, rimasti primi in lizza; e riusciva eletto chi dei due riportava il maggior numero dei voti. Il secondo criterio è parso agli italiani più giusto, perché consente agli elettori di esprimere le loro preferenze di maggioranza a favore dell’uno o dell’altro candidato.

Non appena tuttavia si comincia a parlare di “giustizia” nella scelta dei deputati, subito si vede che il sistema del piccolo collegio, detto uninominale, non soddisfa alle esigenze della giustizia nella ripartizione dei mandati e può dar luogo a risultati strani. Siano 1.000.000 gli elettori votanti di una grande regione e 50 i deputati da eleggere. Se 400 mila sono gli elettori conservatori, 400 mila i laburisti e 200 mila i liberali, a ragion di aritmetica proporzionalistica ai conservatori spetterebbero nel grande unico collegio esteso all’intera regione 20, ai laburisti 20 ed ai liberali 10 deputati. Ma se la regione è divisa in 50 piccoli collegi, chiamati a scegliere ciascuno un solo deputato, possono accadere le combinazioni più impensate. Può darsi, ad esempio, che i 400 mila elettori laburisti siano concentrati in 10 grossi borghi industriali, dove essi, possedendo la maggioranza assoluta, mandano alla camera dieci deputati. I 200 mila liberali sono forti in sole tre cittadine commerciali ed una universitaria e ricevono perciò 4 soli mandati. I conservatori hanno la maggioranza relativa nei 36 altri collegi, a popolazione prevalentemente rurale o mista ed ottengono 36 mandati, sebbene in parecchi di essi la loro maggioranza relativa ovvero (se sia applicato il metodo italiano) assoluta, sia esigua. I liberali sono ridotti ad una piccola pattuglia, i laburisti hanno una rappresentanza inferiore alla loro forza nel paese, ed i conservatori stravincono oltre ogni giustizia.

Accanto a quello dell’ingiustizia un altro inconveniente si rinfaccia al piccolo collegio uninominale ed è il grado molto notevole di mutabilità nella composizione della camera elettiva in confronto a quella del corpo elettorale. Cresca invero da 400 a 420 mila il numero degli elettori laburisti e scemi a 391 mila il numero degli elettori conservatori ed a 189 mila quello degli elettori liberali. Nell’unico grande collegio regionale con rappresentanza proporzionale (1 eletto ogni quoziente di 20 mila elettori o frazione più alta di 20 mila) i laburisti ottengono 21 mandati, i conservatori 20 ed i liberali 9. La composizione della rappresentanza parlamentare muta, secondo giusta ragione, di poco. Invece, nel sistema dei piccoli collegi, la maggioranza conservatrice, che in 20 sui 36 collegi posseduti era piccola, può andare perduta a favore dei laburisti. Se questi conservano le loro forze nei 10 loro vecchi collegi, ecco il numero dei laburisti balzare da 10 a 10 più 20, ossia 30 e diventare maggioranza; e poiché i conservatori da 36 si riducono a 16 mandati ed i liberali conservano i 4 collegi, il potere passa ai laburisti. È la classica frana (land slide) elettorale. Un “minimo” spostamento di voti basta a mandare l’uno piuttosto che l’altro partito al potere; che è nuova ingiustizia aggiunta alla prima.

Giova subito dire che nei paesi anglosassoni, nei quali il regime democratico si è meglio affermato come atto a governare grandi stati, l’opinione pubblica è rimasta nella sua grandissima maggioranza praticamente insensibile a questa che parrebbe chiara ed evidente dimostrazione della ingiustizia propria del sistema del piccolo collegio uninominale. Invano la piccola pattuglia liberale, la quale tende ad essere a poco a poco eliminata dall’abbandono degli elettori, pure fedeli ai principii del partito, ma disgustati dalla inutilità dei voti assegnati ad una parte schiacciata fra le due maggiori, tentò anche recentemente di dimostrare l’ingiustizia di assegnare 36 mandati al partito che aveva appena ottenuto il 40% dei voti, 10 soli a quello che aveva per sé il favore del 40% degli elettori e quattro al terzo partito che pure disponeva del 20% dei suffragi. Invano tentò di far presente ai conservatori il rischio di diventare minoranza di parlamento e di dover perciò abbandonare il potere se venti sole migliaia di elettori avessero spostato il loro voto. Conservatori e laburisti rimasero insensibili alle argomentazioni di ingiustizia e di mutabilità governativa e deliberarono di tenersi stretti al vecchio metodo del collegio piccolo uninominale.

Si interessarono tutti, sia detto di passata, assai di più ad un’altra questione, che a noi parrebbe piccolissima, quella della eventuale convenienza di ricostruire l’aula della Camera dei comuni distrutta dai bombardamenti tedeschi, in modo che nella nuova aula potessero star seduti tutti i deputati di cui nella vecchia aula un buon terzo doveva stare in piedi a causa dell’angustia dello spazio. Ed, unanimi, deliberarono non solo di non ricostruire l’aula ad anfiteatro così da far parlare l’oratore al numero massimo di colleghi e di conservare la vecchia forma rettangolare, che fa parlare l’oratore solo alla parte avversa; ma di mantenerla nelle sue antiche anguste dimensioni, sì da obbligare nelle sedute affollate molti membri a star in piedi in fondo alla sala. Deliberarono così, perché ritennero che una delle condizioni essenziali del buon funzionamento del regime parlamentare sia quella che l’aula dei dibattiti non si converta in un comizio rivolto al pubblico, ma conservi il carattere di una stanza nella quale gli uomini del governo in carica intervengono a difendere l’opera propria e gli uomini del governo futuro sorgono a criticare l’opera medesima; in un’atmosfera di mutua stima e di sforzo di vicendevole persuasione rivolto al bene comune.

Le ragioni per le quali la madre dei parlamenti non si interessò quasi affatto al dibattito tra i fautori del sistema proporzionale nel grande collegio e quelli del sistema di maggioranza nel piccolo collegio sono complesse. Esse si possono riassumere in due specie di considerazioni, attinenti le une ai limiti e le altre ai compiti dei partiti nella vita politica. Attinenti in primo luogo ai limiti; e qui sia osservato subito che i partiti sono un mero strumento. La vita politica, la partecipazione consapevole dei cittadini alla cosa pubblica non consiste nel creare partiti e nel votare per gli uomini designati dai partiti. Questi non sono un fine, un ideale; sono un semplice mezzo con il quale si cerca di rendere più agevole ai cittadini di formarsi una opinione e di rendere efficace ed attiva l’opinione medesima. È utile che coloro i quali per la loro comune cultura, per l’affinità dei loro interessi, per la simiglianza dei loro ideali di vita intendono avviare lo stato verso una meta ritenuta preferibile ad altre, si raggruppino insieme e cerchino di far proseliti, di ottenere aderenti al proprio ideale e di persuaderli ad inviare nel parlamento uomini deliberati a far trionfare nelle leggi e nell’azione concreta di governo gli ideali comuni. Altri, che ha diversi ideali, è bene si unisca con coloro con i quali ha comunanza di idee, per tentare parimenti di guadagnare il favore degli elettori. Non esiste a priori un limite al numero delle correnti politiche diverse, le quali possono manifestarsi a mezzo dei partiti. Invece di cinque o sei, i partiti potrebbero diventare dieci o dodici o ridursi a due o tre, come accade nei paesi dove il meccanismo parlamentare funziona più efficacemente. Come in tutte le cose umane, l’utilità dei partiti, che è di raggruppamento degli uomini aventi opinioni comuni per il raggiungimento di scopi comuni di carattere politico, incontra limiti, oltrepassati i quali l’utilità si converte in danno. Può essere conveniente riunirsi in partiti per dare a talune correnti di idee una rappresentanza nel parlamento; ma quale scopo avrebbe – per porre un caso estremo – aderire a questo od a quel partito allo scopo di fare prevalere questa o quella opinione filosofica o religiosa, questa o quella teoria scientifica? La verità filosofica – se debba essere rappresentata dalla dottrina immanentistica o trascendentale o esistenziale -; la verità economica – se la teoria del valore-lavoro sia vera o falsa, se la teoria della moneta- lavoro abbia un qualche senso -; la verità storica – se le variazioni storiche si spieghino o non col materialismo economico – non sono decise da alcuna maggioranza in qualsiasi parlamento. Se anche una unanimità parlamentare decida, come tra applausi fragorosi consentì una tal quale assemblea in regime totalitario, che la teoria dell’autarchia economica è la sola vera e la sola lecita, basta la dimostrazione contraria di un solo studioso ribelle per mettere nel nulla qualsiasi deliberazione di partiti e di parlamenti. Esistono idee tendenze opinioni credenze le quali sono al di fuori della azione dei partiti e su cui questi non possono menomamente influire. Gli italiani non devono trovare alcun impedimento alla libera varia spontanea espressione dei loro desideri, delle loro aspirazioni, delle loro tendenze, dei loro propositi. Il fatto che i partiti, quelli sorti o apparsi alla gran luce dopo il 25 luglio, hanno provvisoriamente assunto la rappresentanza degli italiani non ha affatto per conseguenza che gli italiani debbano essere rappresentati esclusivamente dai partiti medesimi, né che essi debbano farsi valere soltanto attraverso ad essi.

Principiis obsta. Importa fin da ora, fin dal primo inizio della nuova vita politica italiana, affermare nel modo più chiaro e reciso – non adopero, perché ripugnante, la brutta parola “inequivocabile” venuta di moda a scopo di intimidazione nel tempo del ventennio fascista – che gli italiani non hanno affidato e non debbono affidare ad alcun partito o riunione di partiti la rappresentanza delle loro idee e dei loro interessi. Esiste forse una qualsiasi differenza fra l’impero esclusivo dell’unico partito fascista sulle cose della educazione, dello sport, della stampa, della editoria, del commercio, dell’economia ecc. ecc., e l’esclusività che si vorrebbe attribuire ai partiti nei rapporti fra i cittadini e lo stato? Inavvertitamente, lo spirito fascista, caduto il regime, proietta ancora la sua triste ombra su di noi. Inavvertitamente, quando ci rivolgiamo a “qualcuno”, ad un uomo, ad un partito, ad un gruppo, perché ci guidi, ci indirizzi noi facciamo dedizione della nostra volontà, noi rinunciamo ad essere uomini e cittadini.

Perché la libertà, la democrazia, l’autogoverno diventino una realtà viva, perché noi non ci limitiamo a mutar fianco sul letto di dolore, ma ci risolviamo a rizzarci in piedi, uopo è, ad esempio, che gli italiani:

  • ricostituiscano essi la loro stampa, che sarà o non sarà di partito, a seconda dei propositi di chi farà questo o quel giornale; e la sola esigenza sarà che siano dichiarati apertamente i partiti dei quali ogni giornale sarà l’organo o gli uomini individualmente, all’infuori dei partiti, responsabili della pubblicazione;
  • manifestino liberamente le loro opinioni ed i loro voti e li facciano pervenire, dove e come vogliono e possono, sia al governo legale, sia al partito da ognuno preferito, sia direttamente all’opinione pubblica in genere;
  • formino, oltre ed accanto ai partiti, comitati e movimenti intesi a propugnare idee che non trovano luogo od accoglimento nei programmi dei vari partiti o non vi trovano quel luogo eminente che a taluno può sembrare essere il loro proprio. Vi è chi crede essere la federazione europea o quella degli stati democratici un punto programmatico di primissima importanza nelle decisioni le quali dovranno essere prese alla fine della guerra? Reputa altri dovere essere agitata sovratutto l’idea della immediata abolizione della protezione doganale, dei vincoli al commercio internazionale e simili? Chi ha queste opinioni sia libero di costituire leghe, movimenti, associazioni a quello scopo particolare; leghe e movimenti intesi ad agire sulla opinione pubblica, sul parlamento, sul governo, sui partiti medesimi, senza il beneplacito e senza la sanzione o l’intermediazione necessaria di verun partito o comitato di partito. Ed i comitati ed i movimenti e le leghe siano, se così piace, momentanei ed effimeri; comitati di studio e di iniziativa, destinati a raccogliere temporaneamente tutti coloro che in un certo momento ritengono un problema così importante da dovere essere illustrato a quanti, privati ed enti pubblici, partiti o parlamenti o governi, possono avere una qualche voce nel decidere in merito.

Solo dopo aver posto nettamente la distinzione tra i partiti e le opinioni, tra il compito dei partiti politici e quello delle varie correnti religiose, filosofiche, sociali, economiche e politiche, è possibile dare un giudizio intorno alla pretesa di tutte le correnti ideali ed economiche esistenti in un paese di essere rappresentate nei parlamenti in proporzione alla propria importanza numerica. Quella pretesa fu sin dal 1842 chiaramente posta da Victor Considerant in uno dei primi scritti proporzionalistici: «tutte le opinioni, anche le più assurde e mostruose, hanno diritto di essere Rappresentate».

Ebbene no. È necessario dichiarare invece apertamente che questa della rappresentanza delle opinioni è, come tante altre, come ad esempio quella della autodecisione dei popoli e della separazione assoluta del potere legislativo da quello esecutivo o della sovranità dei parlamenti sui governi, e, peggiore di tutte, della sovranità piena degli stati indipendenti, una concezione distruttiva anarchica, inetta a dar vita a governi saldi. La rappresentanza proporzionale fu inventata da aritmetici raziocinatori, inetti a capire che i paesi non si governano con le regole del due e due fanno quattro, e del 38 più 15 maggiore di 47. Nossignori: due e due possono fare cinque e 47 vale certamente meglio di 38 più 15. I parlamenti non sono società di cultura od accademie scientifiche. Sono organi, il cui scopo unico è quello di formare governi stabili e di controllarne l’azione. Come disse il primo ministro del primo governo laburista, Ramsay Mac Donald, le elezioni non si fanno per contare le opinioni, per fare il censimento (census, in inglese) delle sette, dei ceti, dei partiti, dei movimenti, dei gruppi sociali, religiosi, politici, ideologici in cui si fraziona una società, la quale sia composta di uomini vivi e pensanti; ma si fanno per mettersi d’accordo in primissimo luogo sul nome della persona che in qualità di primo ministro sarà chiamato a governare il paese, e in secondo luogo sul nome di coloro che collaboreranno con lui o che ne criticheranno l’operato. Le elezioni hanno cioè, per scopo di creare il consenso (consensus e non census) intorno ad un uomo ed al suo gruppo di governo ed intorno a chi oggi sarà il suo critico e domani ne prenderà il posto se gli elettori gli daranno ragione. Se non si vuole l’anarchia, questo e non una sterile accademica rassegna di opinioni è lo scopo unico preciso di un buon sistema elettorale.

Risponde alla esigenza il sistema della proporzionale? No. I suoi fautori, ossessionati dall’idea curiosa che un parlamento debba essere la fotografia della infinita varietà delle opinioni che lottano in un paese libero, hanno dimenticato curiosamente che esiste un rapporto fra il sistema elettorale vigente in un paese ed il numero delle frazioni e dei gruppi in cui si divide il suo parlamento. Vogliamo che il numero dei partiti, dei gruppi, dei sottogruppi parlamentari si moltiplichi all’infinito? Dobbiamo in tal caso scegliere la proporzionale; ma dobbiamo nel tempo stesso sapere che, così facendo, avremo fatto quel che meglio si poteva per impedire il funzionamento di un governo solido, duraturo ed operoso. Colla proporzionale, ossia con un collegio elettorale grande (ad es. Lombardia, Piemonte, Emilia ecc.), chiamato ad eleggere, supponiamo, 50 deputati, scelti in modo che ogni gruppo, il quale giunga almeno a 20 mila elettori, abbia un proprio rappresentante, noi diamo un premio al moltiplicarsi dei gruppi. Ognuno, il quale abbia o creda di avere un’idea capace di attirare a sé 20 mila elettori, promuoverà la formazione di un proprio gruppo. C’è chi vuole sia posto un dazio sul grano? O chi dice essere un inaudito sopruso l’obbligo della vaccinazione? O chi voglia la denuncia del concordato col Vaticano? O la introduzione obbligatoria della partecipazione ai profitti degli operai? O chiede sia introdotto l’istituto del divorzio? C’è chi è comunista staliniano? Ovvero trotzkista? Od anarchico di una delle varie confessioni anarchiche? O liberale all’antica, o neo-liberale? Conservatore-liberale? Conservatore-riformista? Cristiano-centrista o cristiano comunisteggiante? Perché il possessore di una opinione distinta e ben netta, di un programma particolare da attuare, il quale a lui paia sovra ogni altro importante, non dovrebbe tentare di costituire un gruppo? Ed ecco i 50 deputati della Lombardia divisi in quattro o cinque o dieci gruppi, provveduti ognuno di tanti deputati quanti sono i quozienti di almeno 20 mila elettori che ogni gruppo è riuscito a raccogliere sotto la sua bandiera. Ed ecco i 50 deputati del Piemonte divisi in altri tre o quattro o sei gruppi, non identici necessariamente ai gruppi lombardi. In ogni grande collegio, in Liguria, nel Veneto, in Toscana, in Sicilia, gli interessi, le opinioni, i gruppi sociali sono diversi ed i gruppi hanno una particolare fisionomia; ed ecco i parlamenti frazionarsi all’infinito. Pur non esagerando, la probabilità della formazione di tre o quattro grossi partiti e di una diecina di minori gruppi è evidente ed irrimediabile. Con siffatta composizione non è improbabile che la formazione di una maggioranza di governo dipenda dall’appoggio di qualche gruppo minore, il quale non rappresenta alcun interesse veramente generale o nazionale, ma una qualunque idealità particolare, cara ad una piccola minoranza della nazione. Se ci sono venti deputati divorzisti ed altrettanti deputati anticoncordatari decisi a vendere il proprio voto al più alto prezzo, pur di far trionfare il proprio particolare punto di vista, ci troveremo dinnanzi ad un governo di coalizione, il quale sarà costretto a far votare dalla propria maggioranza la legge divorzista o quella anticoncordataria od un’altra qualunque legge, senza che vi sia alcuna benché minima probabilità che quella legge sia sul serio voluta dalla maggioranza degli elettori. I deputati sono eletti su programmi particolaristici classistici professionali religiosi, i quali interessano questa o quella minoranza, questa o quella fazione. Ogni gruppo spinge avanti il proprio programma particolare; e la legislazione che ne esce è un composto bizzarro di norme particolaristiche, volute ognuna da una piccola minoranza e tali che sarebbero, se il referendum fosse una maniera ragionevole di formulare leggi in faccende talora complicatissime, respinte tutte dalla grandissima maggioranza dei cittadini.

In fondo la proporzionale è il trionfo delle minoranze; ognuna delle quali ricatta le altre ed il governo, il quale dovrebbe essere l’espressione della maggioranza, per costringere parlamentari e governi a votare e proporre leggi volute dai singoli gruppi. Cinquanta divorzisti eletti come tali e formanti gruppo a sé sono una forza ben diversa da cinquanta deputati, i quali hanno iscritto il divorzio in un programma più generale di un partito ad ideali complessi, di cui il divorzismo è solo uno dei tanti aspetti. Il gruppo dei divorzisti che non si preoccupa d’altro che del divorzio è disposto a dare il voto a chiunque gli prometta di far trionfare il suo piccolo ideale e può, all’uopo, addivenire alle alleanze più illogiche. I divorzisti generici invece, se facciano parte di una maggioranza che non vuol rinunciare al governo o di una minoranza che non vuole perdere la speranza di conquistarlo, daranno al divorzio un posto adeguato nell’ordine gerarchico dei fini da conseguire; e solo se esso sia veramente richiesto dalla coscienza giuridica nazionale lo anteporranno agli altri e giocheranno su esso le fortune del partito.

Insieme ai ricatti, la proporzionale favorisce il dominio dei comitati elettorali e toglie all’elettore ogni effettiva libertà di scelta dei propri rappresentanti. In un grande collegio, come la Lombardia od il Piemonte, nel quale l’elettore deve scrivere o far proprii i nomi di 50 candidati, quale conoscenza mai l’elettore ha di ogni singolo candidato? Ne conoscerà uno o due o tre; gli altri per lui sono meri nomi. Egli deve votare la lista quale gli è presentata dal comitato. Ogni cancellazione o sostituzione di nomi sarebbe vana. Tanto varrebbe che egli si astenesse dalle urne. Più il metodo viene perfezionato con i sistemi delle preferenze dell’abbinamento delle liste o dei voti cumulati, più imbrogliamo la testa dell’elettore medio e più cresciamo il potere dei comitati che combinano le preferenze, i cumuli, gli abbinamenti. L’elettore buon uomo ha creduto di dare il voto ad una lista perché in essa aveva veduto i nomi di persone stimate e note; ed alla fine, con sua stupefazione, vede quei nomi cacciati in fondo alla lista, epperciò non eletti. In testa, sono arrivati i traffichini, coloro che combinano e pasticciano liste, preferenze, cumuli e simiglianti imbrogli.

Nei grandi collegi regionali o, peggio, nazionali, che sono l’accompagnamento necessario della proporzionale, il partito fatalmente diventa una organizzazione dominata dall’alto. Dai comitati spontaneamente formatisi tra uomini dimoranti nella medesima città (o comune), e poi via via raggruppati in comitati provinciali, regionali e nazionali, nasce l’organizzazione; e questa vuol dire un ufficio, anche mobile o provvisorio, con uno o parecchi segretari, un consiglio, un presidente o somiglianti organi direttivi. Si costituisce una gerarchia, che originariamente mossa dal basso all’alto, presto diventa interdipendente tra il basso e l’alto. Se il partito acquista una organizzazione nazionale, fatalmente finisce per preponderare l’azione, la decisione che va dall’alto al basso. Si crea una macchina; ed è la macchina la quale in sostanza designa i candidati al parlamento, distribuisce le cariche, formula i programmi, influisce sulla composizione dei governi. Guai all’uomo politico indipendente, il quale non segua le direttive del partito, il quale osi criticare gli uomini del partito di governo od i capi designati al futuro governo dei partiti di opposizione. Nasce la tirannia del partito, funesta come qualsiasi altra tirannia. Napoleone perfezionò l’istituto degli “intendenti” dell’antico regime e dei “commissari” della convenzione e creò la macchina “prefetto”, che aduggia ed annulla in Francia ed in Italia il valore della democrazia. Non meno funesta è la macchina del partito. In taluni paesi, i pericoli della “macchina” di partito sono apparsi così evidenti, che, sotto la pressione dell’opinione pubblica, i legislatori hanno dovuto emanare norme allo scopo di assicurare la libertà e la effettiva manifestazione della volontà degli aderenti ai partiti. Il costume politico, accanto alle leggi, ha negli Stati Uniti regolato oramai le elezioni dei “candidati” alle cariche parlamentari e pubbliche “in seno ai singoli partiti” altrettanto minuziosamente come le elezioni “tra i candidati” da parte degli elettori in genere, allo scopo di sottrarre la scelta dei candidati al monopolio dei comitati municipali, provinciali, statali e nazionali, comitati i quali nel loro insieme costituiscono la “macchina” del partito.

I comitati, divenuti padroni delle elezioni, fanno invero degenerare l’istituto del mandato rappresentativo; che, se vale qualcosa, è un mandato di fiducia dato ad una persona, affinché questa voti od operi nel modo che la coscienza gli detta nelle circostanze ognora mutabili della vita pubblica. Ma i comitati non vogliono nei parlamenti uomini dalla coscienza indipendente; sì invece uomini che attuino quel programma che sta scritto nelle tavole della legge del partito o del gruppo o gruppetto; epperciò si inventano i mandati imperativi, con le dimissioni in bianco, sottoscritte dai candidati prima delle elezioni e spedite d’ufficio al presidente della camera quando il deputato recalcitri agli ordini del comitato del partito, del gruppo o gruppetto. Il flagello dei comitati non è proprio della proporzionale; ma è aggravato da questa. Che cosa è il candidato invero, se non un numero di una lista? È forse egli una “persona” atta a pensare e deliberare in modo autonomo? No. Egli è stato votato perché iscritto in una lista. Talvolta gli elettori non scrivono neppure il suo nome; e sono invitati a votare per la lista bianca o verde o rossa o gialla. Se egli, bianco, alla camera vota coi verdi, è un traditore e sarà espulso. Moltiplicando i partiti, ed asservendoli ai comitati, la proporzionale favorisce le dittature ed i colpi di mano. Col sistema della maggioranza nel piccolo collegio, ogni partito ha la speranza di diventare in avvenire maggioranza seguendo le vie legali della persuasione degli incerti. Ma quale mai speranza può avere una minoranza di… – chiamiamoli divorzisti od antivaccinisti per non designare in modo particolare questo o quel partito o tendenza od opinione – quale speranza, dico, possono avere i divorzisti o gli antivaccinisti di diventare maggioranza? Nessuna. La proporzione dà ad ogni partito o gruppo tanti rappresentanti quanti sono gli elettori aderenti a quel credo. Quale probabilità ha il divorzista di far proseliti tra gliantivaccinisti e di diventare così maggioranza? Nessuna: il divorzista resta tale e l’antivaccinista pure. Perché dovrebbe accedere all’opinione altrui? Altro rimedio non resta, per conquistare la maggioranza, se non ricorrere all’antico accettato e lodato metodo dello spaccare le teste degli avversari, invece di contarle, come è usanza delle contrade civili.

Se in questa materia le statistiche valessero qualcosa, varrebbe la pena di fare il conto dei paesi governati dopo il 1918 da costituzioni perfettissime elaborate da costituenti sapientissime e naturalmente retti da parlamenti eletti a norma delle più raffinate regole proporzionalistiche. Si vedrebbe che nei paesi i quali dimenticarono l’aurea massima secondo cui le sole costituzioni vitali sono quelle che o non furono mai scritte, come quella britannica o se in tempi oramai remoti (1787, 1830, 1848 ecc.) furono scritte, i costumi e gli emendamenti ne cambiarono la faccia in modo da renderle di fatto una cosa tutta diversa da quella originaria; si vedrebbe che quasi sempre le assemblee proporzionalistiche andarono a finire nella dittatura. Uno scrittore americano fece quel conto; ed essendogli venuto fuori il bel risultato che dopo il 1919 la proporzione finì bene in stati abitati da 40 milioni di abitanti e finì male, ossia la dittatura, in assai più stati, popolosi di ben 200 milioni, concluse, che la proporzionale è il vero cavallo di Troia con cui i regimi autoritari riescono a penetrare nelle fortezze democratiche. Insigne fra i casi di tradimento della proporzionale fu quello italiano, dove nessun governo duraturo poté reggere dopo il 1918.

Bisogna rassegnarsi a piantarla lì con i piccoli giochetti aritmetici della cosidetta giustizia proporzionale nel decidere intorno a faccende serie come sono la scelta dei legislatori e dei governi. Non è cosa seria presentare liste composte non di nomi di persone, ma di formule stampate nei più diversi colori dell’iride. L’elettore fa d’uopo sia costretto a decidersi: o Tizio o Caio. Se anche Sempronio e Mevio si vogliono presentare ai suffragi dei conterranei, buon pro, lor faccia. Ma l’elettore deve, se vuol scrivere qualcosa, metter giù un solo nome, quello della persona che a lui pare più meritevole dell’alto onore. In Italia, se i deputati dovranno essere 500, si dovran fare 500 collegi o distretti elettorali di circa 90 mila abitanti l’uno. Un distretto di 90 mila abitanti è una entità naturale. Gravita attorno a una cittadina, ad un luogo di mercato; è composto di borghi aventi interessi comuni, abitati da gente che ha reciproci rapporti quotidiani. I candidati sono personalmente conosciuti dai loro amici: proprietari od industriali, operai o contadini, bottegai od artigiani, non di rado professionisti noti e più o meno stimati. Saranno celebrità locali? Tanto meglio. In un parlamento si infiltrano sempre troppi uomini celebri, illustri in questa o quell’arte o scienza e sovratutto nell’oratoria. Manca invece la gente la quale viene dal basso, che ha compiuto le sue prove facendo il sindaco o l’assessore dei comuni, governando leghe degli operai, cooperative o consorzi agricoli, amministrando opere pie od ospedali.

Il collegio piccolo, nel quale un solo candidato riesce eletto, non è certo il toccasana. Tirannie di comitati, mandati imperativi, imbrogli di faccendieri, imbottimento di crani della buona gente ad opera di chiacchiere di arrivisti sono mali inevitabili. Nessun parlamento al mondo vi si può  sottrarre. La mediocrità di tanti deputati italiani d’innanzi al 1922 era dovuta al sistema amministrativo accentrato, che faceva di ogni deputato un galoppino procacciante favori agli elettori. Ridiamo vita autonoma ai comuni ed alle regioni, mandiamo a spasso i prefetti ed avremo risanato in gran parte, nel solo modo adatto, la vita parlamentare. Se non è il toccasana, il collegio piccolo è il solo modo di forzare l’elettore a decidersi. È da riflettere persino se non convenga abolire il ballottaggio e proclamare vincitore subito il candidato il quale ha ottenuto la maggioranza relativa dei voti. Se i votanti sono 20.000 e Tizio ha avuto 8000 voti, Caio 7000 e Sempronio 5000; sia eletto senz’altro Tizio, sebbene non abbia raggiunto la metà più uno dei voti. Peggio per gli elettori i quali non hanno saputo decidersi e tra il bianco di Tizio e il rosso di Caio, hanno preferito il grigio di Sempronio. In Inghilterra, tra i conservatori ed i laburisti, i liberali sono stritolati e perdono costantemente terreno. Gli elettori liberali si stancano di disperdere i loro voti e finiscono per riversare i loro voti, a seconda delle inclinazioni, sui conservatori e sui laburisti. Vecchio (sebbene abbia l’ingenuità di credermi, con altri quattro gatti dispersi nei cantoni più diversi del mondo, un neo liberale) liberale quale sono, non mi allarmo affatto di questa scomparsa del liberalismo in Inghilterra. Innanzitutto, può ben darsi che il malcontento dell’elettore medio verso i due partiti dominanti provochi una rinascita del partito liberale. In ogni caso quella scomparsa è apparente e vuol dire soltanto che il liberalismo sta permeando, sta trasformando i due grandi partiti; rende più aperti alle idee nuove i conservatori e più cauti e sperimentati i laburisti, che da noi si direbbero socialisti; rende liberale il conservatorismo e crea il socialismo liberale.

Le maggioranze nei parlamenti vivi sono fabbricate dagli elettori i quali non sono iscritti ai partiti organizzati; dagli uomini i quali giudicano governi e parlamenti alla cote sperimentale dei risultati ottenuti. Le camere hanno nei paesi moderni due uffici: l’uno è quello di costituire il governo del paese e ciò è compito della maggioranza; l’altro è quello di criticare l’opera del governo così costituito, e ciò è opera della minoranza. Se la maggioranza è di 4 e la minoranza è di 1, il governo è forte e può durare sino alla fine della legislatura; e la minoranza può pienamente esercitare l’ufficio suo che è quello di dimostrare che quel che fa il governo è mal fatto ed è criticabile a questo o quel punto di vista. Spetta agli elettori, alle prossime elezioni, dare un giudizio sull’operato del governo e sulle critiche dell’opposizione. Nessun male ed anzi molto bene se in queste nuove elezioni il mutamento anche solo di 2000 voti dai conservatori ai laburisti trasforma la maggioranza di 4 dei primi in una minoranza di 2; e se i laburisti da 1 diventano 3. Un buon sistema elettorale ha appunto per scopo di consentire agli incerti, ai 2000 su 100.000, la cui opinione non è già bell’e fatta, di spostarsi e di dar la vittoria all’una od all’altra delle due parti. La frana elettorale che gli inglesi chiamano landslide ed è impossibile nel sistema proporzionalistico, non è un male. Non è la massa degli elettori fedeli, la quale conta e deve contare. I conservatori fedeli rimarranno sempre tali, anche se il partito conservatore commettesse un sacco di spropositi durante la sua permanenza al potere; ed i fedeli laburisti chiuderanno sempre gli occhi dinnanzi agli errori dei propri rappresentanti. Chi decide e merita di decidere sono gli incerti, gli oscillanti, i quali giudicano sui risultati; fedeli ai conservatori sinché costoro fanno bene, rivoltosi in caso contrario. Il pendolo elettorale oscilla esclusivamente per merito della gente indipendente la quale regola la sua opinione non sulle parole, ma sui fatti. La rivolta degli elettori incerti consente alla pubblica opinione di farsi valere attraverso o nonostante la macchina dei partiti che tiene salda in pugno la massa degli elettori fedeli la quale non desidera formarsi una opinione propria ma accetta bell’e fatta l’opinione dei gruppi e dei loro capi. Grazie a questa opinione media indipendente ed oscillante ci si può sottrarre, nei collegi elettorali piccoli, dove le elezioni sono decise, tra pochi candidati noti, col sistema della maggioranza assoluta o, meglio, con quello della maggioranza relativa, alla molteplicità dei partiti ed allo spezzettamento dei gruppi politici nella camera elettiva. Gli elettori, che i partitanti si compiacciono di chiamare amorfi, votano a favore del partito che, facendo bene, ha commesso il minimo numero di errori o che dà affidamento di far meglio. Grazie ad essa nasce un governo saldo, che dispone di una forte maggioranza e non teme la critica della minoranza. Che importa che la minoranza sia piccola o grande? Purché essa esista, se anche ridotta di numero, se anche ridotta ai sette o cinque dei corpi legislativi del secondo impero e purché essa esponga critiche fondate, essa è sicura di spostare a proprio favore gli indipendenti e di conquistare la vittoria. Appetto di questi vantaggi che assicurano il buon governo del paese, che cosa conta il vanto dell’ossequio alla giustizia astratta del sistema proporzionalistico? Irrigidendo le opinioni, consentendo solo lentissimi spostamenti nelle assemblee legislative, essa è la consacrazione del dominio dei partiti i quali patteggiano tra di loro la condiscendenza propria alle idee altrui a condizione di reciprocità nella adesione altrui alle idee proprie. Al compromesso fecondo dinnanzi all’elettore medio indipendente il cui voto bisogna conquistare con la bontà dei programmi e più dei risultati conseguiti, si sostituisce il do ut des dei gruppi dei jacobins nantis, dei partitanti sicuri di conservare una parte del potere pur di lasciar godere della residua porzione altri partitanti anch’essi già arrivati.

L’errore massimo di principio della proporzione è di confondere la lotta feconda delle parti, dei gruppi, degli ideali, dei movimenti, la quale ha luogo nel paese, con la deliberazione e l’azione dei parlamenti dei governi. Nessun parlamento, nessun governo funziona se il sistema elettorale irrigidisce i partiti, i gruppi, le classi, i ceti sociali, le tendenze, le idee, dandone la rappresentanza esclusiva a talune persone elette perché mandatarie di quei gruppi o di quelle idee. Occorre vi sia un congegno il quale obblighi le idee, i gruppi, i ceti a cercare quel che essi hanno di essenziale, di comune con altri, a classificare i fini, a rivolgere la propria azione verso quel fine che ha il consenso dei più. I divorzisti hanno ragione di patrocinare il loro fine; ma è gran bene che lo attuino soltanto quando esso sia divenuto convinzione della maggioranza, quando questa lo abbia messo in testa al proprio programma. Se siano eletti come gruppo politico autonomo, i divorzisti sono una peste sociale, un germe di dissoluzione della società politica. Ove gli stessi uomini siano scelti perché, in contrapposto ad altri uomini, furono ritenuti i migliori, essi hanno necessariamente interessi ed ideali complessi da far trionfare, di cui il divorzio è uno solo. Da demolitori si convertono in costruttori. L’idea nuova non si difende e non si fa trionfare nei parlamenti. Essa nasce nei libri e nelle riviste, si propaga nei giornali, dà origine ad associazioni, a gruppi di propaganda, conquista l’opinione pubblica, e cioè l’opinione media, quella di coloro che non sono già gli adepti di un credo. Solo allora, ed è bene che ciò accada solo allora, se non si vuole che i parlamenti siano popolati da inventori sociali, da fanatici, da gente tocca nel cervello, gli uomini politici se ne accorgono. Solo allora i capi della minoranza vedono in quel movimento un pretesto per criticare il governo, il quale non ha ancora capito l’importanza della nuova idea. Solo allora i capi della maggioranza di governo, costretti a difendersi, si occupano del problema posto dall’idea nuova e vanno al contrattacco, dimostrando che l’idea non è nuova ed è sbagliata. La lotta si accende e, se davvero l’idea è nuova e vitale, viene il giorno in cui il capo della maggioranza, se vuol sopravvivere, proclamerà: l’ho sempre detto anch’io! e, convertendo quell’idea in legge, la fa trionfare nel momento giusto. Se il trionfo, per ricatto di gruppi, avesse avuto luogo prima, sarebbe stato ingiusto ed effimero.

Glorie e pericoli delle leghe operaie

Glorie e pericoli delle leghe operaie

«L’Italia e il secondo risorgimento» 12 agosto 1944

«La città libera», 22 marzo 1945[1]

«Il Progresso liberale», 16 febbraio 1946[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 507-514

 

 

 

 

Leghe operaie monopoliste e profittatrici? Non è la domanda medesima un’ingiuria agli scopi, all’indole del movimento, il quale innalzò dappertutto in Europa i lavoratori dalla miseria e dall’abbrutimento ad una condizione civile di vita, li chiamò a prender parte alla vita collettiva e politica, uomini integri e consapevoli, invece di strumenti passivi della volontà altrui? Questo, l’elevazione e la trasformazione dell’uomo lavoratore, fu il grande servizio che il movimento di libera associazione, iniziato al principio dell’800 in Inghilterra, variamente diffuso in Europa durante la prima metà del secolo, giunto in Italia poco dopo il 1870, rese al mondo. I lavoratori divennero cittadini quando cominciarono a trattare da pari a pari con i datori di lavoro; e, divenuti pari, furono lavoratori diversi da quelli di prima, sicché, in un ambiente di emulazione e di lotta, in un’atmosfera di libera contrattazione, e perciò informata, invece che ad ubbidienza comandata, all’osservanza di obblighi liberamente assunti ed osservati, essi contribuirono alla produzione più e meglio di prima e meritarono maggiori salari e condizioni più umane di vita.

 

 

L’aumento dei salari e la diminuzione delle ore di lavoro non fu la automatica conseguenza della mera associazione, del presentarsi uniti, invece che isolati, a contrattare. A nulla sarebbe valso il contratto collettivo, se la produzione non fosse aumentata e se la torta del reddito lordo da spartire non fosse cresciuta: il fermento innovatore che provocò, per effetto dell’opera delle leghe, l’aumento del prodotto lordo da spartire, fu la volontà dei lavoratori di vivere meglio, fu la deliberata volontà, resa manifesta dall’unione fraterna di tutti i lavoratori, di non continuare a soggiacere alle condizioni misere alle quali prima erano rassegnati. L’uomo che rialza il capo è diverso da colui il quale lo inchinava ossequioso; e costringe, col suo drizzarsi, l’altra parte a mutare sé e l’impresa sua, se vuole essere capace a trattare come uomo chi non vuole essere più servo. Chi scrive ha sempre veduto, sino dal 1897, quando descriveva i primi scioperi dei lanaiuoli nella Val Sessera (Biellese), in questa trasformazione dell’uomo lavoratore il vero grande servizio reso al mondo dalle leghe operaie; e se anche gli accadde di sentirsi in una delle assemblee legislative italiane vivacemente disapprovato per avere nel 1920, in pieno periodo cosidetto bolscevico, sostenuto la tesi che le lotte sociali allora imperversanti in Italia erano una grande promessa per l’avvenire del paese; se nel 1924 riaffermò la tesi nella introduzione ad un volume dal titolo Le lotte del lavoro, nel quale un indimenticabile diligentissimo suo allievo, presto divenuto scrittore ed editore insigne, epperciò tolto di vita dai fascisti, Piero Gobetti, volle adunare taluni suoi scritti sul movimento operaio; quella tesi, che era allora apparsa eterodossa, è stata confermata pienamente dall’esperienza del ventennio fascistico. Che non fu di pace sociale e di collaborazione fra lavoratori e datori di lavoro, ma di asservimento di ambedue le parti alla volontà ed ai fini di chi comandava. Mossi dalla paura tremante della lotta feconda, i datori di lavoro rinunciarono, per il piatto di lenticchie del divieto di sciopero, al diritto di primogenitura della libera direzione della loro impresa, e si rassegnarono a divenire gli esecutori degli ordini dello stato onnipotente; si sottrassero alle ansie della concorrenza, e vi sostituirono l’intrigo e la corruzione per ottenere favori a danno degli esclusi. Gli operai, a cui fu fatto divieto di associarsi liberamente in difesa dei propri interessi, in parte si abituarono a lasciarsi governare da funzionari corporativi, a cui la vita della miniera, della fabbrica e della terra era ignota; ed in parte ritornarono a cospirare in segreto ed a popolare carceri e luoghi di confino. Vent’anni perduti per l’educazione economica e sociale del paese, e perduti quando erasi già iniziata tra noi la mutazione del tipo del capo – lega operaio! Erano, sì, ancora numerosi gli oratori da comizi e gli agitatori frenetici, da null’altro sentimento mossi fuorché dal bisogno di far rumore, di provocare disordini e di marciare alla conquista di sempre nuove mete. Ma quello non era più il tipo di capo-lega più influente tra i suoi compagni. I lavoratori apprezzavano ognora meglio il dirigente attento, il bravo organizzatore, studioso dei problemi della fabbrica e del lavoro, il quale conosceva statistiche e dati su produzione e su prezzi e sapeva tener testa, nelle discussioni su salari e su cottimi, ai delegati della lega degli industriali.

 

 

Non dimenticherò mai, e lo ripeterò ogni qual volta ne avrò occasione, il motto finale che Francesco Ruffini, maestro di scienza e di vita, trasse da una sua esperienza di super – arbitro in una controversia tra operai ed industriali torinesi: «Durante tutta la discussione, i delegati operai discutevano quasi fossero miei colleghi (professori della facoltà giuridica dell’Università di Torino), ma i delegati padronali parlavano come il nostro bidello!». Il nostro bidello era uomo amatissimo da professori e studenti, ed il paragone voleva soltanto significare che il livello di cultura economica e tecnica raggiunto dai migliori operai era già, un quarto di secolo fa, più elevato di quello dei migliori tra gli industriali. Con siffatto materiale umano, lunga strada si poteva percorrere, se il cammino non fosse stato rotto dal silenzio ventennale imposto dalla tirannide. Il silenzio non ha soltanto vietato che la lotta, non più quella incomposta e violenta dei comizi e degli scioperi, prendesse sempre più sostanza di trattative e discussioni sulla base dei dati di fatto e di ragionamenti. Esso ha instillato nel movimento operaio un veleno, di cui i sintomi sono palesi anche fuori d’Italia e forse soprattutto nella terra madre di ogni avanzamento operaio, nell’Inghilterra; ma appaiono, per l’eredità infausta del regime corporativo, più gravi oggi fra noi che altrove. Anche in Inghilterra, le leghe, potentissime come non mai, tendono a profittare della loro potenza a vantaggio esclusivo dei propri soci; ma solo in Italia si vorrebbe da molti, forse dai più, consacrare siffatta esclusività con la creazione legale del sindacato unico. Le riflessioni che seguono non sono rivolte contro l’unicità, liberamente scelta, dall’associazione operaia entro la cornice della libertà legalmente assicurata ai lavoratori di costituire associazioni autonome indipendenti da quella detta unica. Esse sono rivolte contro la tendenza ad attribuire ad una associazione, comunque costituita, il monopolio delle contrattazioni fra datori di lavoro e lavoratori.

 

 

Il problema può essere posto nella sua nudità così:

 

 

Se una lega operaia riesce a riunire tutti gli operai appartenenti ad un dato mestiere in una data regione economica – intendendo per regione economica quella, dalla quale non è facile emigrare o nella quale non è agevole entrare per trovar lavoro -; e se il livello dei salari al quale tutti gli operai disponibili, supponiamo 100 mila, sarebbero occupati è di sei lire (antiche pre-1914) al giorno, può darsi che la lega abbia interesse a creare disoccupazione.

 

 

Che esista un livello di salari al quale tutti i cento mila operai sarebbero occupati, è certo. Gli imprenditori (datori di lavoro) hanno sempre interesse ad occupare un nuovo operaio, oltre quelli già occupati, sino a quando il salario pagato non sia superiore al valore (netto da tutte le altre spese, compreso un normale profitto per l’industriale) dell’aggiunta di prodotto che si ottiene coll’impiego dell’operaio supplementare. La produttività dell’operaio marginale determina il salario dell’operaio. Gli imprenditori potrebbero impiegare 90 mila operai e pagare a ciascuno di essi un salario di 8 lire (ripeto ancora una volta, ad evitare equivoci, 8 lire ante-1914) perché il 90 millesimo operaio aggiunge col suo lavoro al prodotto antedecedente un prodotto nuovo avente il valore di 8 lire. Ma, se si debbono impiegare altri 5 mila operai, questi aggiungeranno al prodotto, divenuto per ciò più abbondante e di minor prezzo solo più un valore netto, suppongasi, di 7 lire; e se ne debbono impiegare ancora 5 mila, questi aggiungeranno solo più un valore netto di 6 lire al giorno.

 

 

L’imprenditore può così pagare 8 lire se impiega 90 mila operai, perché vende il prodotto ad un prezzo che gli lascia, dedotte le altre spese, 8 lire disponibili; ma se ne impiega 95 mila può pagare a tutti solo più 7 lire, perché il prodotto ribassa, tutto, di prezzo, in modo da lasciargli solo più un margine disponibile di 7 lire, e così dicasi per il salario 6, se egli impiega 100 mila operai.

 

 

Né l’imprenditore può pagare ai primi 90 mila operai un salario di 8 lire, agli ulteriori 5 mila un salario di 7 lire ed agli ultimi finalmente solo 6 lire; perché i consumatori, i quali sono liberi di comperare o non comperare la sua merce, non comprano certamente le partite offerte ad 8 lire, quando ve ne sono disponibili a 7 ed a 6 lire. Tutta la merce, uguale di qualità, posta in vendita sullo stesso mercato e nel medesimo momento è venduta allo stesso prezzo; e se la si vuol vendere tutta, come si deve supporre, fa d’uopo venderla al prezzo di 6 lire.

 

 

Or si guardi all’interesse della lega. Se questa, padrona assoluta dell’offerta di lavoro, offre sul mercato 100 mila operai, deve accettare il salario di 6 lire al giorno. Ma essa può dire a 10 mila dei suoi soci, scelti per spontanea dichiarazione o per minore anzianità o con altri vari criteri: «voi non lavorerete e riceverete, ognuno di voi, dalla mia cassa un sussidio di disoccupazione di 6 lire al giorno pari al salario intero che avreste lucrato se io vi mandassi al lavoro, insieme con gli altri 90 mila vostri compagni».

 

 

Accantonati così gli ultimi 10 mila operai, la lega offre sul mercato solo 90 mila unità di lavoro e consegue un salario di 8 lire al giorno, che moltiplicato per 90 mila dà un salario complessivo di 720.000 lire giornaliere. Pur deducendo le 60 mila lire necessarie a pagare il sussidio di 6 lire al giorno ai 10 mila operai disoccupati, restano disponibili 660 mila lire per i 90 mila operai occupati, il che vuol dire un salario di lire 7,33 al giorno; che è maggiore delle 6 lire che si sarebbero dovute accettare se si fossero voluti impiegare tutti i 100 mila operai appartenenti alla lega.

 

 

Anche tenendo conto di qualche trattenuta necessaria a far funzionare il meccanismo della lega, resta dimostrato che la lega può avere interesse a rarefare il mercato del lavoro, per rialzare il saggio netto dei salari ricevuti dai suoi soci occupati.

 

 

Così facendo, la lega fa il vantaggio dei soci occupati, ma reca alla società taluni gravissimi danni:

 

 

  • crea l’abitudine dell’ozio in una parte dei lavoratori, li disamora dal lavoro e li trasforma in un peso morto sociale, di malo esempio alla famiglia, ai compagni, alla vicinanza;

 

  • scema la produzione dei beni, da quella che si sarebbe messa sul mercato ad un prezzo corrispondente al salario 6 a quella minore che può essere venduta al prezzo corrispondente al salario 8; e perciò priva una parte della popolazione, che avrebbe acquistato a 6 e non può comperare ad 8, delle soddisfazioni che avrebbe ottenuto o creduto di ottenere dal consumo del bene;

 

  • costringe la restante parte della popolazione, quella che continua ad acquistare al prezzo cresciuto corrispondente al salario 8, a privarsi dei beni che avrebbe potuto acquistare se avesse potuto risparmiare la differenza fra 8 e 6 rispetto al bene in discorso;

 

  • inutilizza i fattori di produzione che avrebbero potuto essere impiegati in congiunzione con i 10 mila operai, i quali sono stati persuasi ad oziare;

 

  • e finalmente danneggia, con ripercussioni che per brevità si rinuncia a perseguire, le industrie fornitrici di materie prime, di combustibili, di macchine ecc. alla industria, la cui attività rimane ridotta.

 

 

Nell’ipotesi fatta sopra, si è supposto che la lega dovesse provvedere con i suoi mezzi a pagare il necessario sussidio agli operai disoccupati. Ma che dire quando una legge provvidenziale la esoneri dall’obbligo oneroso? Quando cioè un fondo di assicurazione contro la disoccupazione provveda esso al mantenimento dei disoccupati? Talvolta, per salvare le apparenze, si accolla una parte, la più piccola difficilmente superiore al 20 per cento dell’onere, agli operai ed ai datori di lavoro. Ma è una finta; ché, alla fine, dopo qualche tempo chi paga è un signore anonimo detto contribuente o consumatore.

 

 

La lega, sicura che lo stato, ossia tutti i cittadini in genere, provvederà ai disoccupati, chiederà ed otterrà un salario di 9 occupando solo 85 mila operai, di 10 occupandone 80 mila, di 11 occupandone 75 mila.

 

 

E qui mi fermo, sebbene non esista un limite logico all’ascesa monopolistica dei salari ed alla riduzione della produzione in regime di monopolio delle leghe, combinato con la assicurazione statale contro la disoccupazione; ché alla perfine una qualche reazione dovrà pure intervenire a vietare che si prosegua nel malo andazzo di creare ozio, disoccupazioni, carestia di beni ed impoverimento generale.

 

 

La politica egoistica da parte delle leghe operaie non è normalmente un fatto isolato. Essa si accompagna ad una politica ugualmente egoistica dei consorzi, accordi, cartelli e trusts tra imprenditori, intesi anch’essi a crescere i loro profitti col produrre “disservizi” di scarsa produzione e di alti prezzi. Ma scarsa produzione e prezzi alti vogliono dire impoverimento e miseria e producono malcontento. Il quale sfocia in richieste di interventi legislativi; e, poiché ben di rado gli interventi sono fondati su una analisi scientifica delle cause del male, ma su varie impressioni sentimentali, essi per lo più conducono a rimedi incongrui ed ulteriormente dannosi come protezioni doganali, manipolazioni, ossia falsificazioni monetarie, nazionalizzazioni, ossia burocratizzazioni e cioè irrigidimento ed incadaverimento dell’apparato produttivo.

 

 

Principiis obstat, dunque. Nel tempo stesso che, per salvare gli industriali indipendenti, quelli che non hanno chiesto aiuto al fascismo e non avranno domani bisogno dello stato per creare il nuovo e recare, profittando, servigio alla società, fa d’uopo partire in guerra contro ogni sorta di monopoli e privilegi; così importa fin dal principio negare alle leghe operaie ogni sorta di esclusività e monopolio. Le vecchie gloriose leghe britanniche e, vivaddio! anche le vecchie benemerite leghe operaie italiane e l’antica confederazione del lavoro sorsero e prosperarono in regime di libertà, reclutarono soci volontari e non “appartenenti” forzati, vissero col provento incerto di quote pagate finché ai soci piaceva pagarle in cambio dei servizi ricevuti e non col ricavo forzoso di centinaia di milioni di lire riscosse a mezzo della cartella esattoriale.

 

 

Se noi vogliamo che il movimento operaio ritorni ad essere quello che fu, sprone al progresso economico e sociale e fattore di elevazione umana, dobbiamo volere le leghe libere; libere, se così vogliono i soci, di unirsi o di vivere separate, non l’unica lega monopolistica, onnipotente in virtù di legge. I migliori contratti collettivi non furono quelli stipulati dalle universali uniche e coattive confederazioni fascistiche; ma quelli che erano stipulati prima del 1922 in Italia e sono oggi stipulati e, nonostante siano privi di sanzioni, sono osservati nei paesi di libertà. E dobbiamo volere altresì che le leghe libere si ispirino al principio di chiedere ed ottenere quelle condizioni del lavoro e quei salari, dati i quali tutta la popolazione lavoratrice sia occupata. Ogni altra politica non può non condurre all’impoverimento economico ed alla degradazione morale della collettività tutta e massimamente della classe lavoratrice.



[1] Con il titolo Glorie e pericoli delle leghe operaie. Una lega operaia monopolistica può avere interesse a creare disoccupazione? [ndr].

[2] Con il titolo Industria. Gloria e pericoli delle leghe operaie [ndr].

Glorie e pericoli delle leghe operaie

Glorie e pericoli delle leghe operaie

«L’Italia e il secondo risorgimento» 12 agosto 1944

«La città libera», 22 marzo 1945[1]

«Il Progresso liberale», 16 febbraio 1946[2]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 507-514

 

 

 

 

Leghe operaie monopoliste e profittatrici? Non è la domanda medesima un’ingiuria agli scopi, all’indole del movimento, il quale innalzò dappertutto in Europa i lavoratori dalla miseria e dall’abbrutimento ad una condizione civile di vita, li chiamò a prender parte alla vita collettiva e politica, uomini integri e consapevoli, invece di strumenti passivi della volontà altrui? Questo, l’elevazione e la trasformazione dell’uomo lavoratore, fu il grande servizio che il movimento di libera associazione, iniziato al principio dell’800 in Inghilterra, variamente diffuso in Europa durante la prima metà del secolo, giunto in Italia poco dopo il 1870, rese al mondo. I lavoratori divennero cittadini quando cominciarono a trattare da pari a pari con i datori di lavoro; e, divenuti pari, furono lavoratori diversi da quelli di prima, sicché, in un ambiente di emulazione e di lotta, in un’atmosfera di libera contrattazione, e perciò informata, invece che ad ubbidienza comandata, all’osservanza di obblighi liberamente assunti ed osservati, essi contribuirono alla produzione più e meglio di prima e meritarono maggiori salari e condizioni più umane di vita.

 

 

L’aumento dei salari e la diminuzione delle ore di lavoro non fu la automatica conseguenza della mera associazione, del presentarsi uniti, invece che isolati, a contrattare. A nulla sarebbe valso il contratto collettivo, se la produzione non fosse aumentata e se la torta del reddito lordo da spartire non fosse cresciuta: il fermento innovatore che provocò, per effetto dell’opera delle leghe, l’aumento del prodotto lordo da spartire, fu la volontà dei lavoratori di vivere meglio, fu la deliberata volontà, resa manifesta dall’unione fraterna di tutti i lavoratori, di non continuare a soggiacere alle condizioni misere alle quali prima erano rassegnati. L’uomo che rialza il capo è diverso da colui il quale lo inchinava ossequioso; e costringe, col suo drizzarsi, l’altra parte a mutare sé e l’impresa sua, se vuole essere capace a trattare come uomo chi non vuole essere più servo. Chi scrive ha sempre veduto, sino dal 1897, quando descriveva i primi scioperi dei lanaiuoli nella Val Sessera (Biellese), in questa trasformazione dell’uomo lavoratore il vero grande servizio reso al mondo dalle leghe operaie; e se anche gli accadde di sentirsi in una delle assemblee legislative italiane vivacemente disapprovato per avere nel 1920, in pieno periodo cosidetto bolscevico, sostenuto la tesi che le lotte sociali allora imperversanti in Italia erano una grande promessa per l’avvenire del paese; se nel 1924 riaffermò la tesi nella introduzione ad un volume dal titolo Le lotte del lavoro, nel quale un indimenticabile diligentissimo suo allievo, presto divenuto scrittore ed editore insigne, epperciò tolto di vita dai fascisti, Piero Gobetti, volle adunare taluni suoi scritti sul movimento operaio; quella tesi, che era allora apparsa eterodossa, è stata confermata pienamente dall’esperienza del ventennio fascistico. Che non fu di pace sociale e di collaborazione fra lavoratori e datori di lavoro, ma di asservimento di ambedue le parti alla volontà ed ai fini di chi comandava. Mossi dalla paura tremante della lotta feconda, i datori di lavoro rinunciarono, per il piatto di lenticchie del divieto di sciopero, al diritto di primogenitura della libera direzione della loro impresa, e si rassegnarono a divenire gli esecutori degli ordini dello stato onnipotente; si sottrassero alle ansie della concorrenza, e vi sostituirono l’intrigo e la corruzione per ottenere favori a danno degli esclusi. Gli operai, a cui fu fatto divieto di associarsi liberamente in difesa dei propri interessi, in parte si abituarono a lasciarsi governare da funzionari corporativi, a cui la vita della miniera, della fabbrica e della terra era ignota; ed in parte ritornarono a cospirare in segreto ed a popolare carceri e luoghi di confino. Vent’anni perduti per l’educazione economica e sociale del paese, e perduti quando erasi già iniziata tra noi la mutazione del tipo del capo – lega operaio! Erano, sì, ancora numerosi gli oratori da comizi e gli agitatori frenetici, da null’altro sentimento mossi fuorché dal bisogno di far rumore, di provocare disordini e di marciare alla conquista di sempre nuove mete. Ma quello non era più il tipo di capo-lega più influente tra i suoi compagni. I lavoratori apprezzavano ognora meglio il dirigente attento, il bravo organizzatore, studioso dei problemi della fabbrica e del lavoro, il quale conosceva statistiche e dati su produzione e su prezzi e sapeva tener testa, nelle discussioni su salari e su cottimi, ai delegati della lega degli industriali.

 

 

Non dimenticherò mai, e lo ripeterò ogni qual volta ne avrò occasione, il motto finale che Francesco Ruffini, maestro di scienza e di vita, trasse da una sua esperienza di super – arbitro in una controversia tra operai ed industriali torinesi: «Durante tutta la discussione, i delegati operai discutevano quasi fossero miei colleghi (professori della facoltà giuridica dell’Università di Torino), ma i delegati padronali parlavano come il nostro bidello!». Il nostro bidello era uomo amatissimo da professori e studenti, ed il paragone voleva soltanto significare che il livello di cultura economica e tecnica raggiunto dai migliori operai era già, un quarto di secolo fa, più elevato di quello dei migliori tra gli industriali. Con siffatto materiale umano, lunga strada si poteva percorrere, se il cammino non fosse stato rotto dal silenzio ventennale imposto dalla tirannide. Il silenzio non ha soltanto vietato che la lotta, non più quella incomposta e violenta dei comizi e degli scioperi, prendesse sempre più sostanza di trattative e discussioni sulla base dei dati di fatto e di ragionamenti. Esso ha instillato nel movimento operaio un veleno, di cui i sintomi sono palesi anche fuori d’Italia e forse soprattutto nella terra madre di ogni avanzamento operaio, nell’Inghilterra; ma appaiono, per l’eredità infausta del regime corporativo, più gravi oggi fra noi che altrove. Anche in Inghilterra, le leghe, potentissime come non mai, tendono a profittare della loro potenza a vantaggio esclusivo dei propri soci; ma solo in Italia si vorrebbe da molti, forse dai più, consacrare siffatta esclusività con la creazione legale del sindacato unico. Le riflessioni che seguono non sono rivolte contro l’unicità, liberamente scelta, dall’associazione operaia entro la cornice della libertà legalmente assicurata ai lavoratori di costituire associazioni autonome indipendenti da quella detta unica. Esse sono rivolte contro la tendenza ad attribuire ad una associazione, comunque costituita, il monopolio delle contrattazioni fra datori di lavoro e lavoratori.

 

 

Il problema può essere posto nella sua nudità così:

 

 

Se una lega operaia riesce a riunire tutti gli operai appartenenti ad un dato mestiere in una data regione economica – intendendo per regione economica quella, dalla quale non è facile emigrare o nella quale non è agevole entrare per trovar lavoro -; e se il livello dei salari al quale tutti gli operai disponibili, supponiamo 100 mila, sarebbero occupati è di sei lire (antiche pre-1914) al giorno, può darsi che la lega abbia interesse a creare disoccupazione.

 

 

Che esista un livello di salari al quale tutti i cento mila operai sarebbero occupati, è certo. Gli imprenditori (datori di lavoro) hanno sempre interesse ad occupare un nuovo operaio, oltre quelli già occupati, sino a quando il salario pagato non sia superiore al valore (netto da tutte le altre spese, compreso un normale profitto per l’industriale) dell’aggiunta di prodotto che si ottiene coll’impiego dell’operaio supplementare. La produttività dell’operaio marginale determina il salario dell’operaio. Gli imprenditori potrebbero impiegare 90 mila operai e pagare a ciascuno di essi un salario di 8 lire (ripeto ancora una volta, ad evitare equivoci, 8 lire ante-1914) perché il 90 millesimo operaio aggiunge col suo lavoro al prodotto antedecedente un prodotto nuovo avente il valore di 8 lire. Ma, se si debbono impiegare altri 5 mila operai, questi aggiungeranno al prodotto, divenuto per ciò più abbondante e di minor prezzo solo più un valore netto, suppongasi, di 7 lire; e se ne debbono impiegare ancora 5 mila, questi aggiungeranno solo più un valore netto di 6 lire al giorno.

 

 

L’imprenditore può così pagare 8 lire se impiega 90 mila operai, perché vende il prodotto ad un prezzo che gli lascia, dedotte le altre spese, 8 lire disponibili; ma se ne impiega 95 mila può pagare a tutti solo più 7 lire, perché il prodotto ribassa, tutto, di prezzo, in modo da lasciargli solo più un margine disponibile di 7 lire, e così dicasi per il salario 6, se egli impiega 100 mila operai.

 

 

Né l’imprenditore può pagare ai primi 90 mila operai un salario di 8 lire, agli ulteriori 5 mila un salario di 7 lire ed agli ultimi finalmente solo 6 lire; perché i consumatori, i quali sono liberi di comperare o non comperare la sua merce, non comprano certamente le partite offerte ad 8 lire, quando ve ne sono disponibili a 7 ed a 6 lire. Tutta la merce, uguale di qualità, posta in vendita sullo stesso mercato e nel medesimo momento è venduta allo stesso prezzo; e se la si vuol vendere tutta, come si deve supporre, fa d’uopo venderla al prezzo di 6 lire.

 

 

Or si guardi all’interesse della lega. Se questa, padrona assoluta dell’offerta di lavoro, offre sul mercato 100 mila operai, deve accettare il salario di 6 lire al giorno. Ma essa può dire a 10 mila dei suoi soci, scelti per spontanea dichiarazione o per minore anzianità o con altri vari criteri: «voi non lavorerete e riceverete, ognuno di voi, dalla mia cassa un sussidio di disoccupazione di 6 lire al giorno pari al salario intero che avreste lucrato se io vi mandassi al lavoro, insieme con gli altri 90 mila vostri compagni».

 

 

Accantonati così gli ultimi 10 mila operai, la lega offre sul mercato solo 90 mila unità di lavoro e consegue un salario di 8 lire al giorno, che moltiplicato per 90 mila dà un salario complessivo di 720.000 lire giornaliere. Pur deducendo le 60 mila lire necessarie a pagare il sussidio di 6 lire al giorno ai 10 mila operai disoccupati, restano disponibili 660 mila lire per i 90 mila operai occupati, il che vuol dire un salario di lire 7,33 al giorno; che è maggiore delle 6 lire che si sarebbero dovute accettare se si fossero voluti impiegare tutti i 100 mila operai appartenenti alla lega.

 

 

Anche tenendo conto di qualche trattenuta necessaria a far funzionare il meccanismo della lega, resta dimostrato che la lega può avere interesse a rarefare il mercato del lavoro, per rialzare il saggio netto dei salari ricevuti dai suoi soci occupati.

 

 

Così facendo, la lega fa il vantaggio dei soci occupati, ma reca alla società taluni gravissimi danni:

 

 

  • crea l’abitudine dell’ozio in una parte dei lavoratori, li disamora dal lavoro e li trasforma in un peso morto sociale, di malo esempio alla famiglia, ai compagni, alla vicinanza;

 

  • scema la produzione dei beni, da quella che si sarebbe messa sul mercato ad un prezzo corrispondente al salario 6 a quella minore che può essere venduta al prezzo corrispondente al salario 8; e perciò priva una parte della popolazione, che avrebbe acquistato a 6 e non può comperare ad 8, delle soddisfazioni che avrebbe ottenuto o creduto di ottenere dal consumo del bene;

 

  • costringe la restante parte della popolazione, quella che continua ad acquistare al prezzo cresciuto corrispondente al salario 8, a privarsi dei beni che avrebbe potuto acquistare se avesse potuto risparmiare la differenza fra 8 e 6 rispetto al bene in discorso;

 

  • inutilizza i fattori di produzione che avrebbero potuto essere impiegati in congiunzione con i 10 mila operai, i quali sono stati persuasi ad oziare;

 

  • e finalmente danneggia, con ripercussioni che per brevità si rinuncia a perseguire, le industrie fornitrici di materie prime, di combustibili, di macchine ecc. alla industria, la cui attività rimane ridotta.

 

 

Nell’ipotesi fatta sopra, si è supposto che la lega dovesse provvedere con i suoi mezzi a pagare il necessario sussidio agli operai disoccupati. Ma che dire quando una legge provvidenziale la esoneri dall’obbligo oneroso? Quando cioè un fondo di assicurazione contro la disoccupazione provveda esso al mantenimento dei disoccupati? Talvolta, per salvare le apparenze, si accolla una parte, la più piccola difficilmente superiore al 20 per cento dell’onere, agli operai ed ai datori di lavoro. Ma è una finta; ché, alla fine, dopo qualche tempo chi paga è un signore anonimo detto contribuente o consumatore.

 

 

La lega, sicura che lo stato, ossia tutti i cittadini in genere, provvederà ai disoccupati, chiederà ed otterrà un salario di 9 occupando solo 85 mila operai, di 10 occupandone 80 mila, di 11 occupandone 75 mila.

 

 

E qui mi fermo, sebbene non esista un limite logico all’ascesa monopolistica dei salari ed alla riduzione della produzione in regime di monopolio delle leghe, combinato con la assicurazione statale contro la disoccupazione; ché alla perfine una qualche reazione dovrà pure intervenire a vietare che si prosegua nel malo andazzo di creare ozio, disoccupazioni, carestia di beni ed impoverimento generale.

 

 

La politica egoistica da parte delle leghe operaie non è normalmente un fatto isolato. Essa si accompagna ad una politica ugualmente egoistica dei consorzi, accordi, cartelli e trusts tra imprenditori, intesi anch’essi a crescere i loro profitti col produrre “disservizi” di scarsa produzione e di alti prezzi. Ma scarsa produzione e prezzi alti vogliono dire impoverimento e miseria e producono malcontento. Il quale sfocia in richieste di interventi legislativi; e, poiché ben di rado gli interventi sono fondati su una analisi scientifica delle cause del male, ma su varie impressioni sentimentali, essi per lo più conducono a rimedi incongrui ed ulteriormente dannosi come protezioni doganali, manipolazioni, ossia falsificazioni monetarie, nazionalizzazioni, ossia burocratizzazioni e cioè irrigidimento ed incadaverimento dell’apparato produttivo.

 

 

Principiis obstat, dunque. Nel tempo stesso che, per salvare gli industriali indipendenti, quelli che non hanno chiesto aiuto al fascismo e non avranno domani bisogno dello stato per creare il nuovo e recare, profittando, servigio alla società, fa d’uopo partire in guerra contro ogni sorta di monopoli e privilegi; così importa fin dal principio negare alle leghe operaie ogni sorta di esclusività e monopolio. Le vecchie gloriose leghe britanniche e, vivaddio! anche le vecchie benemerite leghe operaie italiane e l’antica confederazione del lavoro sorsero e prosperarono in regime di libertà, reclutarono soci volontari e non “appartenenti” forzati, vissero col provento incerto di quote pagate finché ai soci piaceva pagarle in cambio dei servizi ricevuti e non col ricavo forzoso di centinaia di milioni di lire riscosse a mezzo della cartella esattoriale.

 

 

Se noi vogliamo che il movimento operaio ritorni ad essere quello che fu, sprone al progresso economico e sociale e fattore di elevazione umana, dobbiamo volere le leghe libere; libere, se così vogliono i soci, di unirsi o di vivere separate, non l’unica lega monopolistica, onnipotente in virtù di legge. I migliori contratti collettivi non furono quelli stipulati dalle universali uniche e coattive confederazioni fascistiche; ma quelli che erano stipulati prima del 1922 in Italia e sono oggi stipulati e, nonostante siano privi di sanzioni, sono osservati nei paesi di libertà. E dobbiamo volere altresì che le leghe libere si ispirino al principio di chiedere ed ottenere quelle condizioni del lavoro e quei salari, dati i quali tutta la popolazione lavoratrice sia occupata. Ogni altra politica non può non condurre all’impoverimento economico ed alla degradazione morale della collettività tutta e massimamente della classe lavoratrice.



[1] Con il titolo Glorie e pericoli delle leghe operaie. Una lega operaia monopolistica può avere interesse a creare disoccupazione? [ndr].

[2] Con il titolo Industria. Gloria e pericoli delle leghe operaie [ndr].

Liberalismo

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 29 luglio 1944

È la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, la elevazione della persona umana.

È una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo.

L’uomo libero perfetto è colui il quale, per non rinunciare alle sue idee di fronte al tiranno, si è lasciato condannare alla galera e, pur di non chiedere al tiranno di essere liberato, resta in galera.

L’uomo libero è Spinoza, il quale non accetta la cattedra di Eidelberg [sic] che Carlo Luigi gli offre assicurandogli philosophandi libertatem amplissimam, perché il principe lo prega di trattare con rispetto la religione dominante e preferisce serbare ancor più ampia libertà di pensare guadagnandosi il pane col pulire i diamanti.

Politicamente, il liberalismo è la dottrina la quale inculca alla minoranza il dovere di rispettare la volontà della maggioranza, tutti gli uomini avendo la stessa dignità di persona.

Esso non repugnerebbe a preferire alla major la melior pars, se fosse possibile di conoscerla.

Ma poiché ad accertare la qualità più alta della persona converrebbe spaccar le teste, preferisce di contarle.

Ma invita la maggioranza a non attuare propositi i quali offendano profondamente la minoranza; ché la vita politica non si perfeziona se il proposito della maggioranza, tradotto in legge, non sia confortato dall’adesione attiva della minoranza.

La major pars, la quale ottiene, dopo una discussione, in cui ad ognuno sia stato consentito di opporre la sua ragione alle ragioni altrui, l’adesione della minoranza, dimostra col fatto di essere altresì la melior pars, perché ha saputo astenersi dall’esercitare tirannia, che è pessima quando sia esercitata da una maggioranza del popolo contro i proprii uguali.

Il liberalismo è perciò una dottrina di limiti; e la democrazia diventa liberale solo quando la maggioranza volontariamente si astiene dall’esercitare coazione sugli uomini nei campi che l’ordine morale insegna essere riservati all’individuo, dominio sacro alla persona.

Liberale è quella democrazia che, pur potendo violarli, rispetta taluni tabù, che si chiamano libertà di religione, di coscienza, di parola, di stampa, di riunione ed impone a tutte queste libertà solo i limiti esterni formali imposti dalla necessità della convivenza pacifica.

Liberale è quella società politica nella quale ogni uomo può dire: «la mia casa è il mio castello e nessuno mi può strappare ad essa se non per ordine del magistrato e questi è obbligato a lasciarmi libero se, entro un tempo dato, l’accusatore pubblico non riesce a provare la mia colpa».

Liberale è quella società politica nella quale nessuno può essere privato della sua cosa, della sua proprietà, senza un procedimento legale condotto in base ad una legge.

Ma questi ed altri tabù, senza di cui non esiste società liberale, non sono osservati in tutte le organizzazioni sociali.

Non esiste, è vero, legame diretto fra liberalismo e struttura economica; perché l’uomo moralmente libero sfida il tiranno dal fondo della galera o cammina diritto verso la catasta di legna sulla quale sarà bruciato vivo per voler tener fede alla sua credenza.

Ma poiché gli uomini vivono associati, uopo è constatare che quei tabù sacri all’uomo libero corrono gravissimo anzi sicuro pericolo in una società nella quale: – tutti gli uomini dipendano da un centro – sia questo una persona sola chiamata imperatore o duce ovvero un consiglio di eletti o di autodesignati – per il pane, per la carriera, per l’avanzamento, per la gloria; – nessuno possegga un reddito indipendente da quello fornito o derivato dal centro, neppure il reddito del polire diamanti, che assicurava a Spinoza quella libertà assoluta di filosofare, a cui egli unicamente aspirava; – nessuno possa creare od illudersi di creare una famiglia, una fondazione, un ente morale dotato di vita perpetua ed indipendente dal centro; – non esistano enti morali, comuni, vicinanze, regioni, chiese, associazioni fomite di vita propria indipendente dal centro; – il centro presume di essere fornito di autorità propria assoluta, indipendente non solo dagli uomini, dagli enti, dai comuni, dalle chiese, dalle associazioni esistenti sul suo territorio, ma dagli altri centri o stati posti al di fuori di esso.

Una società cosiffatta non è liberale, ma è conformista.

L’«amico degli uomini», il padre del grande Mirabeau, prediceva nel 1750 che una società nella quale vita, avanzamento, carriera, onori e gloria dipendessero tutto da un centro, sarebbe caduta al primo urto del nemico interno od esterno.

Cadde infatti la Francia monarchica, che tutta si incentrava a Versailles, come prima era caduto l’impero romano che tutto si incentrava in Cesare, come rovineranno in futuro tutte le società che si diano interamente ad un uomo o ad un idolo.

Via il prefetto!

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 17 luglio 1944

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 52-59

In difesa della libertà e della democrazia, La stampa moderna, Roma, 1954, pp. 5-7

Scritti economici, storici e civili, Mondadori, Milano, 1973, pp. 703-711

«Quale impresa», XXII, 10, ottobre 1996, pp. 22-24

Scritti di Luigi Einaudi nel centenario della nascita, Sansoni, Firenze, 1975, pp. 49-58

Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, Olschki, Firenze, 2001, pp. 59-65

Via il prefetto! A cura di Davide Cadeddu, «Storia, Amministrazione, Costituzione. Annale dell’Istituto per la Scienza dell’Amministrazione pubblica», 12, 2004, pp. 41-48

Proporre, in Italia ed in qualche altro paese di Europa, di abolire il “prefetto” sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera l’amministrazione pubblica? In verità, il prefetto è una lue che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi governi erano, prima della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d’ogni parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali, gelosissimi del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti regii, che, se non registrati, non contavano nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di dedizione e di annessione, dalle consuetudini immemorabili. Gli stati italiani governavano entro i limiti posti dalle “libertà” locali, territoriali e professionali. Spesso “le libertà” municipali e regionali erano “privilegi” di ceti, di nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose all’universale. Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse, continuando l’opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e Napoleone, dittatore all’interno, amante dell’ordine, sospettoso, come tutti i tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale, perfezionò l’opera. I governi restaurati trovarono comodo di non restaurare, se non di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono il prefetto napoleonico. L’Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le membra disiecta degli antichi ex-stati in un corpo unico, immaginò che il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a quelle parti d’Italia, come le province ex-austriache, nelle quali la lue erasi in filtrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura.

Democrazia e prefetto repugnano profondamente l’una all’altro. Né in Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finché esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei paesi a governo accentrato del tipo napoleonico. Gli uomini di stato anglo-sassoni, i quali invitano i popoli europei a scegliersi la forma di governo da essi preferita, trasportano inconsciamente parole e pensieri propri dei loro paesi a paesi nei quali le medesime parole hanno un significato del tutto diverso. Forse i soli europei del continente, i quali sentendo quelle parole le intendono nel loro significato vero sono, insieme con gli scandinavi, gli svizzeri; e questi non hanno nulla da imparare, perché quelle parole sentono profondamente da sette secoli. Essi sanno che la democrazia comincia dal comune, che è cosa dei cittadini, i quali non solo eleggono i loro consiglieri e sindaci o presidenti o borgomastri, ma da sé, senza intervento e tutela e comando di gente posta fuori del comune od a questo sovrapposta, se lo amministrano, se lo mandano in malora o lo fanno  prosperare. L’autogoverno continua nel cantone, il quale è un vero stato, il quale da sé si fa le sue leggi, se le vota nel suo parlamento e le applica per mezzo dei propri consiglieri di stato, senza uopo di ottenere approvazioni da Berna; e Berna, ossia il governo federale, a sua volta, per le cose di sua competenza, ha un parlamento per deliberare le leggi sue proprie ed un consiglio federale per applicarle ed amministrarle. E tutti questi consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la confederazione hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alle cose proprie, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto, ossia la longa manus del ministro o governo più grosso, il quale insegni od ordini il modo di sbrigare le faccende proprie dei ministri più piccoli. Così pure si usa governare in Inghilterra, con altre formule di parrocchie, borghi, città, contee, regni e principati; così si fa negli Stati Uniti, nelle federazioni canadese, sudafricana,  australiana e nella Nuova Zelanda. Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da sé le proprie faccende locali (che negli Stati Uniti si dicono anche statali), senza attendere il la od il permesso dal governo centrale. Così si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel congresso nord americano, bisogna essersi fatto conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli stati; ed essersi guadagnato una qualche fama di esperto ed onesto amministratore. La classe politica non si forma da sé, né è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via quelle delle cose nazionali od inter-statali più grosse.

La classe politica non si forma tuttavia se l’eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l’opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l’eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?

Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al ministro dell’interno. Costui è il vero padrone della vita amministrativa e politica dell’intero stato. Attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali e provinciali, ordina l’iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l’approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali. Chi governa localmente di fatto non è né il sindaco né il consiglio comunale o provinciale; ma il segretario municipale o provinciale. Non a caso egli è stato oramai attruppato tra i funzionari statali. Parve un sopruso della dittatura ed era la logica necessaria deduzione del sistema centralistico. Chi, se non un funzionario statale, può interpretare ed eseguire le leggi, i regolamenti, le circolari, i moduli i quali quotidianamente, attraverso le prefetture, arrivano a fasci da Roma per ordinare il modo di governare ogni più piccola faccenda locale? Se talun cittadino si informa del modo di sbrigare una pratica dipendente da una legge nuova, la risposta è: non sono ancora arrivate le istruzioni, non è ancora compilato il regolamento; lo si aspetta di giorno in giorno. A nessuno viene in mente del ministero, l’idea semplice che l’eletto locale ha il diritto e il dovere di interpretare lui la legge, salvo a rispondere dinnanzi agli elettori della interpretazione data? Che cosa fu e che cosa tornerà ad essere l’eletto del popolo in uno stato burocratico accentrato? Non un legislatore, non un amministratore; ma un tale, il cui merito principale è di essere bene introdotto nei capoluoghi di provincia presso prefetti, consiglieri e segretari di prefettura, provveditori agli studi, intendenti di finanza, ed a Roma, presso i ministri, sotto-segretari di stato e, meglio e più, perché di fatto più potenti, presso direttori generali, capi divisione, segretari, vice segretari ed uscieri dei ministeri. Il malvezzo di non muovere la “pratica” senza una spinta, una raccomandazione non è recente né ha origine dal fascismo. È antico ed è proprio del sistema. Come quel ministro francese, guardando l’orologio, diceva: a quest’ora, nella terza classe di tutti i licei di Francia, i professori spiegano la tal pagina di Cicerone; così si può dire di tutti gli ordini di scuole italiane. Pubbliche o private, elementari o medie od universitarie, tutto dipende da Roma: ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine degli esami, materie insegnate. I fascisti concessero per scherno l’autonomia alle università; ma era logico che nel sistema accentrato le università fossero, come subito ridiventarono, una branca ordinaria dell’amministrazione pubblica; ed era logico che prima del 1922 i deputati elevassero querele contro quelle che essi imprudentemente chiamarono le camorre dei professori di università, i quali erano riusciti, in mezzo secolo di sforzi perseveranti e di costumi anti accentratori a poco a poco originati dal loro spirito di corpo, a togliere ai ministri ogni potere di scegliere e di trasferire gli insegnanti universitari e quindi ogni possibilità ai deputati di raccomandare e promuovere intriganti politici a cattedre. Agli occhi di un deputato uscito dal suffragio universale ed investito di una frazione della sovranità popolare, ogni resistenza di corpi autonomi, di enti locali, di sindaci decisi a far valere la volontà dei loro amministrati appariva camorra, sopruso o privilegio. La tirannia del centro, la onnipotenza del ministero, attraverso ai prefetti, si converte nella tirannia degli eletti al parlamento. Essi sanno di essere i ministri del domani, sanno che chi di loro diventerà ministro dell’interno, disporrà della leva di comando del paese; sanno che nessun presidente del consiglio può rinunciare ad essere ministro dell’interno se non vuol correre il pericolo di vedere “farsi” le elezioni contro di lui dal collega al quale egli abbia avuto la dabbenaggine di abbandonare quel ministero, il quale dispone delle prefetture, delle questure e dei carabinieri; il quale comanda a centinaia di migliaia di funzionari piccoli e grossi, ed attraverso concessioni di sussidi, autorizzazioni di spese, favori di ogni specie adesca e minaccia sindaci, consiglieri, presidenti di opere pie e di enti morali. A volta a volta servo e tiranno dei funzionari che egli ha contribuito a far nominare con le sue raccomandazioni e dalla cui condiscendenza dipende l’esito delle pratiche dei suoi elettori, il deputato diventa un galoppino, il cui tempo più che dai lavori parlamentari è assorbito dalle corse per i ministeri e dallo scrivere lettere di raccomandazione per il sollecito disbrigo delle pratiche dei suoi elettori.

Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde. Per fortuna, di fatto oggi in Italia l’amministrazione centralizzata è scomparsa. Ha dimostrato di essere il nulla; uno strumento privo di vita propria, del quale il primo avventuriero capitato a buon tiro poteva impadronirsi per manovrarlo a suo piacimento. Non accadrà alcun male, se non ricostruiremo la macchina oramai guasta e marcia. L’unità del paese non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali e dalle circolari ed istruzioni ed autorizzazioni romane. L’unita del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sé. La vera costituente non si fa in una elezione plebiscitaria, a fin di guerra. Così si creano o si ricostituiscono le tirannie, siano esse di dittatori o di comitati di partiti. Chi vuole affidare il paese a qualche altro saltimbanco, lasci sopravvivere la macchina accentrata e faccia da questa e dai comitati eleggere una costituente. Chi vuole che gli italiani governino se stessi, faccia invece subito eleggere i consigli municipali, unico corpo rimasto in vita, almeno come aspirazione profondamente sentita da tutti i cittadini; e dia agli eletti il potere di amministrare liberamente; di far bene e farsi rinnovare il mandato, di far male e farsi lapidare. Non si tema che i malversatori del denaro pubblico non paghino il fio, quando non possano scaricare su altri, sulla autorità tutoria, sul governo la colpa delle proprie malefatte. La classe politica si forma così: col provare e riprovare, attraverso a fallimenti ed a successi. Sia che si conservi la provincia; sia che invece la si abolisca, perché ente artificioso, antistorico ed anti-economico e la si costituisca da una parte con il distretto o collegio o vicinanza, unità più piccola, raggruppata attorno alla cittadina, al grosso borgo li mercato, dove convengono naturalmente per i loro interessi ed affari gli abitanti dei comuni dei dintorni, e dall’altra con la grande regione storica: Piemonte, Liguria, Lombardia, ecc.; sempre, alla pari del comune, il collegio la regione dovranno amministrarsi da sé, formarsi i propri governanti elettivi, liberi di gestire le faccende proprie del comune, del collegio e della provincia, liberi di scegliere i propri funzionari e dipendenti, nel modo e con le garanzie che essi medesimi, legislatori sovrani nel loro campo, vorranno stabilire.

Si potrà discutere sui compiti da attribuire a questo o quell’altro ente sovrano; ed adopero a bella posta la parola sovranità e non autonomia, ad indicare che non solo nel campo internazionale, con la creazione di vincoli federativi, ma anche nel campo nazionale, con la creazione di corpi locali vivi di vita propria originaria non derivata dall’alto, urge distruggere l’idea funesta della sovranità assoluta dello stato. Non temasi dalla distruzione alcun danno per l’unità nazionale. L’accentramento napoleonico ha fatto le sue prove e queste sono state negative: una burocrazia pronta ad ubbidire ad ogni padrone, non radicata nel luogo, indifferente alle sorti degli amministrati; un ceto politico oggetto di dispregio, abbassato a cursore di anticamere prefettizie e ministeriali, prono a votare in favore di qualunque governo, se il voto poteva giovare ad accaparrare il favore della burocrazia poliziesca ed a premere sulle autorità locali nel giorno delle elezioni generali; una polizia, non collegata, come dovrebbe, esclusivamente con la magistratura inquirente e giudicante e con i carabinieri, ma divenuta strumento di inquisizione politica e di giustizia “economica”, ossia arbitraria. L’arbitrio poliziesco erasi affievolito all’inizio del secolo; ma lo strumento era pronto; e, come già con Napoleone, ricominciarono a giungere al dittatore i rapporti quotidiani della polizia su gli atti e sui propositi di ogni cittadino sospetto; e si potranno di nuovo comporre, con quei fogli, se non li hanno bruciati prima, volumi di piccola e di grande storia di interesse appassionante. E quello strumento, pur guasto, è pronto, se non lo faremo diventare mero organo della giustizia per la prevenzione dei reati e la scoperta dei loro autori, a servire nuovi tiranni e nuovi comitati di salute pubblica.

Che cosa ha dato all’unità d’Italia quella armatura dello stato di polizia, preesistente, ricordiamolo bene, al 1922? Nulla. Nel momento del pericolo è svanita e sono rimasti i cittadini inermi e soli. Oggi essi si attruppano in bande di amici, di conoscenti, di borghigiani; e li chiamano partigiani. È lo stato il quale si rifà spontaneamente. Lasciamolo riformarsi dal basso, come è sua natura. Riconosciamo che nessun vincolo dura, nessuna unità è salda, se prima gli uomini i quali si conoscono ad uno ad uno non hanno costituito il comune; e di qui, risalendo di grado in grado, sino allo stato. La distruzione della sovrastruttura napoleonica, che gli italiani non hanno amato mai, offre l’occasione unica di ricostruire lo stato partendo dalle unità che tutti conosciamo ed amiamo; e sono la famiglia, il comune, la vicinanza e la regione. Così possederemo finalmente uno stato vero e vivente.

Di taluni insegnamenti della Svizzera nel momento presente

«Svizzera italiana», 30 dicembre 1943, pp. 485-498

 

Agli Svizzeri non è stato in un momento o nell’altro della loro varia e lunga storia, insegnato a proclamarsi un grande popolo. Se non erro, uno dei loro maggiori scrittori, Jacob Burckhardt, si è fatto anzi teorico dei piccoli popoli. Ma io vorrei che gli italiani, ai quali si è insegnato per venti anni che essi, eredi degli antichi romani, dovevano muovere alla conquista di un impero sempre più vasto, per diventare un popolo sempre più grande, leggessero l’articolo che Fulvio Bolla ha pubblicato nel quaderno di aprile di questa rivista e nel quale si chiarisce come anche i piccoli popoli possano essere economicamente grandi.

 

«La Svizzera non ha materie prime, né carbone, né petrolio, né ferro, né altri preziosi metalli usuali, non ha sbocchi al mare e non possiede colonie opulenti da cui trarre ricchezze abbondanti, non ha uno spazio ampio a sua disposizione, tanto meno terre di una fertilità eccezionale, non possiede in fondo uno spazio vitale perché i suoi abitanti non sono in grado di vivere autarchicamente sul loro territorio… Eppure la Svizzera è prospera per non dire ricca e il suo popolo ha raggiunto un livello di esistenza elevato ed invidiato da paesi ricchi di territorio, di mare, di materie prime nel sottosuolo e di altro ancora… La Svizzera dimostra che l’adattamento degli uomini alle esigenze del loro paese può rendere sufficiente un territorio inizialmente insufficiente, può rendere inutili certi fattori descritti dai teorici come indispensabili… Si può avere un’industria metallurgica senza avere né ferro né carbone, si può avere un’industria di macchine elettriche senza avere il rame per fare i fili, si può avere l’industria tessile senza avere colonie che forniscano cotone, si può avere un’industria della cioccolata senza avere colonie che diano cacao. Come è possibile questo? Non occorre saperlo teoricamente: in Isvizzera tutto ciò esiste, segno che è possibile».

 

 

Contro il filosofo seguace di Zenone, il quale dimostrava teoricamente l’impossibilità del moto, Diogene non rispose con un ragionamento teorico: continuava ad andare su e giù per il portico. Se Diogene si muove, il movimento esiste, il movimento è possibile.

 

 

«La Svizzera – continua il Bolla – realtà viva ed operante si presenta con caratteri tali che non è possibile farla entrare negli schemi teorici dei novatori. La sua prosperità è inspiegabile se valgono i ragionamenti di chi predica intorno agli spazi vitali. Ma la sua prosperità è. Epperò la Svizzera appare nell’Europa di oggi nella posizione beffarda e pericolosa di Diogene che va sotto ai portici silenziosamente mentre l’altro filosofo prosegue la sua dimostrazione. Le parole di questo si sono perse nel nulla, vinte dai silenziosi passi del cinico. Così le parole dei novatori si perdono di fronte alla Svizzera silenziosa».

 

 

Perché Fulvio Bolla non è andato innanzi nel suo ragionamento calzante ed invece di manifestare i suoi dubbi, non ha concluso che le teorie dei novatori dello spazio vitale non solo «non convincono» ma sono anche false e bugiarde?

 

 

Miti e non teorie, le direbbe Pareto, formule politiche, correggerebbe forse Gaetano Mosca. Tedeschi ed italiani sono stati condotti alla guerra col miraggio della conquista dello spazio vitale, delle materie prime, delle colonie. Ad essi è stato detto che i popoli giovani hanno diritto di prendere il posto dei popoli vecchi, che i paesi dinamici i quali salgono devono succedere nell’impero del mondo ai paesi decadenti, che gli have nots, i popoli poveri non possono tollerare la sopraffazione degli have, dei popoli beati possidentes. La Svizzera, che non ha spazio vitale, che non ha colonie, che non ha materie prime, che è prospera, nonostante sia naturalmente povera, che è spiritualmente grande nonostante sia geograficamente piccola è una lezione vivente per tutti coloro i quali sono ansiosi di scovrire, attraverso l’esperienza del passato, le verità le quali possono salvare il mondo da una nuova guerra e dalla distruzione totale.

 

 

Si cominci ad affermare un principio fondamentale. In un mondo nel quale gli stati siano molti ed ognuno di essi sia privo del così detto spazio vitale, i pretesti di guerra sono meno numerosi e meno decisivi di quelli che si offrirebbero in un mondo che fosse diviso in pochi grandissimi spazi vitali. Oggi, che gli stati indipendenti sono ancora nel mondo una sessantina, nessuno di essi ha la possibilità di procurarsi nel suo territorio tutte le materie prime di cui ha bisogno. Ogni stato sa inoltre che, per conquistare uno spazio vitale veramente autosufficiente, gli converrebbe proporsi pressoché la conquista dell’intero mondo; impresa così vasta che persona sennata non può immaginare. Ogni stato sa che nessun altro stato monopolizza esclusivamente la materia prima che in quel momento gli fa difetto, sa che potrà sempre procurarsi quella materia prima dal territorio di uno dei tanti stati, i quali la producono. La coesistenza di molti stati è favorevole, nei limiti nei quali gli uomini sono capaci di compiere atti razionali, all’attuazione della sola politica delle materie prime la quale sia conforme alle esigenze della giusta loro ripartizione. Che cosa è il giusto in proposito? Un ordinamento nel quale le materie prime siano utilizzate da coloro i quali ne sanno trarre il miglior partito possibile. Tra due compratori, l’uno dei quali è atto a ricavare dallo stesso chilogrammo del medesimo cotone greggio un prodotto del valore dieci mentre un altro ne ricava un prodotto del valore undici è preferibile il secondo.

 

 

Questi invero è colui il quale fornisce, a parità di consumo di materia prima, un prodotto finito il quale è volontariamente preferito dai consumatori per la sua maggiore utilità, maggior utilità di cui il più alto prezzo è appunto l’indice. Per ottenere il prodotto di più alto pregio quell’imprenditore ha dovuto utilizzare la materia prima con procedimenti più raffinati, ha dovuto ricorrere ad una maestranza più esperta, ha dovuto cioè pagare direttamente ed indirettamente salari più elevati ed ha dovuto perciò promuovere un’accurata selezione ed un’elevazione tecnica delle maestranze medesime. Quale il mezzo per far sì che la materia prima vada a finire nello stabilimento dell’industriale svizzero che produce tessuti di qualità alta e non in quello dell’industriale della Carolina del Nord che produce tessuti correnti per i negri degli stati del sud? È la possibilità che ambedue possano concorrere all’acquisto del cotone americano sul mercato della Nuova Orleans. Se il mercato del cotone è libero, se tutti possono concorrere alle medesime condizioni, che cosa vuol dire che il prezzo in un dato giorno e per una determinata qualità di cotone è di 10,45 centesimi e non 10,44 e non 10,46 per libbra? Vuol dire che al prezzo di 10,45 centesimi e non agli altri prezzi la quantità domandata fu uguale in quel giorno e per quella qualità e su quel mercato alla quantità offerta. Vuol dire che, se il prezzo fosse stato di 10,46 una parte della merce offerta sarebbe rimasta invenduta e, premendo sul prezzo, l’avrebbe fatto discendere a 10.45, laddove, se il prezzo fosse stato di 10,44 la quantità domandata sarebbe stata maggiore dell’offerta e la domanda insoddisfatta premendo sul prezzo l’avrebbe fatto salire a 10,45.

 

 

Ma, a questo livello, hanno potuto acquistare solo quei compratori i quali potevano pagare 10,45 a causa della buona utilizzazione che essi si proponevano di fare del cotone. Poterono comprare gli industriali svizzeri, che producono tessuti di qualità e di prezzo relativamente alto e possono sopportare costi alti. Dovettero farne a meno alcuni tra gli industriali della Carolina del Nord, i quali producono tessuti andanti buoni per i paesi dei paesi caldi. Se vollero lavorare, costoro dovettero contentarsi di cotone con fibre più corte e scadenti.

 

 

Forseché esiste un altro criterio il quale sia atto a ripartire più giustamente le materie prime nei vari paesi del mondo? Sarebbe forse conveniente – giusto nel linguaggio giuridico e morale – che i cotoni migliori andassero a finire negli stabilimenti dove si fabbricano tessuti grossolani e quelli scadenti fossero dati a quegli industriali i quali, dovendo pagare salari alti ad operai specializzati e valenti, debbono necessariamente fabbricare merce fina di prezzo relativamente alto? All’attuazione della regola economica – e perciò giusta – basta una condizione: che tutti possano acquistare le materie prime su qualunque mercato alle stesse condizioni di ogni altro compratore, che cioè non esistano condizioni di favore per nessuno, né per i connazionali dei produttori né per gli appartenenti a stati amici o alleati. La condizione necessaria e sufficiente è che nelle relazioni internazionali viga la medesima regola che vale nell’interno di ogni stato, per gli abitanti di ogni cantone in ogni altro cantone della Svizzera, per i piemontesi, lombardi ecc. in ogni altra regione d’Italia. Non è facile per fermo che la condizione possa attuarsi nei rapporti internazionali così ovviamente come pare ovvio si avveri nell’interno di ogni stato, ma è certo più facile si avveri quando esistono, tra piccoli e grossi, 60 stati indipendenti che non quando il mondo sia diviso, come sarebbe la pretesa della teoria dello spazio vitale, tra quattro o cinque grandi imperi mondiali. La concorrenza nel comprare e nel vendere che tende ad attuarsi nel primo caso e che spinge i tanti stati ad accettare, non avendo nessuno la possibilità di dominare gli altri, la regola dell’uguale trattamento, del fair play, della clausola della nazione più favorita, non esisterebbe più quando il mondo fosse diviso fra quattro o cinque grandi spazi vitali. Ogni grande impero disporrebbe di quasi tutte le materie prime e difetterebbe solo di alcune di esse e per procacciarsele dipenderebbe solo da uno o da due altre grandi aggregazioni politiche.

 

 

Ma se la teoria dello spazio vitale ha un senso, essa vuol dire che ogni grandissimo stato vorrebbe riservare per sé, per i propri industriali le materie prime nate sul suo territorio ed escludere gli industriali stranieri dall’usarne od almeno dal procacciarsele a condizioni ugualmente favorevoli. Qual senso avrebbe invero sopportare i costi delle guerre necessarie a conquistare lo spazio vitale se si dovessero poi spalancare le porte agli stranieri e lasciare che essi si provvedessero nel territorio detto «spazio vitale» alle medesime condizioni dei nazionali?

 

 

Ma sarebbe l’esclusivismo pretesto a nuova guerra. L’unico o prevalente possessore della materia prima mancante agli altri cercherebbe naturalmente di profittare della propria situazione monopolistica, ed in contrapposto, ed altrettanto naturalmente, gli imperi bisognosi tenterebbero, coalizzandosi tra di loro, di imporgli colla forza la concessione di forniture a prezzi soddisfacenti. Il ricorso alla guerra da parte del più forte per procacciarsi il prezioso anello mancante di una compiuta catena economica è il risultato fatale della teoria. La conquista dello spazio vitale non contenta mai il conquistatore, anzi rende più acuta la sete della conquista.

 

 

I cittadini di uno stato, come la Svizzera, i quali da secoli hanno posto un limite alle proprie aspirazioni territoriali, ben presto si avvedono che «spazio vitale» e «mancanza di materie prime» sono frasi prive di contenuto e che l’uomo può vivere e prosperare anche senza soddisfare quelle aspirazioni astratte. Non esiste nessun paese del mondo, nel quale l’oro e le gemme, la gomma elastica e il petrolio, la lana ed il cotone, il ferro ed il carbone, si trovino in abbondanza per i cantoni delle strade, pronti ad essere appropriati dal primo venuto. Dappertutto le materie prime hanno un costo di produzione, dappertutto occorre fatica per estrarle dalle viscere della terra, o per farle crescere dopo averle seminate, e dappertutto, se non ci si mettono di mezzo le teorie dello spazio vitale e i relativi tentativi monopolistici ed antimonopolistici dei paesi produttori e di quelli consumatori, il prezzo di quelle materie prime tende verso il livello del costo di produzione marginale, ossia verso il livello del costo di produzione di quell’ultima più costosa dose della merce che occorre produrre per soddisfare, ai prezzi correnti, la domanda del mercato.

 

 

Accadde talvolta che taluna merce, come il caffè e la gomma elastica, sia caduta al di sotto di quel livello, infliggendo perdite fortissime ai produttori, ed accadde tal altra che, per un aumento improvviso della domanda, i prezzi superassero quel livello e sembrassero prezzi di monopolio. Ma normalmente in tempi di pace, i prezzi tendono verso il livello del costo così come fu definito sopra.

 

 

Ed allora, si chiede l’uomo di buon senso: val la pena di partire in guerra per ottenere con la forza e con un dispendio spaventevole di vite umane e di ricchezze preziose quel che posso procacciarmi col lavoro? La scelta fra l’ideale del grandissimo spazio vitale nel quale si produce gran parte delle materie prime necessarie all’industria moderna e quello ristretto al piccolo territorio svizzero insufficiente a far vivere i suoi abitanti, è la stessa scelta che ogni popolo ad un certo punto della sua storia deve fare fra la guerra e la pace, fra l’economia della rapina e quella del lavoro. Dormono nel profondo dell’animo umano gli istinti del selvaggio, del barbaro, che, unico mezzo per procacciarsi quel che non ha, conosce l’uccisione, la rapina ed il furto a danno di chi possiede. Ma anche se lo si ammanta con il linguaggio figurato dello spazio vitale, del diritto dei popoli giovani contro i popoli vecchi, dei paesi poveri contro i paesi ricchi, il metodo bellico rimane pur sempre un mezzo antieconomico di procurarsi quel che desidera. Se si sommano le perdite delle vite umane cagionate dalle guerre di conquista, gli interessi e l’ammortamento dei capitali impiegati a fondo perduto nel valorizzare i territori occupati, il minor ricavo del lavoro dei popoli assoggettati e sfruttati economicamente, ben presto si vede che il prezzo delle materie prime che paiono gratuite ai teorici imperialistici, perché ottenute con la guerra, è assai più alto di quello che si pagherebbe normalmente nella concorrenza degli acquirenti e dei venditori su mercati liberi.

 

 

Il problema si riduce a rispondere alla domanda che l’industriale svizzero pone a sé stesso: «per produrre le macchine elettriche in cui intendo specializzarmi, che cosa mi conviene di più, aggregarmi od associarmi od in altro modo partecipare ad una grande costellazione politica, capace di estendere il suo dominio su territori abbondanti di carbone, di ferro e degli altri metalli dei quali ho bisogno per fabbricare le mie macchine elettriche, ovvero non imbrogliare le due questioni, dell’appartenenza o fede politica e della convenienza economica e, standomene contento al mio piccolo stato, cercare di procacciarmi carbone e ferro e metallo dove meglio mi sarà possibile?».

 

 

L’uomo di buon senso subito si avvede che la seconda alternativa gli è assai più conveniente. Innanzi tutto perché le sue forze fisiche, la sua intelligenza nativa e le sue abilità acquisite possono essere consacrate in misura maggiore, senza distrazioni eccessive per preparazioni a guerre e ad armamenti aventi lo scopo di assalire altrui, allo studio dei mezzi migliori per ottenere macchine elettriche perfette con un minimo impiego di materiali. In secondo luogo egli non è obbligato a vendere a preferenza le sue macchine dentro la grande costellazione politica della quale fa parte, ma può scegliere quello o quelli tra i tanti mercati che è o sono disposti a pagarle al più alto prezzo. Finalmente, egli non è obbligato ad acquistare il ferro e il carbone e i metalli nel territorio del grande spazio vitale di cui qualche tentatrice sirena lo invita a far parte, dove i prezzi possono essere più alti di quelli che corrono altrove, ma può scegliere con indifferenza il mercato produttore nel quale egli li può acquistare al minimo prezzo. Sicché, se egli è davvero esperto nel produrre buone macchine elettriche – ma ciò dipende da lui, dall’essere egli davvero un uomo moderno, agguerrito negli studi teorici e nelle loro applicazioni pratiche, buon commerciante di prodotti finiti e buon intenditore di materie prime, buon organizzatore di operai pagati bene è probabile ch’egli riesca a vendere più e meglio dei concorrenti del grande spazio vitale, appunto perché egli non ha mai posseduto né aspirato a possedere territori sconfinati ed a gloriarsi di colonie. L’appartenenza ad un paese non imperialistico fu per lui cagione di ricchezza e non di povertà, perché lo indusse a perfezionare le qualità di lavoro e di industria, che son poi quelle con le quali si riesce a produrre ed a vendere buone materie prime e buoni prodotti finiti.

 

 

Non dico che i liguri od i biellesi della mia Italia non abbiano imparato altrettanto bene degli svizzeri la lezione del buon senso, essi che dai sassi cavano o cavavano fiori ed ortaggi venduti in tutta Europa; o dal mare sapevano trarre commerci lucrosi, sfruttando nel ‘600 e nel ‘700 la vanagloria dei signori spagnuoli, i quali traevano a rovina il loro paese per l’albagia di possedere le miniere d’oro e d’argento nello spazio vitale più ampio che allora esistesse, essi che, utilizzando i salti d’acqua delle loro montagne, seppero nel biellese creare una solida industria laniera.

 

 

Tuttavia l’esempio della Svizzera va additato agli italiani come quello del paese, che, riponendo tutta la propria forza economica nell’eccellenza del lavoro compiuto, ha raggiunto uno dei livelli più alti che nel mondo si conoscono non solo di ricchezza, ma anche di larga diffusa sua distribuzione, aliena ugualmente dagli eccessi della miseria e della opulenza.

 

 

La rinuncia svizzera alla gloria dei possessi coloniali ed a quella di vedere pitturati nel proprio colore vasti territori asiatici, africani od australiani, è davvero una rinuncia? Qui si pone uno dei più gravi problemi del momento attuale. Non basta dimostrare che la conquista di una colonia non è economicamente un buon affare. Si può essere persuasi che il provento netto della colonia non potrà remunerare il capitale impiegato dallo stato colonizzatore nelle spese della conquista militare e nell’apprestamento dell’attrezzatura stradale, ferroviaria, amministrativa, igienica, scolastica del territorio conquistato, che probabilmente il capitale impiegato dallo stato non solo non otterrà alcuna remunerazione, ma sarà cagione di oneri ragguardevoli per lunghissimo periodo di tempo alla madrepatria. Si può essere persuasi che il capitale impiegato da imprenditori privati e da società nella bonifica e nella coltivazione dei terreni adatti alla colonizzazione europea avrebbe forse, assai alla lunga, dato qualche reddito agli imprenditori solo se questi avessero profittato di larghi sussidi statali a fondo perduto per la costruzione di edifici rurali, di strade secondarie e poderali e per le opere di bonifica e di irrigazione. Si può essere convinti che, anche fatte queste ipotesi di larghissimi sacrifici della madrepatria, questa non avrebbe probabilmente potuto avviare verso la colonia una emigrazione di milioni di contadini piccoli e medi proprietari autonomi, perché le condizioni di vita delle contrade non ancora costituite in stati indipendenti liberi non sono generalmente favorevoli alla popolazione bianca, la quale debba vivere continuamente sul podere, ma impongono al bianco di trascorrere ogni tre o quattro anni un lungo periodo di vacanza in clima diverso europeo, cosicché quei territori si palesano propizi soltanto a quella che si chiama colonizzazione da parte di grandi imprenditori, dirigenti di aziende capitalistiche coltivate manualmente da indigeni adusati al clima, colonie cioè di sfruttamento e non di popolamento, colonie vantaggiose, sì, ad un numero ristretto di ardimentosi grandi agricoltori ed insieme agli indigeni, di cui l’iniziativa bianca sarebbe capace di innalzare il tenor di vita, ma inette a raggiungere il risultato di apprestare uno sbocco ad una esuberante popolazione agricola metropolitana.

 

 

Si può essere persuasi di tutto ciò e d’altro ancora: della non convenienza economica di strappare ai beati possidenti colle armi, giacché colle buone non sarebbe mai possibile, colonie antiche e già assestate come la Tunisia ed il Marocco o qualche ampia fetta dell’Africa tropicale francese, o britannica o belga. Anche qui, se si tenga conto dell’investimento di capitali nella condotta della guerra di conquista, e di quelli grandiosi per la riattrezzatura distrutta o danneggiata nelle operazioni belliche, del moto di indipendenza che spinge il mondo arabo e, a quel che si sa, anche le popolazioni indigene nere dell’Africa, a sottrarsi allo sfruttamento da parte dei bianchi, a pretendere autonomie politiche ed economiche, ad esigere la cessazione di quelle forme di colonizzazione europea che implicano semplice sfruttamento della mano d’opera indigena e l’instaurazione di tipi di governo economico, nei quali ai bianchi spettino solo quei guiderdoni che siano il compenso normale di funzioni effettivamente compiute, è probabilissimo si debba giungere alla conclusione che le imprese coloniali, anche se si tratti di territori cosidetti ricchi e non di zone sterili o malariche trascurate dai primi giunti nell’arringo coloniale, sono imprese economicamente improduttive, se non sterili. La quale conclusione si rafforza riflettendo alla difficoltà somma di instaurare, a vantaggio della madrepatria, nei tempi moderni, un qualche sistema di preferenze doganali, i cui danni Adamo Smith aveva già dimostrato per i tempi suoi. Gli accordi di Ottawa sono una palla di piombo al piede dell’Inghilterra, indotta ad acquistare dalle colonie derrate agricole e materie prime anche quando sarebbe ad essa più conveniente farne acquisto altrove ed a danneggiare se stessa nella vendita dei prodotti finiti in confronto ai paesi liberi da siffatte pastoie, e sono fonte di attriti interimperiali quando essa, per ricambio, incerto e sempre sospettato, richiegga favori alle sue esportazioni nelle colonie.

 

 

Tutto ciò discusso e concluso, il problema non è risoluto. I popoli poveri, giovani, combattivi vogliono forse ottenere ricchezza quando si decidono a combattere? O la ricchezza non è un miraggio vano che i capi additano ai popoli, quando invece la meta vera è unicamente quella della conquista della gloria, del prestigio, della potenza militare e politica? Con ragionamenti economici non si distrugge la volontà di potenza e di espansione di popoli i quali vogliono conquistare un posto al sole. Il problema, che non è economico, deve essere posto politicamente e storicamente. Orbene, l’esperienza dimostra che la forza sola non basta. Non basta dire, anche quando è vero: noi siamo un popolo numeroso, crescente di numero, desideroso e bisognoso di espansione, provvisto delle armi necessarie affinché all’aspirazione segua l’effetto. La forza scompagnata dall’idea non è vera forza e da essa non seguono ricchezza e potenza, sì bene miseria ed umiliazione.

 

 

Sull’impero spagnuolo non tramontò il sole, finché, agli avventurieri in cerca d’oro e d’argento si accompagnavano missionari intesi a convertire gli indiani alla parola di Cristo. Quando rimasero soli gli aguzzini decisi ad arricchire, l’oro e l’argento delle nuove Indie recarono alla Spagna solo ozio, miseria e decadenza economica morale e politica. L’antico impero britannico si sfasciò e le 13 colonie, ribellandosi, dimostrarono che la forza, messa al servizio esclusivamente della volontà di potenza e del privilegio economico, non bastava a conservare quel che non la forza, ma il lavoro dei coloni in cerca di libertà religiosa aveva creato nell’America settentrionale. Il nuovo impero britannico risorse e crebbe e non pare sia giunto al termine della sua lunga vita non perché l’Inghilterra del XIX secolo sia stata capace di maggior forza che nel XVIII secolo, ma perché nel decennio tra il 1830 ed il 1840 un gruppo di uomini si fece banditore di un’idea e quell’idea trovò un uomo di stato, Lord Durham, che la consacrò nel celebre rapporto che da lui prese il nome. La tavola della legge del nuovo impero fu: le colonie non sono fatte per la madrepatria, ma la madrepatria ha la missione di fondare a sue spese le colonie, di educarle a governo libero e di assicurare la loro indipendenza politica ed economica anche e sovrattutto di fronte a se stessa. Solo la nuova idea, messa al servizio della forza, rinsaldò il rinnovato impero britannico. Arricchita di sempre crescente contenuto, essa fu codificata nel cosidetto Statuto di Westminster, in virtù del quale ai Dominions del Canada, dell’Africa del sud, dell’Australia, della Nuova Zelanda fu riconosciuta la compiuta indipendenza economica, politica, militare, diplomatica di cui godevano di fatto già prima, fu attribuito il diritto di secessione dal complesso della Comunità britannica delle nazioni, al quale sono legati solo dal vincolo ideale della persona del Re, e fu persino devoluto al governo elettivo dei singoli stati il diritto di proporre direttamente al Re, senza passare attraverso il governo britannico, il nome del viceré rappresentante della persona del Re. Verso questo tipo di indipendenza assoluta stanno orientandosi l’India e le altre colonie, ancora amministrate direttamente dalla corona con la cooperazione larghissima e crescente di parlamenti locali. Ed è grazie all’idea della graduale ascesa verso l’indipendenza politica compiuta, che le antiche colonie, diventate stati indipendenti, combatterono e combattono accanto alla madrepatria durante la passata e la presente grandi guerre. Solo grazie alla consapevolezza di potere, volendo, rimanere neutrali, come fece e fa, senza contrasto con l’Inghilterra, l’Irlanda, i dominions e le colonie fanno sacrifici di sangue e di danaro in difesa di una causa che, perciò, essi considerano comune. Dalla convinzione profonda di dover difendere l’idea della convivenza in una libera comunità di nazioni indipendenti trae forza l’impero britannico. Oggi è diventato storicamente assurdo che la forza pura, la mera volontà di potenza e di dominio riesca ad acquistare capacità maggiore di espansione di una forza la quale acquista ognor nuovo alimento dalla propria superiorità morale e spirituale. Oggi, se si vuole partecipare alla colonizzazione, al popolamento ed allo sfruttamento dei paesi nuovi e di quelli semi inciviliti bisogna porre al servizio della forza non meri interessi egoistici materiali della madrepatria, ma un’idea la quale uguagli e superi l’idea che ha fatto e conserva la grandezza dell’Impero britannico. Di crear qualcosa di meno alto non solo non vale moralmente la pena, ma, quel che monta, non ci si riesce. Le forze materiali le quali stanno dietro all’idea dello spazio vitale, della grande Asia e simiglianti concezioni puramente economiche materialistiche razzistiche fisiologiche (sangue, gioventù) demografiche si sono ripetutamente dimostrate inferiori a quelle che, forse più lentamente, sono chiamate a raccolta dalla necessità di difendere altre idee: della libera convivenza dei popoli, della loro cooperazione volontaria, dell’emancipazione progressiva dei popoli meno inciviliti e della loro elevazione a dignità uguale a quella dei popoli che oggi guidano i destini del mondo. Poiché questa è la realtà, non resta che inchinarsi ad essa. Poiché colla guerra non si riesce a sostituire un tipo inferiore di conquista ad uno superiore di conservazione, giuocoforza è, se si vuole conquistare un posto nel mondo superiore a quello fin qui raggiunto, rassegnarsi a mettersi al servizio di un’idea più alta di quella che ha fatto la fortuna dei grandi imperi che si sono succeduti nella storia.

 

 

Quale possa essere un’idea più alta di quella della comunità britannica delle nazioni non è compito di un semplice studioso dire. L’idea verrà fuori dalla necessità della convivenza di tanti diversi popoli tutti decisi a difendere, a rischio della vita, la propria individualità nazionale.

 

 

L’idea dello spazio vitale ossia della esclusività del possesso di vasti territori da parte di un popolo egemone si è dimostrata sterile. Comunque volgano le sorti della guerra presente, dinnanzi alla resistenza disperata dei popoli, la teoria degli spazi vitali ha dimostrato la propria inettitudine a creare un nuovo mondo migliore dell’antico.

 

 

Qui, di nuovo, può soccorrere l’insegnamento svizzero. Come ripetutamente ha chiarito nelle pagine di questa rivista lo Janner, l’idea che rende viva e vitale la Svizzera, che ha trasformato un paese diverso per lingue, per religioni, per costumi, per razze, in una vera nazione, non è un’idea materiale geografica od economica. Se queste fossero le forze che tengono insieme la Svizzera, da lungo tempo essa non esisterebbe più. La Svizzera vive ed è una nazione perché è decisa a far convivere d’accordo popoli diversi. L’idea che ha creato la nazione svizzera è la stessa che fa combattere il boero, vinto, accanto all’Inghilterra vincitrice, che dà al boero vinto il governo del paese nel quale i due popoli convivono, che persuade il francese del Canada a lottare insieme ai discendenti dei conquistatori britannici, che pone i pochi figli dei maori neozelandesi fianco a fianco degli inglesi che avevano quasi sterminati i loro antenati: l’idea della convivenza pacifica di popoli, di razze, di lingue, di religioni, di costumi diversi. Ma la Svizzera ha spinto l’attuazione dell’idea ad un grado più elevato di quanto non abbia fatto la Comunità britannica delle nazioni. Questa, dopo avere distrutto l’egemonia inglese, dopo aver ridotto la Gran Bretagna allo stato onorifico di «primus inter pares» fra stati ugualmente sovrani, non ha ancora saputo tra essi creare l’organo coordinatore. Nel momento supremo della successione del Re per l’abdicazione di Edoardo VIII, hanno funzionato il telefono e gli accordi verbali dei governi degli stati indipendenti legati dalla persona del Re, affinché la successione si verificasse nel medesimo istante. E fu un trionfo -amareggiato solo dal ritardo di un giorno da parte dell’Irlanda del sud, desiderosa di accentuare in tal modo e con l’uso di una formula singolare la propria indipendenza assoluta ed il proprio stato legale di repubblica – fu un trionfo dell’empirismo tradizionale britannico, il quale non pone mai problemi astratti ma risolve volta per volta i singoli problemi concreti con compromessi, ripugnanti bensì allo spirito logico francese ed italiano, ma suscettivi di funzionare con efficacia. Non è però astratto, sì bene concreto il problema della coordinazione dell’azione comune, quello della sostituzione al metodo lento della fornitura, ad occasione di una guerra improvvisa, di contingenti di uomini e di denaro, da parte di ogni stato facente parte della comunità britannica delle nazioni, di un metodo rapido efficace atto a guarentire la pace e la difesa. Certo, fu magnifico lo spettacolo dell’adesione volontaria, operata in misura e con modalità diverse, con o senza coscrizione obbligatoria, dei cinque stati all’impresa comune. Tuttavia se fu moralmente superbo, il metodo fu pericoloso rispetto alla consecuzione dello scopo, perché l’impresa non poté non essere condotta con una qualche lentezza e superando attriti faticosi. Manca alla Comunità britannica delle nazioni quel che per la Svizzera sono il Parlamento ed il Consiglio federale, quel che per gli Stati Uniti sono il Congresso ed il Presidente.

 

 

Avranno gli uomini di stato chiamati a deliberare dopo la fine della guerra sulle sorti dei popoli la fantasia e la volontà di imitare e di emulare l’esempio svizzero? Il quale, si badi, è superiore a quello medesimo nordamericano, perché negli Stati Uniti si fondono, come in un crogiuolo, dopo qualche generazione i discendenti degli inglesi, degli irlandesi, dei tedeschi, degli scandinavi, degli italiani e degli slavi e danno origine ad una nazione nuova, diversa da quelle componenti e fornita di propria individualità, laddove nella Svizzera le tre o quattro stirpi confederate conservano la propria lingua ed i proprii caratteri e tuttavia sono decise a convivere e perciò costituiscono una nazione sola, una e trina.

 

 

Probabilmente no, e sarà grande sciagura perché essi non avranno saputo perciò spegnere i germi di una prossima futura guerra più spaventevole di quella odierna, destinata finalmente a sradicare del tutto dalla terra attraverso un bagno di sangue l’idea nefasta dello stato sovrano perfetto in se stesso, dotato di piena autonomia di fronte agli stati sovrani ugualmente perfetti ed indipendenti. Finché l’idea dello stato sovrano perfetto, padrone assoluto, sia pure per volontà della maggior parte dei consociati, delle sorti di questi, non sia interamente sradicata dalla mente e dal cuore degli uomini, è impossibile che il mondo possa aver pace. Sinché non diventi pacifica la persuasione che la sovranità non esiste perfetta in nessun tipo di stato, ma essa è diffusa e distribuita fra tanti tipi di stato (lo stato federale, gli stati confederati, i comuni, le corporazioni, le chiese, le associazioni, gli individui ecc.) e nessuno può usurpare il terreno altrui e, per decidere delle cose supreme della guerra e della pace, occorre il consenso, dato nelle forme più diverse, di tutti i tipi coesistenti di stato, il mondo non potrà avere pace.

 

 

Occorre perciò spogliare a poco a poco dei suoi attributi il nemico numero uno, che è l’idea dello stato sovrano perfetto. Occorre trasportare dallo Stato sovrano ad organi diversi, internazionali, alcuni degli attributi che oggi appaiono proprii dello stato, cosicché la sovranità non risieda più intiera nello stato ma sia variamente attribuita ad organi superstatali, dotati di vita, di finanza e di organi proprii, organi non denunciabili dagli stati singoli se non con atti destinati col tempo a parere assurdi agli occhi degli uomini e quindi impossibili.

 

 

La creazione o, meglio, la moltiplicazione di organi comuni di governo di taluni aspetti della vita, particolarmente economica, dei popoli, si impone se si vuole diminuire la superficie di attrito dalla quale nascono le guerre, organi grazie ai quali i rappresentanti dei diversi stati imparino a conoscersi, a tollerarsi, a stimarsi ed a lavorare in comune per una causa comune a tutti. L’insuccesso, che fin dal 1918 e 1919 ebbi facilmente a prevedere, della Società delle Nazioni, organo privo di forza militare, di entrate finanziarie e di rappresentanza propria, e la convinzione della immaturità dell’idea della federazione vera e propria, spingono oggi ad invocare la moltiplicazione di «Unioni» economiche simili alla Unione postale internazionale, alla Unione internazionale per le privative industriali ed i marchi di fabbrica od alla Banca dei pagamenti internazionali, le quali hanno tutte sede in Svizzera. È forse utopistico sperare che anche il sistema dei mandati coloniali possa essere trasformato e generalizzato seguendo la medesima linea direttiva?

 

 

Quando si riconosca che le conquiste coloniali non possono avere, nell’interesse stesso della nazione colonizzatrice, fini economici egoistici, ma debbono invece avere lo scopo del benessere dei popoli meno inciviliti e la loro progressiva educazione a compiuta autonomia di governo, quando, durante il periodo intermedio di educazione, lo stato protettore non rivendichi, reputandolo a se medesimo dannoso, alcun privilegio economico, quando cioè si generalizzi il principio della porta aperta e questo sia in buona fede applicato alle merci ed agli uomini provenienti e indirizzati da e a tutti gli stati stranieri, quale interesse può avere lo stato protettore a riservare a sé l’amministrazione esclusiva del paese di mandato? Perché accollarsi l’onere esclusivo degli investimenti a fondo perduto nell’attrezzatura di strade, ferrovie, porti, canali, scuole, ospedali, chiese ecc. ecc. necessaria a rendere quel paese degno di piena autonomia di governo? Agli stati protettori odierni gioverebbe attribuire una partecipazione relativamente elevata nei consigli di governo e nell’onere dell’amministrazione, ma non tale da escludere una partecipazione attiva e passiva di tutti gli altri stati. Se agli inglesi, ai francesi, ai belgi, agli italiani, agli egiziani, ai sudafricani potranno essere riconosciute particolari maggioranze nei consigli di governo dei paesi di colonia diretta, dei protettorati, dei mandati e delle zone di influenza finora appartenuti a ciascuno di quei popoli, la costituzione di una o di parecchie «Unioni coloniali» aperte agli stati originari ed a tutti gli altri che potessero in seguito essere ammessi (Stati Uniti, Germania, Russia, Svizzera, Paesi scandinavi ecc. ecc.) inizierebbe lo smantellamento dell’idea dello stato sovrano perfetto e preparerebbe la futura federazione europea od occidentale. All’amministrazione comune federativa del grande territorio coloniale africano parteciperebbero in varia misura, a seconda del rispettivo grado di attitudine e di organizzazione politica, anche i popoli amministrati. Col progredire del tempo, un numero crescente di compiti sarebbe devoluto dall’amministrazione federale a quella delle ex colonie o protettorati, ritornati a piena dignità di stati autonomi, a somiglianza di quanto accade, in forme diverse, nel passaggio dalla situazione di «territori» a quella di «stati» nella federazione degli Stati Uniti d’America. Ma taluni compiti – difesa, grandi ferrovie continentali, poste e telegrafi, dogane, rappresentanza diplomatica – non dovranno mai essere trasferite dall’unione ai singoli territori. La diminuita partecipazione degli stati colonizzatori e quella cresciuta dei popoli coloniali alla gestione della cosa comune dovranno significare rafforzamento e non indebolimento dell’organo comune di governo.

 

 

I vantaggi economici maggiori della nuova politica coloniale sarebbero principalmente goduti dai cosidetti paesi poveri e giovani. Ove non si faccia questione di mero prestigio e si consenta che le carte geografiche rimangano colorate così come sono presentemente, coi colori delle rispettive potenze dominanti o protettrici o mandatarie, ma si osservi rigorosamente, grazie al controllo dell’«Unione coloniale» il principio della porta aperta a tutti i cittadini degli stati appartenenti alla Unione, sarebbero i popoli europei capaci di più larga emigrazione, meglio atti ad esportare risparmi ed a farli fruttificare con impieghi giudiziosi, quelli che trarrebbero maggior profitto dalla pace instaurata nel grande territorio africano. Tutti avendo le medesime opportunità di riuscita, nessuno potrebbe lagnarsi della migliore riuscita altrui, ché questa non potrebbe essere attribuita ad altra causa che al merito. La diversità nei punti di partenza rispetto al possesso di capitali non avrebbe gran peso.

 

 

Il ritorno della pace, se questa non sia una semplice tregua d’armi, darebbe un siffatto impulso alla formazione di capitali nuovi, che questi diverrebbero presto quel che in certi momenti furono il caffè, la gomma elastica, il cotone, il carbone: a drug in the market, una merce venduta sotto costo, ossia in compenso di un interesse nominale. Se oggi il saggio di interesse per lunghi investimenti non è del 0,50 o dell’1 per cento, la colpa è esclusivamente delle guerre e delle rivoluzioni. In Isvizzera dove da lunghi anni le une e le altre sono conosciute solo per le loro dannose ripercussioni, il saggio d’interesse per i prestiti pubblici e privati è tra i più bassi del mondo. Di gran lunga più importante del possesso del capitale, diventerebbe l’attitudine ad usarlo. Non i capitalisti sarebbero i padroni degli imprenditori, non i lavoratori, dotati di qualche iniziativa, dovrebbero chiedere in ginocchio l’aiuto dei capitalisti, ma viceversa. Ora, se un popolo è veramente giovane, il che vuol dire fornito di energia e di capacità di lavoro, esso non corre alcun pericolo di rimanere indietro nella gara della colonizzazione, ove questa sia veramente aperta a tutti.

 

 

Ecco perciò l’ideale che deve trionfare alla fine della guerra attuale, se questa deve essere davvero, se non l’ultima guerra, almeno il preludio ad un lungo periodo di pace: il riconoscimento dell’uguale diritto di tutti i popoli ad utilizzare i beni della terra. Ideale conciliabile colla permanenza delle attuali sovranità politiche, ove il concetto di sovranità sia svuotato del contenuto di assolutezza e di esclusivismo che ora lo rende cagione di odi e di guerre, e sottoposto, insieme ad altri vincoli, a quello fondamentale dell’uguale trattamento economico e giuridico di tutti gli uomini, qualunque sia la loro razza, la loro religione, la loro lingua. Non è questo l’ideale che dà oggi alla Svizzera la caratteristica vera di nazione?

 

 

Al disopra dei confini materiali, al di sopra dei limiti segnati dalle montagne, dai fiumi e dai mari, e di quelli ereditati dalle sorti varie delle lotte passate, gli uomini si sentono concittadini, parte della medesima nazione, quando essi inseguono un medesimo ideale di vita. La nazione è un atto morale e non fisico e non fisiologico. Non la terra e non il sangue creano le nazioni, ma la volontà di vivere insieme secondo norme comuni e per raggiungere un comune ideale. La guerra odierna è la prova della necessità in cui si trovano gli europei di creare metodi di vita comune. Se i mezzi voluti da taluno per raggiungere il fine devono essere riprovati, il fine della cooperazione i tutti i popoli è pur necessario.

 

 

Ferrovie, navigazione, telegrafo, telefono, radio hanno resa assurda la vita chiusa nell’ambito di ogni stato separato. È necessario, se si vogliono evitare guerre future, se non si vuole che fra un quarto di secolo l’Europa sia messa nuovamente a fuoco ed a sangue, inventare qualche nuova forma di convivenza pacifica. Se la forma più perfetta della federazione tra popoli di stirpi, di lingua e di religioni diverse, appare oggi prematura ai più, uopo è tuttavia avvicinarsi gradatamente a quell’ideale e creare vincoli siffatti all’operare indipendente separato degli stati che un’azione di guerra appaia ognora più rischiosa nell’attuazione e incerta nei risultati. Quando le ferrovie siano governate da un ente superstatale esse saranno strumento meno agile in mano di quello degli stati che volesse muovere guerra agli altri. Quando le colonie fossero governate da «Unioni», nel governo delle quali ogni stato avesse solo una partecipazione, sarebbe scarsamente possibile ad uno stato fazioso trarne uomini e mezzi per la condotta di una guerra. Quando l’emissione della moneta e dei suoi surrogati cartacei fosse riservata ad un Istituto internazionale, la fabbricazione di carta moneta falsa, questa suprema risorsa degli stati belligeranti, sarebbe meno comoda per chi volesse turbare la pace. Quando l’Unione postale universale non fosse soltanto, come è oggi, una camera di compensazione, ma gerisse direttamente le poste i telegrafi ed i telefoni, un ostacolo, almeno momentaneo, sarebbe frapposto ai perturbatori della pace internazionale e di quella interna. Ritardo ostacolo remora, non certo impedimento assoluto; ma quando si dice ritardo ostacolo remora si dice anche possibilità di compromessi, di trattative, di accordi o di interventi repressivi degli istinti belluini atavici che spingono a risolvere i problemi con la violenza invece che colla persuasione. Le limitazioni internazionali ai poteri dei singoli stati sovrani gioverebbero a togliere valore al nemico numero due della civiltà contemporanea, ossia all’idea che basti e convenga impadronirsi del potere per procacciare la felicità di questa o quella classe sociale. La «dittatura del proletariato», la conquista del potere da parte di qualche gruppo eletto di uomini persuasi di possedere il segreto della rinnovazione della società, ecco il nemico numero due, logica conseguenza dell’idea dello stato sovrano perfetto, il quale tutto può fare per crescere la somma della felicità umana. Dopo secoli di guerre atroci gli uomini si sono finalmente persuasi che lo stato è impotente ad agire nel campo della religione e del pensiero. Occorre si persuadano che all’operare dello stato debbono essere posti vincoli numerosi di altra specie, sicché ai suoi temporanei governanti desiderosi di attuare un qualunque loro proposito, sia richiesto il consenso di tanti altri stati, di tanti altri organi di governo superstatale, da rendere difficilissimo il mal fare, il fare rapidamente, il mutare e il rimutare che nelle cose di governo sono quel che il male ed il peccato sono nelle cose della morale e della religione.

 

 


[1] In calce la data: «15 agosto 1943» [Ndr.].

Non attendersi troppo

Non attendersi troppo

«Corriere della Sera», 8 settembre 1943

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 306-310

 

 

 

 

Mi è accaduto di questi giorni di sentirmi dire, a voce e per iscritto: «I lettori aspettano da voialtri economisti… ». Che cosa si aspetta? Temo assai di più di quanto possiamo dare. Purtroppo, non possiamo fare previsioni sull’avvenire. Ci fu un tempo, prima della grande crisi del 1929-32, nel quale le previsioni economiche erano divenute di moda. Particolarmente negli Stati Uniti si erano impiantati laboratori, dove si manipolavano statistiche e si tracciavano curve rappresentative di quel che era accaduto in passato: curve di prezzi che prima andavano su e poi andavano giù e di nuovo su, con un certo andamento che, a guardarlo ed a calcolarlo, presentava qualche regolarità. Tutto ciò era assai bello ed istruttivo ed anche fecondo di deduzioni importanti, per il passato. Ma per l’avvenire? Quando gli statistici dei laboratori od osservatori economici si azzardarono ad allungare le curve dal passato certo nel futuro incerto, quando cioè osarono far previsioni, fu un clamoroso insuccesso. Anche se la mano che prolungava le curve era delicata e previdente, essa fatalmente trascurava un terribile “se”. Non è lecito dire: “poiché” in passato le cose dei prezzi, dei redditi, ecc. andarono così, seguiteranno ad andare nello stesso modo in avvenire. Bisogna invece dire: “se” in avvenire le circostanze le quali determineranno i prezzi, i redditi, ecc. saranno le stesse che furono in passato, è probabile che l’andamento dei prezzi e dei redditi sia lo stesso. Ma quel “se” non si verifica mai, qualcosa muta certo. Mutano i gusti degli uomini si fanno invenzioni di macchine nuove, di merci nuove, di procedimenti industriali ed agricoli, mutano i costi di produzione, i mezzi di comunicazione. Tutto muta continuamente, talvolta adagio e talvolta in fretta; nulla si riproduce nella stessa precisa maniera che in passato. Quindi le previsioni sono difficilissime ed azzardatissime; e un economista il quale usasse indulgere in previsioni, presto si squalificherebbe. Perciò è anche difficilissimo e sconsigliabile dar consigli particolari sul modo di comportarsi nelle faccende private: se convenga comprare o vendere, preferire un titolo ad altro, imprestare a breve o a lungo termine, investire in terreni o in case, od in azioni, od in buoni del tesoro. Si possono fare considerazioni generali utili, inspirate all’esperienza passata; ed era divenuto prima dell’altra guerra celebre un libro: Come impiegare la mia fortuna di Paolo Leroy Beaulieu; libro che aveva, come quelli di cucina, avuto imitazioni anche in Italia, e la migliore era stata tra noi quella del compianto amico Giuseppe Prato. In conclusione lo studioso deve starsene sulle generali, perché, a voler consigliare l’un titolo o l’altro, l’un podere o l’altro, bisognerebbe che lo studioso diventasse qualcos’altro: banchiere, agente di cambio, mediatore di terreni. Costoro consigliano, perché si suppone abbiano conoscenze specifiche, fanno quel mestiere da tempo, assumono la responsabilità, almeno morale, del consiglio dato, conoscono le circostanze particolari, personali, famigliari di chi chiede il consiglio e adattano questo a quelle.

 

 

Il compito vero dello studioso è un altro: aiutare il pubblico a comprendere i fatti che accadono, le idee o proposte che sono nell’aria o sono largamente discusse. Che cosa vuol dire “spazio vitale”? Che cosa sta sotto la parola “autarchia”? Che si intende per “indipendenza economica dallo straniero”? Che cosa significa il contrasto fra popoli ricchi e popoli poveri? Come si deve leggere un conto del tesoro? Che differenza v’ha fra entrate e spese effettive ed entrate e spese per movimenti di capitali nel medesimo conto? Qual è il contenuto vero della frase che l’economia deve essere subordinata alla politica? Perché i calmieri sui prezzi non hanno senso senza un tesseramento effettivo?

 

 

Chiarendo e spiegando, l’economista compie un ufficio al quale talvolta gli uomini non si attendevano: fa vedere che spesso le idee proposte, le quali sono messe innanzi da politici, da riformatori, da filantropi con le migliori intenzioni, raggiungono risultati opposti a quelli che i proponenti si ripromettevano. Nella scienza economica è vero oggi, come cent’anni fa, che quel che “non si vede” è molto più importante di quel che “si vede”; verità che aveva fornito il titolo ad un opuscolo, pubblicato giusto cent’anni fa e divulgatissimo allora, di Federico Bastiat.

 

 

Chiarendo e spiegando, gli economisti danno il vero contributo, che è in loro potere, alla cosa pubblica, perché segnalano ai politici i limiti di quel che essi possono fare con vantaggio generale; indicano le condizioni vantaggiose a porsi con leggi entro le quali gli uomini possono svolgere liberamente la loro attività senza danni altrui.

 

 

Ad esempio, gli economisti sono favorevoli ai sindacati operai che non siano monopolistici, alle assicurazioni vecchiaia, invalidità, infortuni, maternità legittima, perché se ne ripromettono elevazione materiale e morale degli uomini; e si ripromettono tale effetto, perché l’esperienza del passato sembra essere in proposito probante. Sono incerti rispetto all’assicurazione malattie, l’esperienza essendo in materia contrastante, a seconda degli scopi e dei limiti qua e là accolti. Sono incertissimi rispetto all’assicurazione disoccupazione, essendo troppo preoccupanti i dati e le prove intorno al pericolo di generare tanta più disoccupazione quanto più la si vuol evitare.

 

 

Se, quando scoppia una crisi, gli economisti non invocano per lo più dai governi di correre al salvataggio delle banche e degli industriali pericolanti, anzi, salvo casi ben definiti, affermano il dovere dei governi di lasciare fallire chi deve, ciò non fanno per durezza di cuore; ma perché, analizzando i fatti, studiando le esperienze passate, essi si sono convinti che in generale vale più prevenire che reprimere, val più evitare per tempo che troppi industriali prima perdano la testa immaginando guadagni fantastici e se la rompano poi quando, trovandosi in troppi a fabbricar la stessa merce, la devono svendere a prezzi di fallimento. Né gli economisti perciò consigliano ai governi di scegliere essi, tra i tanti aspiranti industriali, quei pochi che meritano di diventare produttori effettivi. Non consigliano ciò, perché temono l’arbitrio e dubitano forte che in tal modo si scelgano i migliori. Sono invece abbastanza d’accordo nel ritenere debba essere consentito alle banche di emissione di far per tempo il loro mestiere, quello dimostrato efficace da una esperienza secolare: restringere gli sconti, rendere caro il denaro a coloro i quali, quando tutti si montano la testa, corrono con leggerezza a chiedere a prestito il denaro altrui, rarefare i capitali privati disponibili sul mercato, assorbendoli con la vendita di titoli pubblici ecc. ecc. Non consigli dunque, ma dimostrazioni del modo come da una data causa nascono gli inevitabili effetti, e chi non vuole gli effetti non deve volere la causa; non previsioni, ma ricordo di quanto si fece od accadde in passato, affinché gli uomini, dall’esperienza fatti guardinghi, evitino di ricadere negli errori che li condussero dianzi a mali passi. Non gli economisti debbono fabbricar panni di lana artificiale, non essi debbono scegliere fra il coltivar grano o pomodori, sibbene gli industriali e gli agricoltori. Compito degli economisti è di segnalare (ai politici spetta toglierli di mezzo) gli ostacoli artificiali, i quali fanno si che industriali ed agricoltori siano indotti a fare la mala scelta, a produrre la merce costosa piuttosto che quella a basso costo, la cattiva invece di quella buona. Non condurre gli uomini al guinzaglio o porre ad essi le dande come ai bambini, ma sgrombrare [sic] la via dagli sterpi e dalle pietre e poi dire a chi lavora e produce: va e per te ti nutri. Ecco quel che all’incirca, molto all’incirca, possono rispondere gli economisti alle ansiose domande di ammaestramenti e di consigli che ad essi sono rivolte.

L’autarcia e i suoi danni

L’autarcia e i suoi danni

«Il giornale d’Italia», 3 settembre 1943

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 303-306

 

 

 

 

Se si vuole definire che cosa voglia dire la parola divenuta oggi notoria, sebbene non popolare, ci si trova anzitutto dinnanzi ad un equivoco vocabolaristico; ché, a parlare propriamente, autarchia è presa in due sensi non sinonimi, l’uno politico e l’altro economico. È “autarchico” l’ente, stato, comune o provincia, il quale ha facoltà proprie di governo per le quali non dipende da altri enti superiori. In questo senso la parola autarchia si identifica con quella di dominio, padronanza, signoria politica; ed è il suo senso proprio.

 

 

In senso economico, autarchia vorrebbe invece significare bastevolezza, autosufficienza, la condizione di quella persona od ente o stato, il quale basta a se stesso e non ha, per questa o quella merce o derrata, bisogno di ricorrere ad altri.

 

 

Si dice, ad esempio, autarchico rispetto al grano quello stato il quale produce nel territorio nazionale tutto il grano necessario alla alimentazione del suo popolo.

 

 

I greci distinguevano con due parole simili, ma non uguali, i due significati ed il collega Brondi, che per il primo analizzò in Italia la differenza in una nota all’Accademia delle scienze di Torino, propose di trasportare in lingua italiana l’uso greco, usando la parola autarchia per significare autodominio politico ed autarcia per indicare la autosufficienza economica.

 

 

Taluno ritiene poco rilevante la distinzione, reputando che la autarcia od autosufficienza economica sia la condizione e quasi la prefazione della autarchia od autodominio politico. L’essere bastevoli a sé economicamente, parrebbe così la condizione indispensabile per essere anche bastevoli a se stessi, ossia compiutamente indipendenti politicamente.

 

 

La cosa è grandemente dubbia. In qual modo, si può chiedere, uno stato di cose come quello dell’autarcia od autosufficienza economica, la quale non è conseguibile se non quando lo stato si allarghi sino a comprendere il mondo intiero, può garantire la indipendenza politica dei singoli stati, per i quali è assurdo che essa possa essere raggiunta mai se non per rarissima eccezione?

 

 

L’autosufficienza economica può essere un fatto in tempi e luoghi primitivi, quando, essendo i bisogni umani limitatissimi, ogni famiglia od ogni tribù viveva dei beni da essa medesima prodotti. L’ideale di Gandhi, il quale fila il cotone con la rocca a mano, può essere un simbolo di protesta contro l’Inghilterra, ma riporterebbe l’India indietro di millenni.

 

 

Nei moderni tempi civili, quando i bisogni degli uomini si sono tanto moltiplicati e cresciuti, quando la divisione del lavoro ha consentito l’aumento incredibile dei beni messi a disposizione degli uomini, quando in ogni paese si deve ricorrere a materie prime prodotte in svariatissime altre contrade, quando ogni uomo si specializza nel produrre un bene od un servigio solo, anzi spessissimo una minuta frazione di un sol bene o servizio, autarcia od autosufficienza vuol dire ritorno a condizioni primitive preistoriche di civiltà, ad un tenor di vita che nessun popolo moderno sopporterebbe mai a lungo. Giova tuttavia proporsi l’autosufficienza come strumento temporaneo, lamentevole sinché si voglia, ma necessario e quasi fatale in tempo di guerra!

 

 

Non è qui il luogo di discutere le condizioni dalle quali dipende la vittoria in guerra. Troppe sono queste condizioni, e per lo più non economiche, perché sia possibile farvi anche un fugace accenno. Mi ristringerò ad alcune poche riflessioni pertinenti in modo specifico alla autosufficienza.

 

 

Poiché le guerre si conducono per vincere e non per perdere e poiché per vincere occorre, fra l’altro, abbondanza di mezzi e di uomini, possiamo chiederci: l’autosufficienza od autarcia conduce a quell’abbondanza di mezzi e di uomini che è una delle condizioni essenziali della vittoria? La risposta è una sola, ed è univoca: no. La autosufficienza economica significa produrre in paese anche quelle merci e quelle derrate che altrimenti, se con leggi proibitive o dazi o sussidi o contingentamenti non se ne rendesse artificialmente conveniente la produzione all’interno, si importerebbero dall’estero. Lasciate a se stesse, nove decimi delle merci autarciche cesserebbero d’un tratto di essere prodotte e al posto loro sottentrerebbero di nuovo il cuoio naturale, la gomma elastica delle piantagioni, il petrolio estratto dai pozzi, il cotone la lana naturali, il caffè genuino. Gli uomini, salvo poche eccezioni di beni nuovi rispondenti a nuove o cresciute esigenze, tornerebbero, se potessero, a rifornirsi delle merci e delle derrate genuine perché migliori e meno costose dei surrogati autarcici.

 

 

Quale è il significato di questa verità essenziale ed evidente? Che noi, se vogliamo produrre merci autarciche dobbiamo sopportare costi maggiori. E questa verità a sua volta è sinonimo di un’altra: che noi, per ottenere col surrogato lo stesso risultato, lo stesso rendimento che otterremmo colla merce genuina, dobbiamo sottostare ad uno sforzo maggiore. A parità di risultato, dove prima impiegavamo l’opera di 10 uomini, siamo costretti ad impiegare il lavoro di 12, 15, di 20 e più uomini.

 

 

Non occorrono ragionamenti complicati per riuscire alla constatazione ora fatta, la quale, se appena appena vi si rifletta, è terrificante. In un momento in cui tutti gli sforzi della nazione in guerra debbono essere tesi per ottenere la vittoria, in un momento nel quale importa per la vittoria utilizzare nel modo più perfetto la capacità produttiva degli uomini; in un momento, nel quale importa lasciar liberi i servizi diretti della guerra guerreggiata, il numero massimo di soldati e di ufficiali, ecco che la politica di autosufficienza economica ci persuade ad utilizzare male gli uomini, a far loro compiere un grande sforzo per ottenere un piccolo risultato, ecco che, invece di produrre molto a basso costo, noi ci sforziamo di produrre poco ad alto costo.

 

 

Dicesi che la autosufficienza è una dolorosa necessità di una guerra nella quale si deve osare anche questo metodo antieconomico, al par di altri, come le emissioni di carta moneta, parimenti dannose e deprecande. Dicesi che la autosufficienza è l’ultima ratio alla quale si deve ricorrere quando altri mezzi fanno difetto; ma si riconosce che la vittoria, scopo della guerra, si consegue tanto più pianamente quanto meno si è obbligati a far appello alla autosufficienza, ossia alla automutilazione delle nostre capacità di produrre merci genuine e buone e atte ad essere scambiate con altre merci genuine e buone. La qual verità aveva già riconosciuto in memorande pagine la Commissione italiana sulle spese della grande guerra passata, quando dimostrò che la vittoria era stata conseguita dall’Italia nonostante il protezionismo doganale che in quel tempo, prima del 1914, era una mitissima varietà di quella politica che poi si intitolò di autarchia. La commissione non disse e qui non si vuole affermare che in tempo di guerra a quell’arma non si debba ricorrere, quando vi si sia forzati; ma l’arte del condurre le guerre consiste anche nel non essere forzati a compiere cosa che si sa essere dannosa a noi stessi; o, meglio, consiste nell’essere forzati a far cosa costosa e dannosa nella misura minima veramente indeprecabile.

Il problema delle materie prime

Il problema delle materie prime

«Corriere della Sera», 29 agosto 1943[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 299-303

 

 

 

 

La pace che tutti vogliamo ha esigenze economiche rispetto alle quali è facile assumere fantasmi per realtà, errori per verità, ed essere perciò spinti ad agire in maniera contraria allo scopo che si vuole perseguire. Il vocabolario economico è stato così pervertito nell’uso quotidiano, da farci considerare garanzie di pace quelle che invece sono indubbiamente cagione di gelosie internazionali e fomite di guerra. Ad assicurare pace ed indipendenza si invocano autarchie, sfere d’influenza, possesso di materie prime, ripartizione di colonie; e si seminano invece germi di conflitti e di guerre.

 

 

Nessuna disputa più funesta di quella sulle materie prime; e nessuna cagione più potente di conflitti internazionali dell’idea, divulgata in solenni discorsi, della loro “giusta” ripartizione. Ripartire “equamente” le materie prime significa precisare uno o parecchi criteri, in base ai quali diplomatici e periti, riuniti attorno al tavolino verde di una conferenza internazionale, ripartirebbero tra le diverse nazioni del mondo le cosidette materie prime. Quali siano i criteri, nessuno finora ha mai dichiarato in modo intelligibile.

 

 

Che cosa sono, innanzitutto, le materie prime? Il carbone, il minerale di ferro, i metalli vari, la gomma elastica o non anche il frumento, la lana, il cotone, la seta, il riso, le olive, l’uva, le arance, i limoni? Ogni sostanza la quale sia estratta dalle viscere della terra ed ottenuta con la coltivazione della stessa è materia prima. Non sono forse materia prima di industrie grandiose le spiagge del mare, le montagne, la bellezza del panorama, la salubrità dell’aria? Esiste un criterio logico per distinguere l’una materia prima dall’altra?

 

 

Se anche si supponga, per assurdo, eliminata questa prima inestricabile difficoltà, la quale dovrebbe costringere ogni nazione a mettere nel monte delle cose da ripartire il meglio e la maggior parte dei beni prodotti sul suo territorio, quali i criteri della “giusta” ripartizione? Se i criteri debbono essere, come sarebbe evidentemente necessario, semplici, oggettivi, sottratti all’arbitrio dei ripartitori, ci si presentano primi ed ovvi quelli della proporzionalità al numero degli abitanti, alla superficie produttiva dei singoli paesi. Ma subito, dobbiamo scartarli perché essi non hanno alcun, neppur lontanissimo, rapporto con la capacità di utilizzazione delle materie prime. Distingueremo tra uomini gialli, bianchi e neri? Scenderemo a distinzioni fra uomini e donne, vecchi ed adulti e giovani e ci fermeremo sugli adulti?

 

 

Ma bisognerà precisare ancor più perché vi sono adulti di tante specie e solo alcune specie di adulti sono atte ad utilizzare bene le materie prime. Se badiamo alle superfici produttive dei diversi territori nazionali, quali i criteri per misurare l’attitudine delle diverse qualità e positure dei terreni ad utilizzare le infinite specie di materie prime? Quante migliaia di periti dovrebbero essere convocati per accapigliarsi, ognuno tirando l’acqua al mulino della propria nazione, intorno al “giusto” modo di ripartire le materie prime? e quanta materia di conflitti si appresterebbe a diplomatici ed a fautori di guerre?

 

 

Assumeremo invece come criterio la capacità di assorbimento delle industrie consumatrici delle materie prime? Ma tra quelle industrie non potrebbero noverarsi per fermo le non ancora nate. Come misurare la capacità di utilizzazione di ciò che non esiste, di ciò che è ancora nello stadio del progetto più o meno vago? Ebbimo, anche in Italia, applicazioni del criterio di distribuire qualcosa in base alla capacità produttiva quando si diede a commercianti ed industriali diritto ad importare talune merci straniere in base a ciò che ognuno aveva importato in non so qual semestre, parmi, del 1934. Funestissimo metodo, il quale consacrò il privilegio dei già noti, di coloro che erano già impiantati, ad esclusione di quei commercianti di quegli industriali, i quali, se avessero potuto liberamente provvedersi sul mercato di ciò che a lor bisognava, avrebbero potuto iniziare nuove intraprese, muover concorrenza ai vecchi, produrre e vendere a costi minori.

 

 

Nessun criterio più sbagliato e più dannoso può immaginarsi della proporzionalità alle posizioni acquisite. Quel che importa assicurare e promuovere non è mai quel che esiste, l’impresa già fondata, l’iniziativa, già sviluppata, il mestiere florido; si invece quel che non esiste, l’idea nuova feconda la quale deve ancora tradursi in atto, i giovani che domani prenderanno il posto dei vecchi, l’impresa appena iniziata, la quale supererà presto quelle anziane, l’invenzione nuova la quale distruggerà i profitti di quella già applicata. Quel che esiste è il passato, che domani sarà superato e morto. Quel che non esiste è il nuovo, è il progresso, è il servigio migliore reso all’umanità.

 

 

Chi potrà mai, al tavolo verde della “giusta” ripartizione delle materie prime, scoprire i criteri per misurare il non noto, il non nato; chi ardirà di valutare l’importanza relativa dei progetti non attuati, delle invenzioni non ancora sperimentate?

 

 

Non esistono, dunque, per quanto si sappia, i criteri oggettivi per ripartire “equamente” le materie prime, ed i criteri arbitrari hanno un solo significato: conflitti e guerre.

 

 

Eppure l’esperienza storica aveva, sovratutto nel secolo d’oro del progresso economico che corse dal 1814 al 1914, scoperto il modo automatico di fare la migliore giustizia umanamente possibile nella ripartizione delle materie prime; ed era che governi, diplomatici, periti e tavoli verdi non si occupassero affatto di questa faccenda, ed era di lasciare che le materie prime andassero con le loro gambe a chi più le meritava.

 

 

Fa d’uopo, certamente, sbarazzarsi dell’idea infantile e grottesca la quale è il sostrato di tante vane discorse intorno alle materie prime: che queste siano qualcosa che in certe contrade del mondo gli uomini trovano per le strade per accidente o si procacciano senza fatica o con fatica minima. Non esistono materie prime le quali non siano costose e non debbano essere pagate a chi le produce. Normalmente, le materie prime che più fan colpo sull’immaginazione umana sono le più costose. Che cosa v’è di più attraente dell’oro? Che cosa v’ha che più dell’oro sembri ai più “trovato per caso” e fonte di ricchezza insperata?

 

 

Eppure è fatto certissimo, noto a tutti coloro che hanno studiato il problema, che il prezzo corrente dell’oro non rimborsa in media le spese di cavar l’oro dalle viscere della terra. Vi sono, è vero miniere fecondissime ma ve ne sono assai più, di gran lunga assai più, di infeconde, nelle quali si spendono capitali e lavoro senza alcun pro. Purtroppo, “a priori”, non si possono distinguere le buone dalle cattive miniere, e si è costretti a coltivare ambedue; sicché il costo medio di produzione dell’oro supera il prezzo di vendita. Così fu dall’origine del mondo; e se agli uomini non piacesse correr dietro alle venture nessuno coltiverebbe miniere d’oro.

 

 

Sbarazzata la mente dall’idea balorda della gratuità delle materie prime, riconosciamo la logica perfetta del criterio adottato nel secolo XIX per distribuirle: che è la vendita al più alto offerente. Chi paga le materie prime al più alto prezzo ha giusto diritto ad ottenerle.

 

 

Altri dica che il criterio è materiale e mercantile; io replico che nessun criterio è più giusto e morale. Dare le materie prime a chi le paga a più alto prezzo significa darle all’industriale capace e negarle all’incapace; darle a chi ha spirito inventivo e negarle a chi lavora secondo sistemi già conosciuti; darle all’inventore che ha trovato le nuove vie di combinare i fattori produttivi e negarle agli arrivati i quali lavorano oggi come ieri. Che cosa vuol dire dare le materie prime a chi le paga dieci invece che a colui il quale è disposto a pagarle soltanto nove? Significa darle a colui il quale dalla stessa qualità e quantità di materie prime è capace di trarre prodotti di pregio maggiore, che sono meglio desiderati dal pubblico e sono da questo meglio pagati.

 

 

Esiste o può essere immaginato un motivo plausibile per cui le materie prime debbono invece essere date a chi dimostra, col fatto di non volerle pagare abbastanza, di non essere capace a produrre merce buona e desiderata, così come lo è invece il suo concorrente?

 

 

In verità, il problema delle materie prime, il suo trasporto cioè dal piano economico privato, nel quale esso trova la sua razionale automatica soluzione, al piano politico, nel quale esso è assolutamente insolubile, fu una tragica invenzione di periti economici messi al servigio degli attizzatori di conflitti internazionali e di guerre. Il problema delle materie prime non esiste. Esso è una invenzione artificiosa, che deve rientrare nel nulla, dal quale non avrebbe mai dovuto uscire.

 



[1] Con il titolo Materie prime [ndr].

La tempesta monetaria

La tempesta monetaria

«Corriere della Sera», 22 agosto 1943

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 295-299

 

 

 

 

Heri dicebamus… Un mese prima del giorno nel quale Luigi Albertini era forzato ad abbandonare il governo ed Alberto Albertini la direzione di questo giornale, avevo cercato, il 29 ottobre 1925, di dimostrare che talune tacite simpatie dei ceti industriali ed agricoli verso una politica inflazionistica urtavano contro la vanità delle emissioni cartacee. Sembrava e sembra ancora a molti i quali debbono far la paga a fine settimana, onorare le tratte giunte a scadenza, pagare le materie prime della propria industria, che l’emettere biglietti non sia pericoloso perché il biglietto corrisponde in questo caso ad un affare sano, a merce realmente esistente, ad un lavoro effettivamente compiuto.

 

 

Domani, al ritorno della pace, costoro ricominceranno a dire: sui 96.541 milioni di biglietti della Banca d’Italia circolanti, secondo le recentissime dichiarazioni del ministro delle finanze, alla data del 20 luglio 1943, ve ne erano 92.121 emessi, a detta dello stesso ministro, per conto diretto ed indiretto del tesoro, ossia per fronteggiare le spese di guerra e solo 4.400 milioni circolavano per conto del pubblico, ossia perché erano stati inizialmente emessi per essere dati a prestito a noi che lavoravamo e producevamo merci e derrate desiderate dal pubblico dei consumatori. Questa seconda specie di biglietti non può far male perché ad essa corrisponde una realtà di cose materiali, utili, desiderate, sempre atte a procacciar denaro a chi le possiede.

 

 

Al solito, in un articolo di giornale non ci si può attardare ad esporre le premesse, riserve e condizioni dei problemi trattati, ma si deve chiarire, sotto pena di creare confusione nella testa dei lettori, una idea sola; epperciò, come già diciotto anni fa alla vigilia di sospendere il mio ufficio di pubblicista, mi limiterò a chiarire che le simpatie verso l’inflazione buona sana produttivistica sono fondamentalmente prive di sostanze. C’è in esse una vaga intuizione di qualcosa che meriterebbe di essere studiato, ma è bene insistere preliminarmente sulla fondamentale vanità dell’idea. In quel lontano articolo avevo costrutto uno specchietto assai semplice, nel quale si mettevano a confronto le situazioni al 31 dicembre 1913 ed al 31 agosto 1925. Al 31 dicembre 1913 la quantità circolante di biglietti era di 2.800 milioni di lire, ed al 31 agosto 1925 quella quantità era cresciuta a 21.500 milioni. Gli italiani si vedevano scivolare fra le dita 7,7 volte tanto biglietti da 50, 100, 500 e mille lire. Parevano molti e pareva di potere con tanti più biglietti fare assai più di prima e produrre molta più roba buona, utile desiderata da tutti. Vanitas vanitatum et omnia vanitas si potrebbe ripetere con l’Ecclesiaste. Il valore di quei tanti biglietti era diminuito in proporzione inversa alla loro quantità. I 2.800 milioni del 1913 avevano quella tale capacità di acquisto che era loro propria e che noi possiamo indicare con n. 1; e perciò come potenza d’acquisto valevano 2.800 milioni. I 21 mila e 500 milioni del 31 agosto 1925 avevano una potenza d’acquisto assai minore, che, sulla base dei dati ufficiali, calcolavo in 0,138 per unità. Se noi moltiplichiamo 21.500 milioni di lire per 0,138 noi dobbiamo concludere che i 21.500 milioni del 1925 avevano una potenza d’acquisto di 2.900 milioni di unità.

 

 

Tanto fracasso, tanto scompiglio, tanta moltiplicazione di cifre, di redditi, di patrimoni, di frutti, di prezzi, di salari, tanto rinfacciarsi reciproco di sfruttatori, profittatori, speculatori, ecc., per giungere quasi alla stessa realtà di prima! Il che non vuol dire che, a pescar nel torbido delle cifre grosse nominali monetarie, molti non si fossero arricchiti e moltissimi impoveriti; ché anzi questa fu la tragedia vera di quelle emissioni cartacee e questa fu l’origine prima degli sconvolgimenti sociali e politici derivati dalla guerra passata. Da quella tregenda non nacque certamente alcun risultato effettivo di realtà diversa e maggiore di prima.

 

 

Ed ora? Non sono in grado di rifare lo specchietto del 1925. Oggi, noi studiosi di cose economiche, al pari di ogni altra categoria di studiosi, lavoriamo male. Gli annuari, le statistiche, le cifre che ci sono, sono rimasti in città, nascosti in cantine o messi in case; e, peggio, statistiche e dati non si pubblicano più per una sbagliata ragione di tutela dell’interesse pubblico. Auguro che non solo il ministero delle finanze, ma tutti i ministeri e l’ufficio centrale di statistica, riprendano la pubblicazione periodica, rapida delle situazioni e dei dati monetari, finanziari ed economici, di tutti i dati i quali valgano a far conoscere la effettiva situazione in cui noi ci troviamo. La verità, per quanto grave, non sarà mai così brutta come l’immaginazione fantasticante intorno ad una realtà non conosciuta.

 

 

Se lo specchietto del 1925 non si può con serietà rifare, per mancanza ed ignoranza di dati, si può tentare di imitarlo per congettura. Al 30 giugno del 1935 i biglietti della Banca d’Italia si aggiravano sui 17 miliardi di lire; ed oggi ammontano a 96,5 miliardi, 5,7 volte tanto. Supponiamo che i 17 miliardi di lire del 1935 acquistassero con ciascuna lira una unità di roba: merci, derrate, servizi personali, fitti di case, ossia acquistassero 17 miliardi di unità: Quante unità acquistano i 96,5 miliardi odierni? Se interroghiamo i dati ufficiali sul costo della vita dovremmo dire che la potenza d’acquisto della lira sia ridotta a qualcosa come 0,40-0,50 in confronto all’1 del 1935. I 96,5 miliardi di lire avrebbero una potenza d’acquisto di circa 43 miliardi di unità di roba in confronto ai 17 miliardi che si acquistavano coi 17 miliardi di lire innanzi alla guerra etiopica. Noi sentiamo che la conclusione non può essere vera. Dove è tutta questa roba che si dovrebbe poter acquistare in più in confronto al 1935? Anche includendovi, come si deve, tutte le cose necessarie alla guerra, è chiaro che questa non è la realtà.

 

 

Due sono le spiegazioni. La prima è che il 96,5 miliardi di lire di biglietti sono bensì stati emessi, ossia imprestati a qualcuno, dalla Banca d’Italia; ma non tutti circolano. È probabile che almeno 20 miliardi siano tesaurizzati, ossia tenuti in cassa o nel materasso da chi vuole avere denaro liquido, liquidissimo per provvedere alle urgenze improvvise della vita in momenti difficili. Quel che circola, in parte circola più lentamente. È un’altra specie di tesaurizzazione. Non si sa perché, ma si preferisce tenere sottomano il biglietto per spenderlo se viene l’occasione. Ogni giorno di più di dimora del biglietto in tasca è un giorno di tesaurizzazione. Il biglietto è come se non esistesse. Nei libri degli economisti il fatto si esprime dicendo essere diminuita la velocità di circolazione della moneta. Che diminuisca il numero o diminuisca la velocità di circolazione dei biglietti è la stessa cosa.

 

 

La seconda spiegazione è il mercato nero. La potenza di acquisto della lira si calcolò sopra essere diminuita dal 1935 al 1943 come da 1 a 0,40-0,50 sulla base del costo della vita. Ma questo, a sua volta, è calcolato sulla base dei prezzi dei generi di tessera. Certamente questi sono prezzi veri per le cose che si possono acquistare a prezzi di tessera. Ma sono veri anche i prezzi di mercato nero. Per far calcoli esatti, bisognerebbe conoscere quali sono i prezzi di mercato nero e quanta parte di ciò che si spende si indirizzi al mercato nero in confronto a ciò che va al mercato legale. Tante curiosità, tante incognite. Prezzi e proporzione variano da luogo a luogo, da famiglia a famiglia, da un giorno all’altro. Facciamo, per tagliar corto, l’ipotesi grossolanissima, che in media tra mercato bianco e nero la capacità d’acquisto della lira si sia ridotta dal 1935 al 1943 da 1 a 0,25; e facciamo l’ipotesi anche incertissima, che, dedotte le varie specie di biglietti tesaurizzati, i biglietti effettivamente circolanti ci aggirino sui 70 miliardi. So che i colleghi statistici a giusta ragione giudicheranno queste ipotesi come cervellotiche. Ma poiché probabilmente anche essi non sono in grado di offrire ipotesi migliori, tanto vale ragionare sulle mie. Ecco che dividendo 70 per 0,25 noi possiamo calcolare che la gran massa dei biglietti oggi circolanti acquista 17,5 miliardi e mezzo di unità di roba in confronto ai 17 miliardi che si acquistarono nel 1935 coi 17 miliardi di lire circolanti allora. Con questa differenza, che nel 1913 i 17 miliardi per due terzi circa erano roba utile in tempo di pace e nel 1943 i 17,5 miliardi sono per assai più di metà composti di roba che serve alla guerra.

 

 

Astrazion fatta da ciò, non è evidente che tutto questo colossale edificio di carta stampata è composto di vuoto, di nulla di reale? Purtroppo, questo è un vuoto reale che turba gli animi e scatena gli uomini gli uni contro gli altri. Attenuare, limitare, compensare i disastri della tempesta monetaria attuale, sarà il massimo problema sociale del dopoguerra. Fu già così dopo il 1918; e dal non aver veduto ciò chiaramente, derivò in gran parte la tragedia dei venticinque anni che or terminano nel sangue.

Ma non occorrono decenni…

Ma non occorrono decenni…

«Il Giornale d’Italia», 22 agosto 1943

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 291-294

Alfredo Lisdero, Luigi Einaudi, el hombre, el científico, el estadista, Buenos Aires, Asociacíon Dante Alighieri, 1965, pp. 81-84[1]

 

 

 

 

«Occorrono decenni per ricostruire l’edificio distrutto in 20 anni di malgoverno; occorre la fatica di una generazione per riparare al malfatto di coloro che hanno considerato l’Italia come paese di conquista». Ebbene no. Queste parole, che si lessero in qualche giornale, giuste perché intese a persuadere gli italiani della necessità di ritornare al lavoro fecondo ed alla fatica lieta, sono eccessivamente pessimistiche. Non occorrono decenni per ricostituire economicamente un paese. Bastano anni. Non è bene scoraggiare gli uomini con la visione apocalittica di una intiera vita di stenti, allietata solo dalla speranza di consegnare un mondo migliore ai figli ed ai nepoti. Se vorremo, quel mondo migliore lo vedremo anche noi.

 

 

Perché tanti sono scoraggiati dal pensiero dei decenni di duro lavoro necessari a rifarsi un posto nel mondo? Perché si pensa che la ripresa, che il ritorno al benessere siano possibili soltanto grazie ad elementi materiali, alla formazione di nuovi capitali, ai prestiti larghi di denaro o di merci dall’estero. Si crede di essere poveri, perché non si ha oro, non si hanno miniere, non si hanno materie prime, perché tante case e tanti impianti furono distrutti ed occorre rifarli. Certamente tutto ciò è vero; e se manca di strumenti, l’uomo non può lavorare e produrre. Ma i capitali materiali non sono quel che più importa per la rinascita. Napoleone, nell’epoca in cui si avviava alla rovina, diceva: una notte di Parigi basta a riparare alle perdite di una grande battaglia. Ragionava così, perché gli uomini erano per lui allora un elemento materiale, la carne da cannone necessaria per le sue vittorie. Ma la vittoria non venne più, perché mancò agli uomini l’animo, la volontà, la fede che li aveva fatti prima vincitori. Perché Napoleone, giunto al sommo del potere, non si era ricordato di quando, all’inizio della sua fortunosa carriera, primo console, aveva fatto risorgere la Francia? Questa, al 18 brumaio dell’anno VIII, non crebbe, a causa del colpo di stato che portò Napoleone al potere, la sua ricchezza in beni materiali. Era e rimase fiaccata da tanti anni di torbidi rivoluzioni. Non nacque, in quell’attimo, uno strumento od un aratro di più. Ma era rinata, colla cacciata dei residuati del giacobinismo e dei malversatori, la fiducia nell’avvenire; era rinata la sicurezza di godere i frutti del proprio lavoro; era rinata la certezza di non vedersi a volta a volta confiscare quei frutti dai gabellieri dell’antico regime o dagli agenti concessionari del direttorio.

 

 

Gli ideologi che Napoleone fingeva di disprezzare e temeva, gli economisti, dei cui libri (come del Trattato di Giambattista Say) egli vietava la ristampa, gli avrebbero spiegato una delle ragioni del Suo successo come primo console. Gli uomini guardano in sostanza al reddito; ed, attraverso a questo, vedono il capitale. Se essi hanno un reddito, hanno possibilità di risparmiare; e quanto più risparmiano, tanto più sono disposti a cedere il risparmio a un basso saggio di interesse o frutto. Ma, se il saggio di interesse è del 3 per cento invece che del 6%, quel medesimo terreno, quella stessa casa, quello stesso impianto industriale che, rendendo 6, valeva prima, al 6%, l00 lire, dopo, al 3%, vale o tende a valere 200 lire. Non è mutato niente nel terreno, nella casa, nell’impianto; ma gli uomini valutano tutto ciò il doppio e diventano ottimisti.

 

 

Il reddito, tuttavia, non nasce da sé. Non aumenta per virtù spontanea. Esso nasce dalla combinazione che qualcheduno fa dei fattori produttivi. Non importa nulla che esistano gli uomini lavoratori, che esistano i terreni e le piante, che ci siano gli impianti industriali e le navi ed i porti. Se tutto ciò è fermo, non c’è reddito e gli uomini stentano. Occorre che qualcuno – e questo qualcuno noi economisti abbiamo l’abitudine di chiamarlo imprenditore – combini, faccia funzionare tutti questi elementi dispersi e disgregati.

 

 

In qualunque tipo di società si viva, nessun imprenditore combina ed organizza gli elementi, i fattori della produzione, se non ha fiducia, se non ha sicurezza se corre troppi rischi, se le prospettive di vendere ciò che ha prodotto vengono a mancare.

 

 

La produzione, la quale è una combinazione di elementi produttivi, la quale consiste nel far funzionare e cooperare insieme ciò che per se stesso è diviso, non è un fatto materiale, è invece sovratutto un fatto spirituale. Create il disordine sociale, create il costringimento forzato a fare soltanto quel che piace a chi dall’alto pretende di disciplinare, di regolare e di ordinare tutto; obbligate il lavoratore a lavorare per forza, togliendogli la libera disponibilità delle proprie braccia e della propria mente; e – salvo epoche transitorie di eccezionale comprensione bellica – voi avete abolito una delle molle principali dell’azione economica. Fate che i piani predisposti dall’imprenditore siano messi nel nulla, non dal fatto di Dio (grandine, siccità, raccolti abbondanti, ribassi di prezzi), contro di cui nessuno si può lamentare e che si mettono anticipatamente in calcolo; ma dal fatto del principe, dal getto continuo di leggi nuove imprevedute, imprevedibili, artefatte dagli interessati, dal fluire contraddittorio di ordini, di circolari, di pressioni provenienti da capi e funzionari forniti della infallibilità propria di chi si contraddice ad ogni due giorni; e la macchina economica più non funziona o funziona a vuoto.

 

 

Se invece gli uomini possono fare affidamento sull’avvenire; se essi sanno che le leggi vigenti non muteranno, se non dopo libera e larga discussione, alla quale tutti abbiano diritto di partecipare; se essi sanno che le leggi vigenti non possono essere modificate dall’arbitrio di nessun capo, ma debbono essere applicate secondo l’interpretazione di un magistrato indipendente; oh! siate sicuri che i capitali materiali per la rinascita del paese occorreranno d’ogni dove, dall’interno e dall’estero.

 

 

Con Napoleone primo console, scomparsa la moneta di carta nel disprezzo di tutti, la Francia non rimase priva di moneta. I vecchi scudi d’argento ed i vecchi luigi d’oro ricomparvero da sé; e la vita ricominciò, più fervida di prima. Oggi, in Italia, è difficile e sarebbe inutile che ritornasse un oro che qui non c’è e che noi non vogliamo chiedere in regalo a nessuno; ma la stessa lira di carta sarà guardata con occhio ben diverso quando si ravviverà la fiducia che essa sarà fermata nella sua china discendente. Persino una qualche nuova inflazione, un qualche miliardo di più di biglietti potrebbe, se usato a crear credito in un clima di fiducia, promuovere occupazione e combinazione di elementi produttivi inerti e creare reddito e ricchezza.



[1] Tradotto con il titolo No se necésitan decenios [ndr].

Lineamenti di una politica economica liberale

Lineamenti di una politica economica liberale

Roma, Movimento Liberale Italiano, 1943

Milano, Delegazione Alta Italia Pli, 1945

Roma, Pli, 1945

I liberali non possono promettere, a guerra finita, il millennio a nessuno, non ai ricchi ed ai poveri, non agli industriali ed ai proprietari e non perciò neppure agli operai ed ai contadini. Essi non possono mettersi avanti in formule vaghe come “nazionalizzazione”, “socializzazione”, “terra ai contadini”, minimo reddito assicurato a tutti, i cui risultati sarebbero disillusioni acerbe per le masse e sopravvento, col favore inconscio di ingenui utopisti, di nuovi arrivisti e di nuovi plutocrati, probabilmente peggiori di quelli che furono il frutto di simili predicazioni vent’anni or sono.

I liberali non possono illudere il popolo promettendogli ricchezze e prosperità e larghi guadagni in seguito ad una guerra e ad un regime che di tanto disastro morale e materiale fu causa per il nostro paese. Essi promettono soltanto quel che sanno di poter mantenere: e cioè di porre le condizioni dalle quali, con lo sforzo intenso di qualche anno e con la tolleranza reciproca di tutti i volenterosi, uscirà una nuova Italia più prospera, più saggia della attuale, nella quale si produrrà più grande quantità di ricchezza e questa sarà più equamente distribuita, con l’elevamento delle masse e con il taglio delle teste dei papaveri, i quali si siano, senza merito proprio e legittimi titoli, elevati sopra gli altri.

Essi sono contrari alle violenze espropriatrici, alle grandi riforme ad effetto immediato imposte con metodi giacobini, in tutto uguali ai metodi di forza usati dai partiti totalitari. Ma sono aperti a qualunque ideale, purché esso sia il frutto di aperta, libera discussione, alla quale partecipino tutte le tendenze, tutti i partiti economici e sociali. Dai cattolici sociali ai comunisti, tutti debbono far sentire la loro voce; e quando una maggioranza sicura e ragionata si sia costituita attorno ad una soluzione, le minoranze avranno, in un regime liberale, non solo il dovere negativo di sottomettersi, ma quello positivo di collaborare. Quali siano i metodi costituzionali con i quali dovrà essere garantito l’esercizio del diritto di discussione e di libera ragionata deliberazione, non è qui il luogo di esporre.

Alla ribalta della discussione, i liberali porteranno i seguenti problemi: in primissimo luogo la lotta contro la plutocrazia. Non la lotta contro l’industriale che tenta nuove vie, che organizza meglio l’impresa, che accresce la produzione in modo remunerativo in libera competizione con tutti i concorrenti. Non la lotta contro il proprietario il quale migliora le sue terre, contro il fittabile che applica allo sfruttamento delle terre altrui una esperienza acquisita, forse in parecchie generazioni di strenui lavoratori, capitali accumulati col risparmio ed operosità quotidiana. Quella che si impone invece è la lotta a fondo contro tutti coloro che nelle industrie, nei commerci, nelle banche, nel possesso terriero hanno chiesto i mezzi del successo ai privilegi, ai monopoli naturali ed artificiali, alla protezione doganale, ai divieti di impianti di nuovi stabilimenti concorrenti, ai brevetti a catena micidiali per gli inventori veri, ai prezzi alti garantiti dallo Stato.

La lotta a fondo, senza quartiere dovrà essere combattuta su due fronti. In primo luogo sbarazzando il terreno da tutti i privilegi, vincoli, protezioni, contingentamenti, leggi, senza di cui la plutocrazia non avrebbe conquistato quei successi economici e quella corruttrice influenza politica che oggi l’ha fatta padrona del nostro paese.

Il momento per combattere la lotta contro i privilegi è proprio il presente. Sotto l’egida di uomini persuasi in buona fede che il paese andrebbe alla deriva se essi non fossero pronti a salvarlo, agricoltori incapaci a produrre economicamente il grano ed industriali impotenti a rinnovare i loro impianti chiedono allo stato prezzi di favore, sussidi e concorsi niente affatto necessari alla ricostruzione. In un momento in cui tutti sono sicuri di vendere a buoni prezzi qualunque cosa prodotta, si osa chiedere il ristabilimento dei dazi doganali protettivi. Taluni partitanti incoraggiano di nuovo all’assalto contro il denaro pubblico, nella vana illusione di procacciar lavoro agli operai.

In secondo luogo nei casi nei quali la lotta sul primo fronte non sia sufficiente, sottoponendo al controllo pubblico le imprese le quali abbiano su di sé stampato il marchio naturale del monopolio. Noi non useremo la parola nazionalizzazione, perché essa è equivoca e spesso priva di contenuto. Ma daremo opera ai fatti. Ad esempio per ricordare un esempio solo, l’industria idroelettrica è, in Italia, nazionalizzata sin dall’epoca liberale, perché tutte le acque appartengono nel nostro paese al demanio pubblico e, scaduti i sessanta anni dalla concessione, anche gli impianti ricadono, senza alcun indennizzo, in piena e libera proprietà dello Stato. Noi vogliamo andare più innanzi; e poiché lo scopo della nazionalizzazione, od almeno il principalissimo scopo, è quello di rendere servigio al pubblico ad un prezzo non superiore al costo, noi chiederemo che anche durante il sessantennio di concessione, lo Stato intervenga permanentemente e non in modo saltuario e disordinato a determinare, attraverso discussione e con giudizio di arbitri imparziali, il massimo di tariffa che potrà dalle società concessionarie essere applicato alle diverse categorie di utenti della energia prodotta e venduta dalle società concessionarie. E così si dovrà fare in ogni caso, variamente a seconda della natura dell’industria; e ché in un caso lo Stato potrà esercitare direttamente certe industrie (ad es.: fra le altre, quella degli armamenti, per cui probabilmente interverranno altresì regolazioni internazionali); in altro caso l’eserciterà per mezzo di società, in cui esso sarà il principale azionista, in altri mediante varie forme di concessione ad Enti pubblici o a società private, sempre con regolazione dei prezzi. I liberali escludono soltanto gli interventi inutili, disturbatori di attività private anche rilevanti, le quali si svolgano alla luce del sole, senza chiedere alcun privilegio, senza imporre prezzi di monopolio ai consumatori, senza ottenere alcun sussidio dallo Stato.

Dopo la lotta contro la plutocrazia, la lotta contro il latifondo. Ma non la lotta a base di spreco di miliardi, di costruzione di false case rurali per falsi contadini stipendiati dall’erario. La lotta contro il latifondo è lotta per la redenzione della terra, che è lotta di secoli. Quasi compiuta nell’alta e nella media Italia, salvo in talune zone montagnose ed in altre ancora ribelli alla bonifica, essa ha ancora un vasto campo di azione nell’Italia meridionale e nelle isole. E sarà opera di giustizia verso queste regioni, le quali tanto hanno sofferto per il regime di privilegio instaurato a favore delle industrie prevalentemente localizzate nell’alta Italia. Ma noi non daremo, a titolo di compenso, nessun privilegio alle regioni latifondistiche. Intensificheremo l’opera di bonifica integrale, colà appena iniziata: bonifica dalla malaria, dalle paludi, dalle inondazioni torrentizie; rimboschimenti, imbrigliamenti; strade pubbliche e poderali. Correlativamente a queste opere di ricostruzione di un suolo eroso dalla incuria secolare, dovrà procedere l’opera di appoderamento. La quale non potrà e non dovrà essere foggiata su unico tipo. Questo è errore gravissimo, che spiega l’insuccesso della lotta che con lo stesso nome, a scopi politici e propagandistici, si conduce da tanto tempo, da quando ancora l’Italia non era unita. Le condizioni dei luoghi, la struttura sociale, i costumi degli abitanti detteranno le regole del successo. Non è irragionevole che il contadino desideri vivere insieme con i contadini; e perciò la piccola e media proprietà coltivatrice, parcellare ed autonoma dovrà fare come la macchia d’olio; ed i poderi affittirsi attorno ai centri abitati e via via allontanandosi dai centri conquistare gradualmente terreno a spese della grande proprietà industriale. A questa spetterà dapprima sopportare i costi e godere i frutti eventuali della trasformazione delle ampie estensioni di terreno a cultura cerealicola estensiva e a pascolo in fattorie dotate di fabbricati rurali, di stalle modello, di strade, di case d’abitazione, di chiese e scuole. Su queste fattorie industriali dovrà formarsi una classe contadina istruita, partecipe in parte ai rischi ed ai vantaggi delle culture, educata gradualmente a diventare essa stessa proprietaria. Consideriamo utopia dannosa quella che si ammanta del titolo di “riforma agraria” e che vorrebbe d’un tratto costituire, dove non esiste, un forte ceto di proprietari coltivatori; baluardo e sostegno della società. Là dove il ceto esiste, esso fu il risultato di una lenta opera educativa, che tuttora prosegue. Noi vogliamo estenderla a tutta Italia; e siamo persuasi che solo così si riuscirà a generalizzare un sistema sociale, che del resto vanta già in tante regioni d’Italia settentrionale e media amplissime applicazioni.

Ma la lotta contro la plutocrazia e il latifondo dovrà anche essere combattuta, a parer nostro, sovratutto con un’azione diretta ad innalzare le masse ed a renderle degne e capaci di prendere parte al governo economico della società. Non vogliamo, si avverte subito, paternalismo e largizioni. La politica del panem et circenses repugna profondamente allo spirito liberale. Deve essere dato mezzo alle classi operaie e contadine di conquistare, elevando se stesse, sorti migliori. Le assicurazioni sociali, che danno sicurezza di vita, come quelle per la invalidità e la vecchiaia, per gli infortuni, per la maternità, iniziate dai regimi liberali, dovranno dal rinnovellato liberalismo, essere portate a compimento. Alla disoccupazione si dovrà provvedere in guisa che i sussidi non siano di eccitamento all’ozio e, per il controllo mutuo degli operai, rafforzino la loro libera organizzazione sindacale. Così pure alla assicurazione malattie dovrà essere tolto tutto ciò che oggi la rende invisa a malati ed a medici, ponendo la scelta dei medici e il controllo della malattia entro il quadro di casse locali e professionali elettive da parte di ambo le parti interessate.

Sovratutto, alla elevazione delle classi operaie e contadine contribuirà la restituzione piena della libertà sindacale. Al luogo del sindacato unico, strumento, sotto qualunque governo, di oppressione poliziesca, dovranno ritornare i sindacati liberi, che gli industriali e gli operai organizzeranno, ogni qualvolta ne sentiranno il bisogno, secondo le proprie tendenze spirituali e i proprii interessi professionali. Non si deve aver paura della eventuale concorrenza di sindacati diversi. In Italia ed altrove la libertà sindacale ha favorito l’aumento dei salari, la diminuzione della giornata di lavoro e sovratutto la dignità del lavoratore, che da paro a paro tratta, attraverso i suoi uomini migliori, con i datori di lavoro. Operai e industriali, contadini e proprietari non si elevano trattando, attraverso ad impiegati non scelti da essi e formanti una burocrazia occupata solo a giustificare stipendi; ma attraverso il sacrificio di quote volontariamente da essi pagate e uomini da essi scelti. Sarà da studiare quale sia la miglior maniera di rappresentanza dei lavoratori e degli imprenditori, in un “Consiglio nazionale del lavoro” e in “Consigli di risoluzione delle controversie del lavoro” e quali siano le attribuzioni da attribuirsi a questi organi rappresentativi professionali in un rinnovato regime di libera rappresentanza politica.

I liberali non possono promettere aumenti notevoli di guadagni a tutti gli operai come effetto di una generalizzata obbligatoria partecipazione ai profitti. Essi ricordano che in Inghilterra, patria della più antica e solida organizzazione sindacale, le leghe operaie sono sempre state diffidentissime verso la partecipazione, che esse definiscono il cavallo di Troia introdotto dagli industriali nella fortezza sindacale. I profitti sono infatti, per chi non li confonda grossolanamente con la normale remunerazione del risparmio, per loro natura un di più ottenuto dalle migliori imprese ed inesistente nella generalità dei casi. La partecipazione ai profitti è, perciò, un fatto di minoranza. Ove si riconosca – come dopo breve esperienza i rappresentanti degli operai sarebbero costretti a fare – questa sua natura, la partecipazione potrà, se congegnata variabilmente, per accordi volontari, in maniera adatta alla singolarità delle imprese diversissime le une dalle altre, riuscire a promuovere la formazione di gruppi scelti di tecnici e di operai qualificati atti a promuovere il miglioramento dell’industria.

L’azione dello Stato liberale non si esaurirà nei compiti fin qui enunciati. In un rapido quadro, non si può tutto esporre. Basti dire che Stato liberale non vuol dire Stato assente, ma Stato che vigile agisce ogni giorno per adempiere ai fini suoi proprii. La politica dei lavori pubblici, antico vanto dei regimi liberali, i quali avevano costruito tra il 1860 ed il 1914 ferrovie, strade, porti ed avevano dato al paese gli strumenti materiali della vittoria, dovrà essere perfezionata e servire a due compiti. Il primo che è quello di rendere sempre più esteso e ricco quello che si può chiamare il demanio nazionale. Non vi è limite alla quantità di opere pubbliche destinate a rendere più feconda l’opera dei produttori e più bella la vita dei cittadini. Ricostruzione delle città distrutte dalla guerra, rimboschimenti, bonifiche, ponti, canali navigabili, strade e poi strade ed ancora strade, nazionali, comunali, vicinali, poderali, scuole, giardini pubblici, città giardino, case rurali e così via, quanto è ancora da fare ed a quante esigenze si dovrà provvedere!

Mentre non si vede un limite alle esigenze imposte da una vita pubblica sempre più intensa e ad una vita civile nella quale l’uomo avrà gratuito accesso collettivo a molte soddisfazioni che sono ancora l’appannaggio di pochi, lo Stato liberale, dovrà nel condurre la sua politica di lavori pubblici, aver l’occhio intento a conseguire un altro scopo: che è di farla agire come volante regolatore della attività economica generale; rallentando l’opera sua nei tempi di prosperità e accelerandola nei tempi di crisi, così da mantenere, entro i limiti del possibile, continua e piena l’occupazione dei lavoratori.

Politica anche non nuova, che gli uomini della generazione fra il 1880 ed il 1900, inconsapevoli di teorie economiche troppo eleganti venute ora di moda, avevano adombrato creando nel bilancio dello stato la categoria del “movimento dei capitali”, anticipazione memoranda di quelli che furono poi chiamati bilanci o piani quinquennali e settennali. Ma politica che dovrà essere raffinata col mantenere quadri elastici di dirigenti tecnici economici i quali preparino, nei tempi prosperi, i piani dei lavoratori avvenire e sappiano metterli in atto gradatamente a mano a mano che rallenti l’attività privata. Il che non vuol dire politica finanziaria allegra da parte dello Stato; ma anzi richiederà severità grande nel maneggio del pubblico denaro. Il conte di Cavour, il grande politico liberale, il maggior uomo politico liberale del secolo XIX, ritenne sempre compatibile l’ideale del pareggio del bilancio statale e quello di una forte politica economica progressiva; ed ai fautori del pareggio borbonico a corte vedute e ad ogni costo, che era il pareggio della miseria, contrapponeva il suo pareggio, che consentiva gli investimenti nelle grandi ferrovie transappenniniche e transalpine, lo ampliamento dei porti commerciali e militari, l’entrata del Piemonte e, col Piemonte, dell’Italia, nelle gare economiche internazionali.

Così dovrà essere ancora una volta per la nuova Italia. Nei consessi internazionali, l’Italia non chiederà diritto ad avere materie prime a prezzi di favore, che sarebbe elemosina avvilente e servile, ma diritto a comprare liberamente dappertutto le materie prime a prezzo di mercato. E perché mai l’italiano nuovo, che vogliamo libero, elevato spiritualmente e tecnicamente istruito, dovrebbe essere incapace, come ci calunniarono sempre i nostri tiranni, a procacciarsi, in gara con altri, le materie prime che egli giudicherà conveniente di comprare? Ma l’Italia chiederà altresì, con offerta di reciprocità, di poter vendere dovunque i prodotti della sua industria e della sua terra. Niente ripartizioni forzate e pseudo sapienti dei campi di attività delle diverse nazioni. Gli italiani sentono di potersi conquistare un posto al sole colla propria attività e non temono di misurarsi in gara con altri. L’Italia liberale aderirà agli schemi, discussi in comune, per allentare gradatamente i vincoli doganali ed altri che oggi soffocano, come immane piovra, qualunque sforzo di lavoro; e sin d’ora augura prossimo il giorno in cui le barriere doganali siano allontanate dai suoi confini politici e portate a confini lontani di salde Unioni doganali internazionali.

Ma entro i confini delle libere nazioni del mondo i suoi figli dovranno potersi muovere liberamente. Siamo pronti a discutere le modalità della graduale liberazione dei cittadini dei paesi liberi dai vincoli che oggi impacciano la emigrazione permanente temporanea, dai paesi a popolazione sovrabbondante a quelli dove esiste ancora un margine disponibile di aumento. La libertà di movimento degli uomini nel mondo è la nostra meta. Non abbiamo paura che gli stranieri invadano il nostro paese, perché ci sentiamo capaci di assimilare i nuovi venuti. Né abbiamo paura che gli italiani abbandonino la madre patria se sapremo renderla di nuovo aperta a tutte le idee, a tutte le libere iniziative e perciò prospera e degna di ospitare uomini liberi.

Lo Stato liberale, il quale è antiplutocratico ed antiugualitario non avrà bisogno di prendere a prestito da altri i principii della sua politica tributaria. Non avrà da far altro che risalire alle sue tradizioni, quando gli eredi di Cavour avevano costruito un sistema tributario duro e semplice, che per lunghi anni portò al vanto di essere uno dei migliori del mondo. Bisognerà menar l’ascia demolitrice nella confusa boscaglia degli istituti tributari vessatori, improvvisati, improduttivi, creati o peggiorati nel ventennio. Le imposte dovranno tornare ad essere:

certe. Per correre dietro a dottrinarismi forestieri abbiamo dimenticato questa che è la qualità essenziale di ogni imposta. Non importa pagar molto, purché si sappia quanto si deve pagare e lo si sappia per tempo, in modo che ognuno possa fare i conti di quel che può fare, di quel che può intraprendere, senza odiose inquisizioni, senza pericolo di multe improvvise e imprevedute;

poche e semplici. È impossibile ridurre tutte le imposte ad una sola; ma occorre evitare che il contribuente non riesca più ad orientarsi in mezzo alle imposte e contributi o tasse di ogni sorta che da ogni parte lo minacciano e lo turbano;

stabilite sui godimenti e non sulla fatica. Bisogna abolire le imposte le quali gravano sulla produzione e sulle transazioni, che puniscono colui che lavora, mentre lavora e produce e commercia e cerca di spingere al massimo il suo reddito. Lo Stato deve aspettare il momento nel quale il cittadino ha ottenuto il reddito e lo consuma. Perciò le imposte sugli scambi, sui trapassi dei beni e delle cose sono pessime e se possibile converrà abolirle o almeno ridurle. Il peso delle imposte che non potrà, se si vorrà liquidare onorevolmente la eredità del passato e far fronte ai compiti vecchi e nuovi dello Stato, essere lieve, dovrà gravare sui redditi e sui consumi. Sui redditi superiori al minimo assolutamente necessario alla vita, se si tratta di imposte personali, sui redditi oggettivi dei beni fondiari e della ricchezza mobiliare, sui consumi che siano indice di una possibilità di spendere al di là delle cose di prima necessità;

graduate in modo da attenuare le disuguaglianze nella distribuzione delle fortune, senza intaccare l’interesse al risparmio ed agli investimenti. Le imposte siano uno strumento nella lotta contro la plutocrazia e il latifondismo e diano i mezzi per moltiplicare i beni di uso gratuito a vantaggio di tutti. L’arte del finanziere in uno Stato liberale dovrà consistere nello scoprire il punto critico al di là del quale l’imposta, crescendo ancora, deprimerebbe l’interesse a risparmiare e l’interesse alle nuove iniziative, che sono le condizioni di ogni progresso nella produzione della ricchezza e quindi della sua migliore distribuzione.

Strumento principale tributario della lotta con la plutocrazia ed il latifondismo e per l’ampliamento del demanio pubblico di beni di uso gratuito deve essere l’imposta successoria. Non quella tradizionale, la quale dovrà essere abolita in tutte le sue forme e sostituita da un’unica imposta che si potrebbe chiamare di avocazione. Supponendo, premessa necessaria a tutti i ragionamenti di riforma sensata, una moneta stabile, se il risparmiatore abbandona alla sua morte un patrimonio di un milione di lire, questo dovrebbe trapassare intatto al figlio, ma soggetto ad un’ipoteca per altrettanta somma a favore dello stato, ipoteca che le successive generazioni dovrebbero assolvere, un terzo per volta, ad ogni successivo trapasso per causa di morte. Così il risparmiatore sarebbe sicuro di tramandare al figlio l’intero suo risparmio; ma il patrimonio non potrebbe essere conservato se non da coloro che ad ogni, generazione lo ricostruissero per un terzo e dimostrassero col fatto di meritare di conservarlo. Gli inetti, i poltroni, sarebbero in tre generazioni del tutto espropriati a vantaggio dello stato. Senza stabilire un legame rigoroso aritmetico tra le due quantità, il provento dell’imposta successoria, ossia di un’imposta la quale in principio riduce il patrimonio privato, dovrebbe essere fatto servire all’incremento del patrimonio pubblico e principalmente all’attuazione di piani regolatori, i quali leghino la città alla campagna, creino strade, parchi nazionali, città giardini case a buon mercato ed in determinati casi gratuite (in sostituzione dei falansteri o ricoveri per vecchi) poste tra il verde e in rapida comunicazione con le città.

I nostri propositi saranno vani, se noi non ridaremo sicurezza alle transazioni, sovratutto sicurezza a quella che è già oggi e diventerà ognora più la maggior parte del reddito nazionale, ossia alla remunerazione dei capi e dei soldati del grande esercito del lavoro. Gran vanto dello Stato liberale del secolo XIX fu l’aver dato, per la prima e l’unica volta nella storia di un lungo periodo di tempo, e per la maggior parte dei paesi civili, stabilità alla moneta. Vanto e miracolo che il nuovo Stato liberale dovrà rinnovellare. Problema formidabile sarà quello di ridare ad una moneta che la guerra del 1914-18 aveva già ridotto ad un quarto della sua potenza d’acquisto – ma era ancora un quarto, inferiore ai due terzi della sterlina inglese ma superiore all’ottavo del franco francese! – e vent’anni di malgoverno hanno ridotto ad una evanescente parte di se stessa, tanto più evanescente quanto più rettoricamente clamorose le dichiarazioni di volerla difendere ad ogni costo. Compito formidabile, se si pensa che si dovrà escludere ogni forzata innaturale rivalutazione, che ripetute esperienze, antiche e recenti, hanno dimostrato causa di crisi profonde e di vasta disoccupazione. Ci dovremo necessariamente limitare al compito meno ambizioso e solo possibile e benefico di porre un fermo allo scivolio della lira verso il nulla e di ricominciare da quel punto fermo, che l’esperienza della graduale liberazione dei cambi e dei prezzi ci insegnerà quale possa essere, una nuova vita. E poiché, non per colpa nostra, quel punto fermo vorrà dire gravissimo danno per la classe media detentrice di impieghi (titoli di Stato, obbligazioni, cartelle fondiarie, crediti ipotecari e privati) a reddito fisso e dei numerosissimi percettori di stipendi, pensioni, assicurazioni sulla vita stilati in lire, si imporrà il problema della restituzione. La quale dovrà essere in integro per gli enti morali, a cui la svalutazione monetaria ha praticamente tolti i mezzi di vita e parziale e variabile per le altre categorie di danneggiati a seconda della data certa degli investimenti compiuti e della determinazione della cifra nominale degli stipendi, delle pensioni, dei salari, dei diritti a indennità assicurative ecc. ecc. Alle ingiustizie compiute contro i risparmiatori ed i lavoratori intellettuali a reddito fisso a causa del ventennio di malgoverno, lo stato liberale opporrà quell’opera di umana giustizia riparatrice quale maggiore l’attento studio delle possibilità finanziarie dello stato e dell’economia nazionale faranno ritenere possibile. Uno Stato il quale vuole elevare le classi lavoratrici al livello dei ceti medi non può abbandonare alla sua sorte il ceto medio esistente, che è stato e sarà di nuovo domani, grandemente aumentato di numero e quasi universalizzato, il fondamento più sicuro di una salda struttura sociale.

Ipotesi astratte ed ipotesi storiche e dei giudizi di valore nelle scienze economiche

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. 78, 1942-1943, tomo II, pp. 57-119

1. – Uniformità astratte e uniformità storiche. Il metodo delle approssimazioni successive. L’uso dello sperimento inibito nelle scienze sociali. Le uniformità astratte sono vere sub specie aeternitatis. [p. 9]

2. – Rapporti tra schemi astratti e realtà concrete. Gli economisti intervengono, quasi tutti, nelle polemiche poste dalla vita quotidiana. [p. 10]

3. – Stretti legami fra teoremi e consigli. Differenza tra la posizione dei problemi economici nel quadro dell’equilibrio generale e in quello degli equilibri parziali. Identità teorica fra il problema di prima approssimazione risolto da Walras e da Pareto nello schema dell’equilibrio generale ed il problema concreto del prezzo del frumento di una data qualità in un dato istante risolto dagli operatori di una grande borsa dei cereali. [p. 11]

4. – Alla soluzione col calcolo, impossibile per la mancanza dei dati di fatto e la difficoltà di metterli in equazioni, si sostituisce la soluzione ottenuta per intuito dagli operatori. [p. 14]

5. – I vecchi economisti, anche i maggiori, come Cantillon e Ricardo, e non di rado i recenti teorici, come Gossen e Walras, accanto alla norma astratta pongono il consiglio ed il progetto. Le verità monetarie hanno quasi sempre avuto occasione dall’opportunità di consigli concreti. L’economista talora «scopre» le soluzioni ai problemi, talaltra traduce in linguaggio ipotetico le soluzioni già trovate dagli uomini della pratica. [p. 16]

6. – Leggi astratte feconde se atte a spiegare la realtà concreta. Leggi empiriche valide a spiegare i legami esistiti in un dato luogo e intervallo di tempo. Valore delle leggi empiriche. [p. 18]

7. – Della coincidenza fra leggi astratte e uniformità concrete. Del cosidetto fallimento della scienza economica e della verificazione dei suoi teoremi ad occasione della guerra. [p. 20]

8. – Strumenti (tools) di indagine teorica e di verificazione empirica dei teoremi teorici. Strumenti teorico-storici. Infecondità di questi ultimi. Inettitudine di essi a spiegare gli avvenimenti storici. [p. 21]

9. – Gli schemi devitiani dello stato monopolista e di quello cooperativo nella scienza delle finanze. Cauto uso degli schemi da parte del loro proponente. [p. 24]

10. – Degli schemi di Fasiani applicati allo studio degli effetti delle imposte. Nota sulla necessarietà della connessione fra l’imposta generale definita in un dato modo e l’ipotesi dello stato monopolistico. [p. 26]

11. – Della definizione del tipo di stato «monopolistico» e della ragionevolezza della ipotesi che ad esso si confacciano le illusioni come sistema, mentre possono essere assenti nei due altri tipi di stato cooperativo e moderno. [p. 27]

12. – La esemplificazione delle illusioni finanziarie nello stato monopolistico è propria del sottotipo di stato monopolistico in cui la classe dominante per vie non logiche sfrutta i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina. Necessità di una attenta revisione dei giudizi storici intorno alla finanza degli stati di antico regime. [p. 32]

13. – Analisi dei concetti di stato cooperativo e moderno. [p. 36]

14. – Se dominanti e dominati sono tutt’uno, la distinzione fra stato cooperativo e quello moderno è un assurdo. Nello stato non esistono cittadini singoli distinti dal gruppo, ed il gruppo non esiste come entità a sé distinta dai cittadini. [p. 38]

15. – Lo stato può perseguire fini proprii degli individui come singoli; ma trattasi di mezzo tecnico per conseguire fini che gli individui potrebbero conseguire, da soli o liberamente associati, anche senza l’opera dello stato. L’esempio delle colonie: i fini singoli sono perseguibili anche per mezzo di compagnie private; i fini statali sono quelli della madrepatria. [p. 40]

16. – Nello stato moderno il potere non può essere esercitato nella preoccupazione esclusiva degli interessi del gruppo pubblico considerato come una unità. Se così fosse non ci troveremmo dinnanzi ad uno stato «moderno», bensì alla deificazione dello stato sopra l’individuo. – Inconsistenza del concetto di dualismo fra individuo e stato, e di uno stato trascendente posto fuori e al di sopra degli individui. [p. 43]

17. – Il vero contrasto è quello dialettico fra stato e non-stato; che sempre coesisterono e coesistono l’uno accanto all’altro. Esso è un aspetto del contrasto profondo tra le forze del bene e quelle del male. [p. 46]

18. – L’astensione dell’economista dai giudizi di valore, legittima per ragioni di divisione del lavoro, non è sostenibile ai fini di una più generale conoscenza della verità. – La volontà dello stato è la stessa volontà dello scienziato. – La scelta posta da Demostene: guerra contro Filippo il Macedone ovvero feste e spettacoli. Differenza fra il chimico e l’economista. [p. 48]

19. – L’atteggiamento di indifferenza dell’economista per i motivi delle scelte è radicata nello studio del prezzo nel caso di libera concorrenza. – Lo studio dei casi di monopolio, di concorrenza limitata e simili impone di risalire al di là della scelta, sino ai motivi di esse, per rendersi ragione della scelta fatta e delle sue modalità. – Lo stesso automatismo della ipotesi della piena concorrenza è un artificio. [p. 51]

20. – La convenzione, in base alla quale l’economista puro, quello applicato, il politico, il giurista ecc. studiano diversi aspetti della realtà, necessaria per ragioni di divisione scientifica del lavoro, è talvolta impossibile ad osservare. [p. 53]

21. – Diritto di insurrezione, e diritto di scomunica a proposito dei limiti all’indagine scientifica. – Lo studio della classe politica non esclude lo studio della classe eletta. [p. 54]

22. – Schemi e realtà. – Mutando la realtà mutano altresì gli schemi. [p. 57]

23. – Il dato posto dal politico della esenzione di un minimo sociale di esistenza non è un dato ultimo. [p. 58]

24. – L’appello dal papa male informato al papa bene informato. [p. 60]

25. – Il dato posto dal legislatore è soggetto a giudizio in relazione ai fini posti alla società umana. [p. 62]

26. – Possono gli economisti sottrarsi all’obbligo di formulare giudizi di valore? [p. 63]

27. – Non esistono limiti artificiali alla indagine scientifica. I fini gli ideali della vita determinano le scelte fatte dagli uomini. Non è possibile studiare le scelte fingendo di ignorare i fini, dai quali esse traggono origine. [p. 66]

1. – Le uniformità delle quali si occupano le scienze economiche sono di due specie: l’una astratta e l’altra storica.

La ricerca della legge astratta è preceduta dal se. Se noi supponiamo che in un determinato momento e luogo, si attui l’ipotesi della concorrenza piena, e che in questa ipotesi lo stato prelevi un’imposta personale sul reddito netto dei cittadini; e se noi supponiamo che la società di cui si parla sia statica, ossia che in essa non si formi alcun nuovo risparmio, la popolazione ed i suoi gusti non variino, se noi supponiamo che ecc. ecc., le conseguenze le quali derivano dall’imposta immaginata sono tali e tali. In seguito si fanno variare ad una ad una le circostanze supposte, od altre si aggiungono a quelle già poste; e, ad ogni variazione dei dati del problema, con appropriati ragionamenti si compiono le opportune deduzioni. Ad agevolare l’indagine, si pone innanzitutto il problema secondo l’ipotesi più semplice, facendo entrare in campo il minimo numero di dati; e poi via via lo si complica introducendo ipotesi nuove più complicate e più numerose. Il procedimento logico è da tempo conosciuto col nome di metodo delle approssimazioni successive; ed ha il vantaggio di avvicinare a mano a mano gli schemi teorici alla realtà senza tuttavia giungere mai alla contemplazione di questa. Gli schemi estremi della piena concorrenza e del pieno monopolio, quelli intermedi della concorrenza imperfetta e del monopolio imperfetto e le loro innumeri sottospecie non sono presentati dagli studiosi come quadri o fotografie della realtà, ma come disegni a grandi linee atti a raffigurare, con tratti appena sbozzati e poi alquanto più decisi, la realtà, senza che mai si possa giungere a tener conto nello schema di tutte le circostanze le quali in un dato momento e luogo la compongono. Pur senza potere controllare, come si fa nelle scienze fisiche e chimiche, i risultati del ragionamento astratto coll’esperimento fabbricato a bella posta nelle condizioni volute, se le premesse sono poste con chiarezza e se si è ragionato rigorosamente, i teoremi ai quali giungono gli economisti sono veri, entro i limiti delle premesse fatte.

Essi sono leggi astratte, le quali ci dicono che cosa necessariamente accadrebbe ogniqualvolta si verificassero nella realtà tutte e sole le premesse poste dal ragionatore.

Non occorre affatto collocare premesse problema ragionamento e teorema in un determinato luogo e tempo storico politico o morale, perché il teorema dimostrato sia vero. Esso è vero sub specie aeternitatis; è una verità di cui non è necessario dimostrare la conformità ai fatti accaduti, appunto perché l’indagatore non si proponeva affatto quello scopo.

2. – Tuttavia, se la scienza economica consistesse soltanto nella posizione di problemi astratti e nella dimostrazione di leggi parimenti astratte, essa non avrebbe quel pur minimo seguito tra i laici che ancora è suo e non eserciterebbe quella qualunque influenza, sia pure modestissima, sulle faccende umane della quale può tuttavia vantarsi. Seguito ed influenza sono dovuti alla connessione che studiosi e laici reputano esistente tra gli schemi astratti e la realtà concreta, fra i problemi ed i teoremi di prima approssimazione ed i problemi e le relative soluzioni urgenti nella vita quotidiana delle società umane. Il fisico, il chimico e l’astronomo possono, se vogliono, trascorrere intera la vita senza preoccuparsi menomamente delle applicazioni concrete che altri trarrà dai teoremi da essi scoperti. L’economista no. Nessun economista è mai rimasto rigidamente chiuso entro l’eburnea torre dei primi principii, dei teoremi di prima approssimazione. Pantaleoni e Pareto, per ricordare solo i due grandi morti della passata generazione, furono altrettanto pugnaci combattenti nel dibattito dei problemi attuali del loro tempo quanto grandi teorici.

L’atteggiamento assunto nelle battaglie della vita concreta reagì ripetutamente sul loro modo di porre i problemi teorici. Posero somma cura nel distinguere il teorema dal consiglio; cercarono di evitare ogni contaminazione tra l’uno e l’altro; talvolta, parlarono – specialmente uno di essi (Pareto), con dispregio ed ironia degli economisti letterari che confondevano la scienza con la politica, e davan consigli ai principi invece di dichiarare uniformità; ma, distinguendo e chiarendo, non cessarono mai di rimbrottare, criticare, vilipendere, rarissimamente lodare governanti e governati, segnalando la via da scansare e quella da percorrere. Egli è che, nelle scienze economiche, esiste il terreno proprio dei teoremi, e quello dei consigli; ma questi due terreni non sono separati e indipendenti l’uno dall’altro. Gli economisti che hanno qualcosa da dire, pur divertendosi talvolta a vilipendere l’altra e forse miglior parte di se stessi, coltivano a scopo di conoscenza e smuovono a scopo di agire sulla realtà; gli imitatori, i pedissequi, incapaci di vedere i legami fra i due aspetti della persona intiera, fanno teoria insipida e forniscono quei consigli che sanno accetti ai potenti.

3. – In verità tra i teoremi ed i consigli vi ha legame strettissimo.

Quando Walras e Pareto costruiscono la teoria dell’equilibrio generale, le premesse dei loro ragionamenti sono nel tempo stesso poche e molte: poche nel senso che essi assumono certe situazioni semplificate: perfetta concorrenza o perfetto monopolio, illimitata riproducibilità dei fattori produttivi o limitazione di questo o quel fattore, mercato libero o mercato chiuso e simili; molte nel senso che essi non suppongono che, mutando una delle premesse del problema, tutte le altre premesse rimangano invariate. Anzi suppongono che, contemporaneamente ed a causa delle variazioni di uno dei dati del problema, tutti gli altri corrispondentemente mutino; che, per lo spostarsi e durante lo spostarsi di uno dei punti del firmamento economico, tutti gli altri punti si muovano, influenzati dal moto del primo ed alla lor volta reagenti su questo moto. Così essi giungono alla conquista forse più generale e certo più feconda della scienza economica moderna: sul mercato domina sovrana la legge di interdipendenza, sicché non è possibile mutare il prezzo di un bene qualsiasi senza che il prezzo di tutti gli altri beni, vicini o lontani, presenti o futuri, muti anch’esso, di poco o di molto. Ma quanta strada si deve fare per passare da questo principio o da quell’altro per il quale il prezzo di un bene diretto è, su un dato mercato, quello che rende uguale la quantità domandata alla offerta e rende uguali altresì nel tempo stesso le quantità domandate ed offerte dei beni strumentali e dei servizi produttivi, del risparmio e dei capitali occorsi alla produzione dei beni diretti, quanta strada occorre fare per passare dalla formulazione dei teoremi generalissimi alla formulazione dei teoremi più vicini all’uomo vivente, i soli i quali di fatto interessano costui, quelli per cui ci si dovrebbe spiegare perché il prezzo del quintale di frumento, in quel momento e luogo e in quelle condizioni di mercato, è 25 e non 30, 240 e non 300 lire! Tanta strada che in verità nessuno l’ha neppur tentata! Marshall, disperato, intraprese la via degli equilibri parziali, ossia dello studio delle leggi del prezzo fatta l’ipotesi che non tutte le premesse del problema mutino contemporaneamente ma, coeteris paribus, muti una premessa sola per volta o mutino poche, quel numero cioè le cui variazioni la limitata mente umana giunge a seguire ed a combinare insieme. Su questa via, la quale è, in fondo, dopo il ragionato omaggio reso alla teoria dell’equilibrio generale, quella seguita da tutti gli economisti teorici, notevoli progressi sono stati compiuti. Ma, per la detta limitazione della mente umana, è stato sinora e rimarrà per lunga pezza impossibile complicare il problema e moltiplicare i dati o le premesse di esso, in modo da poter tener conto anche solo di una piccola parte dei numerosi dati che occorrerebbe considerare per risolvere caso per caso il problema concreto. Sulla via delle approssimazioni successive ad un certo punto ci si deve arrestare. Ben di rado gli economisti vanno al di là di un secondo o terzo stadio nell’approssimazione alla realtà. Per giungere a questa, quanti scalini converrebbe scendere dall’alta cima dove stanno i contemplatori delle verità prime! Se i Walras ed i Pareto potessero da quelle alte cime, dove il loro sguardo spazia e domina gli orizzonti, e vede le leggi del prezzo nei diversi tipi di mercato, scendere giù giù, sino al fondo di un mercato concreto, ad esempio giù sino al fondo del rumoroso fragoroso rombante di urla e di gesti frenetici pozzo (pit) dei cereali di Chicago, essi risolverebbero un problema scientifico, della stessa precisa natura di quelli che già avevano risoluto ponendo le equazioni corrette delle loro prime approssimazioni. I Walras ed i Pareto, se possedessero la onniveggenza necessaria, porrebbero silenziosamente, in quel luogo ove ora si agitano centinaia di uomini convulsi e congestionati, le migliaia di equazioni richieste dalle migliaia di incognite da determinare; e quante incognite tra i dati che pur si dovrebbro conoscere! Conosciamo o dobbiamo intuire, ossia determinare ponendo rapidissimamente le opportune equazioni, la superficie, la fertilità, la posizione ecc. dei terreni che furono o saranno destinati alla coltivazione del frumento nel Dakota, nell’Iowa, nell’Indiana, nell’Alberta, nelle Calabrie, in Lombardia, in Sicilia, in Russia, nell’Australia, nell’Argentina e nell’India ecc.; il numero e la produttività dei lavoratori destinati a quella coltivazione; la quantità del risparmio necessario a produrre gli strumenti e le macchine agricole; i mezzi ed i costi dei trasporti per fiume per terra per mare per aria; i gusti ed i redditi dei consumatori di frumento sparsi nei diversi paesi del mondo, e nel tempo stesso i terreni, i fattori produttivi, i consumi attinenti a tutti i beni che possono essere concorrenti o succedanei al frumento? Quegli ingegni sovrani avrebbero dinnanzi a sé, posto in equazioni, tutto il quadro del mondo economico e sociale fotografato in quell’istante; e la fotografia sarebbe nel tempo stesso la visione in scorcio di quel mondo nel suo previsto divenire futuro e nelle ripercussioni che quel divenire esercita sull’operato del mondo presente. Se quel calcolo potesse compiersi e se in quell’attimo il prezzo calcolato fosse di 1 dollaro e 27 centesimi per staio (bushel) del frumento di quella data varietàe qualità, quel prezzo avrebbe il valore di legge scientifica necessaria. Necessaria perché essa sarebbe la logica inevitabile conseguenza di tutte le opportune premesse chiaramente poste e ragionate.

4. – Di fatto, quei calcoli sono al di là delle possibilità della mente umana ragionante; ed al posto dei Walras e dei Pareto noi vediamo nel pozzo del frumento di Chicago – e, per altri beni economici, nelle altre borse dove si determinano o si determinavano quotidianamente i prezzi dei principali beni o valori pubblicamente negoziati – migliaia o centinaia di vociferatori ossessionati e congestionati, i quali a furia di urla e di gesti giungono anch’essi in quell’attimo a quel medesimo risultato di dollari 1 e 27 centesimi per staio di frumento di quella certa varietà e qualità. Come vi giungono? In fondo, il processo è quel medesimo, che se fosse possibile, avrebbero osservato i Walras ed i Pareto. Anche gli speculatori in cereali del pozzo del frumento di Chicago pongono in equazione i dati del problema: terreni coltivati o che saranno coltivati a frumento in concorrenza con i terreni destinati ad altre culture; produttività di quei terreni e particolarmente di quelli marginali; costi dei fattori produttivi; costi dei trasporti; inclemenze stagionali o vicende favorevoli alla vegetazione del frumento; raccolti maturati o maturandi nei varii paesi del mondo; rimanenze esistenti; gusti e redditi dei consumatori; passaggi del frumento dagli elevatori ai mulini e da questi ai forni ed ai pastifici; dazi doganali e divieti di importazione nei paesi consumatori; concorrenza del riso e della segala e delle patate; concorrenze di negozianti singoli, di cooperative di agricoltori, di consorzi (trusts) di mulini; monopoli di ferrovie e di compagnie di navigazione sui laghi, ecc. ecc. Tutti questi dati del problema ed altri ancora sono tenuti presenti dagli operatori sui frumenti, presenti e futuri, del pozzo di Chicago, sulla base di notizie di agenzie, di cablogrammi ai giornalisti, di informazioni particolari telefoniche; ed è una corsa affannosa dalle cabine telefoniche al pozzo; ed ogni telefonata è un avviso che permette di sostituire un dato certo o approssimativo ad una incognita nel sistema di equazioni che si tratta di risolvere tumultuosamente ed affannosamente in quel momento. Dal tumulto di notizie e di dati spesso contrastanti ed incerti nasce in quell’attimo quel prezzo: 1 dollaro e 27 centesimi per moggio. Se questo è, in quell’attimo, il prezzo che rende la quantità domandata uguale a quella offerta, io non vedo nel processo il quale condusse a quel prezzo nulla di diverso dal procedimento scientifico, con il quale l’economista puro ha risolto il suo problema di prima approssimazione sulla base di poche premesse esplicitamente e chiaramente poste. Non esiste diversità alcuna fra le leggi astratte di prima approssimazione poste dal teorico nella solitudine dello studio e le leggi concrete poste dagli operatori nel tumulto del mercato. Ambe sono leggi: le prime si dicono astratte perché vere nei limiti delle poche premesse fatte; le seconde concrete perché vere dato l’operare di tutte le premesse esistenti, note ed ignote; le prime si dicono vere sub specie aeternitatis perché e finché il teorico non muta le premesse del problema; le seconde sono vere solo per un attimo, perché, quello trascorso, mutano istantaneamente e sicuramente i dati del problema; le prime possono essere enunciate e dimostrate nelle memorie accademiche e nei trattati della scienza, perché si possano fare ragionamenti, spesso eleganti, e talora stupendi, intorno alle vicendevoli azioni e reazioni di alcune poche forze ben definite; le seconde non si leggono mai scritte in nessun libro perché frutto di impressioni fuggevoli, di intuiti miracolosi, di quel certo magico fluido che fa i veggenti, i profeti, i capitani, i capi di stato e fa anche i grandi operatori, i quali, sinché non giunge anche per essi la giornata di Waterloo, dettano le leggi dei prezzi nei mercati dei beni economici. Cesare e Napoleone scrissero memorie; ma i grandi operatori non sanno né scrivere né fare discorsi. Farebbe d’uopo che qualche economista si facesse loro segretario e trascrivesse, novello Boswell, le confidenze che i Johnson delle borse consentissero a far loro. Ma gli economisti di secondo piano, ai quali cotale ufficio spetterebbe, preferiscono guardare dall’alto al basso i pratici e sputar il disprezzo dei puri su coloro che si attentano a fotografare gli intuiti degli uomini i quali fanno o registrano i prezzi veri sui mercati effettivi. Se, per miracolo, taluno fosse disposto ad ascoltare, probabilmente guasterebbe il rendiconto, trascrivendolo nel linguaggio economico puro, dimenticando cioè che quel che contraddistingue la realtà dallo schema è che il linguaggio di questo è diventato tecnico ossia proprio a dar conto delle sole premesse e dei ragionamenti che fan parte dello schema ed è affatto disadatto a spiegare i tanti dati sconosciuti alle prime e seconde e terze approssimazioni, dei quali l’operatore sui mercati effettivi tiene conto perché è nato nel mestiere o vi è vissuto a lungo o perché, grazie ad un peculiare suo sesto senso, ne ha miracolosamente l’intuito.

5. – Per l’indole di coloro che le enunciano, le leggi prettamente scientifiche ricavate dai pratici dalle equazioni risolute per intuito invece che per calcolo, prendono, se messe per iscritto, quasi sempre la forma di consigli o progetti; e come consigli quelle leggi sono entrate a far parte del corpo della scienza ad opera dei vecchi economisti. Rarissimo ed ammirando è il caso di grandi operatori pratici, come Cantillon e Ricardo, i quali scrivendo libri teorici, seppero per lo più usare un linguaggio dichiarativo di mere leggi. Ma anche codesti grandi non di rado alla enunciazione di principii teorici aggiunsero il consiglio od il progetto. Fecero, così operando, cosa estranea alla scienza? Fece opera extra-scientifica il Walras ed il Gossen quando propugnarono talune loro riforme monetarie o tributarie terriere? Distinguerei la forma dal contenuto. Oggi, che ci siamo sentito le tante volte ripetere il precetto, che in bocca ai Cairnes ed ai Pareto si ascolta con rispetto, essere la scienza rivolta a dettar leggi e non a fabbricar progetti, una certa impazienza è legittima verso chi manifestamente dimostra, nel suo modo di porre i problemi, di non essere mosso dall’intento di ricerca della verità, ma da qualche fine pratico, inteso il fine pratico non nel senso detto sopra di avvicinamento alla realtà, ma di consecuzione di vantaggi proprii o di un ceto sociale o professionale o di piaggeria verso i potenti o verso le folle. Ma quando si tratti di mera forma dello scrivere, sieno i colpevoli economisti antichi o moderni, direi essere doverosa in proposito la maggiore indulgenza. Quel che monta non è affatto la forma del discutere, ma il suo contenuto. Quasi tutte le verità scoperte in materia monetaria ieri ed oggi ebbero ad occasione progetti e consigli. Le falsificazioni monetarie del medioevo, gli abbassamenti ed i rialzamenti delle monete immaginarie in confronto a quelle effettive nei secoli XVII e XVIII, i corsi forzosi nel primo quarto dell’ottocento, i sistemi bimetallistici tra il 1850 ed il 1880, le svalutazioni e le rivalutazioni monetarie del 1914-1940 non furono forse l’occasione di grandi scritti teorici in materia monetaria? E parecchi tra gli scritti i quali segnarono in essa un’orma duratura non presero forse la forma di polemiche e di contro-progetti? Non si vuole sminuire il merito degli economisti teorici venuti di poi, i quali tradussero in linguaggio scientifico i precetti degli scopritori; ma pare certamente di pessimo gusto svillaneggiare costoro ed esaltare i primi. La fatica del tradurre una proposizione dal tipo precettistico:

«Non coniate una moneta d’oro la quale abbia in confronto ad una moneta d’argento dello stesso peso e titolo una facoltà liberatrice come 15,5 ad 1, quando nel comune commercio un chilogrammo d’oro si scambi con 16 chilogrammi d’argento, perché il paese rimarrà del tutto privo di monete d’oro, con grande incomodo del pubblico» nella proposizione identica di tipo scientifico od ipotetico:

«Se, cambiandosi in comune commercio 1 chilogramma d’oro contro 16 chilogrammi d’argento, vengono coniate con quel peso e titolo una moneta d’oro ed una d’argento, ma questa abbia invece legalmente una potenza liberatrice uguale ad una quindicesima parte e mezza di quella d’oro, la moneta (argento) relativamente svilita nel rapporto commerciale in confronto a quello legale, rimarrà sola in circolazione»

è in verità fatica piccolissima e direi d’ordine, quando si sia appresa la modesta tecnica all’uopo occorrente. Non dico che i precetti antichi e moderni si possano sempre altrettanto facilmente tradurre in principii teorici; ma dico accadere non di rado anche oggi che l’attenzione degli economisti su un dato problema sia risvegliata dalla soluzione data ad esso in concreto in un dato luogo e tempo e che le prime trattazioni abbiano la forma di progetti di altre e diverse soluzioni; e può accadere, sebbene più difficilmente, che, nel corso di quelle discussioni e di quei progetti, si espongano, sul problema da risolvere, sugli allegati effetti che derivavano dalla soluzione eventualmente già accolta e sui diversi effetti della nuova proposta soluzione, considerazioni le quali sono in sostanza ragionamenti e teoremi puramente scientifici. Se le cose stanno così, l’economista venuto dopo, il quale compisse la versione dalla terminologia precettistica in quella ipotetica, compirebbe opera indubbiamente utile; ma l’utilità didattica dell’esercitazione non lo autorizzerebbe menomamente a sputare con dispregio sul piatto dal quale ha tratto il suo vitale nutrimento; né sminuirebbe il senso di fastidio col quale si debbono guardare coloro i quali per aver compiuto quel modesto ufficio di traduttore dal linguaggio vivo dei combattenti in quello smorto convenzionale dei ripetitori reputano se stessi inventori del teorema che hanno soltanto rivestito della solita terminologia scolastica. Quale abisso tra codesti, per lo più boriosissimi, traduttori e gli scienziati che in silenzio offrono agli studiosi le verità che davvero essi hanno per i primi scoperte!

6. – Se le leggi di cui si è parlato sin qui sono francamente astratte, e perciò regolano necessariamente i rapporti fra circostanze premesse fatti definiti numerati e pesati così come piacque all’indagatore, pare diversa l’indole di altre uniformità ragionate intorno a premesse o schemi storici. Se in economia io definisco l’ipotesi del monopolio puro come quella dell’imprenditore privato unico produttore-offerente di un dato bene su un dato mercato in un dato momento, senza alcun freno né di concorrenti potenziali né di succedanei e neppure di vincoli legislativi e ne deduco che il prezzo di mercato sarà quello determinato dal punto di Cournot del massimo utile netto, io non affermo che in questo mondo esista o sia mai esistito od esisterà di fatto mai un monopolista puro epperciò che il prezzo possa di fatto essere stabilito precisamente nel luogo del punto di Cournot. La mia è una proposizione ipotetica e la legge del prezzo che ne deduco è una legge puramente astratta. Se in qualunque epoca storica ed in qualunque luogo l’ipotesi per avventura si verificasse, la legge del prezzo sarebbe necessariamente quella ora dichiarata. In verità, non accade necessariamente che il prezzo sia regolato di fatto in alcun momento o luogo per l’appunto da quella legge o dalle altre che si formulano nelle ipotesi, pure astratte, della piena concorrenza o del monopolio bilaterale e così via dicendo. Le ipotesi e conseguenti leggi astratte sono soltanto tipi dai quali si può trarre qualche indizio intorno al modo nel quale si comportano i prezzi e le loro uniformità nella realtà concreta, che è complessa e mutevole.

Diremo che le ipotesi o premesse o schemi o tipi sono fecondi quando, paragonando le leggi astratte alle uniformità accertate empiricamente noi riscontriamo una rassomiglianza più o meno chiara tra la legge astratta ed il comportamento concreto. Anzi si può tenere il cammino inverso; e dalla osservazione precisa del comportarsi di date serie di fatti empirici trarre l’enunciato di leggi, non astratte e non necessarie, intorno alle relazioni realmente esistite, ad es., in un dato luogo e per un dato tratto di tempo, per un dato bene o per parecchi beni, fra quantità prodotte, consumate e relativi prezzi. Dalla circostanza che l’elasticità della domanda e della offerta di un dato bene nel luogo x per l’intervallo di tempo da A a B ubbidì ad una certa legge, si può trarre stimolo ad indagare se quella legge possa essere applicabile in tutto o in parte anche ad altri beni o ad altri luoghi o tempi ai primi rassomiglianti. Eccellono in queste indagini gli statistici e gli econometrici, i quali danno prova di tanta maggior consapevolezza scientifica quanto più sono timidi nell’estendere e nel generalizzare uniformità osservate in un dato luogo o tempo.

L’osservazione invero non consente, se non con molta circospezione e con delicatissimi espedienti, di tener conto di tutti od almeno dei principali dati i quali hanno fatto sì che l’elasticità della domanda e dell’offerta fosse in quel momento e luogo quella che fu e non altra. Chi ci sa dire quale influenza ebbero nella determinazione della legge empirica scoperta l’altezza dei redditi nominali e reali, la loro distribuzione tra le diverse classi sociali, il numero ed i gusti dei consumatori, la concorrenza di altri beni, presenti e futuri, ecc. ecc.? Basta che uno di questi fattori muti ed ecco non essere la legge empirica vera nell’altro luogo o momento. Ciononostante, gli sforzi compiuti nell’accertamento di leggi empiriche o di fatto, non estrapolabili al di là del momento luogo e bene considerati, sono sommamente lodevoli; e tanto più lo diverranno quanto più le indagini saranno prolungate nel tempo e nello spazio, quanto più la raffinatezza dei metodi impiegati consentirà di accertare il peso e le variazioni di ognuno dei fattori influenti sulla legge empirica e quanto più gli indagatori riusciranno a mano a mano ad immaginare schemi o tipi, i quali pur rimanendo empirici, siano sempre meglio atti a raffigurare il comportamento di dati fenomeni economici per lunghi tratti di tempo e ampi territori. La scoverta di siffatti schemi o tipi empirici alla sua volta potrà fornire il destro ai teorici di immaginare premesse schemi o tipi astratti semplificati, coincidenti o quasi con il comportamento dei dati empirici, da cui si possono ricavare nuovi teoremi illuminanti. Salvo la moderna maestria del metodo, il consiglio di adoperare congiuntamente i procedimenti logici deduttivi ed induttivi, il ragionamento astratto e la sua verificazione empirica fu sempre lodato; e quel grande logico astratto che fu il Jevons trasse molta parte della fama di cui ancora gode dalla maestria con la quale passava dall’astrazione all’osservazione, e da questa traeva stimolo per nuove feconde astrazioni.

7. – È singolare la coincidenza frequente fra le leggi formulate dagli economisti teorici in prima approssimazione e il comportamento concreto dei fatti economici più comuni anche in circostanze nuove e straordinarie. Quella taccia che i laici ingenuamente mossero durante e dopo la guerra passata e muovono nuovamente oggi: «la guerra, il dopo guerra e la nuova guerra hanno consacrato il fallimento della scienza economica» bene può rivoltarsi così: «la guerra il dopo guerra e la nuova guerra hanno dimostrato quanto fossero esatte e, parlando figuratamente, inesorabili le leggi poste dagli economisti classici; e non mai si videro meglio verificate le conseguenze che quelli avevano segnalate delle abbondanti emissioni cartacee, dei calmieri senza requisizioni e senza tessere, delle tessere stabilite per quantità incongrue rispetto ai prezzi; mai non si videro tanto magnificati i turbamenti sociali da impoverimenti ed arricchimenti, che i classici avevano descritto a loro tempo in tono minore per la minore gravità delle cause che vi avevano dato origine. Sicché quella che ai laici parve il fallimento della scienza economica fu invece un trionfo suo grande; e fallirono solo le stravaganti aspettazioni dei laici, i quali, innocenti di tutto quanto fu scritto nei libri degli economisti, immaginavano che questi fossero negromanti, atti a impedire che l’errore partorisse il danno a lui intrinseco, che le leggi fabbricate senza por mente all’interdipendenza di tutte le azioni e le forze economiche producessero effetti opposti a quelli benefici previsti dai cosidetti periti, ossia da gente segnalata per la propria ignoranza di tutto ciò che sta al di fuori della loro limitata provincia; fallirono solo gli illogici ragionamenti di industriali agricoltori e commercianti i quali, attissimi a formulare per intuito teoremi e corollari particolari identici a quelli generali esposti dagli economisti teorici in teoria pura, sono tratti dall’interesse a disconoscere la validità dei teoremi medesimi non appena si trascorra dal loro campo proprio a quello generale e vorrebbero che gli economisti dimenticassero teoremi e corollari per farsi fautori di altri confacenti a quei privati interessi. Il che non potendo accadere vilipendono la scienza come cosa inutile e gli scienziati quasi nemici della patria».

8. – La fecondità dell’uso simultaneo ed alternativo nella scienza economica della deduzione e dell’induzione, dello schema astratto e dell’osservazione empirica di dati comportamenti di fatto ha stimolato l’impiego di espedienti o strumenti (gli anglosassoni li chiamano appunto tools) diversi da quelli tradizionali. Non dirò degli strumenti recentemente inventati o proposti od usati da taluni moderni economisti, esaltati dapprima e poi facilmente obliterati e quindi ripresi; e così si videro susseguirsi gli strumenti del reddito del consumatore, del moltiplicatore, del rapporto fra risparmio ed investimento per spiegare le fluttuazioni o crisi economiche, le variazioni monetarie e così via. È bene che ogni strumento faccia le sue prove, che saranno poi quelle dell’abilità logica dell’operaio il quale lo adopra; e rimarranno in piedi quelli i quali avranno dimostrato di valere sul serio qualcosa. Voglio invece accennare all’uso di schemi, i quali stanno di mezzo fra quelli tradizionali astratti estremamente semplificati e quelli empirici proposti per descrivere la legge del variare di un dato fenomeno (ad es. prezzo di un bene) in un dato luogo e tempo. Essi non sono semplificati come i primi e non aspirano a descrivere alcuno stato di fatto empiricamente esistito in un dato luogo e tempo. Sono, direi, schemi teorico-storici. Tengono del teorico, perché non pretendono di raffigurare alcun momento preciso dell’accaduto; ma hanno in sé qualcosa di storico, perché vorrebbero riassumere i lineamenti tendenziali caratteristici di istituti storicamente esistiti, degni di studio per il sommo rilievo che ebbero nel determinare in certe epoche il destino dell’umanità.

A tal genere di schemi sembra appartenere la sequenza delle economie della caccia, della pastorizia, della agricoltura e dell’industria in cui taluno ha distinto i successivi momenti della vita economica dell’umanità; o quella della schiavitù, della servitù della gleba, delle corporazioni, del lavoro libero e di nuovo delle associazioni libere o pubbliche, in cui altri ha raffigurato le successive fasi dell’organizzazione del lavoro; o quella ancora del comunismo primitivo, della proprietà individuale (artigianato), del capitalismo semplice (impresa a manifattura), del capitalismo complesso (consorzi, cartelli, società ramificate) e del collettivismo di stato, con cui si volle descrivere il succedersi dei tipi di organizzazione dell’attività economica. Ma subito si vede che questi non sono né schemi teorici né schemi storici di fecondità scientifica. Non sono schemi o strumenti di lavoro atti a fecondare l’indagine astratta perché non sono abbastanza semplici e chiaramente precisabili. Noi possiamo definire l’ipotesi della libera concorrenza (quella situazione nella quale sul mercato intervengono molti produttori e molti consumatori, la presenza o l’assenza di ciascuno dei quali non esercita sul mercato una influenza apprezzabile sul prezzo dei beni negoziati) o quella del monopolio, o quella della produzione a costi costanti crescenti o decrescenti, perché si tratta di premesse semplici, le quali danno luogo a calcoli quantitativi, a più od a meno e consentono l’impostazione di ragionamenti su un dato numero di incognite. Proviamoci invece a definire l’economia della caccia, della pesca, della pastorizia, la schiavitù, il corporativismo medievale, la servitù della gleba, il capitalismo primitivo o quello moderno! Si avranno descrizioni necessariamente complesse, con molti ma e se e riserve di tempo e di luogo. Nulla che possa dare luogo a ragionamenti di tipo quantitativo, che possano essere compiuti a fil di logica. Si provi qualcuno a mettere per iscritto premesse chiare relative ad uno di questi schemi e veda se gli riesce di cavarne fuori qualcosa che rassomigli anche lontanamente alla trafila logica delle premesse, corollari, lemmi e teoremi che si leggono, dicasi ad esempio, nei Principi di Pantaleoni.

Sono quegli schemi fecondi per l’indagine storica? Qui vale l’esperienza. Gli autori degli schemi se ne servirono per classificare gli avvenimenti e gli istituti economici; ed i seguitatori riclassificarono, echeggiando e, a lor detta, perfezionando. Ma si trattava di giocattoli, presto sostituiti, come accade per i bambini, da altri più nuovi e graziosi. La storia non si presta ad essere ridotta a schemi e tipi uniformi. Dovrebbero, gli schemi essere senza numero per avere un qualche sapore. Storia si fa di fatti singoli, individuali, non di tipi. Lo storico, sì, deve avere un’idea, un filo conduttore per scegliere i fatti singoli ai suoi occhi importanti di mezzo agli innumerevoli fatti e fatterelli che non contano nulla. Ma l’idea che guida lo storico non è uno schema astratto, classificatorio. L’idea-guida, il filo conduttore, è quella che ha indotto gli uomini ad operare, a lottare, a vivere ed a morire. Non può essere la schiavitù o l’artigianato od il capitalismo, che sono semplici parole descrittive di modi esteriori di vita, i quali traggono la loro ragion d’essere da sorgenti ben più profonde. L’uomo crea l’impresa, riduce i suoi simili in schiavitù o si libera da essa, coltiva la terra o conduce greggi spinto dalla sete di ricchezza, dal piacere del dominio, dalla parola di Cristo, il quale ha proclamato gli uomini tutti uguali dinnanzi a Dio, dall’aspirazione alla libertà ed al perfezionamento morale. Le idee ed i sentimenti, razionali ed irrazionali guidano gli uomini dall’uno all’altro tipo di organizzazione economica. I tipi e le classi e le forme non spiegano nulla. Sono espedienti mnemonici didattici per orizzontarsi, non sono storia. Sono buttati via, non appena, usandoli, si veda quanto sia limitato e tutt’affatto scolastico il vantaggio che se ne può ricavare.

9. – Poiché coloro che ne fecero uso li dichiararono esplicitamente ed implicitamente[2] schemi puramente teorici, senza riferimento ad alcuna particolare verificazione di fatto, parrebbero immuni dalla critica gli schemi modernamente proposti dal De Viti De Marco per la scienza finanziaria, dello stato monopolistico e dello stato cooperativo, ai quali il Fasiani aggiunge ora lo schema dello stato moderno. Chi ricorda la condizione caotica della cosidetta scienza delle finanze nell’epoca nella quale il De Viti iniziò l’opera sua chiarificatrice non può non riconoscere che quegli schemi non abbiano sommamente giovato a dare alla scienza finanziaria una struttura compatta e logica ed ordinata. Il De Viti ragionò: essendo i prezzi privati e pubblici, i contributi e le imposte null’altro che il prezzo dei beni pubblici prodotti dallo stato e da esso forniti ai cittadini, perché non si dovrebbero usare quelle medesime ipotesi del monopolio (stato monopolistico od assoluto) e della concorrenza (stato cooperativo) che tanti e tanto utili servizi avevano reso nella scienza economica? Ed egli adoperò quei due strumenti di indagine con eleganza e con successo. Il successo fu dovuto forse sovrattutto all’uso cautissimo che egli ne fece là dove essi veramente chiarivano i problemi trattati, e cioè nell’impostazione dei singoli problemi. Quel che è caratteristico nel trattato del De Viti non è invero la bipartizione della economia pubblica entro i due schemi; è invece la tesi che i problemi della finanza pubblica (il De Viti anzi dice della economia finanziaria) sono problemi economici, i quali devono essere discussi con gli stessi criteri usati nella scienza economica. A volta a volta, senza impacciarsi troppo dei due schemi politici (stato monopolistico e stato cooperativo), egli discusse i singoli problemi finanziari, come se fossero problemi di prezzo, usando ora l’ipotesi del monopolio, ora quella della libera concorrenza, a seconda che meglio l’una o l’altra ipotesi si attagliava a ciascun problema particolare. Con questo suo trattare i problemi di finanza come problemi economici, il De Viti si attirò le critiche di coloro i quali reputano essere invece quei problemi prevalentemente politici e sociologici o giuridici. Poiché anche la scienza finanziaria è e rimarrà a lungo una scienza astratta e deve necessariamente vivere di schemi, più o meno vicini alla realtà, e poiché tra tutti gli schemi quello economico è sinora il solo il quale abbia prodotto una costruzione avente in sé una qualche logica, un certo ordine ed abbia un contenuto discreto di teoremi abbastanza bene dimostrati, anch’io[3] preferisco lo schema economico ed attendo che altri faccia fruttificare schemi diversi.

10. – È riuscito il Fasiani nel suo magnifico recentissimo tentativo a dimostrare che gli schemi dello stato monopolistico cooperativo e moderno hanno una propria virtù teorica? Sono scettico per quanto riguarda la parte essenziale della indagine del F., quella che a giusta ragione assorbe metà delle pagine del trattato, e si riferisce ai problemi della traslazione e degli effetti delle imposte. L’a. avrebbe potuto, se avesse voluto, scrivere quelle pagine che tanto onore fanno alla scienza italiana, senza ricorrere ai tools dei tre tipi di stato; e quelle pagine non avrebbero certo perduto nulla della loro perspicuità ed eleganza logica. Ma una adeguata dimostrazione del mio atteggiamento negativo richiederebbe una lunga analisi che in questa sede sarebbe fuor di luogo.[4]

11. – La difficoltà di usare gli schemi di stato offerti dal De Viti e perfezionati dal Fasiani per condurre innanzi le indagini delicate di traslazione delle imposte, le sole che di teoria pura economica si incontrino nel campo variopinto della scienza finanziaria, pone il quesito se quegli schemi abbiano indole astratta ovvero storica.[5] Sono essi soltanto ipotesi immaginate dalla mente dello studioso per trarne leggi teoriche vere sub specie aeternitatis o sono anche strumenti di interpretazione approssimata della realtà storica?

Assumo la definizione dei tre tipi di stato quali sono poste dal Fasiani. Fatta la premessa che in esso siano riconosciute «la libertà e l’integrità personale e la proprietà privata» lo stato monopolistico è definito come quella «organizzazione in cui una classe eletta dirigente (i dominanti) eserciti il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominanti»[6] (I, 42).

Se la sistematica dell’ordinamento finanziario di uno stato cosiffatto fosse rispetto alle imposte soltanto quello riassunto dalla sapienza popolare nell’antichissima massima del pelar la gallina senza farla gridare o, rispetto alle spese, quella del dare alle spese utili ai dominanti l’aspetto di spese utili a tutti od al gruppo non oserei dire che essa sia propria di un peculiare qualsiasi tipo di stato, essendo stata seguita anche dai legislatori che agivano e volevano ed erano persuasi di agire nell’interesse di tutti e di ciascuno (stato cooperativo) o della collettività (stato moderno); ed essendo i limiti all’operato delle illusioni tanti e tanto potenti da rendere ben piccolo il campo di azione di quel sistema anche nel tipo di stato più accentuatamente monopolistico.

Ma l’osservazione, storicamente fondata, non è tale logicamente. Né il De Viti, né il Fasiani, né altri che abbia assunto la distinzione fra stato monopolistico e stato cooperativo a punto di partenza delle proprie indagini affermò che stati cosiffatti siano mai esistiti in questo o quell’altro luogo o tempo. Se ciò avessero sostenuto, sarebbero caduti nell’errore di scambiare la realtà che è sempre complicata e unica e non soggetta a ripetizione con lo schema astratto o modello teorico, utile per il ragionamento che voglia spiegare qualche aspetto particolare della realtà.

Contrariamente a quanto immaginarono i critici frettolosi, i quali condannarono l’analisi della finanza condotta col criterio degli schemi o modelli teorici a sfondo economico perché non conformi a realtà e, così criticando, dimostrarono di ignorare la natura propria della indagine scientifica nel campo delle nostre scienze astratte, i teorici dei tipi sopradetti di stato non si proposero un problema storico, sibbene un problema di logica che io direi degli strumenti. Secondo questa logica un criterio non è assunto a scopo di indagine storica di fatti realmente accaduti, ma allo scopo di estrarre dai fatti storici accaduti quelli soltanto che si ritengono proprii a caratterizzare il concetto medesimo. Caratterizzano perciò il tipo di stato monopolistico soltanto quei fatti senza di cui quel tipo cade o si trasforma in un diverso od opposto tipo; laddove i fatti medesimi possono essere assenti dai tipi opposti, senza che questi vengano meno.

Il Fasiani, ad esempio, pone il trattato delle illusioni finanziarie nel libro il quale esamina le caratteristiche dello stato monopolistico, reputando che la teoria di esse sia propria di questo caso limite di stato ed estranea («non c’è posto per essa») negli altri due casi limite dello stato cooperativo e dello stato moderno. Non che illusioni non possano darsi in materia di entrate e spese anche negli altri due tipi di stato; ma solo nel tipo monopolistico quelle «illusioni si raggruppano fino a formare una vera tendenza, un sistema. Ciò che conta storicamente, non è già che uno stato in una certa epoca abbia un insieme di entrate e spese che implichino questa o quella illusione, ma piuttosto che, nel suo complesso, l’ordinamento finanziario si avvicini o si allontani dal caso limite in cui le illusioni sono sistema» (I, 70).[7]

I tipi di stato cooperativo moderno possono in verità vivere senza creare illusioni finanziarie, anzi raggiungono la perfezione quanto più le illusioni sono assenti dal loro armamentario legislativo ed amministrativo e governanti e governati apprezzano perfettamente senza veli il vantaggio delle spese pubbliche e l’onere dei tributi necessari a compierle; ed è vero altresì che il sistema delle illusioni non ripugna invece al tipo di stato monopolistico, così come fu sopra definito.

Non mi soffermo sulla riserva premessa alla definizione, per la quale lo stato monopolistico sarebbe tenuto a rispettare «la libertà e l’integrità personale e la proprietà privata» sia perché di cosiffatta riserva non si vede si faccia poi uso nel prosieguo del discorso talché può essere messa nel novero degli strumenti di ricerca divenuti caduchi per non uso, sia perché la riserva può intendersi come un modo abbreviato di enunciare il proposito di escludere dai casi studiati di imposta quelli della riduzione in massa dei dominati a schiavi o della espropriazione in massa dei dominati. Metodi grossolani e contrastanti con quella della illusione di essere liberi e proprietari in che i dominanti vogliono tenere i dominati. La riserva insomma può voler dire soltanto che ai dominati può, se conviene ai dominanti, essere tolta la libertà e proprietà, purché essi si illudano di non aver perduto né l’una né l’altra.

Caratteristica essenziale dello strumento logico detto stato monopolistico pare dunque quella di far uso di illusioni finanziarie, allo scopo di raggiungere più agevolmente il fine proprio della classe dirigente di esercitare il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati. Da quale esperienza storica è stata astratta l’indicazione dello scopo ora detto?

12. – Volto pagina e vedo che, dopo aver ricordata la solenne definizione che, per bocca di Sully, Enrico IV diede non so se dello stato cooperativo o di quello moderno:

«Dio essendo il vero proprietario di tutti i regni e non essendone i re che gli amministratori debbono tutti rappresentare ai popoli colui di cui tengono il posto, per le sue qualità e le sue perfezioni. Soprattutto essi non regneranno come lui se non in quanto regneranno come padri» (I, 77).

si elencano esempi – tratti da tempi nei quali i ceti dirigenti francesi ed un po’ quelli borbonici tra il secolo XVIII e il secolo XIX ed ancora quelli democratici dell’epoca umbertina stavano preparando i torbidi rovinosi degli ultimi Valois o le rivolte della Fronda o la rivoluzione del 1789, od i Borbonici scavavano l’abisso tra sé e le nascenti energie borghesi e popolari meridionali. E mi fermo, ché il quadro delle oscurità del bilancio dell’epoca umbertina disegnato dal Puviani è tirato sul nero; e in esso si dimentica che nessuno in Italia era tratto in inganno dagli espedienti maglianeschi cuciti a grosso fil bianco e tutti ne discutevano; ed in virtù di siffatte discussioni l’Italia giunse al 1914 dotata di una finanza, che se era, al par di altre, impreparata all’improvviso grandioso sforzo della guerra mondiale, superato tuttavia con successo, era però solida ed onesta e chiara.

Non intendo avventurarmi troppo nell’uso dell’altro strumento di indagine che si dice delle azioni logiche e non logiche; ma parmi di potere affermare che il sistema delle illusioni finanziarie, quale almeno risulta dalla esemplificazione addotta dal Puviani e perfezionata dal Fasiani non si può dir propria del tipo generico di stato monopolistico. Farebbe d’uopo perlomeno distinguere il tipo nei seguenti sottotipi:

a)    il tipo in cui la classe dominante compie consapevolmente solo quelle azioni di sfruttamento dei dominati le quali giovano alla conservazione del proprio potere;

b)    il tipo in cui la classe dominante si comporta nello stesso modo inconsapevolmente, per vie non logiche;

c)    il tipo in cui la classe dominante per vie non logiche (si possono escludere le vie logiche perché, eccetto i casi, qui esclusi per definizione, di sacrificio di se stesso a vantaggio dei più o della collettività, nessuna classe politica corre volutamente consapevolmente al suicidio) sfrutta i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina.

I fatti di illusione addotti negli scritti dei due autori ricordati sono tratti dall’arsenale storico dei tempi in cui il tipo di stato esistente si approssimava all’ultimo sottotipo (c). Lo studio è grandemente suggestivo, sia al punto di vista storico come a quello teorico; ma è lo studio di un sottotipo peculiare. Per la Francia, non ci dà il quadro della finanza del tempo di Enrico IV con Sully, né quello di Luigi XIV con Colbert, né quello di Bonaparte primo console, né l’altro della restaurazione, ossia delle epoche nelle quali la Francia fu grande o restaurò le fortune compromesse nei tempi precedenti di torbidi, o di decadenza o di follia di grandigia. Per l’Italia non so in verità quale tempo appartenga a quel sottotipo (c); ché la raffigurazione della finanza umbertina è, già dissi, una parodia calunniosa, e le tinte scure usate dal Bianchini per descrivere la finanza borbonica meritano revisione attenta, almeno per lunghi tratti del secolo XVIII e, ad intervalli, anche degli anni fra il 1815 ed il 1860. Ma la finanza toscana, sotto i Lorenesi fu un modello; e non sapendosi nulla di quella dei Medici, non se ne può parlar male sulla fede di dicerie di cronisti. I bilanci e conti pubblicati della repubblica veneta offrono un quadro di rigorosa amministrazione del denaro pubblico.

Pubblicammo, io e Prato, i bilanci piemontesi dal 1700 al 1713, testimonianza di costumi austeri e di grandi risultati ottenuti con misurato dispendio; e potrei, se avessi voglia e tempo, render conto altresì fino all’ultimo denaro, oggi si direbbe centesimo, dei tributi incassati, delle spese compiute e dei mezzi di tesoreria usati negli stati sabaudi dal 1714 al 1798. Si rendeva ossequio alla pubblicità ed al controllo finanziario secondo i criteri e le cognizioni del tempo. Invece di bilanci stampati e distribuiti a parlamentari ed a giunte del bilancio, i bilanci ed i consuntivi erano redatti a mano, discussi dai consigli delle aziende, controllati dagli uffici del controllo generale e della Camera dei conti. Diversa la forma, era identica la sostanza e non so se meno efficace. Lievissime le tracce di sfruttamento dei dominati da parte dei dominanti. Tenui gli stipendi pagati a ministri, ambasciatori, alti officiali, e spiegabili col permanere non tanto delle istituzioni, logorate dal tempo, quanto dei sentimenti feudali, per cui i signori sentivano il dovere di servire il principe.

Prima di astrarre dalla realtà storica, allo scopo di interpretarla, caratteristiche teoriche proprie dei tipi di stato non cooperativi e non moderni importa chiedere: dove e quando esistettero sottotipi dello stato monopolistico diversi dal sottotipo (c), ossia degli stati votati alla propria rovina? Quali furono le caratteristiche precise degli stati monopolistici di tipo A e B ossia auto conservantisi? Quale peso proporzionale ebbe in quegli stati lo sfruttamento dei dominati da parte dei dominanti e la tutela, voluta od inconsapevole, degli interessi di tutti o del gruppo? Se si riscontrasse, per avventura, che negli stati detti monopolistici, durati a lungo la tutela degli interessi di tutti o del gruppo assorbì e non poteva non assorbire la maggior parte, dicasi i nove decimi e più delle risorse pubbliche e solo un decimo fu destinato a gratificazione della classe dominante; e se, in aggiunta, questa decima od altra qualunque tenue parte fu il compenso pagato al ceto dirigente perché tale e perché un qualunque stato ha bisogno di un ceto dirigente e questo è scelto o si sceglie in funzione delle idee del tempo e può prendere talvolta perciò l’apparenza di dominante, classificheremo ancora quello o quegli stati tra i monopolistici? E se no, diremmo che il tipo dello stato monopolistico sia proprio solo degli stati governati a vantaggio di dominanti correnti verso la propria rovina? Se così fosse conserverebbe ancora quel tipo di stato la dignità necessaria per figurare allato ai tipi cooperativo e moderno, dei quali si suppone la persistenza, almeno entro i limiti del tempo, nei quali essi serbino la propria natura e non degenerino nell’opposto tipo monopolistico votato alla rovina? Quali sarebbero, per avventura, le caratteristiche teoriche proprie di quel tipo peculiare di stato? Domande, alle quali non mi attento di dare una risposta; ma alle quali converrebbe rispondere innanzi di attribuire allo strumento logico stato monopolistico la virtù di chiave logica utile ad interpretare e sistemare un aspetto o una sezione dei fatti finanziari. Qui si pone un problema di logica. Storicamente, nessuno stato fu mai monopolistico puro o cooperativo puro e probabilmente nessun stato sarà mai costrutto in modo da potersi considerare puramente moderno. L’obiezione, ripetesi, non ha valore al fine dell’indagine teorica. Quel che monta, anche a codesto fine, è che le caratteristiche assunte, per astrazione dalla realtà, a qualificare, ad ipotesi, lo stato monopolistico siano congrue alla sua propria natura. Deve, sì o no, quello stato agire in modo da provvedere alla propria auto conservazione? Se così agisce, per via logica o non logica, è concepibile che esso non provveda massimamente oltreché alla potenza della classe politica dominante, al benessere ed alla sicurezza dei governati? Se a ciò non intende (sottotipo c), corre o non corre quello stato verso il suicidio? Basterebbe, per render legittima l’indagine, assumere ipoteticamente che lo stato monopolistico sia quello in cui i dominanti esercitano il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati, qualora l’esperienza storica dimostrasse che, nei casi nei quali l’ipotesi si approssimò alla sua attuazione, perciò lo stato correva alla rovina, laddove nei casi nei quali lo stato si mantenne, la realtà fu perciò diversa dall’ipotesi e più vicina, nonostante le forme apparentemente monopolistiche, all’ipotesi teorica dello stato cooperativo?

Badisi che qui non si nega il diritto all’indagatore di porre quelle qualsisiano ipotesi astratte che egli giudica più adatte ai ragionamenti intrapresi; si afferma solo che se le ipotesi fatte hanno, oltreché un intento di esercitazione raziocinativa, lo scopo di giovare alla interpretazione della realtà storica, esse debbono essere da questa astratte e raffigurare aspetti ben chiari di quella realtà. Sembra perciò che non si possano elencare indiscriminatamente fatti appartenenti a tempi e luoghi diversi, senza compiere di essi una attenta ventilazione per collocare ognuno di essi nella sua propria cornice, ed appurarne il vero significato, così da non attribuire allo stato duraturo cosidetto monopolistico caratteristiche che probabilmente -non dico certamente, ché l’indagine è tuttora da fare – sono proprie invece soltanto dello stato monopolistico suicida, del tipo, a cagion d’esempio, della monarchia decadente dei Luigi XV e XVI, di Napoleone dalla campagna di Spagna e di Russia a Waterloo, dello czar Nicola II e simiglianti autocrati dall’orgoglio o dall’eredità fatti ciechi dinnanzi all’abisso.

13. – Dubbi ancora più profondi fanno sorgere le ipotesi degli stati cooperativo e moderno.[8] Sarebbe cooperativa una organizzazione statale «in cui il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza»; e moderna quella «in cui il potere sia esercitato invece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità» (I, 42).

Passo sopra alle complicazioni le quali nascono da ciò che, secondo l’autore della distinzione, il punto del distinguere «sta nel criterio a cui si informa la decisione, più che nei risultati positivi conseguiti»; e dalla coincidenza possibile e frequente dell’interesse particolare dei singoli e della loro maggioranza con l’interesse del gruppo, sicché «perseguendo direttamente e per via logica l’uno, si attui incidentalmente e per via non logica anche il secondo»; o, viceversa «perseguendo in modo diretto e logico la potenza e la conservazione del gruppo, si ottenga il risultato non logico (non previsto né deliberatamente voluto) di procurare a tutti od alla maggioranza dei consociati un guadagno individuale» (I, 49).

E passo sopra anche ad altre complicazioni, fra le quali quella nascente dal modo di esprimere la profezia, secondo la quale «lo stato nazionalistico rappresenta l’ultima e la più viva espressione della evoluzione della civiltà europea, non solo perché viene cronologicamente dopo lo stato assoluto e lo stato liberale, ma perché ne rappresenta una negazione e una trasformazione» (I, 55). Dove, se le parole dovessero essere interpretate alla lettera, non si vede in qual modo lo stato nazionalistico potrebbe essere considerato posteriore a quello assoluto, quando il compito delle grandi monarchie assolute di Carlo V e Filippo II, di Enrico IV e di Luigi XIV fu appunto quello di creare gli stati nazionali al disopra dello spezzettamento feudale e cittadino; e quando stato liberale e stato nazionale nacquero in Italia e in Germania nell’epoca medesima del risorgimento. Ma si tratta di questioni di parole e dell’uso dell’aggettivo nazionalistico oggi superato ed anacronistico, al luogo di quello moderno neutro ed adatto a tutti i tempi.

Sia nello stato cooperativo che in quello moderno non esiste più la distinzione fra dominanti e dominati. Esiste, si, un ceto dirigente politico; ma esso, in qualunque modo sia scelto, per elezione popolare, per cooptazione, per eredità, per autodesignazione, opera nell’interesse esclusivo particolare della totalità o della maggioranza dei singoli cittadini (stato cooperativo) ovvero in quello della collettività (stato moderno).

14. – Dico che, posta la premessa della mancanza di contrasto e separazione fra dominanti e dominati, la distinzione fra i due tipi di stato è logicamente assurda, appunto perché essa si riferisce allo stato ed agli uomini in quanto appartenenti allo stato. Supporre che il ceto dirigente di uno stato cooperativo si possa preoccupare solo degli interessi dei cittadini come singoli, sia pure della totalità o della maggioranza di essi è supporre che esso agisca come se lo stato non esistesse, come se i cittadini di uno stato fossero un semplice aggregato di atomi l’uno distinto dall’altro e riuniti solo dalla opportunità tecnica di conseguire, senza danno di nessuno, taluni vantaggi particolari meglio di quanto otterrebbero con l’opera individuale separata. No. Lo stato non è una mera società per azioni. A causa dello stato i cittadini cessano di essere dei singoli; diventano altri da quel che erano prima o, poiché non esistettero mai fuor di uno stato, da quel che si può artificiosamente immaginare sarebbero fuor di esso; la loro personalità non è più quella dell’uomo, ma dell’uomo vivente in una società organizzata a forma di stato. Non si può, neppure a scopo di mero strumento logico di indagine, immaginare che l’uomo resti, nello stato, il singolo considerato come singolo, ossia come una astrazione; e che si possa fare il conteggio dei singoli e constatare la esistenza di totalità o di maggioranze più o meno grandi.

Noi in verità non sappiamo che cosa siano entità dette uomini isolati, Robinson Crusoè viventi in un’isola deserta, privi di conoscenza di quel che poteva essere stata la loro vita in società e non legati, come era il Robinson Crusoè di Daniele Defoe, ad essa dal desiderio di ritornare a farne parte. I soli uomini da noi conosciuti, anche storicamente o per relazioni di viaggiatori, sono uomini viventi in società e dalla vita comune con altri uomini resi veri uomini, ricchi di cultura, di energia interiore, forniti di passioni di dominio o di fama, ovvero dotati di umiltà e di amore verso gli altri; uomini insomma e non automati simili a quelli immaginati nel tempo dell’illuminismo. La persona, l’individuo nell’uomo diventa più vario e ricco in quanto esso vive insieme con altri uomini e la società o collettività non è un che di distinto dagli uomini che la compongono ed esiste soltanto in quanto essa trasforma gli uomini e da atomi sperduti od automati meccanici ne fa uomini veri. Perciò il concetto degli appartenenti al gruppo pubblico e quello del gruppo pubblico considerato come unità hanno senso solo se considerati unitamente e inscindibilmente l’uno dall’altro; non ne hanno veruno quando si pretenda figurarli ed assumerli disgiuntamente.

Già dissi che lo strumento di indagine, se vuole essere fecondo, deve avere una qualche parentela con la realtà; e la realtà non è quella di un uomo, di cento uomini, di un milione di uomini, ognuno in se stesso considerato e numerato; ma è quella dell’uomo vivente dentro la collettività, trasformato da questa, avente fini che sono tali in quanto egli fa parte della collettività. Discorrere di interessi particolari di ciascuno si può, con moltissima cautela, quando si tratti di faccende private, entro i limiti nei quali lo stato non interviene. Ma se noi pensiamo a scopi che sono perseguiti attraverso o dentro lo stato, noi ipso-facto pensiamo a scopi i quali sono proprii dell’uomo in quanto parte della collettività, scopi, i quali possono riuscire di vantaggio ai singoli non in quanto tali, ma in quanto membri della collettività. Non esistono più, nello stato, interessi particolari ed interessi della collettività; ma gli uni sono fusi negli altri, e gli uni si possono conseguire solo se si conseguono gli altri. Né a caso i ceti dirigenti usano un linguaggio, il quale, se spesso è improprio, è indice della loro consapevolezza della inscindibilità dei fini privati e di quelli collettivi (nel senso di fini proprii della collettività come unità, come insieme). Se sul serio supponiamo, perciò, attuata l’idea dello stato cooperativo, ipso facto vediamo attuata l’idea dello stato moderno.

separatamente assunti, che ne fanno parte. Può trasportare la lettera di Tizio; e così facendo rende servigio a lui e non a Caio. Ma questa è mera tecnica; è un modo economicamente od altrimenti reputato vantaggioso per raggiungere fini che potrebbero altresì essere perseguiti coll’azione individuale: di trasporti ferroviari, tramviari, postali, telegrafici, telefonici, di illuminazione, di istruzione professionale ecc. ecc. Ed è tecnica propria di tutti i tipi di stato, non peculiare allo stato cooperativo. Se lo stato decide di costruire una strada, che i singoli proprietari beneficati – e si può supporre che il beneficio sia ottenuto praticamente solo dai proprietari serviti dalla strada – non riuscirebbero a costruire con accordo spontaneo, l’intervento dello stato è, di nuovo, un mero mezzo tecnico per raggiungere o raggiungere meglio un fine che i singoli sarebbero incapaci a conseguire od a conseguire perfettamente. Ed è mezzo usato da tutti i tipi di stato e non peculiare a quello cooperativo. Ossia, ancora, lo stato detto cooperativo non può, se è stato, limitarsi ai fini che tornano vantaggiosi particolarmente ai singoli od almeno alla maggioranza di essi. Lo stato il quale si limiti a perseguire fini vantaggiosi ai singoli, anche a tutti i singoli non ha vita autonoma. Esso suppone la esistenza di un altro stato, cosidetto moderno, il quale persegua fini proprii della collettività assunta nel suo insieme. Prima esiste lo stato, il quale assicura la vita della collettività, la difende contro il nemico esterno, la conserva e la esalta contro le forze di disgregazione interna (giustizia, sicurezza, istruzione); e tutti questi fini sono proprii della collettività una e indivisibile; sono fini non apprezzabili se non attraverso ad artifici convenzionali, appunto perché essi non sono fini propri degli uomini singoli, soli capaci di valutazione economica. Poi, lo stato, già formato e forte e duraturo, può prendersi il lusso di venire in aiuto dei singoli, assumendo compiti e perseguendo fini che essi da soli non potrebbero perseguire o perseguirebbero imperfettamente: costruire strade vicinali, cercare sbocchi coloniali ad agricoltori e commercianti ed industriali ardimentosi, esercitar poste e ferrovie. Lo stato cooperativo puro è acefalo; ed ha vita puramente complementare a quella dello stato moderno.

Un esempio addotto dal Fasiani è illuminante.

«Durante l’ondata di pacifismo dilagante in Europa subito prima della guerra 1914-18 si è da vari autori negata la convenienza delle Conquiste coloniali, in quanto il costo dell’impresa supera, a loro dire, il valore del flusso di reddito che se ne può trarre.

Prescindiamo pure dal fatto che la conclusione era del tutto arbitraria e priva di qualunque base seria. Ma il modo stesso con cui il problema veniva impostato, dimostra che gli autori che lo proponevano avevano esclusivamente di mira una organizzazione in cui il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza. Soltanto in questa il problema della conquista può assumere l’aspetto di un bilancio fra i sacrifici che i singoli son chiamati a sopportare e i vantaggi che ne possono trarre. In una organizzazione in cui il potere sia esercitato invece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità, il problema è assai più vasto e complesso. La conquista non è più una questione di dare ed avere nel bilancio dei singoli, ma riguarda la sorte del gruppo pubblico come tale: le sue possibilità di espansione, la sua potenza militare e politica, la formazione e la decadenza del suo imperialismo. Non è più in gioco l’interesse del singolo, ma l’interesse del gruppo considerato come unità» (I, 47-48 e 42).

Supponiamo di aver superato le difficoltà di valutazione dei costi e dei redditi dell’impresa coloniale, rispetto alla quale sembra probabile la conclusione che il bilancio si chiuda sul serio in perdita per l’imprenditore (stato o compagnia), rimanendo incerta, perché sinora non indagata, la natura della chiusura del bilancio per i singoli coloniali andati al seguito dell’imprenditore; e supponiamo altresì di aver superato le difficoltà della valutazione dei fini di potenza e di espansione dello stato, concepito come unità, il quale inizia l’impresa coloniale. Dico che il primo bilancio, del costo dell’impresa col flusso dei redditi che se ne possono trarre, non è il bilancio di uno stato; ed aggiungerei anzi che quasi non lo interessa. Concepita come un bilancio di dare ed avere economico, l’impresa coloniale è propria di una società di azionisti perseguenti fini di arricchimento. Se vogliamo attribuirla allo stato, essa pare propria dello stato monopolistico, il cui gruppo dominante la mediti per arricchire se stesso ed i proprii affiliati o cadetti. Una società coloniale per azioni, è, sì, costituita allo scopo di crescere il reddito degli azionisti consociati al di là di quanto costoro potrebbero ottenere se isolatamente e separatamente si avventurassero a colonizzare paesi nuovi o barbari. Ma una società per azioni non è lo stato, il quale, se è tale, deve perseguire fini i quali sono proprii degli uomini in quanto essi facciano parte di una collettività politica. Qual è il bilancio del dare e dell’avere individuale del raggiungimento dei fini della sicurezza, della giustizia, della difesa o potenza nazionale, della pubblica igiene, i quali, da che mondo è mondo, sono caratteristici dello stato, di un qualunque stato il quale sia inteso alla propria conservazione? Se l’organizzazione di cui si parla pensa, iniziando un’impresa coloniale, solo ad un bilancio di costi e di redditi, quella non è stato, è semplicemente una compagnia coloniale, che io anzi direi senza carta, perché tutte le vecchie carte di concessione di conquiste coloniali imponevano obblighi di espansione, di potenza militare, di influenza politica a pro della madrepatria. Se una organizzazione coloniale è veramente stato, se essa emana od è la lunga mano dello stato, essa necessariamente persegue fini di gruppo, fini proprii degli uomini viventi e in quanto viventi nella collettività nazionale della madrepatria. Insomma, lo stato cooperativo o non è stato ovvero è tutt’uno con lo stato moderno; e, qualunque ne sia il nome, si chiama semplicemente stato e persegue i fini suoi proprii.

16. – I fini proprii dello stato, non possono, d’altro canto, essere concepiti fini esclusivi del gruppo considerato come una unità. Se lo stato cooperativo, concepito come perseguente soltanto fini dei singoli che lo compongono, è acefalo; lo stato moderno, concepito come perseguente esclusivamente fini della collettività considerata nella sua unità, è un mostro. L’ipotesi suppone l’assurdo: che possa darsi uno stato il quale operi nel proprio interesse di collettività senza preoccuparsi degli interessi degli uomini vivi che lo compongono. Non è, se si voglia conoscere la realtà, supponibile che nello stato moderno «l’interesse dei singoli sia d’importanza affatto secondaria rispetto all’interesse del gruppo considerato come un organismo». Immaginare che in quel tipo di stato l’attività finanziaria possa essere «perseguita anche se non accresce il benessere individuale della totalità o della maggioranza dei consociati» (I, 43) è fare ipotesi la quale non ha alcun addentellato con la realtà.

Partire dalla premessa che esista una unità detta stato, dei cui interessi la classe politica possa nell’esercizio del potere preoccuparsi esclusivamente, invece che degli interessi particolari di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, è partire da una premessa irreale. Non esiste infatti l’unità stato concepita come distinta dai cittadini dello stato medesimo. Per dare corpo all’ombra fa d’uopo uscire dal campo proprio dei due tipi di stato, cooperativo e moderno; concepire l’esistenza effettiva di un’entità, diversa e sovrapposta agli uomini, ossia entrare nel campo proprio del tipo di stato monopolistico. Se è vero che l’uomo isolato non esiste, se è vero che non esistono i due, i tre, i mille, i milioni di individui componenti la collettività, separatamente considerati, se è vero che i due, i tre, i mille, i milioni di individui sono tali quali sono perché viventi nella società; se è vero che di interessi dei singoli non può parlarsi, se non in quanto essi singoli facciano parte della collettività; se è vero che di interessi della collettività non possa parlarsi se non in quanto essi siano anche interessi dei componenti di essa; è vero che il dualismo fra individuo e collettività è concepibile solo se la collettività si incarni in qualcuno, uomo singolo o gruppo di uomini, ossia si incarni nella classe politica. Cacciato dalla porta il concetto dello stato monopolistico rientra dalla finestra della entità superiore, diversa e trascendente, detta stato concepito come unità.

Si spogli del resto la tesi della sua terminologia crudamente economica. Lo stato non è un ente il quale persegue fini economici, di interessi, intesi nel senso nel quale questa parola è comunemente assunta di vantaggi misurabili in lire, soldi e denari. Lo stato ossia gli uomini viventi nella società politica perseguono fini, economici morali politici, proprii del loro vivere collettivo dentro lo stato. Assumere che essi possano distinguere i fini conseguibili per mezzo dello stato in fini vantaggiosi ad essi come singoli e in altri vantaggiosi ad essi come collettività è risuscitare quel dualismo fra i singoli e lo stato, che apparve già dianzi erroneo discorrendo dello stato cooperativo. Il dualismo fra i singoli e il tutto appare anzi qui sotto un aspetto più terrificante e pericoloso; in quanto è fondato sulla premessa di uno stato il quale pensi e provveda solo alla collettività e non agli uomini che ne fanno parte. La concezione non è moderna; è antica come i tiranni greci, come l’Etat c’est moi di Luigi XIV; è il ritorno alla pagana deificazione dello stato sopra l’individuo. Cristo sarebbe venuto indarno sulla terra se noi non fossimo persuasi che lo stato non ha altro scopo se non la elevazione morale e spirituale dell’uomo vivente nella società dei suoi simili. L’elevazione dell’uomo singolo non può non aver luogo nello stato; deriva dal contatto necessario di ogni uomo libero con tutti gli altri uomini liberi, dalla emulazione reciproca di essi. Non esistono fini dello stato i quali non siano anche fini degli uomini, di tutti gli uomini, dei morti, dei vivi e dei non nati ancora.

Nella società organizzata gli uomini viventi acquistano la consapevolezza del legame inscindibile che li avvince alle generazioni passate ed a quelle future. Non lo stato come ente pensa ai trapassati ed ai nascituri, ma gli uomini associati e fatti diversi, esprimono, per mezzo dello stato, la volontà di perseguire fini, i quali vanno oltre la loro vita caduca e radicati nel passato si protendono nel lontano avvenire. Come potrebbero gli uomini isolati, anche se viventi a milioni gli uni accanto agli altri pensare e provvedere a fini relativi a gente non viva? Gli uomini, insieme viventi, sono essi lo stato. Essi e non qualche cosa di trascendente che stia sopra e al di là di essi, anche se questo qualcosa lo decoriamo col nome di collettività o di gruppo o di stato. Per vedere un tipo di stato il quale persegua esclusivamente fini della collettività, come unità, bisogna ritornare indietro di millenni. Ma forse neppure nell’Egitto o nella Persia antichi si può trovare qualcosa che rassomigli al mostro che ci si vorrebbe presentare sotto la denominazione di stato moderno. Anche allora gli uomini credevano in qualche cosa. Anche quando elevavano le piramidi, e cadevano uccisi dalla fatica, gli uomini credevano di salire così più facilmente in cielo, essi e non la loro mitica unità collettiva.

Migliaia di martiri sono morti per protestare contro l’idolo trascendentale dello stato posto al disopra e fuori degli uomini che lo compongono. Un grande santo e uomo di stato, Tommaso Moro, è salito sul patibolo perché non volle riconoscere che lo stato fosse giudice nelle cose della coscienza; e ammetteremmo oggi che possa esistere uno stato moderno il quale persegua fini proprii del solo gruppo e possa quindi comandare all’uomo, in ubbidienza al gruppo, di violare i comandamenti che la coscienza gli detta?

Sì, un mostro cosifatto di stato può essere esistito; ma non è moderno né compatibile con la libertà dell’uomo. Lo stato moderno è quello e solo quello il quale persegue fini di elevazione morale e spirituale e perciò e solo perciò anche di benessere economico degli uomini nei quali lo stato medesimo si sostanzia e si compone. Elevazione non di ipotetici uomini selvaggi viventi isolati nelle foreste, ma di uomini viventi nella società dei loro simili.

17. – Certo, col sostituire alla nozione di stato, nel quale «il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza» (cosidetto stato cooperativo), o in cui esso sia invece esercitato «nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità» (cosidetto stato moderno), la nozione di stato, nel quale «il potere è esercitato al fine della elevazione morale e spirituale e perciò economica degli uomini viventi in società» noi siamo scivolati od ascesi dalla concezione del dualismo fra stato monopolistico e stato cooperativo (con la variante di moderno) al contrasto dialettico fra stato e non-stato, fra lo stato il quale vuol vivere e durare e il non-stato il quale a quello si contrappone e lo dissolve. Senza volerlo, i teorici i quali come De Viti e Fasiani hanno creato la figura astratta dello stato monopolistico, hanno in quella figura sintetizzato le forze che in ogni momento storico minano l’esistenza dello stato e lo conducono alla rovina.

Lo stato monopolistico, che sia veramente tale e in cui si riscontrino caratteristiche che lo distinguano sul serio dallo stato cooperativo o moderno, è solo quello che sopra fu detto il sottotipo (c) dello stato in cui i governanti per vie non logiche sfruttano i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina. Uno stato in cui ciò non accada potrà essere assoluto od oligarchico, monarchico o repubblicano, retto da uno, da pochi o molti, ma non può dirsi monopolistico, sinché non si sia dimostrato, e sarebbe dimostrazione meravigliosa a darsi, che la sua classe dirigente «eserciti il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati». Ma questo è il non-stato, che sempre è esistito e sempre esisterà accanto allo stato. Sempre, in ogni momento storico, vi è il pericolo che le forze di dissoluzione prevalgano su quelle creative e organizzatrici; che gli egoismi individuali prevalgono sul bene comune. Sinché in un paese sono vive ed operose le forze morali intellettuali ed economiche le quali innalzano gli uomini, esiste lo stato e questo dura, lotta, prospera. Quando nel paese diventano forti e prevalenti le forze le quali degradano gli uomini, può in apparenza durare la forma esteriore dello stato; ma è forma senza contenuto. Al primo urto essa si dissolve e tutti vedono che essa era il non-stato. L’impero romano d’occidente nel quarto e quinto secolo stava dissolvendosi internamente; e, prevalendo in esso le forze disgregatrici, i potenti volgevano a proprio profitto i tributi pagati dai più, invece di volgerli al vantaggio comune.

Quando vennero i barbari, essi altro non fecero se non constatare la scomparsa già avvenuta dello stato.

La distinzione, che appartiene al mondo della realtà e della storia, fra stato e non-stato è ben altrimenti feconda di quella astratta fra tipi di stato monopolistico, cooperativo e moderno. Sempre, in ogni momento e in ogni luogo, coesistono, ad esempio, tributi che accompagnano lo stato nella sua ascesa e ne sono nel tempo stesso effetto e condizione; sempre vi sono altri tributi i quali agevolano il non-stato nel suo fatale percorso verso l’abisso e sono causa e manifestazione della sua decadenza. Sempre gli effetti del primo tipo di imposte sono stati e saranno diversi da quelli del secondo tipo; e gli effetti diversi sono stati e saranno nel tempo stesso effetto e causa e manifestazione della prosperità degli stati e della rovina dei non-stati. Alla luce della distinzione storica tratta dalla realtà i fatti singoli si illuminano e si concatenano; laddove legate a definizioni astratte in materie ribelli all’astrazione, elegantissime dimostrazioni teoriche perdono alquanto del loro splendore di verità sempiterne. Perché, ove si vogliano costrurre sistemi, non costrurre sulla realtà, che è sempre la stessa, ossia è sempre lotta, sforzo, superamento, conquista, frammezzo a caduta e ricorsi, di più alti ideali di vita?

La distinzione fra i tipi di stato monopolistico e cooperativo appare come una distinzione definitoria, la quale lascia nell’ombra la caratteristica veramente fondamentale della contemporanea coesistenza dei due tipi in ogni tempo e luogo. È la coesistenza la quale spiega l’alternarsi delle classi politiche, la decadenza della classe al potere, il sorgere di nuove forze sociali, le quali divengono a poco a poco ceto politico, atto a conquistare il potere ed a volgerlo a vantaggio morale e materiale dei componenti la collettività e nel tempo stesso già provvedute di quei motivi egoistici, i quali col tempo faranno si che il potere venga esercitato nell’interesse dei dominanti, colla rovina della cosa pubblica e del gruppo dominante medesimo. Il contrasto dialettico fra stato e non-stato che sempre coesistono e lottano per la prevalenza è, in altra sede, il contrasto eterno fra Dio e Satana, fra il bene e il male, fra la materia e lo spirito; o, meglio, è il contrasto che è dentro di noi, che ci fa soffrire e godere, che ci salva dalla morte e dal nulla per la vita che è continua lotta, continuo sforzo.

Così scrivendo è chiaro che, travalicando i confini della scienza economica astratta, abbiamo pronunciato giudizi di valore.

18. – Può, del resto, l’economista astenersi dal pronunciare giudizi di valore, intendendo per essi giudizi sul bene e sul male morale e spirituale proprii delle scelte che gli uomini fanno ed allo studio delle quali ragionevolmente si limita, per ragioni di divisione del lavoro, il campo specifico della sua indagine? La domanda non è se egli possa, volendo, astenersi dallo scrivere su problemi sui quali non ha meditato a bastanza; ché, evidentemente se il motivo del silenzio è questo, la astensione è degna di lode. È invece se egli debba essere scomunicato se si azzarda ad uscire fuor dello studio delle scelte fatte dagli uomini, perché colpevole di condotta antiscientifica.

Se è vero che il non-stato coesiste per lo più con lo stato, l’economista, il quale, per definizione, conosce ed indaga i vincoli fra l’uno e l’altro, pone, per suo istituto, in luce le ragioni per le quali si passa dall’uno all’altro e l’uno tende a prevalere sull’altro. Là dove esiste uno stato fornito di indefettibilità, ed in esso, per definizione, la volontà della classe politica è la stessa cosa della volontà di tutti ed insieme della collettività, l’economista, il quale discute di questi problemi, altro non è se non la voce di tutti, la voce della collettività. Egli non può dire: ascolto e registro; poiché se ascolta opinioni o propositi che a lui paiono infondati, egli che è parte della collettività e quindi, per definizione, parla per conto ed a nome della collettività, non può rinunciare a contrapporre argomento ad argomento, a fare che la volontà sua, che egli sa più illuminata, diventi la volontà della collettività.

Sapendo che il dato, dal quale egli dovrebbe nelle sue indagini prendere le mosse, è incompatibile con altri dati che pure sono stati fissati dalla classe politica, o che a lui sono noti per la sua partecipazione, necessaria partecipazione, alla classe politica, egli non può fare a meno di dichiarare siffatta incompatibilità e di spingere la volontà politica, che è la sua stessa volontà, a modificare o l’uno o l’altro dei dati. Egli si decide a favore di una scelta ovvero di un’altra per qualche ragione da lui ritenuta valida; la ragione valida per lui, che la deve render pubblica, è, secondo opinano gli economisti che ragionano utilitaristicamente, quella del vantaggio per tutti o per la collettività; ovvero è, a detta di altri ed a parere dello scrivente, l’imperativo dell’elevazione morale e quindi materiale degli uomini.

Quando Demostene, ahimè! troppo tardi, fece deliberare dal popolo ateniese che il theoricon e, in generale, gli avanzi di bilancio fossero versati nella cassa di guerra invece che distribuirli gratuitamente ai cittadini, egli riuscì nell’intento solo perché seppe far sorgere viva dinnanzi ai loro occhi l’immagine del pericolo, minaccioso per la libertà cittadina, degli eserciti di Filippo il Macedone. La sequenza:

  • la libertà cittadina è per gli ateniesi il bene massimo;
  • la libertà è minacciata da Filippo il Macedone;
  • senza una pronta preparazione alla guerra, la minaccia di Filippo non può essere scansata;
  • la preparazione richiede mezzi pecuniari;
  • la limitazione dei mezzi richiede la rinuncia alla distribuzione del theoricon ai cittadini desiderosi di feste e di spettacoli;
  • feste e spettacoli sono un bene di pregio inferiore a quello della libertà cittadina;
  • quindi importa mutare la scelta: guerra invece di feste e spettacoli; non può essere mutilata solo perché l’economista ritenga di dovere partire dalla scelta già fatta (feste e spettacoli ovvero preparazione alla guerra) dall’assemblea dei cittadini e non si azzardi a pronunciare su quella scelta un giudizio di valore che sarebbe politico-morale. Tutto quel che accade: feste o spettacoli, imposte sui ricchi o sui poveri, imposte alte o basse, imposte che si trasferiscono in un modo o in un altro, che incidono su questi o su quei cittadini, tutto è frutto di giudizii, di atti di volontà; e l’economista, il quale contempla e registra e analizza e concatena scelte, costi di servizi pubblici, tipi di imposte, contempla e registra ed analizza quel che egli stesso, insieme con gli altri, parte inscindibile della collettività, ha giudicato e voluto. Il chimico non può far sì che l’idrogeno e l’ossigeno non siano quel che sono, e non ha d’uopo di formulare giudizi di bene o di male su quel che è come è indipendentemente dalla sua volontà; ma l’economista fa sì, egli insieme con gli altri e per le sue maggiori conoscenze egli più degli altri, che i dati del suo problema siano quel che sono. La sua volontà contribuì alla scelta dei servizi e vi contribuì perché egli sapeva quali sarebbero state le uniformità derivanti dalla scelta fatta e quali sarebbero state le diverse uniformità derivanti da una diversa scelta. Perché la classe politica ed egli con essa ed egli all’avanguardia di essa preferì l’una sequenza di uniformità all’altra? Perché egli ritenne che la libertà cittadina (destinazione del theoricon e degli avanzi di bilancio alla cassa di guerra contro Filippo di Macedonia) era il bene; e che le feste e gli spettacoli erano, in quel momento, il male. Theoricon, avanzi di bilancio, libertà e servitù cittadina, bene e male sono tutti fatti o concetti legati gli uni agli altri; e non esiste alcuna ragione plausibile perché la ricerca scientifica debba arrestarsi dinnanzi al bene ed al male, dinnanzi agli ideali ed alle ragioni della vita quasi si trattasse di intoccabili.

Si potrà dire che, a quel punto, lo scienziato deve chinare, reverente, il capo dinnanzi a qualcosa a cui la sua mente non giunge, ed intorno a che solo i profeti i mistici i filosofi dissero parole illuminanti. Si potrà dire che da quel momento nel quale le scelte sono fatte e registrate, comincia, in ossequio a legittimi canoni di divisione del lavoro, il compito specifico dell’economista: se gli uomini hanno deciso di fare le tali e tali scelte, con tutto quel che segue. Ma se quel che segue a sua volta ha influenza sulle scelte compiute, se i risultati delle scelte e le scelte medesime reagiscono sui motivi di queste, come si può dire: di qui comincia la scienza; e prima c’e… che cosa? Fuor della scuola non esistono i vincoli di cortesia accademica i quali vietano ad un insegnante di usurpare il terreno altrui; e la curiosità scientifica non ha limiti alle sue domande sul come delle cose.

19. – L’atteggiamento di indifferenza dell’economista verso i motivi delle scelte è, probabilmente, radicato nella premessa dei ragionamenti classici intorno al prezzo in caso di libera concorrenza. Quando l’attenzione era rivolta solo allo studio di questo caso, che di fatto dominava di gran lunga su tutti gli altri, l’economista poteva credere che l’azione dell’individuo e quindi sua fosse inetta a produrre, con una scelta diversa, una qualsiasi impressione sui prezzi. L’azione infinitesima del singolo era di fatto nulla rispetto alle scelte verificantisi sul mercato ed al sistema di prezzi che ne seguiva; e poteva essere ritenuto ovvio partire dalla constatazione delle scelte senza risalire più in là nello studio dei legami tra i fatti. Non fu più così quando si cominciò a studiare il caso del monopolio. Si dovette forzatamente ricercare quale fosse il motivo che spingeva il monopolista produttore a scegliere quella quantità di merce da produrre o quel prezzo di vendita. Si dovette ammettere che il monopolista produttore ponesse a fondamento delle sue azioni il motivo, non si sa se bello o brutto, cattivo o buono, del massimo lucro netto. Si riconobbe cioè che quella teoria del prezzo del monopolio non parte dalla mera constatazione di una scelta già fatta; ma dalla premessa che quella scelta di quantità o di prezzo è motivata dalla volontà della consecuzione di un dato fine. Senza quel motivo e quel fine, la scelta sarebbe stata diversa. Oggi, che si studiano i casi di concorrenza imperfetta o di monopoli parziali o bilaterali, gli economisti hanno dovuto costrurre ragionamenti assai complicati intorno all’atteggiamento dei pochi concorrenti o dei monopolisti rivali, ed intorno alle ipotesi che ognuno di costoro fa sui movimenti altrui. I giocatori di scacchi non movono le loro pedine solo sulla base dei movimenti altrui già avvenuti (constatazione di scelte già avvenute) ma cercano di indovinare i motivi che i rivali possono avere di compiere questo o quel movimento futuro. Il generale sul campo di battaglia ragionando sui motivi probabili dell’avversario cerca di intuirne i movimenti e su questi regola i proprii. L’economica moderna è sempre più largamente intessuta di studi sulle previsioni (anticipations è divenuta parola frequentissima, fin troppo, nei libri e nei saggi di economia pura anglosassone) delle azioni altrui e sulle conseguenti variazioni delle azioni dell’individuo considerato. Si potrà dire che ciò non cambia sostanzialmente l’indole del problema; e che, in fondo, l’economista non cerca se non di rappresentare dinnanzi alla propria mente il quadro non solo delle scelte passate e presenti ma anche di quelle future, le quali influiscono sulle scelte e sui prezzi e su tutte le quantità economiche presenti. Se è facile limitarsi a constatare scelte già avvenute e ragionar su queste e contentarsi di cotali constatazioni e ragionamenti, è tuttavia altrettanto facile prevedere scelte future, senza ricostruire colla fantasia i motivi che gli uomini probabilmente avranno di compiere questa a preferenza di quella scelta? Non siamo noi indotti così, quasi a viva forza, a riforgiare l’intiera catena causale che, per ragioni di divisione del lavoro, avevamo spezzato in un punto? Il caso medesimo della libera concorrenza, tipica rappresentazione dell’automatismo di milioni di produttori e di consumatori, tutti di modeste dimensioni, tali che l’azione dell’uno può ritenersi del tutto inetta ad influenzare l’azione degli altri e le variazioni dei prezzi sul mercato, è in verità un meraviglioso artificio. Quell’automatismo, quel muoversi non concertato di milioni di atomi, quell’incontrarsi non preordinato di contraenti, nessuno dei quali sa o si cura dell’azione altrui è in realtà il frutto di un concerto, di una vigile continua azione rivolta ad impedire vengano meno le premesse di quell’automatismo e di quell’apparente disordine. Il concerto e l’azione si chiamano codice civile, codice di commercio, giurisprudenza, giudici, discussioni sulle riviste, sui giornali, nei parlamenti, nei consessi professionali, i quali hanno per fine e vorrebbero avere per risultato – e l’ebbero e l’hanno, qua e là, in maggiore o minor misura – di impedire il sorgere di monopoli, di inventar surrogati alla concorrenza palesatasi in dati casi scarsamente vitale, di abolire o limitare i motivi alla creazione di monopoli e di quasi monopoli. Concerto ed azione sono intessuti di passioni e di azioni rivolte a conquistar dominio su altri od a liberar gli uomini da qualche giogo, a deprimere o ad innalzare.

20. – La convenzione in virtù della quale l’economista puro studia le uniformità più generali di prima approssimazione del sistema di prezzi in regime di libera concorrenza, l’economista applicato le uniformità più vicine alla realtà concreta, e quindi, eventualmente, le forze le quali limitano l’azione della concorrenza e ne indaga gli effetti e indica i mezzi grazie ai quali sarebbero tolti di mezzo gli effetti della limitazione, ed il politico, ed il giurista enunciano i principii o formulano le norme legislative od amministrative atte ad eliminare od a ridurre le limitazioni alla concorrenza, quella convenzione ha una utilità pratica indiscutibile, ma nulla più. Quanto più la rappresentazione che noi ci facciamo della realtà passa dal tipo della istantanea fotografica a quella della cinematografia estesa nel tempo, dalla statica alla dinamica, tanto meglio scelte fatte, scelte future e previste, conseguenze delle scelte fatte e motivi delle scelte future si innestano e si compenetrano le une negli altri, sì da rendere monca e spesso illogica la trattazione separata di ognuno degli aspetti di un unico problema.

21. – La trattazione autonoma di un solo aspetto dell’unico problema è certo perfettamente legittima. Chi vuole studiare le leggi del prezzo in regime di libera concorrenza ha mille ragioni di non voler essere disturbato dalle vociferazioni di coloro i quali gli vorrebbero imporre di dichiarare se, a parer suo, la libera concorrenza sia un bene od un male, sia tollerabile o non dal legislatore liberale o socialista o conservatore o cattolico, sia storicamente destinata a scomparire e, se per avventura scomparisse, sia capace di risurrezione. Chi vuole studiare le leggi dell’imposta in una situazione ipotetica da lui definita con esattezza ha ragione di cacciar fuor dall’uscio i disturbatori, i quali vorrebbero invece che egli desse un giudizio storico o morale o politico intorno ai regimi di monopolio o di concorrenza, che egli ha assunto come premessa delle sue indagini. Contro siffatte prepotenze ogni studioso ha diritto di insorgere.

Il diritto di insurrezione non implica però il diritto di scomunica contro altre ricerche. Chi studia il modo di agire della classe politica, intesa nel senso di gruppo di persone le quali posseggono le qualità, qualunque esse siano, necessarie in quel tempo, per esercitare il comando dello stato ha perfettamente ragione di limitare il suo studio alla classe politica intesa in quel senso e non in un altro. Ma non ha il diritto di escludere che altri studi la medesima classe politica diversamente definita, sì, ad esempio, da legittimare veramente l’uso, altrimenti improprio, della terminologia di classe eletta. L’aveva definita Platone come composta di pochi «uomini divini… i quali hanno saputo serbarsi puri da corruzione». Essi debbono essere ricercati dai cittadini «per terra e per mare, in parte per rafforzare quel che v’è di saggio nelle leggi del loro paese ed in parte per correggere quel che può essere in quelle di difettoso. Non è possibile la perfezione nella repubblica, se non si osservano e non si cercano questi uomini o se ciò si fa male». La concezione della classe politica come quella la quale consiste in quei gruppi di uomini che aspirano alla conquista del potere, o riescono a conquistarlo ed a conservarlo per un tempo più o meno lungo, concezione dominante nei libri classici di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto, non è la sola possibile. Accanto ad essa, esiste non di rado un’altra classe, di uomini che non aspirano al potere, e non di rado sono perseguitati da coloro che detengono il potere. Sono i cristiani dei primi due secoli, i grandi filosofi, i saggi ed i virtuosi d’ogni tempo. Hanno essi il potere morale e talvolta sono assai più potenti di coloro che detengono il potere politico. Costoro compongono la classe eletta. Assai di rado accade che la classe eletta sia chiamata a governare gli stati od abbia parte preponderante e decisiva nel governo. Nascono in quei rarissimi casi gli stati prosperi pacifici e stabili; ed in questi stati tende ad essere osservata la legge morale, le relazioni fra le classi sociali non sono turbate da discordia e da invidia, le condizioni economiche della nazione progrediscono, intendendosi per progresso quella situazione della quale gli uomini sono malcontenti solo perché anelano tuttavia ad innalzare se stessi, e la finanza pubblica è congegnata in modo da riposare sul consenso universale.

Perché non dovrebbe essere oggetto di studio scientifico fra le tante specie di classi politiche e di formule da esse adoperate per governare i popoli anche quella particolare specie la quale, ubbidendo alla legge morale, assicura la persistenza e la risurrezione dei popoli grazie alla formula eterna del decalogo e sola sembra perciò aver diritto all’appellativo di eletta? Perché, astrazion fatta da questi rarissimi quasi leggendari casi di stati governati da una classe eletta, non dovrebbe essere oggetto di studio scientifico l’operare perenne, talvolta inavvertito, ma sempre attivo, della classe eletta a scuotere il dominio delle classi politiche le quali di fatto sono al governo degli stati, ma non potranno durare a lungo se conducano gli stati al male ed alla rovina e seminino i germi della discordia civile e della disfatta militare? Lo studio della classe eletta non è altrettanto rilevante ed ugualmente possibile come quello della classe meramente politica? Non è esso lo studio di quel che dura accanto a quel che passa, delle forze e delle idee le quali guidano l’umanità verso l’alto, accanto a quello delle forze e delle idee le quali lo traggono in basso? Certamente è ardua impresa definire l’alto e il basso; ma la difficoltà non ha mai scoraggiato gli indagatori amanti della ricerca scientifica. Si farebbe grave ingiuria all’intelletto umano se lo si dichiarasse inetto a distinguere fra Dio e Satana. Chi, aborra da siffatte considerazioni quasi fossero estranee alla scienza, ma reputi tuttavia pertinente ad essa l’indagine dell’alternanza delle classi politiche al potere, dei vincoli esistenti fra la composizione delle classi politiche, il tipo e la durata dello stato esistente, la quantità e la qualità delle entrate e delle spese pubbliche;

deve reputare ugualmente pertinente alla scienza: l’indagine dell’esistenza nella collettività di classi elette distinte dalla classe politica, od immedesimate con essa, dei vincoli esistenti fra classe eletta, classe politica, persistenza, decadenza, dissoluzione e resurrezione dello stato, contentezza o malcontento, prosperità o rovina della collettività.

Non pare che classi elette, persistenza, decadenza, dissoluzione, risurrezione, contentezza, malcontento, prosperità, rovina (b) siano concetti di più ardua definizione o descrizione di classe politica, potere, interesse a conquistare ed a conservare il potere (a), né pare che la ricerca dei vincoli esistenti tra i fatti (b) sia di indole diversa di quella dei vincoli tra i fatti (a). Se è vero che i vincoli (a) sono spiegati dai (b) e solo per contrasto o reazione gli (a) spiegano i (b), si deve concludere che, pure essendo amendue scientifiche, la indagine (a) è posta su un piano inferiore a quello (b).

22.- Il diritto di limitare i proprii studi all’investigazione delle leggi del prezzo in regime di concorrenza piena o limitata o di monopolio o polipolio non implica dunque l’affermazione, ben diversa, che la scienza finisca a quel punto e che gli sforzi altrui intesi ad investigare se l’attuazione della concorrenza piena o del monopolio sia o non sia conforme a un certo ideale di vita cadano fuori del territorio scientifico. Il diritto di limitare le proprie investigazioni alle leggi dell’imposta in regime di stato monopolistico arbitrariamente definito non implica altresì il diritto di negare carattere scientifico all’indagine ben diversa sulla conformità ai fatti di quella definizione e sulla logica di altre diverse definizioni dei tipi di stato. Dall’insurrezione non è lecito trascorrere alla scomunica, perché si dichiarerebbe così che l’ipotesi della libera concorrenza o dello stato monopolistico sono meri parti della fantasia solitaria degli economisti in cerca di temi di esercitazione accademica. Se così fosse, se i «se» premessi ai ragionamenti economici fossero assolutamente arbitrari, l’economista potrebbe dire: qui finisce la scienza, tutto ciò che è al di là non esiste, non può formare oggetto di scienza, perché io ho creato il problema, io ho creato i dati di essi; e non devo render ragione a nessuno del perché delle mie creazioni. Ma così non è. I «se» premessi al ragionamento economico non sono creazioni solitarie ed arbitrarie. Sono tratti dalla realtà vivente. Sono astrazioni grandemente semplificate della realtà. Di questa realtà fanno parte le passioni, i sentimenti, gli ideali politici religiosi morali, le idee intorno al male ed al bene, gli interessi di famiglia di classe di regione, i rapporti tra le classi ed i ceti componenti la collettività, la legislazione e le consuetudini vigenti, e così via. Questa realtà, così varia e ricca e mutevole, è grandemente difficile da investigare; ma non vi è alcuna ragione plausibile perché essa non possa formare oggetto di indagine altrettanto scientifica quanto quella che gli economisti hanno costruito attorno alle ipotesi semplificate della libera concorrenza o del monopolio, od i finanzieri cercano di costruire attorno a quelle degli stati monopolistici, cooperativo o moderno. Supponiamo che gli uomini si formino la convinzione che un regime di libera concorrenza sia intollerabile per ragioni morali, che esso urti contro la coscienza umana; e che la convinzione acquisti tale vigore e tale universalità da indurre effettivamente gli uomini a sopprimere ogni traccia del regime di libera concorrenza. Anche gli economisti finirebbero di abbandonare una premessa di ragionamento priva di qualsiasi addentellato con la realtà. Quale interesse esisterebbe a studiare leggi di fatti inesistenti? Altrove[9] ho scritto che se la scomparsa della libera concorrenza si verificasse a favore di un regime a tipo collettivistico o comunistico, finirebbero persino di esistere gli economisti. Altri investigatori prenderebbero il loro posto: non so chi o come qualificati, probabilmente descrittori di pubbliche contabilità o di gestioni amministrative. Tanto stretti sono i vincoli fra la realtà e l’indole della scienza che quella realtà a volta a volta consente di creare.

23. – Noi non possiamo porre alla impostazione scientifica dei problemi economici limiti atti ad escludere i giudizi di valore. Se in uno stato, nel quale la classe politica si preoccupi, nell’esercizio del potere, esclusivamente dell’elevazione morale ed intellettuale e perciò anche materiale della grande maggioranza e possibilmente di tutti gli uomini componenti la collettività, si osservi dominare il concetto della esenzione dall’imposta di un minimo non solo fisico ma sociale di esistenza, diremo noi che la impostazione scientifica del problema dell’esenzione del minimo sociale consista semplicemente nel prendere atto, come di un dato, della opinione espressa in merito dalla classe politica? È vero che l’andare al di là di questa constatazione, il cercare di rendersi ragione del valore morale del minimo accolto sia un uscir fuori dal campo scientifico? Non si vuole con ciò menomamente indagare se sia ragionevole il tentativo di andare alla cerca del vero o giusto o perfetto minimo sociale. Non v’ha dubbio che non esiste un criterio perfetto di giustizia in tal materia opinabile; ed avrei invano irriso ai miti della giustizia tributaria se ritenessi logica la costruzione di qualche altro mito del genere. Il quesito è diverso. Suppongasi che in un determinato momento storico il legislatore, organo sensibilissimo dell’opinione del ceto politico dirigente e dei sentimenti del popolo governato, tenuto conto del livello dei prezzi e dei redditi e del costo della vita, abbia deliberato che il minimo sociale di esistenza per cui sia da concedersi la esenzione dalle imposte, sia di 6000 denari[10] all’anno per famiglia. Diremo noi che a chi si proponga soltanto di studiare le uniformità del fenomeno finanziario non spetti menomamente il compito della soluzione del problema del miglior minimo sociale di esistenza, e cioè dell’esame critico della soluzione adottata; e che lo scienziato debba accettare senz’altro quella soluzione come un dato dei problemi di cui egli specificamente si occupa? Diremo noi che si debba scetticamente contemplare la soluzione accolta dalla classe politica come un giudizio il quale «può essere buono o cattivo, giusto o ingiusto, sensato o no, a piacere di questo o quel finanziere»; ma è «per lo scienziato» meramente «un fatto, un dato dei problemi di cui si occupa» (II, 59-60)? Mai no. Non vi è affatto alcuna necessità logica la quale costringa lo studioso a spogliarsi volontariamente e gratuitamente degli attributi della sua virilità scientifica. Quei 6000 danari all’anno per famiglia non sono affatto l’ultima Thule della sua ricerca. Appunto perché sono un dato del problema che egli deve studiare, essi non hanno alcuna particolare degnità; ed egli li può voltare e rivoltare in tutti i sensi e dopo avere studiato gli effetti del dato, risalire alle origini di esso, col sussidio di altri dati pertinenti o non al suo proprio campo di investigazione. Se, a cagion d’esempio, studiando gli effetti dell’applicazione del dato, egli riscontrasse l’uniformità: «dati i 6000 denari di esenzione per ogni famiglia dall’imposta, nasce un disavanzo di 5000 su 30.000 milioni nel bilancio dello stato nel luogo e nel tempo di cui si tratta» non ne discenderebbe forse l’altra uniformità: «poiché la situazione di disavanzo di 5000 su 30.000 milioni non può durare, è necessario che mutino altri dati del problema: o che si tratti di accendere un debito annuo di 5000 milioni, o che si riducano le spese di altrettanto o che, se ambe le vie non siano accette alla opinione dei ceti politici dirigenti, si modifichi il minimo, riducendolo, suppongasi, da 6000 a 4000 denari»?

24. – Non è così dimostrato che i 6000 denari fissati, ad ipotesi, dal ceto politico dirigente non sono affatto il dato del problema per lo scienziato; che la cosidetta opinione o giudizio del ceto politico è qualcosa che egli contribuisce a formare ed a modificare, lui scienziato, colla analisi degli effetti che dall’adozione di questo o quel minimo derivano o deriverebbero al bilancio dello stato? È uscito lo scienziato, così facendo, dal suo campo proprio? Ha dato consigli? Ha proposto ricette? Si è fatto paladino della assoluta o perfetta giustizia tributaria? Ha preteso di sostituire il suo giudizio a quello della classe politica? Ancora no. Si è semplicemente appellato dal papa male informato al papa bene informato. Ha semplicemente esposto alcune ulteriori uniformità che paiono anch’esse di natura strettamente scientifica. Ha detto: se questo è il dato, se questa è la premessa, queste sono le conseguenze; se il dato muta in un dato senso ed in una data misura, queste altre sono le conseguenze. Se noi supponiamo che l’equilibrio del bilancio sia un altro dato, sta che equilibrio del bilancio e 6000 denari esenti dall’imposta sono, in quelle contingenze di luogo e di tempo, due dati incompatibili tra di loro. Dopo di che, parrebbe che il giudizio definitivo sia di nuovo lasciato alla classe politica dirigente. Ma questo sarebbe un modo assai improprio di esprimersi. La classe politica dirigente, la quale non governi nell’interesse proprio, ma in quello della elevazione degli uomini componenti la collettività, non dà, non può dare un giudizio arbitrario. Dà il giudizio che deve dare, posto il fine che per la sua indole deve raggiungere. Altrimenti cadremmo fuori dell’ipotesi di una classe politica dirigente la quale ecc. ecc. (come sopra). Epperciò, se noi supponiamo, come dobbiamo, che lo scienziato sia colui il quale, conoscendo tutti i dati conoscibili del problema che si tratta di risolvere: esigenze di minimo sociale di esistenza, esigenze di bilancio, struttura del sistema d’imposta, possibilità e convenienza di variare l’ammontare delle spese pubbliche e private, possibilità e convenienza di indebitamento dello stato e, sovrattutto, fine di elevamento umano, antivede anticipa e sollecita la soluzione del problema che in definitiva dopo ripetute esperienze, sarà data dalla classe politica dirigente, noi neghiamo che scienza sia quella la quale si limita a prendere atto delle premesse volute dalla classe politica. Sottoponendo ad esame critico le prime provvisorie soluzioni, esaminandone e chiarendone gli effetti, lo scienziato compie opera che in apparenza è di critica, in sostanza è rivolta alla conoscenza di uniformità nel modo di comportarsi dei dati, da lui esaminati ad uno ad uno e nel loro insieme. Se egli conosce maggior numero di dati di quelli noti alla classe politica dirigente, dovrebbe forse far finta di ignorarli?

Che cosa sono questi paraocchi che taluni scienziati puri si vorrebbero mettere e che vieterebbero ad essi di guardare al di là delle opinioni manifestate dalla classe politica dirigente? Egli non indirizza ad essa male parole; ma candidamente tiene conto anche dei dati, a lui noti e per inavvertenza (nel caso dello stato moderno) o per interesse proprio (nel caso dello stato monopolistico) ignorate dalla classe medesima. Talvolta, nell’ansia di compiere il dover suo, egli dimentica di dare alle sue conclusioni la forma ipotetica del se e pare egli consigli e comandi o giudichi. In realtà, qualunque sia la forma del suo discorrere, egli adempie al dover suo che è di tener conto, nell’indagine, di tutti i dati del problema di cui egli è a conoscenza. Se pochi, la sua soluzione del problema sarà imperfetta; se molti, meglio si avvicinerà a quella perfezione alla quale giustamente aspira.

Lo studioso, il quale non va al di là del giudizio della classe politica, fa come Ponzio Pilato: si lava le mani del vero problema scientifico. Se egli assume che i 6000 denari del minimo sociale di esistenza siano il dato del problema che non può criticare, perché tale è la opinione in merito del ceto politico dirigente, egli non fa opera scientifica. Il nome dell’opera sua è un altro: egli serve qualcuno e merita il titolo di giurista dell’imperatore.

25. – In verità, non merita questa taccia lo studioso il quale semplicemente metta in luce la impossibilità della coesistenza di due o più dati contemporaneamente posti dalla classe politica. Eccolo diventato senz’altro critico. Illustrando le incompatibilità reciproche di parecchi dati posti nel tempo medesimo dal legislatore, i critici sono tratti fatalmente a passare oltre i limiti che essi avevano posto dapprima alla propria indagine. Né essi veggono un limite qualsiasi alla loro analisi critica. Se è ovvio che lo scienziato metta in rapporto il dato 6000 denari all’anno con i dati relativi al bilancio dello stato, al livello medio dei redditi, alla composizione economica delle classi sociali, perché non sarebbe altrettanto ovvio metterlo in rapporto con altri dati o forze, storicamente più rilevanti? Perché non, ad esempio, con le conseguenze della politica del panem et circenses? Esentare, oltre il minimo fisico dell’esistenza, un’aggiunta al minimo stesso, detta sociale, non è riconoscere il principio che le classi più numerose della società debbano godere dei servigi pubblici senza nulla pagare allo stato? Facciasi astrazione dalla circostanza che per lo più il minimo sociale d’esistenza in realtà non è tale sul serio, perché le classi più numerose pagano imposte sui consumi più che bastevoli ad assolvere il loro debito verso la cosa pubblica; e suppongasi che sul serio quel minimo sia rispettato. Può lo scienziato non porsi il quesito: quali conseguenze saranno per derivare dal dato rispetto all’ammontare delle pubbliche spese ed alla distribuzione del loro costo? Quale finirà di essere la pressione dei tributi sulle classi rimaste sole a sopportare l’onere? Quali saranno gli effetti sulla produzione e sul risparmio? Quali gli effetti se il dato fosse diverso, maggiore o minore? Quali gli effetti del dato sul morale dei beneficati e dei contribuenti? Ossia sui loro sentimenti e sulla loro condotta verso lo stato? Il principio che l’uomo provveduto di un reddito famigliare non superiore ai 6000 denari all’anno ha diritto ai servizi gratuiti dello stato in qual modo reagirà sulle opinioni e sullo stato d’animo di coloro i quali hanno i 7000 o gli 8000 denari all’anno? In qual modo reagirà sull’ammontare dei servizi pubblici i quali via via saranno chiesti allo stato dai ceti forniti, in principio, del diritto di goderne gratuitamente?

A poco a poco lo stato non tenderà a passare dal tipo della città periclea a quello della Atene vittima designata di Filippo il Macedone, dal tipo di Roma repubblicana a quello di Roma del basso impero? Sebbene, a questo punto, lo studioso sia obbligato, pur industriandosi a salvare la forma, a pronunciare giudizi di valore sulla preferibilità della città periclea a quella demostenica o della Roma repubblicana all’impero dioclezianeo, non appartengono forse codesti quesiti altresì al campo proprio dell’indagine scientifica, della ricerca di uniformità teorico-storica? Da a nasce b, da b nasce c; e c reagisce su b e su a.

26.- Non si afferma con ciò menomamente che il ricercatore debba occuparsi di tutti codesti quesiti; e risalendo dall’uno all’altro, debba giungere alla contemplazione della causa causarum. Bene fa colui il quale vuole scavare a fondo in un dato campo a circoscrivere esattamente il territorio delle sue investigazioni ed a dire: più in là io non aspiro ad andare.

Così operano gli studiosi serii e meritano lode. Altra è tuttavia la divisione del lavoro ed altra è la scomunica. Altro è dire: più in là non vado; altro soggiungere: quel che è al di là non è scienza. Porre la volontà intenzionale del ceto politico dirigente come un dato e partire da quel dato è per fermo un porre correttamente i confini del proprio ragionare. Ma non è corretto soggiungere: quel dato è un primo al di là del quale non è ufficio della scienza di andare. Senza volerlo, col solo chiarire gli effetti, io contribuisco a modificarlo, io stimolo a mutarlo più o meno profondamente. Mettendo in luce i vincoli di quel dato con altri dati, dipendenti o indipendenti dal giudizio del ceto politico governante, io dimostro che esistono certe leggi, certe uniformità le quali fanno sì che quel dato riveli la sua indole caduca e stabile, apparente o sostanziale. Intervengo nella formazione dei giudizi; giudico io stesso. Possono ragionevolmente gli economisti sottrarsi alla necessità di formulare giudizi di valore? Certamente, se, giunti al limine di questa necessità, tacciono, essi possono a testa ben alta affermare di aver compiuto la loro missione od almeno, la parte più ardua e nobile di essa. Si pensi alle maniere solitamente tenute dalla classe politica nei tentativi di dimostrare la convenienza economica per la collettività di provvedimenti intesi a favorire interessi particolari. Si vuole un dazio doganale protettivo, il quale, con danno dei più dei consumatori e produttori, avvantaggi una particolare industria e talvolta un singolo imprenditore? Sempre si dirà che il dazio giova a dar lavoro agli operai, a redimere il paese della servitù straniera, a far rimanere oro in paese. Se l’economista, oggettivamente analizzando il provvedimento, dimostra che l’occupazione operaia sarà invece probabilmente ridotta, che la servitù straniera è un mito inesistente e che la quantità d’oro esistente in paese certamente non aumenterebbe grazie al dazio, egli avrà assolto nel tempo stesso al suo specifico compito scientifico ed alla difesa della morale politica; poiché è immorale trarre in inganno l’opinione pubblica facendo apparire conforme all’interesse pubblico quel che invece conduce soltanto al particolare vantaggio privato.

Del pari, accade che la classe politica, la quale intende ad un allargamento del territorio metropolitano o coloniale, cerchi di rendere popolare il proposito affermando che la conquista sarà feconda di vantaggi economici non pochi e non piccoli per i ceti più numerosi della popolazione della madrepatria. Se l’economista, indagando le probabili conseguenze della conquista, giungerà ad opposta conclusione; se egli dimostrerà che la conquista sarà invece cagione di oneri economici non lievi, che essa imporrà sacrifici notevoli e lungamente duraturi alla madrepatria, che, ove si raggiungano col tempo gli scopi di ampliamento della civiltà che stanno al sommo delle dichiarazioni dei promotori dell’impresa, saranno sovratutto beneficate le popolazioni indigene, alle quali saranno recati i doni della istruzione, della igiene, della tecnica, laddove la colonia darà qualche vantaggio solo ad alcuni pochi commercianti ed imprenditori agricoli metropolitani; se egli metterà in luce che la meta finale della conquista, compiuta effettivamente con intenti di diffusione del vivere civile, sarà di destare col trascorrere del tempo nelle popolazioni coloniali l’aspirazione alla indipendenza e quindi alla separazione di fatto, se non formale, dal corpo metropolitano; non avrà egli, tenendosi stretto rigidamente al suo proprio campo di analisi economica, compiuto perciò opera politica di altissima moralità? Una impresa coloniale mossa dalla speranza di lucro economico conduce a breve andare a disillusioni economiche, epperciò presto fiaccamente è abbandonata a metà o, se pur condotta militarmente a termine, non è seguita dalla necessaria lunga costosa opera di costruzione economica e politica. Se invece essa, conformemente alle conclusioni dell’economista, è iniziata avendo ben chiara dinnanzi alla mente la nozione dei costi e dei sacrifici presenti e dei vantaggi indiretti lontanissimi, le sue probabilità di riuscita saranno ben più grandi. Chi costruisce sapendo che non lui, ma i suoi lontani nepoti e sovratutto genti a lui ignote e forestiere godranno il frutto dell’opera sua, quegli costruisce per l’eternità, quegli abbrevia, appunto perché non vi intese, i tempi della riuscita, quegli veramente procaccia grandezza alla madrepatria.

L’economista, il quale, posto dinnanzi ad un proposito dell’uomo di stato, freddamente ne indaga gli effetti e ne studia le relazioni necessarie con altri propositi e con altri istituti, e più in là non si attenta di andare, ci appare dunque come un vero sacerdote della scienza. Indagare verità, non dar consigli: ecco la sua divisa che più faticosa e ardua e moralmente coraggiosa non si saprebbe immaginare.

27. – Ma, indagando verità, lo studioso inevitabilmente pone a se stesso la domanda: posso io evitare di dare un giudizio sulle opinioni, sulle credenze, sulle deliberazioni dei ceti politici; il che, nei tipi di stato cooperativo o moderno, quando lo stato è l’eco della volontà dei governati, interpretata dalla classe politica, vuol dire un giudizio sulle opinioni, sulle credenze, sulle deliberazioni degli uomini viventi in società? Par certo che, dati certi fini, si fanno certe scelte, e, dati altri fini, si fanno altre scelte. Ed anche questa è una uniformità scientifica. Gli economisti la possono bensì espellere dal territorio che essi hanno impreso a coltivare; ma poiché non esiste nessuna ragione plausibile per fissare i confini di un qualunque territorio scientifico secondo una linea piuttosto che secondo un’altra, vi potrà essere qualcuno diversamente curioso degli altri, il quale legittimamente studierà i vincoli tra fini e scelte, non foss’altro per indagare se la consacrazione che egli ha fatto di se stesso a quella scienza non sia per avventura sacrificio ad idolo privo di anima.

Gli economisti hanno le loro sorti legate a quel tipo di società in cui gli uomini compiono le loro scelte liberamente, entro i limiti posti dalle istituzioni, dalle tradizioni, dai costumi, dalla cultura, dalle leggi, dal clima, dall’ambiente politico sociale religioso e morale, dall’indefinito vario moltiplicarsi dei desideri in relazione ai redditi delle diverse classi sociali. Dire che le scelte sono determinate dai fini voluti dagli uomini, è dire che esse sono in funzione dei varii e molti fattori, i quali compongono i fini; e poiché fra i fattori e le scelte fatte intercedono rapporti che possono essere quantitativi non si vede la ragione decisiva perché gli economisti debbano fermarsi nelle loro indagini al fatto scelta.

Se si vuole, chiameremo economisti alfa gli indagatori delle uniformità successive al fatto scelta; e economisti beta coloro che indagano altresì le uniformità che, attraverso le scelte, legano, ad es., i costumi, le leggi, le istituzioni, la distribuzione dei redditi ai prezzi. Ma la differenza sarà di mera divisione del lavoro e priva di contenuto sostanziale. E poiché non tutti i motivi delle scelte sono misurabili quantitativamente, quale ostacolo vieta, in nome della scienza, all’indagatore di pronunciare un giudizio intorno alla relativa dignità dei diversi motivi e dei diversi fini perseguiti dagli uomini? Necessariamente, quando non si voglia rinunciare all’uso della ragione, si è indotti da ultimo a formulare giudizi morali sui motivi delle proprie scelte decisioni ed azioni private e pubbliche. Perché a questo punto, così strettamente legato con le scelte fatte, dovrebbe tacere la scienza? Perché gli economisti, con viso arcigno, dovrebbero ringhiare: fate voi politici, fate voi uomini: create una società liberale o comunistica o plutocratico-protezionistica ed io, serenamente, oggettivamente, studierò le relazioni tra i fatti, qualunque siano, che voi avrete creato. No; serenità ed oggettività non esistono nelle cose umane. L’economista il quale sa quali siano le leggi regolatrici di una società economica liberale o comunistica o plutocratico-protezionistica non può non aver fatto, a norma del suo ideale di vita, la sua scelta; ed ha il dovere di dichiararne le ragioni. Chi, al par dello scrivente, aborre dall’ideale comunistico o plutocratico- protezionistico non può far a meno di palesarsi fautore dell’ideale liberale;[11] e questa visione della vita non può fare a meno di esercitare un’influenza preponderante sulla trattazione, che egli fa, dei problemi economici. Quasi tutti gli economisti, anche quando hanno simpatie operaie o socialistiche o interventistiche, in sostanza vogliono osservata la condizione fondamentale della libera scelta da parte degli uomini dei proprii fini e quindi anche dei proprii consumi. E poiché questa condizione è incompatibile con la persistenza di un ordinamento comunistico o plutocratico-protezionistico, essi implicitamente vogliono un ordinamento liberale della società. Perché astenersi studiosamente dal manifestar questa che è la loro fede? Ma i classici furono reputati grandi anche perché ebbero una fede e compirono indagini astratte durature perché le premesse dell’indagare erano poste dalla fede che avevano in un certo ordinamento sociale. Se avessero avuto altra fede, avrebbero poste altre premesse; ed i loro ragionamenti sarebbero stati probabilmente infecondi, così come furono nel tempo stesso scientificamente infecondi i ragionamenti di coloro che erano partiti da ideali utopistici o, come Marx, derivarono la premessa del valore-lavoro dal fine di sommuovere le moltitudini contro il mito capitalistico. Se le premesse ed i ragionamenti degli economisti furono fecondi di grandi risultamenti scientifici, grazie debbono essere rese anche ai loro ideali di vita. Consapevolmente o non, essi possedevano e posseggono un certo ideale; ed in relazione ad esso ancor oggi pensano e ragionano. Perché tacerlo; e perché chiudere gli occhi dinnanzi ai legami strettissimi i quali intercedono fra quel che si vuole e quel che si fa? fra l’ideale e l’azione? Che cosa sono codesti fatti, dei quali soltanto la scienza dovrebbe occuparsi, se non il risultamento delle azioni umane, ossia, da ultimo, degli ideali che muovono gli animi?


[1] Nota del Socio nazionale Luigi Einaudi presentata nell’adunanza del 17 febbraio 1943 della classe di scienze morali della Reale Accademia delle scienze di Torino [Ndr.].

[2] La dichiarazione è implicita nei Principii di economia finanziaria (Torino, Einaudi, 1938) dell’originatore dello schema Antonio De Viti De Marco ed è esplicita nei Principii di scienza delle finanze (Torino, Giappichelli, 1942) di Mauro Fasiani che ho recensito nel quaderno del marzo 1942 della «Rivista di storia economica». Le citazioni che si faranno qui di seguito colla indicazione, tra parentesi, del numero romano del volume ed arabico della pagina si riferiscono a questa segnalata opera.

[3] (Avendo anch’io commesso il peccato comune agli insegnanti di scrivere o dover scrivere i miei Principii di scienza delle finanze (Torino, 1940).

[4] Vedine un cenno nel par. 3 della mia recensione nel quaderno del marzo 1942 della «Rivista di storia economica». A quel cenno intorno alla mancanza di connessione logica fra una certa definizione dell’imposta generale e la presenza del tipo monopolistico di stato seguì una corrispondenza, la conclusione della quale pare potersi riassumere così: 1) lo scrivente nega quella connessione perché ritiene che ove si definisca generale un’imposta quando, anziché «un ristretto settore di economia» percuota, sia da sola, sia costituendo con altre un insieme, «vasti settori o, al limite, tutti i settori» della medesima economia (F. I, 258), l’ipotesi della esistenza di un’imposta generale non è necessariamente legata con l’ipotesi della esistenza dello stato monopolista; e con quest’ultima non è necessariamente legata la stessa ipotesi, quando essa riceva l’ulteriore connotato che il gettito ne sia impiegato a crescere i redditi dei dominanti. Non è dimostrabile cioè che solo nello stato monopolistico possa istituirsi «un’imposta generale il cui gettito sia impiegato a crescere i redditi di taluno, ossia di una parte sola di coloro i quali hanno pagato l’imposta», che è il modo generico di formulare il concetto particolare che il gettito sia devoluto a crescere il reddito di certe persone dette dominanti. Un’imposta di questo tipo può postularsi anche nel caso dello stato cooperativo o di qualunque altro tipo di stato, bastando pensare alle imposte il cui gettito, ottenuto da tutti o da molti cittadini è impiegato a favore di altri o di alcuni solo tra essi: interessi del debito pubblico, pensioni di vecchiaia e simili (le cosidette transfer expenditures, le quali non implicano per se stesse il consumo di beni e servigi e sono diverse dalle exhaustive expenditures, le quali implicano una controprestazione da parte del beneficiario: stipendi a pubblici funzionari, pagamento di forniture allo stato, ecc. e cioè il consumo di beni e servigi i quali non possono perciò essere altrimenti impiegati. (Cfr. Pigou, A study in public finance, p. 19-20). Quindi non essendo il concetto dell’imposta generale il cui gettito sia destinato a crescere il reddito di taluni a spese di altri collegato logicamente e necessariamente col concetto dello stato monopolistico, l’ipotesi di quest’ultimo è superflua e non aggiunge nulla alla trattazione che degli effetti dell’imposta generale, con o senza il connotato anzidetto, si può fare; 2) ma il Fasiani replica essere «pretesa arbitraria ed eccessiva» quella della «dimostrazione dell’appartenenza esclusiva delle transfer expenditures allo stato monopolista» o l’altra della «dimostrazione che effetti di un tal genere non possano essere studiati nell’ipotesi dello stato cooperativo o moderno. In questo problema, come in tutti gli altri, basta molto meno. Basta il concetto di tendenza e di norma… Io non contesto che anche in uno stato cooperativo esistano imposte le quali trasferiscono redditi: ad es., da coloro che non posseggono titoli di debito pubblico a coloro che li posseggono. Non nego quindi che si possano studiare gli effetti di un’imposta di tal tipo anche nell’ipotesi di uno stato cooperativo. Dico però che tendenzialmente, nello stato cooperativo, l’imposta non è di tal genere, mentre lo è nello stato monopolistico. Sicché la sede più appropriata per studiarne gli effetti, gli è quella dell’ipotesi di uno stato monopolista e non quella di uno stato cooperativo. Se queste proposizioni sono esatte, ne deriva questa conseguenza: col mio modo di impostare un problema, io so che gli effetti tendenziali dell’imposta nello stato monopolista sono quelli di un tributo trasferente redditi; mentre gli effetti tendenziali dell’imposta nello stato cooperativo sono quelli di un tributo il cui gettito è impiegato in una exhaustive expenditures»… E questa «credo sia una verità più generale di quella che si ottiene studiando gli effetti dell’imposta indipendentemente dal tipo di stato in cui si applica».

A questo punto la discussione potrebbe aver termine, essendo ormai i disputanti d’accordo nel ritenere che tra le due ipotesi – imposta generale con semplice trasferimento di reddito e stato monopolista – non esiste una connessione, logicamente necessaria, ma un’altra specie di connessione, che il Fasiani dice di tendenza o di norma (frequenza). Diremo astratta o empirica siffatta connessione? Le verità che se ne deducono sono uniformità logiche o uniformità empiriche? Che cosa vuol dire verità più generale applicata ad un’ipotesi, la quale, come fatto empirico o storico, ha nello stato cooperativo o moderno verificazioni (interessi del debito pubblico, pensioni di vecchiaia, di invalidità, indennità di assicurazione per infortuni, disoccupazione ecc., istruzione gratuita, spese sociali per giardini teatri divertimenti pubblici ecc.) forse più imponenti, e si vorrebbe dire a guardarne la massa assoluta e quella relativa al reddito nazionale, di gran lunga più imponenti di quelle (appannaggi reali, spese di corte, spese di fasto, mantenimento delle varie specie di pretoriani, oligarchi e loro satelliti ecc, ecc.) che si osservano, sempre fatta ragione al reddito nazionale del tempo, negli stati detti monopolistici? Se anche sia impresa ardua e probabilmente vana il dare giudizio comparativo sull’imponenza relativa di quelle spese nei due tipi di stato, sembra legittimo il dubbio se non convenga, invece di generalità maggiore o minore delle verità assodate, disputare di mera convenienza didattica di seguire l’un metodo o l’altro di esposizione. Il primo, che sarebbe quello da me preferito: di studiare gli effetti delle imposte, facendo astrazione del tipo di stato nel quale possono eventualmente, con maggiore o minor frequenza, verificarsi; che è indagine teorica od astratta, compiuta sub specie aeternitatis; riservandosi di indagare poscia in sede teorica-storica in quali tipi di stato le diverse qualità di imposta ed i loro effetti proprii più frequentemente si verifichino. L’altro metodo, che sarebbe preferito dal F., vuole indagar prima quali maniere di imposte siano tendenzialmente proprii dell’uno o dell’altro tipo di stato, allo scopo di trattare separatamente, a proposito dell’uno e dell’altro tipo, delle maniere di imposta ad esso più confacenti. A proposito del quale metodo, lo scrivente non riesce a liberarsi del senso di inquietudine derivante dal non sapere se ci si trovi dinnanzi a leggi astratte ovvero empirico-storiche; inquietudine nel caso specifico fugata dal nitido fulgore delle dimostrazioni che, dimentico dei tipi di stato, il F. immediatamente dà in sede di teoria astratta di traslazione delle imposte.

[5] Si errerebbe supponendo che le considerazioni le quali seguono nel testo siano una critica delle teorie che sulla base di certe definizioni dello stato sono esposte dal De Viti e dal Fasiani. Devesi riaffermare esplicitamente che lo studioso ha diritto, in sede astratta, di porre quella qualunque definizione dello stato che a lui piaccia. Non ha rilievo, in quella sede astratta, verificare se le definizioni date dello stato monopolistico o cooperativo o moderno raffigurino o meno la realtà. Nel mondo di ipotesi teoriche in cui quelle trattazioni si muovono importa solo verificare se i ragionamenti condotti sulla base di quelle ipotesi siano corretti ed illuminanti. Se si faccia la ovvia riserva di possibili discussioni intorno a particolari problemi, ad es. quella accennata nella nota precedente, le opere ricordate del De Viti e del Fasiani eccellono per la chiara maestria del dedurre logicamente teoremi rilevanti da premesse chiare.

Il quesito che qui si pone è un altro, diverso da quello proprio della discussione ipotetica. Sono quelle definizioni dei diversi tipi di stato altresì atte ad interpretare la realtà storica? Non era affatto necessario che il De Viti, il Fasiani od altri ancora si ponessero il quesito; né, se lo posero, faceva d’uopo lo discutessero. È frequente nei recensenti il brutto vezzo di rimproverare agli autori di non avere studiato un problema diverso da quello che essi vollero porsi. Questa è critica impertinente, comune in coloro che, impotenti a condurre a termine indagini proprie, sempre si lagnano che altri, che pur fece, non abbia fatto meglio o diversamente. Non è però illegittimo reputare che le ipotesi presentate od i ragionamenti condotti in un libro possano anche dar luogo a quesiti diversi da quelli propostisi dall’autore considerato; e nel testo si vuole appunto discutere uno di questi diversi quesiti. Nel qual modo pare si dia anzi più ampio rilievo alle premesse poste dagli autori considerati, discutendo se esse, oltre ad essere strumento di indagine teorica, siano per avventura altresì canone atto ad interpretare la realtà. La conclusione eventualmente negativa può giovare a segnalare i limiti della validità concreta dei teoremi correttamente dimostrati veri nella loro propria sede astratta.

[6] Il F. talvolta qualifica il tipo così definito come assoluto o medievale (I, 51 e passim). Ma poiché si tratta evidentemente di sinonimi approssimativi, sui quali il pensiero non si ferma e dei quali solo in senso latissimo e parziale si vede l’uguaglianza di significato con il qualificativo comunemente usato adopererò solo la terminologia normale di stato monopolistico.

[7] Si può dubitare se lo strumento detto dello stato monopolistico abbia avuto parte nella formazione della teoria delle illusioni finanziarie se si pensa che il suo primo trattatista lungamente ne discorse senza farne menzione. Almeno questa è l’impressione che si ha nel leggere la Teoria della illusione finanziaria di Amilcare Puviani (Palermo, Sandron, 1903). È del pari dubbio se la teoria dei «limiti ai fenomeni di illusione» possa essere considerata come un frutto dello strumento logico stato monopolistico. Esso è piuttosto, nella formulazione che ne dà il F., la risultante di due forze: da un lato gli artifici illusionistici usati dallo stato e dall’altro la resistenza dei contribuenti. Ne risulta perciò una trattazione in cui ha gran parte il calcolo economico ordinario; un capitolo del trattato sugli effetti delle imposte.

[8] Il Fasiani usa promiscuamente l’aggettivo liberale invece che cooperativo e nazionalistico e corporativo invece che moderno. Mi asterrò dai sinonimi, sembrandomi che l’aggettivo liberale abbia un contenuto ben più vasto e complesso di quel che non sia quello del più adatto, perché modesto e meramente economico, aggettivo cooperativo. Quanto al tipo di stato moderno conosciuto solo per accenni generali, non userò gli aggettivi nazionalistico e corporativo, il primo perché, di fronte alle tendenze moderne, comuni ai due campi combattenti, verso le grandi formazioni politiche ultranazionali, esso appare cosa del passato ed il secondo perché peculiare, sinora, al nostro paese. Moderno essendo aggettivo privo di significato sostanziale, e contenente solo un attributo temporale, sembra meglio adatto alla materia incandescente che sta ora solidificandosi. Non mi giovo dell’altra definizione dei due tipi di stato: cooperativo quello in cui i governanti aspirano ad un massimo di utilità per la società, e moderno quello in cui i governanti aspirano ad un massimo di utilità della società, perché sebbene più concise, richieggono nel lettore uno sforzo mentale rinnovato ad ogni volta questi deve raffigurarsi nella mente la condotta della classe politica. La condotta medesima è resa invece con evidenza immediata dalle equivalenti definizioni riportate nel testo.

[9] In Le premesse del ragionamento economico e la realtà storica in Rivista di storia economica, quaderno del settembre 1940, p. 197, e segg.

[10] Uso come unità monetaria di conto denaro, che, per la sua indole storica, non ha oramai alcun addentellato con le unità monetarie oggi correnti e non può dar luogo ad alcuna impressione di troppo o di troppo poco.

[11] Liberale e non liberistico; ché liberismo è concetto assai più ristretto, sebbene abbastanza frequentemente compatibile col liberalismo; ed ha un contenuto concreto di applicazione, in particolare a certi problemi sovratutto commerciali e doganali. Il liberalismo implica un ideale di vita e vien fuori da imperativi morali assoluti; il liberismo, assai più modestamente, enumera inconvenienti che la natura umana oppone all’attuazione di ragionamenti, in se stessi corretti, i quali condurrebbero a taluni interventi dello stato compatibilissimi con l’ideale liberale. Il liberalismo è ideale di vita; il liberismo è mera pratica contingente derivata sovratutto da considerazioni politico-morali.

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. 78, 1942-1943, tomo II, pp. 57-119

1. – Uniformità astratte e uniformità storiche. Il metodo delle approssimazioni successive. L’uso dello sperimento inibito nelle scienze sociali. Le uniformità astratte sono vere sub specie aeternitatis. [p. 9]

2. – Rapporti tra schemi astratti e realtà concrete. Gli economisti intervengono, quasi tutti, nelle polemiche poste dalla vita quotidiana. [p. 10]

3. – Stretti legami fra teoremi e consigli. Differenza tra la posizione dei problemi economici nel quadro dell’equilibrio generale e in quello degli equilibri parziali. Identità teorica fra il problema di prima approssimazione risolto da Walras e da Pareto nello schema dell’equilibrio generale ed il problema concreto del prezzo del frumento di una data qualità in un dato istante risolto dagli operatori di una grande borsa dei cereali. [p. 11]

4. – Alla soluzione col calcolo, impossibile per la mancanza dei dati di fatto e la difficoltà di metterli in equazioni, si sostituisce la soluzione ottenuta per intuito dagli operatori. [p. 14]

5. – I vecchi economisti, anche i maggiori, come Cantillon e Ricardo, e non di rado i recenti teorici, come Gossen e Walras, accanto alla norma astratta pongono il consiglio ed il progetto. Le verità monetarie hanno quasi sempre avuto occasione dall’opportunità di consigli concreti. L’economista talora «scopre» le soluzioni ai problemi, talaltra traduce in linguaggio ipotetico le soluzioni già trovate dagli uomini della pratica. [p. 16]

6. – Leggi astratte feconde se atte a spiegare la realtà concreta. Leggi empiriche valide a spiegare i legami esistiti in un dato luogo e intervallo di tempo. Valore delle leggi empiriche. [p. 18]

7. – Della coincidenza fra leggi astratte e uniformità concrete. Del cosidetto fallimento della scienza economica e della verificazione dei suoi teoremi ad occasione della guerra. [p. 20]

8. – Strumenti (tools) di indagine teorica e di verificazione empirica dei teoremi teorici. Strumenti teorico-storici. Infecondità di questi ultimi. Inettitudine di essi a spiegare gli avvenimenti storici. [p. 21]

9. – Gli schemi devitiani dello stato monopolista e di quello cooperativo nella scienza delle finanze. Cauto uso degli schemi da parte del loro proponente. [p. 24]

10. – Degli schemi di Fasiani applicati allo studio degli effetti delle imposte. Nota sulla necessarietà della connessione fra l’imposta generale definita in un dato modo e l’ipotesi dello stato monopolistico. [p. 26]

11. – Della definizione del tipo di stato «monopolistico» e della ragionevolezza della ipotesi che ad esso si confacciano le illusioni come sistema, mentre possono essere assenti nei due altri tipi di stato cooperativo e moderno. [p. 27]

12. – La esemplificazione delle illusioni finanziarie nello stato monopolistico è propria del sottotipo di stato monopolistico in cui la classe dominante per vie non logiche sfrutta i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina. Necessità di una attenta revisione dei giudizi storici intorno alla finanza degli stati di antico regime. [p. 32]

13. – Analisi dei concetti di stato cooperativo e moderno. [p. 36]

14. – Se dominanti e dominati sono tutt’uno, la distinzione fra stato cooperativo e quello moderno è un assurdo. Nello stato non esistono cittadini singoli distinti dal gruppo, ed il gruppo non esiste come entità a sé distinta dai cittadini. [p. 38]

15. – Lo stato può perseguire fini proprii degli individui come singoli; ma trattasi di mezzo tecnico per conseguire fini che gli individui potrebbero conseguire, da soli o liberamente associati, anche senza l’opera dello stato. L’esempio delle colonie: i fini singoli sono perseguibili anche per mezzo di compagnie private; i fini statali sono quelli della madrepatria. [p. 40]

16. – Nello stato moderno il potere non può essere esercitato nella preoccupazione esclusiva degli interessi del gruppo pubblico considerato come una unità. Se così fosse non ci troveremmo dinnanzi ad uno stato «moderno», bensì alla deificazione dello stato sopra l’individuo. – Inconsistenza del concetto di dualismo fra individuo e stato, e di uno stato trascendente posto fuori e al di sopra degli individui. [p. 43]

17. – Il vero contrasto è quello dialettico fra stato e non-stato; che sempre coesisterono e coesistono l’uno accanto all’altro. Esso è un aspetto del contrasto profondo tra le forze del bene e quelle del male. [p. 46]

18. – L’astensione dell’economista dai giudizi di valore, legittima per ragioni di divisione del lavoro, non è sostenibile ai fini di una più generale conoscenza della verità. – La volontà dello stato è la stessa volontà dello scienziato. – La scelta posta da Demostene: guerra contro Filippo il Macedone ovvero feste e spettacoli. Differenza fra il chimico e l’economista. [p. 48]

19. – L’atteggiamento di indifferenza dell’economista per i motivi delle scelte è radicata nello studio del prezzo nel caso di libera concorrenza. – Lo studio dei casi di monopolio, di concorrenza limitata e simili impone di risalire al di là della scelta, sino ai motivi di esse, per rendersi ragione della scelta fatta e delle sue modalità. – Lo stesso automatismo della ipotesi della piena concorrenza è un artificio. [p. 51]

20. – La convenzione, in base alla quale l’economista puro, quello applicato, il politico, il giurista ecc. studiano diversi aspetti della realtà, necessaria per ragioni di divisione scientifica del lavoro, è talvolta impossibile ad osservare. [p. 53]

21. – Diritto di insurrezione, e diritto di scomunica a proposito dei limiti all’indagine scientifica. – Lo studio della classe politica non esclude lo studio della classe eletta. [p. 54]

22. – Schemi e realtà. – Mutando la realtà mutano altresì gli schemi. [p. 57]

23. – Il dato posto dal politico della esenzione di un minimo sociale di esistenza non è un dato ultimo. [p. 58]

24. – L’appello dal papa male informato al papa bene informato. [p. 60]

25. – Il dato posto dal legislatore è soggetto a giudizio in relazione ai fini posti alla società umana. [p. 62]

26. – Possono gli economisti sottrarsi all’obbligo di formulare giudizi di valore? [p. 63]

27. – Non esistono limiti artificiali alla indagine scientifica. I fini gli ideali della vita determinano le scelte fatte dagli uomini. Non è possibile studiare le scelte fingendo di ignorare i fini, dai quali esse traggono origine. [p. 66]

1. – Le uniformità delle quali si occupano le scienze economiche sono di due specie: l’una astratta e l’altra storica.

La ricerca della legge astratta è preceduta dal se. Se noi supponiamo che in un determinato momento e luogo, si attui l’ipotesi della concorrenza piena, e che in questa ipotesi lo stato prelevi un’imposta personale sul reddito netto dei cittadini; e se noi supponiamo che la società di cui si parla sia statica, ossia che in essa non si formi alcun nuovo risparmio, la popolazione ed i suoi gusti non variino, se noi supponiamo che ecc. ecc., le conseguenze le quali derivano dall’imposta immaginata sono tali e tali. In seguito si fanno variare ad una ad una le circostanze supposte, od altre si aggiungono a quelle già poste; e, ad ogni variazione dei dati del problema, con appropriati ragionamenti si compiono le opportune deduzioni. Ad agevolare l’indagine, si pone innanzitutto il problema secondo l’ipotesi più semplice, facendo entrare in campo il minimo numero di dati; e poi via via lo si complica introducendo ipotesi nuove più complicate e più numerose. Il procedimento logico è da tempo conosciuto col nome di metodo delle approssimazioni successive; ed ha il vantaggio di avvicinare a mano a mano gli schemi teorici alla realtà senza tuttavia giungere mai alla contemplazione di questa. Gli schemi estremi della piena concorrenza e del pieno monopolio, quelli intermedi della concorrenza imperfetta e del monopolio imperfetto e le loro innumeri sottospecie non sono presentati dagli studiosi come quadri o fotografie della realtà, ma come disegni a grandi linee atti a raffigurare, con tratti appena sbozzati e poi alquanto più decisi, la realtà, senza che mai si possa giungere a tener conto nello schema di tutte le circostanze le quali in un dato momento e luogo la compongono. Pur senza potere controllare, come si fa nelle scienze fisiche e chimiche, i risultati del ragionamento astratto coll’esperimento fabbricato a bella posta nelle condizioni volute, se le premesse sono poste con chiarezza e se si è ragionato rigorosamente, i teoremi ai quali giungono gli economisti sono veri, entro i limiti delle premesse fatte.

Essi sono leggi astratte, le quali ci dicono che cosa necessariamente accadrebbe ogniqualvolta si verificassero nella realtà tutte e sole le premesse poste dal ragionatore.

Non occorre affatto collocare premesse problema ragionamento e teorema in un determinato luogo e tempo storico politico o morale, perché il teorema dimostrato sia vero. Esso è vero sub specie aeternitatis; è una verità di cui non è necessario dimostrare la conformità ai fatti accaduti, appunto perché l’indagatore non si proponeva affatto quello scopo.

2. – Tuttavia, se la scienza economica consistesse soltanto nella posizione di problemi astratti e nella dimostrazione di leggi parimenti astratte, essa non avrebbe quel pur minimo seguito tra i laici che ancora è suo e non eserciterebbe quella qualunque influenza, sia pure modestissima, sulle faccende umane della quale può tuttavia vantarsi. Seguito ed influenza sono dovuti alla connessione che studiosi e laici reputano esistente tra gli schemi astratti e la realtà concreta, fra i problemi ed i teoremi di prima approssimazione ed i problemi e le relative soluzioni urgenti nella vita quotidiana delle società umane. Il fisico, il chimico e l’astronomo possono, se vogliono, trascorrere intera la vita senza preoccuparsi menomamente delle applicazioni concrete che altri trarrà dai teoremi da essi scoperti. L’economista no. Nessun economista è mai rimasto rigidamente chiuso entro l’eburnea torre dei primi principii, dei teoremi di prima approssimazione. Pantaleoni e Pareto, per ricordare solo i due grandi morti della passata generazione, furono altrettanto pugnaci combattenti nel dibattito dei problemi attuali del loro tempo quanto grandi teorici.

L’atteggiamento assunto nelle battaglie della vita concreta reagì ripetutamente sul loro modo di porre i problemi teorici. Posero somma cura nel distinguere il teorema dal consiglio; cercarono di evitare ogni contaminazione tra l’uno e l’altro; talvolta, parlarono – specialmente uno di essi (Pareto), con dispregio ed ironia degli economisti letterari che confondevano la scienza con la politica, e davan consigli ai principi invece di dichiarare uniformità; ma, distinguendo e chiarendo, non cessarono mai di rimbrottare, criticare, vilipendere, rarissimamente lodare governanti e governati, segnalando la via da scansare e quella da percorrere. Egli è che, nelle scienze economiche, esiste il terreno proprio dei teoremi, e quello dei consigli; ma questi due terreni non sono separati e indipendenti l’uno dall’altro. Gli economisti che hanno qualcosa da dire, pur divertendosi talvolta a vilipendere l’altra e forse miglior parte di se stessi, coltivano a scopo di conoscenza e smuovono a scopo di agire sulla realtà; gli imitatori, i pedissequi, incapaci di vedere i legami fra i due aspetti della persona intiera, fanno teoria insipida e forniscono quei consigli che sanno accetti ai potenti.

3. – In verità tra i teoremi ed i consigli vi ha legame strettissimo.

Quando Walras e Pareto costruiscono la teoria dell’equilibrio generale, le premesse dei loro ragionamenti sono nel tempo stesso poche e molte: poche nel senso che essi assumono certe situazioni semplificate: perfetta concorrenza o perfetto monopolio, illimitata riproducibilità dei fattori produttivi o limitazione di questo o quel fattore, mercato libero o mercato chiuso e simili; molte nel senso che essi non suppongono che, mutando una delle premesse del problema, tutte le altre premesse rimangano invariate. Anzi suppongono che, contemporaneamente ed a causa delle variazioni di uno dei dati del problema, tutti gli altri corrispondentemente mutino; che, per lo spostarsi e durante lo spostarsi di uno dei punti del firmamento economico, tutti gli altri punti si muovano, influenzati dal moto del primo ed alla lor volta reagenti su questo moto. Così essi giungono alla conquista forse più generale e certo più feconda della scienza economica moderna: sul mercato domina sovrana la legge di interdipendenza, sicché non è possibile mutare il prezzo di un bene qualsiasi senza che il prezzo di tutti gli altri beni, vicini o lontani, presenti o futuri, muti anch’esso, di poco o di molto. Ma quanta strada si deve fare per passare da questo principio o da quell’altro per il quale il prezzo di un bene diretto è, su un dato mercato, quello che rende uguale la quantità domandata alla offerta e rende uguali altresì nel tempo stesso le quantità domandate ed offerte dei beni strumentali e dei servizi produttivi, del risparmio e dei capitali occorsi alla produzione dei beni diretti, quanta strada occorre fare per passare dalla formulazione dei teoremi generalissimi alla formulazione dei teoremi più vicini all’uomo vivente, i soli i quali di fatto interessano costui, quelli per cui ci si dovrebbe spiegare perché il prezzo del quintale di frumento, in quel momento e luogo e in quelle condizioni di mercato, è 25 e non 30, 240 e non 300 lire! Tanta strada che in verità nessuno l’ha neppur tentata! Marshall, disperato, intraprese la via degli equilibri parziali, ossia dello studio delle leggi del prezzo fatta l’ipotesi che non tutte le premesse del problema mutino contemporaneamente ma, coeteris paribus, muti una premessa sola per volta o mutino poche, quel numero cioè le cui variazioni la limitata mente umana giunge a seguire ed a combinare insieme. Su questa via, la quale è, in fondo, dopo il ragionato omaggio reso alla teoria dell’equilibrio generale, quella seguita da tutti gli economisti teorici, notevoli progressi sono stati compiuti. Ma, per la detta limitazione della mente umana, è stato sinora e rimarrà per lunga pezza impossibile complicare il problema e moltiplicare i dati o le premesse di esso, in modo da poter tener conto anche solo di una piccola parte dei numerosi dati che occorrerebbe considerare per risolvere caso per caso il problema concreto. Sulla via delle approssimazioni successive ad un certo punto ci si deve arrestare. Ben di rado gli economisti vanno al di là di un secondo o terzo stadio nell’approssimazione alla realtà. Per giungere a questa, quanti scalini converrebbe scendere dall’alta cima dove stanno i contemplatori delle verità prime! Se i Walras ed i Pareto potessero da quelle alte cime, dove il loro sguardo spazia e domina gli orizzonti, e vede le leggi del prezzo nei diversi tipi di mercato, scendere giù giù, sino al fondo di un mercato concreto, ad esempio giù sino al fondo del rumoroso fragoroso rombante di urla e di gesti frenetici pozzo (pit) dei cereali di Chicago, essi risolverebbero un problema scientifico, della stessa precisa natura di quelli che già avevano risoluto ponendo le equazioni corrette delle loro prime approssimazioni. I Walras ed i Pareto, se possedessero la onniveggenza necessaria, porrebbero silenziosamente, in quel luogo ove ora si agitano centinaia di uomini convulsi e congestionati, le migliaia di equazioni richieste dalle migliaia di incognite da determinare; e quante incognite tra i dati che pur si dovrebbro conoscere! Conosciamo o dobbiamo intuire, ossia determinare ponendo rapidissimamente le opportune equazioni, la superficie, la fertilità, la posizione ecc. dei terreni che furono o saranno destinati alla coltivazione del frumento nel Dakota, nell’Iowa, nell’Indiana, nell’Alberta, nelle Calabrie, in Lombardia, in Sicilia, in Russia, nell’Australia, nell’Argentina e nell’India ecc.; il numero e la produttività dei lavoratori destinati a quella coltivazione; la quantità del risparmio necessario a produrre gli strumenti e le macchine agricole; i mezzi ed i costi dei trasporti per fiume per terra per mare per aria; i gusti ed i redditi dei consumatori di frumento sparsi nei diversi paesi del mondo, e nel tempo stesso i terreni, i fattori produttivi, i consumi attinenti a tutti i beni che possono essere concorrenti o succedanei al frumento? Quegli ingegni sovrani avrebbero dinnanzi a sé, posto in equazioni, tutto il quadro del mondo economico e sociale fotografato in quell’istante; e la fotografia sarebbe nel tempo stesso la visione in scorcio di quel mondo nel suo previsto divenire futuro e nelle ripercussioni che quel divenire esercita sull’operato del mondo presente. Se quel calcolo potesse compiersi e se in quell’attimo il prezzo calcolato fosse di 1 dollaro e 27 centesimi per staio (bushel) del frumento di quella data varietàe qualità, quel prezzo avrebbe il valore di legge scientifica necessaria. Necessaria perché essa sarebbe la logica inevitabile conseguenza di tutte le opportune premesse chiaramente poste e ragionate.

4. – Di fatto, quei calcoli sono al di là delle possibilità della mente umana ragionante; ed al posto dei Walras e dei Pareto noi vediamo nel pozzo del frumento di Chicago – e, per altri beni economici, nelle altre borse dove si determinano o si determinavano quotidianamente i prezzi dei principali beni o valori pubblicamente negoziati – migliaia o centinaia di vociferatori ossessionati e congestionati, i quali a furia di urla e di gesti giungono anch’essi in quell’attimo a quel medesimo risultato di dollari 1 e 27 centesimi per staio di frumento di quella certa varietà e qualità. Come vi giungono? In fondo, il processo è quel medesimo, che se fosse possibile, avrebbero osservato i Walras ed i Pareto. Anche gli speculatori in cereali del pozzo del frumento di Chicago pongono in equazione i dati del problema: terreni coltivati o che saranno coltivati a frumento in concorrenza con i terreni destinati ad altre culture; produttività di quei terreni e particolarmente di quelli marginali; costi dei fattori produttivi; costi dei trasporti; inclemenze stagionali o vicende favorevoli alla vegetazione del frumento; raccolti maturati o maturandi nei varii paesi del mondo; rimanenze esistenti; gusti e redditi dei consumatori; passaggi del frumento dagli elevatori ai mulini e da questi ai forni ed ai pastifici; dazi doganali e divieti di importazione nei paesi consumatori; concorrenza del riso e della segala e delle patate; concorrenze di negozianti singoli, di cooperative di agricoltori, di consorzi (trusts) di mulini; monopoli di ferrovie e di compagnie di navigazione sui laghi, ecc. ecc. Tutti questi dati del problema ed altri ancora sono tenuti presenti dagli operatori sui frumenti, presenti e futuri, del pozzo di Chicago, sulla base di notizie di agenzie, di cablogrammi ai giornalisti, di informazioni particolari telefoniche; ed è una corsa affannosa dalle cabine telefoniche al pozzo; ed ogni telefonata è un avviso che permette di sostituire un dato certo o approssimativo ad una incognita nel sistema di equazioni che si tratta di risolvere tumultuosamente ed affannosamente in quel momento. Dal tumulto di notizie e di dati spesso contrastanti ed incerti nasce in quell’attimo quel prezzo: 1 dollaro e 27 centesimi per moggio. Se questo è, in quell’attimo, il prezzo che rende la quantità domandata uguale a quella offerta, io non vedo nel processo il quale condusse a quel prezzo nulla di diverso dal procedimento scientifico, con il quale l’economista puro ha risolto il suo problema di prima approssimazione sulla base di poche premesse esplicitamente e chiaramente poste. Non esiste diversità alcuna fra le leggi astratte di prima approssimazione poste dal teorico nella solitudine dello studio e le leggi concrete poste dagli operatori nel tumulto del mercato. Ambe sono leggi: le prime si dicono astratte perché vere nei limiti delle poche premesse fatte; le seconde concrete perché vere dato l’operare di tutte le premesse esistenti, note ed ignote; le prime si dicono vere sub specie aeternitatis perché e finché il teorico non muta le premesse del problema; le seconde sono vere solo per un attimo, perché, quello trascorso, mutano istantaneamente e sicuramente i dati del problema; le prime possono essere enunciate e dimostrate nelle memorie accademiche e nei trattati della scienza, perché si possano fare ragionamenti, spesso eleganti, e talora stupendi, intorno alle vicendevoli azioni e reazioni di alcune poche forze ben definite; le seconde non si leggono mai scritte in nessun libro perché frutto di impressioni fuggevoli, di intuiti miracolosi, di quel certo magico fluido che fa i veggenti, i profeti, i capitani, i capi di stato e fa anche i grandi operatori, i quali, sinché non giunge anche per essi la giornata di Waterloo, dettano le leggi dei prezzi nei mercati dei beni economici. Cesare e Napoleone scrissero memorie; ma i grandi operatori non sanno né scrivere né fare discorsi. Farebbe d’uopo che qualche economista si facesse loro segretario e trascrivesse, novello Boswell, le confidenze che i Johnson delle borse consentissero a far loro. Ma gli economisti di secondo piano, ai quali cotale ufficio spetterebbe, preferiscono guardare dall’alto al basso i pratici e sputar il disprezzo dei puri su coloro che si attentano a fotografare gli intuiti degli uomini i quali fanno o registrano i prezzi veri sui mercati effettivi. Se, per miracolo, taluno fosse disposto ad ascoltare, probabilmente guasterebbe il rendiconto, trascrivendolo nel linguaggio economico puro, dimenticando cioè che quel che contraddistingue la realtà dallo schema è che il linguaggio di questo è diventato tecnico ossia proprio a dar conto delle sole premesse e dei ragionamenti che fan parte dello schema ed è affatto disadatto a spiegare i tanti dati sconosciuti alle prime e seconde e terze approssimazioni, dei quali l’operatore sui mercati effettivi tiene conto perché è nato nel mestiere o vi è vissuto a lungo o perché, grazie ad un peculiare suo sesto senso, ne ha miracolosamente l’intuito.

5. – Per l’indole di coloro che le enunciano, le leggi prettamente scientifiche ricavate dai pratici dalle equazioni risolute per intuito invece che per calcolo, prendono, se messe per iscritto, quasi sempre la forma di consigli o progetti; e come consigli quelle leggi sono entrate a far parte del corpo della scienza ad opera dei vecchi economisti. Rarissimo ed ammirando è il caso di grandi operatori pratici, come Cantillon e Ricardo, i quali scrivendo libri teorici, seppero per lo più usare un linguaggio dichiarativo di mere leggi. Ma anche codesti grandi non di rado alla enunciazione di principii teorici aggiunsero il consiglio od il progetto. Fecero, così operando, cosa estranea alla scienza? Fece opera extra-scientifica il Walras ed il Gossen quando propugnarono talune loro riforme monetarie o tributarie terriere? Distinguerei la forma dal contenuto. Oggi, che ci siamo sentito le tante volte ripetere il precetto, che in bocca ai Cairnes ed ai Pareto si ascolta con rispetto, essere la scienza rivolta a dettar leggi e non a fabbricar progetti, una certa impazienza è legittima verso chi manifestamente dimostra, nel suo modo di porre i problemi, di non essere mosso dall’intento di ricerca della verità, ma da qualche fine pratico, inteso il fine pratico non nel senso detto sopra di avvicinamento alla realtà, ma di consecuzione di vantaggi proprii o di un ceto sociale o professionale o di piaggeria verso i potenti o verso le folle. Ma quando si tratti di mera forma dello scrivere, sieno i colpevoli economisti antichi o moderni, direi essere doverosa in proposito la maggiore indulgenza. Quel che monta non è affatto la forma del discutere, ma il suo contenuto. Quasi tutte le verità scoperte in materia monetaria ieri ed oggi ebbero ad occasione progetti e consigli. Le falsificazioni monetarie del medioevo, gli abbassamenti ed i rialzamenti delle monete immaginarie in confronto a quelle effettive nei secoli XVII e XVIII, i corsi forzosi nel primo quarto dell’ottocento, i sistemi bimetallistici tra il 1850 ed il 1880, le svalutazioni e le rivalutazioni monetarie del 1914-1940 non furono forse l’occasione di grandi scritti teorici in materia monetaria? E parecchi tra gli scritti i quali segnarono in essa un’orma duratura non presero forse la forma di polemiche e di contro-progetti? Non si vuole sminuire il merito degli economisti teorici venuti di poi, i quali tradussero in linguaggio scientifico i precetti degli scopritori; ma pare certamente di pessimo gusto svillaneggiare costoro ed esaltare i primi. La fatica del tradurre una proposizione dal tipo precettistico:

«Non coniate una moneta d’oro la quale abbia in confronto ad una moneta d’argento dello stesso peso e titolo una facoltà liberatrice come 15,5 ad 1, quando nel comune commercio un chilogrammo d’oro si scambi con 16 chilogrammi d’argento, perché il paese rimarrà del tutto privo di monete d’oro, con grande incomodo del pubblico» nella proposizione identica di tipo scientifico od ipotetico:

«Se, cambiandosi in comune commercio 1 chilogramma d’oro contro 16 chilogrammi d’argento, vengono coniate con quel peso e titolo una moneta d’oro ed una d’argento, ma questa abbia invece legalmente una potenza liberatrice uguale ad una quindicesima parte e mezza di quella d’oro, la moneta (argento) relativamente svilita nel rapporto commerciale in confronto a quello legale, rimarrà sola in circolazione»

è in verità fatica piccolissima e direi d’ordine, quando si sia appresa la modesta tecnica all’uopo occorrente. Non dico che i precetti antichi e moderni si possano sempre altrettanto facilmente tradurre in principii teorici; ma dico accadere non di rado anche oggi che l’attenzione degli economisti su un dato problema sia risvegliata dalla soluzione data ad esso in concreto in un dato luogo e tempo e che le prime trattazioni abbiano la forma di progetti di altre e diverse soluzioni; e può accadere, sebbene più difficilmente, che, nel corso di quelle discussioni e di quei progetti, si espongano, sul problema da risolvere, sugli allegati effetti che derivavano dalla soluzione eventualmente già accolta e sui diversi effetti della nuova proposta soluzione, considerazioni le quali sono in sostanza ragionamenti e teoremi puramente scientifici. Se le cose stanno così, l’economista venuto dopo, il quale compisse la versione dalla terminologia precettistica in quella ipotetica, compirebbe opera indubbiamente utile; ma l’utilità didattica dell’esercitazione non lo autorizzerebbe menomamente a sputare con dispregio sul piatto dal quale ha tratto il suo vitale nutrimento; né sminuirebbe il senso di fastidio col quale si debbono guardare coloro i quali per aver compiuto quel modesto ufficio di traduttore dal linguaggio vivo dei combattenti in quello smorto convenzionale dei ripetitori reputano se stessi inventori del teorema che hanno soltanto rivestito della solita terminologia scolastica. Quale abisso tra codesti, per lo più boriosissimi, traduttori e gli scienziati che in silenzio offrono agli studiosi le verità che davvero essi hanno per i primi scoperte!

6. – Se le leggi di cui si è parlato sin qui sono francamente astratte, e perciò regolano necessariamente i rapporti fra circostanze premesse fatti definiti numerati e pesati così come piacque all’indagatore, pare diversa l’indole di altre uniformità ragionate intorno a premesse o schemi storici. Se in economia io definisco l’ipotesi del monopolio puro come quella dell’imprenditore privato unico produttore-offerente di un dato bene su un dato mercato in un dato momento, senza alcun freno né di concorrenti potenziali né di succedanei e neppure di vincoli legislativi e ne deduco che il prezzo di mercato sarà quello determinato dal punto di Cournot del massimo utile netto, io non affermo che in questo mondo esista o sia mai esistito od esisterà di fatto mai un monopolista puro epperciò che il prezzo possa di fatto essere stabilito precisamente nel luogo del punto di Cournot. La mia è una proposizione ipotetica e la legge del prezzo che ne deduco è una legge puramente astratta. Se in qualunque epoca storica ed in qualunque luogo l’ipotesi per avventura si verificasse, la legge del prezzo sarebbe necessariamente quella ora dichiarata. In verità, non accade necessariamente che il prezzo sia regolato di fatto in alcun momento o luogo per l’appunto da quella legge o dalle altre che si formulano nelle ipotesi, pure astratte, della piena concorrenza o del monopolio bilaterale e così via dicendo. Le ipotesi e conseguenti leggi astratte sono soltanto tipi dai quali si può trarre qualche indizio intorno al modo nel quale si comportano i prezzi e le loro uniformità nella realtà concreta, che è complessa e mutevole.

Diremo che le ipotesi o premesse o schemi o tipi sono fecondi quando, paragonando le leggi astratte alle uniformità accertate empiricamente noi riscontriamo una rassomiglianza più o meno chiara tra la legge astratta ed il comportamento concreto. Anzi si può tenere il cammino inverso; e dalla osservazione precisa del comportarsi di date serie di fatti empirici trarre l’enunciato di leggi, non astratte e non necessarie, intorno alle relazioni realmente esistite, ad es., in un dato luogo e per un dato tratto di tempo, per un dato bene o per parecchi beni, fra quantità prodotte, consumate e relativi prezzi. Dalla circostanza che l’elasticità della domanda e della offerta di un dato bene nel luogo x per l’intervallo di tempo da A a B ubbidì ad una certa legge, si può trarre stimolo ad indagare se quella legge possa essere applicabile in tutto o in parte anche ad altri beni o ad altri luoghi o tempi ai primi rassomiglianti. Eccellono in queste indagini gli statistici e gli econometrici, i quali danno prova di tanta maggior consapevolezza scientifica quanto più sono timidi nell’estendere e nel generalizzare uniformità osservate in un dato luogo o tempo.

L’osservazione invero non consente, se non con molta circospezione e con delicatissimi espedienti, di tener conto di tutti od almeno dei principali dati i quali hanno fatto sì che l’elasticità della domanda e dell’offerta fosse in quel momento e luogo quella che fu e non altra. Chi ci sa dire quale influenza ebbero nella determinazione della legge empirica scoperta l’altezza dei redditi nominali e reali, la loro distribuzione tra le diverse classi sociali, il numero ed i gusti dei consumatori, la concorrenza di altri beni, presenti e futuri, ecc. ecc.? Basta che uno di questi fattori muti ed ecco non essere la legge empirica vera nell’altro luogo o momento. Ciononostante, gli sforzi compiuti nell’accertamento di leggi empiriche o di fatto, non estrapolabili al di là del momento luogo e bene considerati, sono sommamente lodevoli; e tanto più lo diverranno quanto più le indagini saranno prolungate nel tempo e nello spazio, quanto più la raffinatezza dei metodi impiegati consentirà di accertare il peso e le variazioni di ognuno dei fattori influenti sulla legge empirica e quanto più gli indagatori riusciranno a mano a mano ad immaginare schemi o tipi, i quali pur rimanendo empirici, siano sempre meglio atti a raffigurare il comportamento di dati fenomeni economici per lunghi tratti di tempo e ampi territori. La scoverta di siffatti schemi o tipi empirici alla sua volta potrà fornire il destro ai teorici di immaginare premesse schemi o tipi astratti semplificati, coincidenti o quasi con il comportamento dei dati empirici, da cui si possono ricavare nuovi teoremi illuminanti. Salvo la moderna maestria del metodo, il consiglio di adoperare congiuntamente i procedimenti logici deduttivi ed induttivi, il ragionamento astratto e la sua verificazione empirica fu sempre lodato; e quel grande logico astratto che fu il Jevons trasse molta parte della fama di cui ancora gode dalla maestria con la quale passava dall’astrazione all’osservazione, e da questa traeva stimolo per nuove feconde astrazioni.

7. – È singolare la coincidenza frequente fra le leggi formulate dagli economisti teorici in prima approssimazione e il comportamento concreto dei fatti economici più comuni anche in circostanze nuove e straordinarie. Quella taccia che i laici ingenuamente mossero durante e dopo la guerra passata e muovono nuovamente oggi: «la guerra, il dopo guerra e la nuova guerra hanno consacrato il fallimento della scienza economica» bene può rivoltarsi così: «la guerra il dopo guerra e la nuova guerra hanno dimostrato quanto fossero esatte e, parlando figuratamente, inesorabili le leggi poste dagli economisti classici; e non mai si videro meglio verificate le conseguenze che quelli avevano segnalate delle abbondanti emissioni cartacee, dei calmieri senza requisizioni e senza tessere, delle tessere stabilite per quantità incongrue rispetto ai prezzi; mai non si videro tanto magnificati i turbamenti sociali da impoverimenti ed arricchimenti, che i classici avevano descritto a loro tempo in tono minore per la minore gravità delle cause che vi avevano dato origine. Sicché quella che ai laici parve il fallimento della scienza economica fu invece un trionfo suo grande; e fallirono solo le stravaganti aspettazioni dei laici, i quali, innocenti di tutto quanto fu scritto nei libri degli economisti, immaginavano che questi fossero negromanti, atti a impedire che l’errore partorisse il danno a lui intrinseco, che le leggi fabbricate senza por mente all’interdipendenza di tutte le azioni e le forze economiche producessero effetti opposti a quelli benefici previsti dai cosidetti periti, ossia da gente segnalata per la propria ignoranza di tutto ciò che sta al di fuori della loro limitata provincia; fallirono solo gli illogici ragionamenti di industriali agricoltori e commercianti i quali, attissimi a formulare per intuito teoremi e corollari particolari identici a quelli generali esposti dagli economisti teorici in teoria pura, sono tratti dall’interesse a disconoscere la validità dei teoremi medesimi non appena si trascorra dal loro campo proprio a quello generale e vorrebbero che gli economisti dimenticassero teoremi e corollari per farsi fautori di altri confacenti a quei privati interessi. Il che non potendo accadere vilipendono la scienza come cosa inutile e gli scienziati quasi nemici della patria».

8. – La fecondità dell’uso simultaneo ed alternativo nella scienza economica della deduzione e dell’induzione, dello schema astratto e dell’osservazione empirica di dati comportamenti di fatto ha stimolato l’impiego di espedienti o strumenti (gli anglosassoni li chiamano appunto tools) diversi da quelli tradizionali. Non dirò degli strumenti recentemente inventati o proposti od usati da taluni moderni economisti, esaltati dapprima e poi facilmente obliterati e quindi ripresi; e così si videro susseguirsi gli strumenti del reddito del consumatore, del moltiplicatore, del rapporto fra risparmio ed investimento per spiegare le fluttuazioni o crisi economiche, le variazioni monetarie e così via. È bene che ogni strumento faccia le sue prove, che saranno poi quelle dell’abilità logica dell’operaio il quale lo adopra; e rimarranno in piedi quelli i quali avranno dimostrato di valere sul serio qualcosa. Voglio invece accennare all’uso di schemi, i quali stanno di mezzo fra quelli tradizionali astratti estremamente semplificati e quelli empirici proposti per descrivere la legge del variare di un dato fenomeno (ad es. prezzo di un bene) in un dato luogo e tempo. Essi non sono semplificati come i primi e non aspirano a descrivere alcuno stato di fatto empiricamente esistito in un dato luogo e tempo. Sono, direi, schemi teorico-storici. Tengono del teorico, perché non pretendono di raffigurare alcun momento preciso dell’accaduto; ma hanno in sé qualcosa di storico, perché vorrebbero riassumere i lineamenti tendenziali caratteristici di istituti storicamente esistiti, degni di studio per il sommo rilievo che ebbero nel determinare in certe epoche il destino dell’umanità.

A tal genere di schemi sembra appartenere la sequenza delle economie della caccia, della pastorizia, della agricoltura e dell’industria in cui taluno ha distinto i successivi momenti della vita economica dell’umanità; o quella della schiavitù, della servitù della gleba, delle corporazioni, del lavoro libero e di nuovo delle associazioni libere o pubbliche, in cui altri ha raffigurato le successive fasi dell’organizzazione del lavoro; o quella ancora del comunismo primitivo, della proprietà individuale (artigianato), del capitalismo semplice (impresa a manifattura), del capitalismo complesso (consorzi, cartelli, società ramificate) e del collettivismo di stato, con cui si volle descrivere il succedersi dei tipi di organizzazione dell’attività economica. Ma subito si vede che questi non sono né schemi teorici né schemi storici di fecondità scientifica. Non sono schemi o strumenti di lavoro atti a fecondare l’indagine astratta perché non sono abbastanza semplici e chiaramente precisabili. Noi possiamo definire l’ipotesi della libera concorrenza (quella situazione nella quale sul mercato intervengono molti produttori e molti consumatori, la presenza o l’assenza di ciascuno dei quali non esercita sul mercato una influenza apprezzabile sul prezzo dei beni negoziati) o quella del monopolio, o quella della produzione a costi costanti crescenti o decrescenti, perché si tratta di premesse semplici, le quali danno luogo a calcoli quantitativi, a più od a meno e consentono l’impostazione di ragionamenti su un dato numero di incognite. Proviamoci invece a definire l’economia della caccia, della pesca, della pastorizia, la schiavitù, il corporativismo medievale, la servitù della gleba, il capitalismo primitivo o quello moderno! Si avranno descrizioni necessariamente complesse, con molti ma e se e riserve di tempo e di luogo. Nulla che possa dare luogo a ragionamenti di tipo quantitativo, che possano essere compiuti a fil di logica. Si provi qualcuno a mettere per iscritto premesse chiare relative ad uno di questi schemi e veda se gli riesce di cavarne fuori qualcosa che rassomigli anche lontanamente alla trafila logica delle premesse, corollari, lemmi e teoremi che si leggono, dicasi ad esempio, nei Principi di Pantaleoni.

Sono quegli schemi fecondi per l’indagine storica? Qui vale l’esperienza. Gli autori degli schemi se ne servirono per classificare gli avvenimenti e gli istituti economici; ed i seguitatori riclassificarono, echeggiando e, a lor detta, perfezionando. Ma si trattava di giocattoli, presto sostituiti, come accade per i bambini, da altri più nuovi e graziosi. La storia non si presta ad essere ridotta a schemi e tipi uniformi. Dovrebbero, gli schemi essere senza numero per avere un qualche sapore. Storia si fa di fatti singoli, individuali, non di tipi. Lo storico, sì, deve avere un’idea, un filo conduttore per scegliere i fatti singoli ai suoi occhi importanti di mezzo agli innumerevoli fatti e fatterelli che non contano nulla. Ma l’idea che guida lo storico non è uno schema astratto, classificatorio. L’idea-guida, il filo conduttore, è quella che ha indotto gli uomini ad operare, a lottare, a vivere ed a morire. Non può essere la schiavitù o l’artigianato od il capitalismo, che sono semplici parole descrittive di modi esteriori di vita, i quali traggono la loro ragion d’essere da sorgenti ben più profonde. L’uomo crea l’impresa, riduce i suoi simili in schiavitù o si libera da essa, coltiva la terra o conduce greggi spinto dalla sete di ricchezza, dal piacere del dominio, dalla parola di Cristo, il quale ha proclamato gli uomini tutti uguali dinnanzi a Dio, dall’aspirazione alla libertà ed al perfezionamento morale. Le idee ed i sentimenti, razionali ed irrazionali guidano gli uomini dall’uno all’altro tipo di organizzazione economica. I tipi e le classi e le forme non spiegano nulla. Sono espedienti mnemonici didattici per orizzontarsi, non sono storia. Sono buttati via, non appena, usandoli, si veda quanto sia limitato e tutt’affatto scolastico il vantaggio che se ne può ricavare.

9. – Poiché coloro che ne fecero uso li dichiararono esplicitamente ed implicitamente[2] schemi puramente teorici, senza riferimento ad alcuna particolare verificazione di fatto, parrebbero immuni dalla critica gli schemi modernamente proposti dal De Viti De Marco per la scienza finanziaria, dello stato monopolistico e dello stato cooperativo, ai quali il Fasiani aggiunge ora lo schema dello stato moderno. Chi ricorda la condizione caotica della cosidetta scienza delle finanze nell’epoca nella quale il De Viti iniziò l’opera sua chiarificatrice non può non riconoscere che quegli schemi non abbiano sommamente giovato a dare alla scienza finanziaria una struttura compatta e logica ed ordinata. Il De Viti ragionò: essendo i prezzi privati e pubblici, i contributi e le imposte null’altro che il prezzo dei beni pubblici prodotti dallo stato e da esso forniti ai cittadini, perché non si dovrebbero usare quelle medesime ipotesi del monopolio (stato monopolistico od assoluto) e della concorrenza (stato cooperativo) che tanti e tanto utili servizi avevano reso nella scienza economica? Ed egli adoperò quei due strumenti di indagine con eleganza e con successo. Il successo fu dovuto forse sovrattutto all’uso cautissimo che egli ne fece là dove essi veramente chiarivano i problemi trattati, e cioè nell’impostazione dei singoli problemi. Quel che è caratteristico nel trattato del De Viti non è invero la bipartizione della economia pubblica entro i due schemi; è invece la tesi che i problemi della finanza pubblica (il De Viti anzi dice della economia finanziaria) sono problemi economici, i quali devono essere discussi con gli stessi criteri usati nella scienza economica. A volta a volta, senza impacciarsi troppo dei due schemi politici (stato monopolistico e stato cooperativo), egli discusse i singoli problemi finanziari, come se fossero problemi di prezzo, usando ora l’ipotesi del monopolio, ora quella della libera concorrenza, a seconda che meglio l’una o l’altra ipotesi si attagliava a ciascun problema particolare. Con questo suo trattare i problemi di finanza come problemi economici, il De Viti si attirò le critiche di coloro i quali reputano essere invece quei problemi prevalentemente politici e sociologici o giuridici. Poiché anche la scienza finanziaria è e rimarrà a lungo una scienza astratta e deve necessariamente vivere di schemi, più o meno vicini alla realtà, e poiché tra tutti gli schemi quello economico è sinora il solo il quale abbia prodotto una costruzione avente in sé una qualche logica, un certo ordine ed abbia un contenuto discreto di teoremi abbastanza bene dimostrati, anch’io[3] preferisco lo schema economico ed attendo che altri faccia fruttificare schemi diversi.

10. – È riuscito il Fasiani nel suo magnifico recentissimo tentativo a dimostrare che gli schemi dello stato monopolistico cooperativo e moderno hanno una propria virtù teorica? Sono scettico per quanto riguarda la parte essenziale della indagine del F., quella che a giusta ragione assorbe metà delle pagine del trattato, e si riferisce ai problemi della traslazione e degli effetti delle imposte. L’a. avrebbe potuto, se avesse voluto, scrivere quelle pagine che tanto onore fanno alla scienza italiana, senza ricorrere ai tools dei tre tipi di stato; e quelle pagine non avrebbero certo perduto nulla della loro perspicuità ed eleganza logica. Ma una adeguata dimostrazione del mio atteggiamento negativo richiederebbe una lunga analisi che in questa sede sarebbe fuor di luogo.[4]

11. – La difficoltà di usare gli schemi di stato offerti dal De Viti e perfezionati dal Fasiani per condurre innanzi le indagini delicate di traslazione delle imposte, le sole che di teoria pura economica si incontrino nel campo variopinto della scienza finanziaria, pone il quesito se quegli schemi abbiano indole astratta ovvero storica.[5] Sono essi soltanto ipotesi immaginate dalla mente dello studioso per trarne leggi teoriche vere sub specie aeternitatis o sono anche strumenti di interpretazione approssimata della realtà storica?

Assumo la definizione dei tre tipi di stato quali sono poste dal Fasiani. Fatta la premessa che in esso siano riconosciute «la libertà e l’integrità personale e la proprietà privata» lo stato monopolistico è definito come quella «organizzazione in cui una classe eletta dirigente (i dominanti) eserciti il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominanti»[6] (I, 42).

Se la sistematica dell’ordinamento finanziario di uno stato cosiffatto fosse rispetto alle imposte soltanto quello riassunto dalla sapienza popolare nell’antichissima massima del pelar la gallina senza farla gridare o, rispetto alle spese, quella del dare alle spese utili ai dominanti l’aspetto di spese utili a tutti od al gruppo non oserei dire che essa sia propria di un peculiare qualsiasi tipo di stato, essendo stata seguita anche dai legislatori che agivano e volevano ed erano persuasi di agire nell’interesse di tutti e di ciascuno (stato cooperativo) o della collettività (stato moderno); ed essendo i limiti all’operato delle illusioni tanti e tanto potenti da rendere ben piccolo il campo di azione di quel sistema anche nel tipo di stato più accentuatamente monopolistico.

Ma l’osservazione, storicamente fondata, non è tale logicamente. Né il De Viti, né il Fasiani, né altri che abbia assunto la distinzione fra stato monopolistico e stato cooperativo a punto di partenza delle proprie indagini affermò che stati cosiffatti siano mai esistiti in questo o quell’altro luogo o tempo. Se ciò avessero sostenuto, sarebbero caduti nell’errore di scambiare la realtà che è sempre complicata e unica e non soggetta a ripetizione con lo schema astratto o modello teorico, utile per il ragionamento che voglia spiegare qualche aspetto particolare della realtà.

Contrariamente a quanto immaginarono i critici frettolosi, i quali condannarono l’analisi della finanza condotta col criterio degli schemi o modelli teorici a sfondo economico perché non conformi a realtà e, così criticando, dimostrarono di ignorare la natura propria della indagine scientifica nel campo delle nostre scienze astratte, i teorici dei tipi sopradetti di stato non si proposero un problema storico, sibbene un problema di logica che io direi degli strumenti. Secondo questa logica un criterio non è assunto a scopo di indagine storica di fatti realmente accaduti, ma allo scopo di estrarre dai fatti storici accaduti quelli soltanto che si ritengono proprii a caratterizzare il concetto medesimo. Caratterizzano perciò il tipo di stato monopolistico soltanto quei fatti senza di cui quel tipo cade o si trasforma in un diverso od opposto tipo; laddove i fatti medesimi possono essere assenti dai tipi opposti, senza che questi vengano meno.

Il Fasiani, ad esempio, pone il trattato delle illusioni finanziarie nel libro il quale esamina le caratteristiche dello stato monopolistico, reputando che la teoria di esse sia propria di questo caso limite di stato ed estranea («non c’è posto per essa») negli altri due casi limite dello stato cooperativo e dello stato moderno. Non che illusioni non possano darsi in materia di entrate e spese anche negli altri due tipi di stato; ma solo nel tipo monopolistico quelle «illusioni si raggruppano fino a formare una vera tendenza, un sistema. Ciò che conta storicamente, non è già che uno stato in una certa epoca abbia un insieme di entrate e spese che implichino questa o quella illusione, ma piuttosto che, nel suo complesso, l’ordinamento finanziario si avvicini o si allontani dal caso limite in cui le illusioni sono sistema» (I, 70).[7]

I tipi di stato cooperativo moderno possono in verità vivere senza creare illusioni finanziarie, anzi raggiungono la perfezione quanto più le illusioni sono assenti dal loro armamentario legislativo ed amministrativo e governanti e governati apprezzano perfettamente senza veli il vantaggio delle spese pubbliche e l’onere dei tributi necessari a compierle; ed è vero altresì che il sistema delle illusioni non ripugna invece al tipo di stato monopolistico, così come fu sopra definito.

Non mi soffermo sulla riserva premessa alla definizione, per la quale lo stato monopolistico sarebbe tenuto a rispettare «la libertà e l’integrità personale e la proprietà privata» sia perché di cosiffatta riserva non si vede si faccia poi uso nel prosieguo del discorso talché può essere messa nel novero degli strumenti di ricerca divenuti caduchi per non uso, sia perché la riserva può intendersi come un modo abbreviato di enunciare il proposito di escludere dai casi studiati di imposta quelli della riduzione in massa dei dominati a schiavi o della espropriazione in massa dei dominati. Metodi grossolani e contrastanti con quella della illusione di essere liberi e proprietari in che i dominanti vogliono tenere i dominati. La riserva insomma può voler dire soltanto che ai dominati può, se conviene ai dominanti, essere tolta la libertà e proprietà, purché essi si illudano di non aver perduto né l’una né l’altra.

Caratteristica essenziale dello strumento logico detto stato monopolistico pare dunque quella di far uso di illusioni finanziarie, allo scopo di raggiungere più agevolmente il fine proprio della classe dirigente di esercitare il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati. Da quale esperienza storica è stata astratta l’indicazione dello scopo ora detto?

12. – Volto pagina e vedo che, dopo aver ricordata la solenne definizione che, per bocca di Sully, Enrico IV diede non so se dello stato cooperativo o di quello moderno:

«Dio essendo il vero proprietario di tutti i regni e non essendone i re che gli amministratori debbono tutti rappresentare ai popoli colui di cui tengono il posto, per le sue qualità e le sue perfezioni. Soprattutto essi non regneranno come lui se non in quanto regneranno come padri» (I, 77).

si elencano esempi – tratti da tempi nei quali i ceti dirigenti francesi ed un po’ quelli borbonici tra il secolo XVIII e il secolo XIX ed ancora quelli democratici dell’epoca umbertina stavano preparando i torbidi rovinosi degli ultimi Valois o le rivolte della Fronda o la rivoluzione del 1789, od i Borbonici scavavano l’abisso tra sé e le nascenti energie borghesi e popolari meridionali. E mi fermo, ché il quadro delle oscurità del bilancio dell’epoca umbertina disegnato dal Puviani è tirato sul nero; e in esso si dimentica che nessuno in Italia era tratto in inganno dagli espedienti maglianeschi cuciti a grosso fil bianco e tutti ne discutevano; ed in virtù di siffatte discussioni l’Italia giunse al 1914 dotata di una finanza, che se era, al par di altre, impreparata all’improvviso grandioso sforzo della guerra mondiale, superato tuttavia con successo, era però solida ed onesta e chiara.

Non intendo avventurarmi troppo nell’uso dell’altro strumento di indagine che si dice delle azioni logiche e non logiche; ma parmi di potere affermare che il sistema delle illusioni finanziarie, quale almeno risulta dalla esemplificazione addotta dal Puviani e perfezionata dal Fasiani non si può dir propria del tipo generico di stato monopolistico. Farebbe d’uopo perlomeno distinguere il tipo nei seguenti sottotipi:

a)    il tipo in cui la classe dominante compie consapevolmente solo quelle azioni di sfruttamento dei dominati le quali giovano alla conservazione del proprio potere;

b)    il tipo in cui la classe dominante si comporta nello stesso modo inconsapevolmente, per vie non logiche;

c)    il tipo in cui la classe dominante per vie non logiche (si possono escludere le vie logiche perché, eccetto i casi, qui esclusi per definizione, di sacrificio di se stesso a vantaggio dei più o della collettività, nessuna classe politica corre volutamente consapevolmente al suicidio) sfrutta i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina.

I fatti di illusione addotti negli scritti dei due autori ricordati sono tratti dall’arsenale storico dei tempi in cui il tipo di stato esistente si approssimava all’ultimo sottotipo (c). Lo studio è grandemente suggestivo, sia al punto di vista storico come a quello teorico; ma è lo studio di un sottotipo peculiare. Per la Francia, non ci dà il quadro della finanza del tempo di Enrico IV con Sully, né quello di Luigi XIV con Colbert, né quello di Bonaparte primo console, né l’altro della restaurazione, ossia delle epoche nelle quali la Francia fu grande o restaurò le fortune compromesse nei tempi precedenti di torbidi, o di decadenza o di follia di grandigia. Per l’Italia non so in verità quale tempo appartenga a quel sottotipo (c); ché la raffigurazione della finanza umbertina è, già dissi, una parodia calunniosa, e le tinte scure usate dal Bianchini per descrivere la finanza borbonica meritano revisione attenta, almeno per lunghi tratti del secolo XVIII e, ad intervalli, anche degli anni fra il 1815 ed il 1860. Ma la finanza toscana, sotto i Lorenesi fu un modello; e non sapendosi nulla di quella dei Medici, non se ne può parlar male sulla fede di dicerie di cronisti. I bilanci e conti pubblicati della repubblica veneta offrono un quadro di rigorosa amministrazione del denaro pubblico.

Pubblicammo, io e Prato, i bilanci piemontesi dal 1700 al 1713, testimonianza di costumi austeri e di grandi risultati ottenuti con misurato dispendio; e potrei, se avessi voglia e tempo, render conto altresì fino all’ultimo denaro, oggi si direbbe centesimo, dei tributi incassati, delle spese compiute e dei mezzi di tesoreria usati negli stati sabaudi dal 1714 al 1798. Si rendeva ossequio alla pubblicità ed al controllo finanziario secondo i criteri e le cognizioni del tempo. Invece di bilanci stampati e distribuiti a parlamentari ed a giunte del bilancio, i bilanci ed i consuntivi erano redatti a mano, discussi dai consigli delle aziende, controllati dagli uffici del controllo generale e della Camera dei conti. Diversa la forma, era identica la sostanza e non so se meno efficace. Lievissime le tracce di sfruttamento dei dominati da parte dei dominanti. Tenui gli stipendi pagati a ministri, ambasciatori, alti officiali, e spiegabili col permanere non tanto delle istituzioni, logorate dal tempo, quanto dei sentimenti feudali, per cui i signori sentivano il dovere di servire il principe.

Prima di astrarre dalla realtà storica, allo scopo di interpretarla, caratteristiche teoriche proprie dei tipi di stato non cooperativi e non moderni importa chiedere: dove e quando esistettero sottotipi dello stato monopolistico diversi dal sottotipo (c), ossia degli stati votati alla propria rovina? Quali furono le caratteristiche precise degli stati monopolistici di tipo A e B ossia auto conservantisi? Quale peso proporzionale ebbe in quegli stati lo sfruttamento dei dominati da parte dei dominanti e la tutela, voluta od inconsapevole, degli interessi di tutti o del gruppo? Se si riscontrasse, per avventura, che negli stati detti monopolistici, durati a lungo la tutela degli interessi di tutti o del gruppo assorbì e non poteva non assorbire la maggior parte, dicasi i nove decimi e più delle risorse pubbliche e solo un decimo fu destinato a gratificazione della classe dominante; e se, in aggiunta, questa decima od altra qualunque tenue parte fu il compenso pagato al ceto dirigente perché tale e perché un qualunque stato ha bisogno di un ceto dirigente e questo è scelto o si sceglie in funzione delle idee del tempo e può prendere talvolta perciò l’apparenza di dominante, classificheremo ancora quello o quegli stati tra i monopolistici? E se no, diremmo che il tipo dello stato monopolistico sia proprio solo degli stati governati a vantaggio di dominanti correnti verso la propria rovina? Se così fosse conserverebbe ancora quel tipo di stato la dignità necessaria per figurare allato ai tipi cooperativo e moderno, dei quali si suppone la persistenza, almeno entro i limiti del tempo, nei quali essi serbino la propria natura e non degenerino nell’opposto tipo monopolistico votato alla rovina? Quali sarebbero, per avventura, le caratteristiche teoriche proprie di quel tipo peculiare di stato? Domande, alle quali non mi attento di dare una risposta; ma alle quali converrebbe rispondere innanzi di attribuire allo strumento logico stato monopolistico la virtù di chiave logica utile ad interpretare e sistemare un aspetto o una sezione dei fatti finanziari. Qui si pone un problema di logica. Storicamente, nessuno stato fu mai monopolistico puro o cooperativo puro e probabilmente nessun stato sarà mai costrutto in modo da potersi considerare puramente moderno. L’obiezione, ripetesi, non ha valore al fine dell’indagine teorica. Quel che monta, anche a codesto fine, è che le caratteristiche assunte, per astrazione dalla realtà, a qualificare, ad ipotesi, lo stato monopolistico siano congrue alla sua propria natura. Deve, sì o no, quello stato agire in modo da provvedere alla propria auto conservazione? Se così agisce, per via logica o non logica, è concepibile che esso non provveda massimamente oltreché alla potenza della classe politica dominante, al benessere ed alla sicurezza dei governati? Se a ciò non intende (sottotipo c), corre o non corre quello stato verso il suicidio? Basterebbe, per render legittima l’indagine, assumere ipoteticamente che lo stato monopolistico sia quello in cui i dominanti esercitano il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati, qualora l’esperienza storica dimostrasse che, nei casi nei quali l’ipotesi si approssimò alla sua attuazione, perciò lo stato correva alla rovina, laddove nei casi nei quali lo stato si mantenne, la realtà fu perciò diversa dall’ipotesi e più vicina, nonostante le forme apparentemente monopolistiche, all’ipotesi teorica dello stato cooperativo?

Badisi che qui non si nega il diritto all’indagatore di porre quelle qualsisiano ipotesi astratte che egli giudica più adatte ai ragionamenti intrapresi; si afferma solo che se le ipotesi fatte hanno, oltreché un intento di esercitazione raziocinativa, lo scopo di giovare alla interpretazione della realtà storica, esse debbono essere da questa astratte e raffigurare aspetti ben chiari di quella realtà. Sembra perciò che non si possano elencare indiscriminatamente fatti appartenenti a tempi e luoghi diversi, senza compiere di essi una attenta ventilazione per collocare ognuno di essi nella sua propria cornice, ed appurarne il vero significato, così da non attribuire allo stato duraturo cosidetto monopolistico caratteristiche che probabilmente -non dico certamente, ché l’indagine è tuttora da fare – sono proprie invece soltanto dello stato monopolistico suicida, del tipo, a cagion d’esempio, della monarchia decadente dei Luigi XV e XVI, di Napoleone dalla campagna di Spagna e di Russia a Waterloo, dello czar Nicola II e simiglianti autocrati dall’orgoglio o dall’eredità fatti ciechi dinnanzi all’abisso.

13. – Dubbi ancora più profondi fanno sorgere le ipotesi degli stati cooperativo e moderno.[8] Sarebbe cooperativa una organizzazione statale «in cui il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza»; e moderna quella «in cui il potere sia esercitato invece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità» (I, 42).

Passo sopra alle complicazioni le quali nascono da ciò che, secondo l’autore della distinzione, il punto del distinguere «sta nel criterio a cui si informa la decisione, più che nei risultati positivi conseguiti»; e dalla coincidenza possibile e frequente dell’interesse particolare dei singoli e della loro maggioranza con l’interesse del gruppo, sicché «perseguendo direttamente e per via logica l’uno, si attui incidentalmente e per via non logica anche il secondo»; o, viceversa «perseguendo in modo diretto e logico la potenza e la conservazione del gruppo, si ottenga il risultato non logico (non previsto né deliberatamente voluto) di procurare a tutti od alla maggioranza dei consociati un guadagno individuale» (I, 49).

E passo sopra anche ad altre complicazioni, fra le quali quella nascente dal modo di esprimere la profezia, secondo la quale «lo stato nazionalistico rappresenta l’ultima e la più viva espressione della evoluzione della civiltà europea, non solo perché viene cronologicamente dopo lo stato assoluto e lo stato liberale, ma perché ne rappresenta una negazione e una trasformazione» (I, 55). Dove, se le parole dovessero essere interpretate alla lettera, non si vede in qual modo lo stato nazionalistico potrebbe essere considerato posteriore a quello assoluto, quando il compito delle grandi monarchie assolute di Carlo V e Filippo II, di Enrico IV e di Luigi XIV fu appunto quello di creare gli stati nazionali al disopra dello spezzettamento feudale e cittadino; e quando stato liberale e stato nazionale nacquero in Italia e in Germania nell’epoca medesima del risorgimento. Ma si tratta di questioni di parole e dell’uso dell’aggettivo nazionalistico oggi superato ed anacronistico, al luogo di quello moderno neutro ed adatto a tutti i tempi.

Sia nello stato cooperativo che in quello moderno non esiste più la distinzione fra dominanti e dominati. Esiste, si, un ceto dirigente politico; ma esso, in qualunque modo sia scelto, per elezione popolare, per cooptazione, per eredità, per autodesignazione, opera nell’interesse esclusivo particolare della totalità o della maggioranza dei singoli cittadini (stato cooperativo) ovvero in quello della collettività (stato moderno).

14. – Dico che, posta la premessa della mancanza di contrasto e separazione fra dominanti e dominati, la distinzione fra i due tipi di stato è logicamente assurda, appunto perché essa si riferisce allo stato ed agli uomini in quanto appartenenti allo stato. Supporre che il ceto dirigente di uno stato cooperativo si possa preoccupare solo degli interessi dei cittadini come singoli, sia pure della totalità o della maggioranza di essi è supporre che esso agisca come se lo stato non esistesse, come se i cittadini di uno stato fossero un semplice aggregato di atomi l’uno distinto dall’altro e riuniti solo dalla opportunità tecnica di conseguire, senza danno di nessuno, taluni vantaggi particolari meglio di quanto otterrebbero con l’opera individuale separata. No. Lo stato non è una mera società per azioni. A causa dello stato i cittadini cessano di essere dei singoli; diventano altri da quel che erano prima o, poiché non esistettero mai fuor di uno stato, da quel che si può artificiosamente immaginare sarebbero fuor di esso; la loro personalità non è più quella dell’uomo, ma dell’uomo vivente in una società organizzata a forma di stato. Non si può, neppure a scopo di mero strumento logico di indagine, immaginare che l’uomo resti, nello stato, il singolo considerato come singolo, ossia come una astrazione; e che si possa fare il conteggio dei singoli e constatare la esistenza di totalità o di maggioranze più o meno grandi.

Noi in verità non sappiamo che cosa siano entità dette uomini isolati, Robinson Crusoè viventi in un’isola deserta, privi di conoscenza di quel che poteva essere stata la loro vita in società e non legati, come era il Robinson Crusoè di Daniele Defoe, ad essa dal desiderio di ritornare a farne parte. I soli uomini da noi conosciuti, anche storicamente o per relazioni di viaggiatori, sono uomini viventi in società e dalla vita comune con altri uomini resi veri uomini, ricchi di cultura, di energia interiore, forniti di passioni di dominio o di fama, ovvero dotati di umiltà e di amore verso gli altri; uomini insomma e non automati simili a quelli immaginati nel tempo dell’illuminismo. La persona, l’individuo nell’uomo diventa più vario e ricco in quanto esso vive insieme con altri uomini e la società o collettività non è un che di distinto dagli uomini che la compongono ed esiste soltanto in quanto essa trasforma gli uomini e da atomi sperduti od automati meccanici ne fa uomini veri. Perciò il concetto degli appartenenti al gruppo pubblico e quello del gruppo pubblico considerato come unità hanno senso solo se considerati unitamente e inscindibilmente l’uno dall’altro; non ne hanno veruno quando si pretenda figurarli ed assumerli disgiuntamente.

Già dissi che lo strumento di indagine, se vuole essere fecondo, deve avere una qualche parentela con la realtà; e la realtà non è quella di un uomo, di cento uomini, di un milione di uomini, ognuno in se stesso considerato e numerato; ma è quella dell’uomo vivente dentro la collettività, trasformato da questa, avente fini che sono tali in quanto egli fa parte della collettività. Discorrere di interessi particolari di ciascuno si può, con moltissima cautela, quando si tratti di faccende private, entro i limiti nei quali lo stato non interviene. Ma se noi pensiamo a scopi che sono perseguiti attraverso o dentro lo stato, noi ipso-facto pensiamo a scopi i quali sono proprii dell’uomo in quanto parte della collettività, scopi, i quali possono riuscire di vantaggio ai singoli non in quanto tali, ma in quanto membri della collettività. Non esistono più, nello stato, interessi particolari ed interessi della collettività; ma gli uni sono fusi negli altri, e gli uni si possono conseguire solo se si conseguono gli altri. Né a caso i ceti dirigenti usano un linguaggio, il quale, se spesso è improprio, è indice della loro consapevolezza della inscindibilità dei fini privati e di quelli collettivi (nel senso di fini proprii della collettività come unità, come insieme). Se sul serio supponiamo, perciò, attuata l’idea dello stato cooperativo, ipso facto vediamo attuata l’idea dello stato moderno.

separatamente assunti, che ne fanno parte. Può trasportare la lettera di Tizio; e così facendo rende servigio a lui e non a Caio. Ma questa è mera tecnica; è un modo economicamente od altrimenti reputato vantaggioso per raggiungere fini che potrebbero altresì essere perseguiti coll’azione individuale: di trasporti ferroviari, tramviari, postali, telegrafici, telefonici, di illuminazione, di istruzione professionale ecc. ecc. Ed è tecnica propria di tutti i tipi di stato, non peculiare allo stato cooperativo. Se lo stato decide di costruire una strada, che i singoli proprietari beneficati – e si può supporre che il beneficio sia ottenuto praticamente solo dai proprietari serviti dalla strada – non riuscirebbero a costruire con accordo spontaneo, l’intervento dello stato è, di nuovo, un mero mezzo tecnico per raggiungere o raggiungere meglio un fine che i singoli sarebbero incapaci a conseguire od a conseguire perfettamente. Ed è mezzo usato da tutti i tipi di stato e non peculiare a quello cooperativo. Ossia, ancora, lo stato detto cooperativo non può, se è stato, limitarsi ai fini che tornano vantaggiosi particolarmente ai singoli od almeno alla maggioranza di essi. Lo stato il quale si limiti a perseguire fini vantaggiosi ai singoli, anche a tutti i singoli non ha vita autonoma. Esso suppone la esistenza di un altro stato, cosidetto moderno, il quale persegua fini proprii della collettività assunta nel suo insieme. Prima esiste lo stato, il quale assicura la vita della collettività, la difende contro il nemico esterno, la conserva e la esalta contro le forze di disgregazione interna (giustizia, sicurezza, istruzione); e tutti questi fini sono proprii della collettività una e indivisibile; sono fini non apprezzabili se non attraverso ad artifici convenzionali, appunto perché essi non sono fini propri degli uomini singoli, soli capaci di valutazione economica. Poi, lo stato, già formato e forte e duraturo, può prendersi il lusso di venire in aiuto dei singoli, assumendo compiti e perseguendo fini che essi da soli non potrebbero perseguire o perseguirebbero imperfettamente: costruire strade vicinali, cercare sbocchi coloniali ad agricoltori e commercianti ed industriali ardimentosi, esercitar poste e ferrovie. Lo stato cooperativo puro è acefalo; ed ha vita puramente complementare a quella dello stato moderno.

Un esempio addotto dal Fasiani è illuminante.

«Durante l’ondata di pacifismo dilagante in Europa subito prima della guerra 1914-18 si è da vari autori negata la convenienza delle Conquiste coloniali, in quanto il costo dell’impresa supera, a loro dire, il valore del flusso di reddito che se ne può trarre.

Prescindiamo pure dal fatto che la conclusione era del tutto arbitraria e priva di qualunque base seria. Ma il modo stesso con cui il problema veniva impostato, dimostra che gli autori che lo proponevano avevano esclusivamente di mira una organizzazione in cui il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza. Soltanto in questa il problema della conquista può assumere l’aspetto di un bilancio fra i sacrifici che i singoli son chiamati a sopportare e i vantaggi che ne possono trarre. In una organizzazione in cui il potere sia esercitato invece nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità, il problema è assai più vasto e complesso. La conquista non è più una questione di dare ed avere nel bilancio dei singoli, ma riguarda la sorte del gruppo pubblico come tale: le sue possibilità di espansione, la sua potenza militare e politica, la formazione e la decadenza del suo imperialismo. Non è più in gioco l’interesse del singolo, ma l’interesse del gruppo considerato come unità» (I, 47-48 e 42).

Supponiamo di aver superato le difficoltà di valutazione dei costi e dei redditi dell’impresa coloniale, rispetto alla quale sembra probabile la conclusione che il bilancio si chiuda sul serio in perdita per l’imprenditore (stato o compagnia), rimanendo incerta, perché sinora non indagata, la natura della chiusura del bilancio per i singoli coloniali andati al seguito dell’imprenditore; e supponiamo altresì di aver superato le difficoltà della valutazione dei fini di potenza e di espansione dello stato, concepito come unità, il quale inizia l’impresa coloniale. Dico che il primo bilancio, del costo dell’impresa col flusso dei redditi che se ne possono trarre, non è il bilancio di uno stato; ed aggiungerei anzi che quasi non lo interessa. Concepita come un bilancio di dare ed avere economico, l’impresa coloniale è propria di una società di azionisti perseguenti fini di arricchimento. Se vogliamo attribuirla allo stato, essa pare propria dello stato monopolistico, il cui gruppo dominante la mediti per arricchire se stesso ed i proprii affiliati o cadetti. Una società coloniale per azioni, è, sì, costituita allo scopo di crescere il reddito degli azionisti consociati al di là di quanto costoro potrebbero ottenere se isolatamente e separatamente si avventurassero a colonizzare paesi nuovi o barbari. Ma una società per azioni non è lo stato, il quale, se è tale, deve perseguire fini i quali sono proprii degli uomini in quanto essi facciano parte di una collettività politica. Qual è il bilancio del dare e dell’avere individuale del raggiungimento dei fini della sicurezza, della giustizia, della difesa o potenza nazionale, della pubblica igiene, i quali, da che mondo è mondo, sono caratteristici dello stato, di un qualunque stato il quale sia inteso alla propria conservazione? Se l’organizzazione di cui si parla pensa, iniziando un’impresa coloniale, solo ad un bilancio di costi e di redditi, quella non è stato, è semplicemente una compagnia coloniale, che io anzi direi senza carta, perché tutte le vecchie carte di concessione di conquiste coloniali imponevano obblighi di espansione, di potenza militare, di influenza politica a pro della madrepatria. Se una organizzazione coloniale è veramente stato, se essa emana od è la lunga mano dello stato, essa necessariamente persegue fini di gruppo, fini proprii degli uomini viventi e in quanto viventi nella collettività nazionale della madrepatria. Insomma, lo stato cooperativo o non è stato ovvero è tutt’uno con lo stato moderno; e, qualunque ne sia il nome, si chiama semplicemente stato e persegue i fini suoi proprii.

16. – I fini proprii dello stato, non possono, d’altro canto, essere concepiti fini esclusivi del gruppo considerato come una unità. Se lo stato cooperativo, concepito come perseguente soltanto fini dei singoli che lo compongono, è acefalo; lo stato moderno, concepito come perseguente esclusivamente fini della collettività considerata nella sua unità, è un mostro. L’ipotesi suppone l’assurdo: che possa darsi uno stato il quale operi nel proprio interesse di collettività senza preoccuparsi degli interessi degli uomini vivi che lo compongono. Non è, se si voglia conoscere la realtà, supponibile che nello stato moderno «l’interesse dei singoli sia d’importanza affatto secondaria rispetto all’interesse del gruppo considerato come un organismo». Immaginare che in quel tipo di stato l’attività finanziaria possa essere «perseguita anche se non accresce il benessere individuale della totalità o della maggioranza dei consociati» (I, 43) è fare ipotesi la quale non ha alcun addentellato con la realtà.

Partire dalla premessa che esista una unità detta stato, dei cui interessi la classe politica possa nell’esercizio del potere preoccuparsi esclusivamente, invece che degli interessi particolari di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, è partire da una premessa irreale. Non esiste infatti l’unità stato concepita come distinta dai cittadini dello stato medesimo. Per dare corpo all’ombra fa d’uopo uscire dal campo proprio dei due tipi di stato, cooperativo e moderno; concepire l’esistenza effettiva di un’entità, diversa e sovrapposta agli uomini, ossia entrare nel campo proprio del tipo di stato monopolistico. Se è vero che l’uomo isolato non esiste, se è vero che non esistono i due, i tre, i mille, i milioni di individui componenti la collettività, separatamente considerati, se è vero che i due, i tre, i mille, i milioni di individui sono tali quali sono perché viventi nella società; se è vero che di interessi dei singoli non può parlarsi, se non in quanto essi singoli facciano parte della collettività; se è vero che di interessi della collettività non possa parlarsi se non in quanto essi siano anche interessi dei componenti di essa; è vero che il dualismo fra individuo e collettività è concepibile solo se la collettività si incarni in qualcuno, uomo singolo o gruppo di uomini, ossia si incarni nella classe politica. Cacciato dalla porta il concetto dello stato monopolistico rientra dalla finestra della entità superiore, diversa e trascendente, detta stato concepito come unità.

Si spogli del resto la tesi della sua terminologia crudamente economica. Lo stato non è un ente il quale persegue fini economici, di interessi, intesi nel senso nel quale questa parola è comunemente assunta di vantaggi misurabili in lire, soldi e denari. Lo stato ossia gli uomini viventi nella società politica perseguono fini, economici morali politici, proprii del loro vivere collettivo dentro lo stato. Assumere che essi possano distinguere i fini conseguibili per mezzo dello stato in fini vantaggiosi ad essi come singoli e in altri vantaggiosi ad essi come collettività è risuscitare quel dualismo fra i singoli e lo stato, che apparve già dianzi erroneo discorrendo dello stato cooperativo. Il dualismo fra i singoli e il tutto appare anzi qui sotto un aspetto più terrificante e pericoloso; in quanto è fondato sulla premessa di uno stato il quale pensi e provveda solo alla collettività e non agli uomini che ne fanno parte. La concezione non è moderna; è antica come i tiranni greci, come l’Etat c’est moi di Luigi XIV; è il ritorno alla pagana deificazione dello stato sopra l’individuo. Cristo sarebbe venuto indarno sulla terra se noi non fossimo persuasi che lo stato non ha altro scopo se non la elevazione morale e spirituale dell’uomo vivente nella società dei suoi simili. L’elevazione dell’uomo singolo non può non aver luogo nello stato; deriva dal contatto necessario di ogni uomo libero con tutti gli altri uomini liberi, dalla emulazione reciproca di essi. Non esistono fini dello stato i quali non siano anche fini degli uomini, di tutti gli uomini, dei morti, dei vivi e dei non nati ancora.

Nella società organizzata gli uomini viventi acquistano la consapevolezza del legame inscindibile che li avvince alle generazioni passate ed a quelle future. Non lo stato come ente pensa ai trapassati ed ai nascituri, ma gli uomini associati e fatti diversi, esprimono, per mezzo dello stato, la volontà di perseguire fini, i quali vanno oltre la loro vita caduca e radicati nel passato si protendono nel lontano avvenire. Come potrebbero gli uomini isolati, anche se viventi a milioni gli uni accanto agli altri pensare e provvedere a fini relativi a gente non viva? Gli uomini, insieme viventi, sono essi lo stato. Essi e non qualche cosa di trascendente che stia sopra e al di là di essi, anche se questo qualcosa lo decoriamo col nome di collettività o di gruppo o di stato. Per vedere un tipo di stato il quale persegua esclusivamente fini della collettività, come unità, bisogna ritornare indietro di millenni. Ma forse neppure nell’Egitto o nella Persia antichi si può trovare qualcosa che rassomigli al mostro che ci si vorrebbe presentare sotto la denominazione di stato moderno. Anche allora gli uomini credevano in qualche cosa. Anche quando elevavano le piramidi, e cadevano uccisi dalla fatica, gli uomini credevano di salire così più facilmente in cielo, essi e non la loro mitica unità collettiva.

Migliaia di martiri sono morti per protestare contro l’idolo trascendentale dello stato posto al disopra e fuori degli uomini che lo compongono. Un grande santo e uomo di stato, Tommaso Moro, è salito sul patibolo perché non volle riconoscere che lo stato fosse giudice nelle cose della coscienza; e ammetteremmo oggi che possa esistere uno stato moderno il quale persegua fini proprii del solo gruppo e possa quindi comandare all’uomo, in ubbidienza al gruppo, di violare i comandamenti che la coscienza gli detta?

Sì, un mostro cosifatto di stato può essere esistito; ma non è moderno né compatibile con la libertà dell’uomo. Lo stato moderno è quello e solo quello il quale persegue fini di elevazione morale e spirituale e perciò e solo perciò anche di benessere economico degli uomini nei quali lo stato medesimo si sostanzia e si compone. Elevazione non di ipotetici uomini selvaggi viventi isolati nelle foreste, ma di uomini viventi nella società dei loro simili.

17. – Certo, col sostituire alla nozione di stato, nel quale «il potere sia esercitato nell’interesse di tutti gli appartenenti al gruppo pubblico, ma avendo di mira gli interessi particolari di ciascuno o almeno della maggioranza» (cosidetto stato cooperativo), o in cui esso sia invece esercitato «nella preoccupazione degli interessi del gruppo pubblico, considerato come una unità» (cosidetto stato moderno), la nozione di stato, nel quale «il potere è esercitato al fine della elevazione morale e spirituale e perciò economica degli uomini viventi in società» noi siamo scivolati od ascesi dalla concezione del dualismo fra stato monopolistico e stato cooperativo (con la variante di moderno) al contrasto dialettico fra stato e non-stato, fra lo stato il quale vuol vivere e durare e il non-stato il quale a quello si contrappone e lo dissolve. Senza volerlo, i teorici i quali come De Viti e Fasiani hanno creato la figura astratta dello stato monopolistico, hanno in quella figura sintetizzato le forze che in ogni momento storico minano l’esistenza dello stato e lo conducono alla rovina.

Lo stato monopolistico, che sia veramente tale e in cui si riscontrino caratteristiche che lo distinguano sul serio dallo stato cooperativo o moderno, è solo quello che sopra fu detto il sottotipo (c) dello stato in cui i governanti per vie non logiche sfruttano i dominati in modo da preparare e determinare la propria rovina. Uno stato in cui ciò non accada potrà essere assoluto od oligarchico, monarchico o repubblicano, retto da uno, da pochi o molti, ma non può dirsi monopolistico, sinché non si sia dimostrato, e sarebbe dimostrazione meravigliosa a darsi, che la sua classe dirigente «eserciti il potere nel proprio esclusivo interesse senza preoccuparsi degli interessi dei dominati». Ma questo è il non-stato, che sempre è esistito e sempre esisterà accanto allo stato. Sempre, in ogni momento storico, vi è il pericolo che le forze di dissoluzione prevalgano su quelle creative e organizzatrici; che gli egoismi individuali prevalgono sul bene comune. Sinché in un paese sono vive ed operose le forze morali intellettuali ed economiche le quali innalzano gli uomini, esiste lo stato e questo dura, lotta, prospera. Quando nel paese diventano forti e prevalenti le forze le quali degradano gli uomini, può in apparenza durare la forma esteriore dello stato; ma è forma senza contenuto. Al primo urto essa si dissolve e tutti vedono che essa era il non-stato. L’impero romano d’occidente nel quarto e quinto secolo stava dissolvendosi internamente; e, prevalendo in esso le forze disgregatrici, i potenti volgevano a proprio profitto i tributi pagati dai più, invece di volgerli al vantaggio comune.

Quando vennero i barbari, essi altro non fecero se non constatare la scomparsa già avvenuta dello stato.

La distinzione, che appartiene al mondo della realtà e della storia, fra stato e non-stato è ben altrimenti feconda di quella astratta fra tipi di stato monopolistico, cooperativo e moderno. Sempre, in ogni momento e in ogni luogo, coesistono, ad esempio, tributi che accompagnano lo stato nella sua ascesa e ne sono nel tempo stesso effetto e condizione; sempre vi sono altri tributi i quali agevolano il non-stato nel suo fatale percorso verso l’abisso e sono causa e manifestazione della sua decadenza. Sempre gli effetti del primo tipo di imposte sono stati e saranno diversi da quelli del secondo tipo; e gli effetti diversi sono stati e saranno nel tempo stesso effetto e causa e manifestazione della prosperità degli stati e della rovina dei non-stati. Alla luce della distinzione storica tratta dalla realtà i fatti singoli si illuminano e si concatenano; laddove legate a definizioni astratte in materie ribelli all’astrazione, elegantissime dimostrazioni teoriche perdono alquanto del loro splendore di verità sempiterne. Perché, ove si vogliano costrurre sistemi, non costrurre sulla realtà, che è sempre la stessa, ossia è sempre lotta, sforzo, superamento, conquista, frammezzo a caduta e ricorsi, di più alti ideali di vita?

La distinzione fra i tipi di stato monopolistico e cooperativo appare come una distinzione definitoria, la quale lascia nell’ombra la caratteristica veramente fondamentale della contemporanea coesistenza dei due tipi in ogni tempo e luogo. È la coesistenza la quale spiega l’alternarsi delle classi politiche, la decadenza della classe al potere, il sorgere di nuove forze sociali, le quali divengono a poco a poco ceto politico, atto a conquistare il potere ed a volgerlo a vantaggio morale e materiale dei componenti la collettività e nel tempo stesso già provvedute di quei motivi egoistici, i quali col tempo faranno si che il potere venga esercitato nell’interesse dei dominanti, colla rovina della cosa pubblica e del gruppo dominante medesimo. Il contrasto dialettico fra stato e non-stato che sempre coesistono e lottano per la prevalenza è, in altra sede, il contrasto eterno fra Dio e Satana, fra il bene e il male, fra la materia e lo spirito; o, meglio, è il contrasto che è dentro di noi, che ci fa soffrire e godere, che ci salva dalla morte e dal nulla per la vita che è continua lotta, continuo sforzo.

Così scrivendo è chiaro che, travalicando i confini della scienza economica astratta, abbiamo pronunciato giudizi di valore.

18. – Può, del resto, l’economista astenersi dal pronunciare giudizi di valore, intendendo per essi giudizi sul bene e sul male morale e spirituale proprii delle scelte che gli uomini fanno ed allo studio delle quali ragionevolmente si limita, per ragioni di divisione del lavoro, il campo specifico della sua indagine? La domanda non è se egli possa, volendo, astenersi dallo scrivere su problemi sui quali non ha meditato a bastanza; ché, evidentemente se il motivo del silenzio è questo, la astensione è degna di lode. È invece se egli debba essere scomunicato se si azzarda ad uscire fuor dello studio delle scelte fatte dagli uomini, perché colpevole di condotta antiscientifica.

Se è vero che il non-stato coesiste per lo più con lo stato, l’economista, il quale, per definizione, conosce ed indaga i vincoli fra l’uno e l’altro, pone, per suo istituto, in luce le ragioni per le quali si passa dall’uno all’altro e l’uno tende a prevalere sull’altro. Là dove esiste uno stato fornito di indefettibilità, ed in esso, per definizione, la volontà della classe politica è la stessa cosa della volontà di tutti ed insieme della collettività, l’economista, il quale discute di questi problemi, altro non è se non la voce di tutti, la voce della collettività. Egli non può dire: ascolto e registro; poiché se ascolta opinioni o propositi che a lui paiono infondati, egli che è parte della collettività e quindi, per definizione, parla per conto ed a nome della collettività, non può rinunciare a contrapporre argomento ad argomento, a fare che la volontà sua, che egli sa più illuminata, diventi la volontà della collettività.

Sapendo che il dato, dal quale egli dovrebbe nelle sue indagini prendere le mosse, è incompatibile con altri dati che pure sono stati fissati dalla classe politica, o che a lui sono noti per la sua partecipazione, necessaria partecipazione, alla classe politica, egli non può fare a meno di dichiarare siffatta incompatibilità e di spingere la volontà politica, che è la sua stessa volontà, a modificare o l’uno o l’altro dei dati. Egli si decide a favore di una scelta ovvero di un’altra per qualche ragione da lui ritenuta valida; la ragione valida per lui, che la deve render pubblica, è, secondo opinano gli economisti che ragionano utilitaristicamente, quella del vantaggio per tutti o per la collettività; ovvero è, a detta di altri ed a parere dello scrivente, l’imperativo dell’elevazione morale e quindi materiale degli uomini.

Quando Demostene, ahimè! troppo tardi, fece deliberare dal popolo ateniese che il theoricon e, in generale, gli avanzi di bilancio fossero versati nella cassa di guerra invece che distribuirli gratuitamente ai cittadini, egli riuscì nell’intento solo perché seppe far sorgere viva dinnanzi ai loro occhi l’immagine del pericolo, minaccioso per la libertà cittadina, degli eserciti di Filippo il Macedone. La sequenza:

  • la libertà cittadina è per gli ateniesi il bene massimo;
  • la libertà è minacciata da Filippo il Macedone;
  • senza una pronta preparazione alla guerra, la minaccia di Filippo non può essere scansata;
  • la preparazione richiede mezzi pecuniari;
  • la limitazione dei mezzi richiede la rinuncia alla distribuzione del theoricon ai cittadini desiderosi di feste e di spettacoli;
  • feste e spettacoli sono un bene di pregio inferiore a quello della libertà cittadina;
  • quindi importa mutare la scelta: guerra invece di feste e spettacoli; non può essere mutilata solo perché l’economista ritenga di dovere partire dalla scelta già fatta (feste e spettacoli ovvero preparazione alla guerra) dall’assemblea dei cittadini e non si azzardi a pronunciare su quella scelta un giudizio di valore che sarebbe politico-morale. Tutto quel che accade: feste o spettacoli, imposte sui ricchi o sui poveri, imposte alte o basse, imposte che si trasferiscono in un modo o in un altro, che incidono su questi o su quei cittadini, tutto è frutto di giudizii, di atti di volontà; e l’economista, il quale contempla e registra e analizza e concatena scelte, costi di servizi pubblici, tipi di imposte, contempla e registra ed analizza quel che egli stesso, insieme con gli altri, parte inscindibile della collettività, ha giudicato e voluto. Il chimico non può far sì che l’idrogeno e l’ossigeno non siano quel che sono, e non ha d’uopo di formulare giudizi di bene o di male su quel che è come è indipendentemente dalla sua volontà; ma l’economista fa sì, egli insieme con gli altri e per le sue maggiori conoscenze egli più degli altri, che i dati del suo problema siano quel che sono. La sua volontà contribuì alla scelta dei servizi e vi contribuì perché egli sapeva quali sarebbero state le uniformità derivanti dalla scelta fatta e quali sarebbero state le diverse uniformità derivanti da una diversa scelta. Perché la classe politica ed egli con essa ed egli all’avanguardia di essa preferì l’una sequenza di uniformità all’altra? Perché egli ritenne che la libertà cittadina (destinazione del theoricon e degli avanzi di bilancio alla cassa di guerra contro Filippo di Macedonia) era il bene; e che le feste e gli spettacoli erano, in quel momento, il male. Theoricon, avanzi di bilancio, libertà e servitù cittadina, bene e male sono tutti fatti o concetti legati gli uni agli altri; e non esiste alcuna ragione plausibile perché la ricerca scientifica debba arrestarsi dinnanzi al bene ed al male, dinnanzi agli ideali ed alle ragioni della vita quasi si trattasse di intoccabili.

Si potrà dire che, a quel punto, lo scienziato deve chinare, reverente, il capo dinnanzi a qualcosa a cui la sua mente non giunge, ed intorno a che solo i profeti i mistici i filosofi dissero parole illuminanti. Si potrà dire che da quel momento nel quale le scelte sono fatte e registrate, comincia, in ossequio a legittimi canoni di divisione del lavoro, il compito specifico dell’economista: se gli uomini hanno deciso di fare le tali e tali scelte, con tutto quel che segue. Ma se quel che segue a sua volta ha influenza sulle scelte compiute, se i risultati delle scelte e le scelte medesime reagiscono sui motivi di queste, come si può dire: di qui comincia la scienza; e prima c’e… che cosa? Fuor della scuola non esistono i vincoli di cortesia accademica i quali vietano ad un insegnante di usurpare il terreno altrui; e la curiosità scientifica non ha limiti alle sue domande sul come delle cose.

19. – L’atteggiamento di indifferenza dell’economista verso i motivi delle scelte è, probabilmente, radicato nella premessa dei ragionamenti classici intorno al prezzo in caso di libera concorrenza. Quando l’attenzione era rivolta solo allo studio di questo caso, che di fatto dominava di gran lunga su tutti gli altri, l’economista poteva credere che l’azione dell’individuo e quindi sua fosse inetta a produrre, con una scelta diversa, una qualsiasi impressione sui prezzi. L’azione infinitesima del singolo era di fatto nulla rispetto alle scelte verificantisi sul mercato ed al sistema di prezzi che ne seguiva; e poteva essere ritenuto ovvio partire dalla constatazione delle scelte senza risalire più in là nello studio dei legami tra i fatti. Non fu più così quando si cominciò a studiare il caso del monopolio. Si dovette forzatamente ricercare quale fosse il motivo che spingeva il monopolista produttore a scegliere quella quantità di merce da produrre o quel prezzo di vendita. Si dovette ammettere che il monopolista produttore ponesse a fondamento delle sue azioni il motivo, non si sa se bello o brutto, cattivo o buono, del massimo lucro netto. Si riconobbe cioè che quella teoria del prezzo del monopolio non parte dalla mera constatazione di una scelta già fatta; ma dalla premessa che quella scelta di quantità o di prezzo è motivata dalla volontà della consecuzione di un dato fine. Senza quel motivo e quel fine, la scelta sarebbe stata diversa. Oggi, che si studiano i casi di concorrenza imperfetta o di monopoli parziali o bilaterali, gli economisti hanno dovuto costrurre ragionamenti assai complicati intorno all’atteggiamento dei pochi concorrenti o dei monopolisti rivali, ed intorno alle ipotesi che ognuno di costoro fa sui movimenti altrui. I giocatori di scacchi non movono le loro pedine solo sulla base dei movimenti altrui già avvenuti (constatazione di scelte già avvenute) ma cercano di indovinare i motivi che i rivali possono avere di compiere questo o quel movimento futuro. Il generale sul campo di battaglia ragionando sui motivi probabili dell’avversario cerca di intuirne i movimenti e su questi regola i proprii. L’economica moderna è sempre più largamente intessuta di studi sulle previsioni (anticipations è divenuta parola frequentissima, fin troppo, nei libri e nei saggi di economia pura anglosassone) delle azioni altrui e sulle conseguenti variazioni delle azioni dell’individuo considerato. Si potrà dire che ciò non cambia sostanzialmente l’indole del problema; e che, in fondo, l’economista non cerca se non di rappresentare dinnanzi alla propria mente il quadro non solo delle scelte passate e presenti ma anche di quelle future, le quali influiscono sulle scelte e sui prezzi e su tutte le quantità economiche presenti. Se è facile limitarsi a constatare scelte già avvenute e ragionar su queste e contentarsi di cotali constatazioni e ragionamenti, è tuttavia altrettanto facile prevedere scelte future, senza ricostruire colla fantasia i motivi che gli uomini probabilmente avranno di compiere questa a preferenza di quella scelta? Non siamo noi indotti così, quasi a viva forza, a riforgiare l’intiera catena causale che, per ragioni di divisione del lavoro, avevamo spezzato in un punto? Il caso medesimo della libera concorrenza, tipica rappresentazione dell’automatismo di milioni di produttori e di consumatori, tutti di modeste dimensioni, tali che l’azione dell’uno può ritenersi del tutto inetta ad influenzare l’azione degli altri e le variazioni dei prezzi sul mercato, è in verità un meraviglioso artificio. Quell’automatismo, quel muoversi non concertato di milioni di atomi, quell’incontrarsi non preordinato di contraenti, nessuno dei quali sa o si cura dell’azione altrui è in realtà il frutto di un concerto, di una vigile continua azione rivolta ad impedire vengano meno le premesse di quell’automatismo e di quell’apparente disordine. Il concerto e l’azione si chiamano codice civile, codice di commercio, giurisprudenza, giudici, discussioni sulle riviste, sui giornali, nei parlamenti, nei consessi professionali, i quali hanno per fine e vorrebbero avere per risultato – e l’ebbero e l’hanno, qua e là, in maggiore o minor misura – di impedire il sorgere di monopoli, di inventar surrogati alla concorrenza palesatasi in dati casi scarsamente vitale, di abolire o limitare i motivi alla creazione di monopoli e di quasi monopoli. Concerto ed azione sono intessuti di passioni e di azioni rivolte a conquistar dominio su altri od a liberar gli uomini da qualche giogo, a deprimere o ad innalzare.

20. – La convenzione in virtù della quale l’economista puro studia le uniformità più generali di prima approssimazione del sistema di prezzi in regime di libera concorrenza, l’economista applicato le uniformità più vicine alla realtà concreta, e quindi, eventualmente, le forze le quali limitano l’azione della concorrenza e ne indaga gli effetti e indica i mezzi grazie ai quali sarebbero tolti di mezzo gli effetti della limitazione, ed il politico, ed il giurista enunciano i principii o formulano le norme legislative od amministrative atte ad eliminare od a ridurre le limitazioni alla concorrenza, quella convenzione ha una utilità pratica indiscutibile, ma nulla più. Quanto più la rappresentazione che noi ci facciamo della realtà passa dal tipo della istantanea fotografica a quella della cinematografia estesa nel tempo, dalla statica alla dinamica, tanto meglio scelte fatte, scelte future e previste, conseguenze delle scelte fatte e motivi delle scelte future si innestano e si compenetrano le une negli altri, sì da rendere monca e spesso illogica la trattazione separata di ognuno degli aspetti di un unico problema.

21. – La trattazione autonoma di un solo aspetto dell’unico problema è certo perfettamente legittima. Chi vuole studiare le leggi del prezzo in regime di libera concorrenza ha mille ragioni di non voler essere disturbato dalle vociferazioni di coloro i quali gli vorrebbero imporre di dichiarare se, a parer suo, la libera concorrenza sia un bene od un male, sia tollerabile o non dal legislatore liberale o socialista o conservatore o cattolico, sia storicamente destinata a scomparire e, se per avventura scomparisse, sia capace di risurrezione. Chi vuole studiare le leggi dell’imposta in una situazione ipotetica da lui definita con esattezza ha ragione di cacciar fuor dall’uscio i disturbatori, i quali vorrebbero invece che egli desse un giudizio storico o morale o politico intorno ai regimi di monopolio o di concorrenza, che egli ha assunto come premessa delle sue indagini. Contro siffatte prepotenze ogni studioso ha diritto di insorgere.

Il diritto di insurrezione non implica però il diritto di scomunica contro altre ricerche. Chi studia il modo di agire della classe politica, intesa nel senso di gruppo di persone le quali posseggono le qualità, qualunque esse siano, necessarie in quel tempo, per esercitare il comando dello stato ha perfettamente ragione di limitare il suo studio alla classe politica intesa in quel senso e non in un altro. Ma non ha il diritto di escludere che altri studi la medesima classe politica diversamente definita, sì, ad esempio, da legittimare veramente l’uso, altrimenti improprio, della terminologia di classe eletta. L’aveva definita Platone come composta di pochi «uomini divini… i quali hanno saputo serbarsi puri da corruzione». Essi debbono essere ricercati dai cittadini «per terra e per mare, in parte per rafforzare quel che v’è di saggio nelle leggi del loro paese ed in parte per correggere quel che può essere in quelle di difettoso. Non è possibile la perfezione nella repubblica, se non si osservano e non si cercano questi uomini o se ciò si fa male». La concezione della classe politica come quella la quale consiste in quei gruppi di uomini che aspirano alla conquista del potere, o riescono a conquistarlo ed a conservarlo per un tempo più o meno lungo, concezione dominante nei libri classici di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto, non è la sola possibile. Accanto ad essa, esiste non di rado un’altra classe, di uomini che non aspirano al potere, e non di rado sono perseguitati da coloro che detengono il potere. Sono i cristiani dei primi due secoli, i grandi filosofi, i saggi ed i virtuosi d’ogni tempo. Hanno essi il potere morale e talvolta sono assai più potenti di coloro che detengono il potere politico. Costoro compongono la classe eletta. Assai di rado accade che la classe eletta sia chiamata a governare gli stati od abbia parte preponderante e decisiva nel governo. Nascono in quei rarissimi casi gli stati prosperi pacifici e stabili; ed in questi stati tende ad essere osservata la legge morale, le relazioni fra le classi sociali non sono turbate da discordia e da invidia, le condizioni economiche della nazione progrediscono, intendendosi per progresso quella situazione della quale gli uomini sono malcontenti solo perché anelano tuttavia ad innalzare se stessi, e la finanza pubblica è congegnata in modo da riposare sul consenso universale.

Perché non dovrebbe essere oggetto di studio scientifico fra le tante specie di classi politiche e di formule da esse adoperate per governare i popoli anche quella particolare specie la quale, ubbidendo alla legge morale, assicura la persistenza e la risurrezione dei popoli grazie alla formula eterna del decalogo e sola sembra perciò aver diritto all’appellativo di eletta? Perché, astrazion fatta da questi rarissimi quasi leggendari casi di stati governati da una classe eletta, non dovrebbe essere oggetto di studio scientifico l’operare perenne, talvolta inavvertito, ma sempre attivo, della classe eletta a scuotere il dominio delle classi politiche le quali di fatto sono al governo degli stati, ma non potranno durare a lungo se conducano gli stati al male ed alla rovina e seminino i germi della discordia civile e della disfatta militare? Lo studio della classe eletta non è altrettanto rilevante ed ugualmente possibile come quello della classe meramente politica? Non è esso lo studio di quel che dura accanto a quel che passa, delle forze e delle idee le quali guidano l’umanità verso l’alto, accanto a quello delle forze e delle idee le quali lo traggono in basso? Certamente è ardua impresa definire l’alto e il basso; ma la difficoltà non ha mai scoraggiato gli indagatori amanti della ricerca scientifica. Si farebbe grave ingiuria all’intelletto umano se lo si dichiarasse inetto a distinguere fra Dio e Satana. Chi, aborra da siffatte considerazioni quasi fossero estranee alla scienza, ma reputi tuttavia pertinente ad essa l’indagine dell’alternanza delle classi politiche al potere, dei vincoli esistenti fra la composizione delle classi politiche, il tipo e la durata dello stato esistente, la quantità e la qualità delle entrate e delle spese pubbliche;

deve reputare ugualmente pertinente alla scienza: l’indagine dell’esistenza nella collettività di classi elette distinte dalla classe politica, od immedesimate con essa, dei vincoli esistenti fra classe eletta, classe politica, persistenza, decadenza, dissoluzione e resurrezione dello stato, contentezza o malcontento, prosperità o rovina della collettività.

Non pare che classi elette, persistenza, decadenza, dissoluzione, risurrezione, contentezza, malcontento, prosperità, rovina (b) siano concetti di più ardua definizione o descrizione di classe politica, potere, interesse a conquistare ed a conservare il potere (a), né pare che la ricerca dei vincoli esistenti tra i fatti (b) sia di indole diversa di quella dei vincoli tra i fatti (a). Se è vero che i vincoli (a) sono spiegati dai (b) e solo per contrasto o reazione gli (a) spiegano i (b), si deve concludere che, pure essendo amendue scientifiche, la indagine (a) è posta su un piano inferiore a quello (b).

22.- Il diritto di limitare i proprii studi all’investigazione delle leggi del prezzo in regime di concorrenza piena o limitata o di monopolio o polipolio non implica dunque l’affermazione, ben diversa, che la scienza finisca a quel punto e che gli sforzi altrui intesi ad investigare se l’attuazione della concorrenza piena o del monopolio sia o non sia conforme a un certo ideale di vita cadano fuori del territorio scientifico. Il diritto di limitare le proprie investigazioni alle leggi dell’imposta in regime di stato monopolistico arbitrariamente definito non implica altresì il diritto di negare carattere scientifico all’indagine ben diversa sulla conformità ai fatti di quella definizione e sulla logica di altre diverse definizioni dei tipi di stato. Dall’insurrezione non è lecito trascorrere alla scomunica, perché si dichiarerebbe così che l’ipotesi della libera concorrenza o dello stato monopolistico sono meri parti della fantasia solitaria degli economisti in cerca di temi di esercitazione accademica. Se così fosse, se i «se» premessi ai ragionamenti economici fossero assolutamente arbitrari, l’economista potrebbe dire: qui finisce la scienza, tutto ciò che è al di là non esiste, non può formare oggetto di scienza, perché io ho creato il problema, io ho creato i dati di essi; e non devo render ragione a nessuno del perché delle mie creazioni. Ma così non è. I «se» premessi al ragionamento economico non sono creazioni solitarie ed arbitrarie. Sono tratti dalla realtà vivente. Sono astrazioni grandemente semplificate della realtà. Di questa realtà fanno parte le passioni, i sentimenti, gli ideali politici religiosi morali, le idee intorno al male ed al bene, gli interessi di famiglia di classe di regione, i rapporti tra le classi ed i ceti componenti la collettività, la legislazione e le consuetudini vigenti, e così via. Questa realtà, così varia e ricca e mutevole, è grandemente difficile da investigare; ma non vi è alcuna ragione plausibile perché essa non possa formare oggetto di indagine altrettanto scientifica quanto quella che gli economisti hanno costruito attorno alle ipotesi semplificate della libera concorrenza o del monopolio, od i finanzieri cercano di costruire attorno a quelle degli stati monopolistici, cooperativo o moderno. Supponiamo che gli uomini si formino la convinzione che un regime di libera concorrenza sia intollerabile per ragioni morali, che esso urti contro la coscienza umana; e che la convinzione acquisti tale vigore e tale universalità da indurre effettivamente gli uomini a sopprimere ogni traccia del regime di libera concorrenza. Anche gli economisti finirebbero di abbandonare una premessa di ragionamento priva di qualsiasi addentellato con la realtà. Quale interesse esisterebbe a studiare leggi di fatti inesistenti? Altrove[9] ho scritto che se la scomparsa della libera concorrenza si verificasse a favore di un regime a tipo collettivistico o comunistico, finirebbero persino di esistere gli economisti. Altri investigatori prenderebbero il loro posto: non so chi o come qualificati, probabilmente descrittori di pubbliche contabilità o di gestioni amministrative. Tanto stretti sono i vincoli fra la realtà e l’indole della scienza che quella realtà a volta a volta consente di creare.

23. – Noi non possiamo porre alla impostazione scientifica dei problemi economici limiti atti ad escludere i giudizi di valore. Se in uno stato, nel quale la classe politica si preoccupi, nell’esercizio del potere, esclusivamente dell’elevazione morale ed intellettuale e perciò anche materiale della grande maggioranza e possibilmente di tutti gli uomini componenti la collettività, si osservi dominare il concetto della esenzione dall’imposta di un minimo non solo fisico ma sociale di esistenza, diremo noi che la impostazione scientifica del problema dell’esenzione del minimo sociale consista semplicemente nel prendere atto, come di un dato, della opinione espressa in merito dalla classe politica? È vero che l’andare al di là di questa constatazione, il cercare di rendersi ragione del valore morale del minimo accolto sia un uscir fuori dal campo scientifico? Non si vuole con ciò menomamente indagare se sia ragionevole il tentativo di andare alla cerca del vero o giusto o perfetto minimo sociale. Non v’ha dubbio che non esiste un criterio perfetto di giustizia in tal materia opinabile; ed avrei invano irriso ai miti della giustizia tributaria se ritenessi logica la costruzione di qualche altro mito del genere. Il quesito è diverso. Suppongasi che in un determinato momento storico il legislatore, organo sensibilissimo dell’opinione del ceto politico dirigente e dei sentimenti del popolo governato, tenuto conto del livello dei prezzi e dei redditi e del costo della vita, abbia deliberato che il minimo sociale di esistenza per cui sia da concedersi la esenzione dalle imposte, sia di 6000 denari[10] all’anno per famiglia. Diremo noi che a chi si proponga soltanto di studiare le uniformità del fenomeno finanziario non spetti menomamente il compito della soluzione del problema del miglior minimo sociale di esistenza, e cioè dell’esame critico della soluzione adottata; e che lo scienziato debba accettare senz’altro quella soluzione come un dato dei problemi di cui egli specificamente si occupa? Diremo noi che si debba scetticamente contemplare la soluzione accolta dalla classe politica come un giudizio il quale «può essere buono o cattivo, giusto o ingiusto, sensato o no, a piacere di questo o quel finanziere»; ma è «per lo scienziato» meramente «un fatto, un dato dei problemi di cui si occupa» (II, 59-60)? Mai no. Non vi è affatto alcuna necessità logica la quale costringa lo studioso a spogliarsi volontariamente e gratuitamente degli attributi della sua virilità scientifica. Quei 6000 danari all’anno per famiglia non sono affatto l’ultima Thule della sua ricerca. Appunto perché sono un dato del problema che egli deve studiare, essi non hanno alcuna particolare degnità; ed egli li può voltare e rivoltare in tutti i sensi e dopo avere studiato gli effetti del dato, risalire alle origini di esso, col sussidio di altri dati pertinenti o non al suo proprio campo di investigazione. Se, a cagion d’esempio, studiando gli effetti dell’applicazione del dato, egli riscontrasse l’uniformità: «dati i 6000 denari di esenzione per ogni famiglia dall’imposta, nasce un disavanzo di 5000 su 30.000 milioni nel bilancio dello stato nel luogo e nel tempo di cui si tratta» non ne discenderebbe forse l’altra uniformità: «poiché la situazione di disavanzo di 5000 su 30.000 milioni non può durare, è necessario che mutino altri dati del problema: o che si tratti di accendere un debito annuo di 5000 milioni, o che si riducano le spese di altrettanto o che, se ambe le vie non siano accette alla opinione dei ceti politici dirigenti, si modifichi il minimo, riducendolo, suppongasi, da 6000 a 4000 denari»?

24. – Non è così dimostrato che i 6000 denari fissati, ad ipotesi, dal ceto politico dirigente non sono affatto il dato del problema per lo scienziato; che la cosidetta opinione o giudizio del ceto politico è qualcosa che egli contribuisce a formare ed a modificare, lui scienziato, colla analisi degli effetti che dall’adozione di questo o quel minimo derivano o deriverebbero al bilancio dello stato? È uscito lo scienziato, così facendo, dal suo campo proprio? Ha dato consigli? Ha proposto ricette? Si è fatto paladino della assoluta o perfetta giustizia tributaria? Ha preteso di sostituire il suo giudizio a quello della classe politica? Ancora no. Si è semplicemente appellato dal papa male informato al papa bene informato. Ha semplicemente esposto alcune ulteriori uniformità che paiono anch’esse di natura strettamente scientifica. Ha detto: se questo è il dato, se questa è la premessa, queste sono le conseguenze; se il dato muta in un dato senso ed in una data misura, queste altre sono le conseguenze. Se noi supponiamo che l’equilibrio del bilancio sia un altro dato, sta che equilibrio del bilancio e 6000 denari esenti dall’imposta sono, in quelle contingenze di luogo e di tempo, due dati incompatibili tra di loro. Dopo di che, parrebbe che il giudizio definitivo sia di nuovo lasciato alla classe politica dirigente. Ma questo sarebbe un modo assai improprio di esprimersi. La classe politica dirigente, la quale non governi nell’interesse proprio, ma in quello della elevazione degli uomini componenti la collettività, non dà, non può dare un giudizio arbitrario. Dà il giudizio che deve dare, posto il fine che per la sua indole deve raggiungere. Altrimenti cadremmo fuori dell’ipotesi di una classe politica dirigente la quale ecc. ecc. (come sopra). Epperciò, se noi supponiamo, come dobbiamo, che lo scienziato sia colui il quale, conoscendo tutti i dati conoscibili del problema che si tratta di risolvere: esigenze di minimo sociale di esistenza, esigenze di bilancio, struttura del sistema d’imposta, possibilità e convenienza di variare l’ammontare delle spese pubbliche e private, possibilità e convenienza di indebitamento dello stato e, sovrattutto, fine di elevamento umano, antivede anticipa e sollecita la soluzione del problema che in definitiva dopo ripetute esperienze, sarà data dalla classe politica dirigente, noi neghiamo che scienza sia quella la quale si limita a prendere atto delle premesse volute dalla classe politica. Sottoponendo ad esame critico le prime provvisorie soluzioni, esaminandone e chiarendone gli effetti, lo scienziato compie opera che in apparenza è di critica, in sostanza è rivolta alla conoscenza di uniformità nel modo di comportarsi dei dati, da lui esaminati ad uno ad uno e nel loro insieme. Se egli conosce maggior numero di dati di quelli noti alla classe politica dirigente, dovrebbe forse far finta di ignorarli?

Che cosa sono questi paraocchi che taluni scienziati puri si vorrebbero mettere e che vieterebbero ad essi di guardare al di là delle opinioni manifestate dalla classe politica dirigente? Egli non indirizza ad essa male parole; ma candidamente tiene conto anche dei dati, a lui noti e per inavvertenza (nel caso dello stato moderno) o per interesse proprio (nel caso dello stato monopolistico) ignorate dalla classe medesima. Talvolta, nell’ansia di compiere il dover suo, egli dimentica di dare alle sue conclusioni la forma ipotetica del se e pare egli consigli e comandi o giudichi. In realtà, qualunque sia la forma del suo discorrere, egli adempie al dover suo che è di tener conto, nell’indagine, di tutti i dati del problema di cui egli è a conoscenza. Se pochi, la sua soluzione del problema sarà imperfetta; se molti, meglio si avvicinerà a quella perfezione alla quale giustamente aspira.

Lo studioso, il quale non va al di là del giudizio della classe politica, fa come Ponzio Pilato: si lava le mani del vero problema scientifico. Se egli assume che i 6000 denari del minimo sociale di esistenza siano il dato del problema che non può criticare, perché tale è la opinione in merito del ceto politico dirigente, egli non fa opera scientifica. Il nome dell’opera sua è un altro: egli serve qualcuno e merita il titolo di giurista dell’imperatore.

25. – In verità, non merita questa taccia lo studioso il quale semplicemente metta in luce la impossibilità della coesistenza di due o più dati contemporaneamente posti dalla classe politica. Eccolo diventato senz’altro critico. Illustrando le incompatibilità reciproche di parecchi dati posti nel tempo medesimo dal legislatore, i critici sono tratti fatalmente a passare oltre i limiti che essi avevano posto dapprima alla propria indagine. Né essi veggono un limite qualsiasi alla loro analisi critica. Se è ovvio che lo scienziato metta in rapporto il dato 6000 denari all’anno con i dati relativi al bilancio dello stato, al livello medio dei redditi, alla composizione economica delle classi sociali, perché non sarebbe altrettanto ovvio metterlo in rapporto con altri dati o forze, storicamente più rilevanti? Perché non, ad esempio, con le conseguenze della politica del panem et circenses? Esentare, oltre il minimo fisico dell’esistenza, un’aggiunta al minimo stesso, detta sociale, non è riconoscere il principio che le classi più numerose della società debbano godere dei servigi pubblici senza nulla pagare allo stato? Facciasi astrazione dalla circostanza che per lo più il minimo sociale d’esistenza in realtà non è tale sul serio, perché le classi più numerose pagano imposte sui consumi più che bastevoli ad assolvere il loro debito verso la cosa pubblica; e suppongasi che sul serio quel minimo sia rispettato. Può lo scienziato non porsi il quesito: quali conseguenze saranno per derivare dal dato rispetto all’ammontare delle pubbliche spese ed alla distribuzione del loro costo? Quale finirà di essere la pressione dei tributi sulle classi rimaste sole a sopportare l’onere? Quali saranno gli effetti sulla produzione e sul risparmio? Quali gli effetti se il dato fosse diverso, maggiore o minore? Quali gli effetti del dato sul morale dei beneficati e dei contribuenti? Ossia sui loro sentimenti e sulla loro condotta verso lo stato? Il principio che l’uomo provveduto di un reddito famigliare non superiore ai 6000 denari all’anno ha diritto ai servizi gratuiti dello stato in qual modo reagirà sulle opinioni e sullo stato d’animo di coloro i quali hanno i 7000 o gli 8000 denari all’anno? In qual modo reagirà sull’ammontare dei servizi pubblici i quali via via saranno chiesti allo stato dai ceti forniti, in principio, del diritto di goderne gratuitamente?

A poco a poco lo stato non tenderà a passare dal tipo della città periclea a quello della Atene vittima designata di Filippo il Macedone, dal tipo di Roma repubblicana a quello di Roma del basso impero? Sebbene, a questo punto, lo studioso sia obbligato, pur industriandosi a salvare la forma, a pronunciare giudizi di valore sulla preferibilità della città periclea a quella demostenica o della Roma repubblicana all’impero dioclezianeo, non appartengono forse codesti quesiti altresì al campo proprio dell’indagine scientifica, della ricerca di uniformità teorico-storica? Da a nasce b, da b nasce c; e c reagisce su b e su a.

26.- Non si afferma con ciò menomamente che il ricercatore debba occuparsi di tutti codesti quesiti; e risalendo dall’uno all’altro, debba giungere alla contemplazione della causa causarum. Bene fa colui il quale vuole scavare a fondo in un dato campo a circoscrivere esattamente il territorio delle sue investigazioni ed a dire: più in là io non aspiro ad andare.

Così operano gli studiosi serii e meritano lode. Altra è tuttavia la divisione del lavoro ed altra è la scomunica. Altro è dire: più in là non vado; altro soggiungere: quel che è al di là non è scienza. Porre la volontà intenzionale del ceto politico dirigente come un dato e partire da quel dato è per fermo un porre correttamente i confini del proprio ragionare. Ma non è corretto soggiungere: quel dato è un primo al di là del quale non è ufficio della scienza di andare. Senza volerlo, col solo chiarire gli effetti, io contribuisco a modificarlo, io stimolo a mutarlo più o meno profondamente. Mettendo in luce i vincoli di quel dato con altri dati, dipendenti o indipendenti dal giudizio del ceto politico governante, io dimostro che esistono certe leggi, certe uniformità le quali fanno sì che quel dato riveli la sua indole caduca e stabile, apparente o sostanziale. Intervengo nella formazione dei giudizi; giudico io stesso. Possono ragionevolmente gli economisti sottrarsi alla necessità di formulare giudizi di valore? Certamente, se, giunti al limine di questa necessità, tacciono, essi possono a testa ben alta affermare di aver compiuto la loro missione od almeno, la parte più ardua e nobile di essa. Si pensi alle maniere solitamente tenute dalla classe politica nei tentativi di dimostrare la convenienza economica per la collettività di provvedimenti intesi a favorire interessi particolari. Si vuole un dazio doganale protettivo, il quale, con danno dei più dei consumatori e produttori, avvantaggi una particolare industria e talvolta un singolo imprenditore? Sempre si dirà che il dazio giova a dar lavoro agli operai, a redimere il paese della servitù straniera, a far rimanere oro in paese. Se l’economista, oggettivamente analizzando il provvedimento, dimostra che l’occupazione operaia sarà invece probabilmente ridotta, che la servitù straniera è un mito inesistente e che la quantità d’oro esistente in paese certamente non aumenterebbe grazie al dazio, egli avrà assolto nel tempo stesso al suo specifico compito scientifico ed alla difesa della morale politica; poiché è immorale trarre in inganno l’opinione pubblica facendo apparire conforme all’interesse pubblico quel che invece conduce soltanto al particolare vantaggio privato.

Del pari, accade che la classe politica, la quale intende ad un allargamento del territorio metropolitano o coloniale, cerchi di rendere popolare il proposito affermando che la conquista sarà feconda di vantaggi economici non pochi e non piccoli per i ceti più numerosi della popolazione della madrepatria. Se l’economista, indagando le probabili conseguenze della conquista, giungerà ad opposta conclusione; se egli dimostrerà che la conquista sarà invece cagione di oneri economici non lievi, che essa imporrà sacrifici notevoli e lungamente duraturi alla madrepatria, che, ove si raggiungano col tempo gli scopi di ampliamento della civiltà che stanno al sommo delle dichiarazioni dei promotori dell’impresa, saranno sovratutto beneficate le popolazioni indigene, alle quali saranno recati i doni della istruzione, della igiene, della tecnica, laddove la colonia darà qualche vantaggio solo ad alcuni pochi commercianti ed imprenditori agricoli metropolitani; se egli metterà in luce che la meta finale della conquista, compiuta effettivamente con intenti di diffusione del vivere civile, sarà di destare col trascorrere del tempo nelle popolazioni coloniali l’aspirazione alla indipendenza e quindi alla separazione di fatto, se non formale, dal corpo metropolitano; non avrà egli, tenendosi stretto rigidamente al suo proprio campo di analisi economica, compiuto perciò opera politica di altissima moralità? Una impresa coloniale mossa dalla speranza di lucro economico conduce a breve andare a disillusioni economiche, epperciò presto fiaccamente è abbandonata a metà o, se pur condotta militarmente a termine, non è seguita dalla necessaria lunga costosa opera di costruzione economica e politica. Se invece essa, conformemente alle conclusioni dell’economista, è iniziata avendo ben chiara dinnanzi alla mente la nozione dei costi e dei sacrifici presenti e dei vantaggi indiretti lontanissimi, le sue probabilità di riuscita saranno ben più grandi. Chi costruisce sapendo che non lui, ma i suoi lontani nepoti e sovratutto genti a lui ignote e forestiere godranno il frutto dell’opera sua, quegli costruisce per l’eternità, quegli abbrevia, appunto perché non vi intese, i tempi della riuscita, quegli veramente procaccia grandezza alla madrepatria.

L’economista, il quale, posto dinnanzi ad un proposito dell’uomo di stato, freddamente ne indaga gli effetti e ne studia le relazioni necessarie con altri propositi e con altri istituti, e più in là non si attenta di andare, ci appare dunque come un vero sacerdote della scienza. Indagare verità, non dar consigli: ecco la sua divisa che più faticosa e ardua e moralmente coraggiosa non si saprebbe immaginare.

27. – Ma, indagando verità, lo studioso inevitabilmente pone a se stesso la domanda: posso io evitare di dare un giudizio sulle opinioni, sulle credenze, sulle deliberazioni dei ceti politici; il che, nei tipi di stato cooperativo o moderno, quando lo stato è l’eco della volontà dei governati, interpretata dalla classe politica, vuol dire un giudizio sulle opinioni, sulle credenze, sulle deliberazioni degli uomini viventi in società? Par certo che, dati certi fini, si fanno certe scelte, e, dati altri fini, si fanno altre scelte. Ed anche questa è una uniformità scientifica. Gli economisti la possono bensì espellere dal territorio che essi hanno impreso a coltivare; ma poiché non esiste nessuna ragione plausibile per fissare i confini di un qualunque territorio scientifico secondo una linea piuttosto che secondo un’altra, vi potrà essere qualcuno diversamente curioso degli altri, il quale legittimamente studierà i vincoli tra fini e scelte, non foss’altro per indagare se la consacrazione che egli ha fatto di se stesso a quella scienza non sia per avventura sacrificio ad idolo privo di anima.

Gli economisti hanno le loro sorti legate a quel tipo di società in cui gli uomini compiono le loro scelte liberamente, entro i limiti posti dalle istituzioni, dalle tradizioni, dai costumi, dalla cultura, dalle leggi, dal clima, dall’ambiente politico sociale religioso e morale, dall’indefinito vario moltiplicarsi dei desideri in relazione ai redditi delle diverse classi sociali. Dire che le scelte sono determinate dai fini voluti dagli uomini, è dire che esse sono in funzione dei varii e molti fattori, i quali compongono i fini; e poiché fra i fattori e le scelte fatte intercedono rapporti che possono essere quantitativi non si vede la ragione decisiva perché gli economisti debbano fermarsi nelle loro indagini al fatto scelta.

Se si vuole, chiameremo economisti alfa gli indagatori delle uniformità successive al fatto scelta; e economisti beta coloro che indagano altresì le uniformità che, attraverso le scelte, legano, ad es., i costumi, le leggi, le istituzioni, la distribuzione dei redditi ai prezzi. Ma la differenza sarà di mera divisione del lavoro e priva di contenuto sostanziale. E poiché non tutti i motivi delle scelte sono misurabili quantitativamente, quale ostacolo vieta, in nome della scienza, all’indagatore di pronunciare un giudizio intorno alla relativa dignità dei diversi motivi e dei diversi fini perseguiti dagli uomini? Necessariamente, quando non si voglia rinunciare all’uso della ragione, si è indotti da ultimo a formulare giudizi morali sui motivi delle proprie scelte decisioni ed azioni private e pubbliche. Perché a questo punto, così strettamente legato con le scelte fatte, dovrebbe tacere la scienza? Perché gli economisti, con viso arcigno, dovrebbero ringhiare: fate voi politici, fate voi uomini: create una società liberale o comunistica o plutocratico-protezionistica ed io, serenamente, oggettivamente, studierò le relazioni tra i fatti, qualunque siano, che voi avrete creato. No; serenità ed oggettività non esistono nelle cose umane. L’economista il quale sa quali siano le leggi regolatrici di una società economica liberale o comunistica o plutocratico-protezionistica non può non aver fatto, a norma del suo ideale di vita, la sua scelta; ed ha il dovere di dichiararne le ragioni. Chi, al par dello scrivente, aborre dall’ideale comunistico o plutocratico- protezionistico non può far a meno di palesarsi fautore dell’ideale liberale;[11] e questa visione della vita non può fare a meno di esercitare un’influenza preponderante sulla trattazione, che egli fa, dei problemi economici. Quasi tutti gli economisti, anche quando hanno simpatie operaie o socialistiche o interventistiche, in sostanza vogliono osservata la condizione fondamentale della libera scelta da parte degli uomini dei proprii fini e quindi anche dei proprii consumi. E poiché questa condizione è incompatibile con la persistenza di un ordinamento comunistico o plutocratico-protezionistico, essi implicitamente vogliono un ordinamento liberale della società. Perché astenersi studiosamente dal manifestar questa che è la loro fede? Ma i classici furono reputati grandi anche perché ebbero una fede e compirono indagini astratte durature perché le premesse dell’indagare erano poste dalla fede che avevano in un certo ordinamento sociale. Se avessero avuto altra fede, avrebbero poste altre premesse; ed i loro ragionamenti sarebbero stati probabilmente infecondi, così come furono nel tempo stesso scientificamente infecondi i ragionamenti di coloro che erano partiti da ideali utopistici o, come Marx, derivarono la premessa del valore-lavoro dal fine di sommuovere le moltitudini contro il mito capitalistico. Se le premesse ed i ragionamenti degli economisti furono fecondi di grandi risultamenti scientifici, grazie debbono essere rese anche ai loro ideali di vita. Consapevolmente o non, essi possedevano e posseggono un certo ideale; ed in relazione ad esso ancor oggi pensano e ragionano. Perché tacerlo; e perché chiudere gli occhi dinnanzi ai legami strettissimi i quali intercedono fra quel che si vuole e quel che si fa? fra l’ideale e l’azione? Che cosa sono codesti fatti, dei quali soltanto la scienza dovrebbe occuparsi, se non il risultamento delle azioni umane, ossia, da ultimo, degli ideali che muovono gli animi?

 

[1] Nota del Socio nazionale Luigi Einaudi presentata nell’adunanza del 17 febbraio 1943 della classe di scienze morali della Reale Accademia delle scienze di Torino [Ndr.].

[2] La dichiarazione è implicita nei Principii di economia finanziaria (Torino, Einaudi, 1938) dell’originatore dello schema Antonio De Viti De Marco ed è esplicita nei Principii di scienza delle finanze (Torino, Giappichelli, 1942) di Mauro Fasiani che ho recensito nel quaderno del marzo 1942 della «Rivista di storia economica». Le citazioni che si faranno qui di seguito colla indicazione, tra parentesi, del numero romano del volume ed arabico della pagina si riferiscono a questa segnalata opera.

[3] (Avendo anch’io commesso il peccato comune agli insegnanti di scrivere o dover scrivere i miei Principii di scienza delle finanze (Torino, 1940).

[4] Vedine un cenno nel par. 3 della mia recensione nel quaderno del marzo 1942 della «Rivista di storia economica». A quel cenno intorno alla mancanza di connessione logica fra una certa definizione dell’imposta generale e la presenza del tipo monopolistico di stato seguì una corrispondenza, la conclusione della quale pare potersi riassumere così: 1) lo scrivente nega quella connessione perché ritiene che ove si definisca generale un’imposta quando, anziché «un ristretto settore di economia» percuota, sia da sola, sia costituendo con altre un insieme, «vasti settori o, al limite, tutti i settori» della medesima economia (F. I, 258), l’ipotesi della esistenza di un’imposta generale non è necessariamente legata con l’ipotesi della esistenza dello stato monopolista; e con quest’ultima non è necessariamente legata la stessa ipotesi, quando essa riceva l’ulteriore connotato che il gettito ne sia impiegato a crescere i redditi dei dominanti. Non è dimostrabile cioè che solo nello stato monopolistico possa istituirsi «un’imposta generale il cui gettito sia impiegato a crescere i redditi di taluno, ossia di una parte sola di coloro i quali hanno pagato l’imposta», che è il modo generico di formulare il concetto particolare che il gettito sia devoluto a crescere il reddito di certe persone dette dominanti. Un’imposta di questo tipo può postularsi anche nel caso dello stato cooperativo o di qualunque altro tipo di stato, bastando pensare alle imposte il cui gettito, ottenuto da tutti o da molti cittadini è impiegato a favore di altri o di alcuni solo tra essi: interessi del debito pubblico, pensioni di vecchiaia e simili (le cosidette transfer expenditures, le quali non implicano per se stesse il consumo di beni e servigi e sono diverse dalle exhaustive expenditures, le quali implicano una controprestazione da parte del beneficiario: stipendi a pubblici funzionari, pagamento di forniture allo stato, ecc. e cioè il consumo di beni e servigi i quali non possono perciò essere altrimenti impiegati. (Cfr. Pigou, A study in public finance, p. 19-20). Quindi non essendo il concetto dell’imposta generale il cui gettito sia destinato a crescere il reddito di taluni a spese di altri collegato logicamente e necessariamente col concetto dello stato monopolistico, l’ipotesi di quest’ultimo è superflua e non aggiunge nulla alla trattazione che degli effetti dell’imposta generale, con o senza il connotato anzidetto, si può fare; 2) ma il Fasiani replica essere «pretesa arbitraria ed eccessiva» quella della «dimostrazione dell’appartenenza esclusiva delle transfer expenditures allo stato monopolista» o l’altra della «dimostrazione che effetti di un tal genere non possano essere studiati nell’ipotesi dello stato cooperativo o moderno. In questo problema, come in tutti gli altri, basta molto meno. Basta il concetto di tendenza e di norma… Io non contesto che anche in uno stato cooperativo esistano imposte le quali trasferiscono redditi: ad es., da coloro che non posseggono titoli di debito pubblico a coloro che li posseggono. Non nego quindi che si possano studiare gli effetti di un’imposta di tal tipo anche nell’ipotesi di uno stato cooperativo. Dico però che tendenzialmente, nello stato cooperativo, l’imposta non è di tal genere, mentre lo è nello stato monopolistico. Sicché la sede più appropriata per studiarne gli effetti, gli è quella dell’ipotesi di uno stato monopolista e non quella di uno stato cooperativo. Se queste proposizioni sono esatte, ne deriva questa conseguenza: col mio modo di impostare un problema, io so che gli effetti tendenziali dell’imposta nello stato monopolista sono quelli di un tributo trasferente redditi; mentre gli effetti tendenziali dell’imposta nello stato cooperativo sono quelli di un tributo il cui gettito è impiegato in una exhaustive expenditures»… E questa «credo sia una verità più generale di quella che si ottiene studiando gli effetti dell’imposta indipendentemente dal tipo di stato in cui si applica».

A questo punto la discussione potrebbe aver termine, essendo ormai i disputanti d’accordo nel ritenere che tra le due ipotesi – imposta generale con semplice trasferimento di reddito e stato monopolista – non esiste una connessione, logicamente necessaria, ma un’altra specie di connessione, che il Fasiani dice di tendenza o di norma (frequenza). Diremo astratta o empirica siffatta connessione? Le verità che se ne deducono sono uniformità logiche o uniformità empiriche? Che cosa vuol dire verità più generale applicata ad un’ipotesi, la quale, come fatto empirico o storico, ha nello stato cooperativo o moderno verificazioni (interessi del debito pubblico, pensioni di vecchiaia, di invalidità, indennità di assicurazione per infortuni, disoccupazione ecc., istruzione gratuita, spese sociali per giardini teatri divertimenti pubblici ecc.) forse più imponenti, e si vorrebbe dire a guardarne la massa assoluta e quella relativa al reddito nazionale, di gran lunga più imponenti di quelle (appannaggi reali, spese di corte, spese di fasto, mantenimento delle varie specie di pretoriani, oligarchi e loro satelliti ecc, ecc.) che si osservano, sempre fatta ragione al reddito nazionale del tempo, negli stati detti monopolistici? Se anche sia impresa ardua e probabilmente vana il dare giudizio comparativo sull’imponenza relativa di quelle spese nei due tipi di stato, sembra legittimo il dubbio se non convenga, invece di generalità maggiore o minore delle verità assodate, disputare di mera convenienza didattica di seguire l’un metodo o l’altro di esposizione. Il primo, che sarebbe quello da me preferito: di studiare gli effetti delle imposte, facendo astrazione del tipo di stato nel quale possono eventualmente, con maggiore o minor frequenza, verificarsi; che è indagine teorica od astratta, compiuta sub specie aeternitatis; riservandosi di indagare poscia in sede teorica-storica in quali tipi di stato le diverse qualità di imposta ed i loro effetti proprii più frequentemente si verifichino. L’altro metodo, che sarebbe preferito dal F., vuole indagar prima quali maniere di imposte siano tendenzialmente proprii dell’uno o dell’altro tipo di stato, allo scopo di trattare separatamente, a proposito dell’uno e dell’altro tipo, delle maniere di imposta ad esso più confacenti. A proposito del quale metodo, lo scrivente non riesce a liberarsi del senso di inquietudine derivante dal non sapere se ci si trovi dinnanzi a leggi astratte ovvero empirico-storiche; inquietudine nel caso specifico fugata dal nitido fulgore delle dimostrazioni che, dimentico dei tipi di stato, il F. immediatamente dà in sede di teoria astratta di traslazione delle imposte.

[5] Si errerebbe supponendo che le considerazioni le quali seguono nel testo siano una critica delle teorie che sulla base di certe definizioni dello stato sono esposte dal De Viti e dal Fasiani. Devesi riaffermare esplicitamente che lo studioso ha diritto, in sede astratta, di porre quella qualunque definizione dello stato che a lui piaccia. Non ha rilievo, in quella sede astratta, verificare se le definizioni date dello stato monopolistico o cooperativo o moderno raffigurino o meno la realtà. Nel mondo di ipotesi teoriche in cui quelle trattazioni si muovono importa solo verificare se i ragionamenti condotti sulla base di quelle ipotesi siano corretti ed illuminanti. Se si faccia la ovvia riserva di possibili discussioni intorno a particolari problemi, ad es. quella accennata nella nota precedente, le opere ricordate del De Viti e del Fasiani eccellono per la chiara maestria del dedurre logicamente teoremi rilevanti da premesse chiare.

Il quesito che qui si pone è un altro, diverso da quello proprio della discussione ipotetica. Sono quelle definizioni dei diversi tipi di stato altresì atte ad interpretare la realtà storica? Non era affatto necessario che il De Viti, il Fasiani od altri ancora si ponessero il quesito; né, se lo posero, faceva d’uopo lo discutessero. È frequente nei recensenti il brutto vezzo di rimproverare agli autori di non avere studiato un problema diverso da quello che essi vollero porsi. Questa è critica impertinente, comune in coloro che, impotenti a condurre a termine indagini proprie, sempre si lagnano che altri, che pur fece, non abbia fatto meglio o diversamente. Non è però illegittimo reputare che le ipotesi presentate od i ragionamenti condotti in un libro possano anche dar luogo a quesiti diversi da quelli propostisi dall’autore considerato; e nel testo si vuole appunto discutere uno di questi diversi quesiti. Nel qual modo pare si dia anzi più ampio rilievo alle premesse poste dagli autori considerati, discutendo se esse, oltre ad essere strumento di indagine teorica, siano per avventura altresì canone atto ad interpretare la realtà. La conclusione eventualmente negativa può giovare a segnalare i limiti della validità concreta dei teoremi correttamente dimostrati veri nella loro propria sede astratta.

[6] Il F. talvolta qualifica il tipo così definito come assoluto o medievale (I, 51 e passim). Ma poiché si tratta evidentemente di sinonimi approssimativi, sui quali il pensiero non si ferma e dei quali solo in senso latissimo e parziale si vede l’uguaglianza di significato con il qualificativo comunemente usato adopererò solo la terminologia normale di stato monopolistico.

[7] Si può dubitare se lo strumento detto dello stato monopolistico abbia avuto parte nella formazione della teoria delle illusioni finanziarie se si pensa che il suo primo trattatista lungamente ne discorse senza farne menzione. Almeno questa è l’impressione che si ha nel leggere la Teoria della illusione finanziaria di Amilcare Puviani (Palermo, Sandron, 1903). È del pari dubbio se la teoria dei «limiti ai fenomeni di illusione» possa essere considerata come un frutto dello strumento logico stato monopolistico. Esso è piuttosto, nella formulazione che ne dà il F., la risultante di due forze: da un lato gli artifici illusionistici usati dallo stato e dall’altro la resistenza dei contribuenti. Ne risulta perciò una trattazione in cui ha gran parte il calcolo economico ordinario; un capitolo del trattato sugli effetti delle imposte.

[8] Il Fasiani usa promiscuamente l’aggettivo liberale invece che cooperativo e nazionalistico e corporativo invece che moderno. Mi asterrò dai sinonimi, sembrandomi che l’aggettivo liberale abbia un contenuto ben più vasto e complesso di quel che non sia quello del più adatto, perché modesto e meramente economico, aggettivo cooperativo. Quanto al tipo di stato moderno conosciuto solo per accenni generali, non userò gli aggettivi nazionalistico e corporativo, il primo perché, di fronte alle tendenze moderne, comuni ai due campi combattenti, verso le grandi formazioni politiche ultranazionali, esso appare cosa del passato ed il secondo perché peculiare, sinora, al nostro paese. Moderno essendo aggettivo privo di significato sostanziale, e contenente solo un attributo temporale, sembra meglio adatto alla materia incandescente che sta ora solidificandosi. Non mi giovo dell’altra definizione dei due tipi di stato: cooperativo quello in cui i governanti aspirano ad un massimo di utilità per la società, e moderno quello in cui i governanti aspirano ad un massimo di utilità della società, perché sebbene più concise, richieggono nel lettore uno sforzo mentale rinnovato ad ogni volta questi deve raffigurarsi nella mente la condotta della classe politica. La condotta medesima è resa invece con evidenza immediata dalle equivalenti definizioni riportate nel testo.

[9] In Le premesse del ragionamento economico e la realtà storica in Rivista di storia economica, quaderno del settembre 1940, p. 197, e segg.

[10] Uso come unità monetaria di conto denaro, che, per la sua indole storica, non ha oramai alcun addentellato con le unità monetarie oggi correnti e non può dar luogo ad alcuna impressione di troppo o di troppo poco.

[11] Liberale e non liberistico; ché liberismo è concetto assai più ristretto, sebbene abbastanza frequentemente compatibile col liberalismo; ed ha un contenuto concreto di applicazione, in particolare a certi problemi sovratutto commerciali e doganali. Il liberalismo implica un ideale di vita e vien fuori da imperativi morali assoluti; il liberismo, assai più modestamente, enumera inconvenienti che la natura umana oppone all’attuazione di ragionamenti, in se stessi corretti, i quali condurrebbero a taluni interventi dello stato compatibilissimi con l’ideale liberale. Il liberalismo è ideale di vita; il liberismo è mera pratica contingente derivata sovratutto da considerazioni politico-morali.

Del concetto dello «stato fattore di produzione» e delle sue relazioni col teorema della esclusione del risparmio dall’imposta

Del concetto dello «stato fattore di produzione» e delle sue relazioni col teorema della esclusione del risparmio dall’imposta

«Giornale degli economisti e annali di economia», luglio–agosto 1942, pp. 301-331

In estratto: Padova, CEDAM, 1942, pp. 35

Liberismo e comunismo

Liberismo e comunismo

«Argomenti», dicembre 1941, pp. 18-34[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 264-287

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 162-184

 

 

 

 

Forse è opportuno, piuttosto che insistere in una discussione resa ardua dalla diversità delle premesse dovute alla diversa preparazione intellettuale ed alle diverse tendenze sentimentali o politiche o sociali, chiarire talune di queste premesse; e sono ben lieto me ne offra occasione il suggestivo scritto che precede.[2]

 

 

Che cosa si intende per ordinamento liberistico o comunistico o capitalistico, della cui conformità o compatibilità col concetto di libertà o con l’ideale liberale si discute? A seconda della definizione data e, più che della definizione, del contenuto concreto posto teoricamente o constatato storicamente per quegli ordinamenti, la discussione può recare a conclusioni se non diverse almeno intonate o motivate diversamente.

 

 

Il liberismo certo non è un’astrazione, bensì un ordinamento concreto. Quale è il suo contenuto? P. S. non aderisce alla opinione volgare, propria della gente innocente di qualsiasi peccato di cultura economica, secondo la quale il liberismo si identificherebbe con un ordinamento nel quale all’uomo fosse lecito di fare qualunque cosa, salvo, s’intende, ammazzare, rubare, ecc., lo stato rimanendo ridotto ai compiti elementari di soldato, magistrato, poliziotto, tutore dei cordoni sanitari contro la peste, il colera, la febbre gialla e simili. Egli intende il liberismo «nel senso dei moderni economisti, come intervento dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza». Benissimo detto. Qualche parola in più non sarà tuttavia male spesa a chiarire il concetto. Innanzitutto, bisogna insistere sul punto che la «libera concorrenza», alla quale in quella definizione si accenna, appartiene a tutt’altro ordine di concetti da quello di liberismo. Questo è un ordinamento concreto; quella è un’astrazione. La configurarono gli economisti puri o teorici per avere in mano uno schema dal quale partire per esporre le loro leggi, che sono leggi astratte, in tutto simili a quelle della geometria o della meccanica razionale, vere sub specie aeternitatis, finché non mutino le premesse. L’economista dice: «Supponiamo che… i produttori venditori della merce x sieno molti, che ognuno di essi produca e venda solo una piccola quantità della detta merce, tale cioè che il produrla o non produrla, venderla o non venderla, non produca effetto sensibile sulla quantità totale recata sul mercato; supponiamo che anche i consumatori della merce x siano molti, che ognuno di essi intenda acquistare solo una piccola quantità di essa, supponiamo che… ecc. ecc. Avremo quella situazione che è definita di libera concorrenza; ed in questa situazione accade che il prezzo sia ecc. ecc.». Tutto ciò è pura astrazione, lecita lecitissima per costruire un corpo di leggi astratte, le quali avranno una parentela più o meno stretta con le leggi del prezzo delle merci quali si verificano sul mercato concreto, a seconda che le premesse del mercato concreto si avvicineranno più o meno alle leggi del mercato astratto, dello schema posto dall’economista come premessa del suo ragionamento.

 

 

C’è chi, a leggere tutti quei «supponiamo» si impazientisce. Quarantasette anni fa, il fondatore, che non sono io, della rivista «La Riforma Sociale» buon’anima, nel programma prendeva in giro per l’appunto le teorie che «si vogliono dare anche ora come assolute e imporre nella pratica della vita quotidiana» e sono esposte «in libri dove due terzi dei periodi cominciano con le parole: Let us suppose, If it be assumed, If we can imagine, Let us now introduce, Suppose an event to occur, But suppose a lot of persons, ecc.». In questo mezzo secolo gli economisti hanno continuato a foggiare premesse col «supponiamo»; anzi, per far arrabbiare i loro naturali nemici che sono i pratici, hanno finito per abolire le premesse in lingua volgare che qualcosa dicevano al lettore, contentandosi di abbreviature con lettere dell’alfabeto. Gli economisti hanno ragione nel seguire i comandamenti metodologici della scienza che è astratta; e soltanto il buon gusto e la sensibilità economica, che nessuno si può dare se non ce l’ha, possono ad essi consigliare i limiti dello schematizzare e dell’astrarre; ché, in fin dei conti, la scienza economica dovrebbe preoccuparsi – e tutti i grandi economisti se ne sono preoccupati – di fornire schemi astratti i quali giovino alla interpretazione della realtà concreta.

 

 

Di fronte allo schema astratto della libera concorrenza, i pratici ed i politici si sono trovati d’accordo su un punto: che lo schema della concorrenza piena, con i suoi molti venditori e produttori, col mercato aperto a tutti nell’entrata e nell’uscita, col prezzo il quale in ogni momento è uguale al costo di produzione di quel produttore, la cui offerta è necessaria a rendere la quantità offerta uguale a quella domandata e tende verso il costo del produttore a costo minimo, è un bellissimo schema, ma lontanissimo o lontano o ad ogni modo diverso dalla realtà concreta. In questo basso mondo imperano monopoli, consorzi, leghe, privilegi, brevetti, limitazioni fisiche o giuridiche, ignoranze, ecc. ecc., sicché tra lo schema astratto e la realtà concreta non c’è alcuna rassomiglianza.

 

 

A questo punto l’unanimità si guasta ed i politici si partono in due schiere che per brevità dirò degli interventisti e dei liberisti. I primi sono assai variopinti e vanno dai comunisti puri ai semplici programmisti, con programmi più o meno estesi. Essi sono accomunati dall’idea che direi della strada breve. Poiché in concreto la libera concorrenza non esiste, fa d’uopo che qualcuno regoli e disciplini il meccanismo economico. Poiché l’automatismo conduce – si afferma o si osserva o si pretende di osservare – al monopolio dei più forti, occorre che qualcuno, ossia lo stato, guidi gli uomini nella loro condotta economica e li costringa a operare nel senso del vantaggio collettivo. Talvolta si afferma di volere lasciare ai singoli libertà di iniziativa, limitando l’azione dello stato a qualche campo considerato più importante dal punto di vista collettivo, od alla fissazione delle condizioni di vendita (massimi di prezzi, calmieri) o di produzione (graduatorie nella fornitura delle materie prime, licenze di apertura di nuove fabbriche o di ampliamento delle antiche). All’ala estrema dei programmisti, si trovano i comunisti, i quali tacciano i colleghi più tiepidi di inconseguenza; osservando che non è possibile regolare solo alcuni rami o punti del meccanismo economico e sociale; ché, fissato un prezzo, tutti gli altri mutano e reagiscono. Non si può fissare il prezzo del pane, senza fissare quello della farina e della legna per accendere il forno e dell’uso del capitale forno e della mano d’opera e poi, via via, dei servizi dei mugnai e dei trasporti per ferrovia e per mare e del grano all’origine, e del lavoro dei contadini e dei prezzi delle terre; e poiché fissar tutto in concreto è pressoché impossibile, la sola soluzione logica, secondo i comunisti, è la assunzione generale della produzione e della distribuzione dei beni della terra da parte della collettività intera, ossia dello stato.

 

 

I liberisti sono gente che l’esperienza ha fatto profondamente scettica intorno alla attualità concreta dei “programmi” e nemica acerrima della assunzione compiuta di tutto il meccanismo economico da parte del leviatano statale. Essa non crede del resto che il mondo concreto sia davvero lontanissimo, oggi ed in molte epoche storiche passate, dallo schema astratto della piena concorrenza. Diverso sì e un po’ più complicato di quanto lo schema supporrebbe. Ma non lontanissimo né opposto. Là dove il mondo concreto sembra più lontano dallo schema astratto della piena concorrenza, fa d’uopo, se si vuole argomentare logicamente, chiedersi: Perché è lontano? Alla domanda gli economisti à la page coloro i quali hanno una paura verde di apparire “superati”, e che perciò tentano ad ogni quarto d’ora di superare se stessi, rispondono con un gran rimbombo di parole, tra le quali emergono: fatale andare del capitalismo, alto capitalismo, la concorrenza che sbocca nel monopolio, i grossi che schiacciano i piccoli, la legge dei costi decrescenti, il grande macchinario, la tecnica o tecnocrazia. Tutte chiacchiere prive di senso, se non siano analizzate. Chi ha fatto l’analisi? Chi ha distinto caso per caso per ogni consorzio o trust o cartello o monopolio, le ragioni del suo fiorire, se fiorì, o del suo decadere, quando decadde? Quale è la proporzione rispettiva dei monopoli o monopoloidi o consorzi intesi ad imporre prezzi superiori a quelli che sarebbero di concorrenza, i quali debbono la loro esistenza a positivi atti del legislatore e di quelli che sono dovuti a cause “tecniche”, intendendo per tali quelle cause che possono essere spiegate col tipo dell’industria esercitata, colle sue dimensioni, colle caratteristiche della merce prodotta e del mercato? Sinché questa indagine non sia stata fatta con serietà, tutte quelle parole intorno alla concorrenza morta e seppellita ed al trionfo fatale dei monopolisti – che spesso sono, nel linguaggio volgare ed in quello degli economisti ansiosi di non apparire superati, spesso confusi con gli imprenditori semplicemente “grossi” – rimangono parole, che il vento disperde.

 

 

Non ho la certezza, ma qualcosa di più del sospetto, che la proporzione maggiore dei più pericolosi consorzi di produttori, di quelli i quali veramente riescono ad estorcere prezzi arieggianti al monopolio, debbano la loro vita ad atti positivi del legislatore: dazi doganali, contingentamenti, inibizione di concorrenza da parte di nuovi venuti, brevetti e privative di ogni genere, favori negli appalti, imposte di fabbricazione, enti semi pubblici forzosi ecc. ecc. È assai dubbio se l’opera dei rimanenti monopoli o sindacati o consorzi si allontani veramente in modo apprezzabile dallo schema della concorrenza o non ne sia invece, in mutate circostanze, una nuova maniera di attuazione.

 

 

Quante strida si levarono nel secolo scorso, fra il 1820 ed il 1880, contro le leghe operaie, qualificate come tentativi di estorcere salari e condizioni di lavoro superiori a quelli naturalmente determinati dal libero gioco del mercato! E poi si vide che quelle strida erano per lo più a vuoto; ché il mercato libero suppone contraenti conoscitori delle quantità domandate ed offerte, capaci di entrare e di uscire, ossia di offrire o ritirare l’offerta della propria mano d’opera, ed invece l’operaio od anche l’industriale singolo spesso non conosce il mercato, e per lo più è costretto ad offrirsi e quindi ad accettare salari o prezzi inferiori al normale. Le leghe operaie non contraddicono dunque allo schema della concorrenza; ma sono uno strumento perfezionato della piena più perfetta attuazione di quello schema. S’intende entro certi limiti; dei quali uno è libertà dell’operaio e dell’industriale di entrare o non entrare nella lega, di contrattare per mezzo o all’infuori di essa. Anche qui il vero pericolo monopolistico nasce dal privilegio legale concesso dal legislatore a certe leghe a danno o ad esclusione di certe altre, o addirittura dall’esclusiva attribuita ad una di esse.

 

 

L’intervento «dello stato limitato a rimuovere quegli ostacoli che impediscono il funzionamento della libera concorrenza» non è perciò tanto “limitato” come pare. Esso si distingue in due grandi specie: rivolta la prima a rimuovere gli ostacoli creati dallo stato medesimo e l’altra intesa a porre limiti a quelle forze, chiamiamole naturali, le quali per virtù propria ostacolerebbero l’operare pieno della libera concorrenza.

 

 

La prima specie di intervento appare a primo tratto piana, poiché si tratta solo di abrogare leggi e norme vincolatrici, le quali creano il deprecato malanno. Il dazio protettore, il contingentamento, il divieto di iniziare, senza licenza, nuove intraprese creano il monopolio? Si aboliscano dazi contingentamenti e divieti! In un batter d’occhio lo scopo è conseguito. Si dimentica che quei dazi contingentamenti e divieti debbono la loro origine a forze economiche e politiche, le quali se sono state tanto potenti da ottenere la promulgazione di quelle leggi, saranno abbastanza forti da impedirne la abrogazione. Sicché in sostanza, quella che i cosidetti liberisti invocano non è affatto una mera mutazione nella legislazione, ma una lunga faticosa difficile contrastata opera di educazione economica sociale e politica, rivolta a persuadere il cittadino, ossia i ceti, i gruppi sociali e politici i quali agiscono sul legislatore, che una certa politica è quella più confacente all’interesse dei più dei viventi e delle generazioni venture. Altro che “fato” generatore di monopoli e distruttore della concorrenza! Quel fato si chiama Tizio e Caio, gruppo tale o tal altro, il quale direttamente dispone del legislatore o indirettamente, attraverso giornali, riviste, economisti ansiosi di non apparire superati, avvocati, maneggioni influisce sulla opinione pubblica e crea l’ambiente favorevole alla desiderata legislazione favoreggiatrice. Contro questo fato, che è poi volontà di mal fare, non c’è nessun rimedio fatato e semplice. La via diritta non serve. Bisogna rassegnarsi ai viottoli scoscesi ed agli andirivieni della educazione economica e morale. Sovratutto morale: ricordati di non rubare.

 

 

L’altra specie di intervento intesa a porre limiti alle forze naturali, proprie “eventualmente” del tipo dell’industria o del mercato o del prodotto o del momento tecnico, le quali ostacolino l’azione della libera concorrenza, non è di ardua persuasione, ma è tanto più delicata nell’attuazione. Gli uomini sono presti a persuadersi, quando c’è qualcosa che va male, ad invocare il braccio forte dello stato. Qui è la gran forza degli interventisti di tutte le razze, dai semplici ingenui programmisti ai comunisti puri. Perché lo stato, perché il governo non ci pensa? È la soluzione dei deboli, i quali, incapaci o indolenti nel fare il bene, si affidano a qualcuno che pensi e provveda per conto loro. I liberisti – seguito a chiamarli così per ossequio all’abitudine, ma bisogna davvero inventare un altro nome, tanto il loro atteggiamento mentale è lontano dal laissez faire, laissez passer – sanno che coll’incapacità e coll’indolenza non si ottiene niente; che i governi sono quelli che i popoli fanno e meritano e che è vano tentare di cavar da popoli incapaci e indolenti governi capaci di far bene, se prima il politico di genio non abbia provveduto a mutare i poltroni in gente alacre e gli incapaci in avidi di apprendere. Epperciò i liberisti non si propongono di “fare” il bene; ma solo di mettere gli uomini nella condizione di potere procurarselo da sé, quando vogliano o sappiano usare i mezzi all’uopo opportuni.

 

 

Si potrebbe citare assai esempi di siffatti tipi di intervento liberistico. Ne ricorderò due soli. Primo: il regime ereditario. Lo ricordo, perché lo vedo fatto argomento di esempio anche dallo scrittore della nota, alla quale sto appendendo queste mie considerazioni metodologiche. Senza dubbio il figlio del ricco è, sul mercato dove si incontrano produttori e consumatori di beni e di servigi, favorito in confronto del figlio del povero. Non c’è uguaglianza nei punti di partenza. Il comunista risolve alla spiccia il problema, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, ossia, praticamente, di tutto, salvo i mobili che possono stare nel numero di camere (metri quadrati) che il legislatore fisserà. Costui, in quanto sia un credente nel suo verbo, è un buon uomo, il quale immagina che di ostacoli al mondo esista solo quello della ricchezza e ignora che l’esistenza di un certo numero e di una certa dose di essi può essere necessaria per neutralizzare altri e ben più formidabili ostacoli che operano a danno dei buoni, degli operosi, degli intraprendenti, degli studiosi, dei valori seri e fecondi. In una società dove tutto è dello stato, dove non esiste proprietà privata salvo quella della roba di casa, che sta nella casa tipica assegnabile a tutti – suppongasi dieci metri quadrati in media a testa, ma non credo si giunga a tanto nell’Europa contemporanea -, dove la produzione è organizzata collettivamente, per mezzo di piani i quali debbono essere elaborati al centro, qual è l’ostacolo, veramente formidabile che gli uomini di ingegno, intraprendenti, onesti, volonterosi, ecc. ecc., fatalmente incontrano sulla loro via? Quello dell’intrigo. Mirabeau padre l’aveva già osservato nel 1760 in un brano da me altra volta ricordato (ed ora in Saggi sul risparmio e l’imposta, p. 352):

 

 

«On ne seroit occupé qu’à obtenir des places et des pensions, qu’à parteciper aux liberalités du Prince, qu’à eviter le travail, qu’à parvenir à la fortune par toutes les voyes de collusion que la cupidité peut suggérer, qu’à multiplier les abus dans l’ordre de la distribution et des dépenses».

 

 

Quando tutti dipendono da tutti, quale è lo strumento di ascesa? Cattivarsi il favore di chi sta un gradino più in su e così via via fino al grado supremo. Non è la capacità di intrigo, di piaggeria, di connivenza un formidabile ostacolo contro gli onesti, gli intraprendenti, i lavoratori, gli studiosi seri, i valori veri, i quali nulla odiano più che la necessità di procacciarsi il favore altrui?

 

 

Epperciò il liberista esiterà assai dinnanzi all’abolizione della eredità come mezzo per abolire uno dei tanti ostacoli che esistono a questo mondo contro la uguaglianza nei punti di partenza. Egli cercherà invece nella esperienza del passato quali siano i temperamenti, le vie di mezzo da adottare (imposte ereditarie, quote legittime, facoltà di testare, ecc. ecc.), allo scopo di eliminare i casi nei quali massimo è il danno del favore ereditario concesso ai fortunati, senza abolire i vantaggi di creazione di un ceto sociale indipendente dal principe, sicuro contro le sopraffazioni dei potenti – la mia casa è il mio castello -, di promuovimento dei vincoli familiari, di stimolo al risparmio che l’istituto della eredità può produrre. Si intende che il liberista non pensa che i vantaggi si possano ottenere, che l’ostacolo ereditario possa essere conservato senza un’opera continua di illuminazione, la quale ad ogni generazione dimostri col ricordo di esperienze passate, col confronto con altri tipi di organizzazione sociale quali sono le ragioni le quali consigliano la conservazione dell’istituto.

 

 

Secondo esempio: le privative industriali. Queste oggi, attraverso un secolo di legislazione favorevole all’istituto della privativa dell’inventore sulla sua invenzione, sono divenute un vero scandalo. La privativa è oggi una beffa per l’inventore povero e d’ingegno, al quale soltanto il legislatore in origine aveva pensato. A costui il diritto di privativa praticamente non giova; che la quasi totalità delle invenzioni è opera collettiva, di sperimentatori calcolatori tecnici i quali lavorano in laboratori o gabinetti installati da grandi ditte industriali. Il brevetto oggi è divenuto uno strumento di dominio e di monopolio delle grandi intraprese, le quali possono permettersi il lusso di stipendiare fisici chimici matematici avvocati, intentar liti al povero inventore isolato il quale si illude di aver scoperto qualcosa, impedirgli di far uso della propria invenzione, costringerlo a cederla al grosso già avviato, il quale con mille raggiri cercherà di perpetuare la validità del proprio brevetto bene al di là dei 15 o 25 anni di legge.[3] Di fronte a siffatta miseranda fine delle privative industriali, il liberista quale via sceglierà? L’abolizione pura e semplice del diritto di privativa industriale? Sì, se si potesse essere sicuri, ed invece è solo probabile, che il segreto di fatto è arma migliore della privativa legale per dare all’inventore, isolato o collettivo, un compenso adeguato. In ogni caso, contrariamente all’andazzo odierno, se la privativa dovesse essere conservata, la legislazione relativa dovrebbe informarsi a due criteri: riduzione della durata al minimo, inferiore notevolmente a quello attuale, necessario per consentire all’inventore la possibilità una iniziale applicazione; e diritto per tutti di usare, senza il consenso dell’inventore, privative e relativi perfezionamenti col pagamento di un canone temporaneo stabilito per legge o dal magistrato in misura atta a non consentire prezzi di monopolio all’inventore.

 

 

Fuor di esempi, il liberista non è colui il quale vuole un intervento “limitato” nelle faccende economiche. Il criterio di distinzione fra l’interventista ed il liberista non sta nella “quantità” dell’intervento, bensì nel “tipo” di esso. Astraendo dall’interventista comunista il quale risolve il problema abolendo l’intervento medesimo – che cosa è invero quello comunista se non uno stato il quale non “interviene” più, perché ha avocato a sé tutta la gestione economica? – il criterio del distinguere sarebbe il seguente: il legislatore interventista dice all’uomo: tu farai questo o quello; lavorerai od opererai così e così; questo è l’industria o il commercio o la piantagione agricola che nell’interesse collettivo devi esercitare e nella misura e secondo un programma che io ti indicherò. Ecco il piano siderurgico, tessile, cerealicolo che tu devi attuare. Poiché siete in parecchi, ecco la proporzione che avrai a te assegnata. Lo stato, nel sistema interventistico e programmistico, insegna agli uomini, industriali agricoltori commercianti artigiani professionisti intellettuali, ciò che essi debbono fare e come lo debbono fare; fissa o disciplina o regola i prezzi e quindi i costi ed i guadagni; li varia a seconda di quelle che egli crede esigenze collettive. Il metodo interventistico è preferito dagli uomini, la grandissima maggioranza dei quali aborre dalle iniziative, dalle responsabilità e dai rischi. Su questa via regia, diritta, breve gli uomini immaginano di giungere alla felicità, al benessere, al bene.

 

 

Il legislatore liberista dice invece: io non ti dirò affatto, o uomo, quel che devi fare; ma fisserò i limiti entro i quali potrai a tuo rischio liberamente muoverti. Se sei industriale, potrai liberamente scegliere i tuoi operai; ma non li potrai occupare più di tante e tante ore di giorno notte, variamente se adolescenti, donne o uomini; li dovrai assicurare contro gli infortuni del lavoro, la invalidità, la vecchiaia, le malattie. Dovrai apprestare stanze di ristoro per le donne lattanti, e locali provvisti di docce e di acqua per la pulizia degli operai; osservare nei locali di lavoro prescrizioni igieniche e di tutela dell’integrità degli operai. Potrai contrattare liberamente i salari con i tuoi operai; ma se costoro intendono contrattare per mezzo di loro associazioni o leghe, tu non potrai rifiutarti e dovrai osservare i patti con esse stipulati. Tu, nel vendere merci, non potrai chiedere allo stato alcun privilegio il quale ti consenta di vendere la tua merce a prezzo più alto di un qualunque tuo concorrente, nazionale o forestiero; e se, dopo accurate indagini, un tribunale indipendente accerterà che tu godi di qualche privilegio che non sia la tua intelligenza o intraprendenza o inventività, il quale ti consentirebbe di vendere la tua merce a prezzo superiore a quello che sarebbe il prezzo normale di concorrenza, il tribunale medesimo potrà fissare un massimo, da variarsi di tempo in tempo, per i tuoi prezzi.

 

 

E così di seguito: nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica. La legge, ossia non il governo o potere amministrativo, bensì la norma discussa apertamente, largamente, in seguito a pubbliche inchieste, con interrogatori pubblici di tutti gli interessati e di tutti coloro i quali reputino di avere qualcosa da dire in argomento; la legge fatta osservare da magistrati ordinari, indipendenti dal governo e posti al di fuori e al disopra dei favori del governo. E questa non è, evidentemente, una via regia o diritta o rapida o sicura verso il benessere, verso la felicità, verso il bene. Anzi tutto il contrario. È via lunga, ad andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa ed incerta. tale perché non può essere diversa; perché gli uomini debbono fare sperimenti a loro rischio, debbono peccare e far penitenza per rendersi degni del paradiso; perché essi non si educano quando qualcuno si incarica di decidere per loro conto ed a loro nome quel che debbono fare e non fare, ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità.

 

 

Dopo essermi tanto indugiato su quel che è il contenuto di un ordinamento liberistico, posso essere più breve intorno all’ordinamento comunistico. Nella discussione sui rapporti fra libertà e liberismo, fra ideale liberale e comunismo, in coloro i quali sostengono la tesi che l’uomo politico liberale possa servirsi dello strumento comunistico per ottenere l’elevamento degli uomini, mi è parso di intravvedere una certa impazienza verso coloro i quali sostengono che la libertà è incompatibile coll’ordinamento comunistico. O che forse c’è una sola definizione del comunismo? O che questo si identifica colla Russia di Lenin e di Stalin? Quale incompatibilità c’è fra libertà ed una maggiore giustizia sociale, fra libertà e legislazione sociale, fra libertà ed assunzione di certe industrie da parte dello stato, fra libertà e un compiuto ordinamento comunistico nel quale sia conservata agli uomini la piena libertà di scelta delle occupazioni e dei costumi preferiti; fra libertà e ordinamento comunistico, nel quale sia negata ai consociati ogni libertà di scelta delle occupazioni e dei consumi, ma la rinuncia sia, come accadeva nei monasteri benedettini o francescani, liberamente voluta ed anzi accettata da tutti i componenti la collettività?

 

 

La più parte delle dispute ha luogo perché i contendenti non si intendono sul significato delle parole da essi usate; ed è perciò che volentieri, se fosse possibile ma non è per la necessità di usare parole corte per esprimere concetti lunghi, abolirei l’uso delle parole liberismo e comunismo (o socialismo) perché equivoche. Ho già detto sopra come un ordinamento detto liberistico sia vincolante forse più, sebbene in senso diverso, dell’ordinamento interventistico. Così è equivoca del pari la parola comunismo e socialismo. Che sugo c’è a classificare sotto la voce ordinamento comunistico o socialistico – la differenza tra le due parole è impalpabile e indefinibile, e perciò, le uso promiscuamente – una semplice aspirazione ad una più o meno ampia giustizia sociale o ad una statizzazione (o municipalizzazione o pubblicizzazione e mi si perdoni la parola ostrogota usata per indicare la attribuzione ad un ente pubblico, che sono maniere solo tecnicamente diverse di attuare il medesimo concetto) di qualche industria da parte dello stato? Davvero nessuno, posto ché liberisti e interventisti fanno amendue propri questi ed altri consimili strumenti che essi possono reputare atti al maggiore elevamento degli uomini e solo si disputa in quali casi e con quali modalità essi siano atti a raggiungere quello scopo di elevamento; e la disputa ha importanza esclusivamente in ragione dei casi e delle modalità di applicazione e non ne ha nessuna quanto al principio, che tutti sono disposti ad accettare in generale.

 

 

A me sembra che parecchi tra i contendenti siano nel discutere troppo indulgenti verso il “generico”. Parlare “in generico” equivale a non dir nulla od almeno ad esporre banalità; ed è una banalità ammettere prima che in qualche parte del mondo o in qualche epoca storica, passata presente o futura, un dato provvedimento può essere od essere stato o tornerà ad essere giovevole all’elevamento umano, e concludere che quindi il politico liberale lo avrebbe dovuto fare o farà bene a farlo suo. L’interesse non sta in ciò; ma nel vedere perché in quella parte del mondo od in quella epoca storica quel provvedimento, il quale poteva essere e fu altrove ed in altra epoca cagione di male, fu causa, invece, di bene. Finché si tratta di provvedimenti od ordinamenti parziali o singoli, forse è facile cadere d’accordo. Diremo nocivo ed illiberale quel provvedimento di maggior giustizia sociale, in virtù del quale, essendosi il principe di una società complicata e numerosa di milioni di persone persuaso essere ingiusto che Tizio possegga 100 e Caio soltanto 50, egli ordina a Tizio di dare a Caio 15, cosicché l’uno scemi ad 85 e l’altro cresca a 65, con minore disparità fra i due. Nocivo ed illiberale perché arbitrario, dipendente dal beneplacito o dal capriccio del principe, con offesa al senso di sicurezza dei cittadini e quindi con nocumento alla spinta a produrre ed a consumare.

 

 

Si potrà discutere invece sulla misura; ma non sarà detta né nociva né illiberale e molti affermeranno essere invece liberale quella norma di legge generale, annunciata prima e duratura e prevista, in virtù della quale ad ognuno che abbia 100 venga imposto un tributo di 15 destinato a promuovere opere di bene o contributi assicurativi vari a favore di tutti coloro i quali, appartenendo alla medesima società numerosa e complicata, abbiano meno di 50, progressivamente in ragione del loro aver meno. Un provvedimento cosiffatto non è arbitrario anzi è universale; non è incerto ma è preannunciato; non turba la sicurezza degli averi, anzi la garantisce per la solidarietà che crea nei consociati. Si può e si deve discutere intorno alla misura del contributo ed alla specie delle opere di bene e dei tipi di assicurazione; che vi sono misure tollerabili ed altre eccessive; e vi sono tipi altamente educativi (pensioni di vecchiaia) ed altri (indennità di disoccupazione) i quali, oltre un certo punto, che l’amico Emanuele Sella chiamerebbe critico, dal produrre effetti morali ed educativi trascorrono a produrne altri immoralissimi e corruttori. Anzi il punto critico vi è sempre; ché persino le pensioni di vecchiaia, lodevoli sovra ogni altra assicurazione sociale a cagione del rispetto verso i vecchi che esse inducono e diffondono tra le popolazioni rustiche, spesso crudelissime verso i vecchi impotenti al lavoro, possono divenire corruttrici quando per il loro eccesso distolgano dal risparmio uomini nell’età giovane e matura, e dal lavoro vecchi attissimi al lavoro, ottimi lavoratori sino a quel momento, divenuti oziosi e viziosi quando ad essi paia di poter vivere senza far nulla, malo esempio a sé ed agli altri. Dovendo definire, direi comunistico quel qualunque provvedimento di maggior giustizia sociale o di statizzazione il quale vada oltre il punto critico, e liberale quello il quale sapientemente riesca a stare alquanto al di qua di esso. Dal che è manifesto che tutto l’interesse della disputa non sta nel provvedimento, ma nelle modalità le quali lo rattengono entro i limiti del punto critico o glieli fanno oltrepassare.

 

 

In verità, però, quando si parla di incompatibilità fra ideale liberale e comunismo non si pensa dai più a codesti parziali provvedimenti sociali. Si pensa a qualcosa di compiuto, ad un tipo finito di ordinamento economico; e questo ordinamento lo si identifica, abbastanza ragionevolmente mi pare, poiché disputando conviene avere almeno una idea approssimativa di quel di cui si discorre, con un ordinamento nel quale agli uomini sia inibito di avere la proprietà privata di qualunque cosa non cada entro la categoria dei beni “diretti”, ossia destinati al consumo od uso personale o della famiglia, con la restrizione ulteriore che non si possa possedere oltre una certa quantità fisica di codesti beni diretti – ad esempio, una vettura automobile e non due, una casa di x camere od y metri quadrati per ogni membro della famiglia e non un castello, un giardino e non un parco e simili – e che i beni diretti posseduti non possano essere locati in affitto a terzi contro compenso di un canone. Tutto il resto, tutti cioè i beni che gli economisti chiamano “strumentali” sono nell’ordinamento comunistico proprietà dello stato, od in parte dello stato e in parte dei comuni o di altri enti pubblici specificati per luoghi o per industrie o per fini. Le modalità possono essere infinite; il carattere distintivo stando in quel “tutti”; che, se invece di tutti i beni strumentali siano accomunati solo alcuni di essi, la disputa tornerà ad essere quella del punto critico, restando al di qua del quale rimaniamo nel mondo liberale ed oltrepassandolo cadiamo nel comunismo.

 

 

Anche se sia osservata la regola del “tutti”, non è del resto necessariamente offeso l’ideale liberale. Se la società comunistica è composta di monaci, i quali “volontariamente” sacrificano ogni loro avere a pro della cosa comune e si riducono a lavorare ed a pregare agli ordini del padre guardiano ed a ricevere quei soli cibi e vestiti e giacigli che al padre guardiano piaccia di assegnare ad ognuno di essi, quella è una società che intende ad elevare se stessa; ed in certe epoche storiche diede opera ad elevare anche la società intera che viveva attorno ad essa. Non vi è alcuna offesa, anzi esaltazione della libertà umana, se certi gruppi di uomini rinunciano e si sacrificano e dissodano foreste e redimono paludi a maggior gloria di Dio. S. Benedetto e S. Francesco promossero l’elevazione degli uomini ad essi contemporanei ed esaltarono l’aspirazione degli uomini verso la libertà.

 

 

Del pari non vi è nulla di contrario alla libertà nelle generose aspirazioni e nei tenaci ripetuti tentativi degli Owen, dei Cabet, dei Fourier e degli altri utopisti di fondare in Europa e in America società comunistiche. La imperfetta riuscita dei tentativi dimostra la fragilità della natura umana, la quale non riesce ad attuare durevolmente i buoni propositi; non prova affatto che quei tentativi fossero, come è volgare costume asserire, antiscientifici. La pigrizia mentale di tutti coloro i quali hanno accettato la terminologia di “utopisti”, usata a titolo di scherno da Marx a carico dei suoi predecessori, è almeno altrettanto ammiranda come la sfacciataggine di costui. Se ben si rifletta, la distinzione fra gli Owen, i Cabet, i Fourier e gli altri classificati fra i socialisti utopisti ed i Marx ed Engels, i quali da sé si autodefiniscono socialisti scientifici, sta in ciò che i primi dissero: siano socialisti coloro i quali spontaneamente decidono di vivere insieme, in tutto od in parte, di lavorare e di produrre insieme, di spartire tra di loro, con una regola da essi accettata, i beni da essi prodotti; ed i quali, così decidendo, riconoscono agli altri il diritto di vivere così come ad essi meglio aggradi, con vincoli diversi da quelli di comunione e di cooperazione che ai socialisti piace di accettare. Laddove i socialisti scientifici inventarono un gergo da cui dedussero che la società “fatalmente” era incamminata verso il cannibalismo esercitato dai grossi a danno dei piccoli, sinché, avendo il cannibale più grosso divorato tutti i minori consorti, ad esso sarebbe stata agevolmente tagliata la testa e la collettività si sarebbe messa al suo posto, instaurando il regno della felicità. Siccome l’avvenimento tardava a verificarsi, accadde che, nel paese più lontano dalla sua verificazione, per la ignavia e la corruttela delle classi dirigenti i Lenin e gli Stalin tagliassero sul serio la testa ai componenti di quelle classi e di altre classi ancora ed instaurassero un regime che si dice comunistico e forse è solo la contraffazione del comunismo.

 

 

Tra parentesi, chi merita sul serio l’attributo di “utopistico”? Gli Owen, i Cabet, i Fourier, i Saint Simon, e gli altri, irrisi come utopisti, i quali, se non riuscirono a far durare collettività in tutto comunistiche, furono tra i maggiori creatori e promuovitori del grandioso movimento cooperativo, il quale ha, si, mutato la faccia di talune società umane? Chi abbia un’idea anche vaga dei risultati meravigliosi ottenuti dalla cooperazione britannica di consumo, con le sue innumeri cooperative locali, con le due grandi associazioni di acquisto e produzione e vendita all’ingrosso d’Inghilterra e di Scozia, con le sue fabbriche e le sue flotte; chi sappia di quale trasformazione nell’edilizia popolare sia stata feconda l’opera delle società cooperative edilizie britanniche; chi ricordi la persistente sempre rinnovata opera delle società di mutuo soccorso, divenute oggi in quel paese le maggiori cooperatrici dello stato nella assicurazione malattie, non può a meno di riconoscere che quei vilipesi utopisti, quei sognatori calunniati da Marx riuscirono a creare, in nome dell’ideale comunistico, istituti vivi e grandiosi e fecondi di stupendo elevamento materiale e morale per le classi operaie. E che cosa crearono i socialisti “scientifici”? Non certo il movimento operaio propriamente detto, là dove esso davvero conquistò, come di nuovo in Gran Bretagna, posizioni oggi incrollabili di fronte ai ceti industriali nella contrattazione dei salari, delle ore e delle condizioni di lavoro; ché quel movimento si svolse del tutto fuori dell’influenza del socialismo scientifico e se deve qualcosa a qualche ispirazione, questa fu la medesima ispirazione di libertà religiosa e politica la quale sta alla radice, così come di tanti altri istituti, anche delle correnti di pensiero dette del socialismo utopistico. Per non discutere su contraffazioni, facciamo astrazione dal gergo apocalittico di Marx e dall’opera dei profittatori odierni di quel gergo; e immaginiamo una società comunistica compiuta e perfetta, nella quale ad uno o più enti pubblici sia dunque riservata la proprietà e l’esercizio di tutti i beni strumentali (quelli che nel gergo cosidetto scientifico dei marxisti si chiamano strumenti di produzione). Altrove[4] furono già esaminate le ipotesi varie che si possono fare in proposito. Non le riesporrò, per non ripetermi e non dilungarmi. Dirò solo che delle due ipotesi estreme l’una, a parer mio, è utopistica; ed è quella secondo cui l’ente o gli enti pubblici padroni dei beni strumentali e del loro esercizio (ossia organizzatori di tutta la produzione dei beni diretti di consumo e del risparmio, che è produzione di nuovi beni strumentali) riconoscerebbero e rispetterebbero ed avrebbero per iscopo di promuovere la massima più ampia libertà degli uomini di scegliere le proprie occupazioni e di distribuire il proprio reddito tra i beni di consumo. È la premessa dei ragionamenti con cui Pareto, Barone e Cabiati concludono alla identità delle soluzioni comunistiche con quelle date dalla perfetta libera concorrenza. La verificazione di siffatta premessa richiede la verificazione di parecchie altre premesse politiche, morali, religiose, intellettuali. Suppone che nella immaginata società comunistica i dirigenti siano davvero l’emanazione dei governati e ne attuino pienamente le aspirazioni; suppone che nei cittadini esista unanimità di propositi, o se vi sono dispareri e dopo discussione la maggioranza si sia pronunciata, la minoranza volentieri acceda[5] e collabori; suppone che esistano mezzi attraverso i quali le minoranze, anche le più piccole, possano liberamente esprimere e far valere le proprie opinioni o credenze contrarie a quelle della maggioranza e ad esse sia garantito nel modo più ampio il diritto di trasformarsi in maggioranza, se ad esse riesca di persuadere i più.

 

 

Tutto ciò, storicamente, sulla base della esperienza fin qui osservata e dalla quale non possiamo dipartirci se non con buone ragioni, è utopistico, fantasticamente utopistico. Abbiamo osservato ordinamenti concreti forniti di una dose maggiore o minore di libertà; ma in nessuno di essi mai si vide che coloro, i quali in un certo momento erano i dirigenti politici, fossero anche i dirigenti economici assoluti, ossia padroni della vita e della morte di tutti i cittadini, arbitri di escluderli dall’acqua e dal fuoco, se non ubbidissero ai loro comandi. Chi, dotato di tale autorità, non soggiacque alla tentazione di diventare uno Stalin? Chi non trovò pretesto o giustificazione a diventarlo, nel dovere da lui sentito di non cedere il posto ad un Trotzki, da lui giudicato a sé inferiore e nemico dell’ideale scritto nelle tavole della legge?

 

 

La ipotesi corrispondente alla natura umana è l’altra: quella per cui chi ha il potere politico assoluto se ne serve non al perfezionamento degli uomini, ma a crescere ed affermare il potere proprio e del gruppo dirigente. Se poi, come accade in una società comunistica piena, il gruppo dirigente, oltre il potere politico, possiede anche il pieno potere economico, per quale mai ragione misteriosa dovrebbe astenersi dall’usarne? Per rendere ossequio al principio che i governanti sono fatti per i governati, che il ministro della produzione deve produrre quel che piace e nella misura in cui piace ai consumatori di desiderare? Eh! via; questi principi possono essere scritti od essere implicitamente contenuti negli scritti teorici di Pareto, Barone e Cabiati; ma i politici e i ministri della produzione di uno stato, il quale abbia a sua disposizione l’arma terribile del possesso e dell’esercizio di tutti i beni strumentali, se ne sono sempre infischiati (Incas del Perù, Russia attuale) e sempre se ne infischieranno. Che sottoposti a siffatto giogo, i popoli alla lunga ne traggono argomento per rivoltarsi e che così attraverso i secoli, per tesi ad antitesi, si giunga alla libertà e si attuino ideali umani più alti, può darsi. Ma che il processo storico di rivolta dimostri la compatibilità fra comunismo e ideale liberale, direi sia una barzelletta.

 

 

«Non è un ordinamento economico, ma solo la coscienza politica che può garantire o compromettere la libertà… né il filosofo né l’economista in quanto tali hanno nulla a dire in questioni pratiche; la parola spetta solo al politico».

 

 

È lecito esporre qualche considerazione sui pericoli che presenta la attribuzione della competenza nel decidere di questioni pratiche ai soli politici? Mi astengo dal parlar di quel che possono dire e fare i filosofi, sebbene le tante belle parsuasive pagine di Benedetto Croce contro i filosofi, i quali almanaccano escogitazioni di sublimi veri tratti dal proprio cervello e non sanno nulla della vita e non vivono nella storia, e le sue lodi ai cultori di scienze particolari i quali dalle loro conoscenze ed esperienze concrete sono tratti a filosofar bene, mi facciano dubitare della inettitudine dei filosofi alla pratica. Al Croce medesimo la qualità di filosofo non credo sia stata poco giovevole nell’amministrar ottimamente, come egli fece, le cose della pubblica istruzione in Italia ed altre cose pubbliche minori in Napoli.

 

 

Parliamo solo degli economisti. D’accordo che essi, in quanto fanno il loro mestiere, sono dei puri astrattisti. Fabbricano schemi e ragionano in base a quelli. Però sarebbe inesatto dire che quei teoremi non hanno nulla a che fare colla pratica. Quegli schemi sono, anzi debbono essere via via complicati con successive approssimazioni, sì da renderli ognora più vicini alla realtà. Non giungeranno mai a fotografare del tutto la realtà, che è complicatissima e mutabilissima; ma talvolta arrivano ad un grado di approssimazione notevole, tale che le leggi e teoremi finali certamente non dovrebbero parere e non sono disutili al politico il quale debba intuire e studiare e risolvere problemi concreti.

 

 

Dopo la grande guerra, diventò di moda presso la gente frettolosa dire che essa aveva distrutto sbugiardato tutte le leggi economiche; ed invece era vero che quella guerra fu crogiolo quasi sperimentale dal quale riuscirono ridimostrate e nuovamente illustrate e pienamente confermate quelle leggi; e lo sbugiardamento immaginato dai frettolosi consisteva semplicemente in ciò che essi ed i politici non avevano mai saputo dove stavano di casa quelle leggi ed accumulando spropositi credevano ingenuamente che questi non avrebbero avuto degna sanzione; e quando la sanzione venne, strillarono contro la scienza economica quasi questa li dovesse salvare dalle conseguenze dei loro spropositi. L’esperienza fatta nell’altra guerra avrebbe dovuto insegnare che nel risolvere questioni pratiche economiche al politico giova la conoscenza delle essenziali leggi teoriche economiche; e se egli non ha avuto modo prima di procacciarsi una solida cultura in argomento – il che non solo è lecito, ma può essere considerato normale, altra essendo la preparazione dell’economista da quella del politico – giova però l’attitudine a distinguere, tra i suoi consulenti, gli improvvisatori ed i cerretani dai tecnici seri. Dico che il puro intuito non giova nel risolvere questioni pratiche economiche e scegliere le conoscenze vere da quelle spurie. Darò, di quel che dico intorno alla insufficienza dell’intuito, tre esempi: Napoleone, Cavour e Giolitti.

 

 

È curioso leggere nelle memorie del suo grande ministro del tempo, il conte Mollien, gli appunti intorno alla mentalità economica di Napoleone. È mentalità divulgatissima tra gli uomini e si dice del “progettista”. Quasi tutti coloro i quali discorrono di economia pubblica – non di quella particolare loro, della loro impresa, nella quale possono essere espertissimi – appartengono al genere dei progettisti. Hanno una cabala pronta a fornir denari allo stato, per salvare questa o quella industria, per porre rimedio a questo o quel malanno o crisi. Il guaio è che costoro non sentono quasi mai ragione ed è inutile perdere tempo a smontare la cabala. È un lavar la testa ai cani. L’intuito economico di Napoleone – e perciò egli faceva eccezione alla regola propria dei “progettisti” – consisteva nell’afferrare fulmineamente le obbiezioni di Mollien, nel farle proprie e nel rivoltare la propria argomentazione, cosicché Mollien non aveva presto altro da fare se non inchinarsi alla decisione dell’imperatore; che era invece la decisione da lui abilmente, senza parere, suggerita contro il progetto fantastico stravagante di Napoleone. Ma l’intuito ancor più penetrante di Napoleone fu nell’aver scelto Mollien, economista di nascita e di studio, e di averlo, finché regnò, tenacemente conservato, nonostante le lezioni che ne riceveva, ministro del tesoro; come tenne del pari sempre a capo delle finanze un altro grande ministro, Gaudin, duca di Gaeta.

 

 

Il conte di Cavour non aveva invece, nelle cose economiche, bisogno di consiglieri; che il grande politico aveva studiato sul serio la scienza economica teorica ed era stato insieme banchiere e finanziere ed agricoltore pratico, emulo di quegli economisti inglesi, i quali erano anche banchieri o commercianti ed agenti di cambio e che egli tanto ammirava e di parecchi dei quali era amico. In lui si cumulavano l’intuito fulmineo del politico, la conoscenza dell’economista teorico, la pratica dell’imprenditore di cose economiche concrete. Chi dubita che la riunione di tutte queste qualità non abbia contribuito a fare di lui quel grande che fu? Maggiore di quanti uomini politici vanti il secolo XIX? Egli non correva rischio di sbagliarsi chiedendo, prima di decidere, consiglio all’uomo competente in questioni economiche concrete delle quali per avventura non si fosse mai occupato; che egli aveva nella sua organizzazione mentale e nella sua preparazione scientifica gli strumenti sicuri per giudicare l’uomo da lui interrogato e le soluzioni a lui offerte.

 

 

Non si può negare che Giolitti avesse una dose non comune di intuito politico; ma non aveva bastevole preparazione economica e mancava di alcune delle qualità necessarie a dare il giusto peso ai dati del problema che egli doveva risolvere. Giolitti fu il tipico, anzi il maggior rappresentante di quella classe laboriosa, onesta di amministratori pratici, i quali governarono i dicasteri italiani dal 1876 al 1914; gente la quale guardava con sospetto i teorici e credeva che bastasse la “pratica” a “governar bene”; e quella frase del governè bin sentii appunto dalla bocca di Giolitti a riassumere l’essenza dell’arte del governo. Ma non si governa bene senza un’ideale. Era penoso, ascoltando i discorsi di Giolitti, vedere come, discutendo di cose economiche, egli passava sopra, con qualche barzelletta o qualche volgare frase demagogica, al punto essenziale del problema, per ottenere il plauso ovvio della maggioranza alla sua tesi. A lui accadde talvolta di giungere con l’intuito alla soluzione buona; ad esempio, quando propose e tenacemente volle nel 1921 l’abolizione del prezzo politico del pane, che minacciava di trarre nell’abisso la finanza e la moneta italiana. Gli giovò, qui, l’incubo, spaventevole per un uomo assestato come egli era, dei miliardi di disavanzo che ogni dì si cumulavano e crescevano; e volle farla finita. Il merito suo fu in questa occasione grandissimo e vale a riscattare la colpa delle leggi demogogiche d’imposta da lui fatte approvare e di tutto quel che di bene avrebbe potuto, negli anni fortunati in cui governò, operare in economia e in finanza e non fece. Giovò a lui l’avere come emulo un dottrinario, il Sonnino; il quale, per essere un dottrinario e non un teorico, diffettava dei freni che al teorico impediscono di cercare di attuare i propri schemi teorici; mentre il dottrinario, per definizione privo di senso scientifico ed insieme di intuito politico, vorrebbe fare e, incapace a muovere la materia sorda, non può. Ma Giolitti lo irrideva a torto. Avrebbe invero potuto sorridere di Sonnino il conte di Cavour; non egli, Giolitti, il quale ebbe una sola grande idea: quella di immettere le classi lavoratrici e contadine a partecipare al governo politico ed economico del paese; ma, a differenza di Cavour, mancava a lui la conoscenza del meccanismo economico e non seppe perciò andar oltre la nozione empirica del lasciar fare a socialisti ed operai l’esperimento necessario. Troppo poco per un uomo di stato, il quale deve sapere capeggiare ed indirizzare le forze sociali alle quali egli ha inteso aprire l’accesso al potere.

 

 

Un politico che sia un puro politico è qualcosa di difficilmente definibile ed a me pare un mostro, dal quale il paese non può aspettarsi altro che sciagure. Come possiamo immaginare un politico che sia veramente grande – della razzamaglia dei politicanti non val la pena di occuparsi, anche se temporaneamente riscuotono gran plauso ed hanno seguito frenetico – il quale sia privo di un ideale? E come si può avere un ideale e volerlo attuare, se non si conoscano i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a governare e se non si sappiano scegliere i mezzi atti a raggiungere quell’ideale? Ma queste esigenze dicono che il politico non deve essere un mero maneggiatore di uomini; deve saperli guidare verso una meta e questa meta deve essere scelta da lui e non imposta dagli avvenimenti mutevoli del giorno che passa. Il vizio di Giolitti fu di non possedere le qualità necessarie per attuare l’idea dell’elevamento delle masse che era nell’aria e che egli professava e intendeva far propria. Era uno scettico, adusato dalla quotidiana pratica amministrativa ed elettorale a disprezzare gli italiani, che avrebbe dovuto ed a parole diceva di voler innalzare. Il suo giudizio coincideva con quello di un gran fabbricante di abiti fatti, il quale: «gli italiani» – diceva «camminano gobbi» e gli abiti fatti si adattano perciò male al loro dorso. «Gli italiani camminano gobbi», ripeteva Giolitti e perciò non fanno guerre. Ma egli non li educò e sforzò a voler fortemente e se sul Grappa e sul Piave stettero valorosamente in campo, non fu merito suo; mentre era stato merito di Emanuele Filiberto l’aver costretto i piemontesi del tempo suo, poltroni famigerati tutti, nobili e plebei, a divenire il popolo guerriero per antonomasia fra gli italiani.

 

 

Non esiste una coscienza politica la quale da sé garantisca la libertà ed elevi i popoli. La coscienza politica è un composto di vivo sentimento morale, di amore di patria, di fierezza individuale, di solidarietà di famiglia, di classe e di nazione, di indipendenza economica, che il politico esalta ed utilizza a fini pubblici. Se di quella coscienza esistono i germi, essi possono essere fatti crescere o possono essere distrutti, a seconda della comparsa sulla scena del mondo, di uomini superiori o mediocri. In sostanza, gli uomini governati e governanti creano nel tempo stesso la libertà sotto tutti i suoi aspetti: politico, economico, religioso, di stampa, di propaganda. Se alla radice dell’azione degli uomini vi è libertà morale, come è possibile che essi creino istituti economici che li leghino e li riducano alla condizione di servi, privi della facoltà di scegliere le proprie occupazioni, di soddisfare ai propri gusti, di lavorare fuor degli ordini di funzionari gerarchicamente sovrapposti? Tanto varrebbe dire che gli uomini per elevarsi e per conquistar libertà decidano di delegare ad un dittatore il compito permanente di pensare, di scrivere e di parlare per loro conto. Possono e debbono farlo durante un assedio od un tumulto, volgendo tempi di guerra esterna o civile; ma se si acquetano ad ubbidir sempre, essi sono servi e non liberi.



[1] Con il titolo Intorno ai contenuti di liberismo, comunismo, interventismo e simili. Anche in estratto, Stamperia fratelli Parenti di G., Firenze, 1941 [ndr].

[2] Lo scritto era intitolato: A proposito della discussione fra Croce ed Einaudi. P.S. vi riassumeva e commentava in cinque pagine i termini della controversia intorno alle premesse del ragionamento economico (che aveva avuto inizio sulla «Rivista di storia economica» nel giugno 1937 e si era protratta nei quaderni del settembre 1940 e del marzo 1941), concludendo che «non è un ordinamento economico, ma solo la coscienza politica che può garantire o compromettere la libertà».

[3] Cfr. Rileggendo Ferrara, nel quaderno del marzo 1941 della «Rivista di storia economica».

[4] Cfr. Le premesse del ragionamento economico e la realtà storica, nel quaderno del settembre 1940 della «Rivista di storia economica».

[5] Sul concetto di “accessione” cfr. i paragrafi 265 e 266 dei Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino 1940.

Le premesse del ragionamento economico

Le premesse del ragionamento economico

«Rivista di storia economica», marzo 1941, pp. 179-199[1]

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 248-258

Liberismo e liberalismo, Ricciardi, Milano-Napoli, 1957, pp. 151-161

 

 

 

 

Nel dibattito iniziato nel quaderno di settembre 1940 della «Rivista di storia economica» intervenne Benedetto Croce con la seguente nota:

 

 

Un dubbio e una riserva che sono nel libro testé pubblicato dal sempre da tutti rimpianto Aldo Mautino (La formazione della filosofia politica di B. C., Torino 1941, pp. 129) e l’importante discussione sulle premesse del ragionamento economico e la realtà storica, che leggo nell’ultimo fascicolo della «Rivista di storia economica», V, 179-99, mi muovono a riesporre alcuni punti della mia teoria etica e politica per metterli sotto gli occhi degli amici specialisti di economia. Non entrerò in lunghi sviluppi, che ho dati altrove, ma enuncerò le mie tesi in modo schematico, quasi sommario, che mi sembra in questo caso debba tornare più efficace.

 

 

  • Liberismo e comunismo sono due ordinamenti irrealizzabili e irrealizzati nella loro assolutezza. Ciò (dopo che furono abbandonati gli entusiasmi alla Bastiat circa il primo, e quando si sia usciti dal fanatismo irriflessivo assai frequente circa il secondo, che ricorda certi folli propositi di asceti) è, credo, pacifico tra gli economisti.

 

  • L’uno e l’altro ordinamento non sono per sé concetti di economia né propongono quesiti risolubili dalla scienza economica. La scienza economica sta senz’essi; cioè prescindendo da essi. La ragione di questi è che l’uno e l’altro sono tendenze o tentativi di ordinamento totale della vita e società umana, e pertanto di ordinamento etico.

 

  • Sotto questo aspetto, non solo sono incapaci, come si è detto, di attuarsi in pieno, ma l’uno e l’altro, come principii, sono illegittimi. Se ben si meditino, si riducono l’uno alla proposizione che «tutto è lecito» e l’altro all’altra che «niente è lecito». A quel dilemma aveva già risposto, or son diciannove secoli, san Paolo, pronunziando che «tutto è lecito all’uomo ma non tutto è proficuo».

 

  • Ben diverso è il principio del liberalismo, che è etico ed assoluto, perché coincide col principio stesso morale, la cui formula più adeguata è quella della sempre maggiore elevazione della vita, e pertanto della libertà senza cui non è concepibile elevazione né attività. Al liberismo come al comunismo il liberalismo dice: Accetterò o respingerò le vostre singole e particolari proposte secondo che esse, nelle condizioni date di tempo e di luogo, promuovano o deprimano l’umana creatività, la libertà. Con ciò quelle proposte stesse, ragionate diversamente, vengono redente e convertite in provvedimenti liberali.

 

  • Quel che si celebra e loda come opera e gloria del liberismo, se ben si ricerca a fondo, si riconduce all’opera della coscienza etica, della volontà del bene, e per essa al liberalismo; e, viceversa, quel che si lamenta di certi effetti del liberismo nasce da una superficiale o corrotta interpretazione del liberalismo. La legislazione operaia e altrettali provvedimenti poterono essere considerati antiliberistici, ma non solo non erano antiliberali, sì invece sanamente liberali, in quanto concorrevano all’elevazione dell’uomo.

 

  • All’obiezione che mi è stata fatta, e che ritrovo nel volume del Mautino, che la mia distinzione tra liberalismo e liberismo è bensì giusta, ma che bisogna guardarsi dal farne una “contrapposizione”, come avrei fatto io, perché «Il liberalismo ha come sua base il liberismo inteso come iniziativa individuale, operosità e libera concorrenza, come selezione di capacità e via dicendo», è da rispondere, in primo luogo (oh, mi fosse dato di rivolgere questa risposta al caro giovane che abbiamo perduto e farne materia di conversazione con lui!), che io non “contrappongo” i due concetti, ma, per le ragioni dette di sopra, li considero “disparati”, l’uno un principio assoluto, l’altro la tendenza a un particolare ordinamento empirico. E, quanto alla base di cui il liberalismo avrebbe bisogno nel liberismo, la risposta è che la libertà come moralità non può avere altra base che se stessa, e morale non sarebbe se fosse legata a un dato economico, che in questo caso sarebbe materiale, e per questa via si tornerebbe al deplorato materialismo storico. («La libertà è un concetto borghese», ecc. ecc.).

 

  • Ma l’obiezione, se nella sua formulazione non è valida, contiene un motivo vero, che è di affermare che la libertà o l’attività morale non può concretarsi se non in azioni che sono insieme utili ed economiche, e deve servirsi delle forze che le è possibile di volta in volta raccogliere intorno a sé e piegare ai propri fini. Di ciò ho discorso altrove, e anche di recente vi sono tornato sopra con maggiore particolarità nei Paralipomeni al libro sulla Storia (inclusi nel recente volume: Il carattere della filosofia moderna, paragrafi 24 e 25). La conclusione è che il liberalismo ha bisogno non di “basi” ma di “mezzi” economici e politici, e che questi non possono mai essere fissati in certi mezzi ad esclusione di certi altri: per esempio, in certe classi sociali, in certi ordinamenti della proprietà terriera, delle industrie, delle banche, ecc., cose tutte mutevoli e transeunti, laddove il principio della libertà è costante ma devono essere ritrovati e adoperati caso per caso, conforme alle situazioni storiche, e saranno più o meno duraturi secondo la maggiore o minore durevolezza di queste; e che il ritrovarli non è opera del teorico né dell’economia né dell’etica, ma dell’ingegno o genialità politica. A questo punto mi fermo perché, come diceva Goethe, l’appello al genio, e in questo caso al genio politico, è già espresso nel magnifico inno della Chiesa: «Veni, Creator Spiritus…»: inno che noi, filosofi e scienziati, non possiamo se non ricantare ad una voce con l’umile plebe.Benedetto Croce

 

 

Mentre ringrazio il maestro ed amico per la luce che egli ha voluto recare nella discussione del problema, non so resistere alla tentazione di ripensare le cose dette dal Croce nella maniera che suppongo – dico “suppongo” ché, in quanti mai diversi linguaggi discorre oggi la nostra confraternita! – propria degli economisti.

 

 

Croce va al fondo del problema quando osserva che “liberismo” e “comunismo” non sono per sé concetti di economia, né propongono quesiti risolubili dalla scienza economica. Questa prescinde da essi; e pone ipotesi astratte. Le quali notoriamente sono quelle estreme di concorrenza e di monopolio e le intermedie, variabilissime, di concorrenza imperfetta, di monopolio limitato, ecc. ecc.

 

 

Poste quelle ed altre premesse, la scienza economica vi ragiona sopra, senza preoccuparsi se esse siano o non conformi alla realtà; e le illazioni alle quali arriva sono valide entro i limiti delle fatte premesse. Talvolta pare che essa usi altro procedimento, come negli studi bellissimi e fecondi, oggi divulgati, i quali partono, ad esempio, dalla considerazione di dati concreti su quantità prodotte e consumate, importate ed esportate, rimanenze a principio od a fine d’anno o di mese e prezzi relativi. Ma, se ben si guarda, quei dati sono semplicemente il materiale di cui la mente si serve per scomporre, combinare, astrarre “durante” il ragionamento, invece che “a riprova” del ragionamento compiuto.

 

 

Mossi dal desiderio di non ragionare a vuoto, gli economisti mentre ragionano o dopo aver ragionato ambiscono naturalmente appurare se le fatte premesse ed i conseguenti ragionamenti abbiano qualche parentela con la realtà concreta che lor si svolge attorno. Così, dopo aver posto la premessa astratta della piena concorrenza ed averne determinato le condizioni molti imprenditori produttori e molti consumatori, inettitudine dell’entrata o del ritiro di ognuno degli imprenditori o dei consumatori nel o dal mercato ad influire sul mercato medesimo, mancanza di attriti in quest’entrare od uscire, riproducibilità dei fattori produttivi a costi costanti, ecc. ecc. gli economisti sono immediatamente forzati ad aggiungere che la premessa da essi posta è un mero strumento di studio e non ha immediato preciso riscontro con la realtà. La premessa ed i conseguenti ragionamenti debbono perciò essere reputati mero vaniloquio? Il politico non ne trae alcun vantaggio? Lo scetticismo sarebbe grandemente esagerato. Quelle premesse giovano, fra l’altro, a dimostrare che “liberismo” e “comunismo ” che, se sono qualcosa, sono due “ordinamenti” e non due concetti scientifici, non sono mezzo adatto ad attuare in concreto la premessa della “piena concorrenza”.

 

 

Si ammetta infatti che questa, condizionata come sopra si disse, conduca a quel tipo di prezzo dei beni e dei servigi che dicesi uguale al costo di produzione; e che la premessa opposta del monopolio pieno conduca invece a quell’altro tipo di prezzo che garantisca all’imprenditore il massimo di profitto. Si ammetta ancora – sebbene taluno possa tenere diverso avviso – che l’opinione comune degli uomini preferisca quell’ordinamento economico concreto il quale sia atto a far tendere i prezzi od i più dei prezzi verso il limite del costo di produzione ad un diverso ordinamento il quale garantisca agli imprenditori monopolisti un massimo di profitto. Dovremo considerare il liberismo od il comunismo strumenti adatti per attuare, entro i limiti del possibile, l’ordinamento preferito? Che sarebbe poi quello in virtù del quale, in una società nella quale i punti di partenza siano, per quant’è storicamente possibile, non troppo disformi, agli imprenditori spetti un compenso non superiore al valore del loro apporto di lavoro di dirigenza e di intrapresa al prodotto comune, ai capitalisti non più del valore del loro apporto di risparmio, ai lavoratori non più del valore del loro apporto di opera manuale od intellettuale e questi compensi esauriscano, senza residuo, il valore del prodotto totale. Certo, il liberismo, ordinamento concreto, non sarebbe lo strumento adatto che noi cerchiamo. Se infatti esso si riduce, come il Croce rigorosamente dichiara, alla proposizione che «tutto è lecito», il liberismo non è strumento adatto ad impedire il crearsi di guadagni di monopolio. Se tutto è lecito, è lecito anche, come accadde tra il 1870 ed il 1900 negli Stati Uniti, a talun astuto produttore di petrolio accordarsi con talun magnate di ferrovie per stabilire tariffe di favore per il suo petrolio e così battere i concorrenti e sfruttare il monopolio proprio; è lecito assoldare ivi bande armate private per costringere operai a recarsi al lavoro alle condizioni volute da industriali negrieri; è lecito corrompere od influire sui legislatori per ottenere dazi protettivi, privilegi, premi e divieti di associazioni operaie; è lecito a queste di impedire colla violenza fisica o morale ad altri operai di recarsi al lavoro, ecc. ecc. Se il liberismo del «tutto è lecito» fosse pensabile in concreto, gli economisti dovrebbero constatare che la loro premessa astratta della piena concorrenza, pure conservando il proprio valore logico di strumento di ricerca, non troverebbe alcuna attuazione, anzi l’opposto, in un vivente ordinamento liberistico. Per rendersi ragione dei fatti esistenti, dei prezzi, dei salari, dei profitti correnti dentro l’ordinamento detto liberistico, essi dovrebbero ricorrere ad altri strumenti astratti di ricerca: l’ipotesi di monopolio perfetto od imperfetto, di monopoloidi, di monopoli bilaterali e simiglianti.

 

 

Suppongasi che ad un politico cada in mente di promuovere un ordinamento economico concreto siffatto che l’ipotesi della piena concorrenza – e cioè di prezzi di salari di profitti tendenti al costo di produzione; ossia scevri, ognuno di essi, da qualunque traccia di guadagno di monopolio – vi trovi quella migliore attuazione che in questo mondo imperfetto è immaginabile. Quel politico, penso, dovrebbe far suo il detto di san Paolo del «tutto è lecito all’uomo ma non tutto è proficuo» che il Croce ricorda a conclusione della sua terza tesi; dovrebbe cioè porre gran cura nel definire quel che è lecito, distinguendolo da quel che è illecito. Le norme seguenti: «non è lecito far lavorare le donne di notte – non è lecito far lavorare i fanciulli prima che essi abbiano compiutamente assolti gli obblighi della istruzione elementare – non è lecito licenziare gli operai capi od addetti a associazioni operaie estranei alle associazioni operaie – è obbligatoria l’assicurazione degli operai contro gli infortuni del lavoro, contro l’invalidità e la vecchiaia – non è lecito il monopolio delle invenzioni industriali a favore dell’inventore oltre un brevissimo periodo di salvaguardia – è necessaria la istituzione di imposte o di altre norme giuridiche atte a ridurre le differenze iniziali di posizione tra uomo e uomo nei limiti consentiti dalla necessità di promuovere la formazione di tanto risparmio quanto occorra a ridurre il saggio dell’interesse ad un minimo – non è, per chiudere l’elenco che sarebbe assai lungo, lecito od è obbligatorio compiere o non compiere gli atti a, b, c,… n» – contraddicono senza forse all’ordinamento liberistico, ma sono invece la condizione necessaria per attuare un ordinamento concreto il quale si avvicini quanto sia possibile all’ipotesi astratta della libera concorrenza. Si noverano, tra gli economisti viventi, taluni, sparpagliati nei più diversi paesi del mondo, ai quali se un’etichetta dovesse opporsi che non fosse ad essi sgradita converrebbe l’aggettivo di “neo liberali”. Ad essi riuscirebbe fastidiosa la qualifica di “liberisti” nel senso del “tutto è lecito”; e preferirebbero l’altra di “neo liberali” come più atta a chiarirli uomini desiderosi di vedere, nel campo economico, attuata la premessa di “piena concorrenza” con tutti gli innumeri vincoli giuridici che quella premessa comporta. Essi vorrebbero vedere attuata quella premessa non per se stessa, né come fine dell’agire umano, bensì come “mezzo” o “strumento” per «una sempre maggiore elevazione della vita, dell’umana creatività e pertanto della libertà senza cui non è concepibile elevazione né attività».

 

 

Sono costoro d’accordo coll’insegnamento di Benedetto Croce intorno al “principio” del liberalismo? Qualche dubbio, debbo confessarlo, rimane nella mia mente se rifletto all’attitudine di quasi indifferenza – ma forse si tratta di indifferenza apparente – con cui il Croce guarda ai mezzi, che egli sopra definisce «mutevoli e transeunti», da adoperarsi «caso per caso» in conformità «alle situazioni storiche» e da ricercare «non dal teorico né dell’economia né dell’etica, ma dall’ingegno o genialità politica». Ed altrove discorrendo dei vari mezzi: liberismo, protezionismo, monopolismo, economia regolata e razionalizzata, autarchia economica, egli insiste nel dire che nessuno di essi «può vantare verso gli altri carattere morale avendo tutti carattere economico e non morale, e potendo ciascuno a sua volta, secondo le varie situazioni storiche, essere adottato o essere rigettato dalla volontà morale… E si dica lo stesso dell’ordinamento della proprietà capitalistico o comunistico o altro che sia, anch’esso di necessità vario e non mai fissabile secondo un disegno di generale e definitivo comodo e benessere, che non solo è utopistico, ma intrinsecamente non ha che vedere con la morale, la quale non può mirare e non mira all’impossibile benessere individuale né generale, ma all’excelsius» (in Il carattere della filosofia moderna, VII, pp. 118-19). Se si è senz’altro d’accordo col Croce nel respingere le «rievocazioni e celebrazioni storiche della libertà economica come premessa o concomitanza dell’altra e civile e morale libertà» e nel ritenere «che i benefici effetti, che si sogliono riportare alle istituzioni dell’economia liberistica, erano in realtà manifestazioni della libertà morale che investiva quelle istituzioni e se ne giovava, e perciò non tanto condizioni quanto conseguenze» (p. 242) si prova un vero stringimento di cuore nell’apprendere da un tanto pensatore che protezionismo, comunismo, regolamentarismo e razionalizzamento economico possono a volta a volta secondo le contingenze storiche diventare mezzi usati dal politico a scopo di elevamento morale e di libera spontanea creatività umana. Forse appunto questa istintiva incoercibile ripugnanza a concepire quegli specifici “mezzi” come atti a raggiungere un fine di elevazione umana faceva scrivere al Mautino che «il liberalismo ha come base il liberismo, inteso come iniziativa individuale, operosità, libera concorrenza come selezione di capacità; e via dicendo. Cadendo nel protezionismo, nel parassitismo di industrie e di lavoratori verso lo stato ecc., ci si avvia a negare anche il liberalismo nel suo valore più schiettamente politico e morale» (loc. cit. sopra dal Croce). Quante volte discorsi con lui di questo tormentoso problema, pur riconoscendo al principio liberale autonomia, primato ed esclusiva dignità etica, sempre ripugnavo a pensare che quel principio potesse assumere come mezzo per la sua attuazione strumenti come il protezionismo, il comunismo, il regolamentarismo e simili. Perché sentivo e sento quella repugnanza? Se interrogo me stesso, parmi che in fondo essa provenga dall’identificazione istintiva che io faccio di quei mezzi con il male morale, con la frode economica, con la violenza politica, con l’oppressione del debole da parte del forte, con la sostituzione dell’intrigo e dell’arrembaggio all’aperta e libera competizione, con la negazione del diritto dell’uomo a far valere tutto se stesso, senza nocumento ingiusto altrui e nel tempo stesso senza avvilimento verso i potenti e gli arrivati. Questione di definizione o di parole, come avrebbe detto l’amico arguto e meditante Giovanni Vailati? Credo od almeno spero di no. Spero che quella identificazione dei mezzi a me repugnanti con il male morale non sia un giochetto di parole, sì invece il frutto di quel poco o tanto io abbia appreso dalla meditazione degli accadimenti economici del passato e dalla esperienza della vita presente. Per ristringermi ad un punto solo, al mezzo cioè del protezionismo doganale, pur tenuissima varietà di specie ben più vasta e pur tenuissima sciagura morale in confronto al comunismo,[2] io veggo in astratto i casi – esposti non mai dai fautori del protezionismo concreto ma solo e sempre da studiosi teorici – nei quali è dimostrabile essere un dazio doganale mezzo adatto al raggiungimento di un fine, incremento della produzione totale, incremento di salari e di lavoro, promovimento di industrie destinate a gran rigoglio ecc. ecc., ritenuto generalmente desiderabile. Ma veggo subito altresì che di quelle posizioni astratte del problema è praticamente quasi impossibile osservare una applicazione concreta; vedo quasi sempre di quelle ammissioni teoriche tra profitto filibustieri e saccheggiatori del pubblico denaro, instauratori di industrie falsamente giovani e non mai destinate a maturanza, contrabbandieri di industrie destinate non alla difesa bensì allo sterminio della patria. E son forzato a concludere: quel mezzo, in concreto, come azione politica, come fatto storico, non può essere adoperato se non come strumento, oltreché di danno economico – e sarebbe il danno minore -, di male morale,di oppressione dei più degni a vantaggio degli indegni procaccianti; e ad aggiungere: quei pochi, pochissimi casi in che quel mezzo, astrattamente ben ragionato, è suscettivo di applicazione concreta, forse ché esso non può essere fatto rientrare nella ipotesi di concorrenza, nel ristabilimento cioè di quelle condizioni di piena, libertà di entrare o di uscire nel o dal mercato, di gran numero di produttori o di consumatori, ecc. ecc., le quali erano state obliterate da qualche circostanza, eliminabile dal legislatore, di ignoranza, di attrito momentaneo, di limitazione parziale, o di monopolio di qualche fattore produttivo?

 

 

Se il liberismo del «tutto è lecito» non interessa gli economisti né come ipotesi astratta né come ordinamento concreto, essi si chiedono: un ordinamento giuridico dell’economia, che sia un’approssimazione concreta all’ipotesi astratta della libera concorrenza e sia perciò atto a mettere gli uomini, in conformità alle esigenze di ogni situazione storica particolare, nelle condizioni migliori per competere, ciascuno secondo le proprie attitudini, gli uni con gli altri per raggiungere il massimo grado di elevazione morale, può essere messo alla pari con altri ordinamenti protezionistici comunistici regolamentaristici che l’esperienza insegna fecondi di sopraffazione, di monopolio, di abbassamento morale? Forse, innanzi di discutere, converrebbe definire chiaramente quel che si intende per protezionismo, regolamentarismo comunismo e fino a che punto questi ed altri simili ordinamenti possano essere considerati atti ad attuare l’ipotesi astratta della piena concorrenza e se, essendo così atti, possono essere, senza ingenerare troppo gravi equivoci, indicati con parole comunemente applicate ad ordinamenti ben più estesi e ben diversi. Se perciò noi assumiamo le parole “protezionismo” e “mercantilismo” nel loro tradizionale significato storico, quando Aldo Mautino (nel quaderno di settembre 1940, p. 149 di questa rivista) scriveva: lo Smith combatte le leggi mercantili anche ove possano parere economicamente non svantaggiose, come «impertinenti segni di schiavitù» e «manifesta violazione dei più sacri diritti degli uomini»; «dinanzi alla libertà non si fanno calcoli di dare ed avere e chi cerca nella libertà vantaggi o danni ha animo disposto a servire», egli, la cui vita fu tanto ingiustamente breve, non dimostrava quanto il suo animo fosse aperto all’insegnamento della storia del passato e di qualche vivente sua esperienza?

 

 

Non dunque si può affermare che un qualsiasi ideale di vita esige mezzi di attuazione a se stesso congrui? Che se talvolta sembra che il mezzo incongruo sia stato adoperato da politici animati da alti ideali, una indagine accurata non è probabile dimostri che quel mezzo (ad esempio protezionismo) non cagionò il danno morale di cui soltanto è capace, perché il politico seppe nel tempo stesso usare altri mezzi, far muovere altre forze che vietarono a quel mezzo di condurre ai risultati suoi necessari? Spunti di quell’indagine si leggono qua e là sparsi nei libri di teoria e di storia economica; ma sarebbe fuor di luogo pretendere che essi siano sempre dovuti a studiosi consapevoli dei legami i quali intercedono fra principi morali, ipotesi astratte ed ordinamenti concreti.

 

 

Non voglio offrire una soluzione al problema. Ma il problema esiste. Non noi, che la sentiamo, sì coloro, che, al par di Benedetto Croce, sanno guardare al fondo delle cose, possono dirci le ragioni per le quali sentiamo tanta ripugnanza morale a guardare conindifferenza alla scelta fra i vari mezzi economici che ai politici si offrono per promuovere l’elevazione spirituale dei popoli.



[1] Con il titolo Ancora su «Le premesse del ragionamento economico». Anche in estratto, Einaudi, Torino, 1941 [ndr].

[2] Per chi ritenesse eccessivo il giudizio morale mio sul comunismo, giova far presente una riserva. Può darsi che, nella giovinezza del mondo, tra uomini abituati a rudimentali tipi di vita in comune, il genio politico abbia potuto giovarsi del “mezzo” esistente, unico a lui offerto, di ordinamento comunistico per trarre gli uomini a conseguire più alto ideale di vita. Ma nelle società complicate civili moderne – forse il discorso si applica anche a società più antiche, come quelle dell’epoca imperiale romana – come può apparire conciliabile l’idea della elevazione morale con l’impiego, senza di cui un ordinamento comunistico è impensabile, dello strumento burocratico esteso a tutte le occupazioni umane? Di uno strumento “necessariamente” definito come l’autorità da cui, discendendo gerarchicamente dall’alto al basso, dipendono il modo del vivere, del pensare esteriore, del parlare, dell’agire e la vita stessa di tutti gli uomini, tutti fatti servi di chi sta sopra ad essi? L’uomo politico, il quale faccia uso di siffatto strumento, non può, quasi per definizione volere l’elevazione dei suoi concittadini. Egli ne vuole, sebbene di ciò non sempre sia consapevole, l’abbassamento; ed ha egli stesso anima di servo.

Dei criteri informatori della storia dei prezzi questi devono essere espressi in peso d’argento o d’oro o negli idoli usati dagli uomini?

Dei criteri informatori della storia dei prezzi questi devono essere espressi in peso d’argento o d’oro o negli idoli usati dagli uomini?

«Rivista di storia economica», V, n. 1, marzo 1940, pp. 43-51

Perché l’imposta straordinaria progressiva sui dividendi delle società commerciali non fu estesa alle società straniere operanti in Italia

Perché l’imposta straordinaria progressiva sui dividendi delle società commerciali non fu estesa alle società straniere operanti in Italia

«Rivista italiana di dottrina e giurisprudenza delle imposte dirette», 1939, n. 2, pp. 145-155

 

Di una prima stesura della ‘Ricchezza delle Nazioni’ e di alcune tesi di Adamo Smith intorno alle attribuzioni dei frutti del lavoro

«Rivista di storia economica», III, 1938, pp. 50-60

1. – Quando nel 1776 la Ricchezza delle Nazioni venne al mondo, al nome dell’autore seguiva il ricordo dell’insegnamento tenuto da AdamoSmith fino a 12 anni prima: «formerly professor of Moral Philosophyin the University of Glasgow». Il monumento che nel novembre 1937 l’Università di Glasgow eresse col libro dello Scott (Adam Smith as student and professor, Glasgow, 1937) in memoria della immatricolazione avvenuta, precisamente 200 anni prima, di Adamo Smith comestudente nell’Ateneo che lo ebbe poi maestro e, divenuto celebre, rettore, è dovuto alle cure di William Robert Scott, il quale ha il grande onore di essere “Adam Smith Professor of Political Economy in the University of Glasgow”. La riverenza verso il creatore dell’insegnamento da lui oggi impartito ha stimolato l’autore della classica opera sulla storia delle società per azioni in Inghilterra, Scozia ed Irlanda fino al 1720, a consacrare anni di ricerche pazientissime e sagaci allo studio della vita e degli scritti del suo grande predecessore. È suggestivo il mistero che aleggia intorno a questi, che parrebbero, dati i tempi in cui visse, fatti ovviamente conoscibili: vita e scritti dell’uomo universalmente tenuto come il padre della scienza economica. Eppure, fino a poco tempo fa non si sapeva quasi nulla della sua famiglia e la notizia degli scritti si restringeva a quella delle due opere famosissime pubblicate dallo Smith vivo (1759: La teoria dei sentimenti morali e 1776: La ricchezza delle nazioni) ed al volume postumo dei saggi, edito nel 1795 dagli esecutori testamentari Joseph Black e James Hutton. Della mancanza di notizie sui suoi scritti la colpa era dello Smith medesimo, il quale poco prima di morire aveva voluto fossero distrutti i manoscritti inediti suoi, conservati nello scrittoio con rialzo, che la signora Bannerman piamente conserva in Edimburgo.

2. – A poco a poco, tuttavia, qualche maggior luce si è cominciata a fare intorno al mondo intellettuale sociale religioso e politico in cui Adamo Smith visse.

Le tappe principali dell’impresa sono le seguenti:

– nel 1793 Dugald Stewart legge alla Società reale di Edimburgo una notizia della vita e degli scritti del maestro ed amico. Su molti fatti e giudizi questa è la più autorevole fonte contemporanea. L'”Account” fu poi ripubblicato a guisa d’introduzione dei postumi Essays on Philosophical Subjects dello Smith e di nuovo nel decimo volume delle Collected Works dello Stewart (1858);

– nel 1894 James Bonar ricostruisce l’elenco dei libri posseduti dallo Smith; e nel 1932 ne pubblica una seconda edizione assai arricchita. ( A Catalogue of the Library of Adam Smith, London, Macmillan). È opera mirabile di pazienza e di erudizione, la quale ci fa rivivere il mondo

libresco, in mezzo al quale lo Smith visse. A segnalare il profitto che egli trasse dai suoi libri, il Bonar ha trascritto in inchiostro rosso i brani nei quali lo Smith cita o utilizza qualcuno dei libri da lui posseduti;

– nel 1895 John Rae pubblica (Life of Adam Smith, London, Macmillan) quella che rimane ancor oggi la miglior vita dello scrittore. Lettere edite ed inedite, ricordi di contemporanei, ricca aneddotica ci presentano Adamo Smith vivo, umano, benevolo, benefico, famigerato per

la distrazione e nel tempo stesso espertissimo amministratore delle cose altrui ed osservatore acuto dei fatti della vita economica contemporanea. Le lacune non sono poche nel libro di Rae; qualche notizia incerta ed anche, raramente, non esatta; ma il grosso del lavoro è compiuto;

– nel 1895 Edwin Cannan scopre, ad occasione di una conversazione nella quale si capitò a parlare anche di Adamo Smith, il manoscritto degli appunti che nel 1763 uno studente aveva preso assistendo alle lezioni di Adamo Smith (Lectures on Justice, Police, Revenue and Arms, 1896, Oxford, at the Clarendon Press). Scoperta capitale, perché consentì di conoscere quale fosse il punto al quale era giunta la meditazione dello Smith innanzi che, recatosi in Francia, in qualità di precettore del giovane Duca di Buccleuch, egli avesse avuto occasione di conoscere le persone e la dottrina dei fisiocrati.

Dopo il 1896 non c’è nulla di veramente nuovo: la seconda edizione dell’elenco di Bonar, qualche piccola notizia qua e là (mi sia consentito ricordare, sebbene minima, la riesumazione del racconto della visita, nel 1788, di un italiano, il cavalier Luigi Angiolini, al famoso scozzese, da me fatta in La riforma sociale del marzo – aprile 1933, in Nuovi saggi, 1937, pagg. 328 e segg. e in questo volume, pagg. 83 – 86).

3. – Oggi, aspettato con impazienza dagli smithiani sparsi nel mondo, vien fuori il libro dello Scott. Frutto di almeno un decennio di lavoro, esso è un vero monumento. A leggere l’elenco dei colleghi studiosi parenti bibliotecari ed archivisti che l’infaticabile Scott mise a duro contributo di ricerche per venire a capo di qualche particolare, grosso o minimo, della vita dello Smith, c’è da rimanere allibiti. Per risolvere talun intricato problema genealogico intorno alla famiglia Smith il signor A. T. Mc Robert fece passare a foglio a foglio, naturalmente con l’entusiasmo che l’erudito mette nelle piccole cose, nove piedi cubi di carte d’archivio della città di Aberdeen. Alla fine il documento cercato saltò fuori e, nota con soddisfazione l’a., con «una eccellente firma» di Adamo Smith. Per quale grande economista italiano fu spesa altrettanta fatica e con ugual frutto? Viene, grazie alla buona scuola crociana ed a Fausto Nicolini, in mente il nome di Galiani; sebbene lo spunto a Nicolini non sia stato dato dall’interesse intellettuale per la scienza economica ma da quello per l’amico degli enciclopedisti e della marchesa d’Epinay, per l’uomo che brillò di luce vivissima in una società di uomini in cui tutti parevano avere abbondanza di esprit. Vengono in mente il carteggio dei due Verri ed i dotti suoi editori Greppi, Giulini e Seregni; ma anche qui l’interesse è letterario filosofico politico mondano, non certo economico in primo luogo.

4. – Lo Scott divise in quattro parti l’opera; delle quali la prima (pagg. 1 – 126) è quella narrativa. In essa l’a. non volle rifare la vita del Rae, la quale sfruttava ottimamente le fonti conosciute al tempo suo e non potrà essere riscritta con vantaggio se prima il materiale ancora inesplorato, ad esempio quello dell’archivio delle dogane Scozzesi di cui Adamo Smith fu commissario, non sia stato fatto oggetto di studio attento; ma volle invece fornire un completamento al Rae che ne integrasse la narrazione per la prima e meno nota parte della vita dello Smith dalla nascita (1723) alle dimissioni dalla cattedra di Glasgow (1763).

Nella seconda parte (pagg. 129 – 314) sono contenuti documenti relativi alla famiglia Smith, alla sua carriera come studente e professore, alla amministrazione da lui tenuta del patrimonio dell’Università, al suo interessamento per la biblioteca, alla parte da lui tenuta nei conflitti insorti intorno ai poteri delle varie autorità accademiche – e qui è pubblicata per la prima volta una lunga relazione dello Smith sui poteri rispettivi del rettore, suprema autorità accademica, in gran parte onorifica, e del principal che era il vero sovraintendente agli studi. Arricchiscono la seconda parte 83 lettere in gran parte inedite, di e ad Adamo Smith provenienti soprattutto dai fondi della famiglia Bannerman, discendente di Davide Douglas, Lord Reston, cugino ed erede dell’economista.

La terza parte (pagg. 315 – 356) consiste nella stampa della prima stesura di alcuni iniziali capitoli della Ricchezza delle Nazioni. La scoperta dello Scott fu giusto guiderdone di ricerche condotte con logico intuito nelle carte dell’archivio dei Duchi di Buccleuch, del terzo dei quali, come è noto e si disse sopra, lo Smith per tre anni fu precettore. Sembra che il manoscritto fosse stato inviato dallo Smith a Charles Townshend, secondo marito della contessa di Dalkeith, vedova del padre di Enrico, il giovane duca del quale lo Smith aspirava ad essere guida intellettuale durante il viaggio che, secondo il costume del tempo, quell’erede di un gran nome e di una grande fortuna si apprestava a condurre per alcuni anni sul continente. Il manoscritto, inteso forse a persuadere della attitudine dello Smith all’ufficio desiderato, rimase tra le carte del Townshend e quando egli morì, cancelliere dello Scacchiere, nel 1767 fu dalla vedova portato, con altre carte, a Dalkeith, dove d’allora in poi era rimasto.

Nella quarta parte l’occhio si diletta contemplando una ricca serie di fac – simili: di firme di Adamo Smith, in diverse epoche della sua vita, del padre, della madre, di cugini, di indici autografi di volumi di miscellanee messe insieme da A. S., di lettere, di estratti di conferenze date da A. S., in copie dovute alla mano di amanuensi con correzioni autografe del manoscritto della or ricordata minuta ecc. ecc.

Alcuni fac simili sottopongono il lettore al supplizio di Tantalo. Ecco, a pag. 390 il titolo di un catalogo che, soddisfacendo 113 anni prima l’esigenza alla quale ubbidì il Bonar dopoché era già avvenuta la dispersione, Adamo Smith fece compilare, o dettò al suo segretario, dei libri da lui posseduti nel 1781; ed a pag. 391 la riproduzione di una pagina del catalogo medesimo. Una marca amministrativa ci ricorda che il manoscritto si trova oggi, insieme con circa 300 volumi appartenenti alla biblioteca smithiana, nella biblioteca della Università imperiale di Tokio. Quando i colleghi giapponesi ci daranno l’elenco, se non di tutti, di quei libri posseduti da Smith nel 1781, i quali non figurano nel catalogo Bonar? (cfr. qui, a pag. 106, i numeri 11 e 12).

Lo Scott dice che i libri mancanti all’elenco Bonar non sono molti (pag. 124); ma un confronto fra il fac simile della pag. 41 ed il catalogo Bonar ci permette di osservare che questi non riuscì a trovare la traccia di 4 sui 5 volumi dell’Ami des hommes, dell’ Essai sur les Ponts et chaussées, la Voierie et les Corvées (e la Réponse del marchese di Mirabeau?), di Le Commerce et le Gouvernement del Condillac, del secondo volume dell’Ordre naturale et essentiel del Le Mercier de la Rivière, di due opere sull’agricoltura del Monceau e di un anonimo Le Reformateur.

Questa minuziosa ricerca non è dettata da vano stimolo di mera erudizione. Con l’appurare le date alle quali le biblioteche di Edimburgo e di Glasgow acquistarono, nel tempo nel quale Adamo Smith non poteva presumibilmente ancora provvedere ad una raccolta propria, libri inglesi e forestieri, principalmente francesi, di economia politica, lo Scott ha voluto seguire l’arricchimento progressivo del pensiero smithiano. Una delle conclusioni più importanti è che nel 1763, alla vigilia della partenza per la Francia, presumibilmente lo Smith non aveva conoscenza diretta della letteratura fisiocratica; eppure aveva, come risulta dalle lezioni e più dalla minuta ora scoperta, già chiari in mente ed in parte aveva già scritto i primi capitoli dell’opera pubblicata nel 1776.

5. – L’opera è illustrata da 18 riproduzioni di ritratti, medaglioni, stampe, monete, (la testa di Adamo Smith nel 1797 fu coniata su denari e mezzi denari scozzesi); ed è chiusa oltreché da copiosissimi indici, da sette appendici, di cui cinque riguardano cose famigliari, una la fortuna di Smith in Russia ed una, forse la più interessante, la sua maniera di scrivere. Adamo Smith era lento nello scrivere; anzi repugnava a prendere la penna in mano. Perciò dettava e correggeva. Ma anche la correzione la quale implicava raschiature e richiedeva sostituzioni, a causa delle parole scritte dai suoi amanuensi, gli riusciva faticosa. Di qui una certa difficoltà nell’incorporare le aggiunte nel testo, una relativa frequenza di digressioni e talvolta una non perfetta fusione del nuovo coll’antico. Chi legge la Ricchezza delle nazioni, s’imbatte talvolta nella parola opulence, invece di quella da lui comunemente usata wealth (ricchezza). Adamo Smith, il quale aveva cominciato con «opulenza» aveva invece finito collo scartarla a favore della più tecnica e neutra «wealth»; ma non sempre riuscì a superare il fastidio della raschiatura e della sostituzione. Il sopravvivere di «opulenza» perciò può essere indizio di una redazione più antica.

6. – È un così grande uomo, parmi sentir chiedere, codesto Adamo Smith da giustificare tante cure editoriali e tanto devoto culto quasi religioso, che parrebbero dovuti solo agli Alighieri ed ai Shakespeare? Non pochi economisti teorici dubiteranno ed in una lista di una mezza dozzina di creatori della economia pura non ho visto ricordato il nome di lui. Tuttavia egli ha serbato finora e probabilmente serberà nei secoli il gran luogo che la tradizione gli ha assegnato di fondatore della nostra scienza. Quasi certamente Petty, Cantillon, e Galiani sono più grandi teorici di Adamo Smith ed i fisiocrati lo sopravanzano come sistematori dei fatti economici, di cui essi hanno veduto meglio la unità e la continuità. Nessuno, tuttavia, meglio di Adamo Smith ha interpretato il tempo in cui egli visse. C’era un mondo il quale crollava, materiato di vincoli protezionistici nel commercio interno ed esterno, nelle relazioni con le colonie, nella regolamentazione delle industrie e delle arti, nei privilegi delle corporazioni, nel libero movimento degli uomini e delle cose da luogo a luogo e da tempo a tempo. Quel mondo era battuto in breccia da centinaia di opuscoli, da pubblicisti esasperati dal persistente trionfo di volgari errori intorno alla bilancia del commercio, di superstizioni monetaristiche, di sofismi intesi a giustificare privilegi oramai privi di contenuto. A tratti i parlamenti ordinavano l’abbruciamento sulle pubbliche piazze di fogli insolenti ed incendiari i quali assalivano gli interessi cari ai parlamentari. Ma i pubblicisti erano detti panfletisti e scribi; ma Petty e Cantillon erano troppo secchi e troppo tecnici per far presa; ma il capolavoro di Galiani era reputato frutto immaturo di un estroso genio ventenne; ma i fisiocrati erano giustamente irrisi per il gergo stravagante e le tabelle incomprensibili. Nonostante si vivesse nel secolo dell’illuminismo e della ragion ragionante i privilegi non potevano, massimamente in Inghilterra, essere vinti da un puro ragionatore. Venne un osservatore minuzioso della vita quotidiana, un critico il quale fondava i ragionamenti sulla esperienza storica, un moralista persuaso che le azioni scorrette sono alla lunga un cattivo affare per le nazioni e scrisse il libro, dal quale veramente si può far datare una nuova epoca nella storia del mondo. Quel libro era, per accidente, scritto in un inglese classico sonante ed ebbe anche per ciò quasi tanta fortuna come la contemporanea storia della decadenza e della rovina dell’Impero romano di Gibbon; con gran stizza di Samuele Johnson dittatore del mondo letterario britannico, il quale per nessuno dei due trionfatori ebbe mai simpatia. Trionfatore fu veramente lo Smith, che il secondo Pitt poco dopo dalla tribuna parlamentare proclamava maestro. Corre la leggenda che l’epoca smithiana sia chiusa; e non è ben certo se e quando sia cominciata. Occorsero, dopo la comparsa del libro, 70 anni prima che la libertà del commercio internazionale fosse proclamata in Inghilterra; e se la separazione delle 13 colonie nord americane provò subito la fondatezza delle critiche di lui ai regimi restrittivi coloniali, il programma smithiano di un impero britannico sta appena ora faticosamente attuandosi. È vero che il mondo stia ora ritornando ai metodi di politica economica che Adamo Smith aveva distrutto? Per dimostrare il ritorno sarebbe necessario dimostrare la inesistenza della esperienza storica sulla quale Adamo Smith aveva fondato i suoi ragionamenti demolitori. Se egli avesse formulato, come è compito degli economisti teorici, pure ipotesi astratte, sarebbe fuor di luogo parlare di passato e di presente, di epoche e di fasi storiche. Il segreto della fortuna dello Smith fu che egli formulò soltanto quelle ipotesi le quali servivano ad interpretare i fatti del suo tempo. Il suo libro è uno strumento di interpretazione di fatti accaduti; e poiché quei fatti di vincoli, di privilegi, di superstizioni sempre si rinnovano, lo strumento da lui apprestato ha valore perenne.

7. – Essendo vivi oggi come ieri i problemi posti da Adamo Smith si comprendono il culto votato alla sua memoria e la religione con la quale si va in cerca delle briciole sfuggite al rogo al quale egli aveva votato i suoi manoscritti. Quale è il contributo nuovo che il volume dello Scott fornisce alla conoscenza dell’uomo privato, di quello politico e dello scienziato?

8. – Quanto all’uomo, abbiamo la conferma delle verità che sono volutamente ignorate solo da coloro i quali, avendo attribuito a sproposito allo Smith la creazione del fantoccio detto homo oeconomicus, attribuiscono, con sproposito anche più grossolano, a lui le qualità di cui essi adornano quel fantoccio. In verità, egli era uomo di esemplari virtù umane. Amò teneramente la madre, con la quale visse sino alla morte, avvenuta (1784) in tarda età pochi anni prima della sua (17 luglio 1790). Rimase scapolo forse per non distaccarsi dalla madre e forse più per scarsa fortuna e una tal quale sua incertezza nelle cose amorose. Predilesse i parenti e della educazione dei più giovani di essi ebbe gran cura. Ma gli furono anche attaccatissimi gli allievi; e delle sue diligenze a prò di essi rimangono testimonianze numerose nelle lettere ora pubblicate dallo Scott. Non ebbe nemici, neppure tra i colleghi, avverso ai quali talvolta dovette, per ragion d’ufficio, concludere in occasione di invidiose pretese di cattedre e di onorari; e tra avversari, specie tra avversari accademici, irritabile genus, fu arbitro ascoltato. Ebbe amici fedelissimi. Nella conversazione talvolta li stupiva; ed invero amava, contrariamente all’uso dei dottrinari, stimolare altrui alla disputa ponendo i problemi in maniera nuova o paradossale o non conforme alla dottrina filosofica da lui sostenuta in genere (pagg. 98 – 99).

Visse semplicemente, senza sfarzo, anche quando le rendite sue, sommati i redditi patrimoniali con il vitalizio concessogli dal Duca di Buccleuch e l’onorario di commissario alle dogane scozzesi, pare superassero le mille lire sterline l’anno, che era per quei tempi somma ragguardevole. Ma in silenzio aiutava, a mezzo della madre e poi direttamente, i bisognosi; sicché il patrimonio pervenuto al cugino Lord Reston si chiarì assai inferiore al prevedibile.

Sull’uomo pubblico, lo Scott fornisce qualche particolare degno di nota. A 26 anni egli manifestava già diffidenza verso l’intervento della politica nell’economia.

L’uomo – scriveva Adamo Smith nel 1749 – è generalmente considerato dagli uomini di stato e dai progettisti come la materia prima di una specie di meccanica politica… Tutti i governi, i quali frastornano il corso naturale delle cose, e forzano queste in altra direzione e tentano di arrestare ad un qualche particolare istante il progresso della società, sono impropri (unnatural) e per mantenersi son costretti a diventare oppressivi o tirannici (pag. 54).

Le dispute faziose dei partiti lo impazientivano. In una lettera a Lord Fitzmaurice del 21 febbraio 1759 scriveva:

Sono lieto di non sentir più parlare di fazioni parlamentari. Quantunque di tanto in tanto un qualche spirito di parte conferisca alla vita del paese (tho a little faction now and then gives spirit to the nation), l’abuso persistente di esso ostruisce tutti gli affari pubblici e toglie ai migliori ministri la possibilità di fare molto bene (pag. 241).

Incaricato dal corpo accademico di Glasgow di redigere l’indirizzo di omaggio dell’università al nuovo Re Giorgio III, succeduto nel trono il 25 ottobre 1760 al nonno Giorgio II, usa maschio linguaggio:

I fedeli sudditi delle Maestà Vostre (l’indirizzo era anche rivolto alla regina) non possono non concepire gli auspici più radiosi di felicità dal regno di un principe nato ed educato in mezzo ad essi, abituato ai loro costumi, informato delle loro leggi, amante della loro costituzione e desideroso di governarli così come si addice a popolo generoso marziale e libero. Tanto alta è l’opinione che i vostri oramai riuniti ed affezionatissimi sudditi unanimemente hanno della magnanimità e della disinteressata virtù delle Maestà Vostre, da farli convinti che voi non desiderate, che voi non intendete governarli in altro modo, che voi tenete così cari i privilegi dei vostri sudditi come le prerogative della vostra corona, che voi siete orgoglioso di essere il re di un popolo libero e che, ben lungi dall’ingelosirvi dell’ardente spirito di libertà che anima naturalmente il petto di ogni britanno, voi generosamente ambite accarezzarlo e secondarlo. Tutti i membri di questa vostra devota e leale università riguardano principale merito proprio di essere stati sempre sinceramente e fervidamente attaccati al ramo protestante della vostra illustre famiglia e di aver sempre considerato la legge che la introdusse fra noi come il fondamento più sicuro della religione e della libertà della Gran Bretagna; ed essi si sono costantemente sforzati di inculcare nella gioventù affidata alle loro cure sentimenti di leale fedeltà quali si addicono ai sudditi di una monarchia fondata su principi di libertà (pagg. 167 – 8).

9. – La minuta della prima stesura della Ricchezza delle nazioni sembra, quanto allo scienziato, offrire la prova definitiva che le idee svolte nei primi due capitoli del libro pubblicato poi nel 1776 ed in parte nei seguenti intorno ai prezzi, alla moneta, agli scambi ed agli ostacoli ad essi frapposti dai governi erano già formate nella mente di Adamo Smith prima che egli avesse contatti diretti con i fisiocrati, e che il legame fra la dottrina smithiana e quella fisiocratica si restringeva alla derivazione comune dalle fonti dottrinali preesistenti. La prova è raggiunta attraverso a delicate indagini sulla calligrafia dell’amanuense e sul tipo di carta usata per la stesura della minuta ora scoperta, le quali persuasero lo Scott che il manoscritto fu redatto a Glasgow intorno al 1763.

10. Si sapeva che il linguaggio di Smith verso coloro che non possono essere detti, secondo il significato letterario della parola, lavoratori, era spesso duro; sicché dal suo libro altri potrebbe, come in parte fece Antonio Menger, dedurre autorevole conferma della teoria la quale attribuisce al lavoro diritto a tutto il reddito sociale e reputa l’interesse, il profitto e la rendita risultato di un furto legale a danno dei lavoratori:

Tra le nazioni civili e laboriose… molti uomini che non lavorano affatto consumano il prodotto di fatiche dieci e spesso cento volte maggiori di quello che è consumato dalla maggior parte dei lavoratori… (W. of N., pag. 2 dell’ed. Cannan).

Nelle società primitive e rozze… l’intero prodotto del lavoro spetta al lavoratore… (libro primo, cap. sesto, pag. 49).

Nelle società nelle quali il capitale si è accumulato nelle mani di privati l’intiero prodotto del lavoro non appartiene sempre al lavoratore… Non appena la terra di un paese è divenuta proprietà privata, i proprietari, simili in ciò a tutti gli uomini, amano raccogliere dove essi non hanno mai seminato. La legna della foresta, l’erba del campo e tutti i frutti naturali della terra, i quali, quando la terra era proprietà comune, costavano al lavoratore unicamente la fatica del raccogliere, acquistano anche per lui un costo addizionale. Egli deve pagare per ottenere licenza di raccogliere e deve dare al proprietario una parte di ciò che il suo lavoro coglie e produce… (ivi, pag. 51).

Il prodotto del lavoro è il compenso o salario naturale del lavoro. Nella condizione originale di cose, la quale precede la appropriazione della terra e la accumulazione del capitale, l’intero prodotto del lavoro spetta al lavoratore. Egli non deve spartire nulla col proprietario o col padrone… appena la terra diventa proprietà privata il proprietario domanda una quota (rendita) di quasi tutto il prodotto che il lavoratore può ricavare o raccogliere da essa… il profitto (a vantaggio di colui che anticipa al lavoratore la sussistenza) è una ulteriore detrazione dal prodotto del lavoro impiegato nel coltivare la terra (ivi, cap. ottavo, pagg. 66 – 7).

11. – Se la forma definitiva con la quale Adamo Smith presenta nel 1776 il suo pensiero è chiara, quanto più incisivo è il discorso nella minuta del 1763! In una società incivilita il povero provvede nel tempo stesso a sé ed al lusso enorme dei suoi superiori. La rendita, consacrata a sostenere la vanità di un proprietario ozioso, è tutta guadagnata grazie alla fatica del contadino. L’uomo denaroso indulge ad ogni sorta di godimenti ignobili e sordidi, a spese del mercante e del trafficante, ai quali egli dà a mutuo capitale ed interesse. Gli indolenti e frivoli cortigiani sono nello stesso modo mantenuti, vestiti ed alloggiati grazie al lavoro di coloro i quali sono chiamati a pagare le imposte all’uopo necessarie. Fra i selvaggi, al contrario, ogni individuo gode dell’intero prodotto della sua propria fatica. Non vi sono in mezzo ad essi proprietari, usurai ed esattori… Una divisione equa ed uguale del prodotto di una grande società non può mai darsi. In una società composta di 100 mila famiglie, vi sono forse 100 famiglie, le quali non lavorano affatto e tuttavia, grazie alla mera violenza od alla più ordinata oppressione della legge, impiegano (utilizzano) una quota della fatica dell’intiera società maggiore di ogni altro gruppo di 10 mila famiglie. La divisione di quel che, dopo questo enorme diffalco, rimane disponibile non è affatto proporzionata al lavoro di ogni individuo. Il ricco mercante, il quale consuma la maggior parte del suo tempo nel lusso e nelle feste, gode di una proporzione assai più grande dei frutti della sua impresa di tutti gli impiegati e contabili i quali pur compiono il lavoro. Questi, alla loro volta, pur avendo assai tempo a propria disposizione e non soffrendo quasi altro fastidio fuorché l’obbligo di attendere all’ufficio, ottengono una parte assai più vistosa del prodotto totale di quanto non faccia un numero triplo degli artigiani, i quali, sotto la loro direzione, durano una fatica assai più severa ed assidua. L’artigiano poi, lavorando generalmente sotto un tetto, protetto contro le intemperie, a suo comodo ed aiutato dal comodo di innumerevoli macchine, ottiene un compenso proporzionatamente assai più pingue di quello del povero contadino, il quale deve combattere col suolo e con le stagioni e, sebbene produca la materia necessaria a contentare il lusso di tutti gli altri membri della collettività e sopporti, quasi si direbbe, sulle spalle l’intiero edificio della società umana, sembra schiacciato dal gran pondo della terra e sepolto fuori dalla vista di ognuno nelle fondazioni più profonde dell’edificio (minuta citata, ed. Scott, pagg. 326 a 328).

12. – Queste frasi sono scritte ad occasione della celebre dimostrazione dei vantaggi della divisione del lavoro (esempio dello spillo), con la quale si apre il libro e vogliono illustrare la tesi sostanziale dello Smith: che pur essendo remunerato con una mera e relativamente piccola quota dell’intiero prodotto del suo lavoro, il lavoratore nelle società incivilite gode di un benessere incomparabilmente superiore a quello del selvaggio, il quale pur teneva per sé il frutto intiero del proprio lavoro, e superiore a quello dei più grandi capi e principi delle epoche nelle quali non esistevano proprietari e capitalisti pronti a vivere del frutto del lavoro altrui.

Alla conclusione storicamente ottimista dei vantaggi della divisione di compiti tra lavoratore, risparmiatore, imprenditore o proprietario si giunge così attraverso una infiammata denuncia della iniquità di privare il lavoratore dell’intero frutto del suo lavoro. Era quella davvero una denuncia? Voleva Adamo Smith affermare che al tempo suo, nelle condizioni tecniche esistenti di divisioni del lavoro e di classi il lavoratore fosse l’unico fattore della produzione e si potesse senza effetti dannosi privare di una quota del prodotto i proprietari ed i capitalisti? Entro che limiti possiamo scorgere nelle frasi ora lette una condanna di quell’assetto economico che si usò poi chiamare capitalistico? La condanna era morale od economica o tutte e due insieme? Questioni grosse a risolvere le quali sarebbe necessario leggere le frasi non, come si fece sopra, staccate dal resto del discorso, ma dentro in quel discorso e non solo in quel o quei capitoli, ma in tutta l’opera dello scrittore.

13. – Impresa grossa, sebbene allettante. Per ora, basti far rilevare il mutamento di tono avvenuto dal 1763 al 1776 nelle frasi lette staccatamente, avulse dal resto del discorso. Nella minuta avanti lettera del 1763 c’è l’impeto sdegnato del moralista. Adamo Smith, anche se poi dirà che «la opulenza più grande si estende agli ordini più bassi della collettività», accentua il concetto della «disuguaglianza» nella distribuzione della proprietà (pag. 328). La violenza o la oppressione della legge fanno sì che colui che più fatica meno riceva. Vanità di proprietari oziosi, godimenti ignobili e sordidi, indolenza e frivolità di cortigiani, miseria dei contadini sono il frutto di una organizzazione sociale la quale cagiona enormi diffalchi dal prodotto comune a prò di infime minoranze – nelle 100 famiglie su 100 mila di Adamo Smith non si sente il preannuncio delle 200 famiglie le quali, secondo gli oratori del fronte popolare, governano la Francia o delle 60 le quali, a sentire i Rooseveltiani, dominano gli Stati Uniti? – e di gradino in gradino opprime la massa infima sotto un peso intollerabile di ingiustizie.

Nel 1776, le frasi anche se lette ad una ad una hanno perso il loro sapore incendiario. Adamo Smith constata un fatto: che il prodotto sociale totale non è più un tutto indistinto, interamente fatto proprio dal lavoratore; ma è un insieme distinto in quote, una sola delle quali è trattenuta dal lavoratore. C’è qualche ricordo della indignata condanna antica nell’accenno ai proprietari «i quali amano raccogliere dove non hanno mai seminato»; ma è un accenno obbiettivo; il quale può essere anch’esso interpretato non come affermazione della ingiustizia della loro partecipazione alla raccolta, ma come mera constatazione del fatto che i proprietari non hanno compiuto essi medesimi l’atto materiale della seminagione. Il moralista, il quale condanna l’ingiustizia, non è assente, ma si è ritirato nello sfondo del quadro; ed in prima linea sulla scena rimane l’economista il quale constata: nelle epoche primitive della società umana l’appropriazione di tutto l’indistinto prodotto da parte del lavoratore, libero da ogni tributo verso proprietari e capitalisti; e nelle società incivilite la divisione del prodotto sociale in quote, di cui quella minore, per testa, spetta al lavoratore e la più grossa ai proprietari ed ai capitalisti. Adamo Smith non guarda ancora ai due fatti dal di fuori, come se si trattasse di un cadavere da sezionare; egli è ancora parte di essi e l’animo suo ripugna dinanzi a quella che alla sua diritta coscienza appare una ingiustizia. Ma subito lo storico prende il sopravvento e gli fa osservare: eppure il lavoratore delle epoche primitive, il quale riceve tutto, è miserabile, laddove il lavoratore dei tempi moderni inciviliti, il quale riceve la minor parte, è un ricco epulone in confronto al suo antenato! Perché? Al perché risponde l’economista con la dimostrazione degli effetti meravigliosi della divisione del lavoro.

Il processo mentale è identico nel 1763 e nel 1776: le tre anime di moralista, di storico e di economista che erano in Adamo Smith pongono insieme il problema, il quale è proprio di tutto l’uomo vivente in società e non può essere risoluto compiutamente solo sulle basi di una astratta ipotesi moralistica od illuministica od economistica, sibbene su quella dell’esame critico di tutta la realtà. Ma nel 1763 la posizione dominante era quella moralistica dell’ingiustizia della attuale organizzazione sociale e la correzione storico-economica appariva come un’attenuante: nonostante l’ingiustizia il povero lavoratore di oggi sta meglio del più ricco potente di un tempo. Nel 1776 la disuguaglianza è un mero fatto che si tratta di spiegare. La teoria della divisione del lavoro pone un nuovo problema: poiché il lavoratore, il quale riceve solo una parte del prodotto sociale totale, sta tanto meglio dei suoi antenati, la attribuzione delle altre parti aliquote ai proprietari ed ai lavoratori ha una spiegazione? Qui comincia l’analisi superba della rendita, del profitto e dell’interesse, superba più dal punto di vista di spiegazione della realtà storica che da quello della teoria pura economica, con cui continua il gran libro. Ecco la conclusione principale che mi pare di ricavare dal confronto fra le due stesure: dal 1763 al 1776 Adamo Smith, senza rinunciare alla pienezza del suo giudizio, che è insieme morale, storico ed economico, nella sempre più raffinata meditazione dell’oggetto proprio della scienza che egli stava per fondare, studia i fatti sempre più dal punto di vista economico. Il fatto dominante non è più l’ingiustizia nella ripartizione della ricchezza; è l’altro che la nuova ripartizione ha grandemente cresciuto il benessere dei più miseri. Egli risolve l’apparente paradosso ricorrendo alla osservazione storica dei frutti della divisione del lavoro. E qui si ferma; ma l’economista par chiedere al moralista, che è tanto vivo in lui: sulla base dei fatti da me storicamente constatati ed economicamente analizzati, non c’è nulla davvero da rivedere nella tesi moralistica della ingiustizia? Era posta così la gran domanda, alla quale dopo 160 anni non si è ancora risposto.

Il peccato originale e la teoria della classe eletta in Federico Le Play

«Rivista di storia economica», I, 1936, pp. 85-118

1. – Federico Le Play scienziato ha avuto la disgrazia di cadere in mano di due qualità di specialisti: gli statistici ed i riformatori sociali. Colpa di lui, che tanto insisté sul «metodo» da far credere che quello fosse la sostanza del suo pensiero e tanto predicò contro gli art. 826 e 832 del codice civile napoleonico da diventare il capo riconosciuto di tutta la brava gente la quale reputa essere la libertà testamentaria una delle riforme od addirittura “la” riforma essenziale per la soluzione dei massimi problemi sociali. Considero perciò disgraziata la sorte del Le Play, sebbene io tenga in assai conto il metodo del bilancio di famiglia che va col suo nome e non sia favorevole alla disponibile di appena un quarto dell’asse ereditario ed alla divisione forzosa degli immobili fra i coeredi volute dal codice napoleonico.

2. – Su tutti i due punti approvo pienamente i suoi insegnamenti. Togliere ai genitori il diritto di disporre, come essi credono meglio, della propria fortuna, premiando i figli buoni e laboriosi e punendo gli scioperati e sconoscenti od almeno rinviando alla generazione seguente di nipoti il godimento della quota che sarebbe spettata al figlio reprobo; peggio, negare al genitore il diritto di assegnare in natura i propri beni, specie la casa e i fondi aviti, è causa di dissoluzione famigliare. Quasi sempre i genitori non hanno ragione di fare e non fanno parzialità tra i figli e preferiscono lasciare a questi la cura di spartirsi amichevolmente i beni ereditati; ma in quella rarissima occasione nella quale essi reputano doveroso dar la preferenza all’uno sugli altri od assegnare in natura i proprii beni, essi devono potere assolvere la propria missione. Napoleone ed i suoi consiglieri non vollero, perché ad essi premeva distruggere le vecchie classi dirigenti e perciò frantumare la proprietà terriera. Ma Le Play ricorda che, quando volle ricostruire una nuova classe dirigente, Napoleone ricreò i maggioraschi. In Italia, la questione non è viva, perché essendo[1] la disponibile uguale alla metà dell’asse ereditario, è consentita ai genitori una libertà di azione bastevolmente grande, mentre al tempo stesso si difendono i figli contro ingiuste antipatie dei genitori; né è vietato a questi di assegnare, osservata la regola della legittima, i singoli beni cadenti in successione a questo od a quel figlio. Le Play lodava la legislazione ereditaria vigente in Savoia, che era quella piemontese, divenuta poi italiana; ed al legislatore italiano probabilmente non avrebbe chiesto nulla. Ma sarebbe stato il primo a protestare contro quella riduzione al minimo della sua dottrina, la quale farebbe credere a chi legge i sunti correnti nei manuali di storia delle dottrine economiche che il suo nome possa identificarsi unicamente con le consuete critiche alla polverizzazione della proprietà e con le proposte in favore di beni di famiglia, del diritto del testatore, della conservazione legislativa delle famiglie-ceppo ecc. ecc. Le Play pregiava le leggi buone; ma soprattutto esaltava le buone tradizioni, le sane usanze, le consuetudini stabili; ed a lui sarebbe bastato, in fatto di leggi, che queste non distruggessero tradizioni usanze consuetudini buone sane e stabili. Il vero problema che egli studiò fu l’origine delle tradizioni usanze consuetudini buone e stabili e le cause del prevalere di quelle contrarie; ed in questo studio sta il suo vero apporto alla costruzione della scienza sociale.

3. – Sono anche ammiratore del “metodo” inventato dal Le Play dei bilanci di famiglia. Tanto lo ammiro che da più di un quarto di secolo mia moglie ed io compiliamo[2] – a parlar propriamente mia moglie compila ogni anno il conto consuntivo della spesa e forse io potrò da sparsi taccuini ricostruire quello delle entrate – un bilancio della nostra famiglia secondo il preciso schema Le Play, alquanto differenziato nella sezione quarta (sezione prima: nutrimento; seconda: abitazione; terza: vestiti) delle spese relative ai bisogni morali, alle ricreazioni ed alla salute. Poiché i bilanci Le Play sono minutissimi ed ogni cosa acquistata deve essere indicata per specie e non per categoria, con le quantità in peso o volume o numero, i prezzi unitari e gli importi complessivi, così, se un giorno a noi due verrà in mente e potremo utilizzare quel materiale, forse ne verrà fuori un non inutile contributo alla storia del modo di vivere di una famiglia del medio ceto italiano nel tempo corso dal primo decennio del secolo all’anno in cui il ciclo sarà chiuso. Questa possibilità di ricordare attraverso le cifre dei bilanci famigliari le nostre piccole vicende intime la debbo al Le Play; e poiché non tengo diarii, quella filza di quaderni è in pratica il solo ricordo delle cose compiute quotidianamente che noi potremo trasmettere ai nostri figli. I quali lo dovranno perciò all’insegnamento del Le Play.

4. – Detto ciò per attestare a lui la mia riconoscenza ed ai lettori la mia opinione che il suo modello di bilancio di famiglia sia superiore a quanti furono dappoi proposti, debbo aggiungere che gli statistici, col fare rientrare il bilancio di famiglia Le Play entro lo schema dei metodi statistici gli hanno reso un pessimo servizio. Il suo discepolo Cheysson volle nel 1890 collocare, l’uno accanto all’altro, 100 bilanci di Le Play e della sua scuola ( Les budgets comparés des cent monographies de familles publiés d’aprés un cadre uniforme dans “Les ouvriers européens” et “Les ouvriers des deux mondes” avec une introduction par E. Cheysson, en collaboration avec M. Alfred Toqué, in «Bulletin de l’Institut international de statistique», tome V 1er livr., pagg. 1-157), contentandosi saggiamente di pubblicare i valori assoluti e percentuali di ogni bilancio in sé considerato, senza tentare somme e medie. Naturalmente, gli statistici cominciarono a dire che quello era un materiale infido, ché si trattava di numeri troppo piccoli; che non vi era omogeneità di tempo e di luogo; che i dati medesimi erano soggetti a dubbio per la esattezza dei pesi e dei valori sino al centesimo. Di fronte a contadini diffidenti per istinto, come pretendeva Le Play di apprezzare per filo e per segno fatti che nemmeno gli interessati solitamente conoscono? Non dunque osservazioni di fatti veri, anche se pochi; ma ricostruzioni arbitrarie di un osservatore, sia pure acutissimo e genialissimo. Quindi materiale inutilizzabile col metodo statistico, il quale suppone fenomeni di massa, osservati in grande numero, con procedimenti uniformi e con certezza di rilevazione.

Credo anch’io che il metodo Le Play sia inutilizzabile dal punto di vista statistico. Aggiungo che non è affatto uno sminuire il valore dei bilanci di famiglia, quali sono oggi compilati dagli uffici di statistica, sulla base di questionari distribuiti o di inchieste eseguite fra migliaia di famiglie, il dire che i bilanci Le Play sono e devono rimanere (i suoi e quelli riveduti da lui) un’altra cosa. Essi sono un documento storico, dunque non statistico. Non contengono osservazioni su masse, sibbene su individui singoli. Anche nell’ipotesi estrema, chiaramente esageratissima, che neppure uno dei bilanci Le Play fotografi la realtà esatta del bilancio di quella data famiglia nel luogo e nel periodo di tempo dichiarato, ed i dati di essi debbano perciò essere dichiarati inservibili ai fini della indagine statistica, non ne sarebbe affatto sminuito il valore storico. Storia è ricostruzione di fatti individui, compiuta da chi vede gli avvenimenti col “suo” occhio, sceglie con la “sua” logica i fatti da narrare in mezzo agli altri innumerevoli fatti a lui indifferenti, e li colora secondo la visione delle cose umane che è “sua”. Lo statistico non ha diritto di scelta fra i 100 od i 1000 bilanci di famiglia a lui offerti entro i limiti del gruppo che egli deve studiare. Può essere, dalla limitazione dei mezzi e del tempo, costretto a studiare solo 10 su 100 o su 1000 bilanci; ma la scelta deve essere fatta quanto più egli possa, a caso, senza uso del suo arbitrio o di un giudizio da lui preordinato. Può, nella scelta, essere guidato dalla opportunità di tener conto di quei bilanci, i quali mettono in luce certe caratteristiche: ad es. esercizio di un dato mestiere, numero dei figli, possesso della casa ecc., ecc.; ma i casi in cui quella caratteristica esiste non possono essere oggetto, entro i limiti in cui l’indagine è tecnicamente e finanziariamente possibile, di scelta arbitraria da parte sua.

Invece lo storico sceglie secondo l’arbitrio suo. Fra le tante famiglie, osserva quella che a lui sembra la più rappresentativa o tipica. Perché a lui sembri tale, forse neppure egli è in grado di dire. Un’impressione, una sentenza, un modo di vivere, l’opinione di persone stimabili del luogo hanno contribuito alla scelta. Allo storico può accadere altresì di combinare insieme le osservazioni relative a due o tre famiglie in un quadro che a lui sembri veramente tipico. Celeberrimi dipinti di grandi maestri non sono forse un’astrazione? Eppure essi fanno rivivere un’epoca meglio di fotografie fedelissime. Le Play immaginava di fare opera di statistico ed invece scrisse storie. Le sue monografie russe dipingono i rapporti sociali fra grandi proprietari e contadini, carbonai, pastori, del tempo della servitù della gleba (1844 e 1853) meglio di tanti dotti volumi accademici e di tanti celebri romanzi; la figura del mezzadro della vecchia Castiglia (1840-47) balza viva sullo sfondo di una società nella quale il grande di Spagna è assai più vicino al lavoratore di quanto non si possa dedurre dai racconti di maniera di guerriglie sociali. L’antica Francia prima della rivoluzione è stata da lui fotografata nel 1856 nella monografia sul contadino a famiglia-ceppo del Lavedan nel Bearn. Sainte-Beuve e Taine, quali avevano una qualche dimestichezza con le fonti storiche, facevano gran conto di Le Play. Egli aveva l’occhio dello storico.

5. – La differenza fra gli storici dicasi storici dell’economia, poiché qui si discorre di cose economiche, ma il discorso vale per tutte le specie di storici – i quali scrivono libri, che leggendoli si sente che sono falsi dalla prima all’ultima parola, nonostante narrino o raccontino fatti tutti veri e storici i quali danno una visione vera del tempo investigato, nonostante raccolgano solo alcuni fatti, scelti ad arbitrio, essendo dunque tutta posta nell’occhio, dobbiamo chiederci: quale era la specie di occhio posseduto da Le Play?

Tanti anni fa, ad occasione di certi miei studi di economia mineraria (1900), mi accadde di far passare la raccolta degli Annales des mines del secolo scorso; e vidi allora per la prima volta la firma di Federico Le Play in calce ad informatissimi studi di arte ed economia mineraria. Suppongo che nessuno legga più quegli studi, i quali all’ingegnere moderno probabilmente non dicono nulla che sia oggi praticamente utilizzabile. A me, che cercavo e cercherei ancora legami fra prezzo e costi di produzione, fra salari e interessi e profitti di intrapresa, e variazione di questi legami nel tempo, di quegli studi di Le Play rimase il ricordo come di capolavori. Le Play era maestro nell’arte dell’ingegnere; maestro compiuto, epperciò, senza che egli ne fosse consapevole, maestro nell’arte economica. Come economista teorico, egli era e più si reputava un eretico. Non aveva simpatia per gli economisti e, quando poteva, parlava svantaggiosamente di Adamo Smith e degli economisti liberali, ai quali oltreché agli enciclopedisti ed agli utilitaristi del secolo XVIII, imputava la responsabilità dei mali della società moderna. Ciò gli accadeva, perché non aveva penetrato lo spirito della scienza economica, la quale non è liberale né socialistica, né altra cosa, ma è scienza di costi e di prezzi, di scelte tra mezzi limitati per raggiungere i fini voluti dagli uomini; ma forzato dall’arte sua di ingegnere, in cui era sommo, giungeva, nello studio dei problemi concreti, alle conclusioni medesime degli economisti, attraverso il medesimo metodo, e colle stesse forme di ragionamento. Chi legga la sua monografia sul calmiere del pane (cfr. sotto n. 13) e quella sulla lotta fra legna e carbone (cfr. n. 11) non può fare a meno di collocarlo, nonostante le sue proteste, nella schiera degli economisti classici.

L’abito mentale dell’ingegnere, il quale si pone il problema tecnico, in quanto esso aiuti a conseguire un fine di minimo costo, entro lo schema della massima convenienza economica, lo portava dunque a vedere la realtà. Voleva vederla attraverso la meditazione teorica; ma non scompagnava questa dalla osservazione. Ripetutamente egli insiste sul vantaggio tratto, anche in indagini tecniche, dalla osservazione del modo tenuto nel lavorare dai pratici artigiani, minatori e fonditori. Ascriveva allo studio dell’arte praticata per tradizione almeno tanta importanza come allo studio dei libri; epperciò fino all’ultimo rimase scettico intorno alla utilità delle scuole professionali ed a queste preferì il tirocinio cominciato in età giovanile nelle officine.

6. – Fin qui avremmo avuto soltanto un Le Play eminente scrittore di monografie industriali, emulo e probabilmente maggiore del nostro Giulio, di cui altra volta tentai tracciare il ritratto (in La riforma sociale, gennaio/febbraio 1935 e, in questo volume, pagg. 203-212). L’indagatore tecnico economico divenne il costruttore di una teoria del mondo sociale per circostanze accidentali. Nei suoi libri (O. E. L., 17-34) si legge il racconto delle prime osservazioni fatte da giovinetto in libere corse sulla riva della Senna vicino ad Honfleur, in compagnia di pescatori e contadini, dell’influenza esercitata da amici di famiglia che gli facevano rivivere gli uomini dell’antico regime, dai negatori razionalisti, che avevano fatto la rivoluzione, ai tradizionalisti, i quali avevano fatto la forza della vecchia Francia. Un infortunio gravissimo di laboratorio (inverno 1829/830), che lo costringe per 18 mesi all’inazione ed alla meditazione, pone dinanzi alla sua mente il problema del perché della vita e dei fini di essa (O. E. L., 40). Da quel momento comincia una nuova fase nella sua attività intellettuale. I lunghi viaggi intrapresi grazie, dapprima, alle conseguite borse di studio e poscia ad incarichi dei governi del suo paese e forestieri lo portano a percorrere, spesso a piedi, quasi tutta l’Europa fino agli Urali, alla Scandinavia ed alle Sierre spagnuole. L’ufficio di studio e di riorganizzazione di grandi imprese minerarie è per lui occasione a studiare l’uomo che in quelle imprese lavora. Egli si chiede: perché l’uomo, ed egli intende l’uomo del popolo, il contadino, l’operaio, il minatore, il fonditore, è contento o malcontento? Perché vuole uscire dal suo stato o rimanervi? Perché una società è prospera e stabile ed un’altra èinstabile o disorganizzata o corrotta?

7. – In apparenza, il problema di Le Play è quello del predicatore, dell’evangelista, del profeta, il quale intende combattere il male e propugnare il bene; ed in verità a tal fine di bene egli ha fondato società, unioni per la pace sociale, raggruppato intorno a sé uomini ansiosi di fare il bene sociale. Ma la sostanza profonda è diversa. Il suo problema era puramente scientifico: cercare le leggi delle uniformità sociali. Egli intese a risolverlo con strumenti rigorosamente scientifici. Se guardiamo sotto e dentro la veste esteriore, la quale fa sorridere lo studioso abituato al linguaggio degli economisti professionali[3], Le Play (11 aprile 1806/5 aprile 1882) appartiene alla schiera dei grandi scrittori del secolo XIX che hanno ficcato lo sguardo in fondo alle ragioni di vita delle società politiche, i quali si chiamano – sia lecito citare anche, insieme con i teorici, i nomi di taluni grandi giornalisti – Burke, Mallet du Pan, De Maistre, Gentz, Tocqueville, Taine, Mosca, Pareto. Quest’ultimo si inquieterebbe a vedersi messo insieme con uomini i quali profetizzavano, evangelizzavano o combattevano; ma la verità comanda di guardar sotto alle formule religiose o politiche la sostanza scientifica. Con maggiore o minore vigoria e consapevolezza, gli scrittori ora citati reagiscono tutti contro l’idea che gli uomini siano guidati nell’agire dalla ragione ragionante, e che una società viva possa essere creata dal raziocinio. Si chiami istinto, o caso, o tradizione o classe e formula politica o elite e residuo, esistono forze potenti, talvolta misteriose le quali spiegano la grandezza e la decadenza, la permanenza e il disfacimento delle società. Che Le Play distingua le popolazioni (società) in «modèles» o «soumises à la tradition, stables, ebranlée et désorganisées», che egli, per riconoscerle ed analizzarle, si giovi dello strumento “bilancio di famiglia” in fondo non ha alcuna importanza decisiva per caratterizzare la sua visione del mondo; per definire la ricostruzione che questo singolare ingegnere, economista per intuito spontaneo e scrittore politico autodidatta, compie delle ragioni di variazione delle società umane.

La sua “scuola” in fondo è morta; e solo la devozione di pochi discepoli ne serba viva la scintilla. Dalla guerra in poi non si sono più pubblicati bilanci di famiglia nella grande collezione da lui iniziata. Dalle riforme inspirate al principio della libertà testamentaria (aumento della disponibile, assegnazione in natura dei beni ereditari, criteri restrittivi per la constatazione della lesione enorme, diritto di pagare saldi in denaro nelle divisioni ereditarie, riduzione delle imposte di successione nella cerchia famigliare), al dovere di patronato dei datori di lavoro verso gli operai, alla diffusione della proprietà della casa, al riposo domenicale, alla difesa delle autonomie regionali o locali, il mezzo secolo trascorso dopo la morte di Le Play ha eliminato quel che in esse era di caduco ed ha fatto diventare le altre patrimonio comune di grandi correnti dell’opinione pubblica o scopo dell’azione dei legislatori e degli uomini di governo. Resta la sua dottrina; viva per quel che essa ha fornito alla costruzione sempre incompiuta della scienza che egli chiamava sociale ed in lingua italiana meglio si dice politica. Nella schiera illustre sopra ricordata sarebbe ingiusto tacere il nome di Le Play.

8. – Una delle fatiche sue più singolari fu il “vocabolario sociale”, nel quale egli volle definire con precisione le trecento parole costitutive del linguaggio proprio della scienza sociale (cfr. qui sotto n. 2; O. E. I., 441-49). Il profeta, l’apostolo usa un linguaggio mistico, atto a colpire sentimento ed immaginazione. Le Play vuol costruire una scienza e comincia col definire le parole usate. Il succo della dottrina è dato da quelle parole con le quali egli fissò i connotati dei ceti dirigenti della società. Quel che altri chiamò poi “classe politica”, od “élite”, egli disse “autorités naturelles”; e sono «coloro il cui potere deriva nella vita privata dalla natura degli uomini e delle cose». Essi sono «nella famiglia, il padre; nell’opificio, il principale; nella vicinanza, il saggio designato dall’affezione e dall’interesse della popolazione». È dunque fornito di autorità naturale ed, elevandosi sovra gli altri, li dirige e comanda, astrazion fatta dall’ordinamento legale del paese, colui il quale a comandare è designato dal sangue, dalla posizione sociale e dalla sapienza del consiglio. L’autorità derivata dall’essere riconosciuto atto a dar consiglio altrui è la più alta e Le Play la chiama autorità sociale. Ne sono rivestiti «coloro i quali sono divenuti, grazie alla loro virtù, i modelli della vita privata, i quali dimostrano una forte tendenza verso il bene, presso tutte le razze, in tutte le condizioni e in tutti i regimi sociali; e, coll’esempio della loro famiglia e del loro opificio, con la scrupolosa pratica del decalogo e delle consuetudini della pace sociale, acquistano l’affetto ed il rispetto di tutti coloro che li circondano e così fanno regnare il benessere e la pace nel vicinato». Chi di noi non ha conosciuto qualcuno di questi uomini? Spesso non hanno alcuna carica ufficiale, non furono mai ministri, né senatori, né deputati; non brigarono cariche di sindaci, consiglieri, non ebbero offerte o non accettarono quelle di podestà o fiduciari politici o sindacali. Furono talvolta conciliatori; poiché il loro ufficio naturale è di star seduti sotto l’albero del villaggio a comporre liti, ammonire i malcreati e dar consiglio ascoltato agli umili. Essi sono dappiù dei potenti della terra, ché i potenti passano e la parola del saggio rimane. Non conosce il suo mestiere l’inquirente sociale il quale, giunto in un villaggio, non cerca, attraverso la voce spontanea del popolo, l’uomo saggio, il notabile, ricco o mediocre di fortuna, al quale gli abitanti si volgono per consiglio. Le autorità legali gli parleranno di gravezza di imposte, di desideri di aiuti o di interventi governativi, di iniziative a prò della economia locale. L’uomo saggio non dirà nulla di ciò, poiché nel villaggio a ciò nessuno pensa; ma informerà sui costumi, sui vecchi, sui bambini, sulle famiglie e sulle ragioni eterne della loro prosperità o decadenza.

Le Play si compiaceva a trarre da Platone (Le leggi, lib. XII) la definizione degli uomini che sono guida ai popoli: «Si trovano sempre, mescolati nella folla, uomini divini, in verità poco numerosi, di cui il commercio ha pregio inestimabile, i quali non nascono più frequenti negli stati civili che negli altri. I cittadini, i quali vivono sotto un buon governo, devono andare alla cerca di questi uomini, i quali hanno saputo serbarsi puri da corruzione; debbono cercarli per terra e per mare, in parte per rafforzare quel che v’é di saggio nelle leggi del loro paese, ed in parte per correggere quel che può essere in quelle di difettoso. Non è possibile la perfezione nella repubblica, se non si osservano e non si cercano questi uomini o se ciò si fa male».

9. – Le autorità naturali ricevono forza dalla virtù morale e dal costume. Nelle società semplici il padre è onnipotente e, fra i padri, taluno acquista autorità particolare; e diventa capostipite di genti nobili. Nobili sono «coloro i quali per virtù o servizi eminenti o per la pratica delle grandi tradizioni dei loro antenati sono divenuti i modelli della vita pubblica». La nobiltà è «il fiore delle classi superiori e dirigenti in una società modello. La vera nobiltà non consiste nella trasmissione del sangue, del nome e dei titoli, ma nella pratica della legge morale e nella devozione al pubblico interesse». Come non ricordare la definizione della nobiltà che nel 1793 il marchese Henry Costa de Beauregard dava alla sposa all’annuncio che le sue armi scolpite nella pietra del castello di Beauregard erano state spezzate e le sue pergamene di famiglia erano state bruciate ai Villard? «Ben sono sciocchi coloro i quali immaginano di averla fatta finita con noi perché hanno spezzato le nostre armi o disperso i nostri archivi. Finché non ci avranno strappato il cuore, non potranno impedirgli di battere per tutto ciò che è virtuoso e grande, non potranno impedirgli di preferire la verità alla menzogna e l’onore a tutto il resto; finché non ci avranno strappato il cuore, non potranno vietare che esso sia riscaldato da un sangue che non venne mai meno; finché non ci avranno strappata la lingua, non potranno vietarci di ridire ai nostri figli che la nobiltà consiste esclusivamente nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio posto nell’adempirlo e nella fedeltà sino all’estremo alle tradizioni della famiglia» [4].

L’élite di Le Play non si confonde dunque con la classe dirigente nel senso comunemente oggi invalso. Pareto dà il nome di classe eletta od élite a coloro i quali hanno gli indici più elevati nel ramo della loro attività e chiama perciò a far parte della “classe eletta di governo” tutti coloro i quali sono riusciti ad entrare nel ceto governante: il senatore che è stato nominato per il censo ricevuto in eredità, il deputato che «in certi paesi si fa eleggere pagando gli elettori e lusingandoli, se occorre, col dimostrarsi democratico sbracciato, socialista, anarchico»; l’Aspasia di Pericle, la Maintenon di Luigi XIV, la Pompadour di Luigi XV, la quale «ha saputo cattivarsi un uomo potente ed ha parte nel governo che egli fa della cosa pubblica» (Trattato, §§ 2027 a 2036). Nulla di più repugnante allo spirito di Le Play di questa mescolanza; per lui l’elite è il meglio – perciò tradussi con fiore – delle classi dirigenti e superiori in una società prospera; è quella piccola e rarissima parte delle classi dirigenti la quale compie opera intesa ad ottenere certi risultati, che egli qualifica di “prosperità” per la nazione o lo stato o il gruppo. Una classe la quale conduce la società alla rovina, alla disorganizzazione ed alla decadenza può essere dirigente, non è elite.

La terminologia di Le Play è preferibile, dal punto di vista della proprietà del linguaggio, a quella di Pareto. Repugna collocare una grande favorita come la Pompadour nella classe eletta, mentre pare ovvio dichiararla importante parte della classe dirigente. Dirigere è ufficio proprio anche del capo di una banda di contrabbandieri di alcool, divenuto potentissimo nella vita politica americana; ad essere “eletto” occorrono qualità morali, le quali sono assenti nei capi contrabbandieri e nelle mantenute.

10. – Le Play era mosso da ragioni più profonde di questa terminologica ad attribuire la qualità di classe scelta ad una parte soltanto della classe dirigente. Dal 1661 in poi la Francia è certamente stata governata da una classe dirigente; ma dal 1661 al 1762 re e cortigiani si fecero coll’esempio predicatori di corruzione, dal 1762 al 1789 filosofi e letterati propagarono l’«errore fondamentale»; dal 1789 in poi letterati, violenti e predatori, si associarono per distruggere le costumanze del bene. Le Play non chiama a far parte della “classe eletta” coloro che ebbero allora la direzione politica e spirituale della società francese. Il fiore della classe dirigente poté nelle epoche ora dette, essere negletto, perseguitato, cacciato di Francia dopo la revoca dell’editto di Nantes, decimato dalla ghigliottina; ma rimase “la” classe eletta e, salvando la verità fondamentale e la tradizione di bene, salvò la Francia. Rare volte accade, secondo il Le Play, che la classe dirigente sia anche la classe eletta; ma in quelle rare occasioni in cui le due classi diventano una sola si pongono per secoli le fondamenta della grandezza duratura di un paese. Una di quelle rare occasioni fu il regno di Enrico IV, continuato da Luigi XIII (1582/1643), quando, all’ombra dell’editto di Nantes (1598), cattolici e protestanti gareggiarono nel servire lo stato; e santi come S. Francesco di Sales e Giovanna di Chantal, filosofi e teologi come Descartes e Bossuet, Nicole e Pascal, statisti come Pasquier, Du Harlay e Sully, fecero veramente grandeggiare il nome della Francia nel mondo e alcuni di essi collo splendore della loro fama consentirono a Luigi XIV di attribuire a sé il vanto del secolo d’oro, in verità dovuto all’opera dei suoi predecessori.

11. – La distinzione fra classe dirigente e classe eletta è fondamentale per l’intelligenza della visione della storia propria del nostro autore. Criterio di essa non è la formula adoperata per governare, bensì l’osservazione dei risultati a cui conduce l’opera compiuta dalla classe dirigente. È malagevole riassumere le osservazioni disperse nelle migliaia di pagine scritte dal Le Play; e dovrò contentarmi forzatamente di accenni utili ad illuminare di scorcio il pensiero di lui. Criterio sufficiente ad escludere una data classe dirigente dal novero di quelle elette è il versare di essa nell’«errore fondamentale», ossia nella «credenza alla perfezione originale» dell’uomo. Fu questa, riassume Le Play nel vocabolario, «un’opinione introdotta in Francia nel XVIII secolo da scrittori inglesi e tedeschi; professata in seguito da J.-J. Rousseau; propagata dai salotti parigini: adottata, come principio essenziale, dai riformatori novatori del 1789, del 1830, del 1848 e del 1870; ammessa, più o meno apertamente, dalle moderne teorie ostili allo spirito di tradizione… Secondo gli adepti dell’errore, il bambino nasce con la tendenza innata verso il bene. Perciò il male, il quale esiste dappertutto, è il risultato di un’azione corruttrice, intesa, fin dalle prime età, a corrompere la natura umana. Da questa opinione, la cui falsità è universalmente conosciuta dalle madri, dai medici, dai maestri di scuola derivano logicamente i tre falsi dogmi della libertà sistematica, dell’uguaglianza provvidenziale e del diritto di rivolta. L’osservazione delle società le quali applicano siffatti dogmi ne dimostra la incompatibilità con la pace e la stabilità sociale».

12. – Il lettore affrettato può credere che Le Play tragga dall’ossequio ad un dogma di fede le sue opinioni intorno alla verità ed all’errore, intorno al bene ed al male; e forse Pareto lo classificherebbe tra i metafisici. Colui che novera tra le maggiori felicità della sua esperienza intellettuale la lettura di quasi tutto ciò che scrisse Le Play facilmente si persuase che altra è la verità. Non una delle affermazioni sue ha origine diversa dall’osservazione dei fatti, osservazione sua o di altri. A differenza farò di chi ricorre alla rinfusa a testimonianze di pensatori e di pennaioli senz’arte né parte, di santi e di romanzatori quotidiani gialli, Le Play non ammette alla dignità di testimonio se non chi egli sa avere le qualità necessarie per osservare bene. Chi è il giudice delle qualità proprie dell’uomo? Non Rousseau, il quale opinava in relazione alla dottrina che soleva costruire; ma la madre, il medico, il maestro, il sacerdote, i quali hanno visto il bambino appena nato, lo hanno seguito nei primi anni coll’ansia di chi generò e di chi deve educare e non hanno ragione di veder male o di mentire. Ha ragione Gian Giacomo di scrivere nella Lettre à Christophe de Beaumont, archevéque de Paris che «il principio fondamentale di tutta la morale, in base al quale ho ragionato in tutti i miei scritti… è che l’uomo è un essere naturalmente buono, il quale ama la giustizia e l’ordine; né esiste perversità originale nel cuore umano ed i movimenti spontanei della natura sono sempre giusti»; od ha ragione Le Play di opporgli il brano di sant’Agostino nelle Confessioni (I, VII, XIX)? Il brano ricorre troppe volte nelle opere del Le Play per non riprodurlo interamente: «La debolezza degli organi è innocente nei bambini; ma non è innocente il loro animo. Ho visto, ho visto io stesso un bambinetto divorato dalla gelosia. Egli non parlava ancora; ma, pallidissimo, guardava con occhio torvo il suo fratello di latte… è innocenza, in un bambino, non voler dividere una fontana di latte così abbondante e persino troppo abbondante, con un bambino debole come lui ?… Questa è, Dio mio, l’innocenza dei bambini? No, non esiste l’innocenza. Quel che essi sono coi loro maestri e precettori per ottenere noci, palle ed uccelli, più tardi sono coi re ed i magistrati per ottenere oro, terre, schiavi. Cogli anni muta l’oggetto della passione; ed i supplizi più atroci prendono il posto dei castighi della fanciullezza. Ma in fondo, è sempre la stessa cosa. Voi, Gesù, avete certo pensato solo di darci una lezione di umiltà nella piccola statura dei fanciulli, quando avete detto: Il reame dei cieli è di quelli che rassomigliano ai fanciulli». Così opinando, Le Play poteva cadere in errore; ma nel modo tenuto dagli uomini di scienza. Il suo metodo era rigorosamente scientifico, se si reputa tale quello fondato sulla osservazione della realtà compiuta da persone capaci di contemplarla.

13. – Dall’erronea credenza nella perfezione originale dell’uomo nascono i tre falsi dogmi: 1) della libertà sistematica; ed invero «l’uomo, nato perfetto, creerebbe dappertutto il regno del bene, se gli fosse permesso di seguire le sue inclinazioni naturali. Il male universale non può dunque derivare che dalle istituzioni coercitive le quali finora sono state il fondamento di tutta la società; e che bisogna perciò distruggere sistematicamente per restituire agli uomini la libertà originaria»; 2) della uguaglianza provvidenziale; poiché «gli uomini nascendo ugualmente perfetti, dovrebbero esercitare il medesimo potere e godere dei medesimi vantaggi se la società fosse fondata sulla giustizia»; 3) del diritto di rivolta: «gli uomini nascono invero perfetti; e creerebbero dappertutto il regno del bene, se essi potessero collaborare tutti in condizioni di piena libertà ed uguaglianza. Tutti i governi hanno finora mantenuto gli uomini nelle condizioni opposte, e di qui il dominio universale del male. Fa d’uopo perciò rovesciare con la forza tutti i governi che tollerano i regimi di coazione e di disuguaglianza».

14. – Dimostrato l’errore fondamentale, cadono i tre falsi dogmi che ne derivano. Classe eletta è quella che meglio interpreta ed attua la costituzione propria degli uomini, la quale d’altra parte non è riassunta nei dogmi opposti a quelli che derivano dalla credenza nella «perfezione originale». Colui il quale dall’osservazione dell’indole degli uomini è portato a credere nella verità del “peccato originale” non perciò ne deduce i dogmi della coazione legale, della disuguaglianza e della ubbidienza assoluta. I legisti, tipici teorici della coazione e dell’autorità legale, sono agli occhi di Le Play fattori secondari e spesso negativi della classe eletta. Nelle società prospere si ricorre alle leggi coattive solo laddove non basta l’esempio morale delle autorità naturali e sociali; ed il moltiplicarsi delle leggi coattive è indice del trascorrere delle società dal tipo prospero e stabile al tipo instabile e disorganizzato.

15. – Se criterio negativo dell’attitudine a far parte della classe eletta è il versare nell’errore fondamentale, criterio positivo della prosperità di una società ad opera della classe eletta governante è il grado di osservanza del decalogo: adorare un solo dio e reprimere gli idoli, non pronunciare invano il nome di Dio, rispettare il padre e la madre, non ammazzare, non rubare, non testimoniare il falso, non commettere adulterio, non desiderare la roba d’altri. Ecco le regole che, osservate nelle cose private e pubbliche, conducono i popoli alla prosperità e, violate, alla rovina. Le Play studiò ad una ad una centinaia di famiglie, nei climi fisici, storici e politici più diversi; ne analizzò minutamente le condizioni di vita materiale ed intellettuale; e, quando volle andare in fondo alle ragioni della felicità o del malcontento, del prosperare o dell’impoverire, sempre si rifece al decalogo e studiò il modo come gli uomini si comportavano dinanzi ai suoi comandamenti. Questa è la chiave magica, la quale ci rivela i segreti della storia dei popoli. Come egli distinse la classe eletta da quella governante e chiamò “eletta” quella che non solo regge, come fanno tutte le classi governanti, i destini dei popoli, ma li conduce alla prosperità, così egli distinse nella storia dei popoli differenti alternanti stati o modi di essere; e disse di “prosperità” uno di essi, definendolo così: «Risultato che l’azione ripetuta del bene produce sulla condizione fisica e morale delle società. La prosperità si manifesta soprattutto attraverso la pace e la stabilità. Essa offre, secondo i luoghi, le razze ed i tempi, due termini estremi di semplicità e di complicazione, segnalati dalla natura dei mezzi di sussistenza. Nella “prosperitò semplice” la sussistenza dipende quasi esclusivamente dalla raccolta regolare delle produzioni spontanee del suolo e delle acque. Nella “prosperità complicata” la sussistenza proviene in gran parte dai prodotti del lavoro umano. Quando la natura dei luoghi lo consente, essa genera ricchezza accumulata, cultura intellettuale e potenza politica” (in n. 2, O. E. I., 471).

L’ordine degli accadimenti è dunque il seguente: 1) esistenza di una classe eletta, tale perché conosce ed applica il decalogo; 2) capacità della classe eletta ad insegnare ai popoli la pratica del decalogo; 3) pace e stabilità sociali che per conseguenza esistono nella società ed in cui consiste la “prosperità”; e dalla quale derivano ricchezza cultura e potenza, in grado maggiore o minore a norma delle condizioni di luogo, di razza e di tempo. Ricchezza, cultura e potenza possono esistere anche laddove non esiste “prosperità” definita come sinonimo di pace e stabilità sociale e come conseguenza della pratica del decalogo da parte della classe eletta e dei popoli da essa guidati. Avremo il secolo di Luigi XIV minato alla base dai vizi della classe dirigente; non i tempi di Enrico IV e di Luigi XIII, nei quali fu costrutta la Francia. Il teorico politico non può non distinguere fatti diversi; e non può contentarsi di spiegare l’accaduto sol perché accaduto. Vi è un accaduto, i cui connotati sono pace e stabilità sociale; e diremo questo tipo di “accaduto” conseguenza dell’osservanza della legge morale e qualificheremo “eletta” quella classe dirigente la quale è capace di produrre tali specie di “accaduti”. Vi sono altri “accaduti” i cui connotati sono la discordia, l’irrequietudine, il malessere sociale, e la rivolta; e li diremo connessi con l’esistenza di una classe dirigente, la quale non conforma la sua azione all’osservanza del decalogo. Tutti “accaduti” e tutte classi “dirigenti” che lo storico analizza e spiega. Ma quale differenza fra gli uni e gli altri! E quale infimo luogo hanno nella spiegazione dello storico la ricchezza, la razza, il clima e il tempo e gli schemi astratti imperniati in questi concetti!

16. – Dalla “prosperità” le nazioni possono trascorrere alla “sofferenza”, che è momentanea, quando deriva solo dai disordini atmosferici ed è facilmente guaribile, ovvero duratura, se deriva dalla discordia e dalla instabilità e può condurre alla rovina sociale. Questa non è mai irreparabile per una società. Gli uomini di pace possono ricondurre alla prosperità una società sofferente o rovinata; non lo possono i letterati ed i legisti. Né lo possono, insiste ripetutamente il Le Play, i giovani, presso i quali dominano le tendenze al male. Una società la quale non sia retta dagli, uomini maturi e dai vecchi non può prosperare. Solo gli uomini maturi possono, se sono spiriti eletti, acquistare la “scienza del mondo”; poiché essa si ottiene assai più grazie all’esperienza ed all’educazione che all’insegnamento scolastico. San Francesco Saverio consegnava a Goa nel 1549 le seguenti istruzioni al padre Gaspard Barzée il quale partiva per la missione di Ormuz: «Dovunque vi troviate, anche di passaggio, cercate di conoscere, per mezzo degli abitanti più rispettabili, le inclinazioni del popolo, gli usi del paese, la forma del governo, le missioni e tutto quel che riguarda la vita civile. Voi maneggerete più facilmente gli uomini, quando voi possediate siffatte nozioni, voi avrete su di essi maggiore autorità, voi saprete su quali punti dovete maggiormente appoggiarvi nella vostra predicazione. Si hanno spesso in poco pregio i consigli dei religiosi, perché essi non conoscono il mondo… Ma quando se ne incontra uno il quale sa vivere ed ha l’esperienza delle cose umane, lo si ammira come un uomo straordinario… La scienza del mondo non si apprende però nei manoscritti e nei libri stampati; bensì nei libri viventi, nelle relazioni con uomini sicuri ed intelligenti. Grazie a questa scienza voi farete più bene che con tutti i ragionamenti dei dottori e tutte le sottigliezze della scuola» (O. E. I., 474). Il vero maestro degli uomini, la guida dei popoli non è chi scrive, ma chi parla. Le Play cita Platone in Fedro: «Colui, il quale spera di insegnare altrui un’arte mettendola per iscritto e colui il quale spera di attingerla ivi… sono veramente troppo ingenui… se pensano che uno scritto possa servire a qualcosa di più che a risvegliare i ricordi di colui il quale conosce già il soggetto che vi è trattato» (O. E. I., 108). E ricorda il comandamento di Cristo ai discepoli: «Vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe… Voi sarete presentati, a causa mia, ai governanti ed ai re per rendermi testimonianza… Quando sarete portati dinanzi ad essi, non preoccupatevi punto del modo come parlerete cioè di quello che direte. Ciò che dovrete dire vi sarà detto in quel momento, perché non voi parlerete, ma lo spirito del padre vostro che è in voi» (San Marco, X, 16 a 20 in O. E. I., 573). Il che vuol dire essere i popoli guidati al bene non da coloro i quali insegnano la legge scritta o la scienza dei libri, ma dagli uomini i quali dicono la parola della verità, quella che essi sono forzati di dire dal comandamento della coscienza.

17. – Uomo di poche scelte letture, egli cita soprattutto la Bibbia (antico e nuovo testamento), Confucio, il Corano, s. Agostino, s. Bernardo, s. Tommaso, Aristotile, Platone, Erodoto, Senofonte, Cicerone, Tacito, Seneca, Marco Aurelio, Bacone, Bossuet, Locke, Vico, Burke, Montesquieu, De Maistre, Montalembert, Tocqueville, De Bonald, l’abate Huc. Combatteva contro Voltaire, Rousseau, Adamo Smith, Napoleone I, Buechner. Teneva vicino al capezzale e meditava i Saggi di Montaigne. Ma il libro è per lui l’uomo. Per tutta la vita egli seguì il metodo tenuto durante i 200 giorni del primo viaggio quando nell’estate del 1829, percorrendo 6800 chilometri a piedi, visitò le regioni comprese fra la Mosella, la Mosa, il Reno, il mare del Nord, il Baltico e le montagne dell’Erzgebirge della Turingia e dell’Hundsruck: «mettersi in rapporto intimo con le popolazioni ed i luoghi, allo scopo di stabilire una distinzione netta fra i fatti essenzialmente locali e quelli che hanno un carattere di interesse generale. Cercare ansiosamente di conoscere le “autorità sociali” di ogni località; osservare le loro pratiche; ascoltare con rispetto i giudizi da esse recati su uomini e su cose». Da questa preparazione sono venute fuori le centinaia di saggi che altri ed egli stesso disse «monografie di famiglia» e sono invece pagine di un veggente intorno alle ragioni per le quali i popoli vivono contenti o soffrono, prosperano od avanzano, o regrediscono e decadono e poi riprendono e riconquistano la stabilità e la pace sociale.

18. – Coloro che, leggendo libri, sentono il bisogno di collocare l’autore dentro le categorie che essi per comodità di intelligenza e di insegnamento hanno stabilito, e veggono che Le Play comincia colla descrizione dei luoghi ed insiste sulla influenza che la steppa, il bosco, il mare, la miniera, l’agricoltura, il mestiere esercitano sulla vita di coloro che vi sono addetti, sono indotti ad accomunarlo ai molti che spiegano la storia del mondo con le caratteristiche geografiche metereologiche telluriche tecniche dei luoghi abitati e del lavoro compiuto. Altri che lo scorge descrittore minuzioso dei costumi, investigatore delle ragioni per le quali in dati tempi prevalsero schiavitù, servitù della gleba, ed altre specie di contratti di lavoro, ammiratore dei vincoli consuetudinari fra padroni ed operai, delle tradizioni famigliari, promotore di riforme legislative atte a conservare la famiglia-ceppo, il bene di famiglia, se per rispetto alla decenza del linguaggio, si astiene dal dirlo reazionario, lo chiama però conservatore alla De Bonald od alla De Maistre. Altri ancora, ricordando i suoi costanti richiami all’importanza della religione, la sua abbominazione verso gli economisti e gli enciclopedisti lo dirà un precursore del socialismo cristiano, del corporativismo cattolico. Chi ascolta la predicazione calda degli scritti minori, gli appelli accorati agli uomini da bene, l’eccitamento ad unirsi in leghe per la pace sociale lo colloca fra i tanti invasati i quali credono di aver trovato la soluzione del problema sociale.

Tutte queste classificazioni e collocazioni, forse utili all’uso mnemonico, sono in fondo nettamente false. Sebbene la sua descrizione della steppa russa e della influenza che essa ha esercitato nella vita dei popoli che l’abitarono o la traversarono sia una delle rappresentazioni artistiche della vita pastorale primitiva più stupende che io conosca, Le Play non è un determinista geografo[5] . Sebbene egli abbia fissato nel bronzo i tratti essenziali della famiglia rurale dell’antico regime di prima della rivoluzione, e sebbene abbia descritto come nessun altro le caratteristiche dei rapporti di patronato e dei vincoli corporativi, egli non è un tradizionalista reazionario. Sebbene egli abbia trascorso la seconda metà della vita a predicare la «riforma sociale», egli non è un agitatore ed un riformista. Od, almeno, queste sue doti potenti di osservatore del mondo fisico e di rievocatore di società passate non sono quelle sue essenziali. È tempo si riconosca essere stato egli uno dei creatori della moderna scienza politica. Certamente egli non ha scritto col proposito voluto di costruire un libro scientifico. Né ha eccitato, come altri fece, il disprezzo contro tutti coloro che, studiando l’uomo, non affettarono di spogliarsi di tutte le qualità umane, di ogni interesse per la materia indagata e non misero alla stessa stregua, quasi si trattasse di sezionare e studiare un minerale o un cadavere, tutti i sentimenti ed i ragionamenti dell’uomo. Il che è un piccolo giochetto vocabolaristico, facile e comodo il quale non aggiunge però niente alla conoscenza della verità. A che pro irridere a coloro che scrissero per dichiarare i mezzi con i quali gli uomini possono procurare a sé la beatitudine eterna del paradiso, quando l’irrisore ripete le stesse idee, traducendole in gergo cosidetto scientifico di ricerca delle leggi secondo le quali vivono gli uomini in determinate società le quali hanno i connotati alfa e beta e gamma? Questo è un trucco ridicolo. Le Play non immaginò che gli scienziati potessero perdere tempo in siffatte delicatezze di linguaggio e parlò di classi dirigenti, di classi elette, di società prospere o decadenti, di formule atte a tenere salde od a disgregare le società nel linguaggio eterno di Mosè e di Cristo. Cercò le formule sulla bocca dei pastori degli Urali, dei contadini della steppa russa, dei nomadi della Siria, dei pescatori della Norvegia, dei minatori della Germania, dei contadini della Sierra spagnuola e dei Pirenei baschi e trovò che dappertutto erano uguali le formule le quali fanno prosperare e quelle che fanno decadere. Non confuse la prosperità con la ricchezza, né la decadenza con la povertà. Analizzò tutti questi concetti ed in fondo alla prosperità ed alla ricchezza, alla decadenza ed alla povertà, trovò la presenza o la mancanza del rispetto alla legge morale.

19. – Se tutta l’opera del Le Play è una battaglia contro l’errore fondamentale della credenza nella perfezione originale degli uomini, essa non è però una battaglia contro la ragione. Chi adula l’uomo, dichiarandolo nato nell’innocenza e pronto a conoscere il vero ed a fare l’onesto, può essere demagogo, tiranno, o sofista ragionante; non è certo uomo di scienza. Questi parte dal concetto opposto, di osservazione comune, del peccato originale e indaga le forze che talvolta sono riuscite a trasformare la belva primitiva nell’immagine di Dio. Siffatte forze non sono la ricchezza e la potenza, né la scienza tecnica ed economica dell’acquistarle; non sono le leggi scritte, né i comandamenti dei generali che fondarono o rovesciarono i grandi imperi. Quelle forze nascono dal lento cumularsi della esperienza dei frutti del bene e del male e dall’ascendente acquistato dai saggi i quali avevano osservato le maniere con le quali gli uomini, nati tutti peccatori, possono diventar migliori o bere sino in fondo la coppa dell’abbominazione. La ragione dei credenti nel dogma della perfezione originale dell’uomo è frutto di superbia. La ragione di coloro che guardano al vero è fatta di umiltà.

20. – Sainte-Beuve e Montalembert ascrissero a gloria di Le Play la “grande scoperta” del principio primo della scienza sociale: «in questa materia non v’ha nulla da scoprire» (cfr. sotto n. 2, O. E. I., XII). Forse sentenza più profonda non fu mai detta. In una delle sue opere meno note (cfr. sotto n. 13, pag. 94) Le Play osserva che «i perfezionamenti più fecondi sono quelli i quali si compiono in qualche maniera spontaneamente nella costituzione sociale, per il fiorire delle idee e dei costumi, coll’accordo tacito dei governi e dei popoli». Gaetano Mosca, condusse ad alto grado di perfezione la teoria della formula politica, come strumento di governo usato dalla classe politica. Il contributo proprio di Le Play fu la segnalazione del criterio di scelta fra le tante formule politiche le quali hanno governato il mondo. Il ceto eletto governa il mondo, applicando la formula che i saggi hanno elaborato nei secoli in ubbidienza alla legge morale. Tra le tante classi dirigenti e le tante formule da esse usate, si può chiamare classe eletta quella soltanto la quale assicura la persistenza e la risurrezione dei popoli grazie alla formula eterna del decalogo. I sei volumi degli ouvriers européens sono sovratutto una stupenda storia delle vicende delle società umane a partire dal momento in che la classe eletta osservatrice della formula eterna è sopraffatta da altri tipi di classi dirigenti. Fa d’uopo non lasciarci vincere dalle apparenze e reputare libro di storia quello solo che è scritto secondo le regole tradizionali. Chi pigli a leggere uno dei grandi libri sulla grandezza e decadenza di Roma o sul cominciare crescere corrompersi e rivoltarsi della rivoluzione francese è costretto a commuoversi, a gridare, ad entusiasmarsi, a tremare, con gioia o con ansia quasi si trattasse della vita di persona amata. Orbene, Le Play ha compiuto per l’umanità intiera il miracolo a cui giungevano pochi grandi storici per i due avvenimenti la cui narrazione ad ogni volta colpisce con novità di aspetti la fantasia umana e fa pensare con angoscia o speranza alle sorti della società presente. La via scelta da lui era insolita ed egli la scelse senza voler far storia.

Nell’Europa dal 1829 al 1879 egli osservò taluni fossili viventi, da lui detti «famiglie», rappresentanti tipici di stati differenti della storia umana. Egli ordinò quei fossili, secondo il criterio della osservanza del decalogo eterno. Scoperse che le aggregazioni umane si avvicinano o si allontanano dalla prosperità, che vuol dire contentezza e stabilità sociale, a seconda che esse ascoltano o dispregiano la parola dei veri eletti, dei saggi i quali, senza uopo di leggere libri o leggendone uno solo, insegnano la legge morale. Quei fossili non appartengono allo stesso paese; tuttavia raffigurano, grazie alla potenza di visione di chi li scelse e descrisse, la successione delle epoche storiche nello stesso paese. Messi in ordine, dal tipo più felice a quello più malcontento e disorganizzato, essi ci narrano la storia degli uomini nel tempo della loro progrediente decadenza. È una storia tragica, la quale non turba meno di quel che facciano le pagine potenti di Gibbon e di Rostovtzev su Roma. Di pagina in pagina, con ansia crescente, noi ci chiediamo: dove vanno gli uomini? Ma l’ordine dei fossili viventi può essere rovesciato. Fu un giorno di grande gioia per Le Play, quando un giovane amico (cfr. sotto n. 23, pag. 209) gli pose sott’occhio un brano di Vico nella traduzione di Michelet: «Quivi, in esso nascere dell’Iconomica, la compierono nella loro idea ottima, la quale è: ch’i padri col travaglio e con l’industria lascino a’ figliuoli patrimonio, ov’abbiano e facile e comoda e sicura la sossistenza, anco mancassero esse città, acciocché in tali casi ultimi almeno si conservino le famiglie, dalle quali sia speranza di risurger le nazioni» (Oeuvres choisies, Paris, 1835, t. II, pagg. 107-108; ma qui si citò dall’ed. Nicolini, Bari, Laterza, 1913, parte seconda, pag. 407). Dunque, tradusse nel suo linguaggio il Le Play, uno dei maggiori filosofi della storia che mai sieno vissuti confermava la conclusione delle sue diuturne osservazioni sulla famiglia nucleo della società. Se sopravvivono alla rovina Vico pensava alla rovina da insulti bellici, Le Play a quelle da dissoluzione interna morale – talune famiglie sane, non esiste un fato invincibile, il quale conduca necessariamente la società alla morte. Le formule usate da classi dirigenti, le quali non si ispirano alla legge morale, non sono fatalmente destinate a prevalere. La classe eletta, la sola veramente dirigente nei millennii, non è in esse. Sopravvivano operanti ed insegnanti alcuni saggi, alcune famiglie ed alcuni gruppi sociali inspirino tuttora la loro azione all’insegnamento dei saggi, e le epoche di prosperità possono ritornare. Come in un decennio Enrico IV rialza la Francia dalle rovine materiali e dalla corruttela morale dei tempi delle guerre civili e dei Valois e pose le fondamenta della grandezza della Francia del secolo XVII, così un altro sapiente e forte potrà risuscitare la Francia dalla rovina della guerra del 1870 e dalla intossicazione della grande guerra del 1914-1918. Coloro che affettano di parlare solo scienza, non trovano la legge morale tra gli ingredienti delle loro leggi sociologiche. Sia perdonato ad essi e sia consentito di affermare che Le Play vide più lungi nelle ragioni vere le quali spiegano le alterne vicende dei popoli.

Il saggio, che precede, intorno al contenuto scientifico della dottrina di Le Play è una specie di introduzione alla descrizione bibliografica delle opere di lui e di quelle di talun suo allievo e di poche fonti di esse. La descrizione continua il viaggio che altrove (in La riforma sociale del marzo/aprile 1935, e in questo volume, pagg. 3-26) avevo iniziato tra i miei libri, discorrendo, nella prima tappa di esso, di Francesco Ferrara. Per le ragioni allora dette – necessità di elencare solo i libri effettivamente visti dal bibliografo, divisamento di compilare, ad imitazione di quel che Morellet, Mac Culloch e Papadopoli avevano fatto per i proprii libri, Bonar per i libri di Adamo Smith e la vedova per quelli di Alfredo Marshall, il catalogo dei libri da me raccolti in tanti anni, di proposito o per accidente, intorno a taluni economisti o a taluni problemi economici, catalogo per molti rispetti monco in confronto a quello di pubbliche biblioteche e per talun rispetto istruttivo, e desiderio di dare qualche aiuto forse non spregevole ai giovani desiderosi di formarsi una biblioteca economica scelta senza troppi errori per contenuto e per costi di acquisto – anche la presente bibliografia comprenderà esclusivamente libri in mio possesso.

1. LES OUVRIERS EUROPÉENS: Études sur les travaux, la vie domestique et la conduite morale des populations ouvrières de l’Europe précédées d’un exposé de la méthode d’observation , Paris, à l’imprimerie impériale, 1855. Un vol. in folio, pagg. 301. La copia reca la dedica dell’a. a Michel Chevalier, e l’ex-libris di questi. Lo Chevalier aveva dato la figlia in sposa al figlio di Le Play. Dalla biblioteca dello Chevalier era passata a quella del genero Paul Leroy-Beaulieu.

Il formato, incomodissimo, del volume fu determinato dal proposito di far stare per intero in due sole pagine, a sinistra per le entrate e a destra per le spese, ciascuno dei 36 bilanci di famiglie operaie qui raccolti. Precede una introduzione generale e segue una appendice, amendue sul metodo e sullo scopo della ricerca, che egli dice di inchiesta diretta e preferibile alle ricerche statistiche, da lui tenute in poco conto perché:

1) «fanno astrazione da tutte le considerazioni collegate solo accessoriamente ai fatti interessanti l’autorità pubblica»; 2) «non tengono conto né della natura particolare degli individui, né del carattere proprio all’ambiente in cui vivono»; 3) non rispondono all’«osservazione diretta dei fatti», e si riducono alla «compilazione ed interpretazione più o meno plausibile di fatti raccolti da punti differentissimi di vista e per lo più estranei all’interesse scientifico». Perciò, «nonostante la loro apparente generalità e la loro seducente regolarità, i documenti statistici hanno scarsamente contribuito al progresso della scienza sociale. Gli uomini di stato ne hanno tratto talvolta vantaggio allo scopo di sostenere una data tesi, ma gli uomini sperimentati negli affari raramente li mettono a fondamento della loro politica e della loro amministrazione». Il detto, posto in epigrafe, tratto dall’Eloge de Vauban di Fontenelle: «S’informava con cura del valore delle terre, del loro frutto, del modo di coltivarle, delle masserizie dei contadini, del loro vitto ordinario, del prodotto giornaliero delle loro fatiche; particolari in apparenza spregevoli ed abbietti, i quali tuttavia appartengono alla grande arte del governare» chiarisce la ragione e lo scopo dell’opera. Forse, se l’avesse conosciuto, Le Play avrebbe aggiunto quest’altra notizia di Mirabeau sul modo di informarsi di Cantillon: «Viaggiando, egli voleva precisare ogni cosa: scendeva dalla vettura per interrogare il contadino nel campo, saggiava le qualità della terra, ne provava il gusto, prendeva note ed un calcolatore, che egli conduceva sempre con lui, metteva tutto in pulito la sera all’albergo».

L’edizione del 1855 non aveva soddisfatto pienamente il Le Play, il quale, cedendo al consiglio degli amici, aveva consentito a sopprimere le conclusioni di teoria e di riforma sociale – «un mezzo volume di verità che i miei concittadini non potevano tollerare» – ristringendole a poche frasi conclusive: «il luogo che una società occupa dipende sicuramente dalle sue condizioni materiali e dalle sue, istituzioni politiche; ma i fattori essenziali di preminenza sono di ordine morale». Perciò non ristette sinché non poté pubblicare una seconda edizione del suo opus magnum.

2. LES OUVRIERS EUROPEENS: Études sur les travaux, la vie domestique et la condition morale des populations ouvrières de l’Europe d’aprés les faits observés de 1829 à 1855, avec des épilogues indiquant les changements survenus depuis 1855 , 2e ed. en 6 tomes. Tours, Alfred Mame et fils, in ottavo.

Tome 1er: La méthode d’observation appliquée, de 1829 à 1879, à l’étude des familles ouvrières en trois livres ou précis sommaire touchant les origines, la description et l’histoire de la methode avec une carte geographique des 57 familles décrites, 1879, pagg. XII, 1 c. s. n., pagg. 648.

Tome 2e: Les ouvriers de l’orient et leurs essaims de la Mediterranée; populations, soumises à la tradition, dont le bien-être se conserve sous trois influences dominantes: le décalogue eternel, la famille patriarcale et les productions spontanee du sol , 1877, pagg. XXXIV, 1 c. s. n., pagg. 560.

Tome 3e: Les ouvriers du nord et leurs essaims de la Baltique et de la Manche; popolations guidées par un juste mélange de tradition et de nouveau dont le bien- ê tre provient de trois influences principales: le décalogue eternel, la famille-souche et les productions spontanées du sol ou des eaux , 1877, pagg. XLII, 1 c. s. n., pagg. 513.

Tome 4e: Les ouvriers de l’occident. 1re série: Populations stables, fidéles à la tradition, devant les envahissements de la nouveauté, soumises au décalogue et à l’autorité paternelle, suppléant à la rareté croissante des productions spontanees par la communauté, la proprieté individuelle et le patronage , 1877, pagg. XLII, 1 c. s. n., pagg. 575.

Tome 5e: Id., IIme série: Populations ébraulées, envahies par la nouveauté, oublieuses de la tradition, peu fidéles au décalogue et à l’auzorité paternelle, suppléant mal à la rareté croissante des productions spontanées par la communauté, la proprieté individuelle et le patronage , 1878, pagg. L, 1 c. s. n., pagg. 535.

Tome 6e: Id., IIIme série: Populations desorganisées égarées par la nouveauté, méprisant la tradition, révoltées contre le décalogue et l’autorité paternelle, empêchées par la désorganisation du travail et de la proprieté de supleer à la suppression des productions spontanées, 1878, pagg. L, 1 c. s. n., pagg. 568.

In questa edizione, di formato più maneggevole, le famiglie tipiche osservate crescono da 36 a 57, ed i volumi dal secondo al sesto si distinguono sistematicamente in quattro parti: un’introduzione sulla struttura sociale dei paesi abitati dalle famiglie considerate; le monografie, redatte tutte secondo un unico modello (luogo, organizzazione industriale, composizione della famiglia, mezzi e modi di esistenza, storia, costumi ed istituzioni – bilanci delle entrate e delle spese e conti annessi – elementi diversi proprii alla costituzione sociale del luogo); un riassunto alfabetico e metodico delle parole, idee e particolari essenziali ed un epilogo sulle variazioni sopravvenute dopo il 1855 nello stato sociale delle popolazioni. Il primo volume contiene la sintesi delle indagini: origine, descrizione e storia del “metodo”. Il Le Play non parla della sua “dottrina”, ma del suo ” metodo”; che era quello della ricerca delle essenziali verità sociali.

Nella compilazione delle monografie di famiglia, il Le Play si giovò spesso dell’opera altrui; «d’apres les renseignements recueillis sur les lieux» è la locuzione adoperata da lui per segnalare la collaborazione di A. de Saint-Leger, A. Paux, Ad. Focillon, A. Saglio, A. Cochin ed E. Landsberg, Courteille ed J. Gautier o la paternita` esclusiva di E. Pelbet, A. de Saint-Leger ed E. Pelbet, Ad. Focillon, E. Landsberg, Narcisse Cotte, Ubaldino Peruzzi (monografia del mezzadro toscano, nel IV volume), S Coronel ed F. Allan, T. Smith, Ratier, A. Paillette e Sergio Suarez, A. Duchatellier, A. Dauby, De Barive, P. A. Toussaint e T. Chale. La formula adoperata fa ritenere che la collaborazione o la paternità riguardasse la raccolta e prima elaborazione dei materiali e la discussione dei risultati. La redazione definitiva e le conclusioni recano l’impronta uniforme del Le Play.

Il sottotitolo di ogni volume riassume i tratti caratteristici della situazione di ogni famiglia nella scala dei valori sociali.

3. LES OUVRIERS DES DEUX MONDES. Études sur les travaux, la vie domestique et la condition morale des populations ouvrières des diverses contrees et sur les rapports qui les unissent aux autres classes, publiées sous forme de monographies par la Société internationale des études pratiques d’economie sociale.

Nel 1856 Le Play fondava la Società internazionale di studi pratici di economia sociale, uno dei cui scopi era quello di promuovere la redazione e la stampa di monografie di famiglie sul modello di quelle contenute negli Ouvriers Européens. Editrice la medesima società. Una prima serie di 5 volumi reca le seguenti date: I, 1857, pagg. 464; II, 1858, pagg. 504; III, 1861, pagg. 470; IV, 1862, pagg. 500; V, 1885, pagg. III-536. La pubblicazione seguì rapidamente nei primi anni con le 37 monografie contenute nei volumi dal primo al quarto. La prima puntata del quinto volume con tre monografie, comparve nel 1875; le ultime tra il 1883 ed il 1885. Il volume intiero è datato dal 15 aprile 1885. Dalle monografie contenute nei primi quattro volumi furono tratte, in gran parte, le ventuno le quali accrebbero la seconda edizione (1877-79) degli Ouvriers

Européens ; cosicché vi ha un certo accavallamento tra le due pubblicazioni; tutte due pubblicate, sino al primo terzo del quinto volume, sotto gli occhi del fondatore della società.

Morto il Le Play nel 1882 e compiuto il quinto volume, la Società inizia nel l887 una seconda serie, la quale reca la firma degli editori Firmin Didot et C.ie: I, 1887, pagg. VlII-532; II, 1890, pagg. X-560; III, 1892, pagg. XVI-483; IV, 1895, pagg. VIII-535; V, 1899, pagg. XII-590. Una terza serie comprende due volumi chiusi: I, 1904, pagg. VIII-578 con un fascicolo supplementare di pagg. 48 ed una carta geografica; II, 1908, pagg. VIII-519 con un fascicolo supplementare di pagg. 32. I fascicoli supplementari furono dedicati a monografie di officina.

Fra i collaboratori delle tre serie degli Ouvriers des deux mondes, oltre il nome di Le Play e quelli, già ricordati, di A. Focillon, E. Delbert, A. de Saint-Leger, U. Peruzzi, Narcisse Gotte, A. Dauby, T. Chale, P. A.

Toussaint, Courteille ed J. Gautier, S. Coronel ed F. Alan, incontriamo, accanto a quelli di industriali, operai, agricoltori, sacerdoti raccomandati per la loro attitudine a conoscere bene i fatti investigati, i nomi di studiosi che poi acquistarono bella rinomanza: Pierre du Maroussem contribuisce nove monografie di famiglia e le due di opificio sopra ricordate. Urbain Guerin pure nove, Armand Julin due, Claudio Jannet una, Victor Brants due, A. Delaire tre, Augustin Cochin una, Ippolito Santangelo Spoto tre, delle quali notabile quella su una fase recente delle vicende del curioso esperimento sociale iniziato da Ferdinando IV di Borbone nella colonia di S. Leucio vicino a Caserta, la contessa Maria Pasolini quella sul mezzadro romagnolo.

4. LA RÉFORME SOCIALE EN FRANCE, déduite de l’observation comparée des peuples européens, Paris, Plon, 1864, in ottavo; tome 1er, pagg. XII-440; tome 2e, pagg. 4 s. n. – 480.

A questa, che è la prima edizione, fecero seguito parecchie altre, di cui l’ultima pubblicata durante la vita dell’autore è la sesta «corrigée et refondue», presso Alfred Mame et fils, Tours, 1878, in 4 volumi in sedicesimo: I, pagg. XC-2 s. n., 371; II, pagg. 4 s. n., 460; III, pagg. 4 s. n., 529; IV, pagg. 4 s. n., 468. Nel 1901 uscì una ottava edizione, che gli editori Mame, in un avis au lecteur dichiarano essere una semplice ristampa della sesta con l’unica variante del ritorno alla divisione in tre volumi, usata nelle precedenti (terza, quarta e quinta) edizioni. I rimaneggiamenti e mutamenti fra la prima e la sesta edizione sono parecchi ed attestano la cura con la quale il Le Play rivedeva ogni volta questo suo libro, fra tutti, nonostante la non piccola mole, il più divulgato. Avvertenze, introduzioni, appendici, rinvii chiariscono metodicamente lo

scopo e il contenuto del libro. I capitoli diventano libri ed i paragrafi capitoli. Nella prima edizione, oltre ad una introduzione su «Les idées préconcues et les faits» ed una conclusione su «Les conditions de la réforme» sette capitoli riguardano: la religione, la prosperità, la famiglia, il lavoro, l’associazione, i rapporti privati, il governo. Nella sesta edizione, la materia dei libri è quella medesima dei vecchi capitoli; ma il libro quinto dell’associazione, si divide in due parti: “communautés” (comunanze, cooperative, società per azioni) e “corporazioni”; ed il settimo, del governo, si divide in due parti: la scelta dei modelli e la corruzione e le riforme in Francia. Alla conclusione del 1864 è aggiunto un epilogo dettato nel 1878. Le appendici da 5 diventano 11. Il copioso indice alfabetico ed analitico della prima edizione si trasforma nell’ultima in due indici delle parole usate in un significato particolare e degli autori citati.

5. L’ORGANISATION DU TRAVAIL, selon la coutume des ateliers e la loi du décalogue, avec un précis d’observations comparées sur la distribution du bien et du mal dans le régime du travail, les causes du mal actuel et les moyens de réforme, les objections et les réponses, les difficultés et les solutions.

La seconda edizione, che ho sott’occhio, è dei Mame di Tours, 1870, pagg. XII-564. In epigrafe, dal Testament politique di Richelieu (1, II, 10): «Les politiques veulent, en un État bien réglé, plus de maîtres és arts mécaniques que de maîtres és arts libéraux». Importante documentazione sul diritto di testare in Francia, sulla ferocia dei contadini verso i genitori vecchi, sulla aberrante opinione della superiorità dei giovani sui vecchi.

6. L’ORGANISATION DE LA FAMILLE selon le vrai modèle signalé par l’histoire de toutes les races et de tous les temps, avec trois appendices par M M. E. Cheysson, F. Le Play et C. Jannet, Paris, Tequi, 1871, pagg. XXVII-318.

La prima appendice, ad opera dell’ing. E. Cheysson, è un documento storico d’importanza eccezionale: la narrazione della rovina incombente a causa del codice civile nel 1869 sulla famiglia Melouga, che il Le Play nel 1856 aveva assunto a modello di ottima organizzazione sociale. Un conto redatto dal Le Play del modo con cui le piccole sostanze sono divorate dai legisti, uomini di preda (app. II), dà modo allo Jannet di esporre la tesi giuridica propria dei paesi a famiglia ceppo (app. III).

7. LA PAIX SOCIALE APRES LE DESASTRE, selon la pratique des peuples prospères. Réponse du 1er Juin 1871 aux questions recues par l’auteur entre le 4 septembre 1870 et le 31 mai 1871. 2de éd. complétée par un épilogue de 1875, Tours, Mame, 1876, pagg. 167.

Libretto, a domande e risposte, di popolarizzazione delle idee dell’a., che egli vede confermate dal disastro della guerra del 1870.

8. LA CONSTITUTION DE L’ANGLETERRE, considérée dans ses rapports avec la loi de Dieu et les coutumes de la paix sociale, précédée d’aperçus sommaires sur la nature du sol el l’histoire de la race, avec la collaboration de M. A. Delaire , Tours, Mame, 1875; tome I, pagg. LXIII-340; II, pagg. 4 s. n. – 437.

Quadro dell’Inghilterra di due terzi di secolo addietro, la cui prosperità (Le Play non adopera il termine “grandezza”, estraneo alla sua concezione dei popoli veramente grandi e spesso incompatibile con la prosperità concepita come morale, assai più che materiale) egli poggia sui quattro fattori dell’autorità dei genitori, sanzionata dal testamento e fortificata dal giurì, della gerarchia derivata dalle famiglie-ceppo e immedesimata colla terra, della monarchia nazionale, e della subordinazione della vita pubblica alla legge di Dio.

9. LA RÉFORME EN EUROPE ET LE SALUT EN FRANCE. Le programme des unions de la paix sociale, avec une introduction de M. H.- A. Munro Butler Johnstone, Tours, Mame, (1876), pagg. 300

Coi n. 7 ed 8, è il contributo dato dal Le Play al movimento di ricostruzione sociale sorto dalla rovina del 1870. Quando bonapartisti, legittimisti e orleanisti perdavano in vane dispute la battaglia per il ritorno alla monarchia ereditaria, il Le Play insisteva nell’insegnare che il vero problema non stava nel restaurare una qualsiasi forma di governo, ma nel creare le idee, i costumi e le istituzioni di pace e di stabilità sociale. Tra le istituzioni atte ad impedire le convulsioni sociali egli elenca il consiglio privato, il parlamento, il ministero e la corte suprema di giustizia, di cui il primo e l’ultimo composti di membri a vita responsabili legalmente dei propri atti e forniti del diritto di porre il veto alle leggi violatrici della legge di Dio e del diritto delle genti. L’elasticità dei poteri componenti la sovranità non deriva tuttavia dalla legge scritta, ma dal costume.

10. LA CONSTITUTION ESSENTIELLE DE L’HUMANITÉ, exposé des principes et des coutumes qui créent la prosperité ou la souffrance des nations, Tours, Mame, 1a ed. 1881, 2a ed., 1893, pagg. XVI-360.

Una nota della seconda edizione avverte che questo libro è l’espressione definitiva del pensiero del Le Play, morto pochi mesi dopo avervi dato l’ultima mano. Da segnalare l’appendice sull’opera di propaganda libraria delle diverse associazioni create da Le Play ed in questa il sunto della storia della casa tipografica Alfred Mame di Tours.

11. De la methode nouvelle employée dans les forêts de la Carinthie pour la fabrications du fer et des principes que doivent suivre les propriétaires de forêts et d’usines au bois pour soutenir la lutte engagée dans l’occident de l’Europe, entre le bois et le charbon de terre , Paris, Carilian-Goeury et V.or Dalmont, 1853. Extrait des “Annales des mines”, 5e serie, tome III, in ottavo, pagg. 205 e 6 tavole.

Tipico esempio degli scritti disseminati negli «Annales des mines». Analisi precisa dei costi di produzione e dei prezzi del ferro fabbricato con i due metodi opposti e della dimostrazione dei legami esistenti fra proprietà fondiaria, suo frazionamento e regime successorio, metodi di sfruttamento dei boschi e prezzi del ferro.

12. Enquête sur la boulangerie du département de la Seine, ou recueil de dépositions concernant le commerce du blé, de la farine e du pain, faites en 1859, devant une commission présidée par M. Boinvilliers, president de la section de l’interieur, recueillies par la sténographie, revues par M. Le Ptay, conseilleur d’état rapporteur, puis par les déposants, coordonnées et complétées par une table alphabétique et analytique des matieres, Paris, Imprimerie nationale , in quarto, pagg. 8 s. n. XI-834.

13. Question de la boulangerie du departement de la Seine. Deuxième rapport aux sections réunies du commerce et de l’intérieur, du Conseil d’État, sur le commerce du blé, de la farine et du pain, par M. F. Le Play, conseiller d’État, rapporteur , Paris, Imprimerie imperiale, 1860, in quarto, pagg. 299.

Dovrebbe precedere al n. 12 un Premier rapport, distribuito il 23 gennaio 1858, redatto anch’esso dal Le Play, sulla base del quale il Consiglio di Stato deliberò il 22 giugno 1858 di procedere all’inchiesta, di cui i resultati sono contenuti nel n. 12 e di far redigere dal Le Play il secondo rapporto (n. 13). Caratteristici della cura meticolosa con la quale il L. P. elaborava ogni suo scritto sono, anche nel volume delle deposizioni, gli indici metodici e alfabetici minutissimi ed i rinvii. Caratteristiche le conclusioni, rigorosamente ed esclusivamente dedotte, come è costume dell’autore, dalle osservazioni di fatto compiute a Parigi, nei dipartimenti e, per confronto, a Londra ed a Bruxelles, favorevoli alla abolizione graduale del sistema di regolamentazione del commercio del frumento, della farina e del pane. Caratteristiche perché Le Play, ingegnere, osservatore e tradizionalista, ragiona e conclude nello stesso modo come quell’Adamo Smith, che egli faceva responsabile di tanta parte dei mali sociali del suo tempo. La verità è che non esistono scuole economiche; ma si può distinguere solo, come diceva Pantaleoni, fra coloro che sanno e quelli che non sanno l’economia; o, come io correggerei, fra coloro che sanno e quelli che non sanno ragionare entro i limiti del loro sapere. Le Play, che sapeva ragionare ed aveva visto, con occhio profondo, molte cose, ragionava come un perfetto economista nelle questioni prettamente economiche, con questo di più, che egli sapeva, con la stessa bontà di ragionamento, collegare l’esame del lato economico con quello degli altri aspetti della vita. Come al n. 11 per i legami fra regime dei boschi e regime successorio, così al n. 13 sono illuminati i legami fra la regolamentazione ufficiale delle panatterie e la difficoltà dei garzoni ad elevarsi nella gerarchia sociale. Con quello del Giulio, altrove ricordato (in La riforma sociale, gennaio/febbraio 1935, pag. 100 e segg. e in questo volume, pagg. 203-212), i rapporti del Le Play sono modello, sinora non superato e sempre degno di studio di metodo nella condotta di indagini economiche concrete.

14. Voyages en Europe 1829/1854, extraits de sa correspondance, publiés par M. Albert Le Play, senateur, Paris, Plon Nourrit et C.ie, 1899, in sedicesimo, pagg. 4 s.n.- 345.

Alle lettere sono fatte precedere una breve prefazione del figlio, una notizia biografica di Lefebure de Fourcy, ispettore generale delle miniere ed una bibliografia interessante per le pubblicazioni diverse da quelle di economia sociale.

 


[1] Nel 1936, ché in seguito la disponibile fu malauguratamente scemata [nota del 1952].

[2] O, meglio, compilavamo sino a venti anni addietro, usanza buona che le vicende di tempi tumultuosi ci costrinsero a dimenticare [Nota aggiunta nel 1952].

[3] G.H. BOUSQUET nel suggestivo studio Le douar Aghbal, in «Revue d’economie politique» del gennaio/febbraio 1935, pag. 99, dopo aver detto di lui: «c’est un auteur dont les buts n’ont rien de scientifique» gli rende testimonianza di gran debito e lo raccomanda sovratutto «aux gens epris d’abstractions comme antidote». Il presente saggio ha per iscopo di mettere in luce gli elementi scientifici della teoria Leplayana. Ma poiché questa è una teoria storica, non può servire di antidoto se non alla teoria astratta di coloro i quali vorrebbero giovarsi di una certa astrazione per interpretare la realtà anche là dove all’uopo gioverebbe un’altra astrazione.

[4] COSTA DE BEAUREGARD, Un homme d’autrefois, Paris, 1900, pag. 146.

[5] Come non è tale Taine, nonostante il bello e sciagurato capitolo introduttivo della Storia della letteratura inglese, il quale in sostanza ha ben poco a fare col testo susseguente. Eppure tutti si fermano lì e di lì giudicano di lui. Tutti i pappagalli sputano su Taine ripetendo in coro: race, milieu e moment; che sarebbero i tre fattori da cui nell’introduzione è fatto discendere l’état moral di un popolo, dal quale état moral discenderebbero alla loro volta la sua letteratura, la sua filosofia, la sua società e la sua arte. Che è certo cosa da ridere; ma perché non andare avanti e leggere: «Tout vient du dedans chez lui, je veux dire de son âme et de son génie; les circonstances et les dehors n’ont contribué que médiocrement à le développer» (Histoire ecc., II, 164). Naturalmente, qui si parla di Shakespeare; e per lui Taine butta dalla finestra i tre fattori, buoni per descrivere gli scrittori qualunque, di cui non si saprebbe cosa dire se non si inquadrassero nella race, nel milieu e nel moment. Ma oramai a Taine è appiccicato il cartellino della race ecc. ecc e guai a dimenticarsi la finca!

Come non si devono ristampare i nostri classici

«Rivista di storia economica», I, 1936, pp. 75-80
Si confrontino le due edizioni di un brano delle prefazioni di Francesco Ferrara:

Edizione originale (1853)

Ristampa (1889)

dell’introduzione al vol. XIII della prima serie
(H.C. CAREY, Principii economia politica) della
“Biblioteca dell’economista” pagg. LIV a LVI:

Quale sarebbe la vera fra queste due teorie che
mirano a conseguenze così profondamente
diverse? – Sembrerà un paradosso, ma io non
saprei astenermi dal profferirlo: teoreticamente,
le due dottrine non sono che una; e la differenza
fra Carey e Ricardo non è di principio, ma
puramente di fatto.
…………………………………………………………….

La quistione è unicamente di fatto. Che cosa è
avvenuto finora nel mondo? Quale fra le due
ipotesi si è avverata? Il progresso della
coltivazione è proceduto colla ipotesi di Ricardo,
o con quella di Carey? È la fame e la popolazione
crescente ciò che ne ha determinato l’estensione,
deteriorando sempre più la condizione de’
lavoranti, migliorando quella del proprietario?
o sono i progressi del sapere, e delle sue
applicazioni, ciò che, rendendo possibile
l’estensione della coltura, ha formato il benessere
di ambe le parti?

Carey ha, ne’ Principii che qui pubblichiamo, e
soprattutto nell’altra sua opera Il passato,
il presente e il futuro
, mirabilmente svolto
la quistione di fatto. Egli ha pienamente ragione.
Il fatto, preso in complesso, sta tutto in suo favore,
e mostra che l’ipotesi provvidenziale la fatalità che
evidentemente il Creatore ha preposto alle grandi
evoluzioni de’ secoli, è l’ipotesi sua non quella
della scuola inglese; è l’ipotesi del progresso e
dell’armonia, non quella del regresso e
dell’antagonismo. Il fatto, preso in complesso,
si è che, ognidove, nella parte del mondo che
siamo abituati a chiamare incivilita, la produzione
del suolo si è ingigantita coll’andare de’ secoli;
e due fenomeni si sono presentati ad un tempo.
Il lavoro ha esteso le sue conquiste sulla natura;
metodi, strumenti, capitale hanno di periodo
in periodo raddoppiato e triplicato la capacità
produttiva del suolo; la quantità delle superficie
coltivate si estese, a misura appunto che il lavoro
diveniva più produttivo; la palude si mutò in
campo arabile, si vestì di grano la rocca; e l’uomo,
lottando col sole e col ghiaccio, con la valle e
col monte, coll’alluvione e colla marea, penò
ma vinse. Se l’ipotesi di Ricardo fosse una
storica verità, è evidente che a quest’ora
il genere umano avrebbe dovuto indietreggiare
ben più, di quello che ha saputo avanzarsi;
e tutta questa estensione avvenuta nella
coltura del suolo, avrebbe dovuto affamare
le masse per ridurre la nostra specie a pochi
e stranamente doviziosi signori, attorniati
da una immensa massa di lavoranti estenuati.
La storia depone, tutta, in un senso
precisamente contrario. Questa desolante
condizione che, nella ipotesi di Ricardo,
sarebbe la funesta conclusione del progresso
dell’agricoltura, è quella invece da cui siamo
partiti; è la condizione della schiavitù,
della servitù, del ryot, del turco. Qui, la
quistione di fatto non lascia alcun dubbio.
Ogni tradizione ed ogni cronaca, d’ogni parte
incivilita del mondo, concorre a mostrarci che
noi siam venuti da un’epoca in cui la Rendita
era metà, un terzo, di ciò che è, e pur
nondimeno rappresentava allora il 50 o 60%
della produzione, nella quale adesso entrerà
appena per un 15 o 20%. Concorre a mostrarci
che, quando la Rendita era una metà od un
terzo di ciò che trovasi oggi allora appunto
il contadino, che oggi ha il suo pane, la sua
carne, la sua birra
, viveva d’una putrida aringa,
d’una manciata d’orzo ed avena e celebrava come
pubblica festa il giorno in cui si scannasse un vitello,
e salassava le capre per cibarsi del loro sangue coagulato,
e prevedeva nel suo calendario, come oggi prevediamo
l’eclisse, il ritorno periodico della fame. La coltura
si estese; dalle terre A, dalle terre più fertili,
passò su rocche e paludi.

Perché mai? Per una pressione crescente? No;
la pressione ci fu, ma non avrebbe potuto che
distruggere la razza umana, se collo stimolo
della fame non si fosse aguzzato l’ingegno umano;
se l’aratro, che era un cono e squarciava appena
la terra, non si fosse convertito in una spirale
cilindrica che capovolge e stritola la zolla;
se non fosser venute le strade, le rotaie, i vapori,
tutto ciò che ha centuplicato la capacità
produttiva della terra e dell’uomo. Alla storia
possiamo aggiungere l’osservazione medesima
del presente. Le rendite sono, assolutamente,
più basse, e relativamente più alte, ove il lavoro
è men produttivo, e la condizione del coltivatore
più sciagurata. Sono in Asia dapprima, poi in
Polonia, in Russia, in Ispagna, in Sardegna, in Sicilia,
dove meno è produttivo il travaglio, non dove
le terre A non abbiano a soffrire la concorrenza
delle terre B. E quando la scuola Ricardiana si
è spaventata a vedere che il fitto delle terre
inglesi montava, e prese per una calamità
questa progressiva tendenza della Rendita,
confuse la quantità assoluta colla relativa,
non si accorse che l’aumento del proprietario lungi
di nuocere, rivelava un gran beneficio sopraggiunto
alle masse, era una rata minore di un maggior prodotto.
Teoreticamente adunque, il ripeto, le due dottrine
non sono che una; teoreticamente, niuno de’ due
valenti economisti può respingere la legge invocata
dall’altro, senza rinunziare a quella che invoca egli
stesso. La minaccia di una penuria crescente si può,
con Ricardo, vaticinare, come effetto di quello stesso
principio da cui si possono vaticinare le più liete
speranze contemplate da Carey. E se il fatto storico,
preso nelle sue grandi espressioni, finora depone
in favore dell’economista americano, perché mai
dal passato non potremmo presagire il futuro?
Da ciò che la coltivazione più estesa è stata sin
ora un fenomeno costantemente legato alla
cresciuta produttività del lavoro; – da ciò che
la risultante di tutte le contrarietà, in mezzo
alle quali il genere umano è passato, fu sempre
il progresso; M. Carey ha tutto il diritto di
argomentare che si debba aver fede nella
tendenza ascensionale dell’umanità, e sostenere
che la teoria della Rendita nulla in se stessa
presenti per lasciarci recare in dubbio una
sì lieta speranza; tutta anzi concorre a farcela
coltivare, con crescente fiducia nella bontà
ed onnipotenza del Creatore. Questa fiducia io la divido.

in Esame storico-critico di economisti e dottrine
economiche del secolo XVIII e prima metà del XIX
.
Vol. I, parte seconda, pagg. 688 a 690.

XXVIII. Or, qual’è la vera fra queste due teorie,
che riescono a conseguenze così diverse?
Sembrerà un paradosso, ma io la vedo così:
teoreticamente
, le due dottrine non sono
che una dottrina sola; e la differenza fra Carey
e Ricardo non è di principio, ma puramente di fatto.

…………………………………………………………….

La quistione è unicamente di fatto. Che cosa è
avvenuto finora nel mondo? Quale fra le due
ipotesi si è avverata? Il progresso della
coltivazione è proceduto secondo l’ipotesi di Ricardo,
oppure secondo quella di Carey? Furono la fame
e la popolazione crescente che ne determinarono
l’estendimento
,deteriorando sempre più la
condizione dei lavoratori e migliorando di
continuo
quella dei proprietari? Oppure furono
i progressi del sapere e delle sue applicazioni,
di guisa
che, di pari passo coll’estendimento
della coltura, sia proceduto il benessere così
dei proprietari come dei lavoratori?

Carey ha, nei suoi Principii e sopratutto nell’altra
sua opera il passato, il presente e il futuro,
mirabilmente svolto la quistione di fatto.
Egli ha pienamente ragione. Il fatto, nelle
sue grandi linee, è quale egli lo pone
;
la fatalità, che evidentemente il Creatore
ha preposto alla grande evoluzione dell’umanità,
è l’ordine assunto
dall’ipotesi di Carey, non
quello della scuola inglese; è l’ipotesi del
progresso e dell’armonia, non quella del
regresso e dell’antagonismo. Il fatto,
preso in complesso, si è che, ognidove,
nella parte del mondo che siamo abituati
a chiamare incivilita, la produzione del
suolo si è andata attraverso i secoli
ingigantendo
; e due fenomeni si sono
prodotti
ad un tempo: il lavoro ha esteso le sue
conquiste sulla natura; metodi, strumenti,
capitale, hanno di periodo in periodo raddoppiato
e triplicato la capacità produttiva del suolo;
la
superficie della terra coltivata si andò
estendendo
a misura appunto che il lavoro
diveniva più produttivo; la palude si mutò in
campo arabile: l’arida roccia si vestì di grano;
e l’uomo, in dura lotta cogli ardori e col gelo,
con la valle e col monte, coll’alluvione e colla
marea, penò ma vinse. Se l’ipotesi di Ricardo
fosse la verità storica, è evidente che a
quest’ora il genere umano avrebbe dovuto
indietreggiare ben più di quanto non sia
progredito
; e quell’estendimento della coltura
del suolo avvenuto attraverso ai secoli,
ai millennii
, avrebbe dovuto affamare
l’umanità, riducendola
a pochi e stranamente
doviziosi signori, attorniati da un’immensa
massa di lavoratori estenuati. Ma la storia
depone, tutta,nel senso contrario. Questa
desolante condizione, che, nella ipotesi
di Ricardo, sarebbe quella, a cui dovrebbe
metter capo
il progresso dell’agricoltura,
è invece quella da cui siamo partiti: è
la condizione della schiavitù, della servitù,
del ryot, del turco. Qui, il punto di fatto
non lascia luogo a dubbio. Ogni tradizione
ed ogni cronaca, di ogni parte del mondo
ed incivilita, ci parla di un’epoca, in cui la
Rendita,pur essendo quantitativamente
la metà il terzo di ciò che è ora, si porta
via via 50-60% del prodotto, mentre ora
prende appena il 15-20
%; -concorre a
mostrarci come appunto quando la
Rendita era una metà od un terzo di
ciò che è ora, il contadino che oggi ha
il suo pane, la sua carne, il suo vino,
vivesse
di una putrida aringa, di una
manciata d’orzo e di avena, e prevedesse
nel suo calendario, come oggi prevediamo
le eclissi, il ritorno periodico della fame.
La coltura si estese; dalle terre miglior, passò
via via alle più cattive, alle roccie, alle paludi.
Perché mai? Per una pressura crescente? No;
la pressura ci fu, ma non avrebbe potuto
che distruggere la razza umana, se collo
stimolo della fame non si fosse aguzzato
l’ingegno umano; se l’aratro, che era un cono
e grattava a mala pena la terra, non
fosse diventata la spirale cilindrica che fende,
rivolta e rompe
la zolla; se non fossero venute
le strade, le rotaie, le macchine a vapore,
tutto ciò che ha centuplicato la capacità
produttiva della terra e dell’uomo.
Alla storia possiamo aggiungere l’osservazione
medesima del presente. Le rendite sono
assolutamente
, più basse, e relativamente
più alte ove il lavoro è men produttivo e la
condizione del coltivatore più disgraziata:
in Asia dapprima, poi in Polonia, in Russia,
nella
Spagna, in Sardegna, in Sicilia, dove
il lavoro
è meno produttivo. E quando la
scuola Ricardiana si è spaventata a vedere
il fitto delle terre inglesi crescere e prese
per una calamità questa progressiva tendenza
della Rendita, essa confuse la rendita come
quantità assoluta colla rendita come quantità
relativa o quota di prodotto; non vide come
tale
aumento, lungi dal nuocere alle masse,
dipendesse da un fatto ad esse benefico,
dall’essere cioè la rendita una quota minore
di un prodotto maggiore
.
Teoreticamente adunque, giova ripeterlo,
le sue dottrine non sono che una dottrina
sola
; teoreticamente niuno dei due valenti
economisti può respingere la legge posta
dall’altro, senza rinunziare a quella che pone
egli stesso. La minaccia di una penuria
crescente si può, con Ricardo, vaticinare
come effetto di quello stesso principio in
base al quale
si possono vaticinare le più
liete sorti contemplate da Carey. E se
il fatto storico, preso nelle sue grandi
linee
, finora depone in favore dell’economista
americano,perché dal passato non potremmo
trarre il presagio
del futuro? Da ciò che
l’estendimento della coltura fu finora
un
fenomeno costantemente legato alla cresciuta
produttività del lavoro; da ciò che la risultante
di tutte le prove, attraverso alle quali il genere
umano è passato, fu sempre il progresso; M. Carey
ha tutto il diritto di argomentare che si debba aver
fede nella tendenza ascensionale della umanità e
di sostenere che la teoria della Rendita nulla ha in
se stessa, che possa far vacillare in noi una sì
lieta speranza; che tutta, anzi, concorre a farcela
nudrire, con crescente fiducia nella bontà ed
onnipotenza del Creatore.
E
questa fiducia, io la sento.

In fondo le differenze sono minime. Piccole variazioni di parole. Minutaglie. Roba sulla quale lo studioso, il quale bada alla sostanza, non sente affatto bisogno di soffermarsi.

Ebbene, no. Quel bravo laboriosissimo uomo, che si chiamò Ludovico Eusebio e curò la ristampa delle prefazioni del Ferrara, non ebbe certamente sentore dei suoi misfatti. Era l’andazzo dei tempi. Il barone Custodi, assai più benemerito uomo, fece altrettanto e peggio nei suoi 50 volumi degli scrittori italiani classici di economia politica. Aggiustare lo stile era ed è ancora per taluno peccato assai veniale. Custodi aggiustava anche il pensiero tagliando via od attenuando quelle frasi che più offendevano il sentire dei tempi. Dall’aggiustare lo stile all’aggiustare il pensiero il passo è brevissimo.

Oggi siamo divenuti più rigorosi. Una ristampa come quella procurata fra l’89 ed il ’90 dall’U.T.E.T. delle prefazioni del Ferrara sarebbe intollerabile. Intollerabile in tutti i sensi: per le aggiunte, a scopo di ingrossamento, di roba altrui alle prefazioni proprie dell’autore, per la eliminazione di appendici di questo – perché sostituire alla bibliografia sulla moneta e sui banchi di Ferrara, fatica in se stessa singolare e di valor superiore, entro i suoi limiti, a quelle, più note, del Jevons e del Soetbeer ed alla «notizia sui banchi degli stati sardi», primo saggio di storia dei banchi che poi diedero luogo alla Banca d’Italia, la riproduzione di alcune pagine del Messedaglia e del Fauchille? – per l’arbitraria divisione del testo in paragrafi inesistenti nell’originale, per la disposizione delle prefazioni in ordine diverso da quello cronologico delle pubblicazioni ed infine e sovratutto per le correzioni stilistiche. Alle quali confesso non avevo ancora prestato attenzione quando, (vedi sopra, nei paragrafi 8 e 9 della prima parte del presente saggio, pp. 21 e segg.) mi ero già lamentato delle malefatte dell’Eusebio. Poi, mi accadde un giorno di invitare uno studente a leggermi il brano riportato sopra, che io dovevo commentare. Egli leggeva nell’originale; ed io avevo sott’occhio la ristampa eusebiana. Per un po’ immaginai lo studente si arrogasse una certa libertà di lettura; ma poi dovetti inorridire sul serio.

Più o meno, in quasi tutte le pagine della ristampa, il curatore od il correttore delle bozze del Ferrara o amendue d’accordo hanno sostituito la propria fantasia stilistica alla scrupolosa fedeltà al testo originale. L’unica giustificazione lecita sarebbe stato il consenso del Ferrara. Ma, sebbene questi fosse sempre (vedi la lettera del 16 luglio 1890 al Bodio nella ristampa delle Memorie di statistica) tenacemente avverso alla proprietà letteraria e dichiarasse inutile chiedere a lui autorizzazione a ripubblicare suoi scritti, non credo la sua avversione al diritto di proprietà su di essi giungesse sino al punto di dar facoltà ai nuovi editori di rimaneggiarne a lor talento il testo. Di siffatta facoltà e neppure di un rimaneggiamento suo non v’ha traccia; anzi il rifiuto, ricordato dal Bertolini, ad accettare compenso per la ristampa, pare indizio che a questa egli non ebbe parte.

Un giorno accadrà – auguriamolo – che le opere del Ferrara saranno ristampate. Speriamo che allora il curatore vorrà rispettare le regole elementari insegnate dai filologi per la riproduzione dei testi passati, fra cui principalissima è la fedeltà al testo originario. Se qualche variante di carattere tipografico (i soliti u in v, lo scioglimento delle abbreviazioni ecc.) o di punteggiatura, è introdotta, devono indicarsene i casi e i limiti.

È lecito mutare l’ordine della materia o ricomporre ad unità quelle che al curatore paiono membra disiecta di un tutto? È il caso, per il Ferrara medesimo, delle Lezioni di economia politica ricomposte recentemente (Bologna, Zanichelli, 1935) ed amorosamente dalla dott. Gilda de Mauro-Tesoro. Siccome si volle offrire al pubblico qualcosa che fosse come la summa sistematica del pensiero ferrariano e poiché in apposita appendice fu dato il mezzo al lettore di ricostruire il processo di compilazione, riterrei il rimaneggiamento spiegabile ai fini suoi. In una edizione critica delle opere del Ferrara, anche questo rimaneggiamento sarebbe però del tutto illecito. Ogni scritto ferrariano dovrà essere stampato nella sua integrità e forma originaria: niente frazionamento in capitoli e paragrafi non segnati dall’autore; niente soppressione di frasi iniziali o terminali rivolte a studenti ed uditori; niente mutazione delle citazioni e dei riferimenti originari. Citazioni e riferimenti vanno integrati fra parentesi quadre in calce alla pagina, cosicché si distingua senz’altro quel che è dell’autore da quel che il curatore aggiunse.

È lecito mutare l’ordine cronologico degli scritti? Qui il problema è complesso. Delle opere del Turgot si hanno tre edizioni; il primo curatore (Dupont de Nemours) ed il terzo (Schelle) seguirono un ordine cronologico; laddove il secondo (Daire) impaziente della “confusione” dell’altro metodo, preferì l’ordine sistematico. In principio, deve essere adottato l’ordine cronologico, perché consente al lettore di seguire via via lo sviluppo del pensiero dell’autore è di rendersi ragione del suo mutare ed arricchirsi. Non si possono però ignorare gli inconvenienti pratici del sistema: un trattato di 500 pagine sui principii della scienza fa una figura buffa, se incastrato fra due lettere di carattere prevalentemente famigliare, o fra due sonetti. Una classificazione a grandi linee può dunque essere consigliabile: i libri stampati a sé dall’A., i quali hanno acquistato una individualità storica propria, possono continuare a conservarla, beninteso ponendoli, gli uni rispetto agli altri, in ordine cronologico. Le memorie di economia possono formare un gruppo distinto da quelle filosofiche o storiche. La corrispondenza può stare a sé. Nel caso di Ferrara una classificazione opportuna potrebbe essere: I) Prefazioni ed altre memorie di teoria e di storia economica statistica e finanziaria; II) Lezioni e prolusioni, stampate, litografate e manoscritte; III) Relazioni e discorsi parlamentari, ministeriali ed elettorali; IV) Minori articoli su giornali quotidiani o settimanali, politici economici varii, ai quali potrebbe aggiungersi il carteggio tra il Ferrara ed i suoi corrispondenti. Le lezioni e prolusioni dovrebbero seguire le prefazioni e memorie, perché nell’ordine ideologico ne sono la derivazione. In ognuna delle quattro parti l’ordine dovrebbe essere, a costo di qualche ripetizione e di qualche apparente incongruenza – i “principii” messi in coda a qualche “applicazione” -, rigorosamente ed esclusivamente quello cronologico.

Bisogna aggiungere introduzioni, note, illustrazioni ai testi pubblicati? Sì, se si tratta di introduzioni e note atte ad illustrare il testo (sue edizioni, suoi manoscritti, autografi o non, e controversie relative; relazioni anche ideologiche del testo pubblicato con altri dello stesso o di altri autori, illustrazioni del “significato” delle tesi sostenute dall’autore o delle parole e frasi da lui adottate); no, assolutamente no, se si tratta di un attaccapanni a cui appendere una teoria, anche magnifica, del curatore, o un’indagine storica propria intorno ad un argomento suppergiù già trattato dall’autore. Il curatore delle Opera omnia di Ferrara avrebbe già così grandi benemerenze da acquistare in questo campo, che nulla guadagnerebbe, ad es. se volesse aggiungere alla illustrazione dei testi anche la ricostruzione critica del pensiero teorico di lui. Non che Ferrara non lo meriti, e che non sia urgente di studiare oggi quel che è vivo e quel che è morto del suo pensiero. Ma non è ufficio del curatore, come tale, della edizione che sarebbe doveroso consacrar all’economista italiano principe del secolo XIX.

Tuttociò è elementare per i curatori di classici letterari e storici; e chi fa diversamente è guardato con compatimento, come uno che fa un mestiere diverso dal suo. C’è qualche buona ragione perché gli economisti debbano seguire altre regole? Se interrogo Schelle per Turgot, Cannan per Smith, Harsin per Dutot e per Law, De Bernardi per Dupuit, mi pare rispondano di no. Io stesso, pubblicando taluni scritti inediti di Verri ed ora di Malestroit, ho cercato di seguire le regole pacifiche tra i filologi. E poiché, a proposito di Malestroit, mi vennero fatte certe considerazioni sulla moneta immaginaria, per non intrufolarle nella introduzione al volume, le pubblicai a parte in questo medesimo fascicolo della rivista.

Viaggio tra i miei libri «La Riforma Sociale», marzo

Viaggio tra i miei libri

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1935, pp. 227-243

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 381-397

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 3-26

Catalogo della Biblioteca di Luigi Einaudi. Opere economiche e politiche dei secoli XVI-XIX, Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1981, pp. 11-16

Di altri scatoloni pseudo-commerciali e pseudo-bancari

Di altri scatoloni pseudo-commerciali e pseudo-bancari

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1935, pp. 1-22

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 137-157

Origini e identità del credito speciale, Angeli, Milano, 1984, pp. 282-303

Luca Einaudi, Riccardo Faucci, Roberto Marchionatti, Selected economic essays, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2006, pp. 87-98

 

 

 

 

IL RAZIONALIZZATORE. – Troppi sono gli intermediari, troppi i parassiti, i quali allontanano il produttore dal consumatore. Bisogna avvicinare i due estremi della catena, riducendo al minimo il numero degli anelli intermedi. Bisogna far cessare la gazzarra degli improvvisati negozianti, i quali hanno d’uopo, per vivere, di taglieggiare il consumatore. In Italia i venditori al minuto sono oltre 542 mila, più di 1 ogni 77 abitanti. Tutta una razzamaglia di venditori ambulanti, di piccole imprese famigliari, di medi negozi, di doppioni male attrezzati, accanto ai grandi negozi specializzati, ai grandi magazzini di novità ed a prezzo unico, agli spacci cooperativi, alle provvide, agli spacci di fabbrica e agli spacci diretti dei produttori. Occorre sottoporre il commercio al minuto ad una disciplina unitaria, eliminare il superfluo ed organizzare, sotto l’egida di robusti organismi corporativi, quel che nel commercio esiste di vitale.

 

 

L’OSSERVATORE. – Grosso grossissimo problema quel che è posto dal critico degli intermediari parassiti. Converrebbe innanzi tutto precisare quel che si intende per parassitismo e se fra i tanti tipi di intermediari ve ne sia davvero uno che tenga fra tutti la palma. Mario Luporini, direttore centrale della Rinascente, pur trovandosi a capo di una delle maggiori organizzazioni italiane di vendita al minuto, energicamente nega[i] ai grandi magazzini simiglianti al suo ragione di esclusività rispetto agli altri. Rivenditori ambulanti, piccole imprese famigliari, grossi magazzini specializzati od a prezzo unico, cooperative, spacci di produttori hanno tutti un compito proprio, che gli altri non possono assolvere. Ognuno di essi giova, non nuoce, alla vita altrui. Ognuno di essi perisce se costa, vive se profitta altrui.

 

 

Il grossista?

 

 

Esso «non è né una fatalità né un peso. Quando esiste, esso non grava affatto sul ciclo produttivo. È un collaboratore e un consigliere del produttore. Quasi sempre è uno specialista che fa spendere molto meno di quello che spenderebbe il fabbricante se volesse avere filo diretto col dettagliante o viceversa».

 

 

Il merciaio ambulante?

 

 

«Ancora oggi, in pieno secolo novecentista, egli assolve una sua specifica importante e insostituibile funzione… Questo modesto commerciante, il quale gira tutte le vie d’Italia, si inerpica su tutte le montagne e, come sei o sette secoli or sono continua ad offrire la sua merce sulle piazzette dei più umili paeselli, svolge un attività essenziale alla completa espressione del commercio al minuto».

 

 

Le imprese famigliari, i piccoli e medî negozi?

 

 

Utilissimi tutti, anzi necessari. «Il compratore deve disporre della merce di cui ha bisogno, esclusivamente nel luogo, nel tempo, nella qualità e nella quantità che il consumatore desidera. È al consumatore che la produzione, attraverso al commercio, deve servire… Ciò sarebbe impossibile se il commercio al minuto dovesse essere esercitato attraverso un solo tipo di organismo. Occorre che, a seconda delle condizioni locali e di fatto prevalenti, l’organizzazione del commercio escogiti idonee forme di adattamento.

Poveri produttori e poveri consumatori se non fosse così! Il grande magazzino non potrebbe mai ramificare le sue filiazioni nei luoghi che oggi più economicamente, si badi bene a questo, sono serviti dal commercio ambulante o dalla piccola azienda famigliare. Altrettanto impossibile sarebbe la esistenza, nei grandi centri, d’una filiale del grande magazzino ad ogni angolo di strada, per sostituire la funzione ora svolta dalla piccola e dalla media azienda. Lo stato attuale di organizzazione distributiva risponde insomma a un principio economico fondamentale: quello del raggiungimento del massimo effetto (in questo caso la diffusione capillare della funzione distributiva) con il minimo mezzo.

L’organizzazione attuale è il risultato di un processo selettivo di ordine secolare, avvenuto in ossequio al criterio dell’adattamento dell’organismo alla funzione e all’ambiente. Come il grossista è necessario per sostituirsi nel rischio commerciale al produttore e per concedere il credito d’esercizio ai negozianti al minuto, così la varietà dei negozi di vendita è elemento indispensabile per la corretta e completa funzione distributiva. Il campo d’azione di ognuno di questi organismi coesistenti è limitato dal campo di azione di ogni altro. Perciò si è ristretto ai luoghi impervi o alle discontinuità cittadine il mercato di smercio degli ambulanti, ed alle località periferiche quello delle aziende famigliari, le quali dominano il mercato al minuto da secoli. Nel complesso però questi svariati organismi formano un insieme efficiente ed armonico, la cui potenza di penetrazione negli svariati ceti in cui si suddividono economicamente i milioni di consumatori, disseminati in tutta Italia, sarebbe distrutta se, in modo artificioso, vi si volesse porre mano, pur essendo vero che la cosiddetta razionalizzazione deve essere perseguita ed attuata anche dalle aziende commerciali, fino ai limiti del possibile e del ragionevole. Cioè: anche nelle attrezzature commerciali si può e si deve progredire se non si vuole restare indietro, con danno proprio ed altrui. Sarebbe fuori della realtà chi credesse che in questo campo non c’è più niente da fare».

 

 

IL RAZIONALIZZATORE. – E sia così rispetto alla necessità dei diversi tipi di imprese commerciali. Non potrete negar tuttavia che, in ogni tipo, il numero dei partecipanti al banchetto della provvigione sul prezzo ultimo pagato dal consumatore sia stravagamente alto. Che il distacco fra i prezzi al minuto e quelli all’ingrosso sia notabile e crescente niuno vorrà porre in dubbio. Né v’ha del pari niun dubbio cha la moltiplicazione nel numero degli spacci sia prima tra le cause del grave malanno.

 

 

«Data una certa massa di vendita al minuto del valore 100, la quale da’ un utile lordo di 30, se esistono 10 negozianti, ognuno venderà, in media, per 10 ed avrà un utile di 3, sufficiente a coprire tutte le spese valutate a 2 ed a lasciare un utile netto di 1. Se adesso si suppone che il numero dei negozianti salga a 20, il valore medio delle vendite scende a 5 per testa e l’utile lordo d’ogni negozio si abbassa a 1,5. Ma Poiché gli oneri d’esercizio non sono d’altrettanto diminuiti, l’utile lordo, oltre a non lasciare utile netto, non copre più nemmeno le spese. Di qui una difesa dei venditori rivolta all’aumento dei prezzi unitari, che assicuri lo stesso utile netto di prima».[ii]

 

 

La dimostrazione del 1934 riproduce querele antiche. Una commissione incaricata 25 anni addietro dal sindaco di Torino «di studiare i provvedimenti adatti a risolvere il problema del caro dei viveri» riferiva (giugno 1910) a mezzo del presidente e relatore Achille Loria:

 

 

«Una ragione forse anche più significante dell’attuale rincaro venne additata con grande lucidità dal testimone cav. Pia, con esclusivo riferimento, gli è vero, al mercato della carne, ma estendibile però senza tema di errore a qualsiasi altro prodotto. È questa causa, come egli ha osservato, “è il grande aumento nel numero degli spacci, dovuto all’uso invalso presso molti buoni operai, per ispirito di indipendenza, e coll’intento di migliorare le loro condizioni, di abbandonare il lavoro salariato per mettere su un proprio spaccio”. Gli è che i salari cresciuti negli ultimi tempi hanno consentito agli operai, od ai più sobrii ed economi, di accumulare un piccolo capitale, di cui essi intendono ragionevolmente valersi per assurgere a condizione indipendente. Ora poiché nell’industria prevale oggidì incontestata la grande azienda, mentre il commercio schiude tuttora qualche possibilità di esistenza alle piccole imprese, così gli operai non possono altrimenti valersi delle fatte economie che aprendo un negozio; di qui il forte incremento, da noi constatato, nel numero degli esercizi, relativamente alla popolazione ed agli affari. Ora, l’aumento nel numero degli spacci, scemando la massa di affari di ciascun esercente, fa che esso non possa conseguire il necessario profitto se non mediante una elevazione del prezzo unitario, la quale, in tali condizioni, non si accompagna ad alcun miglioramento nella condizione dell’esercente, anzi può accompagnarsi ad un peggioramento delle sue sorti, e talora è appena bastevole a preservarlo dal disavanzo altrimenti ineluttabile. Ed ecco come si spiega che l’aumento così sensibile nei prezzi nel mercato al minuto non si accompagni ad alcuna ascensione nella sorte dei nostri esercenti, anzi si compia frammezzo alle universali testimonianze del loro crescente travaglio. Con ciò si spiega perché i prezzi sono più alti precisamente nei mercati meno affollati; per esempio, il prezzo della verdura è più alto nel mercato del serraglio che nei negozi circostanti più affollati».

 

 

L’OSSERVATORE. – Già in seno alla commissione torinese del 1910 vi era stato chi, dal moltiplicato numero dei minuti esercenti non deduceva le illazioni dichiarate dall’amico e compaesano Pia, probo e peritissimo negoziante in carni, ed osservava «che l’aumento dei prezzi al minuto non è effetto ma causa del cresciuto numero dei rivenditori»;[iii] ed oggi, di nuovo, Luporini, peritissimo tra i dirigenti imprese commerciali, soggiunge che in un solo caso, quello di monopolio, possono i venditori di una data merce fissare il prezzo a quell’altezza che, in funzione di una determinata quantità di affari, assicuri loro il massimo utile.

 

 

«Come potrebbero i commercianti, così divisi ed accaniti l’uno contro l’altro nell’accaparrarsi il cliente, agire all’unisono in un indirizzo che danneggerebbe immediatamente la massa, a vantaggio degli immancabili dissenzienti? Come è possibile pensare ad un tacito accordo di centinaia di migliaia di individui, aventi i più svariati ceti di clientela, operanti nei più diversi luoghi e dotati essi stessi della più difforme mentalità?» (loc. cit., pag. 23).

 

 

In verità stravaganza logica più inverosimile non si può immaginare di questa:

 

 

  • nel tempo primo il prezzo del pane in una città, il numero dei panettieri essendo di 100 per ogni centomila abitanti, è di 1,80 lire per chilogrammo;

 

  • a tal prezzo i 100 panettieri lavorando, con una resa di chilogrammi di pane, 300 chili di farina al giorno in media pagano salari normali ai garzoni e vivono con la decenza propria a uomini del loro stato;

 

  • nel tempo secondo, 25 garzoni, avendo raggranellato un modesto risparmio, decidono di trasformarsi in panettieri. Poiché il consumo del pane per tal ragione non aumenta, ogni forno, invece di 300, lavora in media soltanto 240 chilogrammi di pane. Le spese generali – fitto del negozio, interesse ed ammortamento del capitale di impianto del forno, imposte, spese fisse di commessa alla vendita e ragazzo per le corse a casa dei clienti – si debbono ripartire su un numero minore di chilogrammi di pane. Il costo totale, compreso il salario al panettiere, cresce da 1,80 ad 1,90 al chilogrammo;

 

  • i consumatori di pane, adunati a comizio, decidono di essere ben lieti che sia loro porta occasione di far vivere decentemente 125 panettieri invece di 100 e si proclamano disposti a pagare lire 1,90 invece di 1,80 per ogni chilogrammo di pane acquistato.

 

 

Poiché tutto può accadere fuorché ad occasione dell’immaginario comizio i consumatori piglino la deliberazione enunciata; Poiché i consumatori resisteranno certissimamente, per quanto sta in loro, al desiderio dei 25 aspiranti panettieri; Poiché i consumatori avranno dalla loro opinione pubblica ed autorità; Poiché i 100 panettieri antichi non hanno alcun interesse ad aumentare il prezzo da 1,80 ad 1,90, restando col guadagno di prima e procacciandosi odio dai clienti, così è evidente che al ragionamento manca un anello.

 

 

Se la catena logica fosse solida, dovrebbe potere essere capovolta. Così:

 

 

  • nel tempo primo, essendo il numero dei panettieri in una città 125 per ogni centomila abitanti, la media lavorazione di farina 240 chilogrammi per forno, il prezzo del pane 1,90 lire per chilogrammo, si riconosce che il caro del pane è dovuto all’eccesso nel numero dei panettieri;

 

  • nel tempo secondo, per porre termine allo scandalo, il numero dei panettieri è sottoposto a regolamento e ridotto a 100 per ogni centomila abitanti. La media lavorazione di farina è cresciuta a 300 chilogrammi per forno.

 

 

Scema forse il prezzo del pane da 1,90 ad 1,80 lire per chilogrammo?

 

 

L’esperimento fu fatto; durò centinaia d’anni. I risultati furono descritti da Alessandro Manzoni nel capitolo sulla carestia de I promessi sposi e sono chiariti in tre scritti, mai abbastanza meditati, di Camillo Cavour (1851, ed in La Riforma Sociale, 1915, pag. 300 e seg.), Carlo Ignazio Giulio (Torino, 1851) e Federico Le Play (Parigi, 1860).

 

 

Con la mirabile sua capacità a vedere i fatti veri e rilevanti, ben diversi dai fatti apparenti e stupidi, il conte di Cavour così tranquillizzava coloro i quali, attaccati al regime dei regolamenti, paventavano che i panettieri profittassero della conquistata libertà per coalizzarsi ed aumentare il prezzo del pane:

 

 

«Le coalizioni sono talvolta possibili nelle industrie il di cui esercizio richiede lunga pratica, non comune abilità e alti capitali, ed ancora in queste l’esperienza ci dimostra che esse sono di breve durata: ma in un’arte come quella del panettiere, accessibile ad una infinità di persone, che esige pochi capitali e mezzi affatto volgari, i pericoli delle coalizioni sono veramente immaginari. … D’ora in avanti sarà possibile lo stabilire in questa città una panetteria con un capitale di sole lire 5.000. Ora ogni individuo di mediocre operosità e di bastevole onestà non durerà fatica a raccogliere questa tenue somma e ciò tanto più che, sia i proprietari di case per dar credito alle loro botteghe, sia i negozianti da grano e da farine per agevolare il loro negozio sono in generale disposti a somministrare fondi ai panettieri bisognosi» (loc. cit., 317-7).

 

 

Quando mai si vide che il minor numero dei produttori faccia ribassare i prezzi ed il numero cresciuto favorisca le coalizioni e inasprisca i prezzi? Come osservava il commissario torinese del 1910 questo è un supporre che la coda muova il gatto e non viceversa. A buon conto, salvo che in Russia, gatto o re del mercato sono ancor i consumatori, ed i produttori devono ballare così come è loro ordinato dai gusti e dai mezzi dei consumatori.

 

 

Per secoli (in Torino dal 1679 al 1851) i produttori erano riusciti, camuffandosi da consumatori, a persuadere costoro che, per avere pane buono ed a buon mercato, faceva d’uopo stabilire le piazze di forno (e cioè il numero dei panettieri) e la meta (calmiere) del pane. Il risultato fu pane cattivo e caro.

 

 

Federico Le Play, relatore nel 1860 al consiglio di stato di Francia, ricordava la teoria, fin d’allora corrente, che «il prezzo del pane deve diminuire a mano a mano che scema il numero dei forni ed aumenta la clientela forzata di ognuno di essi», ma soggiungeva subito che, fatte diligenti inchieste, il prezzo del pane era invece risultato più alto a

Parigi, città di regolamentazione e di numero ristretto di fornai, che a Londra ed a Bruxelles, città sotto cotal rispetto libere e provvedute perciò di più numerosi forni. Poiché un fatto in sé non conta, se non lo si spieghi, così il Le Play seguitava, esponendo le ragioni per le quali il prezzo del pane non solo capita ad essere, ma ragionevolmente deve essere più caro in regime di regolamentazione che in quello di libertà dei forni:

 

 

«Il privilegio attribuito ai forni da panettiere dà ad essi un valore fittizio il quale pesa sui consumatori. Le 601 piazze da forno privilegiate parigine del 1856 avevano un valore venale di 36 milioni, forse ridotto oggi (1860) a 25 milioni, destinati a ribassare forse ancora di 5 milioni in seguito alla concorrenza. La esagerazione del valore delle piazze assorbe improduttivamente i capitali dei fornai. Di qui un onere annuo, il quale deve essere prelevato sul pubblico, in aggiunta alle spese ed ai benefici proprii della fabbricazione del pane.

 

 

«Un confronto fra Parigi e Londra mette in luce sovrattutto la situazione inferiore del fornaio parigino per quanto riguarda la agiatezza, la capacità commerciale, l’attività e l’iniziativa ed in generale l’insieme delle condizioni dalle quali dipende il livello sociale. Questa inferiorità è la conseguenza fatale del regime regolamentare per indole sua limitatore e reagisce in modo pernicioso sui metodi produttivi parigini. L’agiatezza e la capacità degli esercenti sono elemento essenziale di prosperità per ogni industria e fattore decisivo di moderazione del prezzo dei suoi prodotti. L’abbassamento del livello sociale dei forni è ognor più notabile a mano a mano che la regolamentazione diventa più rigorosa.

 

 

«L’organizzazione parigina è viziata altresì dalla situazione fatta agli operai comuni. In un’epoca in cui l’industria si concentra sempre più in grandi officine, dirette da pochi imprenditori a capo di una moltitudine di salariati, non v’ha evidentemente alcun motivo per distruggere sistematicamente questi modesti organismi industriali, grazie ai quali l’operaio intelligente e laborioso può elevarsi alla condizione di padrone. Nel sistema di Londra, gli operai abili, i quali abbiano fatto qualche risparmio, creano, con poca spesa, un nuovo esercizio ed a poco a poco giungono nel loro mestiere, se non alle alte posizioni, le quali richieggono tradizione ed attitudini, almeno ad un posto medio capace di dare l’agiatezza e di far godere la stima dei vicini. Il principio della limitazione si oppone a Parigi sempre più a questa elevazione graduale degli operai scelti ed è perciò in contrasto formale con uno dei principali bisogni della nostra costituzione sociale.

 

 

«Ma il principale inconveniente del sistema è la riduzione medesima del numero dei fornai. Costoro in fatto adempiono per un certo numero di famiglie agglomerate i servizi che nella maggior parte d’Europa hanno luogo nel seno della famiglia. Il forno può essere invero considerato come il complemento della cucina domestica e per adempiere al suo ufficio precipuo deve essere intimamente mescolato con la popolazione. L’esigenza diventa ogni dì più imperiosa a Parigi, ove è desiderato, mattino e sera, il pane tratto un momento prima dal forno e son richieste svariate forme appropriate ad ogni pasto. Questi bisogni, già così complessi nel corso regolare della vita famigliare, si modificano spesso improvvisamente per numerosi incidenti derivanti da rapporti di parentela e di amicizia. Il panettiere non deve provvedere soltanto al servizio del pane; nell’organizzazione spontanea e normale serbata nella provincia e che è in pieno fiore a Londra, il forno offre un concorso più diretto alla alimentazione delle famiglie; facilitando, ad ogni momento, la cottura di certi particolari piatti e sostituendo interamente la cucina domestica in talune circostanze in cui la famiglia intera attende al lavoro quotidiano. Siffatti intimi rapporti facili a Londra e Bruxelles dove la proporzione dei forni è di 1 ogni 500 abitanti diventa difficile a Parigi, dove la proporzione è di 1 a 2.000. Poche famiglie sono in grado di cambiare il forno che non li soddisfa ed altre perdono gran tempo nelle corse fatte al forno. I novatori i quali vorrebbero rivoluzionare il commercio del pane riducendo indefinitamente il numero dei forni non tengono conto di questo pesante servizio imposto, collo scaricarne i fornai, alle famiglie; ed assimilano implicitamente i quartieri della città ad un ospedale, in cui il consumatore riceve alle ore prescritte, un cibo che egli non ha diritto di scegliere. Siffatte tendenze derivano in ultima analisi dall’idea comunistica…

 

 

«I contrasti fra pasticcieri e panettieri provano anch’essi l’incompatibilità del regime di limitazione con le idee del nostro tempo. I pasticcieri allegano giustamente non potere lottare contro i panettieri, i quali usurpano parte della loro industria, se ad essi non sia a sua volta consentita la fabbricazione del pane. Essi presentano le prove del ricatto subito da taluni panettieri i quali obbligano i pasticcieri vicini a pagare una taglia se vogliono evitare una concorrenza rovinosa. Essi, in poche parole, chiedono di essere autorizzati a fabbricar pane ovvero che ai fornai sia proibito di fabbricare pasticcerie. La pretesa, riconosciuta giusta dai sindaci dei fornai, è stata, dopo profonda discussione, fatta sua dal senato. Il governo è dunque obbligato, in pieno secolo XIX, a riprendere gli interminabili dibattiti delle corporazioni di antico regime; esso deve proibire ai panettieri la fabbricazione dei dolci perché, servendosi di un forno già riscaldato per altro scopo, essi potrebbero produrle a più basso costo dei pasticceri.

 

 

«L’errore fondamentale della limitazione è l’idea che il buon mercato possa risultare dalla attribuzione obbligatoria dei clienti ai produttori. In tutti i tempi ed in tutte le professioni la vendita a buon mercato è stata invece condizionata alla spontanea formazione della clientela.[iv] Dappertutto la produzione a basso costo è il frutto dell’iniziativa di padroni abili ed intelligenti, a cui la maggioranza deve tener dietro sotto pena di fallimento.

 

 

«I panettieri di Parigi si ingannano stranamente del resto, immaginando di rimediare in pieno ai loro mali coll’ottenere, in aggiunta alla limitazione del numero dei padroni e delle botteghe da forno, anche quella del numero dei forni per ogni bottega. Nonostante il nuovo ostacolo, gli uomini migliori riusciranno ad accrescere notabilmente i loro affari, aumentando le dimensioni dei forni ed organizzando i turni di giorno e di notte. Se ci poniamo per tale via, vi è un sol mezzo di neutralizzare le migliori capacità ed è di limitare la quantità di pane che il forno può ogni giorno produrre. Ma, perché un siffatto regolamento sia eseguito, la maggioranza non sospetta di abilità e di intelligenza dovrà evidentemente sorvegliare davvicino l’operato della minoranza. Ognuno dovrà, trascurando i proprii, occuparsi sovrattutto di frastornare gli affari dei colleghi. Non è difficile comprendere che un nuovo aumento sul prezzo del pane sarà la conseguenza pratica del nuovo progresso» (pag. 68-72).

 

 

Con le varianti dettate dai luoghi e dai tempi, le considerazioni esposte settantacinque anni or sono dal Le Play sono vere oggi. Se il numero dei forni da pane e delle pasticcerie – queste in particolar modo, anche ad occhio, vanno moltiplicandosi in modo singolare – delle rosticcerie, delle latterie, dei verdurai, dei fruttivendoli ed in genere dei venditori di tutte le cose necessarie all’alimentazione è cresciuto e tuttodì cresce, il fatto non è dovuto al caso, Né può dirsi un artificio. Non basta che ad uno scemo venga in mente di aprir nuova bottega perché il pubblico, non forzato, accorra a lui e gli paghi prezzi più alti per rimunerarlo della sua scemenza. Gli uomini non sono ancora così svaniti come pretenderebbero i dottrinari della teoria della limitazione che farebbe scemare i prezzi e della concorrenza che li farebbe aumentare. Fornai, pasticcieri, rosticcieri, se vogliono vivere, devono rendere qualche reale servizio ai clienti. Talvolta può darsi siano servizi di pura conoscenza personale con i singoli clienti: «pagherà domani» «questo è un dolce fatto apposta secondo il suo gusto» – «manderò il pane fresco appuntino alle otto del mattino, a mezzogiorno od alle sette di sera», se si tratta di clienti agiati, od «alle sette, dodici e mezza e otto» se si tratta di operai; e non c’è che da svoltar l’angolo della strada e il cliente sprovvisto di telefono trova quanto gli occorre ed il bambino può scendere a far la provvista, senza che la mamma abbia paura del tram o dell’automobile. Al banco sta un macellaio gioviale o una commessa di panettiere che sa dir la sua a tutte le madame e le tote che fanno il giro mattutino, ed il cliente non ha l’impressione di entrare in un ministero, con direttori impiegati commessi cassieri, tanti che ci si perde la testa a studiare le competenze. Ricordiamo le arie che si davano gli stessi panettieri e macellai quando, nel tempo della guerra, bisognava impetrare umilmente, tessera alla mano, ci dessero quel che spettava al prezzo dovuto! I servizi di comodità, di buone maniere, e quelli sostanziali ricordati dal Le Play di cucina privata e di forno (da panettiere, da pasticcere, da rosticcere, ecc.); devono essere pagati perché consentono di sostituire alla cucina privata, la quale del resto nelle case moderne va riducendosi ad un bugigattolo, ad un armadio, in cui non ci si può neppure rigirare, un’organizzazione che offre, purché vicina, purché “di fiducia”, agevolezze pronte e, in fondo, a miglior mercato della cucina individuale per chi ha bisogno di lavorare o non può prendersi il lusso della cuoca privata, la quale poi, se è alle prime armi e pagata come novizia, manda in malora qualunque cosiddetto piacere della tavola. Nessun panettiere, nessun pasticciere, nessun rosticciere è di troppo, se è capace a rendere servizio, a vendere roba buona ed a venderla bene, con bei sorrisi e belle parole, invece che con brutta maniera; tutti sono di troppo se pretendono che, solo perché esistono ed hanno speso gran denari in vetrine e banchi e lumi e commessi, il cliente sia entusiasta di comprare roba qualunque a prezzi alti. I carestiosi hanno sempre in bocca i diritti della categoria, conculcati da chi, senza avere la necessaria preparazione professionale, usurpa il loro mestiere. Le nuove corporazioni – appunto perché sono una cosa diversa da quelle di vecchio regime, ricordate dal Le Play, le quali infastidivano governi e giudici con i loro piati incessanti per violato territorio di caccia bandita, – devono star lontane come dalla peste da bottegai industriali artigiani i quali, in foja di querela contro la clientela, vorrebbero riformarne i gusti, insistono sulla necessità di prezzi equi, equi per tutti, tali da far vivere i produttori e nulla più; purché, si intende, i produttori siano in numero giusto e non si permetta l’accesso al primo venuto, senza preparazione, senza titoli. Il vero nerbo delle nuove corporazioni è composto della gente che lavora e che riesce; che, riuscendo, paga imposte allo stato e non chiede allo stato favori o sussidi.

Il criterio per distinguere i buoni dai cattivi membri delle corporazioni è il successo. Chi perde quattrini, suoi o dei creditori, nella propria impresa, colui è un falso commerciante, falso industriale, e dunque falso corporativista. Chi rende altrui sul serio servizio, guadagna; chi perde, salvo casi estremi di forza maggiore o di caso fortuito da provarsi rigorosissimamente, perde perché non è capace di rendere altrui effettivo servizio.

 

 

IL PRIMO SPECIALIZZATORE. – Le banche devono applicare i principii della scienza. Ognuno deve fare il proprio mestiere. Il pubblico deve imparare a conoscere dal nome medesimo dell’ente a cui si affida di che morte moriranno i suoi denari. Siano “banche” quelle le quali ricevono depositi a vista od a

breve scadenza e li impiegano in sconto di carta commerciale, in anticipazioni e riporti a fine mese su merci e su titoli ed in altre operazioni destinate a fornire il capitale di esercizio degli industriali e dei commercianti. Siano “istituti” quelli che ricevono depositi a lunga scadenza od emettono obbligazioni a 10, 20 o 50 anni e ne impiegano il ricavo in sovvenzioni a lunga scadenza per impianti industriali, acquisto di macchine, mutui di miglioria agricola o costruzioni edilizie. Si avrà sicurezza solo quando il breve deposito andrà a braccetto col breve impiego, il medio col medio, il lungo col lungo. Vi deve essere parallelismo temporale fra i due piatti della bilancia, cosicché il banchiere sia sempre pronto a restituire quanto ha ricevuto alla scadenza fissata.

 

 

IL SECONDO SPECIALIZZATORE. – Non basta. Fa d’uopo specializzare oltreché nel tempo, nella specie del credito. Il banchiere deve conoscere i suoi clienti. L’agricoltura ha esigenze diverse da quelle proprie dell’industria elettrica, e queste son differenti dalle altre proprie delle industrie pesanti della siderurgia, della metallurgia e della meccanica. Chi serve i tessili non conosce a fondo i chimici Né si può pretendere che gli edili siano ben serviti da chi conosce a fondo l’industria navale, dal cantiere all’armamento. Le banche devono specializzarsi a seconda dei grandi cicli e rami di produzione, con gli stessi criteri con i quali si sono costituite le corporazioni. Anzi la banca, secondando il processo generale di auto disciplina delle forze economiche, deve mettersi in grado di oggettivarsi sempre meglio, spogliandosi di quelle antiquate caratteristiche che la facevano una industria così rigidamente personale. Non più credito alla persona del cliente individuo; ma credito alla industria organizzata e disciplinata, epperciò sicura di vita operosa e continua.

 

 

IL TERZO SPECIALIZZATORE. – Non basta ancora. La distribuzione del credito non deve avvenire solo su basi temporali e funzionali. Essa deve anche essere spaziale. Non si risusciti la vecchia disputa dei pochi e dei molti. Le banche in Italia sono indiscutibilmente troppe. Tutte hanno voluto mietere nel medesimo campo; che è il risparmio dei veri risparmiatori, i quali sono i proprietari rustici, i fittabili, i contadini delle campagne, gli impiegati, i commercianti, i professionisti dei borghi e delle città piccole e grosse. Quindi migliaia di banche e banchette minori e migliaia di sedi succursali filiali agenzie delle banche e casse maggiori, sparse in ogni villaggio e in ogni rione cittadino, tutte intente a pompar denaro ed a riversarlo nei pochissimi grandi centri. La agricoltura, la industria e il commercio sparsi, locali e di modeste dimensioni son perciò lasciati all’asciutto; il capitale è offerto in abbondanza alle grosse imprese, per investimenti grossi e piccoli; e si ha eccesso di investimenti speculativi e conseguenti dissesti bancari. Importa sostituire alla concorrenza irrazionale dei molti aspiranti a pascolar sul medesimo terreno, una razionale distribuzione della banca nello spazio; così che si instauri un ben ordinato contemperamento fra piccole, medie e grosse banche, indipendenti l’una dall’altra, cosicché la piccola banca sia interessata entro i limiti del possibile ad utilizzare sul luogo i risparmi raccolti nel luogo medesimo, salvo a giovarsi della media banca regionale e l’impiego del sovrappiù eccedente ai bisogni locali ed a riceverne aiuto in caso di richieste anormali di rimborsi. Parimenti si deve comportare la banca media regionale rispetto alla grande banca di commercio e questa rispetto alla banca centrale di emissione; la quale, spoglia dal vincolo dei rapporti diretti colla clientela agricola commerciale ed industriale, potrà  adempiere esclusivamente e perciò perfettamente al suo compito di banca delle banche, suprema regolatrice del credito e della moneta del paese.

 

 

PARLA UN PRIMO TEORICO. – Esiste davvero una differenza fra impieghi lunghi e impieghi brevi? Che cosa è il tempo in banca? Se noi supponiamo, per un istante, un mercato chiuso, in cui lavori una sola banca, è difficile immaginare in che cosa possa consistere la differenza fra credito a 30 anni, a 5 anni, a 6 mesi, a 15 giorni. Vi è in quel paese, un fabbisogno, ad ipotesi, di un miliardo di lire di capitale, distribuito per 400 milioni in fabbricati, ferrovie, porti, canali, migliorie agricole ed altri impianti fissi della durata media di 30 anni, 300 milioni in macchinari ammortizzabili in 5 anni, 200 milioni in materie prime, semenze, arnesi, materie in lavorazione realizzabili in media in 6 mesi e 100 milioni in prodotti finiti nei magazzini dei produttori, grossisti e negozianti al minuto, destinati a raggiungere in media in 15 giorni il consumatore. Se questa, arbitrariamente scelta a puro scopo di esemplificazione, od un’altra qualsiasi più conforme a realtà, è la proporzione intercedente fra i varii tipi di impiego del capitale nell’immaginario mercato, è chiaro che i 100 milioni investiti in prodotti finiti pronti nei diversi magazzini per il consumo sono altrettanto “fissi” come i 400 milioni impiegati in fabbricati, i 300 in macchinari od i 200 in materie prime. Se noi supponiamo, come si suppone comunemente e si deve supporre dai teorici, che l’imprenditore unico o i molti imprenditori siano puri imprenditori ossia organizzatori del capitale e del lavoro altrui e lavorino con capitale assunto tutto a prestito presso l’unica banca, è chiaro che la pretesa brevità – 15 giorni – dell’impiego per sovvenzioni su prodotti finiti, in confronto della immaginata lunga durata – 30 anni – dell’impiego n fabbricati o porti o ferrovie o canali è una finzione puramente contabile. È tanto poco possibile disinvestire i 100 milioni investiti in prodotti finiti – per intenderci in pane, carne macellata, vino in fiaschi, vestiti fatti, scarpe, ombrelli, ecc., ecc. – quanto i 400 che hanno la forma di canali, fabbricati, ecc. Disinvestire equivarrebbe a non fornire all’imprenditore i mezzi per compiere l’ultimo anello della catena economica: non trasformare la farina in pane, i cuoiami in scarpe, il feltro in cappelli, i panni in vestiti. Si può, se si vuole, ciò fare. Ma bisogna ben ricordarsi che ciò significa arrestare nel tempo stesso la fabbricazione dei prodotti intermedi. Se la farina non può trasformarsi in pane, a che pro’ la farina? Ciò significa altresì inutilizzare i 300 milioni investiti in macchine ed i 400 in impianti fissi. Se i rapporti ottimi fra le diverse specie di investimento sono quaranta, trenta, venti e dieci per cento dell’investimento totale, la permanenza dell’ultimo dieci per cento è altrettanto necessaria quanto la permanenza delle altre quote parti. La banca non può rifiutarsi, sotto pena di arrestare l’intero meccanismo produttivo, di rinnovare indefinitamente lo sconto delle cambiali rappresentanti i 100 milioni di beni finiti, pronti al consumo. Questi 100 milioni sono immobilizzati né più né meno come tutti gli altri milioni facenti parte del miliardo totale. Il tratto differenziale fra quelli che comunemente vengono chiamati prestiti lunghi e prestiti brevi non è dunque la “durata”. Il problema non muta indole solo perché, invece di una sola, le banche sono cento o mille. Con molto andirivieni, il complesso delle banche deve trattare alla stessa stregua impieghi lunghi ed impieghi brevi; non immobilizzandosi mai cioè né in quelli lunghi né in quelli brevi. Devono “girare” tanto gli uni come gli altri. Una banca adatta, per la natura dei suoi depositi, agli impieghi lunghi si immobilizza se l’impiego non si ammortizza con la dovuta velocità e intensità; così come la banca adatta agli impieghi brevi si immobilizza se le cambiali sono rinnovate o decurtate invece che onorate alla scadenza. Una banca la quale immaginasse di salvarsi dalle immobilizzazioni, vulgo ora detti “congelamenti”, solo col fare prestiti “brevi” si sbaglierebbe di grosso; d’ogni teoria volta a differenziare tra banca e banca col criterio della durata è errata alla radice.

 

 

PARLA UN SECONDO TEORICO. – Il logico specializzar banche a seconda dell’industria servita? Mai non s’è visto nessun calzolaio appendere sulla bottega l’avviso: qui si vendono scarpe solo ai contadini. Il cittadino passerebbe oltre, sogghignando: scarpe buone per piedi rustici incalliti dai sassi e sporchi di terra! Il contadino sospettoso: costui crede di farmela, rivendendomi i rifiuti della città! Il commerciante accorto vende ad ogni cliente la merce a lui adatta, dopo averlo persuaso che quella è la merce migliore fabbricata a bellaposta per il migliore dei clienti, che è precisamente sempre quello a cui si parla. Nessun industriale e quindi neppure il banchiere ha interesse a limitar ad ogni costo la sua clientela ad un ceto particolare. Che cosa accadrà se gusti di quel ceto mutano? Che cosa accadrebbe al malavventurato banchiere, il quale si fosse specializzato nel far credito ai lanieri od ai cotonieri od ai setaioli od ai siderurgici e l’industria prediletta subisse una crisi? Purtroppo, in talune zone la specializzazione vien da sé, perché quel centro è tutta lana o tutto cappelli o tutto mobilio. Ma il banchiere, il quale abbia buon senso e prudenza, avrà imparato dall’esperienza passata a tener gran conto di quella che noi vilipesi teorici diciamo teoria della compensazione dei rischi; ed avrà cercato, per quanto sta in lui, clientela fuor del ramo dominante nella sua zona; avrà preso a riporto titoli sicuri nella borsa più vicina – un tempo i migliori direttori di casse di risparmio usavano assai di siffatto prezioso volante regolatore alla unilateralità dei loro investimenti; ma poi ebbero divieto di continuare, non si sa per qual misteriosa ragione, forse perché «riporto» è una parola che ha l’aria speculativa e la gente che sta negli uffici vede il diavolo dietro certe parole e non è mai andata a leggere nel dizionario che «speculare» vuol dire «guardare nel futuro», che a chi gli riesce è una delle più rare e felicissime virtù di cui gli uomini possono essere adorni -; od avrà ingrossato il suo conto corrente presso una banca consorella di altra regione. Più variati sono gli impieghi, ed a parità di altre circostanze, più oculato e tranquillo è il banchiere. Specializzazione funzionale è dunque una frase priva di senso. Il banchiere che la pigliasse sul serio, scaverebbe da sé la propria fossa.

 

 

INTERVIENE UNO STORICO DELL’ECONOMIA. – La tesi che le banche debbono essere poche, ciascuna al suo posto, le piccole nei luoghi piccoli, le medie nei medi centri, le grosse nei grandi e tutte insieme collegate e interdipendenti, su su fino alla banca centrale, fa il paio con quelle tante tesi di tendenze economiche che ogni tanto nascono, diventano di gran moda e poi, dopo un po’, nessuno ne parla più. Adesso, i fabbricanti di tesi storiche si attaccano al corporativismo, che è tutt’altra cosa ed ha scopo ben diverso e più alto da quello di servire di attaccapanni per codesti pseudo-storici delle fatalità economiche. Farebbero meglio, costoro, a non dimenticare l’infortunio accaduto al maggiore della compagnia dei profeti di fatalità economiche, Carlo Marx. Il quale, in combutta con Federico Engels, predisse un bel giorno la fine, per scoppio spontaneo di supercrescenza, del capitalismo. La fine doveva arrivare, anno più anno meno, verso il 1890. Era la storia dei pesci grossi che mangiano i piccoli. Marx ed Engels volevano dire che i grossi industriali stavano mangiando i piccoli, e poi i grossissimi li chiamarono in seguito cartelli, trust, ecc. – avrebbero mangiato i grossi; Finché un colosso avrebbe mangiato i grossissimi. Allora il proletariato avrebbe tagliato la testa, o, misericordiosamente, messo in pensione il colosso ed instaurato pacificamente il socialismo. Tutto ciò fondato su teorie, che ora si direbbero di razionalizzazione od economicità della grande intrapresa in confronto della piccola, ecc., ecc. Non ne fu nulla; e se qualcuno andò colle gambe all’aria furono i palloni gonfiati, i grossissimi, i colossi. Anche nel mare, del resto, pare corrano maggior pericolo di scomparire le balene che i pesciattoli. La dimensione e la distribuzione territoriale sono due soli tra i numerosissimi fattori i quali agiscono sulla sopravvivenza delle imprese; ed a seconda degli altri fattori con cui si combinano, essi agiscono da caso a caso in sensi diversi. Talora, anche nelle banche, sono più economiche le piccole e le medie banche, talora le grosse. Talora prospera la filiale locale di una grande banca cittadina, talaltra invece il banchiere indipendente del luogo. Non si può neppure dire che sia sconsigliabile la creazione di una nuova filiale in una città o in una zona di città o di campagna già servita da due o tre filiali di altre banche. Questo è uno dei più grossi scatoloni vuoti che abbiano mai preso onorevole luogo nei trattati di banca. Là dove i direttori di due o tre filiali non trovano tanto lavoro da pagar le spese e perciò mandano alle direzioni centrali rapporti sulla necessità di intese per ridurre le troppe filiali concorrenti ad una sola, cosicché ciascuna banca lavori organicamente e disciplinatamente in un particolare campo, senza rubarsi i clienti, ecco arrivare un banchiere locale nuovo od una filiale nuova di altra banca e prosperare. Il lavoro di banca, come qualunque altro lavoro, non è qualcosa di preesistente che si tratti semplicemente di occupare. Da un pezzo i giuristi, pure annoverando la “occupazione” tra i mezzi di acquisto della proprietà, hanno cura di avvertire che è mezzo andato giù di moda, non essendovi oramai nei paesi civili alcun terreno nuovo libero da occupare. I razionalizzatori bancari dovrebbero degnarsi di imparare qualcosa dalla prudenza dei giuristi e ficcarsi ben bene in mente che il lavoro bancario non è una torta da dividere, e che le fette non sono il risultato della divisione di una quantità fissa per un numero variabile di partecipanti al banchetto; sicché se le filiali sono tre, essendo l’importo trenta, il quoziente sia dieci, se due cresca a quindici, se una sola balzi a trenta. Gli affari bancari, come quelli di industria e di commercio, non vanno così. L’importo è il termine, non il punto di partenza dell’operazione aritmetica. Può ben darsi che se le filiali o banche che lavorano in un luogo ci riducano da 3 ad 1, il lavoro si riduca a 5 e quell’una rimasta stia peggio di prima; ed invece, se le filiali o banche crescono da 3 a 4, il lavoro totale cresca a 50, e pur accaparrando la nuova arrivata 17 per sé, le altre veggano la loro fetta crescere da 10 a 11. L’appetito fa trottare l’asino. Il lavoro è una continua creazione; ed è creato non dagli scatoloni vuoti del ripartire giustamente il lavoro che c’è; ma dall’emulazione che lascia creare al più capace il lavoro che non c’è. La sola regola buona insegnata dalla storia delle banche di tutti i tempi e di tutti i paesi è dunque di non attaccarsi rigidamente a nessuna regola.

 

 

IL BANCHIERE PRATICO. – Sì, qualche regola esiste; ma è vecchia come Abacucco e frusta come la barba di Noè. Forse forse le regole si potrebbero ridurre a due: «il banchiere conosce un solo dovere, quello verso i suoi depositanti» – «il banchiere piglia i denari di tutti, anche dei cattivi, ma li dà via solo ai buoni». Se il banchiere non dimentica questi due fondamentali precetti, egli può passare brutti giorni, giorni ansiosi, ma,

per quanto valgono le umane previsioni, egli passerà incolume attraverso la tormenta e giungerà sano e salvo in porto.

 

 

Se le due regole sono diventate carne della sua carne, il banchiere è in grado di dar corpo sostanzioso anche alle formule in sé stesse vuote del lungo e del breve, della specializzazione funzionale e territoriale, del grosso e del piccolo.

 

 

Se qualcuno dice al banchiere: tu devi fare operazioni lunghe, perché i tuoi depositi sono a lunga scadenza, ovvero devi fare operazioni brevi, perché i tuoi depositi sono a breve scadenza, egli non scambierà il consiglio, entro certi limiti saggio, per quell’altro: tu che hai depositi lunghi fa “solo” operazioni lunghe, perché queste “sono” per te sicure e tu che hai depositi brevi fa “solo” operazioni brevi, perché queste “sono” per te sicure. Egli sa che quel “solo” e quel “sono” sono fuor di posto, anzi son per lui parole pericolosissime.

 

 

Il banchiere o l’ente, che riceve depositi lunghi o si procaccia fondi con emissione di obbligazioni sa invece tante altre case, fra le quali sono forse degne di ricordo le seguenti:

 

 

  • che egli non può dare a mutuo il cento per cento dei suoi fondi anche se ricevuti a lunga scadenza; ma deve tenerne parte disponibile o investita a breve scadenza. Qualcuno dei suoi clienti non avrà bisogno di nuovi mutui in un momento nel quale al banchiere non giova fare nuove emissioni? Le annualità passive che egli deve certamente solvere a tempo debito sulle obbligazioni emesse non scadranno in un momento in cui i debitori suoi dovrebbero, ma non possono, pagare a lor volta equivalenti annualità di interessi e di ammortamento? Poiché a lui non conviene far fallire i debitori suoi che sa imbarazzati ma solidi e deve e vuol pagare, giova a lui tenere investita a breve termine una parte delle sue disponibilità;

 

  • che vi sono flussi di fondi lunghi i quali non si rinnovano a scadenza, o si rinnovano soltanto dopo un intervallo. Vi sono ondate nei depositi vincolati. Ad un certo momento si riducono, Poiché sono apparsi all’orizzonte dei depositanti impieghi attraenti. Guai al banchiere che, fidando nella rinnovazione dei depositi a un anno, a cinque anni, avesse fatto impieghi più lunghi!

 

  • che quella dei mutui che si ammortizzano entro x anni, dimodoché la banca alla fine ha avuto il rimborso dagli industriali ed ha estinto tutte le obbligazioni emesse in contropartita è osservazione la quale deve essere integrata dall’altra che l’industriale, il quale ha alla fine dell’anno rimborsato un ventesimo del suo debito, vede in quel momento medesimo logorato il suo macchinario per un valore equivalente al debito rimborsato, diguisaché egli deve contrarre un nuovo debito per rinnovare macchinari ed impianti. Il banchiere, per fornirgli i fondi necessari, se il momento non è propizio per nuove emissioni, deve attingere alle sue riserve liquide ossia investite a breve tempo.

 

 

A sua volta, il banchiere, il quale riceve depositi brevi, non può, come racconta la storia della specializzazione temporale, impiegarli tutti in impieghi brevi, che sarebbero il servizio di riscossioni e pagamenti per conto dei clienti, sconti di cambiali, aperture di crediti in conto corrente, crediti documentati e di corriere, riporti su titoli, servizi di cassa, crediti di accettazione, ecc., ecc. Non può, perché tutto questo è lavoro che rende solo a condizione che i saggi passivi di interesse siano nulli o bassissimi, le imposte tenui, le spese generali di amministrazione e quelle specifiche di manipolazione di ogni operazione ridotte al minimo per la massa cospicua di affari fatti. Se il lavoro cade al disotto della media, la grossa banca diventa passiva. Possono sostenersi le medie e le piccole, con poche filiali, gerarchia ridotta, occhio del padrone, ecc. Il banchiere avveduto non solo non può osservare la regola dell’astensione dagli impieghi lunghi, ma non è affatto necessario per lui o conveniente nell’interesse dei clienti attivi e passivi che egli vi obbedisca ciecamente, ad ogni costo. Nessuna regola sensata si può dare in generale. Se il banchiere riceve depositi grossi, di industriali o di commercianti, e sono il fondo di esercizio di questi, il quale accidentalmente riposa tra un acquisto e l’altro di materia prima, egli deve stare sul chi vive e fare impieghi liquidi, meglio se riscontabili a vista presso l’istituto di emissione. Per tutto il tempo che fu a capo del Credito mobiliare, il Balduino vide sempre con sospetto i depositi unitari grossi; e quando non era soddisfatto dei motivi del deposito e della persona del depositante, tanto faceva, racconta Pantaleoni (Scritti, terzo, 377), da arrivare a sbarazzarsi del deposito e del depositante. Se tanto sospetto non piace, certamente occorre sempre tenersi pronti al rimborso e quindi aborrire gli impieghi lunghi.

 

 

Chi oserebbe invece dire che le casse di risparmio debbono seguire la medesima regola? Eppure esse ricevono sovrattutto depositi a vista o, se vincolati, a breve scadenza. Ma son depositi unitariamente piccoli o modesti, di contadini, domestici, operai, pensionati, impiegati, redditieri, piccoli e medi artigiani, commercianti, industriali. In gran parte sono risparmi definitivi, ossia somme che, se si può, non si ha intenzione di toccare, salvo, in parte, quando sorpassino una certa cifra, per acquistare buoni del tesoro, consolidato, eventualmente un appartamento. Il grosso lo si tiene lì, pensando a malattie, ad acciacchi della vecchiaia, a nozze, a morti, ad eventi cioè che non capitano tutti i giorni e possono non capitare mai. Se capitano, accade poi non di rado che l’uomo assestato e previdente – e lo è, se è cliente della cassa di risparmio – vi provvede in altro modo, senza «toccare il capitale». Per fortuna, per questa brava gente «toccare il capitale» – capitale è, nella loro mente, quella qualunque somma di cui essi potrebbero, volendo, disporre ad ogni momento, ma non ne hanno disposto da un po’ di tempo, ad es. da un anno, ed allora essendo circondata da un alone sacro ha cessato, non si sa perché, di far parte del reddito disponibile ed è divenuta misteriosamente capitale, epperciò «intoccabile», che è definizione buona, almeno come tutte le altre offerte dagli economisti – è delitto vergognoso, peccato mortale, di cui sentirebbero il dovere di accusarsi in confessione. La cassa di risparmio che ha raccolto intorno a sé codeste perle di depositanti, perché dovrebbe osservare la regola della specializzazione temporale ed astenersi dagli impieghi lunghi? Per rendere ossequio ad un mito privo di senso, secondo cui, in fatto di depositi e di impieghi, il lungo va col lungo e il breve va col breve? Le regole sono osservabili se buone. Se no, è logico dimenticarsene. A parer mio, perciò, le casse federate di risparmio del Piemonte le quali al 31 dicembre 1933 avevano ricevuto 3.478 milioni di lire, avevano fatto benissimo, sebbene nessuna di esse avesse emesso obbligazioni a lunga scadenza ed il grosso delle loro disponibilità provenisse da depositi brevi o vincolati a tempo che alla comune dei mortali appare breve – l’anno è una unità di tempo breve -, ad investire il 25,39% delle loro disponibilità in mutui, cessione quinto stipendi, partecipazioni, che, ad occhio e croce, hanno tutta l’aria di investimenti lunghi, ed il 48,38% in titoli di proprietà, che sono impieghi brevi secondo un modo di dire che è verissimo Finché non se ne abusa. Si dice che l’impiego in titoli è breve, perché in un battibaleno i titoli si vendono in borsa. Ma è un battibaleno che corre per 100 milioni, per 200; ma se si volessero sul serio realizzare i 1.683 milioni di titoli di proprietà delle casse federate piemontesi bisognerebbe attendere che si sia fatto il mercato, ossia che gli acquirenti abbiano digerito i titoli delle emissioni precedenti o si siano formati nuovi strati di acquirenti. Ossia bisogna aspettare che si sia formato un nuovo risparmio, il che, anche in una regione vasta e operosa e risparmiatrice come è il Piemonte, non è impresa né di un giorno né di un mese. Con tutto ciò nessuno può avere nulla a ridire, se non per lodare i dirigenti delle casse piemontesi per la prevalenza data agli impieghi relativamente lunghi. Se il mercato non offre impieghi brevi sicuri a sufficienza, si dovrebbe forse ridurre, in ossequio al mito temporale, all’un per cento l’interesse offerto ai depositanti? A depositanti, notisi, i quali hanno il vezzo di non volersi impegnare né per dieci né per cinque anni a tenere i loro soldi fermi alla cassa ed i più vogliono “salvarsi” il diritto di farseli dare il giorno dopo; ma, in sostanza, sono attaccati come ostriche alla cassa, e, ben giustamente, tengono i denari depositati non per un giorno od un mese, o cinque o dieci anni, ma per tutta la vita. Quanti impiegati agli sportelli ed alla cassa non sono invecchiati insieme coi loro clienti, puntuali ogni anno a venirsi a far “marcare” gli interessi sul “libretto!”. “Marcare”, non “ritirare”; ed appena “marcato” l’interesse diventa capitale, sacro ed intoccabile. Con questa sorta benemerita di depositanti, sarebbe un non senso che la lettera uccidesse lo spirito e la cassa rinunciasse, come il bonzo davanti all’idolo, a ragionare con la sua testa.

 

 

Non vi è, economicamente, nessuna ragione di distinguere fra cassa e banca. Amendue devono osservare le due regole poste sopra: «il banchiere ha doveri solo verso i depositanti» «il denaro, preso da tutti, deve essere dato solo ai clienti buoni». Se il banchiere ha depositi brevi ed unitariamente grossi ed oscillanti, è bene per lui star lontano dagli impieghi lunghi; se egli ha depositi brevi, ma unitariamente piccoli e stabili, può e nell’interesse dei suoi depositanti deve impiegare una parte in impieghi di media e lunga durata. Quale a questa “parte” non si può dire in generale. Se il banchiere sa il suo mestiere, se è oculato e prudente, cadrà sulla proporzione giusta: 10, 20 o 30 o più per cento. Se non lo sa, se non ha fiuto, e se immagina sperar bene tenendosi al 10%, anche il 10 può essere molto troppo. Forseché si è sicuri che lo sconto di cambiali o l’apertura di conto corrente per il circolante di esercizio siano sul serio impieghi brevi? Come ricordò sopra il “teorico”, lo sconto è breve se la cambiale è ritirata alla scadenza, e se nuove cambiali vengono presentate allo sconto senza legame Né di tempo Né di causa con quella estinta. Ma se, con o senza identità di titolo, la cambiale viene rinnovata con detrazioni scalari, quello è un mutuo lungo bello e buono. Tocca al banchiere non lasciarcisi pigliare o, cadutovi, ritirarsene bel bello, con garbo, con espressioni di affetto verso il cliente, a cui si vuol dare addio prima che fallisca. L’apertura di conto corrente è breve, è commerciale, è di esercizio se il totale delle somme prelevate va a zig zag, toccando talvolta il massimo e cadendo talvolta al disotto dello zero, con un credito del cliente verso la banca. Se le variazioni coincidono con quelle verosimilmente proprie dell’esercizio del cliente, il banchiere si sente sicuro. Ma se il conto corrente ha una mala tendenza a salire sempre ed a non scendere mai, se toccato il massimo si ferma, il banchiere mastica amaro. È caduco nel pantano; e deve pensare a ritrarsene pian piano, senza scandalo, ma con fermezza. Per non incoraggiare i clienti all’immobilizzo, sono giustamente onorate talune classiche avvertenze, che si dicono delle commissioni e del bonifico. Facendo pagare, ad esempio, una commissione del 0,25% non sull’ammontare medio del saldo passivo del conto corrente durante il trimestre, ma sulla cifra di punta massima, si incoraggia il cliente a non toccare il soffitto dell’apertura di credito. Bonificando tutta la commissione se il cliente non sta in debito per più di dieci giorni consecutivi, il cinquanta per cento se la situazione debitoria si cambia in creditoria entro venti giorni – se il conto sta in debito per più di 20 giorni si paga la commissione intiera – si fa sentire al cliente che l’apertura di credito non equivale ad un mutuo, ma è una agevolezza di fisarmonica per potere far fronte agli impegni senza imbarazzo, e resta inteso che il cliente non solo può fare prelievi per pagamenti, ma anche, Poiché nel movimento del suo esercizio incassa, deve fare versamenti in banca.

 

 

Non bisogna del resto prendere sul serio neppure la regola dell’andare in credito una volta ogni dieci od ogni venti giorni o perlomeno una volta all’anno. Se il cliente per andare in credito presso la sua banca, pianta un chiodo da un’altra parte, non è meglio stia in debito permanente, più o meno, presso la solita banca? Almeno il banchiere lo potrà sorvegliare direttamente; Né si può costringere a far prestiti alla propria banca chi ha bisogno del denaro altrui.

 

 

Le regole della specializzazione temporale, funzionale e spaziale devono dunque accettarsi cum granu salis. Il vero essenziale è: non commettere errori. È un errore impiegare a lungo termine quel che sì deve restituire subito; ma sarebbe un errore non impiegare bene a lungo tempo e indursi ad impiegar male è improduttivamente per l’ubbia di volere impiegar corto i depositi a vista che si sa invece destinati di fatto a rimanere in banca vita natural durante dei depositanti. È un errore dar denari ad un’industria diversa da quella locale, non perché sia diversa, ma se e perché, essendo diversa o lontana, non è ben conosciuta. È un errore, per il banchiere specializzato nel conoscere contadini, far mutui al cittadino, non perché non sia ottima cosa far mutui ai cittadini solvibili ed ottimissima distribuire i rischi fra contadini e cittadini, ma perché egli, Tizio banchiere individuo, conosce a fondo i suoi polli contadini ma si lascerebbe imbrogliare dal primo filibustiere cittadino, capitato a tir di mano dei milioni dei suoi depositanti.

 

 

L’errore degli errori, l’errore pessimo e massimo è, in banca, di porsi una regola rigida; o, il che fa lo stesso, voler imporre un regolamento rigido alla condotta dei banchieri. Il regolamento, se regola sul serio, impedisce soltanto le operazioni buone e non vieta le cattive. L’unico regolamento accettabile sarebbe quello che ordinasse ai banchieri di far solo operazioni buone. Lunghe o brevi, a contadini o a cittadini, all’agricoltura od all’industria elettrica, in Lombardia ovvero in Sicilia, purché buone, ossia atte a consentire al banchiere di far fronte, al giusto momento, all’unico dovere che egli ha: restituire i depositi ai depositanti. Il banchiere non ha alcun altro dovere, non deve avere alcun altra preoccupazione. Egli serve il paese solo se sa e sente di non avere alcun altro dovere. Se qualcuno gli capita tra i piedi e gli ciancia di doveri della banca verso l’agricoltura o l’industria o il commercio o l’espansione della bandiera nazionale nei mari del mondo, lo lasci cianciare, ma non gli dia un soldo. Agricoltura, industrie, commerci e bandiere non restituiscono i denari persi in imprese sballate od improduttive. Se le iniziative sono buone, se il richiedente è persona seria ed onesta, sono queste qualità le quali parlano da sé e fanno cacciar fuori denari ai più diffidenti. Il paese si serve aprendo la borsa alle persone serie ed oneste, agli industriali che hanno sempre fatto onore ai loro impegni, hanno mangiato pane e cipolle pur di non lasciar cadere una cambiale in protesto; e chiudendola ermeticamente ai moratoriati, ai concordatari che non hanno neppure pagato la rata minima del 30%, ai falliti, a coloro che son disposti a pagare il 10% di interesse per ottenere denaro da impiegare all’uno per cento. Chi regala denaro a costoro, prepara disillusioni, rovine e disoccupazione, alleva clienti per gli ospedali ed i convalescenziari pubblici, aguzza chiodi da piantare nel bilancio dello stato. Chi è senza pietà per chi non merita credito e dà, entro i limiti della sanità, il denaro a lui affidato in sacro deposito soltanto alla gente sana, fa davvero prosperare agricoltura ed industria, moltiplicar commerci e sventolare gloriosa la bandiera nazionale nei mari più lontani.

 



[i] Mario Luporini, Costi di distribuzione e prezzi al minuto, alla vigilia delle corporazioni. Relazione destinata al congresso nazionale dei dirigenti aziende commerciali. Roma, 1934. A cura della Associazione nazionale fascista dirigenti aziende commerciali, p. 45.

[ii] A carta 22 della memoria sopra lodata così aveva riassunto il Luporini le argomentazioni in materia di prezzi dei razionalizzatori del commercio al minuto.

[iii] A carta 15 della ricordata Relazione. Torino, tip. Vassallo.

[iv] Nel 1851 il conte di Cavour così esponeva il vantaggio che i migliori panettieri traggono dalla formazione spontanea della clientela: «La massima parte dei panettieri, ed in ispecie i più in credito, smerciano gran parte dei loro prodotti a persone solite a provvedersi nelle loro botteghe, colle quali non regolano i conti che ad epoche più o meno lontane: secondo che un negozio ha un numero maggiore o minore di questi clienti, esso è reputato avere un maggiore o minore valore d’avviamento, ciò che costituisce un capitale reale. Ora egli è evidente che una biasimevole coalizione tra i panettieri avrebbe per inevitabile effetto di far perdere ai meglio avviati una gran parte della loro clientela, ciò che costituirebbe per loro una perdita molto maggiore del momentaneo beneficio che dall’accennata coalizione possono sperare (loc. cit., pag. 356)».

 

La inclusione del debito pubblico nelle valutazioni della ricchezza delle nazioni

La inclusione del debito pubblico nelle valutazioni della ricchezza delle nazioni

«Bulletin de l’Institut intemational de statistique», 1935, n. 2, pp. 271-279

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 315-330

 

 

 

 

1. – Una stesura italiana della presente nota è meno utile, perché il lettore mio connazionale poteva già conoscere taluni degli elementi di essa nell’articolo Del cosidetto prelievo dell’imposta e dei suoi effetti sulla valutazione del reddito e della ricchezza del paese.[1] Nella presente nota il problema non è studiato dal punto di vista economico, ma esclusivamente da quello della valutazione statistica della ricchezza nazionale e della correttezza della inclusione in essa dell’ammontare dei titoli di debito pubblico. Distinguo perciò tre casi principali:

 

 

a)    Il debito pubblico è contratto dallo stato a scopo di investimento economicamente remuneratore. In tal caso o si valuta l’impianto e non si deve più tener conto dei titoli di debito pubblico che lo rappresentano. O si valutano i titoli ed allora bisogna, in questa sede, tenere conto solo fino al limite del valore dell’impianto. Se la valutazione dei titoli è in eccesso al valore dell’impianto, l’eccedenza è parte del debito pubblico generale gravante nel fondo delle imposte e ne segue le sorti.

 

b)    Il debito pubblico è contratto per scopi generali (disavanzi, guerre, ecc.) e il suo servizio grava sul fondo delle imposte pagate dai percettori di redditi di capitale. Qualunque sia la soluzione data al problema degli effetti della spesa del provento del prestito, sia cioè, dopo il debito e la spesa, la ricchezza privata aumentata diminuita o rimasta stazionaria, la inclusione dei titoli di debito pubblico si impone. Lo statistico non studia gli effetti del debito; sibbene accerta i fatti esistenti prima e dopo. L’accertamento sarebbe parziale, se in ogni caso non si tenesse conto del valore del debito.

 

c)    Il debito, sempre per scopi generali, grava sul fondo delle imposte pagate dai lavoratori, manuali ed intellettuali. Se lo statistico vuol fare paragoni fra tempi e luoghi diversi, non deve tener conto dei titoli di debito pubblico perché questi capitalizzano imposte prelevate su redditi personali, ossia capitalizzano l’uomo, che, salvo nei tempi e luoghi di schiavitù, non è compreso nelle valutazioni della ricchezza delle nazioni. Ma lo statistico deve far solo paragoni? No. Uno dei suoi compiti, in questa materia, è quello di fotografare il processo crescente di capitalizzazione dell’uomo, attraverso la creazione di titoli negoziabili pubblici e privati, processo in virtù del quale l’uomo riesce ad estrarre dal se stesso libero, non negoziabile, non pignorabile, una quota cartacea la quale può esser negoziata, data in pegno, messa forzatamente all’asta, ridotta in potere altrui.[2]

 

 

2. – A dimostrare le tesi ora poste, si esaminino ora in breve le poche opinioni che sul problema discusso sono state espresse nella dottrina.

 

 

«Non potrei biasimare troppo chi includesse il debito pubblico nel capitale nazionale… l’espressione monetaria di tutto il restante capitale nazionale essendo infatti minore di quel che sarebbe altrimenti per la somma del debito;… se non ci fosse il debito pubblico, i terreni, le case, ecc., si scambierebbero a un valore superiore a quel che ora posseggono. Il debito, secondo quest’opinione, rappresenta una certa distribuzione di parte del capitale del paese, e noi non abbiamo una visione completa di questo se non ve lo includiamo».

 

 

In questo brano di The Growth of Capital di Giffen (p. 22) abbiamo la più autorevole formulazione del principio d’inclusione dei debiti pubblici nelle statistiche della ricchezza nazionale.

 

 

Lo Stamp osservava nel 1916 che l’esistenza di un debito pubblico non sempre è causa di una corrispondente riduzione nella valutazione di altre fonti d’entrata.

 

 

«Se i nostri valori fossero fissati da uno straniero, con mentalità scambistica, il quale andasse in cerca di un reddito in Inghilterra o altrove, l’esistenza dell’onere per il servizio del debito pubblico senza corrispettivo o addirittura oneroso abbasserebbe la sua stima delle nostre possibilità di fronte a paesi che, a parità di altre circostanze, ne fossero liberi; ma siccome la maggior parte dei probabili concorrenti è soggetta a gravami consimili, ecco che la difficoltà è ridotta al minimo. Tuttavia, i valori sono essenzialmente determinati da considerazioni di concorrenza interna, e sebbene un onere differenziale sul possesso di capitali senza un onere corrispondente sui guadagni di lavoro potrebbe alterare le loro posizioni rispettive, il fatto che l’onere è equamente distribuito su entrambi le classi senza possibilità di evasione, lascia immutati i valori rispettivi. Tuttavia i valori nel loro insieme potrebbero mutare relativamente all’intermediario generale dei prezzi, l’oro; ma, anche qui le agevolazioni creditizie hanno un giuoco tanto maggiore sui risultati che una depressione nei valori potrebbe essere facilmente compensata da un sistema creditizio meglio sviluppato. Tutto sommato, appare probabile che qualsiasi effetto di un debito antico, simile per carattere ed identità a quelli generalmente esistenti, agirebbe, se pure potesse esistere, nel senso di deprimere i valori, ma certo non in proporzione del debito in questione. È perciò un duplicare quasi interamente i valori, aggiungere il valore dei debiti consolidati al pieno valore della proprietà nazionale» (in British Income and Property, pp. 390-391).

 

 

Un’ulteriore considerazione induce lo Stamp ad aggiungere,

 

 

«che i consolidati sono un’ipoteca sui redditi guadagnati oltre che sui redditi non guadagnati, entrambi essendo soggetti ad imposta allo scopo di servire l’interesse sui debiti pubblici».

 

 

Perciò, se includiamo l’intero debito pubblico nella valutazione della ricchezza nazionale, sarà soltanto

«necessario ridurre la valutazione della proprietà nella proporzione dei consolidati il cui servizio è a carico della proprietà medesima, invece che del debito tutto quanto» (ibidem, p. 391).

 

 

Il professor Corrado Gini non fa la distinzione netta dello Stamp fra le imposte[3] sul reddito guadagnato e quelle sul reddito non guadagnato; ma spiega meglio e prima (1914) dello Stamp il fondamento teoretico della tesi secondo la quale l’imposta interessi non causa un corrispondente abbassamento nella valutazione di tutte le altre voci della ricchezza nazionale. Pur accettando in generale la teoria dell’abbassamento, egli rileva che «solo nel caso in cui l’imposta colpisse in uguale misura tutte le categorie di patrimonio, e il mercato nazionale si potesse riguardare come un mercato chiuso, sarebbe da ammettere, secondo l’opinione corrente fra gli economisti, che i prezzi dei beni materiali non rimarrebbero alterati dall’imposta».

 

 

Sembra che al Gini non manchino sospetti sull’attendibilità della suddetta «opinione corrente», ma non vi si diffonde, e aggiunge semplicemente che

 

 

«la stessa quantità di denaro che, prima dell’imposta, comperava un patrimonio che dava un reddito x, comprerà, dopo dell’imposta, un patrimonio che dà un reddito , dove k è la frazione del reddito assorbito dall’imposta». (L’ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni, p. 17, note).

 

 

3. – La teoria corrente sull’azione reciproca fra le valutazioni del debito pubblico, le altre voci della ricchezza nazionale e la ricchezza nazionale totale si può così riassumere:

 

 

1)    L’esistenza di titoli del debito pubblico è, in generale, la causa di una diminuzione nella valutazione di quelle altre voci della ricchezza nazionale, il cui reddito viene diminuito da imposte conseguenti al pagamento di un interesse sul debito pubblico (Giffen).

 

2)    Non avverrà ribasso alcuno, tuttavia, nella valutazione di altre voci, nel caso in cui il debito sia contratto per scopi economicamente produttivi;

 

3)    né quando l’imposta sull’interesse sia equamente distribuita su tutte le fonti di reddito, sicché non venga causato spostamento di capitali o di risparmi, nè venga incoraggiata importazione di capitali all’estero. In questo caso, essendo il mercato nazionale chiuso, la riduzione del reddito dopo l’imposizione non equivale a una riduzione nella valutazione dei capitali (Gini, Stamp).

 

4)    Perciò, l’inclusione del debito pubblico nelle valutazioni statistiche della ricchezza nazionale è consentita solo nei limiti in cui l’imposta interessi causa un ribasso totale o parziale nella valutazione del capitale di altre voci del reddito e in proporzione al ribasso medesimo;

 

5)    ed è inoltre consentita soltanto per quella parte del debito pubblico il cui servizio d’interesse è a carico della quota capitalizzabile del reddito nazionale, cioè del reddito non guadagnato, escluso il reddito guadagnato (Stamp).

 

 

4. – Ad apprezzare pienamente l’utilità della teoria ora esposta ai fini della misurazione statistica della ricchezza nazionale si richiede un’analisi ulteriore. Dobbiamo cominciare distinguendo fra debito contratto per scopi economicamente produttivi e quello contratto per scopi generali.

 

 

Se uno stato o qualunque corpo pubblico s’indebita per scopi economicamente produttivi, non sorge un problema di valutazione. Le ferrovie di stato danno un reddito netto per lo meno uguale all’interesse pagato sulle obbligazioni delle ferrovie di stato medesime? Il valore di questa branca fisica di ricchezza (ferrovie) è quindi l’intero valore, e cioè la capitalizzazione in 1.000 milioni di lire al saggio corrente d’interesse, diciamo il 5%, dei 50 milioni di lire di reddito netto. Se lo includiamo nella nostra valutazione della ricchezza nazionale, non è necessario includere il valore corrente degli 800 milioni di obbligazioni al 5% emesse per costruire la rete delle ferrovie di stato. Se, d’altra parte, includiamo gli 800 milioni di obbligazioni nella valutazione della ricchezza privata, dobbiamo valutare a 200 milioni di lire la capitalizzazione dei profitti differenziali derivanti al pubblico erario dalla gestione delle ferrovie di stato.

 

 

Il profitto differenziale può essere dovuto non all’efficace funzionamento industriale delle ferrovie, né a un semplice elemento monopolistico, ma al monopolio rinforzato garantito dallo stato. Il reddito monopolistico di 10 milioni di lire è perciò un’imposta sul trasporto di merci e passeggeri; e, come tale, non va capitalizzata, tranne che nel caso in cui, in contemplazione di esso siano state emesse obbligazioni. Le obbligazioni devono allora essere stimate parte del debito generale dello stato.

 

 

Se le ferrovie dello stato vengono gestite con perdita, dando soltanto un reddito netto di 30 milioni contro una spesa d’interesse di 40 milioni su 800 milioni di obbligazioni, noi dobbiamo includere nella valutazione soltanto la capitalizzazione in 600 milioni al saggio corrente d’interesse del 5% del reddito netto delle ferrovie. Quanto alla differenza di 200 milioni fra la valutazione delle ferrovie in 600 milioni e la valutazione delle obbligazioni di stato in 800 milioni, essa partecipa della natura di un debito generale non produttivo economicamente. Essa fa carico al fondo generale delle imposte; e dovrà esservi o no incluso secondo la soluzione data al problema dell’inclusione del debito generale.

 

 

5. – Il caso del debito generale è di gran lunga il più importante, dato che i debiti di stato sono essenzialmente contratti in conseguenze di guerre, di disavanzi generali del bilancio, di opere pubbliche (bonifica di terre, rimboschimento, ferrovie, piani regolatori, ecc.) che sono improduttive o soltanto parzialmente produttive al diretto punto di vista economico.

 

 

Due principali questioni vanno qui analizzate: è l’inclusione del debito pubblico una doppia registrazione rispetto al reddito capitalizzabile (chiamato, in Gran Bretagna, reddito non guadagnato) e quale è la logica dell’inclusione rispetto al reddito non capitalizzabile (cosidetto reddito guadagnato)?

 

 

6. – Anzitutto, il problema del doppio conteggio rispetto al reddito capitalizzabile. L’inclusione dei titoli di consolidato e di altre obbligazioni di stato, non fa, secondo un gruppo di teorici doppio con la registrazione dei terreni delle case e delle altre voci della ricchezza nazionale. Infatti, se il miliardo di lire del debito di stato non esistesse, non esisterebbe nemmeno l’imposta annuale di 50 milioni necessaria per il pagamento dei relativi interessi. Perciò, se supponiamo che il debito di un miliardo sia la parte del debito pubblico totale che è imputabile al reddito capitalizzabile, terreni case e altre voci della ricchezza frutterebbero 50 milioni di reddito netto in più se il debito non, esistesse e sarebbero valutati 1 miliardo di più. Questa ricchezza di un miliardo è qualcosa di reale ed esistente; e se non la vediamo sotto forma di valor capitale di terreni, ecc., dobbiamo tenerne conto sotto forma di obbligazioni del debito di stato.

 

 

Le imposte per il servizio del debito, risponde l’altro gruppo di teorici, sono ben lungi dal ridurre i valori capitali dei terreni delle case, ecc., tassati. Quelli che pagano le imposte non possono, essendo l’imposta generale, spostare i loro investimenti in campi non tassati. E nemmeno di solito possono mandare all’estero il loro capitale: poichè soltanto la confisca riesce a scacciare il capitale da un paese. Gli investitori si abituano a minori saggi di investimento: al 4 invece del 5%. I valori capitali dei terreni, delle case, ecc., non decrescono. L’inclusione dei debiti di stato, garantiti sugli immutati valori capitali della ricchezza privata, sarebbe certo una doppia registrazione.

 

 

Questa controversia ci porta in regioni alquanto nebbiose, che gli statistici, in quanto tali, non sono chiamati ad esplorare. Il problema, se l’incremento del debito pubblico cagioni una variazione nelle valutazioni di mercato della ricchezza privata è certo un elegante problema teorico. La sua soluzione dipende dalla soluzione del quesito, se l’imposizione in generale e l’imposizione allo scopo speciale di provvedere al servizio del debito pubblico producano un mutamento nell’interesse netto o saggio di capitalizzazione. È mia opinione[4] che, in teoria pura, l’imposizione in generale deve essere la causa di un abbassamento nel saggio d’interesse e che, anche nel caso di un debito di guerra, le probabilità sono più favorevoli a un abbassamento che a un rialzo di questo saggio. Tuttavia ritengo che questa ricerca non sia concludente dal punto di vista statistico. Non si chiede agli statistici di fare valutazioni sul mondo quale dovrebbe essere o diverso da ciò che è in realtà, ma di registrare ed elaborare valutazioni fatte nel mondo reale in cui viviamo. Lo studio delle premesse o delle possibilità non spetta allo statistico, ma all’economista, al sociologo o al politico. Qualunque mutamento nel saggio d’interesse consegua alla creazione del debito di stato o, meglio, alla spesa del ricavo del prestito, la norma di valutazione è la medesima. Muta soltanto il risultato della valutazione.

 

 

Supponiamo che la valutazione anteguerra della ricchezza nazionale sia di 1 miliardo, capitalizzazione, al 5%, di un reddito perpetuo annualmente capitalizzabile di 50 milioni. Viene dichiarata una guerra, che provoca una spesa di 10 milioni all’anno per quattro anni, a carico di questo reddito capitalizzabile.[5] Supponiamo che lo stato abbia raccolto i 40 milioni per mezzo di prestito prelevato sui risparmi annuali del paese e li abbia spesi totalmente per la condotta della guerra, cioè per uno scopo non (economicamente) remunerativo. Certo, il paese è più povero, per l’ammontare di 40 milioni, di quel che sarebbe stato se non vi fosse stata guerra. Ma la stessa somma potrebbe essere stata spesa in qualche rovinoso capriccio, e gli statistici non l’avrebbero ugualmente trovata alla fine della guerra. L’unico loro compito è valutare i terreni, le case, le obbligazioni statali, ecc. rimasti alla fine della guerra. Tre congetture principali sono possibili: 1. il flusso del reddito capitalizzabile non è mutato e perciò, se le altre circostanze sono immutate, anche il saggio d’interesse è immutato; 2. il flusso è aumentato, e il saggio d’interesse probabilmente diminuito; 3. il flusso è diminuito e il saggio d’interesse probabilmente aumentato. Che un aumento nel flusso del reddito annuale si accompagni solitamente con un abbassamento del saggio d’interesse e viceversa, si può senz’altro accettare. Delle relative probabilità di verifica di queste tre congetture io non devo qui occuparmi. Possiamo descrivere il risultato nel modo seguente (in milioni di lire):

 

 

 

 

 

Valutazione nell’anteguerra

 

Valutazione nel dopoguerra

 

 

immutata

mutata in meglio

mutata in peggio

 

Saggio di interesse 5 5 4 6
Flusso del reddito annuo pagato come imposta interessi, attraverso lo stato, ai possessori dei 40 milioni di lire di titoli di debito pubblico 2 1,60 2,40
Residuo rimasto ai contribuenti

50

48

52,40

45,60

Totale …

50 50 54 48
Valore capitale del reddito annuo dei titoli di debito pubblico 40 40 40
delle altre voci della ricchezza nazionale

 

1.000

960

1.310

760

Totale …

1.000 1.000 1.350 800

 

 

I risultati sono notevolmente diversi, secondo le diverse congetture fatte. Certo la guerra può avere effetti disparatissimi secondo gli scopi cui mira, i risultati ottenuti e le reazioni psicologiche sulle classi sociali, sullo spirito d’intrapresa, ecc. Non dobbiamo dimenticare che la nostra non è una ricerca storica nè morale nè economica ma soltanto statistica. La ricchezza nazionale totale può essere rimasta immutata al miliardo o essere salita a 1.350 milioni o diminuita a 800. Possiamo rallegrarci o desolarci di questo risultato, ma usciremmo dal nostro argomento. Il nostro unico compito è di valutare esattamente a quanto ammonti la ricchezza esistente.

 

 

Sarebbe senza dubbio un errore omettere le obbligazioni statali in 40 milioni, quando la ricchezza totale è immutata in 1 miliardo, perché l’esclusione farebbe apparire la ricchezza valutata a soli 960 milioni. Ma sarebbe ugualmente un errore ometterle quando, per ragioni varie connesse o non con la guerra, la ricchezza privata salisse a 1.350 milioni. Per quali ragioni misteriose noi dovremmo capitalizzare soltanto una parte di tutti i 54 milioni del totale reddito nazionale annuo? Che faremmo nel caso di un abbassamento nella valutazione totale? Nostro compito è usare in ogni caso la stessa norma e tener conto dei fatti accertati. Se il flusso annuo di reddito capitalizzabile è di 50, 54 o 48 milioni e se il saggio d’interesse è del 5, 4 o 6%, questi sono i dati dai quali dobbiamo partire. Il valore capitalizzato totale è di 1 miliardo, 1.350 o 800 milioni, divisi, in ciascun caso, in due parti: la prima, proprietà di certi cittadini e capitalizzata sotto forma di terreni, case, navi, negozi, ecc., la seconda, proprietà di altri o dei medesimi cittadini e capitalizzata sotto forma di obbligazioni statali. In ciascun caso, dobbiamo includere queste ultime se non vogliamo lasciare un vuoto nella valutazione. Dobbiamo lasciare ad altri, o a noi stessi in altra veste, qualsiasi ricerca sulla filosofia del perché e del come dei possibili mutamenti nella valutazione e distribuzione della ricchezza nazionale in conseguenza della guerra.

 

 

7. – In secondo luogo, dovremmo includere nella valutazione della ricchezza nazionale quella parte del debito di stato il cui servizio d’interesse grava sul reddito non capitalizzabile? Qui il problema non è di doppia registrazione o di vuoto nella valutazione della ricchezza nazionale; ma di mutamento nei metodi di valutazione. Negli anni anteguerra il reddito non capitalizzabile (guadagnato o di lavoro) percepito dai salariati, stipendiati, professionisti, ecclesiastici, scrittori, artisti, industriali, commercianti, direttori di ditte ecc., come remunerazione per il lavoro manuale o intellettuale compiuto, ammontava, diciamo, a 200 milioni di lire italiane. Il mercato non capitalizzava questo reddito; sicché nessuna voce appariva a rappresentarlo nella valutazione della ricchezza nazionale. Poi, durante i quattro anni di guerra, lo stato contrasse oltre quello dei 10 milioni annui di cui si discorse sopra, un ulteriore debito annuo di 40 milioni per un totale di 160 milioni, al cui servizio d’interesse provvedono imposte gravanti su redditi non capitalizzabili. Quali che siano il saggio d’interesse e l’ammontare dell’imposta, è nata una nuova voce capitale, titoli di debito pubblico consolidato, o altre obbligazioni statali, qualcosa come 160 milioni. Le obbligazioni sono negoziabili e vengono considerate dai possessori come una ricchezza, ricchezza autentica, non diversa, per nessun rispetto, dai 40 milioni delle medesime obbligazioni garantite da imposte sul reddito capitalizzabile. Dovranno i 160 milioni venir inclusi nella valutazione della ricchezza nazionale?

 

 

La difficoltà di separare il totale debito di 200 milioni nelle due quote di 40 e 160 milioni rispettivamente a carico del reddito capitalizzabile e non capitalizzabile non ci deve imbarazzare, perché un’empirica divisione proporzionale al carico approssimativo di imposizione generale sulle due specie di reddito sarebbe normalmente sufficiente agli effetti statistici. Ciò che veramente si può obbiettare all’inclusione è che essa renderebbe impossibile ogni confronto storico e internazionale delle valutazioni della ricchezza nazionale.

 

 

Da quando è stata abolita la schiavitù non usa di solito capitalizzare nè gli uomini nè i loro redditi personali o di lavoro. Un debito pubblico gravante sui redditi non capitalizzabili o di lavoro introdurrebbe surrettiziamente nelle valutazioni statistiche della ricchezza nazionale una nuova voce, che sarebbe una valutazione capitale dell’uomo travestita. O noi dobbiamo valutare gli uomini in tutti i tempi o in tutti i paesi, e allora ci tocca includere quella parte del debito pubblico, il cui servizio di interessi è garantito sul lavoro o sul reddito guadagnato, perché le obbligazioni statali sono parte del totale valore attuale, attuariamente calcolato, degli uomini – tanto maggiore è il debito pubblico, tanto minore è il valore attuariale dei futuri redditi, scontati al momento attuale, del lavoro libero da imposte – oppure riconosciamo l’inopportunità di calcolare i valori dell’uomo su criteri ipotetici e largamente arbitrari, e dobbiamo per amore della simmetria e del confronto escludere dalle valutazioni della ricchezza nazionale quella parte del debito pubblico che è una capitalizzazione della capacità dell’uomo di pagare le imposte.

 

 

8. – Sin qui, va bene. La conclusione è davvero un commovente omaggio alla religione della simmetria nelle ricerche statistiche. È assai dubbio però se la simmetria e il confronto sono gli unici criteri e fini della statistica. Gli statistici che si occupano di misurare soltanto la ricchezza materiale, escludendo i lavori umani, hanno ragione di escludere dalle loro valutazioni la parte del debito pubblico il cui servizio di interessi è garantito da imposte su redditi non capitalizzabili. Non dobbiamo tuttavia chiudere gli occhi al fatto che simili valutazioni sono insensatamente arbitrarie. La loro giustificazione ultima è il desiderio d’includere soltanto quelle voci materiali di valori capitali, come i terreni, le case, i negozi, le ferrovie, le navi, ecc., che si possono ritenere gli autentici valori di mercato dei componenti capitalistici del reddito nazionale, esclusa qualunque capitalizzazione dei componenti personali del medesimo reddito. L’intento, per quanto lodevole, è utopistico. I componenti personali e capitalistici del reddito nazionale sono così inestricabilmente intrecciati da riuscire sovente indistinguibili. Inoltre, siamo poi sicuri che il mercato – dobbiamo scendere in definitiva alle valutazioni del mercato per sentirci su terreno solido – apprezzi sempre soprattutto i componenti capitalistici del reddito nazionale? O non piuttosto la continuità e la certezza del flusso del reddito futuro? Il valore capitale di terreni, case, azioni, obbligazioni a interesse fisso, è il risultato delle valutazioni che il mercato fa dei fattori immateriali, oltre che materiali, della produzione della ricchezza. I valori capitali di voci apparentemente del tutto materiali fluttuano secondo i mutamenti della politica, dei desideri e degli usi umani, della abilità dei proprietari, della struttura sociale. La cosidetta sopravalutazione della terra in paesi o regioni a piccola proprietà, non è un risultato di un maggiore reddito lordo o netto, ma di una speciale struttura sociale che rende gli uomini avidi di piccoli appezzamenti di terra. I capricci della moda producono spesso alti e bassi nei valori capitali dei beni urbani nei quartieri residenziali o mercantili.

 

 

9. – Il debito di stato non è che uno dei molti espedienti inventati dall’uomo allo scopo di dare continuità e certezza a redditi che hanno indole personale e quindi effimera. Non si capitalizzano di solito i salari dei funzionari o impiegati pubblici o privati, né gli onorari dei professionisti, perché la loro esistenza dipende dalla vita dell’individuo, ed anzi dalla loro vita produttiva. Salari e onorari sono inseparabili dall’uomo, e l’uomo non è una voce negoziabile della ricchezza. Ma se lo stato preleva da salari e onorari una data quota e la trasforma in imposta e poi in interessi del debito pubblico, questa parte diviene quasi perpetua. È pagabile dall’individuo in vita, e poi dai suoi successori nella professione, nella carriera, negli impieghi pubblici o privati. Acquista un’esistenza separata, continua media e certa. Diventa un reddito capitalizzabile. Quando un negoziante fortunato capitalizza il suo avviamento, emettendo azioni od obbligazioni, le quali traggono valore esclusivamente dal complesso personale detto avviamento, egli cerca similmente di convertire un reddito personale non capitalizzato in un altro capitalizzabile, e facilmente negoziabile. La vita economica è piena di sfumature, sia materiali che spirituali, che presentano uno straordinario interesse allo studio. L’intento del confronto non è che uno fra i molti intenti statistici; e disgraziatamente, è assai ingannevole. Più interessante è forse un altro scopo: lo studio del grande processo col quale sempre più numerose voci della ricchezza divengono misurabili, mentre altre cadono nell’oscurità. L’uomo, quand’era uno schiavo, era un essere negoziabile, e si può dire che la schiavitù sia stata sotto qualche rispetto un paradiso per lo statistico. La libertà dell’uomo significò la chiusura di parte delle riserve di caccia della statistica.

 

 

Nuovi o nuovamente ingranditi sistemi finanziari cospirano ad ingrandire nuovamente, in modo più sfuggente ma interessantissimo, il territorio statistico. La progressiva conquista che la valutazione del mercato ha fatto di campi di reddito che parevano chiusi alla capitalizzazione, significa per lo statistico qualcosa di più che un ostacolo a confronti storici. Significa la possibilità d’investigare molti sottili espedienti per cui le fatiche e le capacità personali sono mobilitate, capitalizzate, rese negoziabili e prestabili. L’uomo che paga sul suo stipendio un’imposta annua di 500 lire per servire l’interesse sulla quota a lui spettante del debito pubblico, ricomprando la medesima quota al prezzo di 10.000 lire, diventa, si può dire, padrone di se stesso fino a concorrenza di 10.000 lire, sotto forma di un pezzo di carta chiamato consolidato od obbligazione di stato. Se ha bisogno di credito, può impegnare se stesso depositando le 10.000 lire di consolidato come garanzia sussidiaria per un prestito. In teoria pura, egli si chiude in prigione; e la prigione è la cassaforte di una banca. Ma intanto egli è libero di pensare ai suoi affari, ai congiunti e agli amici. Nessuno sospetta che egli sia un prigioniero. Una piramide di depositi e crediti bancari si crea sulla base dell’originaria capitalizzazione, attraverso all’imposta e al debito pubblico, dell’uomo. Non è forse questa una nuova promettente riserva di caccia per gli statistici?



[1] Cfr. sopra il saggio VI.

[2] Fin qui il riassunto italiano presentato, insieme con la nota, dell’autore alla sessione di Londra dell’Istituto internazionale di statistica. Segue il testo tradotto dall’originale inglese. Nella versione, le cifre, del resto ipotetiche, espresse nel testo originale in lire sterline, furono ridotte a lire italiane.

[3] Naturalmente noi ci occupiamo qui soltanto di quelle imposte che furono create in servizio del debito pubblico; le quali imposte chiameremo d’ora innanzi, per brevità imposte interessi.

[4] Cfr. Osservazioni critiche ecc. riprodotte come secondo saggio del presente volume.

[5] La guerra costa inoltre una somma di quaranta milioni, tratti annualmente anche essi dai risparmi annuali; ma di questi ci occuperemo dopo, poiché sono un carico sul reddito di lavoro (guadagnato), non capitalizzabile.

Intorno alla teoria della produttività dell’imposta. Considerazioni metodologiche

Intorno alla teoria della produttività dell’imposta. Considerazioni metodologiche

«Giornale degli economisti e rivista di statistica», novembre 1934, pp. 794-797

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 273-279

 

 

 

 

Non intendo in queste poche pagine scritte in omaggio ad Ulisse Gobbi discutere di alcun problema di sostanza, ma illustrare qualche errore di logica nella impostazione di problemi economici. Negli scritti del Gobbi ho sempre e sovratutto ammirato la spontaneità con la quale egli in brevissima proposizione annulla fatiche lungamente durate da altri nel costruire teorie mancanti di qualcuno degli anelli necessari per la concatenazione logica del ragionamento. Egli scorge immediatamente il difetto e col mero accenno all’anello mancante ruina l’edificio. Virtù del loico, si può dire, e non dell’economista. A torto od a ragione, penso che l’economica sia un ramo della logica applicata ad un particolare subietto. Grossi libri, che gli autori immaginano avere scritto attorno a cose economiche, non hanno con l’economica nessuna parentela, perché mancanti di logica. Talune brevi note presentate da Gobbi all’Istituto lombardo di scienze e lettere, contengono, perché logiche, più sostanza economica di quegli sterminati scritti.

 

 

Si discute del vecchio problema, che per brevità dirò del carattere produttivo delle spese pubbliche o dell’azione produttiva economica dello stato? A negare o limitare il valore delle teorie le quali assegnano efficacia produttiva o di accrescimento della ricchezza nazionale alla spesa pubblica ed all’azione condotta dallo stato attraverso quella spesa si enunciano proposizioni del tipo seguente:

 

 

1. Quella qualunque teoria è inconsistente perché non è statisticamente possibile determinare quale parte dell’aumento (o eventualmente della diminuzione) del capitale e del reddito dei singoli sia conseguenza delle spese dello stato e quale del loro lavoro e delle loro iniziative.

 

 

Come se la proposizione non potesse, invertita, scriversi così: una teoria la quale attribuisca al lavoro ed all’iniziativa dei singoli un merito produttivo sarebbe inconsistente perché non è statisticamente possibile determinare quale parte dell’aumento (o eventualmente della diminuzione) del capitale e del reddito dei singoli sia conseguenza del loro lavoro e della loro iniziativa e quale delle spese dello stato. È pacifico che «statisticamente» non si prova né l’una né l’altra delle due proposizioni; ma la loro eventuale validità non deriva da prove statistiche, ma da ragionamenti ben costruiti, corroborati, se possibile, da osservazioni storiche e statistiche.

 

 

2. – Una teoria la quale dia peso alla produttività delle spese pubbliche è soggetta, al limite, alla critica seguente: può darsi che una nazione, grazie alla attività dei suoi abitanti si arricchisca con un governo che spende troppo poco o malamente ed inversamente può darsi che un’altra nazione per effetto della pigrizia e degli eccessivi consumi dei privati si impoverisca malgrado che lo stato faccia un’ottima politica della spesa.

 

 

Della verità o virtù della dottrina cristiana non si dà giudizio segnalando i vizi della corte romana all’epoca della riforma. Anzi, – dichiaravano a ragione gli scrittori cattolici – i vizi dei papi, se veri e ripetuti, proverebbero viemmeglio la verità dell’insegnamento di Cristo sopravvissuto al malo esempio dei suoi seguaci. L’azione ottima dello stato può essere, per fermo, annullata dall’ignavia degli abitanti; ed inversamente. Ma quanto più il paese sarebbe andato a fondo se all’ignavia degli abitanti si fosse aggiunta la mala condotta dei governi. Nessuna luce viene, per sé, anche qui, dalla osservazione storica o statistica. Né verrà mai, essendo assurdo che la mera osservazione risponda a quesiti concernenti l’operare congiunto di fattori complessi. Risponde, di nuovo, il ragionamento, a cui la osservazione serve da riprova.

 

 

3. – L’ordinamento dello stato è una delle condizioni e circostanze che esercitano una influenza favorevole sulla economia nazionale (A). Le condizioni o circostanze che esercitano una influenza favorevole sulla economia nazionale appartengono alla categoria dei capitali immateriali (B).

 

 

Dunque lo stato è il più grande capitale immateriale di una nazione (C).

 

 

Non esistono però capitali immateriali; ma solo capitali materiali o prestazioni di lavoro (D).

 

 

Lo stato non è un capitale immateriale perché questi non esistono; e non è neppure un capitale materiale, essendo qualcosa di differente e di più di un prodotto economico (E).

 

 

La proposizione B è una mera definizione e la C una illazione da essa. Ogni definizione è arbitraria e per se medesima incapace di nulla provare. Se esistano o non esistano capitali immateriali (D), se sia o non sia lo stato un capitale materiale, od invece qualcosa di più o di meno di un prodotto economico (E), possono essere problemi interessanti o semplicemente divertenti. Certo, sono estranei al problema; il quale è: lo stato, concepito come stato, coi fini suoi proprii e coi modi di agire ad esso pertinenti e chiaramente diversi dai modi di agire dei noti personaggi economici è o non è una delle condizioni o circostanze le quali esercitano una influenza sulla economia nazionale? Questo è il vero problema; non gli altri, del come chiamarlo o paragonarlo o classificarlo, i quali invece sono aggeggi atti a fornire senza termine argomento a dissertazioni concorsuali ed accademiche.

 

 

4. – È implicito in una delle teorie le quali affermavano la produttività delle spese dello stato il concetto che questa produttività sia sempre superiore a quella delle imprese private (A).

 

 

Ma ciò non è vero, come troppi numerosi esempi di imprese pubbliche male condotte e passive hanno dimostrato e dimostrano (B).

 

 

Certamente la proposizione A è erronea; ma non in virtù della B. La B è proposizione empirica: esistono imprese pubbliche male condotte e sono condotte male anche moltissime imprese private. Argomentare dall’uno o dall’altro esempio per dimostrare la superiorità delle imprese private o pubbliche è evidente sofisma; ché il problema è di limiti, non di sostituzione intiera dell’un tipo all’altro di impresa.

 

 

Doveva dirsi che la A è la forma ingenua della dottrina della produttività delle spese pubbliche; ed essere ovvio che i primi formulatori cadessero in peccato di entusiasmo. Compito dello storico è di estrarre il vero essenziale, se esiste, trascurando il caduco. È malvezzo condannabile attaccarsi a qualche improprietà dei classici per parere dappiù di essi. Pareto sminuì la propria grandezza applicando l’attributo di «errate» alle teorie che egli perfezionava; Marshall e Pantaleoni crebbero la loro coll’usanza contraria.

 

 

5. – Una teoria, ad esempio quella del De Viti, immagina schemi astratti – i ben noti di stato monopolista o di stato cooperativo – per studiare il comportamento finanziario dello stato nelle due situazioni supposte?

 

 

Si obbietta: il fenomeno finanziario è invece regolato da principii ad esso estrinseci, e cioè dagli stessi principii politici giuridici morali religiosi che in ogni periodo storico prevalgono in una società e specialmente nelle sue classi dirigenti.

 

 

Tizio studia la calata di Carlo VIII in Italia. Si obbietta:

 

 

Cristoforo Colombo in quel torno di tempo scopriva l’America; e questa si deve studiare.

 

 

Caio indaga sapientemente la traslazione dell’imposta. In un concorso lo bocciano perché non ha studiato il diritto comparato in tema di doppia tassazione.

 

 

Quando mai si finirà di affermare che una teoria è sbagliata perché non si occupa de omni scibili, perché ha delimitato esattamente il proprio campo, perché ha dato prova di aver compreso che la ricerca scientifica sottostà ad un minimo di esigenza: ragionare entro i limiti delle fatte premesse? Forse mai. L’indagatore tenta di appagare la brama di conoscere il vero, sostituendo alla premessa altrui, a ragione reputata inadeguata, una propria che si giudica migliore. Se Tizio analizza la premessa propria, estraendone tutte le verità in essa implicite, fa opera feconda. Se e poiché egli si affanna invece a dimostrare che la premessa altrui è inadeguata, Tizio non fa avanzare d’un passo la scienza. Ognuno deve sapere che qualsiasi premessa è inadeguata e che qualsiasi teoria da essa dedotta è irreale. È implicito in tutti i libri della scienza economica, da Cantillon in poi; è dichiarato in tutte le trattazioni sul metodo, da Senior a Cairnes, da Menger a Sidgwick, da Cossa a Berardi, da Keynes (padre) a Robbins, che la scienza economica studia una parte sola della realtà, quella contenuta in una o più premesse semplificate. La esperienza di due secoli ha dimostrato che questa è la via meno incerta, se pur più lunga, di conoscere la realtà. A ripetere queste verità non v’ha altro merito, se non quello di copiare cose lette in giovinezza, adattandole alla stupefazione provata nel vederle misconosciute e, se ripetute, talvolta reputate nuove. La stupefazione tuttavia vien meno riflettendo quanto sia viva, ed umanamente viva, l’ansia di abbracciare d’un colpo con occhio d’aquila tutta la realtà. Pochi economisti osano confessare a se stessi di appartenere ad una compagnia, di tra la quale sinora nessun veggente è sorto capace di tanta potenza di visione.

Prime linee di una teoria dei doppioni

Prime linee di una teoria dei doppioni

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1934, pp. 255-264

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 93-101

Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 225-235

 

 

 

 

“Doppioni” e “triploni” sono parole di aver recato in uso le quali il merito spetta in Italia, a quanto io ricordo, a Luigi Luzzatti; e che stanno ritornando di moda in relazione ai piani un po’ dappertutto messi innanzi nei mondo per razionalizzare e disciplinare la produzione. Pare irragionevole che laddove bastano dieci imprese a soddisfare la domanda corrente sul mercato, se ne impiantino dodici col solo risultato di crescere le spese generali, aumentare i costi e ribassare i prezzi; e si osserva che evidentemente i creatori della undicesima e dodicesima ebbero per iscopo non di esercitare sul serio industria, ma di ricattare i più vecchi industriali e farsi comprare con profitto. Sicché il divieto preventivo della mala pratica riscuote plauso. Sembra parimenti irragionevole che, se un’impresa risulta dalla fusione di due o più imprese precedenti, l’imprenditore continui a lasciar produrre ed offrire sul mercato gli stessi tipi di merce da ognuna di esse. Probabilmente potrà convenire di chiudere quello degli stabilimenti, il quale lavori a costi troppo elevati e specializzare i rimasti, sicché ognuno si dedichi alla produzione della merce o del tipo, per cui il suo costo sia minimo. Né ve sostanziale differenza se, invece di piena proprietà da parte dell’imprenditore, la maggioranza del capitale o la quota, il cui voto è decisivo, sia posseduta o soggetta al controllo di un unico gruppo finanziario o consorzio o banca od ente creditizio. Il dirigente ha interesse ad evitare i doppioni, ad eliminare le imprese, giuridicamente autonome ed economicamente collegate, le quali per i costi troppo alti sono un peso, ed a distribuire il lavoro in guisa che ogni intrapresa attenda solo alla produzione di quei beni economici nella quale essa eccella in confronto alle altre. Pare ragionevole altresì che le merci prodotte, se uguali, non siano poste sul mercato dalle diverse imprese con metodi di concorrenza, con offerte a prezzi calanti in mercato calante, si da danneggiare l’unico proprietario; ma che questi ne regoli lo smercio, sicché esso abbia luogo col suo massimo vantaggio.

 

 

L’evidenza delle considerazioni ora fatte, pur essendo sempre ovvia, non impressiona se si tratti della migliore utilizzazione di capitali del valore di qualche milione o anche di qualche decina di milioni di lire, e gli interessi in gioco paiano perciò privati. Ma se si tratti di centinaia di milioni o di miliardi di lire, se sia in gioco la sorte di migliaia o di decine di migliaia di azionisti creditori impiegati ed operai, gli interessi son così vasti e numerosi da attirare l’attenzione pubblica. Centinaia o migliaia di altre intraprese veggono la loro sorte volgere lieta od avversa a seconda che quel complesso importante segua una condotta razionale o sbagliata. Se poi non si tratti di unità di miliardi, ma il gruppo disponga di impianti ed investimenti così vari e vistosi da toccare i dieci, i dodici, e fino i quindici miliardi di lire, ecco il problema del diritto all’esistenza di tutte le imprese appartenenti al gruppo essere universalmente considerato di interesse nazionale.

 

 

Se la parola è divulgata, non appare agevolmente definibile il contenuto del problema che la parola fa sorgere. Quali sono i connotati necessari e sufficienti del “doppione” economico?

 

 

Non pare che tra i connotati, s’intende “necessari” e “sufficienti”, sia compreso il “numero” delle imprese le quali offrono una data merce su un dato mercato. Noi siamo abituati a concepire, per talune merci, a decine e a centinaia di migliaia e non di rado a milioni il numero delle imprese produttrici, senza che tal fatto provochi in noi il sorgere del concetto di doppione. Son milioni i produttori di frumento, di carne, di verdure, di vino; e nessuno parla di doppioni. Basta invece talvolta che un’impresa sola si ingrossi troppo, perché quel “troppo” assuma la stessa significazione del doppione.

 

 

Neppure si suole identificare il “doppione” col “nuovo”. Se il nuovo produttore è meglio attrezzato e produce a costi più bassi, duplonico sarà il vecchio e non il nuovo concorrente.

 

 

Neanche si può accusare di duplonismo colui il quale, con la sua condotta, provoca il ribasso dei prezzi. Se egli, a prezzi bassi, profitta, e qualcun’altro, venuto prima, forse assai tempo prima, è ridotto a perdere, costui e non il ribassatore duploneggia.

 

 

Si può assumere, ad indice dell’esistenza di doppioni, il fallimento o lo stato fallimentare di alcuni tra i produttori? Certamente no, se la proporzione dei decotti non eccede quella che l’esperienza dimostra essere normale in ragione della incapacità, inesperienza, improntitudine, mancanza di capitali propri, eccessivo indebitamento, ecc., ecc. di coloro che si avventurano ad esercitare mestieri a cui sono disadatti. La stolidità umana non è un difetto oggettivo di un qualsiasi meccanismo economico e produrrebbe malanni anche in un sistema nel quale, ad ipotesi, i doppioni fossero impensabili. chiaro altresì che il “normale” nei fallimenti variò dallo zero in tempo di guerra, ove chiunque aveva successo nell’industria poiché lo stato-cliente pagava prezzi uguali ai costi individuali, al dieci o venti per cento ad anno nei tempi di crisi nei quali gli uomini capaci ad adattar l’impresa ai nuovi rapporti di moneta, di prezzi, di costi, di mercati diventano una piccola percentuale del numero totale degli imprenditori. Sicché il doppione avrebbe come sintomo non il moltiplicarsi dei fallimenti, ma un certo moltiplicarsi oltre la proporzione normale. Il qual concetto quanto sia vago è facilmente chiaro a tutti, riducendosi ad una raccomandazione fatta allo studioso di indagare, il più sottilmente egli possa, le cause dei fallimenti delle imprese economiche.

 

 

Per lo più si collega la nozione del “doppione” con quella del “ricatto”, ossia con l’intenzione del fondatore della nuova impresa, più che di esercitarla sul serio, di farsi acquistare, con lucro suo, da coloro che nella medesima industria già tenevano il campo. Qui si può discutere dapprima come l’intenzione del ricattare si faccia manifesta; il presunto ricattatore ponendo evidentemente gran cura nel tener celata anzi nel negare la sua intenzione; e non solo nel negare, ma nel compiere ogni atto utile a dimostrare la serietà del proposito di attuare e continuare con impegno la impresa, sino al trionfo proprio ed alla rovina altrui. L’intenzione di ricattare rimane dunque nascosta, sino al momento ultimo in cui essa diventa perfetta, col fatto dell’avvenuta vendita della cosa sua da parte del duplonista. Ma allora il problema muta in quello di trovare la migliore utilizzazione da parte dei vecchi imprenditori dei nuovi acquistati impianti.

 

 

Giova, più che fare il processo alle intenzioni, analizzare le condizioni le quali consentono il vigoreggiare di quella particolar specie di ricatto che dicesi duplonismo. Non sembra frequente il ricatto duplonico in un mercato in cui sia operante la concorrenza ed i profitti dell’industria non siano superiori al frutto che dall’impiego del capitale e dell’ingegno organizzatore si può ottenere normalmente. Il duplonista – inteso nel senso di colui che inizia impresa allo scopo di venderla a chi si suppone abbia interesse ad ucciderla – non è uomo ordinario. Calcola la perdita altrui conseguente alla sua minaccia e questa deve essere tanto forte da consentire agli altri di pagargli un prezzo del silenzio superiore alle spese non recuperabili d’impianto da lui sostenute. Ma se i vecchi appena guadagnavano il profitto ordinario, il rischio della operazione per lui è troppo forte. Ed è troppo forte anche se oggi i profitti siano eccezionalmente elevati; ma il mercato sia aperto alla concorrenza dei capitali disponibili, e sia agevole prevedere che essi in tempo non lungo si ridurranno al normale. Il duplonista non è il volgare imitatore, il quale fa quello che gli altri fanno e si caccia in un’industria perché ne vede le attuali apparenze prospere; ma èchi specula ossia antivede per lo spazio del numero minimo di anni necessario per la riuscita della operazione comminatoria.

 

 

L’esistenza di un profitto ordinario o transeunte non basta dunque a legittimare l’avventura. Occorre qualcosa di più; ossia un profitto superiore al normale, la cui permanenza sia in una qualche misura garantita da fattori di mercato chiuso; ossia da qualcheduna delle trincee che gli imprenditori riescono a costruire attorno al proprio campo con dazi doganali, monopoli naturali o legali, limitazioni consortili e simili. Il duplonismo è un surrogato unilaterale della concorrenza là dove questa non può vivere od è morta. Il capitale e il lavoro tendono ovviamente ad affluire nei campi economici trincerati allo scopo di godere delle occasioni più favorevoli di salario o di profitto, che ivi si godono in confronto ai campi economici aperti; e se non vi si ponga rimedio, l’afflusso cessa solo quando il, saggio di profitto e di salario si sia ivi ridotto, per diluizione su una massa di capitale e di lavoro superiore al necessario, diluizione comunemente conosciuta sotto il nome di annacquamento, al livello corrente nei campi aperti, anzi al disotto, perché l’esistenza della trincea fa supporre a risparmiatori, lavoratori ed imprenditori di godere entro di essa maggior sicurezza di reddito, credenza che si sconta sempre con un reddito minore.

 

 

I rimedi contro il duplonismo ricattatorio possono essere diretti ed indiretti. Sono diretti quelli rivolti a vietare preventivamente ed a punire il sorgere di imprese duploniche. La scarsa esperienza in argomento non consente di trarre auspici sicuri per l’avvenire. Poiché l’impresa duplonica fiorisce ai margini dell’anormale economico, e poiché le imprese minacciate non possono, per ottenere difesa dallo stato contro la minaccia, addurre il vero motivo che è il timore di vedere ridotti i propri profitti al normale, esse debbono inventar pretesti di interesse generale. I quali essendo male fondati non consentono una difesa efficace.

 

 

Sono rimedi indiretti quelli i quali mirano alla radice del male; e poiché il duplonismo è figlio dei profitti anormali e questi di una qualche forma di trinceramento, il rimedio sta nei colmare e livellare la trincea. La via è traversa; ma, come accade spesso in economia, conduce più rapidamente e più sicuramente alla meta. La riduzione del dazio doganale, la abolizione di favori nelle gare pubbliche, l’esercizio rigoroso dei poteri normativi sui prezzi per le imprese esercenti servizi pubblici costringono le imprese esistenti a ridurre i prezzi e fanno ritornare i profitti al livello normale. Il duplonismo muore da sé, per mancanza del necessario alimento.

 

 

Talvolta la critica anti-duplonica è una mera formula ideologica di cui può essere opportuno servirsi per combattere contro chi nell’esercitare industria non cade sotto la sanzione giuridica contro il colpevole di concorrenza sleale (uso di mezzi giuridicamente illeciti) ma accortamente si giova di formule per sé corrette, ma non applicabili al caso specifico. Suppongasi che una impresa bisognosa della concessione pubblica, ad esempio, per derivazione di acqua per produzione di forza, od irrigazione, per trasporto automobilistico su vie ordinarie o su autostrade, per costruzione ed ampliamento di porti, sia riuscita ad ottenere la richiesta autorizzazione dai competenti corpi e consigli, i mutui di favore da parte di enti pubblici di credito contemplati dalle vigenti leggi, i sussidi, chilometrici o diversi, ammessi dalla legislazione o che ai corpi locali è consentito dare a promuovimento della industria locale. Quale via di resistenza è aperta alle imprese danneggiate dalla concorrenza della nuova impresa? Abbiano quelle imprese, per ipotesi, ragioni di dolersi della concorrenza perché, essendo esse capaci e sperimentalmente pronte ad esercitare gli stessi servizi a prezzi non più alti di quelli che seguirebbero al sorgere dell’impresa nuova, non si vede la ragion pubblica della concessione dei crediti di favore e dei sussidi pubblici. Tuttavia ad esse non è agevole ottenere: che l’autorizzazione all’esercizio non sia data, quando gli enti locali e le rappresentanze professionali per imponderabili ragioni sentimentali la chieggano; – che gli istituti pubblici di credito non concedano i contemplati mutui di favore: perché ai grossi si e ai piccoli no?; – che stato ed enti locali non concedano a Tizio il sussidio dato a Caio. Le imprese esistenti non hanno agevolezza di impostare la opposizione alla nuova impresa sui punti ora detti. Lo stato e gli enti pubblici possono opinare di dover concedere i favori di legge a tutti indistintamente e più ai piccoli e agli umili che ai grossi e ai potenti. Finché i fondi iscritti od iscrivendi in bilancio non siano esauriti, è difficile persuadere l’autorità competente ad attendere un momento futuro in cui di essi si possa fare miglior uso. Ad uno ad uno interpellati, ciascuno nei limiti della propria competenza, i corpi consultivi hanno dato parere favorevole. Soccorre invece all’uopo l’accusa di duplonismo. La nuova impresa deve essere espunta perché inutile doppione di quelle esistenti. Se ben si guarda, però, l’accusa è essa stessa un doppione. È la forma ideologicamente simpatica accettabile all’opinione pubblica di altre argomentazioni le quali purtroppo, per la repellente aridità propria dei ragionamenti obiettivi, non sono destinate a far presa sulla opinione medesima. Se i corpi competenti non concedessero autorizzazioni, se gli istituti di credito non facessero aperture di credito, se i sussidi fossero rifiutati in tutti quei casi nei quali non fosse dimostrato all’evidenza che il vantaggio della proposta impresa è almeno uguale ai sacrifici sofferti da altre imprese e dall’erario pubblico, il doppione non sorgerebbe. Nei casi nei quali non giovano le normali difese razionali contro gli investimenti anti economici, può darsi perciò sia utile l’intervento di una linea arretrata di difesa, ossia della legislazione antiduplonica.

 

 

Non è questo il solo caso in cui una formula ideologica di significato sostanzialmente vago e quasi inafferrabile giovi ad eliminare gli effetti eventualmente dannosi di altre ideologie. Suppongasi, e ciò accadde in quasi tutti i paesi del mondo, che la urgenza politica e sociale della crisi abbia condotto al salvataggio di un certo numero di imprese private e queste siano oggi dipendenti da qualche pubblico istituto, sicché i profitti e le perdite eventuali finiranno di cadere a vantaggio od a carico del pubblico erario. È ovvia la opportunità, anzi la necessità di eliminare le intraprese le quali, dopo un tempo di riorganizzazione più o meno lungo, siano irrimediabilmente passive, il che vuol dire incapaci a remunerare al saggio corrente il “nuovo” capitale che di anno in anno, per ammortamenti od ampliamenti, farà d’uopo investire. Qui la teoria della inutilità dei doppioni potrà giovare a sormontare le difficoltà derivanti dai timori di disoccupazione operaia e dalla resistenza dei dirigenti e degli interessi regionali e locali. Il peccato di duplonismo è facile ad intendersi, ha una forza di persuasione che argomentazioni più fondate ma più complesse non avrebbero. Come è possibile all’ente pubblico vendere a buone impresa A, quando l’acquirente sappia che l’ente conserva la proprietà della concorrente impresa B e tema che questa venda a prezzi inferiori ai suoi, grazie a facilitazioni di credito e di sussidi all’acquirente vietati? Se l’ente vuol vendere deve prima riorganizzare, eliminare i doppioni, rimettere in piedi i rimasti e sbarazzarsene ad un colpo.

 

 

Anche qui, se ben si rifletta, il pericolo non è nel doppione in sé o questo è mero sintomo esteriore di una più profonda malattia. Un ente od un gruppo può avere il controllo su imprese in cui sono investiti miliardi o decine di miliardi di lire di capitale, e parecchie tra le imprese controllate possono esercitare la medesima industria; e tuttavia non esistere doppioni. Se due, se dieci imprese del medesimo ramo coprono intieramente il costo intero o vi è ragion fondata di ritenere lo copriranno in futuro, coll’aggiunta dell’annualità occorrente per restituire le perdite passate, non vi è doppione. Potrebbe discutersi se la concentrazione in un numero minore cresce il rendimento dell’insieme; ma alla domanda è tanto difficile dare adeguata risposta, il rischio di cagionar, concentrando, perdita invece che aumento di profitti è tanto grande, che davvero conviene osservare il consiglio della prudenza di non cercare il meglio quando già si possiede il bene. Il duplonismo è, a ben guardare, solo una maniera rettorica e sotto certun rispetto più efficace di significare “perdita”. La quale, quando sia identificata, deve eliminarsi, se non si vuole che le mele mezze guastino le buone. Ma come conoscere l’esistenza di perdite? Il contadino che in montagna lavora dieci fazzoletti di terreno da lui definiti campi, si accorge in un paio di generazioni, al ritorno dal servizio militare od in occasione del rimpatrio estivo, di essere in perdita quando vede di dover impiegare trenta giornate di lavoro per produrre su quei fazzoletti quello stesso quintale di frumento che egli sa valere giù in fondo valle 100 lire ed ha nel portafoglio 100 lire da lui guadagnate in otto o dieci giorni di lavoro a salario. Di qui lo spopolamento della montagna; il quale altro non è se non abbandono di imprese in perdita a favore di imprese lucrative. I più degli imprenditori privati si accorgono di essere in perdita quando il loro capitale proprio è tutto immobilizzato, il conto corrente in banca è passivo e la banca chiede decurtazione del debito, né v’ha comodità di trovare credito altrove. Questo è il dies irae, dies illa che apre gli occhi a tanti i quali fino a quel punto immaginavano di guadagnare.

 

 

A mano a mano che l’impresa ingrossa, e ingrossandosi, riesce a fornirsi di capitale con emissioni di azioni, di obbligazioni, di aperture di credito, diventa sempre più difficile sapere se si guadagni o si perda.

 

 

La linea di distinzione fra spese in conto esercizio per riparazioni ammortamenti svalutazioni e quelle in conto investimenti è così sottile che perdite annose, pur gravi e gravide di malessere, possono a fatica essere rintracciate al passivo dei bilanci sotto la specie di aumenti di capitale o di indebitamento ed all’attivo sotto quella di accresciuto valore degli impianti. Soltanto un grosso improvviso ostacolo riesce a rendere manifesta la malsania propria dell’impresa. Se poi questa faccia parte di un complesso privato o semi-pubblico, l’accertamento di perdite può essere quasi impossibile. Le interferenze fra spesa di esercizio ed investimento di capitale si complicano con interferenze di prezzi. Anzi esistono ancora ed in quali limiti veri prezzi nei grossi complessi industriali? O non piuttosto accertamenti di costi da parte della branca o impresa produttrice e relativo addebitamento alla branca od impresa consumatrice appartenente al medesimo complesso?

 

 

Quale ragione v’è di supporre, se manchi il termine di paragone in un prezzo effettivo di mercato, che l’importo addebitato sia un prezzo o non piuttosto la registrazione del fatto storico del costo sopportato dall’impresa produttrice? Il redde rationem si avrà soltanto al termine dalla catena produttrice, quando la merce finita, carica di tutti i costi successivi di produzione addebitati come se fossero prezzi nel passaggio dell’impresa A alla B, da questa alla C, alla D e così via, giunge al consumatore definito. Allora si vedrà in quale rapporto il prezzo ultimo 10 stia al prezzo di mercato e si potrà giudicare se il complesso guadagni o perda. A chi tuttavia attribuire il guadagno o la perdita? Il guadagno finale può essere la somma di saldi positivi e negativi riferiti alle singole imprese; e così la perdita. Come individuare i saldi negativi ed eliminare le imprese in perdita? Quid, se il prezzo di mercato non è un prezzo di concorrenza? Se il complesso industriale considerato gode di una posizione monopolistica sul mercato può darsi che il prezzo 10 consenta soltanto l’utile corrente al capitale investito; ma, senza quel monopolio, il prezzo, pur consentendo l’istesso utile, sarebbe stato 8; quindi è chiaro che il complesso ha sopportato falsi costi per l’ammontare 2, ossia ha perduto ed è riuscito, grazie alla sua posizione monopolistica, ad accollare la perdita ai consumatori. Ovvero il complesso, per l’indole della sua produzione, ha lo stato od altri enti pubblici come principalissimi clienti; e questi pagano non prezzi di mercato, i quali forse non esistono, ma prezzi pubblici o politici. Dei quali la caratteristica è quella di essere calcolati a totale copertura dei costi sopportati dai produttori. Come appurare qui eventuali perdite? Inestricabile ricerca; a chiudere la quale si possono a mala pena trovare indizi nel crescere del costo delle forniture ai ministeri militari od a quelli dei trasporti e dei lavori pubblici. Ma un “crescere” rispetto a quale punto di riferimento? Ed esiste un riferimento logico e precisabile?

 

 

Dinanzi alle quali domande è ovvio che l’amministratore pubblico, persuaso che taluna delle branche od imprese salvata appartenenti al gruppo dia luogo a perdite irrimediabili, ed impotente, nonostante gli indizi probanti palesatigli dai suoi periti tecnici, a precisare la perdita in modo luminosamente probatorio, ricorra alla formula duplonica come a strumento meglio efficace a raggiungere l’ottimo fine di eliminare una causa di perdita ripetuta. Cancellare i doppioni, razionalizzare e concentrare l’industria: ecco formule semplici, comprensibili, confacenti ai tempi, le quali si sostituiscono, con vantaggio pubblico, alla costruzione, più laboriosa e talvolta dubbia, di un esatto bilancio di profitti e perdite. Par dunque che il concetto duplonico vanti legittimamente diritto di cittadinanza nella scienza economica; ma che il suo valore sia sovratutto mitico. Appunto perciò quel valore è grande; poiché gli uomini son governati più dal mito che dalla ragione.

Francesco Ruffini

Francesco Ruffini

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1934, pp. 219-220

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 416-417

Francesco Ruffini, Comitato per le onoranze, s.l., C. Olivetti e C., 1954, pp. 15-17[1]

A vent’anni dalla morte. Francesco Ruffini, «Stampa», 24 ottobre 1954[2]

100 anni fa nasceva a Carrù Luigi Einaudi, «L’Unione monregalese», 28 marzo 1974, p. 7

Scritti di Luigi Einaudi nel centenario della nascita, Sansoni, Firenze, 1975, pp. 47-48

La corporazione aperta

La corporazione aperta

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1934, pp. 129-150

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 72-92

Ombretta Mancini, Francesco Perillo, Eugenio Zagari, La teoria economica del corporativismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1982, pp. 483-506

Debiti

Debiti

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1934, pp. 13-27

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 58-71

Le crisi finanziarie, Il Mulino, Bologna, 1985, pp. 169-181

Selected economic essays, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp 112-123

Il cosidetto principio produttivistico dell’imposta

Il cosidetto principio produttivistico dell’imposta

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1933, pp. 373-380[i]

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 179-186

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 281-293

 

 

 

 

Recensione generica delle applicazioni di un aggettivo malauguratamente usato.

 

 

1. – Mi accadde alcuni anni or sono di contrapporre in un libro di storia (La guerra ed il sistema tributario italiano, 1927) al sommo principio utilitario del sacrificio minimo, in nome del quale si erano commesse tante sciocchezze durante e subito dopo la guerra, un altro principio verso cui tra il 1922 ed il 1925 erasi iniziato il ritorno nella pratica legislativa italiana ed a cui in quella occasione detti il nome di principio “produttivistico”. Quel nome ebbe fortuna; sicché furono divulgate memorie ed articoli per discutere il principio cosi appellato, quasi che a favore o contro di esso si siano o possano istituirsi scuole opposte di ricercatori, dette con proprietà di linguaggio “scuole” e non “sindacati di imbecilli” come preferiva Pantaleoni, perché costituite attorno ad una idea o teoria e non attorno ad una persona. Senonchè più vedevo adoperato l’aggettivo “produttivistico” e più cresceva in me il fastidio del vederlo appiccicato al sostantivo “principio”; e naturalmente il fastidio era aumentato dal ricordo benevolo che talvolta qualcuno faceva di me come autore o rinnovatore o seguitatore di quel principio. Del mio stato d’animo annoiato mi corre obbligo di dar ragione, allo scopo di chiarire la mia parte di responsabilità nel mettere o rimettere al mondo se non il principio, l’appellazione di esso.

 

 

2. – Quando nei discorsi ubbidii alla necessità di chiudere in poche parole espressive una lunga narrazione storica degli erramenti, in gran parte involontari, accaduti in materia tributaria durante la guerra italiana. Gli italiani, e non soltanto essi, ma i francesi ed i tedeschi e tanti altri, avrebbero potuto, se avessero avuto i nervi saldi, adattarsi a vivere spartanamente, dando ognuno di essi allo stato, a titolo di imposta, il soprappiù del proprio reddito al di là dell’assolutamente necessario  alla vita fisica. Se si fossero decisi a siffatta condotta,[ii] lo stato avrebbe potuto condurre la guerra senza ricorrere a prestiti e soprattutto senza aprire la cateratta della fiumana di carta moneta la quale tanti danni produsse e produce ancora. A quella ipotetica patriottica condotta diedi nel libro il nome usato dall’Edgeworth di «sommo principio utilitario del sacrificio minimo»; e dedicai gran parte del libro a chiarire le ragioni, alcune delle quali di sommo peso, per cui gli uomini di governo, ubbidendo ai sentimenti manifestati dai popoli con abbondante vociferazione, applicarono, invece di norme inspirate a quella condotta, una improvvisata disordinata demagogica contraffazione di essa. Dopo aver descritte le vicende e gli effetti lacrimevoli di quella applicazione contraffatta ed esposto i disegni di riforma tributaria elaborati nel frattempo dagli stessi governi col consiglio di studiosi e con verbale omaggio alla necessità di ritornare alle tradizioni italiane del tempo del risorgimento e della prima costruzione finanziaria del regno (1860-1866), dimostrai come al ritorno si fosse dato, tra il 1922 e il 1925, vigoroso inizio dal presente governo, ad opera principalmente del ministro delle finanze De Stefani. Poiché l’effetto principale della applicazione contraffatta del cosidetto principio del sacrificio minimo era di terrorizzare i possidenti ed i risparmiatori, di disamorarli dall’industria e di provocar perciò incremento di miseria e di disoccupazione, dissi che la condotta opposta ossia di una condotta tributaria inspirata sostanzialmente al buon senso, consigliere di imposte “moderate”, prelevate a carico di chi può pagare perché ha avuto prima modo di guadagnare e prelevate in modo da lasciar sussistere lo stimolo al lavoro, al risparmio, all’intraprendenza, e di imposte “certe” ossia esatte senza arbitrii, senza imposizioni, senza vane ricerche dei redditi effettivi, con riguardo massimamente ai redditi ordinari – poteva essere chiamata «dell’imposta produttivistica». La mia mala ventura volle che alle norme pratiche di condotta ora indicate dessi il nome di «principi»; parola che, per essere adoperata in un libro di storia, ossia di narrazione di fatti realmente accaduti in un tempo ed in un luogo determinati, male avrei del resto potuto immaginare potesse essere storta a significare “legge scientifica” ossia, nelle discipline astratte, legge “astratta” o “teorica” di valore universale nei limiti delle fatte premesse.

 

 

3. – Quelle due regole del “sacrificio minimo” – vero e contraffatto – (poi detta dello stoicismo e meglio si direbbe dell’eroismo o spartanesimo) e del “produttivismo” sono invero mere norme di condotta pratica, espresse abbreviatamente con parole stenografiche volte ad illustrare la condotta degli uomini in due momenti storici successivi della vita collettiva. Nel primo momento, della guerra o del pericolo nazionale imminente, gli uomini, dimentichi delle urgenze e delle comodità della vita, sacrificano tutto il disponibile sull’altare della patria (finanza di guerra). Nel secondo momento, non si può pretendere che gli uomini dimentichino la loro natura e cessino di desiderare di vivere e di operare per conseguire i fini a cui sono propensi: epperciò bisogna che l’imposta sia prelevata tenendo conto che gli uomini non lavorano, non producono, non risparmiano, non azzardano senza l’aspettativa di un reddito bastevole a legittimare il loro affannarsi nel lavorare, risparmiare ed intraprendere (finanza di pace). Due quadri di condotta; non due leggi teoriche. Di legge teorica, ossia di spiegazione ragionata delle due specie di condotta non v’è traccia nei due quadri; Né doveva esservi. Per assurgere alla dignità di “principio” o di “legge teorica” della distribuzione delle imposte, le due regole di condotta avrebbero dovuto rispondere alla domanda: come la condotta tributaria degli uomini si incastra nel corpo di leggi le quali ne dichiarano la condotta economica generale?

 

 

4. – A dare una risposta era certamente incapace il principio del sacrificio minimo, che dirò edgeworthiano dal nome del suo più insigne espositore. Affinché non mi si dica che il fastidio odierno della ripetizione altrui di principi prima da me accettati mi fa andare in cerca di postume critiche, riproduco esposizione e critica del principio del sacrificio minimo da un mio vecchio corso universitario del 1910-1911.

 

 

Se noi supponiamo una collettività composta di tre contribuenti, Tizio fornito di un reddito di 1.000 lire, Caio di 2.000 e Sempronio di 3.000 lire, se noi supponiamo che la utilità delle successive dosi (per brevità migliaia di lire) del reddito sia decrescente e che la utilità del primo migliaio di lire sia indicata dall’indice 1.000 ut[ilità], quella del secondo migliaio da 500 ut, e quella del terzo da 333,33 ut, il reddito della collettività risulta il seguente in lire ed in ut:

 

 

Reddito in lire

Reddito in ut

Tizio……………………

1000

1000=

1000 –

Caio……………………

2000

1000+500=

1500 –

Sempronio…………..

3000

1000+500+333,33=

1.833,33

______

______

TOTALE

6000

4.333,33

 

 

Se noi supponiamo che il fabbisogno dello stato sia di 3.000 lire, è evidente che, se si vuole cagionare alla collettività il minimo sacrificio, bisogna cominciare a prelevare il terzo migliaio da Sempronio, perché, così operando, gli si cagiona il minimo sacrificio di 333,33 ut; ed in seguito continuare prelevando 1.000 lire di nuovo su Sempronio ed insieme 1.000 lire su Caio, perché così si cagiona ad ognuno di essi un sacrificio di 500 ut; ed in totale, esentando del tutto Tizio, un sacrificio di 1.333,33 ut sulla intiera collettività. Che è il minimo sacrificio possibile. Qualunque diversa distribuzione dell’imposta produrrebbe un sacrificio maggiore del minimo; e deve perciò essere scartata.

 

 

Questa l’esposizione del principio, alla quale facevo subito seguire la critica, esaminando il problema dai punti di vista psicologico, economico e finanziario. Riproduco[iii] solo la critica psicologica: «facendo il calcolo, così semplice a prima vista, si è dovuto sommare una quantità di sacrificio di 333,33 di Sempronio con una ulteriore quantità di sacrificio di 500 di Sempronio e con una quantità di 500 di Caio. Ma è possibile fare questa somma? Bisogna vedere cosa sono i sacrifici individuali. Essi sono sensazioni che hanno i singoli individui nel perdere una certa quantità di ricchezze o nell’acquistarne una quantità supplementare. Ora questa sensazione è individuale di Sempronio quando egli la prova e così pure di Caio quando la prova Caio. Ciascuno può misurare e paragonare in sé le proprie sensazioni e dire che l’una è maggiore o minore di un’altra; ma sempre, dico, individualmente. Come si farebbe mai a paragonare le sensazioni di Tizio con quelle che ha avuto Caio? Sono quantità che sono incommensurabili e imparagonabili tra di loro, né si è ancora inventato uno strumento per misurare [paragonare] le diverse sensazioni degli individui. L’operazione è corretta apparentemente; ma in fondo uguale a quella di chi sommasse 333,33 asini con 500 cavalli ovvero con 500 sacchi di grano. Quindi in realtà non ha nessun significato».[iv]

 

 

Alla critica pensata nel 1910 non ho nulla da mutare. Il solito timor reverenziale di cui sono sovraprese lo persone bene educate dinanzi ai grandi nomi mi aveva trattenuto, pur dopo avere smantellato pezzo a pezzo la teoria edgeworthiana, dal dichiarare apertamente che essa non valeva un’acca e che perciò le deduzioni relative all’imposta progressiva che se ne ricavavano erano parimenti prive di senso; ed avevo cercato di conservare a quella teoria un posto di eccezione per i tempi di eccezione, come quelli di guerra, in cui gli uomini è bene non ragionino troppo quando, per salvare la nave che minaccia di affondare, si devono decidere a gettare in mare tutte le loro suppellettili. Sta di fatto che il cosidetto principio del sacrificio minimo non è né il capo né la coda di un principio di ripartizione delle imposte. Semplicemente, non esiste. A dare un nome alla condotta tributaria degli uomini nell’ora del pericolo si possono usare altre vie fuor del ricorrere all’abracadabra della somma dei sacrifici sentiti da individui differenti.

 

 

5. – Le parole «produttivismo» o «imposta produttiva» o «principio produttivistico delle imposte» adoperate ad indicare la condotta degli uomini in tempi normali sono forse meno illogiche, perché pongono esigenze di buon senso, di prudenza, di astensione dal terrorismo da parte dei finanzieri; ma, in qualità di parole teoriche, valgono forse anche meno di quella di «principio del sacrificio minimo». Troppi equivoci possono venirne fuori.

 

 

6. – Primo e più grossolano di tutti; quello del trarre i laici ad immaginare che il pagare o prelevare imposte possa essere paragonabile senz’altro al lavorare, al risparmiare, all’investire, all’intraprendere; e che, come dall’atto del lavorare ci si attende un risultato del lavoro, da quello del risparmiare un interesse, così dall’atto del pagare imposte il contribuente debba attendersi un incremento immediato e diretto nella produzione sua. Poiché nessun uomo sensato può accogliere una così goffa teoria, il lasciarla, anche per equivoco, intravvedere, basta per screditare chi fu supposto enunciarla. Tutti sanno che quanto si è pagato all’esattore delle imposte, più non ritorna. Laddove se si paga altrui salario od interesse si riceve l’equivalente in prodotto di lavoro o in uso di capitale. La capacità a fornire un equivalente diretto è un non senso in materia di imposta.

 

 

7. – Cadrebbe parimenti in equivoco chi, tratto dal suono delle parole, interpretasse il principio produttivistico nel senso che lo stato debba prelevare le imposte: primo negativamente, in guisa da scemare per il minimo ammontare la produzione della ricchezza da parte dei privati, lasciando il più possibile invariate le posizioni relative dei contribuenti e costante il loro interesse a produrre; e 2o positivamente, in guisa da crescere al massimo la produzione della ricchezza da parte della collettività. Questi due effetti negativo o positivo sono di solito – direi sempre se la parola “sempre” non fosse impropria a designare avvenimenti storici prevedibili secondo l’esperienza ordinaria della vita, ma non razionalmente necessari per logica dimostrazione – susseguenti ad un buon sistema tributario; ma non chiariscono il principio informatore dell’azione dello stato. Il quale appunto perché stato, non è un produttore di ricchezze alla pari dell’industriale ed agisce come stato, ossia per fini i quali non hanno a che fare con la produzione della ricchezza. Non può quindi lo stato proporsi, come norma fondamentale della sua condotta, uno scopo, come è quello di rendere minima la distruzione o massima la produzione della ricchezza, il quale è estraneo alla sua natura.

 

 

8. – Fin qui, trattasi di grossi equivoci, chiari alla prima meditazione. Più sottile è l’equivoco, in che può essere caduto il lettore non attento di una mia memoria del 1919 (Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta, in Atti della R. accademia delle Scienze di Torino, 1918-1919, vol. 54, pag. 1080-1083). Usando lo strumento della tabella mengeriana, dimostrai allora che il ragionamento puro economico porta «a collocare la destinazione ad imposta nel quadro generale della ripartizione della ricchezza ed a concludere che la destinazione di una certa quota di ricchezza ad imposta e di quella quota precisamente la quale risulta dalla osservanza della legge della ripartizione più conveniente della ricchezza è condizione necessaria per rendere massima la fecondità della ricchezza posseduta dall’uomo. …Nello stesso modo come non è pensabile e possibile… il soddisfacimento del bisogno del cibo senza quello del bisogno di bere, vestir panni, aver casa, così non è né pensabile né possibile vivere, allevar figli, risparmiare, così come si conviene ad uomo, se lo stato non garantisce le condizioni del vivere civile e non apparecchia migliori condizioni per l’avvenire. Nello schema teorico, la destinazione di una certa dose complessiva di ricchezza ad imposta e la sua conversione in beni pubblici non è… più o meno feconda della destinazione di quella medesima dose ad impieghi privati. Essa, se il calcolo fu condotto correttamente, è la destinazione la quale dà il massimo risultato pensabile. Destinare ad imposta una quantità maggiore o minore, sarebbe un errore economico».

 

 

9. – Il discorrere, che in questo brano si fa, di imposta come «condizione necessaria per rendere massima la fecondità della ricchezza» e l’uso successivo del concetto di imposta «come fattore della massima produttività complessiva della ricchezza» può dare ragionevolmente luogo alla seguente interpretazione:

 

 

  • in primo luogo, il cittadino, supposto consapevole dell’esistenza di fini individuali e collettivi e, in qualità di membro della collettività, atto ad apprezzare l’importanza rispettiva di essi, distribuisce la propria ricchezza tra fini privati individuali e fini collettivi, ossia raggiungibili soltanto attraverso l’azione coattiva statale, tra fini presenti e fini futuri, in modo che l’utilità marginale delle ultime dosi soddisfatte dei diversi fini sia uguale. Rispetto ai fini pubblici ed ai beni relativi il giudizio di uguaglianza è dato dallo stato in rappresentanza degli individui;

 

  • in secondo luogo, il prelievo delle imposte operato così come impone la regola ora detta, ha per effetto di rendere massima la fecondità della ricchezza o massima la produttività complessiva della ricchezza.

 

 

10. – La proposizione b è razionale entro i limiti in cui i cittadini, agendo attraverso lo strumento coattivo statale, si propongano fini economici. È certissimo che il mantenimento della difesa razionale della sicurezza, della giustizia, della pubblica viabilità, di un congruo apparecchio di pubblica educazione, di legislazione sociale e simili giova potentemente anzi è condizione necessaria perché gli uomini lavorino producano, risparmino. È certissimo che l’opera dello stato è fattore potente di massimizzazione del reddito nazionale, e cioè della somma dei redditi degli individui. «Il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con “una data” combinazione dei vari fattori, quella che l’esperienza dimostra più conveniente. La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall’esperienza, è condizione necessaria perché lo stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà luogo al massimo di produttività». E cioè, ove gli uomini si propongano fini di acquisto della ricchezza, lo stato rende possibile la consecuzione di quei fini. «Naturalmente» – osservavo nel 1919 – «lo stato agisce come fattore produttivo in conformità all’essere suo: non cioè come industriale od organizzatore della produzione, ma come ente politico: soldato magistrato educatore difensore degli interessi generali esercente quelle imprese che non sarebbero affatto o sarebbero male esercitate dai privati imprenditori e (loco citato 1083).

 

 

11. – Non è necessario tuttavia che gli uomini si propongano fini di acquisto di ricchezza: essi possono proporsi non solo la massima produzione di beni materiali, ma, aggiungevo, pure il massimo di beni e spirituali e la e massima elevazione e propria. L’indipendenza della patria, la predicazione di un credo religioso, la consecuzione di un ideale di vita, il raggiungimento di un alto livello di cultura, la preservazione della libertà individuale, il perfezionamento dei singoli componenti la collettività, sicché il massimo numero di essi sia messo in grado di partecipare consapevolmente alla vita pubblica sono fini che possono non avere un legame diretto e forse neppure indiretto con il fine della consecuzione di beni economici, valutabili in lire, soldi e denari. Pur sono fini che gli uomini si propongono mercè lo strumento dell’azione coattiva statale. Ecco che l’imposta cessa di essere “produttiva” persino nel senso più largo esposto dianzi (proposizione b), senza cessare con ciò di essere “economica” o, come altrove dissi, “ottima” (proposizione a).

 

 

12. – La sostanza dell’azione “economica” non sta invero nell’essere “produttiva” di beni economici; ma nell’essere congrua rispetto al raggiungimento del fine che l’uomo si propone. Vuole l’uomo arricchire? È azione “economica” quella che conduce all’arricchimento, non quella che trascina alla povertà. Vuole l’uomo perfezionare la propria mente o il proprio carattere, anche a costo di rinuncia a ricchezza posseduta o sperata? È azione “economica” quella che consiglia di impiegare i mezzi esistenti (numerario, lavoro, risparmio) in modo da raggiungere il fine dell’elevazione morale od intellettuale. L’economica non è scienza di fini, ma di mezzi. Perciò l’imposta è “economica” (ottima), se congegnata in modo da favorire il conseguimento, per mezzo dell’azione coattiva statale, dei fini di incremento della ricchezza collettiva, o di potenza o di elevazione intellettuale o morale o religiosa che gli uomini si propongono.

 

 

13. – L’aggettivo “produttivo” applicato all’imposta è dunque proprio nel solo caso in cui siano soddisfatte due condizioni: che il fine voluto dagli uomini radunati in società politica sia l’incremento della ricchezza e che il mezzo tributario all’uopo scelto sia congruo. Tutto sommato ritengo tuttavia prudente abbandonare l’uso di quell’aggettivo perché:

 

 

  • fa scambiare ai tonti la produttività intesa come conseguenza dell’azione dello stato operante secondo la sua natura con una assurda produttività diretta di ogni singolo ammontare di imposta pagata;

 

  • fa scambiare ai frettolosi “una” delle “conseguenze” dell’imposta ottima (incremento della ricchezza) con il fine diretto dell’imposta;

 

  • trae i disattenti ad immaginare che lo stato si proponga solo fini economici e perciò l’imposta debba essere ordinata alla consecuzione di quei fini.

 

 

14. – Anzi, Poiché è difficilissimo svellere dalla mente degli uomini l’idea che gli economisti quando parlano di operare economico intendono riferirsi non solo all’operare ma anche al fine per cui si opera, opinerei conveniente abbandonare, negli scritti non destinati agli iniziati, persino l’uso dell’aggettivo “economica” applicato all’imposta. Gli iniziati sanno che quell’aggettivo non si riferisce ai fini degli uomini, ma esclusivamente ai mezzi atti a raggiungere quei fini. Fa d’uopo però osservare che accanto agli iniziati, vivono e prosperano gli impermeabili, i consaputi calunniatori ed i laici; e riflettere sull’opportunità di non dare alimento ai vaniloqui ed alle perversità. Perciò proposi l’aggettivo “ottima”; il quale non avendo una precostituita significazione, può servire efficacemente ad indicare quella imposta la quale meglio raggiunge, secondo l’enunciato della proposizione a, i fini che l’uomo politicamente organizzato si propone. Qualunque altro aggettivo (a cagion d’esempio “logica” o “razionale”), del resto, sia il benvenuto, purché ci liberi dal vano crescente frastuono intorno al cosidetto principio dell’imposta produttivistica.

 



[i] Con il titolo Il cosidetto principio dell’imposta produttivistica. Recensione generica delle applicazioni di un aggettivo malauguratamente usato.

[ii] Che in un libro piu recente, pur di storia, chiamai “stoica”. Spero che mal non mi incolga pel nuovo aggettivo e che non sorga una nuova battaglia intorno al principio “stoico” della ripartizione delle imposte. Ché di nuovo l’errore dei battaglianti di assumere come “stoica” sul serio una condotta la quale con la condotta dichiarata dalla filosofia stoica non ha nulla a che fare, ricadrebbe su di me, che invece adoperai quell’aggettivo attribuendolo, in conformità all’uso corrente, proprio a tanti discorritori in lingua italiana e lecito perciò a me narratore di avvenimenti, a chi rinuncia, con consaputa freddezza di calcolo, agli agi della vita ordinaria per conseguire un fine di ordine superiore, nel caso presente l’incolumità della patria. Eroico o spartano o patriottico, sarebbero stati aggettivi ugualmente vantaggiosi; senza che evidentemente, sia essi sia quello usato contenessero in sé qualsiasi pretesa alla dignità di “principio”, utilizzabile per chiarire teoricamente il problema della ripartizione delle imposte.

[iii] Da pagina 362 a 364 del Corso di scienza delle finanze, raccolto dal dott. GIULIO FENOGLIO, Torino, 1911.

[iv] Cfr. in questo fascicolo, l’articolo di PAUL N. ROSENSTEIN – RODAN su La complementarietà, ecc., pag. 273, nota (4). Il mio ragionamento del 1910 applicava al problema fondamentale della finanza la perspicua dimostrazione del no bridge data dal Vicksteed in Alphabet of economic science, 1888, pag. 69-77.

 

Il cosidetto principio della imposta produttivistica. Recensione generica delle applicazioni di un aggettivo malauguratamente usato

Il cosidetto principio della imposta produttivistica. Recensione generica delle applicazioni di un aggettivo malauguratamente usato

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1933, pp. 373-380

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 281-293

 

 

 

 

1. – Mi accadde alcuni anni or sono di contrapporre in un libro di storia (La guerra ed il sistema tributario italiano, 1927) al sommo principio utilitario del sacrificio minimo, in nome del quale si erano commesse tante sciocchezze durante e subito dopo la guerra, un altro principio verso cui tra il 1922 ed il 1925 erasi iniziato il ritorno nella pratica legislativa italiana ed a cui in quella occasione detti il nome di principio «produttivistico». Quel nome ebbe fortuna; sicché furono divulgate memorie ed articoli per discutere il principio così appellato, quasi che a favore o contro di esso si siano o possano istituirsi scuole opposte di ricercatori, dette con proprietà di linguaggio «scuole» e non «sindacati di imbecilli» come preferiva Pantaleoni, perché costituite attorno ad una idea o teoria e non attorno ad una persona. Senonché più vedevo adoperato l’aggettivo «produttivistico» e più cresceva in me il fastidio del vederlo appiccicato al sostantivo «principio»; e naturalmente il fastidio era aumentato dal ricordo benevolo che talvolta qualcuno faceva di me come autore o rinnovatore o seguitatore di quel principio. Del mio stato d’animo annoiato mi corre obbligo di dar ragione, allo scopo di chiarire la mia parte di responsabilità nel mettere o rimettere al mondo, se non il principio, l’appellazione di esso.

 

 

2. – Quando ne discorsi ubbidii alla necessità di chiudere in poche parole espressive una lunga narrazione storica degli erramenti, in gran parte involontari, accaduti in materia tributaria durante la guerra italiana. Gli italiani, e non soltanto essi, ma i francesi ed i tedeschi e tanti altri, avrebbero potuto, se avessero avuto i nervi saldi, adattarsi a vivere spartanamente, dando ognuno di essi allo stato, a titolo di imposta, il soprappiù del proprio reddito al di là dell’assolutamente necessario alla vita fisica. Se si fossero decisi a siffatta condotta,[1] lo stato avrebbe potuto condurre la guerra senza ricorrere a prestiti e soprattutto senza aprire la cateratta della fiumana di carta moneta la quale tanti danni produsse e produce ancora. A quella ipotetica patriottica condotta diedi nel libro il nome usato dall’Edgeworth di «sommo principio utilitario del sacrificio minimo»; e dedicai gran parte del libro a chiarire le ragioni, alcune delle quali di sommo peso, per cui gli uomini di governo, ubbidendo ai sentimenti manifestati dai popoli con abbondante vociferazione, applicarono, invece di norme inspirate a quella condotta, una improvvisata disordinata demagogica contraffazione di essa. Dopo aver descritte le vicende e gli effetti lacrimevoli di quella applicazione contraffatta ed esposto i disegni di riforma tributaria elaborati nel frattempo dagli stessi governi col consiglio di studiosi e con verbale omaggio alla necessità di ritornare alle tradizioni italiane del tempo del risorgimento e della prima costruzione finanziaria del regno (1860-1866), dimostrai come al ritorno si fosse dato, tra il 1922 e il 1925, vigoroso inizio dal presente governo, ad opera principalmente del ministro delle finanze De Stefani. Poiché l’effetto principale della applicazione contraffatta del così detto principio del sacrificio minimo era di terrorizzare i possidenti ed i risparmiatori, di disamorarli dall’industria e di provocar perciò incremento di miseria e di disoccupazione, dissi che la condotta opposta – ossia una condotta tributaria inspirata sostanzialmente al buon senso, consigliere di imposte «moderate», prelevate a carico di chi può pagare perché ha avuto prima modo di guadagnare e prelevate in modo da lasciar sussistere lo stimolo al lavoro, al risparmio, all’intraprendenza, e di imposte «certe» ossia esatte senza arbitrii, senza imposizioni, senza vane ricerche dei redditi effettivi, con riguardo massimamente ai redditi ordinari – poteva essere chiamata «dell’imposta produttivistica». La mia mala ventura volle che alle norme pratiche di condotta ora indicate dessi il nome di «principi»; parola che, per essere adoperata in un libro di storia, ossia di narrazione di fatti realmente accaduti in un tempo ed in un luogo determinati, male avrei del resto potuto immaginare potesse essere sorta a significare «legge scientifica» ossia, nelle discipline astratte, legge «astratta» o «teorica» di valore universale nei limiti delle fatte premesse.

 

 

3. – Quelle due regole del «sacrificio minimo» – vero e contraffatto – (poi detta dello stoicismo e meglio si direbbe dello eroismo o spartanesimo) e del «produttivismo» sono invero mere norme di condotta pratica, espresse abbreviatamente con parole stenografiche volte ad illustrare la condotta degli uomini in due momenti storici successivi della vita collettiva. Nel primo momento, della guerra o del pericolo nazionale imminente, gli uomini, dimentichi delle urgenze e delle comodità della vita, sacrificano tutto il disponibile sull’altare della patria (finanza di guerra). Nel secondo momento, non si può pretendere che gli uomini dimentichino la loro natura e cessino di desiderare di vivere e di operare per conseguire i fini a cui sono propensi; epperciò bisogna che l’imposta sia prelevata tenendo conto che gli uomini non lavorano, non producono, non risparmiano, non azzardano senza l’aspettativa di un reddito bastevole a legittimare il loro affannarsi nel lavorare, risparmiare ed intraprendere (finanza di pace). Due quadri di condotta; non due leggi teoriche. Di legge teorica, ossia di impostazione astratta delle due specie di condotta non v’è traccia nei due quadri; né doveva esservi. Per assurgere alla dignità di «principio» o di «legge teorica» della distribuzione delle imposte, le due regole di condotta avrebbero dovuto rispondere alla domanda: come la condotta tributaria degli uomini si incastra nel corpo di leggi le quali ne dichiarano la condotta economica generale?

 

 

4. – A dare una risposta era certamente incapace il principio del sacrificio minimo che dirò edgeworthiano dal nome del suo più insigne espositore. Affinché non mi si dica che il fastidio odierno della ripetizione altrui di principi prima da me accettati mi fa andare in cerca di postume critiche, riproduco esposizione e critica del principio del sacrificio minimo da un mio vecchio corso universitario del 1910-1911.

 

 

Se noi supponiamo una collettività composta di tre contribuenti, Tizio fornito di un reddito di 1.000 lire, Caio di 2.000 e Sempronio di 3.000 lire, se noi supponiamo che la utilità delle successive dosi (per brevità migliaia di lire) del reddito sia decrescente e che la utilità del primo migliaio di lire sia indicata dall’indice 1.000 ut[ilità], quella del secondo migliaio da 500 ut, e quella del terzo da 333,33 ut, il reddito della collettività risulta il seguente in lire ed in ut:

 

 

 

Reddito in lire

Reddito in ut

Tizio

1.000

1.000

= 1.000 –
Caio

2.000

1.000 + 500

= 1.500 –
Sempronio

3.000

1.000 + 500 + 333,33

= 1.833,33

Totale …

6.000

4.333,33

 

 

Se noi supponiamo che il fabbisogno dello stato sia di 3.000 lire, è evidente che, se si vuole cagionare alla collettività il minimo sacrificio, bisogna cominciare a prelevare il terzo migliaio da Sempronio, perché, così operando, gli si cagiona il minimo sacrificio di 333,33 ut; ed in seguito continuare prelevando 1.000 lire di nuovo su Sempronio ed insieme 1.000 lire su Caio, perché così si cagiona ad ognuno di essi un sacrificio di 500 ut; ed in totale, esentando del tutto Tizio, un sacrificio di 1.333,33 ut sulla intiera collettività. Che è il minimo sacrificio possibile. Qualunque diversa distribuzione dell’imposta produrrebbe un sacrificio maggiore del minimo; e deve perciò essere scartata.

 

 

Questa l’esposizione del principio, alla quale facevo subito seguire la critica, esaminando il problema dai punti di vista psicologico, economico e finanziario. Riproduco[2] solo la critica psicologica: «facendo il calcolo, così semplice a prima vista, si è dovuto sommare una quantità di sacrificio di 333,33 di Sempronio con una ulteriore quantità di sacrificio di 500 di Sempronio e con una quantità di 500 di Caio. Ma è possibile fare questa somma? Bisogna vedere cosa sono i sacrifici individuali. Essi sono sensazioni che hanno i singoli individui nel perdere una certa quantità di ricchezze o nell’acquistarne una quantità supplementare. Ora questa sensazione è individuale di Sempronio quando egli la prova e così pure di Caio quando la prova Caio. Ciascuno può misurare e paragonare in sé le proprie sensazioni e dire che l’una è maggiore o minore di un altra; ma sempre, dico, individualmente. Come si farebbe mai a paragonare le sensazioni di Tizio con quelle che ha avuto Caio? Sono quantità che sono incommensurabili e imparagonabili tra di loro, né si è ancora inventato uno strumento per misurare [paragonare] le diverse sensazioni degli individui. L’operazione è corretta apparentemente; ma in fondo uguale a quella di chi sommasse 333,33 asini con 500 cavalli ovvero con 500 sacchi di grano. Quindi in realtà non ha nessun significato».[3]

 

 

Alla critica pensata nel 1910 non ho nulla da mutare. Il solito timor reverenziale da cui sono sovraprese le persone bene educate dinanzi ai grandi nomi mi aveva trattenuto, pur dopo avere smantellato pezzo a pezzo la teoria edgeworthiana, dal dichiarare apertamente che essa era erronea e che perciò le deduzioni relative all’imposta progressiva che se ne ricavavano erano parimenti prive di senso; ed avevo cercato di conservare a quella teoria un posto di eccezione per i tempi di eccezione, come quelli di guerra, in cui gli uomini è bene non ragionino troppo quando, per salvare la nave che minaccia di affondare, si devono decidere a gettare in mare tutte le loro suppellettili. Sta di fatto che il cosidetto principio del sacrificio minimo non è né il capo né la coda di un principio di ripartizione delle imposte. Semplicemente, non esiste. A dare un nome alla condotta tributaria degli uomini nell’ora del pericolo si possono usare altre vie fuor del ricorrere all’abracadabra della somma dei sacrifici sentiti da individui differenti.

 

 

5. – Le parole «produttivismo» o «imposta produttiva» o «principio produttivistico delle imposte» adoperate ad indicare la condotta degli uomini in tempi normali sono forse meno illogiche, perché pongono esigenze di buon senso, di prudenza, di astensione dal terrorismo da parte dei finanzieri; ma, in qualità di parole teoriche, valgono forse anche meno di quella di «principio del sacrificio minimo». Troppi equivoci possono venirne fuori.

 

 

6. – Primo e più grossolano di tutti, quello del trarre i laici ad immaginare che il pagare o prelevare imposte possa essere paragonabile senz’altro al lavorare, al risparmiare, all’investire, allo intraprendere; e che, come dall’atto del lavorare ci si attende un risultato del lavoro, da quello del risparmiare un interesse, così dall’atto del pagare imposte il contribuente debba attendersi un incremento immediato e diretto nella produzione sua. Poiché nessun uomo sensato può accogliere una così goffa teoria, il lasciarla, anche per equivoco, intravvedere, basta per screditare chi fu supposto enunciarla. Tutti sanno che quanto si è pagato allo esattore delle imposte, più non ritorna. Laddove se si paga altrui salario od interesse si riceve l’equivalente in prodotto di lavoro o in uso di capitale. La capacità a fornire un equivalente è un non senso in materia di imposta.

 

 

7. – Cadrebbe parimenti in equivoco chi, tratto dal suono delle parole, interpretasse il principio produttivistico nel senso che lo stato debba prelevare le imposte: primo negativamente, in guisa da scemare per il minimo ammontare la produzione della ricchezza da parte dei privati, lasciando il più possibile invariate le posizioni relative dei contribuenti e costante il loro interesse a produrre; e secondo positivamente, in guisa da crescere al massimo la produzione della ricchezza da parte della collettività. Questi due effetti negativo o positivo sono di solito – direi sempre se la parola «sempre» non fosse impropria a designare avvenimenti storici prevedibili secondo l’esperienza ordinaria della vita, ma non razionalmente necessari per logica dimostrazione – susseguenti ad un buon sistema tributario; ma non chiariscono il principio informatore dell’azione dello stato. Il quale appunto perché stato, non è un produttore di ricchezze alla pari dell’industriale ed agisce come stato, ossia per fini i quali non hanno a che fare con la produzione della ricchezza. Non può quindi lo stato proporsi, come norma fondamentale della sua condotta, uno scopo, come è quello di rendere minima la distruzione o massima la produzione della ricchezza, il quale è estraneo alla sua natura.

 

 

8. – Fin qui, trattasi di grossi equivoci, chiari alla prima meditazione. Più sottile è l’equivoco, in che può essere caduto il lettore non attento di una mia memoria del 1919. Usando lo strumento della tabella mengeriana, dimostrai allora che il ragionamento puro economico porta «a collocare la destinazione ad imposta nel quadro generale della ripartizione della ricchezza ed a concludere che la destinazione di una certa quota di ricchezza ad imposta e di quella quota precisamente la quale risulta dalla osservanza della legge della ripartizione più conveniente della ricchezza è condizione necessaria per rendere massima la fecondità della ricchezza posseduta dall’uomo. …Nello stesso modo come non è pensabile e possibile… il soddisfacimento del bisogno del cibo senza quello del bisogno di bere, vestir panni, aver casa, così non è né pensabile né possibile vivere, allevar figli, risparmiare, così come si conviene ad uomo, se lo stato non garantisce le condizioni del vivere civile e non apparecchia migliori condizioni per l’avvenire. Nello schema teorico, la destinazione di una certa dose complessiva di ricchezza ad imposta e la sua conversione in beni pubblici non è… più o meno feconda della destinazione di quella medesima dose ad impieghi privati. Essa, se il calcolo fu condotto correttamente, è la destinazione la quale dà il massimo risultato pensabile. Destinare ad imposta una quantità maggiore o minore, sarebbe un errore economico».

 

 

9. – Il discorrere, che in questo brano si fa, di imposta come «condizione necessaria per rendere massima la fecondità della ricchezza» e l’uso successivo del concetto di imposta «come fattore della massima produttività complessiva della ricchezza» può dare ragionevolmente luogo alla seguente interpretazione:

 

 

a)    in primo luogo, il cittadino: supposto consapevole dell’esistenza di fini individuali e collettivi e, in qualità di membro della collettività, atto ad apprezzare l’importanza rispettiva di essi, distribuisce la propria ricchezza tra fini privati individuali e fini collettivi, ossia raggiungibili soltanto attraverso l’azione coattiva statale, tra fini presenti e fini futuri, in modo che l’utilità marginale delle ultime dosi soddisfatte dei diversi fini sia uguale. Rispetto ai fini pubblici ed ai beni relativi il giudizio di uguaglianza è dato dallo stato in rappresentanza degli individui;

 

b)    in secondo luogo, il prelievo delle imposte operato così come impone la regola ora detta, ha per effetto di rendere massima la fecondità o produttività complessiva della ricchezza.

 

 

10. – La proposizione b è razionale entro i limiti in cui i cittadini, agendo attraverso lo strumento coattivo statale, si propongano fini economici. È certissimo che il mantenimento della difesa nazionale, della sicurezza, della giustizia, della pubblica viabilità, di un congruo apparecchio di pubblica educazione, di legislazione sociale e simili giova potentemente anzi è condizione necessaria perché gli uomini lavorino, producano, risparmino. È certissimo che l’opera dello stato è fattore potente di massimizzazione del reddito nazionale, e cioè della somma dei redditi degli individui. «Il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con una data combinazione dei vari fattori, quella che l’esperienza dimostra più conveniente. La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall’esperienza, è condizione necessaria perché lo stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale dà luogo al massimo di produttività». E cioè, ove gli uomini si propongano fini di acquisto della ricchezza, lo stato rende possibile la consecuzione di quei fini. «Naturalmente» – osservavo nel 1919 – «lo stato agisce come fattore produttivo in conformità all’essere suo: non cioè come industriale od organizzatore della produzione, ma come ente politico: soldato magistrato educatore difensore degli interessi generali esercente quelle imprese che non sarebbero affatto o sarebbero male esercitate dai privati imprenditori» (cfr. qui sopra, pag. 199).

 

 

11. – Non è necessario tuttavia che gli uomini si propongano fini di acquisto di ricchezza; essi possono proporsi non solo la massima produzione di beni materiali, ma, aggiungevo, pure il massimo di beni «spirituali», la «massima elevazione» propria. L’indipendenza della patria, la predicazione di un credo religioso, la consecuzione di un ideale di vita, il raggiungimento di un alto livello di cultura, la preservazione della libertà individuale, il perfezionamento dei singoli componenti la collettività, sicché il massimo numero di essi sia messo in grado di partecipare consapevolmente alla vita pubblica sono fini che possono non avere un legame diretto e forse neppure indiretto con il fine della consecuzione di beni economici, valutabili in lire, soldi e denari. Pur sono fini che gli uomini si propongono mercé lo strumento dell’azione coattiva statale. Ecco che l’imposta cessa di essere «produttiva» persino nel senso più largo esposto dianzi (proposizione b), senza cessare con ciò di essere «economica» o, come altrove dissi, «ottima» (proposizione a).

 

 

12. – La sostanza dell’azione «economica» non sta invero nell’essere «produttiva» di beni economici; ma nell’essere congrua rispetto al raggiungimento del fine che l’uomo si propone. Vuole l’uomo arricchire? È azione «economica» quella che conduce all’arricchimento, non quella che trascina alla povertà. Vuole l’uomo perfezionare la propria mente o il proprio carattere, anche a costo di rinuncia a ricchezza posseduta o sperata? È azione «economica» quella che consiglia di impiegare i mezzi esistenti (numerario, lavoro, risparmio) in modo da raggiungere il fine dell’elevazione morale od intellettuale. L’economia non è scienza di fini, ma di mezzi. Perciò l’imposta è «economica» (ottima), se congegnata in modo da favorire il conseguimento, per mezzo dell’azione coattiva statale, dei fini di incremento della ricchezza collettiva, o di potenza o di elevazione intellettuale o morale o religiosa che gli uomini si propongono.

 

 

13. – L’aggettivo «produttivo» applicato all’imposta è dunque proprio nel solo caso in cui siano soddisfatte due condizioni: che il fine voluto dagli uomini radunati in società politica sia l’incremento della ricchezza e che il mezzo tributario all’uopo scelto sia congruo. Tutto sommato ritengo tuttavia prudente abbandonare l’uso di quell’aggettivo perché:

 

 

  • fa scambiare ai tonti la produttività intesa come conseguenza dell’azione dello stato operante secondo la sua natura con una assurda produttività diretta di ogni singolo ammontare di imposta pagata;

 

  • fa scambiare ai frettolosi una delle conseguenze dell’imposta ottima (incremento della ricchezza) con il fine diretto dell’imposta;

 

  • trae i disattenti ad immaginare che lo stato si proponga solo fini economici e perciò l’imposta debba essere ordinata alla consecuzione di quei fini.

 

 

14. – Anzi; poiché è difficilissimo svellere dalla mente degli uomini l’idea che gli economisti quando parlano di operare economico intendono riferirsi non solo all’operare ma anche al fine per cui si opera, opinerei conveniente abbandonare, negli scritti non destinati agli iniziati, persino l’uso dell’aggettivo «economica» applicato all’imposta. Gli iniziati sanno che quell’aggettivo non si riferisce ai fini degli uomini, ma esclusivamente ai mezzi atti a raggiungere quei fini. Fa d’uopo però osservare che accanto agli iniziati, vivono e prosperano gli impermeabili, i consaputi calunniatori ed i laici; e riflettere sull’opportunità di non dare alimento ai vaniloqui ed alle perversità. Perciò proposi l’aggettivo «ottima»; il quale non avendo una precostituita significazione, può servire efficacemente ad indicare quella imposta la quale meglio raggiunge, secondo l’enunciato della proposizione a, i fini che l’uomo politicamente organizzato si propone. Qualunque altro aggettivo (a cagion d’esempio «logica» o «razionale»), del resto, sia il benvenuto, purché ci liberi dal vano crescente frastuono intorno al cosidetto principio dell’imposta produttivistica.

 



[1] Che in un libro più recente, pur di storia, chiamai «stoica». Spero che mal non si incolga pel nuovo aggettivo e che non sorga una nuova battaglia intorno al principio «stoico» della ripartizione delle imposte. Ché di nuovo l’errore dei battaglianti di assumere come «stoica» sul serio una condotta la quale con la condotta dichiarata dalla filosofia stoica non ha nulla a che fare, ricadrebbe su di me, che invece adoperai quell’aggettivo attribuendolo, in conformità all’uso corrente, proprio a tanti discorritori in lingua italiana e lecito perciò a me narratore di avvenimenti, a chi rinuncia, con consaputa freddezza di calcolo, agli agi della vita ordinaria per conseguire un fine di ordine superiore, nel caso presente l’incolumità della patria. Eroico o spartano o patriottico, sarebbero stati aggettivi ugualmente vantaggiosi; senza che evidentemente, sia essi sia quello usato contenessero in sé qualsiasi pretesa alla dignità di «principio», utilizzabile per chiarire teoricamente il problema della ripartizione delle imposte.

[2] Da pagina 362 a 364 del Corso di scienza delle finanze, raccolto dal dott. Giulio Fenoglio, Torino, 1911.

[3] Cfr. Paul N. Rosenstein-Rodan su La complementarietà, in «La Riforma Sociale», 1933, pag. 273. Il mio ragionamento del 1910 applicava al problema fondamentale della finanza la perspicua dimostrazione del no bridge data dal Wicksteed in Alphabet of economic science, 1888, pag. 69-77.

Dei libri italiani posseduti da Adamo Smith, di due sue lettere non ricordate e della sua prima fortuna in Italia

Dei libri italiani posseduti da Adamo Smith, di due sue lettere non ricordate e della sua prima fortuna in Italia

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1933, pp. 203-218

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 317-332

Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 1953, pp. 71-88

Il mio piano non è quello di Keynes

Il mio piano non è quello di Keynes

«La Riforma Sociale», marzo-aprile 1933, pp. 129-142

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 221-234

Lucio Villari, Il capitalismo italiano del Novecento, Laterza, Bari, 1972, 1975, pp. 279-298

Selected economic essays, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2006, pp. 124-136

 

 

 

 

The Means to Prosperity, by JOHN MAYNARD KEYNES. (Macmillan and Co., St. Martin’s Street, London, 1933, pag. 37. Prezzo 1 sc. net).

 

 

Il “saggio” del Keynes… Adopero la parola “saggio” non avendone trovata altra migliore al luogo dell’inglese tract e del francese pamphlet. Ma in realtà “saggio” non traduce bene il concetto di scrittura d’occasione, strumento di battaglia politica od economica, che è caratteristica degli scritti brevi veementi, nei quali furono condotte battaglie pratiche o dichiarati principi teorici. La letteratura economica, la grande letteratura economica è tipicamente composta di saggi. Chi facesse un dizionario delle scoperte economiche, colla citazione delle fonti, in cui primamente quelle scoperte furono enunciate, citerebbe assai più brevi saggi che grossi libri. La parola “libello” era un tempo usata, assai propriamente, per tal sorte di scritti brevi e significativi; ma non si può usar più, a causa del malo uso fattone.

 

 

Il “saggio” del Keynes, dunque, può essere riassunto in proposizioni così concatenate:

 

 

I. – Supponiamo che la crisi odierna sia dovuta ad un difettoso funzionamento dei congegni mentali psicologici, i quali conducono alle decisioni ed agli atti di volontà degli uomini; che siano un paradosso i tanti operai edili disoccupati quando tanto bisogno v’ha di case; che il problema non sia di mezzi e di volontà di lavorare; non sia né tecnico, né agricolo, né commerciale, né organizzativo, né bancario. Ma sia un problema dello spirito, ed assomigli all’imbarazzo di due abili conducenti di autocarri in perfetto stato, i quali, incontrandosi in ampio spazio, non san proseguire perché, ignorando le leggi della strada, cozzano per non sapere chi debba andare a destra e chi a sinistra. Il paradosso economico odierno sta nella mancanza di contatto tra fattori produttivi disponibili – uomini disoccupati, macchine inoperose, terre incolte, materie prime inutilizzate – e desiderio o bisogno dei beni che i fattori disoccupati produrrebbero, se fossero occupati.

 

 

II. – Normalmente, il contatto tra fattori produttivi e desiderio di beni è posto da imprenditori in cerca di profitti. Il meccanismo economico è messo in moto da imprenditori, i quali, acquistando sul mercato fattori produttivi e vendendo prodotti, compiono nella società odierna l’ufficio del padre di famiglia nelle società patriarcali chiuse, del priore o guardiano nei conventi medievali, del ministro della produzione in una società collettivistica. Ma l’imprenditore opera, ossia corre rischi, quando vede la possibilità di un profitto, di una differenza positiva fra il prezzo ricevuto dai prodotti venduti ed il costo dei fattori produttivi acquistati. Stabilito il contatto, messa in moto l’impresa, questa basta a sé stessa, perché i fattori produttivi consumano quanto essi medesimi producono. Non materialmente gli stessi beni, ché questi sono dati in scambio di beni prodotti da altri; ma in sostanza gli stessi sotto mutata specie.

 

 

Oggi il contatto non si opera, perché l’imprenditore non spera profitti. La macchina economica è incantata. I fattori produttivi, beni strumentali e uomini, rimangono disoccupati ed i desideri degli uomini restano insoddisfatti. I fattori produttivi occupati devono assoggettarsi a taglie enormi per mantenere in vita quelli disoccupati. Occorre disincantare la macchina.

 

 

III. – Poiché, al disincanto, non giova il normale motivo economico del profitto, fa d’uopo trovare uno spediente. Vuolsi dar lavoro ad un milione di disoccupati? Basta, a 10.000 lire a testa,[1] un fondo di 10 miliardi di lire. Se gli imprenditori privati non osano, osi lo stato. Sui 10 miliardi spesi, lo stato è sicuro di ricuperarne, tra quel che risparmia in minori sussidi ai disoccupati e quel che lucra per cresciute imposte sul cresciuto reddito dei contribuenti, almeno cinque.

 

 

IV. – Supponiamo che lo stato ottenga a mutuo da qualcuno che lo possiede (o lo crea) il fondo dei 10 miliardi di lire; supponiamo che il mutuo sia concesso a lunga scadenza ed a tenue (intendendosi tenue probabilmente qualcuno dei più bassi saggi storicamente conosciuti) saggio di interesse. Ecco utilizzati i fattori produttivi, già esistenti e disponibili: terre da bonificare, specchi d’acqua da trasformare in porti, materiali edilizi da ridurre a case finite e uomini disoccupati da applicare alle terre, alle acque ed alle case. Ecco creato il miracolo del rimettere in moto la macchina economica, senza aumentare i prezzi dei fattori produttivi e dei prodotti. La spesa pubblica si esaurirebbe in gran parte nel crescer prezzi o nell’importare di più dall’estero, se non esistessero margini di fattori produttivi disoccupati. (If there were little or no margin of unemployed resources, then … the increased expenditure would largely waste itself in higher prices and increased imports. Riproduco il testo, perché dopo assai rompimento di capo, conclusi che il sugo del discorso è in queste poche parole). Se invece esistono veramente uomini e fattori produttivi disoccupati, il contatto operato tra essi non è cagione di dannose perturbazioni in seno ad altri gruppi sociali. Sarebbe come se il milione di disoccupati potesse essere trasportato in un isola finora deserta ed ivi provvedesse da sé alla propria vita. Qual danno subirebbe il resto della collettività? Anzi avrebbe due vantaggi: risparmiare la falcidia dei sussidi di disoccupazione e distribuire su di sé e sugli ex disoccupati, invece che su di sé soltanto, il costo delle spese pubbliche (imposte).

 

 

Il problema si complicherebbe se esistessero solo operai disoccupati e non anche fattori materiali produttivi disponibili; perché in tal caso la nuova domanda da parte dei 10 miliardi di lire di fondo statale si rovescierebbe sulla massa fissa degli altri fattori produttivi e ne farebbe crescere il prezzo. Lo stato si metterebbe in concorrenza con gli imprenditori privati, scompigliandone tutte le basi di calcolo economico, con conseguenze non facilmente prevedibili. Nell’ipotesi fatta, nulla di tutto ciò: esistono uomini, macchine, terre,navi, ferrovie, porti inoperosi; che non producono, perché dissociati. Mettiamoli a contatto; e coi beni prodotti, gli uomini disoccupati alimenteranno sé stessi, senza nulla chiedere altrui, anzi cessando di ricevere da altri elemosina. Probabilmente, anzi, il prodotto totale crescere in misura più che proporzionale al maggior lavoro prestato. Ché, se, dove 9 milioni di uomini lavorano ad alimentarne 10, il prodotto unitario è 90 milioni di unità, dove lavorano tutti 10, per la più perfetta divisione del lavoro e il maggior stimolo al lavoro dovuto alla invariata falcidia delle imposte, il prodotto unitario sarà probabilmente 100 + x milioni di unità.

 

 

V. – Pare dunque che a risolvere pienamente il paradosso economico odierno manchi solo un anello della catena: i 10 miliardi di lire di fondo necessario allo stato per far domanda sul mercato dei fattori produttivi atti a creare il nuovo prodotto.

 

 

In paesi antiquati e da economisti antiquati, come lo scrivente, la risposta alla domanda: dove trovare i 10 miliardi sarebbe: presso i risparmiatori. Fino a qualche anno fa, quando si parlava di risparmio, il pensiero correva al solito bonus pater familias, il quale guadagna all’anno al mese od al giorno 100 e, spendendo 80, reca i restanti 20 alla cassa di risparmio od alla banca. Se, a furia di 20, lungo un anno si costituisce un fondo di 10 miliardi, ecco lo spediente, il device cercato ed utile a mettere in moto la macchina. Qualche minore attrito dovrà essere superato: perché lo stato possa farsi mutuare 10 miliardi, occorrerà probabilmente che il fondo del nuovo risparmio annuo sia parecchio superiore ai 10 miliardi, essendo incredibile che non esista altresì una domanda privata di risparmio, non foss’altro da parte di quegli ostinati che, pure in tempo di crisi, continuano ad essere afflitti dalla malattia della pietra o da quella del campo bene sistemato o della bottega in perfetto ordine e simiglianti pazzie anti economiche, che sono però la ragion di vita di tanti più uomini che non si creda. All’uomo della strada ed agli economisti antiquati pare dunque assurdo trovare a prestito 10 miliardi, se prima i 10 miliardi non siano stati messi da parte e non siano tuttora disponibili. Senza la lepre non si fanno pasticci di lepre.

 

 

VI. – Pare invece che nei paesi avanzati i pasticci di lepre si facciano ora con i conigli. Ho l’impressione cioè che da qualche tempo gli economisti inglesi siano assidui alla nobile fatica di cercar conigli da sostituire alle lepri. Quando sentono parlare di risparmio all’antica, fanno smorfie. O che non ci sia bisogno di tanta fatica o di tanta rinuncia, perché le disgrazie attuali non sono dovute a carestia, terremoti e guerre e neppure a difetto di fattori produttivi, ma al difettoso operare di una qualche rotella nella testa degli uomini; o che sia disperata impresa indurre gli uomini a risparmiare, con i redditi tanto falcidiati e con le imposte così alte (incomes are so curtailed today and taxation so much increased, that many people are already, in the effort to maintain their standard of life, saving less than sound personal habits require), sta di fatto che molti economisti d’avanguardia rivolgono a preferenza la loro attenzione al surrogato di risparmio piuttostoché al risparmio inteso nel senso tradizionale. Che cosa sia cotal surrogato di risparmio non è facile spiegare. È un certo che di nebuloso, un composito di concetti vecchi e plausibili e di astrazioni nuove. La paternità, involontaria e ad altro scopo indirizzata, risalirebbe ad un economista di non grande fama, appartenente alla pleiade ricardiana, James Pennington, il quale nel 1829 (in una nota comunicata a Tommaso Tooke e da questi pubblicata in appendice allo scritto A letter to Lord Grenville on the effects ascribed to the resumption of cash payments on the value of the currency, London, John Murray, 1829) avrebbe dimostrato che le banche possono, entro certi limiti, crear credito. La teoria secondo la quale prima il risparmiatore mette da parte 20 lire (o 10 miliardi tra tutti i risparmiatori di un paese insieme), poi le reca alla banca e finalmente la banca le dà a mutuo all’imprenditore o, se questi sia timido, allo stato per mettere in moto la macchina economica incantata, sarebbe una teoria antiquata o, per lo meno, insufficiente. C’è, accanto a questa, e nei paesi moderni parrebbe di ben maggior portata, un’altra teoria, la quale direbbe che prima la banca apre un fido al cliente (imprenditore o stato), poi il cliente trae assegni sulla banca fino a concorrenza del fido ricevuto, poscia il beneficiario dell’assegno se ne fa accreditare l’importo presso la stessa o un’altra banca e così finalmente nascono i depositi in banca; in media i depositi presso le banche essendo conseguenti ed equivalenti alle aperture di credito concesse dalle banche medesime.

 

 

VII. – Ecco afferrata la coda del coniglio indispensabile a manipolare il pasticcio desiderato. Bisogna dar modo alle banche di fare un’apertura di credito di 10 miliardi. Se gli imprenditori privati non vogliono saperne di chiedere credito neppure al 3% od al 2%, perché temono di perdere sulle imprese ad essi consigliate, sia concesso il credito allo stato, il quale non ha d’uopo di fare conti di profitti e costi e può trovare un profitto (minori sussidi ai disoccupati, maggior gettito delle imposte), dove ai privati non sarebbe concesso.

 

 

VIII. – Ma le banche non possono aprir crediti, sia alla maniera antica dopo aver ricevuto depositi, sia alla maniera nuova dell’aprir previamente crediti sapendo che saranno poi coperti da depositi, se non osservino talune regole prudenziali insegnate dalla esperienza. Per ogni 100 lire di depositi, occorre vi siano solo 100 y lire di aperture di credito, y essendo la riserva in contanti (biglietti) o in depositi a vista presso gli istituti di emissione che le banche prudenzialmente devono serbare per essere sempre pronte a far fronte alle domande di rimborso dei depositi; che è vizio, quello di farsi rimborsare, comune ai depositanti fatti all’antica ed a quelli venuti fuori alla moderna. E cioè i depositi e quindi le aperture di credito sono una funzione, un multiplo delle riserve possedute dalle banche ordinarie di credito. Se l’esperienza, a cagion d’esempio, consigliò una riserva del 10%, le banche ordinarie possono, tra brevi e lunghe, consentire aperture di credito solo fino al multiplo di nove volte le riserve possedute. Anche i teorici della «banca la quale crea il credito» ammettono che la potestà creatrice iniziatrice della banca non sia arbitraria.

 

 

IX. – A sua volta, la riserva delle banche ordinarie, consistendo in biglietti emessi dagli istituti centrali di emissione o in depositi a vista presso i medesimi istituti, non è una quantità arbitraria. Essa è una frazione della massa totale di biglietti emessi in un paese, il resto trovandosi sparpagliato in numerosissime piccole o grosse riserve di biglietti, in ogni dato momento esistenti nelle tasche o nei cassetti di privati cittadini o di enti diversi.

 

 

X. – La massa totale dei biglietti circolanti in un paese è, dal canto suo, un multiplo della riserva oro posseduta dall’istituto centrale di emissione. Se l’esperienza o le leggi, le quali dovrebbero essere esperienza cristallizzata, consigliano agli istituti centrali di emissione di tenere una riserva uguale al 40% dei biglietti, l’ammontare totale dei biglietti non può essere maggiore di due volte e mezza l’ammontare della riserva.

 

 

Anzi, poiché l’esperienza insegna regole elastiche invece che rigide, cova in tempi pericolosi crescere la proporzione della riserva ai biglietti. In tempi normali, se la riserva oro è di 10 miliardi, i biglietti circolanti possono spingersi a due volte e mezza, ossia a 25 miliardi. In tempi di crisi, quando per far fronte a richieste di pagamenti all’estero, la riserva oro si è ridotta ad 8 miliardi e si è in ansia per ulteriori riduzioni, l’istituto centrale riduce prudentemente il multiplo a due e la massa dei biglietti emessi a 16 miliardi.

 

 

XI. – Rifacendo, ora, il cammino all’inverso, scopriamo facilmente l’espediente, il rimedio, il device di Keynes:

 

 

  • se ad una riserva oro di 8 miliardi, corrisponde, al multiplo 2 ossia alla proporzione del 50%, una massa di biglietti circolante di 16 miliardi;

 

  • se dei 16 miliardi circolanti, 4 si trovano nelle casse delle banche ordinarie di credito (casse di risparmio ed altri istituti di credito compresi) e costituiscono la riserva biglietti delle banche medesime;

 

  • se ad una riserva biglietti di 4 miliardi delle banche ordinarie corrisponde un’attitudine di queste ad aprir credito per l’ammontare di 4 x 9 = 36 miliardi; quale condizione è sufficiente per raddoppiare quest’ultima attitudine, ossia per portare le aperture di credito da 36 a 72 circa?

 

La risposta è ovvia: aumentare sufficientemente le riserve oro dell’istituto centrale;

 

  • se queste sono cresciute da 8 a 10, ecco l’istituto centrale, più tranquillo, pronto a spingere la massa di biglietti emessa dal multiplo 2 a quello 2,5 e la circolazione a 25 miliardi;

 

  • se dei 25 miliardi circolanti, un quarto, come dianzi, ossia 6,25 miliardi, costituisce la riserva biglietti delle banche ordinarie di credito;

 

  • se le banche ordinarie di credito, forti di una riserva tanto cresciuta, spingono il loro multiplo di creazione di aperture di credito da 9 a 12, ecco le aperture di credito balzare a 6,25 x 12 = 75 miliardi. Ossia, ecco più che raggiunto l’effetto desiderato.

 

 

XII. – Quella ora ordinatamente ragionata è la genesi della proposta sensazionale di Keynes: si crei una massa di 5 miliardi di dollari oro di biglietti internazionali ad opera di un istituto centrale mondiale di emissione, la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea od altra. I biglietti dovrebbero essere accettati alla pari dell’oro; non dovrebbero entrare nella circolazione effettiva; sarebbero usati esclusivamente dalle tesorerie degli stati partecipanti, dagli istituti centrali di emissione e sarebbero equiparati alla riserva oro propriamente detta degli istituti medesimi.

 

 

I biglietti dovrebbero essere forniti a mutuo, contro obbligazioni oro di identico ammontare a saggio bassissimo di interesse, a quei  governi i quali ne facessero richiesta e si obbligassero ad abolire qualsiasi restrizione sui cambi esteri e ogni dazio e contingente doganale che fosse stato introdotto non a causa di una data politica economica, ma esclusivamente per difendersi contro importazioni da paesi esteri a valuta deprezzata o contro esportazioni di capitali.

 

 

I governi e gli istituti di emissione potrebbero, subordinatamente al ritorno alla libertà dei cambi ed a quella degli scambi di merci, fare dei biglietti ricevuti l’uso che reputassero migliore: pagar debiti esteri urgenti, ridare equilibrio al bilancio, espandere le emissioni interne cartacee sulla base della cresciuta riserva aurea.

 

 

Ogni stato avrebbe diritto a ricevere a prestito una quota dei cinque miliardi la quale fosse proporzionale alla massa di riserva aurea posseduta nel 1928, fino ad un massimo di 450 milioni di dollari per ognuno di essi. Ogni stato sarebbe responsabile, in proporzione alla propria quota, delle perdite subite nella gestione della nuova massa monetaria.

 

 

XIII. – Fin qui, il ragionamento fila diritto. Pericolosamente come sulla lama di un rasoio, ma diritto. Ad un tratto, dal cielo cade un bolide: «il consiglio direttivo [del nuovo istituto centrale mondiale di emissione] dovrebbe far uso delle sue facoltà discrezionali rispetto all’ammontare complessivo dei biglietti emessi [al disopra o al disotto dei 5 miliardi di dollari oro] o rispetto al saggio di interesse da caricare sulle obbligazioni oro rilasciate dagli stati aderenti, esclusivamente allo scopo di evitare, per quanto sia possibile, un rialzo nel livello dei prezzi oro dei prodotti fondamentali costituenti il commercio internazionale al disopra di un livello convenuto – forse quello del 1930 – posto tra il livello presente e quello del 1928».

 

 

Tutto un capitolo del saggio era infatti stato dedicato dal Keynes ad illustrare i modi di rialzare i prezzi. Che sia conveniente anzi necessario rialzare il livello generale dei prezzi non è messo in dubbio neppure per un istante dall’autore, il quale non reputa neppure necessario indicare le ragioni di tale meta. Sir Arthur Salter, dichiarandosi in un bell’articolo sullo Spectator del 24 marzo favorevole oggi alla proposta del Keynes osserva, ragionando dal punto di vista della odierna situazione di fatto inglese: che una espansione creditizia è oggi opportuna, perché il mondo si trova al fondo della fase discendente del ciclo economico, che già sono corsi tre anni di restrizioni di credito, i quali hanno ridotto i prezzi ed i costi ed eliminate le imprese dubbie e cattive, che non si può consentire ancora ai prezzi di andar giù in faccia ad un immenso onere di debiti e di pesi fissi di ogni specie, che perciò quello presente o non più è il momento buono per dare con una politica coraggiosa di credito e di lavori pubblici una scudisciata ai prezzi; che oggi, a differenza del 1931, l’Inghilterra può prendersi il lusso di prestiti grandiosi e di lavori pubblici, il bilancio dello stato essendo tornato all’equilibrio ed essendo granitico il credito pubblico.

 

 

XIV. – Non discuto il valore del bolide in sé stesso; ma affermo che esso è un corpo estraneo rispetto al ragionamento proprio del Keynes. Il quale moveva dalla premessa dell’esistenza di fattori produttivi disponibili, che occorresse far muovere con uno espediente, senza toccare il livello generale dei prezzi. Che altro volevano dire le parole sopra riprodotte che «se non vi fosse stato un margine di risorse disponibili, la maggiore spesa [degli enti pubblici o di privati, non monta] si sarebbe esaurita anzi sprecata [would largely waste itself] nel provocare aumenti di prezzi ed aumenti di importazione?». E prima aveva insistito che la nuova spesa [in lavori pubblici] doveva essere aggiuntiva e non sostitutiva della spesa che sarebbe altrimenti fatta dai privati; e che, per scemare la disoccupazione, la nuova spesa doveva rivolgersi a fattori produttivi disponibili. «Se le risorse del paese fossero già interamente utilizzate, gli acquisti aggiuntivi [ad opera dei lavori pubblici] darebbero principalmente luogo a più alti prezzi ed a cresciute importazioni».

 

 

XV. – La caduta del bolide non ha, si ammetta, importanza troppo grande. Giova segnalarla, a mettere in luce come il Keynes sia incerto fra due scopi della sua proposta: dar modo agli stati di potere, con prestiti pubblici, occupare i fattori produttivi disponibili, senza variare i prezzi, oppure dare una spinta ad una politica espansionistica di credito, la quale spinga i prezzi all’insù, ricrei i profitti e perciò lo stimolo ad agire per gli imprenditori privati. Interpretando nel modo più conforme all’intenzione dello scrittore, si può anche ritenere che il bolide non sia un corpo estraneo, ma una seconda fase del processo logico. La catena compiuta sarebbe in tal caso la seguente:

 

 

a)    si crea la nuova massa monetaria internazionale;

 

b)    la riserva, così cresciuta, degli istituti di emissione consente una politica creditizia espansiva;

 

c)    se ne giovano dapprima gli stati per dare, con prestiti e lavori pubblici, lavoro ai disoccupati ed utilizzare i fattori produttivi inerti;

 

d)    in seguito a questa prima spinta, la fiducia rinasce, i prezzi risalgono, spuntano speranze di profitti, gli imprenditori si svegliano. La macchina economica arrugginita, sollecitata dall’olio dell’ottimismo, si muove piano piano dapprima e poi via via più velocemente. La crisi è finita.

 

 

La ricostruzione del pensiero dell’insigne economista di Cambridge non ha per iscopo di facilitare la critica ai particolari della sua proposta principale. In quanto essa dice che nei punti di avvallamento della curva del ciclo economico, una politica di lavori pubblici ad opera dello stato è conveniente, essa riespone una teoria classica. Con le opportune cautele riguardo ai limiti della efficacia dei lavori pubblici, ed alla necessità di non continuare nei lavori quando la curva del ciclo dalla valle fonda volga a risalire verso il monte, la teoria classica è anche pacifica.

 

 

Volli, invece, ricostruendo, offrire un esempio tipico della pericolosità del camminare diritti sui fili di rasoio. Tutta la catena poggia, nella sua parte principale, sulla verità della proposizione prima, che la crisi presente sia dovuta al difettoso funzionamento di qualche congegno mentale psicologico dell’agire umano; e nella sua parte aggiunta (il bolide della proposizione XIII) che a ricrear profitti e quindi a ridare, dopo il primo impulso dei lavori pubblici statali, incentivo all’operare spontaneo degli imprenditori giovi il rialzo del livello generale dei prezzi. Se queste due premesse sono vere, la sequenza è vera. Se il mondo è sossopra perché gli uomini disoccupati non riescono a mettersi a contatto con le cose disponibili, è logico che basta a raddrizzarlo e farlo muovere lo spintone, l’espediente, il device di Keynes. Sia qualsivoglia lo spediente, aperture di credito a spizzico delle banche o la reflazione all’ingrosso con diluvio internazionale di carta stampata, lo spediente può giovare. Contro una malattia dello spirito, l’incantesimo, il medico deve farsi stregone ed operare con uguali arti di incanto. Tra le stregonerie tiene, giustamente, gran luogo la fabbrica di carta stampata. Poiché i popoli non credono più, dopo l’esperienza del dopoguerra, nella carta stampata nazionale, esorcizziamoli con carta stampata a timbro internazionale. Se ciò giovi a fugar dal loro corpo il demonio del pessimismo e dell’inerzia, esorcizziamo.

 

 

È però la crisi davvero una malattia dello spirito dovuta a cotal specie di incanto? Keynes riconosce, sul bel principio del saggio, che «se la nostra povertà fosse dovuta alla carestia o al terremoto od alla guerra, se a noi mancassero cose materiali od i mezzi di produrle, noi non potremmo sperare di trovare le vie del ritorno alla prosperità altrove fuorché nel duro lavoro, nel risparmio e nello spirito inventivo». Ammette per un momento e per ipotesi astratta, solo per negare che quelle siano le cause della malattia: «In realtà, le nostre difficoltà sono notoriamente di un’altra specie». E segue la proposizione sopra esposta come prima. Io direi che “notoriamente” le cause dei nostri malanni sono proprio quelle da lui negate: la guerra e le malattie da essa inoculate nello spirito degli uomini, ossia ingordigia, voglia di improvvisi arricchimenti, impazienza della dura fatica, incapacità alla rinuncia ed al risparmio, intolleranza del lungo aspettare il frutto della fatica; spirito di nazionalismo intollerante, il quale ha chiuso ogni popolo in sé stesso ed ha inutilizzato gran parte delle risorse naturali esistenti, producendo gli stessi effetti delle carestie d’un tempo; fanatismi religiosi in Russia, in Cina ed in India, religiosi anche se in forme nuove comunistiche o xenofobe o gandhiste, che fanno preferire agli uomini di star senza cibo e senza panni, pur di non aver contatti pericolosi con infedeli. Come si può pretendere che la crisi sia un incanto, e che a manovrare qualche commutatore cartaceo l’incanto svanisca, quando tuttodì, anche ad avere gli occhi mediocremente aperti, si è testimoni della verità del contrario? Si osservano, è vero, casi di disgrazia incolpevole, di imprese sane travolte dalla bufera. Ma quanti e quanti esempi di meritata punizione! Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori ed imprenditori incompetenti, od avventati, o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri, ma resistono. Gran fracasso di rovine invece attorno a chi fece in grande a furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi; a chi per sostenere l’edificio di carta, fabbricò altra carta e vendette carta a mezzo mondo; a chi, invece di frustare l’intelletto per inventare ed applicare congegni tecnici nuovi o metodi perfetti di lavorazione e di organizzazione riscosse plauso e profitti inventando catene di società, propine ad amministratori-comparse, rivalutazioni eleganti di enti patrimoniali. L’incanto c’è stato e non è ancora rotto; ma è l’incanto degli scemi, dei farabutti e dei superbi. A iniettar carta, sia pure carta internazionale, in un mondo da cui gli scemi, i farabutti ed i superbi non siano ancora stati cacciati via se non in parte, non si guarisce, no, la malattia; ma la si alimenta ed inciprignisce. Non l’euforia della carta moneta occorre; ma un pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori, l’applicazione inventiva dei sopravvissuti. Fuor del catechismo di santa romana chiesa non c’è salvezza; dalla crisi non si esce se non allontanandosi dal vizio e praticando la virtù.

 

 

Giovasse, almeno, la stregoneria della carta stampata a ricrear profitti ed a ridar perciò impulso all’opera degli imprenditori privati! Ahime! Ché anche qui la catena del ragionamento pare spezzata! Sembra, a sentir taluno, che gli anelli siano:

 

 

a)    sulla base delle cresciute riserve, le banche crescono le aperture di credito a prezzo mite;

 

b)    i lavori pubblici condotti a mezzo del credito danno la prima spinta ai prezzi;

 

c)    il rialzo dei prezzi ricrea i profitti o la speranza dei profitti;

 

d)    la rinnovata speranza dei profitti dà impulso allo spirito di intrapresa privata.

 

 

La proposizione c: il rialzo dei prezzi ricrea i profitti è vera soltanto nell’ipotesi che i lavori pubblici condotti a mezzo del credito spingano in su precisamente quei prezzi i quali devono crescere per ristabilire l’equilibrio. La mancanza di profitti non proviene dal fatto che i prezzi siano bassi, ma dal fatto ben diverso che essi sono squilibrati fra di loro. Se tutti i prezzi fossero ribassati del 50% – o, per ogni bene, nelle proporzioni necessarie a tener conto delle condizioni, nel frattempo mutate, di produzione e di domanda – la crisi non esisterebbe; ché si può vendere in profitto a cinquanta come a cento, se i prezzi dei fattori produttivi sono pure scemati a cinquanta. La crisi e la mancanza dei profitti nascono dallo squilibrio dei prezzi, dal fatto che taluni prezzi non ribassarono o non furono lasciati ribassare; e, poiché i prezzi sono reddito per gli uni e costo per gli altri, molti perdono e perdono soprattutto gli imprenditori. Un rialzo dei prezzi che fosse dovuto a lavori pubblici compiuti per mezzo di inflazione creditizia lascerebbe sussistere la sproporzione fra prezzo e prezzo, ossia fra costi e ricavi. Forse la crescerebbe.[2]

 

 

Se è vero, ad esempio, che talune derrate agricole e talune materie prime minerarie sono ribassate troppo in relazione a taluni prodotti industriali, ai prezzi del lavoro e dei servizi pubblici (imposte) ed agli interessi dei debiti, sarebbe necessario che la domanda derivante dai nuovi mezzi di spendere offerti dalla creazione della nuova massa monetaria si rivolgesse esclusivamente verso i beni ed i servigi relativamente deprezzati. Un programma cosiffatto è nell’ordine delle possibilità umane? Esistono strumenti di misurazione raffinati abbastanza per valutare gli squilibri dei prezzi fra merce e merce? Esistono strumenti adatti a distinguere il ribasso di prezzo proveniente da squilibrio dai ribassi dovuti a ragioni tecniche: riduzione di costi, mutazione di gusti? Perché, se un tempo esisteva equilibrio

 

 

tra differenti beni

A

B

C

D

ai prezzi

10

12

8

15

ed ora i prezzi correnti

8

4

7

5

 

 

non consentono ai produttori di B e di D di lavorare proficuamente, cosicché essi riducono fortemente la loro domanda di A e di C, perché immaginare che la crisi possa essere liquidata, iniettando carta moneta nel mondo ed aumentando del 50% i prezzi a:

 

 

12

6

10,50

7,50

?

 

 

Lo squilibrio esiste tuttavia; B e D non potendo essere prodotti ai prezzi (costi) relativamente troppo alti di A e di C. È possibile fare le iniezioni in guisa da raggiungere nuovamente il livello di partenza: 10, 12, 8 e 15? Come operare il miracolo? Siamo noi sicuri che il livello, che era equilibrato alla partenza, sia tale ancora adesso? Oh!, non è meglio tener duro e, come consiglia il Machlup, con saggi di sconto sufficientemente alti, forzare i B ed i D a liquidare, alla più svelta, le rimanenze ingombranti di magazzino, anzi con ulteriori tracolli di prezzo, ma con contemporanei aggiustamenti nelle quantità prodotte; sicché alla fine, sbarazzato il campo dell’invenduto minaccioso, i prezzi ritornino a 6 e ad 8? Nel frattempo, anche i produttori di A e di C, costretti a pagare il denaro caro, e posti di fronte ad attenuate richieste di B e di D, avranno dovuto anch’essi cedere sui prezzi. I consorzi costituiti per resistere avranno abbassate le armi e si saranno sciolti; ed alla fine un nuovo equilibrio si potrà formare ai prezzi:

 

 

7

6

5

8

 

 

Al nuovo livello, si torna a profittare ed a guadagnare. La crisi è finita.

 

 

Il grande scoglio alla liquidazione sono i prezzi fissi per legge (imposte) o per contratti a lunga scadenza (interessi di debiti pubblici e privati) o per convenzioni rigide fra gruppi sociali (stipendi, salari). In fondo, i congegni inflazionistici sono immaginati allo scopo di assaltare di fianco con manovra avvolgente fortilizi che si giudica impossibile espugnare con assalti frontali. I contribuenti, schiacciati da un peso troppo forte di imposte (compresi gli interessi dei debiti pubblici); gli industriali e gli agricoltori, impotenti a pagare, in tempi di prezzi calanti, imposte, salari ed interessi invariati, sperano nella manovra monetaria. Nel tempo I se il reddito nazionale era 100 e la quota di esso assorbita dai percettori di redditi fissi (impiegati pubblici, interessi di debiti pubblici e privati) era 25 e quella ottenuta dai redditi semifissi (stipendi privati, salari, canoni di fitto, ecc.) era 40, ai percettori di redditi variabili (proprietari diretti conduttori, fittaioli, mezzadri, industriali, commercianti, artigiani, professionisti) rimanevano 35. La situazione era grosso modo equilibrata.

 

 

Se nel tempo II, essendo i prezzi ridotti del 35%, epperciò il reddito nazionale sommando a 65, la quota assorbita dai percettori di redditi fissi rimanendo invariata a 25 e quella ottenuta dai redditi semifissi riducendosi forse a 30, ai percettori di redditi variabili, a coloro che corrono il rischio del più o del meno, rimangono evidentemente solo 10. Essi, che sono molti, si lagnano di non poter più vivere.

 

 

Se tutti i prezzi fossero fluidi, tutti si ridurrebbero di un terzo circa: a 17, 27 e 21. Poiché alla fluidità si oppongono leggi, controlli, consuetudini, pressioni imponenti di vigorose forze sociali, i rappresentanti dei redditi variabili, schiacciati tra l’incudine degli oneri fissi e semifissi e il martello dei prezzi calanti, persuasi della impossibilità di ottenere riduzioni di imposte, concordati amichevoli con i creditori, consensi sindacali a riduzioni di salari, invocano con ansia lo spediente, il quale consenta di rialzare nuovamente prezzi e redditi da 65 a 100, col minimo attrito e col contento universale. Keynes annuncia all’uopo la ricetta dei 5 miliardi di dollari oro stampati ad incremento delle riserve auree.

 

 

Ma, oramai l’equilibrio originale è rotto. Chi ci dice si debba ritornare ai rapporti vecchi di 25 per i redditi fissi, 40 per i semifissi e 35 per i redditi variabili? Quando si stampa carta, si ha pur voglia di far le cose con garbo e con giustizia. Ma nell’arraffa arraffa mondiale dei 5 miliardi di dollari oro, vincono i più svelti; e non meraviglierebbe affatto che imposte e creditori riuscissero a portar la loro quota da 25 a 35: i salariati ed altri semifissi da 30 a 40, sicché i variabili restassero con i rimanenti 25; meglio di 10, ma non tanto come appare, Poiché i 10 erano sui 65 ed i 25 son sui 100. I variabili parteciperebbero, inoltre, forse tutti ugualmente alla cuccagna o la preferenza andrebbe ai più svelti?

 

 

Chi ricordi che il disordine sociale del dopoguerra fu dovuto non alla guerra in sé, ma alla inflazione monetaria la quale si accompagnò sebbene non necessariamente, ad essa,[3] rimane sgomento dinanzi alle possibili conseguenze sociali di un nuovo sperimento cartaceo a tanta poca distanza da quello recente. Sperimenti cosiffatti si possono, sebbene con gravissimo pericolo, ripetere solo a distanza di un secolo l’uno dall’altro: guerra europea, 1914 – 1918; assegnati francesi, 1790-1796; sistema di Law, 1715-1720. Oggi, ripetere l’esperimento, potrebbe significare il crollo della civiltà occidentale.

 

 

Si conosce la replica degli inflazionisti o riflazionisti, come oggi essi preferiscono chiamarsi: la reflazione sarà prudente, limitata al necessario per risollevare i prezzi ed i redditi non da 65 a 100, ma appena ad 80, circondata da garanzie strettissime. Tutto sommato, ritengo che i percettori dei redditi variabili corrano minor rischio nel fare buon giuoco a cattiva fortuna piuttostoché nel reagire con spedienti. Lo spediente monetario val come tentare la fortuna a Montecarlo. Può andar bene; ma può rinnovare il disordine del 1918-1920. Nuovi arricchimenti gratuiti e nuovi impoverimenti incolpevoli farebbero ridivampare l’incendio, che faticosamente sembrava andasse spegnendosi, degli odi e delle invidie sociali. Come sempre accadde nella storia, i lestofanti, i procacciatori, gli arricchiti saprebbero porsi in salvo per tempo. Cadrebbero gli innocenti, gli industriali, gli agricoltori, i commercianti probi e sensati, i quali hanno fin qui resistito all’urto della crisi.

 

 

No. Si corre minor rischio a pagare imposte alte ed interessi invariati. Dal meglio rassegnarsi a non avere reddito, ed a lasciarne godere temporaneamente la propria quota, a guisa di premio di assicurazione della pace sociale, ad impiegati ed operai. Alla lunga, chi riuscirà a pagare gli interessi pattuiti, vedrà salire alto il proprio credito. Stati e privati potranno convertire i proprii debiti, appena sia legalmente possibile, dall’8 al 6%, dal 6 al 5%, dal 5 al 4 ed al 3 e forse al 2 e ½ per cento. La rigida osservanza della parola data, spinta benanco alla sopportazione di quella che è o pare ingiustizia sostanziale, è ancora e sarà per un pezzo la miglior garanzia di successo nella vita degli individui e dei popoli.

 



[1] Traduco a modo mio in lire italiane i calcoli del Keynes, senza entrare nei particolari dimostrativi. Avverto che, anche sotto altri aspetti, il mio è un riassunto, che non pretendo letterale, del saggio del Keynes. Trascuro una parte notevole delle sue argomentazioni, che a me, sebbene forse non a lui, paiono estravaganti rispetto al punto essenziale; e riespongo quest’ultimo come lo ricostruissi nella mia mente, con qualche amplificazione, inutile per gli iniziati, necessaria a chi vuole ritessere la catena del ragionamento in tutti i suoi anelli. Può darsi che, riducendo ed amplificando, io abbia mutato. Resta inteso che il riassunto e le critiche si riferiscono non al saggio originale del Keynes, ma alla mia ricostruzione.

[2] Leggasi su questo punto ed in generale sulla politica manovriera del credito un saggio, che non esito a dichiarare stupendo per classica forza e dirittura di ragionamento, di FRITZ MACHLUP, Zur Frage der Ankurbelung durch Kreditpolitik, in Zeitschrift für Nationalökonomie, Band IV, Heft 3, pag. 398 – 404. La lettura di questo e di altri saggi pubblicati dalla rivista viennese mi fa pensare che oggi la palma della eccellenza tra le effemeridi economiche, che per qualche anno dopo il 1890 parve vinta da Roma ed erasi poi trasferita a Londra ed a Cambridge (U.S.A.) sia ora disputata, con esito incerto, da Vienna. È prezzo dell’opera, contro la diffusa opinione, della quale si fa eco anche il Keynes, essere un deciso ribasso del saggio dello sconto vantaggioso alla liquidazione e al superamento della crisi, riprodurre la lapidaria sentenza del Machlup: «La politica del saggio dello sconto degli istituti di emissione ha indubbiamente una grande importanza anche nella fase della discesa. Secondo l’opinione dei più, l’importanza sua starebbe in un alleggerimento o lenimento della crisi attraverso la riduzione rapida e decisa del saggio dello sconto. Secondo la mia opinione l’importanza sta in un differimento della liquidazione della crisi, in un prolungamento della situazione depressiva precisamente dovuti alle facilitatrici riduzioni del saggio dello sconto. Se è vero che il superamento della crisi consiste in un ristabilimento dell’equilibrio fra costi e prezzi, il quale renda nuovamente possibile una produzione la quale copra i costi e lasci un profitto; se è vero inoltre che l’equilibrio nei prezzi si raggiunge tanto più rapidamente quanto più presto si liquidano le rimanenze di merci invendute e quanto più rapidamente si spingono all’ingiù i costi dei fattori produttivi e della forza di lavoro; se è vero finalmente che un cresciuto saggio di sconto accelera lo svuotamento dei magazzini ed il tracollo dei prezzi, la rapida riduzione del saggio dello sconto è evidentemente un mezzo atto a prolungare la crisi. Misericordiose riduzioni del saggio dell’interesse recano sollievo. Esse spingono a mantenere le posizioni al rialzo, le quali alla fine devono pure essere abbandonate; esse rendono possibile la temporanea prosecuzione di produzioni le quali da ultimo devono pure essere sospese; esse consentono di prolungare saggi di remunerazione, che si dimostreranno infine insopportabili; in breve, esse producono un differimento nella liquidazione della crisi. Lenimento della crisi vuol dire prolungamento del processo di cura della crisi». Il Machlup giunge perciò alle seguenti proposizioni elegantemente paradossali: «Laddove un rialzo prematuro del saggio dello sconto durante la fase ascendente del ciclo economico accorcia il rialzo (e quindi attenua la crisi conseguente), un ribasso prematuro del saggio dello sconto nella fase discendente può prolungare la depressione. Laddove un rialzo troppo tardivo del saggio di sconto lungo la fase ascendente prolunga il rialzo (e quindi aggrava la crisi conseguente), il ritardo nel ribasso del saggio di sconto durante la fase discendente può abbreviare la depressione».

[3] Ho cercato, per l’Italia, di dimostrare innocente la guerra, dei mali sociali che la seguirono e di narrare le fasi e le cause del disordine post-bellico nel volume La condotta economica e gli eletti sociali della guerra italiana, testé pubblicato nella «Collezione Carnegie» dal Laterza di Bari.

Epilogo

Epilogo

La Condotta economica e gli effetti sociali della guerra italiana, Laterza, Bari – Yale University Press, New Haven, 1933, pp. 397-416

 

La crisi e le ore di lavoro

La crisi e le ore di lavoro

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1933, pp. 1-20

Nuovi saggi, Einaudi, Torino, 1937, pp. 269-288

 

 

 

 

La intervista che il senatore Giovanni Agnelli, Presidente della F.I.A.T., concesse nel giugno scorso alla United Press, provocando una eco mondiale di discussioni, fu altresì occasione di un amichevole scambio di vedute fra l’Agnelli ed il direttore di questa rivista. Poiché da ultimo quello scambio diede luogo ad un breve carteggio, riteniamo opportuno pubblicare quelle lettere. Nelle quali, più che disputare, si volle mettere in carta punti di vista non contrastanti nella meta finale e divergenti soprattutto nella diversa importanza assegnata ai fattori di attrito i quali ostacolano il passaggio da una ad altra posizione di equilibrio nell’economia mondiale.

 

LA RIFORMA SOCIALE

 

 

Torino, 5 gennaio 1933

 

 

On. Collega,

 

 

Ella mi ha chiesto, un giorno in cui ebbimo occasione di discorrere insieme intorno alla intervista da me concessa alla United Press sulla crisi, di riassumere le mie considerazioni, limitatamente a quella che si suole chiamare disoccupazione “tecnica”.

 

 

Partiamo dalla premessa che in un dato momento, in un dato paese, ad ipotesi nella parte industrializzata di questo nostro mondo, vi siano 100 milioni di operai occupati. Sia il loro salario medio di un dollaro al giorno. Scelgo il dollaro sia perché è moneta da parecchie generazioni invariata in un dato peso d’oro, sia perché mi consente di esporre calcoli semplicissimi col minimo uso di operazioni aritmetiche, corrispondendo il salario di un dollaro (19,50 lire, 25 franchi francesi, 5 franchi svizzeri, 3 ½ scellini, ecc.), ad una misura di compenso giornaliero abbastanza accettabile in generale. Sulla base di un dollaro, ogni giorno nasce una domanda di 100 milioni di dollari di beni e servizi, ed ogni giorno industriali ed agricoltori producono e mettono sul mercato 100 milioni di dollari di merci e servizi. Produzione, commercio, consumo, si ingranano perfettamente l’un l’altro. Non esistono disoccupati. Non si parla di crisi. Noi industriali diciamo, nel nostro linguaggio semplice, che gli affari vanno. Alla macchina economica non occorrono lubrificanti.

 

 

Ad un tratto – in verità le cose si svolgono diversamente, per sperimenti vari e successivi; ma debbo semplificare – uno o parecchi uomini di genio inventano qualcosa; e noi industriali facciamo a chi arriva prima ad applicare la o le invenzioni le quali promettono risparmio di lavoro e maggior guadagno. Quando le nuove applicazioni si siano generalizzate, risulta che con 75 milioni di uomini si compie il lavoro il quale prima ne richiedeva 100. Rimangono fuori 25 milioni di disoccupati. All’ingrosso, oggi vi sono per l’appunto 25 milioni di disoccupati nel mondo.

 

 

Quale la causa? La incapacità dell’ordinamento del lavoro a trasformarsi con velocità uguale alla velocità di trasformazione dell’ordinamento tecnico.

 

 

Prima dell’invenzione occorrevano 100 milioni di giornate di lavoro di otto ore l’una fornite da 100 milioni di operai, ossia 800 milioni di ore di lavoro al giorno, a produrre una data massa di merci e servizi. Dopo l’invenzione bastano, per produrre la stessa massa di merci e servizi, 600 milioni di ore di lavoro. Ad otto ore al giorno, è bastevole il lavoro di

75 milioni di operai. Gli altri 25, disoccupati, consumano assai meno. La domanda si riduce al disotto del livello precedente. Dopo un po’ basteranno 70 e poi 60 milioni di operai a produrre quanto il mercato richiede. È una catena paurosa che a noi pratici pare svolgersi senza fine, sebbene voialtri economisti ci abbiate abituati a credere che ad un certo punto si deve ristabilire l’equilibrio. Quel certo punto fa a noi l’impressione, soprattutto quando siamo sulla china discendente, di non arrivare mai.

 

 

Il danno sembra a me derivare dallo sfalsamento esistente tra due velocità: la velocità del progresso tecnico, il quale dal primo al secondo momento ha ridotto di un quarto la fatica necessaria a produrre, e la mancanza di progresso nell’organizzazione del lavoro, per cui l’operaio che lavora seguita a faticare le stesse otto ore al giorno di prima. Rendiamo uguali le velocità dei due movimenti progressivi, quello tecnico e quello, chiamiamolo così, umano. Poiché, a produrre una massa invariata di beni e servizi, occorrono 600 invece che 800 milioni di ore di lavoro, tutti i 100 milioni di operai occupati nel primo momento per 8 ore al giorno, rimarranno occupati nel secondo momento per sei ore al giorno. Poiché essi producono la stessa massa di beni di prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La domanda operaia di beni e servizi resta di 100 milioni di dollari. Nulla è mutato nel meccanismo economico, il quale fila come olio colato. Non c’è disoccupazione, non c’è crisi.

 

 

Dopo essermi creato nella fantasia un mondo economico in cui, pur compiendosi invenzioni, non v’è disoccupazione tecnica e non si verificano i collassi spaventevoli nella domanda a cui noi oggi assistiamo, il dubbio mi assale di avere forse, per essermi voluto tenere al semplice, al pratico, a quanto si vede, trascurato qualcuno di quei fattori invisibili, di cui soprattutto parmi si dilettino gli economisti. Ha il mio dubbio un fondamento?

 

GIOVANNI AGNELLI al senatore LUIGI EINAUDI, in Torino

 

 

Torino, 10 gennaio 1933

 

 

On. Collega,

 

 

No, il suo dubbio non ha fondamento per quanto tocca la meta ultima alla quale si deve mirare. Il progresso tecnico non avrebbe senso se dovesse servire soltanto a creare disoccupazione, crisi e malcontento sociale. È possibile che gli anni a venire ci facciano assistere ad un nuovo meraviglioso incremento della capacità produttiva del mondo. Negli Essays in persuasion il Keynes afferma che, come nell’ultimo secolo la massa dei beni posti a disposizione di ogni uomo è stata moltiplicata per quattro, così entro un secolo si moltiplicherà almeno per otto, e pochissima fatica, di tre ore al giorno al più, farà d’uopo per ottenere il risultato stupendo di vivere una vita otto volte più larga dell’attuale. Non sono d’accordo col Keynes su tutti i punti della sua tesi e ho detto i motivi del disaccordo in Il problema dell’ozio nel primo fascicolo del 1932 di «La Cultura»; ma non mi pare dubitabile che, se gli uomini vorranno contentarsene, potranno procacciarsi fra un secolo con tre o quattro ore di lavoro al giorno una massa di beni di gran lunga superiore a quella che oggi acquistano con otto e dieci ore. Le macchine non si inventano per il gusto di fabbricare grande copia di beni e neppure per dar maggior guadagno ai fabbricanti; ma perché gli uomini possano faticare di meno a produrre le cose di cui abbisognano ed abbiano tempo libero a dedicare all’ozio od a procacciarsi altri nuovi beni. Al limite noi non vediamo da un lato un milione di uomini possessori ed operatori a gran fatica di macchine ed egoistici esclusivi consumatori dei beni prodotti e dall’altro lato novantanove milioni di disoccupati viventi di elemosina; bensì cento milioni di uomini i quali, con minima fatica per ognuno di essi, godono tutti del prodotto ottenuto grazie al muto ausilio delle macchine. Né questa è previsione; è lieta realtà dell’oggi confrontata con la penuria del passato. Se oggi si lavora per otto ore al giorno per un salario di un dollaro, un secolo fa si lavorava dodici e quindici e talvolta più ore per un salario di venti, di trenta, di cinquanta centesimi di dollaro. Mutazione codesta dovuta in gran parte alle invenzioni tecniche, le quali hanno dato modo agli uomini nei cent’anni corsi dalla fine delle guerre napoleoniche alla guerra mondiale, di migliorare le loro condizioni di vita più che non avessero potuto fare nei sedici secoli trascorsi fra l’aurea età antoniniana dell’impero romano e la rivoluzione francese.

 

 

Il dissenso colle sue vedute non riguarda dunque la meta finale ed il corso secolare degli avvenimenti. Esso sta, come per lo più accade, nei tempi brevi e negli attriti secondari.

 

 

Consenta ch’io affronti il problema per approssimazioni successive, procedendo per ora da un caso semplice ad un altro più complesso.

 

 

Supponiamo di essere all’origine dei tempi nuovi meccanizzati, in un’epoca in cui i beni economici si producevano a mano, non esisteva capitale tecnico, il processo produttivo era breve ed i beni prodotti ripartivansi tutti a titolo di salario ai lavoratori; chiamando salario ogni specie di compenso al lavoro e lavoratori tutti coloro che davano opera alla produzione, dal manovale al direttore dell’opificio. L’ipotesi è fatta non per affermare che in epoche storiche note gli uomini lavorassero colle loro sole mani, ma unicamente per evitare complicazioni. Possiamo immaginare che lo scarso capitale tecnico necessario appartenesse ai lavoratori medesimi, come accade oggi ai fabbri ed altri artigiani di villaggio. Ad un certo momento la prima macchina è inventata; intendendo per macchina qualunque procedimento tecnico atto a risparmiare lavoro; e si trovò anche chi, rinunciando a godere di una parte dei beni prima prodotti o goduti o faticando di più in vista dell’avvenire (risparmio) produsse e fece funzionare la macchina. Suppongasi ancora: che la invenzione operi uniformemente in tutti i campi del lavoro umano e diminuisca ugualmente la fatica di ogni lavoratore; che la macchina sia usata così da produrre maggior copia di quei beni che per l’appunto sono maggiormente desiderati e nella misura desiderata dagli uomini; e che i lavoratori i quali sappiano inventare e risparmiare la macchina continuino a lavorare ed a guadagnare salario ed in aggiunta godano un compenso per il loro merito di invenzione e di risparmio.

 

 

In queste condizioni io posso immaginare che la crisi derivante dalla macchina sia lieve e breve durante il passaggio dal primo al secondo momento:

  Prima dell'introduzione della macchina Dopo l'introduzione della macchina
Ore di lavoro giornaliere totale 800 600
Ore di lavoro per operaio occupato 8 6
Numero di operai occupati 100 100
Produzione ( in unità di beni o dollari ) 100 120
Salari agli operai occupati, 1 doll. x100 ( in unità di beni o dollari ) 100 Totale 100 Totale

Compenso agli inventori – risparmiatori (in unità di beni o dollari)

100 20 120

 

 

 

 

La tabellina non richiede molte spiegazioni aggiuntive:

 

 

Ho supposto che l’unità di misura della produzione, del salario e della domanda sia un dollaro costante, ossia avente una capacità di acquisto di una unità mista di beni o servizi invariata da un momento all’altro. Salto sopra, in questo modo, a grosse difficoltà di misurazione derivanti dal fattore monetario e dalle variazioni dei gusti degli uomini nei successivi momenti. Salto forse mortale, ma necessario per non complicare subito terribilmente il problema. Suppongo cioè che, aumentando la massa dei beni e servizi prodotti da 100 a 120 unità, si conservi la possibilità di far circolare col nome di un dollaro ognuna di quelle unità di beni e servizi. Non si possano cioè aumentare (o diminuire) le unità di beni o servizi prodotti senza che in qualche misterioso modo, che qui non si indaga, entrino in circolo i dollari necessari ad effettuare gli scambi, in modo che ogni unità di beni abbia sempre il medesimo nome di un dollaro. Faccio l’ipotesi per tener conto dell’abito mentale che hanno gli uomini – gli economisti, a furia di stare attenti nel discorrere acquistano talvolta l’abito contrario di pensare e parlare in termini di unità di beni; ma non possono pretendere che altri si adatti alle loro peculiarità – di pensare e parlare in termini di lire, franchi, sterline, dollari.

 

 

Non mi preoccupo, sempre per non complicare il problema, di indagare quale sia la specie dei beni prodotti e consumati; e principalmente non indago se si tratti di beni diretti o pronti per il consumo o di beni strumentali, ossia macchine, edifici, impianti, migliorie, strade, materie prime o intermedie, ecc., ecc. Probabilmente, prima della introduzione della macchina, il ciclo produttivo era breve e praticamente i beni prodotti potevano considerarsi, in una data unità di tempo, soprattutto beni diretti. Dopo la macchina, il ciclo produttivo si allarga, l’importanza dei beni strumentali cresce, gli uomini incoraggiati dai primi risultati della macchina, sono indotti a fabbricarne altre, il che vuol dire a spendere parte del loro tempo a fabbricare mezzi atti a produrre di più in avvenire (risparmio).

 

 

A rischio di dar scandalo a qualcuno dei miei amici amanti della raffinatezza nel ragionare economico, – ma essi mi daranno venia pensando che qui non con essi discorro ma con un industriale a ragione impaziente di arrivare al nocciolo dell’argomento – passo sopra alle complicazioni prodotte dalla eventuale manchevole sincronia nella produzione dei beni diretti e strumentali, nel consumo e nel risparmio e mi contento di constatare che la macchina ha avuto parecchie conseguenze notevoli:

 

 

  • ha scemato la fatica del produrre da 800 a 600 ore giornaliere e ridotto l’orario dei lavoratori da otto a sei ore;

 

  • ha conservato agli operai, tutti occupati, lo stesso salario di un dollaro al giorno per una fatica ridotta;

 

  • ha aumentato la massa totale prodotta da 100 a 120 dollari; i 20 dollari in più essendo il compenso degli inventori della macchina e dei risparmiatori che l’hanno fabbricata. Non importa, ai nostri fini, sapere quanta parte vada agli uni e quanta agli altri. Probabilmente essi vorranno che il maggior prodotto assuma non solo la forma di beni diretti, beni e servizi più fini che inventori e risparmiatori intendono consumare subito, ma quella anche di beni strumentali (risparmio), nuove macchine destinate a futuro ulteriore aumento di produzione.

 

 

La situazione descritta sul secondo momento è stabile? Sì, quando siano soddisfatte talune condizioni:

 

 

  • che i 20 dollari di maggior prodotto siano dagli inventori e dai risparmiatori ritenuti compenso bastevole alla loro opera di inventori e di risparmiatori. Se così non fosse, le macchine non si introdurrebbero. La cifra di 20 dollari è puramente esemplificativa. La cifra vera dipende da tutte le condizioni le quali influiscono a determinare sul mercato il saggio dell’interesse ed il compenso degli inventori imprenditori; ed è, in ogni momento, un dato noto;

 

  • che gli organizzatori della produzione (imprenditori) abbiano saputo utilizzare le macchine in modo da produrre precisamente quelle unità di beni e servizi diretti che i 100 lavoratori sono disposti a consumare subito (tenuto conto del fatto che quelli tra essi i quali sono anche inventori – risparmiatori possono e vogliono consumare oltre ad una unità ciascuno di beni – salario, un certo numero di ulteriori unità di beni diretti) ed in aggiunta quel numero di unità di beni strumentali in che gli inventori – risparmiatori ritengono conveniente investire i dollari di maggior compenso che essi hanno deciso di risparmiare.

 

 

Le quali due condizioni non vengono naturalmente soddisfatte da sé. Occorrono all’uopo capacità, intuito ed organizzazione. Attraverso a qualche incertezza, a qualche tentativo mal riuscito, ad errori più o meno presto riparabili, non a stati di crisi profonda, un nuovo equilibrio pare possa a primo aspetto essere raggiunto.

 

 

Dalla esposizione ora fatta appare invece chiaro perché la soluzione non sia stabile. Mi soffermerò su uno, fra i parecchi, perché principalissimo. Non è conforme a realtà supporre che il progresso tecnico sia generale, ossia diffuso uniformemente in tutti i campi della umana attività. Le macchine si inventano non dico a capriccio od a caso, ma per virtù d’ingegno; e l’ingegno degli uomini si avventa or contro l’uno or contro l’altro degli ostacoli che la natura ad essi oppone senza che di questo avventarsi sia dato delineare un piano ordinato. Le invenzioni vanno ad ondate, irregolarissime per direzione ed intensità.

 

 

Semplifichiamo anche qui e supponiamo che la macchina fecondi uniformemente una metà del campo produttivo ed abbandoni a sé l’altra metà. Otteniamo un quadro, anch’esso errato, perché l’irregolarità della fecondazione è enormemente più accentuata, meno errato tuttavia del quadro precedente ed atto a fornirci qualche spunto per la interpretazione di quel che accade intorno a noi.

 

 

  Prima dell'introduzione della macchina Dopo l'introduzione della macchina
    Occupazioni stazionarie Occupazioni progressive Totale

Ore giornaliere di lavoro totale

800 400 200 600

Ore giornaliere per operaio occupato

8 6 6 6

Numero di operai occupati

100 66.66 33.33 100

Produzione (in unità di beni o dollari)

100 5 70 120

Salari agli operai occupati ad 1 dollaro ciascuno al giorno (in unità di beni o dollari)

100 TOT: 100 66.66 TOT: 66.66 33.33 TOT: 53.33 100 TOT: 120

Compenso agli investitori – risparmiatori (in unità di beni o dollari)

20 20

Margine attivo o passivo fra produzione da un lato e spese (salario – compenso) dall'altro (in unità di beni o dollari)

  -16.66 +16.66  

 

 

 

 

 

 

Nel primo momento, innanzi alla introduzione della macchina, le condizioni del lavoro e della produzione sono uniformi in tutte le industrie (epperciò si scrisse una colonna sola) ed il conto torna. C’è equilibrio fra entrate (produzione) e spese (salari ai lavoratori, il compenso agli inventori-risparmiatori non essendo ancora sorto). Nel secondo momento, l’equilibrio c’è nel complesso; ma esso maschera il contrasto netto esistente fra i due gruppi.

 

 

A differenza di quanto si era supposto prima, la macchina agisce soltanto sulla metà delle occupazioni. Quindi, ferma rimanendo la colonna dei totali, nel primo gruppo (stazionario) le ore complessive di lavoro restano 400 e con esse si ottengono i soliti 50 dollari (unità di beni) di produzione; nel secondo gruppo le ore di lavoro sono ridotte da 400 a 200 e con esse si ottengono 70 invece di 50 dollari di produzione. Se si vogliono occupare tutti i 100 operai disponibili, essendo 600 le ore di lavoro complessive, la giornata di lavoro deve essere ridotta per tutti a sei ore. Ecco che il primo gruppo (lo stazionario) è costretto ad occupare 66,66 operai, laddove il secondo gruppo (quello progressivo con le macchine) ne occupa solo 33,33. Insieme i 100 disponibili. Non c’è per il momento disoccupazione.

 

 

Ma il sistema non funziona, perché il gruppo stazionario dovendo pagare il consueto salario di un dollaro al giorno per ogni operaio, è costretto a sborsare 66,66 dollari in salari, mentre il ricavo della produzione è di soli 50 dollari; con una perdita di 16,66 dollari, laddove il gruppo progressivo, pur pagando un dollaro al giorno ai 33,33 operai e 20 dollari di compenso agli inventori-risparmiatori, tiene la spesa nei limiti di 53,33 dollari contro un ricavo-prodotto di 70 dollari, e perciò guadagna 16,66 dollari.

 

 

Non io ho posto la condizione che il salario ad orario ridotto sia mantenuto in un dollaro. È condizione essenziale del piano esposto nella Sua intervista. Io mi sono limitato ad aggiungere implicitamente che essa sia una condizione “seria”, ossia che il dollaro, in che i salari siano pagati, sia nel secondo momento lo stesso dollaro del primo momento, ossia abbia la capacità di acquistare dopo la medesima massa di beni e servizi che acquistava prima. Se noi “all’uopo” fabbrichiamo moneta, mutano i dati del problema; i salari continuando a chiamarsi “un dollaro”, ma acquistando solo gli otto od i sette od i sei decimi dei beni che si acquistavano prima con quel nome monetario. Il che assai giustamente Ella non vuole.

 

Poiché ciò Ella non vuole, è manifesto che il sistema urta contro un ostacolo. Non è possibile che all’introduzione della macchina segua permanentemente il duplice risultato di offrire un guadagno – nell’esempio fatto 16,66 dollari, ma possono essere 166 o 1.666 milioni od altra qualunque quantità – al gruppo progressivo e di multare con perdita equivalente il gruppo stazionario. Nessuno può perdere indefinitamente; ed appena taluno si accorge della perdita e scopre che il perché di essa sta nella forzosa uniformità della riduzione delle ore di lavoro in “tutti” i campi dell’attività umana, subito protesta contro la norma ugualitaria sinché riesce ad impedirne l’attuazione od a farla revocare. Se a tanto non si giunge, è inevitabile la reazione spontanea del gruppo stazionario. I lavoratori appartenenti al gruppo veggono che il loro salario giornaliero di un dollaro (66,66 dollari in tutto) è decurtato da una perdita di 16,66 dollari in tutto, equivalenti a 0,33 dollari ognuno, cosicché il salario netto si riduce a 0,66 dollari; laddove i 33,33 lavoratori del gruppo progressivo, senza alcun merito superiore, guadagnano netti un dollaro l’uno, più un profitto di 16,66 dollari in totale, uguale a 0,50 dollari a testa al giorno; senza calcolare i 20 dollari di compenso agli inventori-risparmiatori.

 

 

Perché 0,66 contro 1,50? Le occupazioni stazionarie tendono ad essere abbandonate e quelle progressive a divenire sopraffollate. A meno che si decretino carte di assegnazione forzosa ai diversi mestieri (servitù della gleba), il sistema non può durare. Esiste una crisi, dalla quale non si esce se non abolendo il sistema di forzosa ugualitaria riduzione delle ore di lavoro.

 

 

Se ben si osserva, la ragione dell’insuccesso sta in ciò che il gruppo progressivo ha voluto far gravare sul gruppo stazionario la parte maggiore del costo della disoccupazione conseguente alla macchina. Se la norma obbligatoria delle 6 ore universali non fosse stata introdotta, che cosa sarebbe invero accaduto?

 

 

Nel gruppo stazionario nulla: 50 operai sarebbero bastati dopo, come prima, ad otto ore al giorno, a produrre i soliti 50 dollari di prodotto; ed ognuno dei 50 operai avrebbe continuato a godere del solito salario di un dollaro al giorno. Nel gruppo progressivo, 25 operai invece di 50 sarebbero stati sufficienti, ad otto ore al giorno, in 200 ore di lavoro complessive, a produrre 70 dollari, ossia 20 in più di prima. Pagando 25 dollari agli operai occupati (un dollaro al giorno, come sempre), 20 dollari a titolo di compenso agli inventori – risparmiatori, sarebbero rimasti 25 dollari disponibili in mano degli imprenditori ed organizzatori dell’industria.

 

 

Il sugo del problema è tutto qui: che cosa fare del margine disponibile nel gruppo progressivo, dopo pagato il solito salario agli operai rimasti occupati ed il necessario compenso agli inventori-risparmiatori? Ella, in sostanza, vuole riservarne la massima parte (16,66 su 25 dollari) agli imprenditori di quel gruppo e consente a sacrificarne soltanto 8,33 per pagare la differenza fra i 25 operai che basterebbero a produrre, ad otto ore al giorno, i 70 dollari di produzione ed i 33,33 occorrenti a sei ore. Ma, così facendo, Ella lascia senza lavoro ancora 16,66 operai; e perché lavorino, Ella li accolla al gruppo stazionario, obbligandolo ad assoldare, grazie alla norma delle sei ore obbligatorie e generali, 66,66 operai invece di 50. Vedemmo già che la soluzione così offerta non è duratura. Né poteva esserlo, non essendovi alcun motivo poiché il gruppo stazionario debba prestarsi a perdere affinché il gruppo progressivo ottenga profitti straordinari di intrapresa abbandonando sul lastrico od accollando altrui la maggiore parte dei disoccupati, divenuti tali in conseguenza della introduzione della macchina. Qualunque soluzione voglia darsi al problema dei disoccupati, non certo si può ricorrere a quella che Ella vagheggia, poiché, dico io, ragionando secondo la logica economica, essa non è duratura ed è destinata al fallimento; perché, aggiunge l’uomo della strada, essa non risponde al sentimento comune di giustizia. È forse colpa degli “stazionari”, se gli inventori non inventarono macchine adatte alla loro industria?

 

 

Opposta alla Sua, è la soluzione implicitamente patrocinata da un nostro collega, il senatore Federico Ricci, il quale sostiene che il costo della disoccupazione debba gravare esclusivamente o principalmente sulle industrie che vi diedero causa, ossia sul gruppo progressivo. Lo schema Ricci, sulla base degli stessi dati della tabellina precedente, potrebbe essere il seguente:

 

 

  Dopo l'introduzione della macchina
  Occupazioni stazionarie Occupazioni progressive Totale

Ore di lavoro giornaliere totale

400 200 600

Ore di lavoro per operaio occupato

8 8 8

Numero di operai occupati

50 25 75

Produzione (in unità di beni o dollari)

50 70 120

Salario agli operai occupati ad 1 dollaro

ciascuno al giorno (in unità di beni o dollari)

50 TOT: 50 25 TOT: 70 75 TOT: 120

Compenso agli inventori – risparmiatori

(in unità di beni o dollari)

20 20

Disponibile per sussidi a disoccupati,

guadagno di intrapresa, ecc. (in unità di beni o dollari)

70 25

 

 

Naturalmente non pretendo che questo mio schema riproduca esattamente il pensiero del collega Ricci. Esso è stato costruito da me allo scopo di mettere in luce che se la macchina è davvero feconda, essa può dare un prodotto bastevole a pagare l’antico salario agli operai rimasti occupati, un compenso agli inventori – risparmiatori ed un residuo disponibile per pagare sussidi ai disoccupati. Altrimenti, perché si userebbero macchine?

 

 

La conclusione alla quale mi sembra di poter giungere è che la macchina deve essa medesima sanare le ferite cagionate dalla sua introduzione. Se la macchina è tale e non un gingillo, essa deve dare un maggior prodotto di cui gli usi sono stati e continueranno probabilmente ad essere in avvenire parecchi:

 

 

in un primo luogo, fornire un compenso ai suoi inventori ed a coloro che seppero risparmiare ossia faticare per fabbricarla. Questa parte del maggior prodotto si può dire “necessaria” perché se essa non c’è o non si prevede ci sia, gli inventori non inventano – preferiranno, se hanno la testa fatta per inventare, dedicarsi alla teoria pura, la quale dà maggiori soddisfazioni morali – ed i risparmiatori non risparmiano;

 

 

in secondo luogo, dare un prodotto agli imprenditori i quali corrono il rischio dell’introduzione della macchina. Il profitto è temporaneo, Poiché, divenuta nota sperimentata l’invenzione, altri imprenditori l’adottano pretendendo compensi sempre minori fino allo zero;

 

 

in terzo luogo, dare un sussidio ai disoccupati. Il sussidio può essere gratuito, oppure fornito in cambio di lavori compiuti a pro’ dello stato e di altri enti pubblici (lavori pubblici). Se gratuito, il sussidio sarà notevolmente inferiore al salario corrente, per non far sorgere interesse all’ozio nei lavori; se fornito in cambio di lavori pubblici potrà essere un salario pieno o meno pieno a seconda si ritenga conveniente portare mano d’opera dalle occupazioni private a quelle pubbliche o semplicemente eliminare disoccupati. In qualunque modo fornito, l’aiuto ai disoccupati deve essere siffattamente congegnato da mantenere vivo in essi il desiderio di uscire dalla professione del disoccupato o dell’addetto ai lavori pubblici. Questi sono rimedi provvisori ad una situazione di crisi transitoria. I disoccupati devono cercarsi essi medesimi una nuova permanente occupazione. La massa, che non ha capacità inventive, seguirà i pochi più irrequieti o gli inventori per vocazione, i quali troveranno il nuovo bene o servizio da offrire agli uomini. In passato si è sempre usciti così dalle crisi di disoccupazione tecnica. Ho l’impressione che Ella sia alquanto scettico sulla possibilità di inventare oggi nuovi beni da offrire ai consumatori. Rispondo che non bisogna mai disperare dalle attitudini degli uomini ad arrangiarsi. L’appetito è un grande stimolante dello spirito inventivo. Perché improvvisamente, dopo tante palmari prove della buona volontà degli uomini a considerare urgente l’acquisto di cose che venti anni prima erano ignote o reputate di gran lusso, dovremo disperare della esistenza in futuro di altrettanta buona volontà?

 

 

Ho cercato di dimostrare altra volta le impossibilità di riassorbire nella produzione degli “stessi” beni “tutti” gli operai resi disoccupati dalla macchina e la necessità di creare all’uopo una domanda di nuovi beni (nel fascicolo del gennaio-febbraio 1932 di questa rivista lo studio su Costo di produzione, leghe operaie e produzione di nuovi beni per eliminare la disoccupazione tecnica). Ma la domanda nuova non sorge se i disoccupati dormono sonni tranquilli all’ombra di un sussidio permanente largo e sicuro e se i risparmiatori sono certi di dare a prestito a buone condizioni agli enti pubblici tutto il risparmio disponibile. Occorre, perché il nuovo sia cercato e trovato, che qualcuno abbia necessità di trovarlo: i risparmiatori per impiegare fruttuosamente il risparmio, i lavoratori per guadagnare salari pieni invece di sussidi parziali; gli inventori per vendere brevetti agli imprenditori e questi ultimi per conquistare profitti. La disperazione della fame è mala consigliera, ma gran lievito di progresso sono l’onesto malcontento, il desiderio del meglio, l’alea dell’incerto domani!

 

 

in quarto luogo, il maggior prodotto della macchina deve anche essere utilizzato sotto forma di ozio. La riduzione delle ore di lavoro, della quale Ella si è fatto paladino seguendo la tradizione dei grandi capitani dell’industria moderna, ha inizio colle industrie progressive. Queste usufruiscono in parte del margine di maggior prodotto creato dalla macchina per ridurre l’orario degli operai. La riduzione delle ore di lavoro al di sotto delle 12 e delle 15 consuetudinarie non cominciò un secolo fa dall’agricoltura o dalle piccole industrie artigiane tecnicamente stazionarie. Ebbe inizio nelle industrie tessili e in quelle meccaniche antesignane del progresso in quel tempo. Via via la rivalità tra le industrie progressive e quelle stazionarie nell’assorbimento degli operai migliori estese la riduzione delle ore di lavoro dalle prime alle seconde. Ma non fu rivoluzione repentina e generale, la quale crescerebbe la massa totale delle rovine; fu lenta trasformazione avvenuta a poco a poco per graduale diffusione così da rendere massimo il vantaggio e minimo il danno della novità tecnica. Il massimo vantaggio si ebbe quando la riduzione delle ore di lavoro ed il contemporaneo incremento del salario giornaliero, ebbero luogo gradualmente, sicché gli operai non furono d’un tratto beneficati da troppo ozio e troppa paga, di cui avrebbero, per ignoranza, forse fatto malo uso – ed era il pretesto cinquant’anni fa per lo più addotto dagli industriali poco intelligenti per contestare i loro rifiuti – ma via via ebbero la consapevolezza di meritare, grazie a prestazioni migliori, l’ozio ed il salario duramente conquistati e conoscendone il valore, seppero trarne buon pro’ con un elevamento del tenore di vita proprio e della famiglia. Il minimo danno si ebbe quando le industrie stazionarie, costrette dalla fuga dei lavoratori verso le industrie progressive (abbandono della campagna e dei mestieri casalinghi poco pagati e corsa alla fabbrica) a ridurre a poco a poco le ore di lavoro e ad aumentare le paghe, si videro ridotte a redditi esigui e talvolta soggette a qualche perdita, sebbene non ancora tratte alla disperazione e furono indotte ad inventare anch’esse, ossia a riorganizzarsi e ad adottar macchine. Il progresso industriale non si compie, se non per eccezione, per grandi mutamenti improvvisi, bensì per imitazione diffusiva, per gentile pressione di fallimenti singoli eliminatori degli incapaci e conseguente sopravvivenza dei più elasticamente adattabili tra gli imprenditori. Una “modesta” multa (di sussidi di disoccupazione, di imposte per lavori pubblici, di riduzione di ore di lavoro) a carico di tutte le imprese, anche di quelle stazionarie, mi pare opportuna. Una improvvisa generale riduzione nella misura sufficiente ad assorbire l’intera disoccupazione tecnica sarebbe disastrosa. Perciò l’onere della imposta di disoccupazione (chiamiamo così l’insieme dei tributi prelevati per dar sussidi o fornire lavori pubblici ai disoccupati) deve essere distribuito sulla collettività nella stessa maniera con cui si distribuiscono in generale le imposte. Discorso litigioso nel quale non voglio inoltrarmi, bastandomi riaffermare di passaggio le mie predilezioni verso un sistema il quale più che i guadagni effettivi tenda a colpire le possibilità oggettive di guadagno, così da lasciare un margine agli imprenditori capaci di rinnovare e da multare gli imprenditori tardigradi. Ecco un punto rispetto al quale mi sento più vicino alle idee implicite nel suo progetto che a quelle derivanti logicamente dalle proposte del collega Ricci, sebbene non tanto vicino da incorrere in quello che a me sembra l’eccesso della uniforme riduzione delle ore di lavoro in tutte le industrie.

 

 

Concludendo, il divario fra le nostre opinioni parmi soprattutto relativo al fattore “tempo”. Ella ha fede nelle soluzioni incisive e rapide. Ricordo come Ella un giorno mi parlasse di imprese di ingegneri costruttori a cui oggi un industriale, desideroso di far sorgere negli Stati Uniti come in Italia, in Russia come nell’India uno stabilimento, può rivolgersi; e quelle imprese nel tempo convenuto impiantano lo stabilimento perfettamente attrezzato secondo i dettami della tecnica più moderna, pronto a funzionare al comando dell’imprenditore. Ammiro la prontezza e la sicurezza odierne, in confronto all’empirismo ed ai tentativi d’un tempo. Guai se coloro i quali comandano – ed Ella è comandante di un esercito industriale – non avessero fede nella virtù del comando ubbidito! A me, semplice osservatore, questo nostro mondo economico appare troppo ricco di forze contrastanti e divergenti per poter essere “comandate”, tutte insieme, a muoversi e a progredire nella direzione e colla velocità desiderata dal generale. Enorme è la virtù dell’inerzia; ed a volerne vincere la resistenza con una norma generale si rischia di provocare troppo disordine e troppa rovina. La resistenza si vince meglio agendo sui punti elastici del sistema e costringendo indirettamente i punti rigidi a seguire i movimenti iniziati laddove si osa e si può innovare.

 

 

Finora ho sempre parlato di disoccupazione tecnica come se questa fosse la causa unica e principale dei 25 milioni di disoccupati che pare esistano oggi nel mondo. Prima di chiudere la mia già lunga lettera desidero mettere le mani avanti. Non Le pare che questa sia una grossissima esagerazione? Che davvero i disordini militari e politici della Cina, le agitazioni indiane, la chiusura in se stessa della Russia, lo stato di agitazione politica e sociale dell’Europa centrale, il nazionalismo ultra trionfante, creatore di minuscoli impoveriti mercati chiusi, follemente intesi a creare industrie artificiali, le moltiplicate barriere doganali, i disordini monetari, lo squilibrio conseguente fra i diversi gruppi di prezzi, fra salari e profitti fra interessi fissi e dividendi, fra imposte crescenti e redditi calanti non abbiano nulla a che fare con la disoccupazione? Le confesso che la mia meraviglia è non che ci siano 25 milioni di disoccupati nel mondo; ma che in mezzo a tanti malanni, a tanta pazzia collettiva ingigantita dalle vociferazioni di tanti spacciatori di empiastri, i disoccupati non siano molti di più. Fra le tante disoccupazioni, la disoccupazione tecnica da macchina, ossia da progresso industriale, mi pare davvero la meno rilevante fra tutte.

 

 

Dio volesse che al mondo ci fosse solo quella varietà di disoccupazione la quale dicesi tecnica! Penso che darebbe pochi fastidi ad industriali e ad uomini di governo. La disoccupazione tecnica non è una malattia; è una febbre di crescenza, un frutto di vigoria e di sanità. È una malattia, della quale non occorre che i medici si preoccupino gran fatto, ché essa si cura da sé. Gravi sono invece le altre specie di disoccupazione; gravi Poiché nate dalla follia umana. Contro di esse non giova il rimedio della riduzione delle ore di lavoro; ché il rimedio tecnico non è adatto a guarire le malattie mentali. Noialtri industriali ed economisti dobbiamo farci da un lato e lasciare il passo ai veri competenti, ai sacerdoti di Dio, ai banditori di idee ed ai reggitori dei popoli. Se costoro non sanno o non vogliono salvare gli uomini, che cosa possiamo fare noi produttori di beni materiali o commentatori delle azioni economiche degli uomini?

 

LUIGI EINAUDI

 

al senatore GIOVANNI AGNELLI

 

Presidente della F.I.A.T. in Torino

 

 

Torino, 20 gennaio 1933

 

On. Collega,

 

 

Poiché Ella me ne muove invito, ripiglio in mano la penna, non per continuare una discussione, nella quale è ovvio che, come in quasi ogni altro dibattito di questa natura, ad un accordo tra i contendenti, per la diversità dell’abito mentale e degli scopi teorici o pratici dell’indagine è quasi impossibile giungere, ma per mettere innanzi al pubblico qualche punto di vista che non mi sembra Ella abbia toccato od almeno abbastanza illustrato.

 

 

Lasciamo, per il momento da un lato le altre cause possibili della disoccupazione, per limitare il discorso a quella particolare specie di essa che dicesi tecnica. Ella dà a questa un peso minore di quanto io non faccia, nella determinazione del complesso preoccupante fenomeno. Impressioni della realtà, ambe forse ugualmente difficili a corroborare con dimostrazioni precise. La guerra, i disordini cinesi e indiani, l’innalzamento delle dogane possono aver anch’essi provocato disoccupazione. Ma forse hanno agito sovrattutto nel senso di inacerbire gli effetti della causa tecnica la quale preesisteva, ad es., alla guerra e da essa fu solo parzialmente modificata. La distruzione di ricchezze provocata dalla guerra, l’enorme fabbisogno di mezzi bellici prima e di mezzi di ricostruzione poscia mascherarono, per dir così, dal 1914 al 1921, il problema della difficoltà di trovare uno sbocco ai prodotti, potenzialmente cresciuti in misura grandiosa, dell’industria progredita tecnicamente. Quando i bisogni di rifornimento delle riserve e di ricostruzione furono soddisfatti, il problema si presentò ingigantito. Il mondo, il quale per una decina d’anni aveva dovuto e potuto assorbire tutti i beni che la tecnica aveva reso disponibili, si trovò d’un tratto dinanzi ad una potenzialità produttiva “straordinaria”, la quale non trovava più la sua contro-partita in una potenzialità straordinaria di consumo. Il consumo “ordinario” non bastò più ad assorbire il fiume di prodotti che l’industria produceva. Se la guerra non si fosse verificata, il problema si sarebbe ugualmente presentato; ma, diluito in lunghi anni, sarebbe parso meno pauroso. Venuto fuori d’improvviso, colse l’umanità di sorpresa, e gli uomini corsero al riparo, chiudendo i mercati interni con alte dogane, con regolamenti monetari e con ogni specie di difese. Fecero bene o male? Non discuto il punto, per non uscir fuori dai limiti posti in questo nostro scambio di vedute. Mi basti di aver giustificato la mia impressione che il fattore tecnico sia, nella crisi presente, fondamentale.

 

 

Se così è, il Suo riconoscimento che la disoccupazione da causa tecnica debba “alla lunga” essere eliminata precisamente nella maniera da me indicata, ossia con una riduzione notevole delle ore di lavoro, con la conquista di maggiore “ozio” a favore degli uomini, ozio che gli uomini sapranno utilizzare per il loro elevamento fisico, intellettuale e morale, il suo riconoscimento, dico, parmi decisivo. Ella aggiunge la riserva “alla lunga”, che ho l’impressione sia un po’ divenuta di moda tra gli economisti, i quali non amano pregiudicarsi affermando soluzioni precise ai problemi d’oggi; ed enumera ragioni plausibili della necessità di procedere a gradi, incominciando dalle industrie progredite per passare via via a quelle più arretrate. E sia. Quel che a me soprattutto pare importante non è l’enumerare le difficoltà, le quali si oppongono al raggiungimento immediato di una meta, che Ella medesimo considera fatale e benefica; ma affermare che la meta esiste, che essa deve essere ad ogni costo ed al più presto raggiunta. Penseranno gli interessati a valorizzare ed a ingigantire le difficoltà, anche quelle infondate. Se i fautori della riforma non insistono nel loro ideale di bene, chi supererà le difficoltà e chi appoggerà i governi, i quali, al pari di quello italiano, coraggiosamente hanno affermato nei congressi internazionali la tesi buona?

 

 

La difficoltà massima che Ella ha esposto è l’ingiustizia di scaricare sulle industrie stazionarie l’onere della disoccupazione derivante dall’impiego delle macchine nelle industrie progredite. L’onere deve cadere sulla collettività intiera ed essere da questa distribuito, afferma Lei, nel modo con cui si distribuiscono le imposte in generale, ossia sulle spalle di coloro i quali possono pagare.

 

 

È Ella davvero sicuro che le industrie “stazionarie” non possano pagare? Il mio pensiero di semplice osservatore corre ai prodotti, i quali non hanno sentito in questi ultimi anni o decenni le influenze delle macchine, ed io vedo che i produttori hanno saputo egregiamente tutelarsi contro il rialzo dei costi della mano d’opera, delle imposte e degli altri oneri. Sono esempi della vita ordinaria che ognuno può controllare: il prezzo della confezione dei vestiti, della confezione e non del panno, né del filo, né dei bottoni, Né della fodera. Forse che il prezzo della confezione non si è moltiplicato per assai più del coefficiente di svalutazione monetaria, il quale dal 1914 in qua oscilla in Italia fra tre e quattro? L’abito che si pagava 70 lire anteguerra non si paga forse, invece di 200-250 come richiederebbe il ragguaglio monetario, ben 300-400 lire? Le verdure, molte specie di frutta, prodotti tipici della mano d’opera, non si sono moltiplicate per quattro, ma per sei e per dieci. I prezzi dei servigi personali, i servigi dei barbieri, ad es., sono aumentati più che in proporzione alla svalutazione monetaria. Nei villaggi i contadini erano giunti nel 1914 a pagare la barba domenicale dieci centesimi, invece del soldo tradizionale del tempo della nostra gioventù, ma ora pagano 50 centesimi, e nelle città si è passati dalle una e due lire, a seconda della finezza del servizio, alle cinque ed otto lire. Nei teatri, i posti, che un tempo si pagavano da una a due lire, ora valgono da cinque a quindici lire.

 

 

Lascio a Lei di tradurre le osservazioni da me fatte sulla vita ordinaria nelle formule generali o teoriche proprie degli studiosi di economia. Io ho tentato solo di esprimerle nel linguaggio delle tabelline che Ella ha amato costruire nella Sua lettera, ed, in questo tentativo, la riflessione mi ha persuaso che probabilmente la divergenza nostra sta nella identificazione che Ella pose come assiomatica fra unità di beni e unità di dollari nel determinare la quantità ed i valori della produzione. Sono d’accordo con Lei nel ritenere che il salario ipotetico di un dollaro al giorno debba essere una cosa seria, ossia invariata, in potenza di acquisto, dopo come prima della riduzione delle ore di lavoro. Se la quantità prodotta era prima di 100 unità di beni, venduti in tutto a 100 dollari, e se essa, per effetto della macchina, cresce dopo a 120 unità di beni, cresca altresì a 120 dollari e non più la sua valutazione totale, cosicché con un dollaro si comperi dopo in media tanta merce come si comprava prima. Ma questa è regola relativa all’insieme dei beni, non ai singoli beni. Purché l’insieme delle 120 unità di beni valga 120 dollari, la condizione dell’uguaglianza della capacità di acquisto del dollaro od unità monetaria in genere è soddisfatta. I rapporti di prezzo dei singoli beni tra di loro possono invece variare e di solito variano da un tempo all’altro. Le osservazioni che ho fatto sopra e quelle relative al grande ribasso dei prezzi delle merci prodotte nelle industrie fortemente progredite ed industrializzate mi paiono probanti nel senso di permettere la conclusione: che il valore dei beni in moneta non sia variato nelle medesime proporzioni della variazione delle quantità dei beni medesimi, e che si sia effettuato uno spostamento a danno dei beni prodotti dall’industria meccanizzata a favore di quelli prodotti unicamente o prevalentemente dal lavoro. Rifaccio, secondo questo criterio, la Sua tabella seconda ed ottengo i seguenti risultati:

 

 

Prima

Dopo

L’introduzione della macchina

400

8

100

100

100

100

} 100

Occupazioni stazionarie

Occupazioni progressive

Totale

Ore giornaliere di lavoro: totale ………………………..

400

6

66,66

50

60

66,66

} 66,66

– 6,66

200

6

33,33

70

60

33,33

20

} 53,33

+ 6,66

600

6

100

120

120

100

20

} 120

Ore giornaliere per operaio occupato ……….
Numero di operai occupati ……………………
Produzione in unità di beni ………………………….
Produzione in dollari …..
Salario agli operai occupati, ad 1 dollaro ciascuno al giorno (in unità di beni o dollari) …
Compenso agli inventori risparmiatori (in unità di beni o dollari) ………….. 
Margine attivo o passivo fra produzione da un lato e spese (salario e compenso) dall’altra (in unità di beni o dollari) … 

 

 

Ella, supponendo che i valori in moneta (dollari) variassero nella stessa misura e nello stesso tempo delle variazioni delle quantità di beni, naturalmente concludeva che le industrie stazionarie, dovendo spendere 66,66 dollari per salari, si trovassero in una situazione insostenibile di fronte ad un incasso di soli 50 dollari, laddove le industrie progressive potevano contrapporre ad una spesa di soli 53,33 dollari un incasso di 70, con lucro ragguardevole. E chiedeva: perché provocare con legge ugualitaria questa che è nel tempo stesso una impossibilità economica ed un’ingiustizia sociale? Io osservo che le forze economiche rimediano spontaneamente al male. Le industrie progressive producendo 70 unità di beni non possono più venderle ad un dollaro l’una, ma devono ribassare il prezzo, riducendo l’incasso, ad es., a 60 dollari. Ma la domanda di merce da parte dei consumatori rimane costante, perché la quantità di moneta disponibile per gli acquisti è determinata in complessivi 120 dollari. Quella parte del reddito totale che non si è dovuto spendere per le merci prodotte a minor costo della industria meccanizzata, resta disponibile per l’acquisto dei beni e dei servigi prodotti dalle industrie stazionarie nelle quali gioca solo il lavoro umano. Possono così crescere e crescono relativamente i prezzi dei biglietti di teatro, dei servizi personali, delle verdure, dei fiori, sicché pur essendo solo 50 le unità prodotte, il prezzo di esse diventa 60. Ad un totale di beni di 120 unità rispondono 120 dollari, ma i 120 dollari invece di dividersi nelle stesse proporzioni dei beni (50 e 70) si dividono in proporzioni diverse (60 e 60), cosicché crescono relativamente i prezzi dei beni prodotti dal lavoro e scemano quelli dei beni prodotti dalle macchine. In questo modo, nel mio schema esemplificativo, la perdita delle industrie stazionarie si riduce a 6,66 dollari, dai 16,66 dollari del Suo calcolo, ed il guadagno delle industrie progressive si riduce parimenti da 16,66, a 6,66 dollari. Con un piccolo ulteriore spostamento dei prezzi non è impossibile giungere al pareggio.

 

 

Non pretendo di aver in tal modo dimostrato che la riduzione generale uniforme delle ore di lavoro possa operarsi rapidamente senza inconvenienti. Ho voluto soltanto indicare una delle vie lungo le quali l’aggiustamento può aver luogo. Gli aggiustamenti ed i riequilibramenti non si operano in pieno da sé. Bisogna aiutare le forze naturali. Ai disoccupati, che oggi l’umanità e la legge vietano di abbandonare alla carità privata, bisogna dar modo di seguitare a far domanda di beni. La riduzione proporzionale e generale delle ore di lavoro risolve il problema di distribuire il lavoro equamente fra tutti gli uomini, dando a tutti due ore addizionali di ozio. Si crea così certamente un altro problema: quello dei rapporti di prezzo fra le merci prodotte a poco costo grazie alle macchine e quelle prodotte ad alto costo, perché richiedenti un’alta dose di lavoro. È un problema di riequilibrio di prezzi, il quale si risolverà in avvenire nella stessa maniera come si è sempre risoluto in passato: aumentando il prezzo dei prodotti di alto costo e scemando quello dei prodotti di poco costo. Non è del resto naturale che gli uomini paghino poco le merci che le macchine si incaricano esse di produrre con poca spesa ed invece paghino care quelle che richieggono ancor oggi ad essi fatica di braccia e di mente?

 

GIOVANNI AGNELLI

 

al senatore LUIGI EINAUDI

 

in Torino

 

Piani

Piani

«La Riforma Sociale», maggio-giugno 1932, pp. 291-297

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 479-487

 

  …

Costo di produzione, leghe operaie e produzione di nuovi beni per eliminare la disoccupazione tecnica. A proposito di una nuova collana di ristampe di economisti

Costo di produzione, leghe operaie e produzione di nuovi beni per eliminare la disoccupazione tecnica. A proposito di una nuova collana di ristampe di economisti

«La Riforma Sociale», gennaio-febbraio 1932, pp. 61-73

Saggi, La Riforma Sociale, Torino, 1933, parte II, pp. 389-402

 

  …

Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta

Contributi fisiocratici alla teoria dell’ottima imposta

«Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», 1931-1932, pp. 433-456

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, pp. 331-361

 

 

 

 

La nota vuole estrarre dalla letteratura fisiocratica, spogliandoli della loro particolare forma, alcuni fondamentali principii, la cui validità non appare legata con le sorti cadute della dottrina della «scuola». Le citazioni sono tratte[1] dagli scritti del marchese di Mirabeau, del Mercier de la Rivière, del Dupont de Nemours, del granduca di Baden e del Saint – Péravy; senza por mente alle sfumature le quali possono distinguere il pensiero dell’uno da quello dell’altro, sia perché nella materia qui considerata le sfumature sono irrilevanti sia perché di nessun gruppo di economisti può dirsi come dei fisiocrati che essi abbiano in verità costituito una «scuola», – «setta» al dir degli avversari – i cui scritti erano letti e discussi in collegio e sottoposti ad attenta revisione dal maestro, il Quesnay. Se inoltre si trae qualche brano dalle «riflessioni» del Turgot sebbene questi abbia voluto sempre tenersi indipendente dalla scuola, ciò si fa perché egli con singolare efficacia chiarisce alcuni dei problemi posti dagli altri fisiocrati.

 

 

Alla presente nota diede occasione la lettura nuovamente fatta dallo scrivente di alcuni principali scritti fisiocratici lettura fatta, come è ovvio, con gli occhi suoi della mente disposti a collocare le pagine lette nello schema che, a torto od a ragione, egli usa nella interpretazione dell’imposta. Del resto, così si rifà continuamente la storia delle dottrine: per ritrovare negli scritti degli antichi i germi di quelle che oggi a noi paiono verità.

 

 

I fisiocrati hanno ragione di rivendicare l’onore di avere per primi costruito una teoria sistematica della scienza economica. Altri può pretendere al titolo di fondatore della scienza; nessuno può contestare ai fisiocrati il vanto di dirsi i consapevoli pretendenti a quel titolo. Il «Tableau oeconomique» è forse incomprensibile; ma è certamente un tentativo efficace di costruire uno schema del processo non mai chiuso e sempre nuovo della produzione e del consumo. Ma qui finiscono le loro giuste rivendicazioni: ché la peculiare dottrina del «prodotto netto», fatta subito oggetto di satira ne «L’Homme aux quarante écus» di Voltaire, cadde dinnanzi all’esame critico degli economisti, i quali a poco a poco estesero il concetto di produttività dall’agricoltura a tutti gli altri tipi della umana attività.

 

 

Non sarebbe tuttavia corretto dar soverchio peso al «prodotto netto», all’«imposta unica», ed all’altro noto formulario della setta; epperciò cercai chiarire la sostanza viva di quelle parole morte. Non si rende giustizia ai fisiocrati quando si identifica la loro teoria sull’imposta col concetto dell’imposta unica sul prodotto netto della terra. Importa difendere i fisiocrati contro la caricatura che essi stessi fecero della propria teoria e che ai teorici venuti di poi piacque esagerare. Essi da sè si difendono quando si riproducano in ordine logico le loro parole medesime.

 

 

I. – L’imposta non è arbitraria.

 

 

Se le imposte sono malamente costrutte e distribuite, le conseguenze sono dannose.

 

 

«Il ne dépend pas des hommes d’asseoir l’Impôt selon leur caprice… Personne ne conteste aux ignorans le pouvoir physique de tomber dans de grandes erreurs; mais les loix naturelles les soumettent à des punitions très séveres, inévitablement attachées à ces erreurs, et c’est tout ce que l’on veut dire ici» – Dupont De Nemours, De l’origine et des progrès d`une science nouvelle, 1768, p. 40; ed. Paris, 1910, p. 20.

 

 

I fisiocrati affrontano il problema in maniera veramente scientifica. Essi non affermano che l’imposta debba essere costruita in un dato modo per ragioni poste aprioristicamente. Affermano soltanto che alcune imposte producono effetti, ordinariamente detti buoni; laddove altre imposte producono altri risultati, dal comune consenso dichiarati cattivi.

 

 

II. – Il soggetto di diritto non è necessariamente il soggetto di fatto dell’imposta.

 

 

«J’ai à mes gages un homme à qui je donne 100 francs, parce que 100 francs sont le prix nécessaire de sa main d’oeuvre, le prix fixé par concurrence établie sur une grande liberté: ces 100 francs sont à lui; il les reçoit de moi en échange d’une valeur de 100 francs en traveaux: établissez sur lui un impôt de la même somme; il ne pourra plus vivre, à moina que je ne lui donne 200 francs. Cependant pour ces 200 francs, je ne recevrai de lui que le mêmes travaux, que la même valeur qu’il me donnoit auparavant; il y aura donc la moitié de cette somme que je lui donnerai sans qu’il l’achete, et dont il se servira pour payer l’impôt: d’aprés cela n’est – il pas sensible que c’est sur moi que l’impôt retombe, et non pas sur lui? Tout impôt acquitté par un salarié dont le salaires augment en proportion, n’est certainement point supporté par le salarié: cet inpôt est à la charge de ceux qui, par l’augmentation de ses salaires, lui fournissent gratuitement les moyens de payer» (Mercier De La Rivière, L’ordre naturel et essentiel des sociétés politiques. 1767, II, 112-3).

 

 

Nel brano citato il Mercier de la Rivière parte dalle ipotesi di illimitata concorrenza fra operai e fra imprenditori e di uguaglianza del salario al minimo necessario per l’esistenza. Altrove, le ipotesi implicite variano:

 

 

«Parmi les diverses manieres de mettre un impôt aur les salaires il en est une à la quelle on a donné le nom d’impôt sur les consommations… Le propre d’un tel impôt est donc de faire diminuer la mation ou la valeur vénale des marchandiaes sur les quelles il est établi. Dans les deux cas, le premier vendeur de ses marchandises est également en perte; mais le dernier cas est celui qui doit naturellement ariver, parce qu’on veut vendre à quelque prix que ce soit; que d’ailleurs la diminution du prix d’une marchandise est une suite nécessaire de la diminution de son débit» (Id., II, 206-208).

 

 

Se alle ipotesi qui poste di una offerta rigida («on veut vendre à quelque prix que ce soit») e di una domanda elastica («le propre d’un tel impôt est de faire diminuer la consommation») si aggiunga quella, consueta negli stati di antico regime, di classi o regioni immuni dalla imposta, resta dimostrata la verità di un’altra proposizione:

 

 

III. – Se, per effetto della imposta stabilita in ragione della quantità venduta di una merce, il prezzo della merce aumenta di meno dell’ammontare dell’imposta, i consumatori esenti dall’imposta sono avvantaggiati.

 

 

«A l’égard d’un impôt sur la vente des productions cueillies dans l’intérieur de la nation, et dont le commerce reste libre cependant entre le vendeur et l’acheteur, cnmme il n’est pas possible d’y assujettir toute une même espece de productions, il en résulte un inconveniént singulier: cette marchandise diminue de prix non seulement pour les consommateurs qui ne peuvent se la procurer qu’en payant des droits; mais encore pour tous les autres qui n’ont point de droits à payer, en supposant néammoins que cette production ait besoin de cette première classe de consommateurs. Chaque lieu où se cueille une production est une sorte de marché public formé par la concurrence des vendeurs: là, chacun achete au même prix, toutes choses égales d’ailleurs; et la concurrence des acheteurs établit un prix courant qui devient une loi commune: que vous ayez des droits à payer après l’achat, ou que vous ayez des droits, vous n’achetez ni plus ni à meilleur marché. Ainsi dès que parmi les consommateurs dont le débit d’une production a necessairement besuin, il s’en trouve qui sont chargés de payer des droits, il sont forcés de dinsinuer le premier prix d’achat; et cette diminution fait tomber également le prix courant de cette production pour touts les autres acheteurs. Je dis que les consommateurs sujets aux droits sont forcés de diminuer le premier prix d’achat, et cela est facile à cocevoir: l’établissement de ces droits n’augmente point, dans ces consommateurs, les moyens qu’ils avoient pour dépenser; il faut donc qu’ils achetent cette production moins cher, ou qu’ils en achetent une moindre quantité, la surabondance de cette production en fait necessairement diminuer la valeur. Impossible donc d’empêcher que le prix de cette production ne diminue et ne diminue pour tous les acheteurs indistinctement» (Id., id., II, 208-210).

 

 

Oltreché delle premesse già ricordate intorno alla natura della domanda ed alla specialità dell’imposta ed a quelle del coeteris paribus e dell’unicità del prezzo del medesimo bene sullo stesso mercato e nello stesso momento il Mercier de la Riviere fa uso efficace di altri strumenti di ragionamento, dei quali meritano di essere ricordati due. Il primo consiste nel concepire la domanda dei beni come proveniente distintamente da strati successivi di consumatori, i quali entrano in scena a mano a mano che il prezzo, scemando, rende il bene ad essi accessibile («en supposant… que cette production ait besoin de cette… classe de consommateurs …» «les consommateurs dont le débit d’une production a nécessairement besoin»); ed il secondo sta nell’importanza singolarissima data al concetto del reddito del consumatore. Non i produttori sono costretti a ridurre il prezzo di vendita, sibbene i consumatori a scemare il prezzo d’acquisto dei beni quando questi sono percossi da imposta; perché il tributo non aumenta «i mezzi che i consumatori hanno di spendere». Il richiamo ripetuto alla «necessità» non come a qualcosa di fatale per comando divino o per combinazioni naturali incombenti, sibbene come a constatazione di un vincolo fra causa ed effetto, compie il quadro della ricerca puramente scientifica intesa dai fisiocrati a rispondere alla domanda: chi paga l’imposta? Quali sono gli effetti della sua percussione generale o parziale?

 

 

IV. – L’imposta, stabilita sull’oggetto non proprio, tende a spostarsi sinchè non siasi trasferita sull’oggetto suo proprio.

 

 

«Quand on veut, disait un grand ministre, tirer les choses de leur centre et de l’élément qui leur est propre, il faut de la force, il faut du travail; mais elles se replacent d’elles-mêmes» (Mirabeau, Théorie de l’impôt, 1760, 359).

 

 

Saint – Péravy applica la massima dapprima all’imposta sugli interessi dei capitali dati a prestito:

 

 

«La proportion entre les prêteurs et les emprunteurs est la seule cause décisive du prix de l’argent ou de son intérêt. La loi ne pouvant pas changer la raison de ce concours général, le taux des contractants se rendra toujours indépendant de son autorité. L’emprunteur ne doit pas mieux réussir à forcer le prêteur de subir la diminution de lR