Opera Omnia Luigi Einaudi

19 settembre 1920 – Conversione in nominativi dei titoli al portatore

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 19/09/1920

19 settembre 1920 – Conversione in nominativi dei titoli al portatore

Atti Parlamentari – Senato del Regno – Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 624-653

 

 

 

Discussione del disegno di legge sulla nominatività obbligatoria di tutti i titoli al portatore.

 

 

La discussione è aperta da L. EINAUDI:

 

 

Sono stato in dubbio se prendere la parola su questo disegno di legge, in quanto che, essendo ad esso favorevole, mi era sembrato una perdita di tempo dover spiegare le ragioni del favore. A ragion veduta, mi è parso in fine non fosse cosa inopportuna che negli atti nostri restasse traccia delle ragioni per le quali un convertito parla a favore dellanominatività dei titoli. Perché io per molto tempo sono stato contrario, e posso anche dire acerbamente contrario, alla nominatività dei titoli considerandola, prima della guerra, per ragioni economiche per ragioni sociali e per ragioni fiscali, dannosa, sia alla collettività sia allo stato.

 

 

Oggi invece ho un parere nettamente favorevole alla nominatività dei titoli, perché alle antiche ragioni che tuttora permangono, e che se fossero sole mi manterrebbero contrario alla nominatività, si è sovrapposta una ragione di ordine superiore, che ha carattere morale e che per questo carattere essenzialmente morale alla lunga potrà anche dare, sebbene non necessariamente, dei buoni risultati finanziari. Credo opportuno che siano esaminate le ragioni per le quali questo grande esperimento, che oggi noi siamo chiamati a discutere e che sarà davvero un grande esperimento, tentato per il primo dal nostro paese, dev’essere compiuto, nonostante che esso abbia ad essere costoso per l’economia nazionale e nel momento attuale anche forse costoso per l’economia dello stato. Nessun’esperimento è opportuno che sia fatto, se noi ci illudiamo che possa essere condotto a termine con poco costo ed illudendoci di trovare vantaggi inesistenti; certamente allora non riuscirà bene. Ma riuscirà quando, guardando in faccia i fatti nella loro realtà, saremo disposti a fare i nostri sforzi affinché la conversione di titoli al portatore al nome avvenga nella maniera meno dannosa alla collettività e tale da poter portare ad essa dei benefici.

 

 

Dico che, se danni antichi e da tutti previsti non sono venuti meno, solo tali però che sopra di essi si è imposta una ragione che li mette nell’ombra.

 

 

Io non credo che dalla nominatività ci si possa aspettare i benefici che taluno prima e ancora adesso ne aspetta; non credo che possiamo attenderci da essa nessuna remora, nessun ostacolo contro i fatti recenti che hanno preso il nome di accaparramento di azioni e di assalto alle banche o alle industrie. Niente di questo, e lo ha detto il senatore Rolandi Ricci nella relazione perché la nominatività non ha la virtù di togliere questi pericoli.

 

 

Il fatto che i titoli siano nominativi non porta alla conseguenza che se è offerto un prezzo buono non si vendano i titoli a coloro che li vogliono accaparrare.

 

 

Vorrà dire che sapremo che tali accaparratori si chiamano con determinati nomi. Forse i nomi sono noti anche col sistema del titolo al portatore. Li sapremo meglio. Ecco tutto. La nominatività non impedirà il fatto dell’accaparramento, come non lo ha impedito fuori, dove esiste il sistema della nominatività. Gli Stati Uniti sono il paese classico degli accaparramenti di azioni e di assalti alle industrie, e in quel paese esiste il sistema della nominatività.

 

 

Così pure non credo che possa avere l’effetto benefico, immaginato da taluni, di impedire le speculazioni di Borsa sui titoli. Anche qui l’esperienza è probatoria nel senso più assoluto, perché le speculazioni più grandi sui titoli di Borsa, non sono quelle povere speculazioni verificatesi in Italia, e che fanno ridere in confronto di quelle degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. Le speculazioni recenti di quei paesi sui titoli del caoutchouc e delle miniere d’oro, le speculazioni ferroviarie dell’Inghilterra di ottant’anni fa e negli Stati Uniti di cinquant’anni fa, hanno avuto un’ampiezza molto maggiore delle più grandi nostre speculazioni. Del resto possiamo anche ricordare l’epoca nella quale il titolo principe della speculazione italiana era l’azione della Banca Nazionale del Regno d’Italia. Essa era chiamata nel linguaggio di borsa il titolo traineur, quello che trascinava gli altri, e ciò nonostante il sistema della nominatività applicato alle azioni della Banca d’Italia.

 

 

La gente specula quando vuole speculare, quando il terreno vi è propizio, quando spera di lucrare e non può impedirsi la speculazione perché corrisponde ad una delle passioni fondamentali dell’uomo. Del resto, se l’ostacolo della nominatività avesse l’effetto d’impedire sul serio le speculazioni di borsa, io dico che avrebbe predetto un cattivo risultato, in quanto che, attraverso a tutti i danni e a tutte l’esagerazioni che si possono verificare nelle speculazioni di Borsa, bisogna guardare al fatto fondamentale, cioè che la speculazione non è che una previsione di fatti futuri. Gli speculatori se fanno bene i loro affari, e non voglio lodarli per questo, se li fanno bene, raggiungono un fine utile altresì alla collettività, perché mettono prima degli altri sull’avvertenza coloro che hanno bisogno di essere avvertiti, che non vedono ciò che hanno visto gli speculatori.

 

 

Gli speculatori vendono al ribasso quando sanno che quel titolo è cattivo e cominciano a venderlo prima che se ne accorgano gli altri perché è impossibile che un titolo di una società bene amministrata cada in ribasso. Coloro che gridano contro gli speculatori, nove volte su dieci è perché hanno la coscienza sporca. Gli speculatori avvertono gli ingenui, i risparmiatori che quel titolo merita di essere venduto e non comperato. Essi sono, nel proprio interesse, i più fieri nemici di quei cattivi amministratori e uomini di governo, che vorrebbero ottenere un credito che essi non meritano. Il fine di distruggere la speculazione non potrà essere raggiunto, e se lo fosse sarebbe un cattivo risultato.

 

 

Del resto anche con la nominatività, vi sono dei metodi pratici per far passare i titoli speculativi da una persona all’altra.

 

 

Nei paesi dove la nominatività e invalsa, si usa di iscrivere i titoli al nome non dei successivi possessori, ma di un ente o di una Banca, e i titoli passano così per via di certificati, e di lettere private, rapidamente da una parte all’altra. Credo che questo sia talvolta in uso in Italia per le azioni della Banca d’Italia; anche da noi le azioni della Banca d’Italia che si trovano fluttuanti nel mercato in mano della speculazione sono non di rado iscritte al nome del direttore delle stanze di compensazione che alla fine del mese li passa al nome dei possessori definitivi. In questo frattempo però i titoli sono passati attraverso molte, mani.

 

 

 

Io anzi segnalo alla Commissione parlamentare che si occuperà di questo argomento e che dovrà stabilire le disposizioni regolamentari per il trapasso dei titoli, la necessità che il contratto di riporto sia conservato e possa innestarsi su qualche forma di intestazione provvisoria, ad esempio, fatta al nome dei direttori delle stanze di compensazione.

 

 

È un punto che va studiato per permettere la continuazione di contratti essenziali alla vita economica e che non potrebbero essere abbandonati senza grave danno del credito delle società private, nonché del credito dello stato.

 

 

Lo stato ha interesse diretto, e grandissimo, affinché la massa dei titoli, la quale non ha potuto trovare ancora collocamento definitivo, trovi un collocamento temporaneo, e non cada giù di prezzo per mancanza provvisoria di acquisitori. E questo collocamento non può essere trovato che col contratto di riporto. Qualunque provvidenza contenuta nel futuro regolamento a questo riguardo, sarà utilissima specialmente al credito dello stato.

 

 

Non credo neppure che la nominatività potrà riuscire utile ad impedire il fatto che si chiama «manipolazione delle assemblee».

 

 

Anzi ritengo che c’è un pericolo, ed a questo riguardo mi permetto di additare alla Commissione un’idea: io ritengo che ci sia il pericolo che la nominatività possa (non debba ma possa) riuscire favorevole ad una più intensa manipolazione delle assemblee delle società anonime. Nei paesi dove la nominatività vige si è verificato il fenomeno che, grazie alla nominatività stessa, il Consiglio in carica conosce i nomi di tutti gli azionisti, e facilmente può influenzare gli azionisti stessi con comunicati, con richieste di delega nelle votazioni più di quanto non accada nei paesi dove c’è il titolo al portatore, e dove i consigli di amministrazione non sono padroni completamente del nome e della qualità dei singoli azionisti.

 

 

La nominatività per sé aumenta la potenza del Consiglio di amministrazione, e riduce la facoltà di opposizione delle minoranze degli, azionisti, che oggi, col sistema del titolo al portatore, possono procurarsi più facilmente il modo di far sorgere un’opposizione nelle assemblee.

 

 

Ne abbiamo avuto un esempio in Italia: ricordo, quando il direttore generale della Banca d’Italia era il commendator Grillo, che accadeva spesso che nelle assemblee generali che si tenevano a Firenze e poi a Roma, intervenisse un banchiere di Torino, il signor Ulrico Geisser, valente uomo e non privo di benemerenze nell’epoca del nostro Risorgimento, che era amico intrinseco del direttore generale. Esso conoscendo nominativamente tutti, gli azionisti, che erano in notevole maggioranza domiciliati a Torino, riusciva ad arrivare alle assemblee con moltissime deleghe, di guisa che la maggioranza era fatta.

 

 

Mi permetto di segnalare perciò a questo riguardo alla Commissione l’opportunità di obbligare i Consigli di amministrazione a pubblicare le liste degli azionisti e metterle a disposizione di chiunque ne faccia domanda per modo che chi vuole fare opposizione conosca il nome di tutti gli azionisti, ed un potere oligarchico a favore del Consiglio di amministrazione non sia eccessivamente rafforzato.

 

 

Se alcuni si sono invero ripromessi dalla introduzione di questo sistema vantaggi economici insussistenti, noi non possiamo chiudere gli occhi innanzi al costo dell’introduzione di questo sistema della nominatività. I costi sono diretti o indiretti, ma tutti non possono non essere tenuti in grande considerazione.

 

 

Altri ha già parlato, nell’altro ramo del Parlamento, nelle discussioni che si sono ripetute sulle riviste e sui giornali, ed il senatore Rolandi Ricci vi ha fatto accenno nella relazione, degli ostacoli che possono derivare dal fatto che i capitali stranieri non saranno importati così largamente nel nostro Paese quando siano costretti ad assumere un nome, così come invece farebbero se potessero continuare ad essere importati sotto la forma anonima del portatore. Fu risposto nel senso che questo non è un ostacolo assoluto. Che altre cause vi sono per cui i capitali stranieri non sono importati in Italia ora, è certo. Ci sono queste altre cause; ciò non vuoi dire che sia opportuno di crescere la forza di queste altre cause anche con questo provvedimento. Dire che esso è un elemento che non ostacolerà l’introduzione dei capitali stranieri nel nostro paese, perché ci sono altre cause che già l’ostacolano, dire ciò sarebbe un sofisma evidente.

 

 

I capitalisti, avendo la scelta tra paesi i quali conserveranno il sistema al portatore come la Francia, la Svizzera, la Germania e come probabilmente diventerà l’Inghilterra dove il sistema dei titoli al portatore sta diffondendosi, preferiranno andare verso quegli altri paesi piuttosto che da noi ove dovranno assoggettarsi a questo speciale requisito ingombrante. Senza volere esagerare l’importanza di questo fattore, non dobbiamo negare che esiste: e quindi la minore introduzione di capitali esteri in Italia certamente sarà una causa di aumento nel saggio dell’interesse à cui potremo procurarci capitali. Non è possibile fare previsioni adeguate, ma più o meno, di una percentuale maggiore o minore, il costo dei capitali sarà aumentato in Italia per causa della introduzione della nominatività.

 

 

È meglio saperlo, perché così potremo valutare la bilancia del dare e dell’avere nella deliberazione che stiamo per prendere.

 

 

Così anche altri ostacoli possono esservi: accenno ad uno soltanto che ha un’importanza non trascurabile per il nostro paese ed è l’ostacolo che la nominatività apporterà all’introduzione dei capitali cattolici stranieri e alla conservazione dei capitali religiosi attualmente in Italia. È questo un fattore di non piccola importanza. I redditi dei benefici ecclesiastici son giunti ad un livello così basso che è impossibile immaginare che l’ecclesiastico provveduto di beneficio possa vivere col reddito del suo beneficio, col reddito cioè palese di esso; è necessario che altri redditi vi siano, i quali permettano a costoro di poter mantenere quel decoro di vita che mantengono, e sovvenire a quelle spese ed a quelle elargizioni caritatevoli a cui essi sono sottoposti. Questi altri mezzi indubbiamente provengono dal possesso dei titoli al portatore conservati fiduciariamente da qualche membro del clero. Se noi stabiliamo la nominatività è certo che costoro saranno costretti a vendere i titoli in quanto che se essi li vorranno intestare a un fiduciario, questi necessariamente dovrà essere un uomo di età molto avanzata (inquantoché intestarli ad un giovane può esser pericoloso) ed i titoli diventano soggetti ad un’imposta di successione così grave che in meno di un decennio essi saranno completamente assorbiti dalla finanza. Quindi a coloro che posseggono quei capitali in Italia converrà di alienarli e di convertirli in moneta, perché, pur consumando tutto il capitale, faranno un’operazione finanziaria più conveniente che non a tenerli sotto forma di titoli nominativi. Più probabilmente costoro venderanno questi titoli e cercheranno, nel modo migliore che potranno, di farli emigrare all’estero.

 

 

È uno dei casi, non tenue, di emigrazione all’estero che vale contro la nominatività dei titoli.

 

 

Ma il danno più grave, dal punto di vista non dirò economico soltanto, ma sociale, dell’introduzione della nominatività nel nostro paese, è quello dell’ostacolo che indubbiamente farà alla diffusione del titolo di debito pubblico nelle classi profonde del nostro paese.

 

 

Una delle maggiori, delle grandissime benemerenze che ha avuto il titolo del debito pubblico al portatore è stato di aver consentita la diffusione della ricchezza mobiliare non solo alle classi alte, provvedute di vistose ricchezze, ma anche nelle classi borghesi e poi nelle classi piccole borghesi e dei contadini, che cominciano col comperare buoni del Tesoro e titoli di rendita al 3 e mezzo e al 5 per cento.

 

 

È questo il carattere che contraddistingue la finanza italiana e francese dal sistema invalso fino alla guerra del debito pubblico inglese imperniato nella nominatività. Io ricordo che una quindicina di anni fa, avendo avuto occasione di fare degli studi sulla storia economica piemontese ho dovuto fare uno schedario di tutti i titoli di debito pubblico, dei possessori, come allora si diceva, di luoghi di Monte piemontesi nel 1706, nell’anno dell’assedio di Torino da parte delle truppe francesi. In quello schedario, che era composto di non più di un migliaio di persone nella città di Torino e di non più di un centinaio nella città di Cuneo, dove esistevano rispettivamente i luoghi di Monte di S. Giovanni Battista e del Beato Angelo, non vi erano che nomi dell’alta aristocrazia, del clero ben provveduto, della nobiltà di toga: pochi borghesi delle classi proprietarie, ancor più pochi mercanti. In sostanza il titolo di debito pubblico era un titolo aristocratico e non aveva trovato modo di penetrare e di diffondersi nella popolazione. Pochissimi erano interessati al titolo di debito pubblico e pochissimi quindi interessati alla buona conservazione della difesa del titolo dello stato. Quel fenomeno io credo si possa considerare come la fotografia di quello che era a questo riguardo lo stato dell’Inghilterra prima della guerra. Nel 1914 il titolo di debito pubblico inglese era un titolo aristocratico, quasi completamente ignorato dalla grande massa della popolazione. Ci volle un grande sforzo di propaganda e ci volle l’introduzione del titolo al portatore, perché il titolo potesse essere diffuso nelle classi lavoratrici e nelle classi agricole. Il piccolo risparmiatore non ama il titolo nominativo, perché teme i fastidi e i costi della intestazione e soprattutto della vendita.

 

 

Chi ha titoli i quali gli rendono 5.000 lire all’anno, può rassegnarsi a spenderne in media 100 in spese postali e provvigioni per l’incasso cuponi, in visti di notai e bollo, in viaggi e pratiche per successioni e trasmissioni. Chi ha titoli che gli fruttano 100 lire non può assoggettarsi a queste spese senza rinunciare alla ragione di tenere il titolo. Il titolo nominativo è aristocratico; quello al portatore è democratico.

 

 

Perciò noi oggi dobbiamo sapere che abbandoniamo un sistema il quale è riuscito a diffondere il titolo di debito pubblico tra forti masse e ad associare le sorti economiche di molte famiglie alle sorti finanziarie della vita dello stato e rendere conservatori individui che altrimenti non lo sarebbero stati e ci avviciniamo ad un sistema, che questo risultato non lo potrà conseguire se non da un’opera molto lunga e difficile.

 

 

Anche questo dunque è un argomento contro il principio della nominatività dei titoli, argomento non decisivo, ma dal quale sarebbe imprudente fare astrazione.

 

 

Oltre questi danni economico – sociali, di cui l’ultimo sarebbe quello per me di gran lunga prevalente, vi sono anche da esaminare i costi per l’attuazione di questo sistema, costi ai quali il relatore della Commissione di Finanze si è opportunamente riferito.

 

 

Infatti l’attuazione del sistema della nominatività dei titoli si presenta irto di difficoltà gravissime e di pericoli che forse noi non possiamo nemmeno pensare, perché sarà soltanto la realtà che ci dirà quali siano per essere gli inconvenienti da eliminare.

 

 

L’esperienza straniera a questo riguardo mi sembra poco probante. I due soli paesi nei quali il sistema della nominatività esiste, gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra, non possono, né l’uno né l’altro, offrirci tipi applicabili alle nostre condizioni. Il sistema americano è qualche cosa di fantastico, che noi non possiamo assolutamente accettare perché è quello di una pseudo – nominatività. Nel Nord America, essendosi voluto accogliere il sistema della nominatività si è istituito un titolo nominativo che in sostanza non lo è. Sul titolo c’è scritto bensì il nome dell’intestatario medesimo; ma, essendo esso girabile in bianco, può girare indefinitamente, come un titolo al portatore, corredato del solo nome del primo intestatario.

 

 

Il sistema conduce inoltre a risultati che potremmo dire veramente grotteschi. Infatti il dividendo annuo è sempre inviato al nome e al domicilio del primo intestatario, che soltanto figura nel libro del debito pubblico o nei registri della società; questo dividendo ricevuto dal primo intestatario comincia a percorrere una via lunghissima per passare dal primo al secondo, dal secondo al terzo e così via dicendo. Se si immagina che vi siano dieci o venti giratari, il dividendo deve rotolare fino a raggiungere l’ultimo attuale possessore. Così per gli avvisi di convocazione delle assemblee.

 

 

Orbene, possiamo noi ammettere un titolo di questa specie il quale non presenta alcuno dei vantaggi fiscali della nominatività e presenta invece tutti quegli inconvenienti economici ai quali ho accennato? Tanto è vero che negli stessi Stati Uniti d’America si è dovuto ricorrere ad espedienti per eliminare gli inconvenienti che dal sistema derivano.

 

 

Infatti spesse volte il titolo non è intestato all’effettivo possessore ma ad una Banca che ne rimane l’apparente proprietaria, salvo ad emettere certificati, delle lettere di accreditamento colle quali la Banca riconosce che il tale titolo appartiene ad un certo cliente. Il titolo pseudo nominativo americano è un titolo al portatore, il quale manca della snellezza e della praticità dei veri titoli al portatore. Esso è l’indice dello stato arretrato, sotto questo aspetto, del diritto commerciale in quel paese ed è perciò per noi inaccettabile.

 

 

In Inghilterra usano altri sistemi che anche essi possono essere di scarso insegnamento per noi. Ce n’è uno che si chiama sistema delle iscrizioni.

 

 

Io non so se qualcuno dei miei colleghi si ricordi del personaggio comico di Sam Weller, il celebre domestico del sig. Pickwick nei Pickwick’spapersdi Carlo Dickens. Sam Weller aveva un padre vetturino, il quale, sebbene avesse la cattiva abitudine di bere troppa birra, aveva saputo metter da parte un piccolo peculio di denaro. Questo peculio l’aveva investito in una maniera che a lui era parsa sempre misteriosa; non era mai riuscito a capire la natura del suo investimento: l’aveva investito in consolidato inglese, in uno di quei celebri 5% consols creati durante le guerre napoleoniche. Egli sapeva che un certo giorno era andato a portare una somma di denaro ad uno sportello, che non aveva ricevuto alcun documento in cambio, e che ogni sei mesi gli capitava a casa l’assegno del dividendo senza sapere donde venisse; e diceva: «Finché la dura va bene, finché mi manderanno dividendi andrà bene».

 

 

Questo è il sistema dei titoli: inglesi che dura anche adesso.

 

 

I titoli sono iscritti solo a Londra e a Dublino alla Banca d’Inghilterra e il possessore dei titoli non ha in mano nulla che comprovi il suo diritto.

 

 

Io non so se in Italia ci sarebbe un possessore, il quale si adatterebbe a non aver nulla in mano che sia la prova del suo possesso.

 

 

Là si adattano perché è un paese speciale, perché si adattano ai sistemi più antidiluviani, perché hanno ancora in piedi tutto l’armamentario feudale medievale, perché ci sono ancora giuramenti di feudatari all’incoronazione solenne del re e tante altre cose che a noi sembrerebbero completamente contrarie alla realtà. Noi siamo un popolo più semplice che non si Adatta a questi sistemi specialissimi che vigono in quel paese.

 

 

Per trasmettere un titolo iscritto bisogna o recarsi personalmente a Londra o a Dublino, alla sede della Banca d’Inghilterra; oppure dare l’incarico ad un procuratore (power of attorney) che abbia la sua residenza a Londra o a Dublino e che vada egli ad effettuare la trasmissione.

 

 

Se questo si facesse in Italia la nominatività cadrebbe subito dopo pochi mesi, poiché ci sarebbe una rivolta di tutta l’opinione pubblica.

 

 

Là hanno inventato anche un altro sistema dal quale si può imparare qualche cosa: il sistema dei titoli registrati, che corrisponde su per giù a quello che noi conosciamo sotto la forma di azioni della Banca d’Italia e di certificati del debito pubblico salvo che là le modalità d’iscrizione sono più complicate.

 

 

Ebbi occasione alcuni mesi fa di comunicare al senatore Schanzer, quando era ministro del Tesoro, un incarto a questo riguardo dandogli tutti i moduli della trasmissione dei titoli inglesi. Ebbene questi moduli sono certo minuti e fatti con tutta la perfezione possibile, ma sono complicati da dichiarazioni ove occorre l’intervento di testimoni ed altre formalità, le quali non rendono facile la trasmissione dei titoli nominativi.

 

 

Noi faremo bene a studiare quei moduli e sistemi per vedere come essi possano essere semplificati per rendere la trasmissione dei nostri futuri titoli nominativi facile e sollecita. Ma non dimentichiamo che lassù si adattano a questi metodi preadamitici perché hanno una vecchia organizzazione di Borsa, una Banca la quale risale ad un centinaio d’anni, perché sono riusciti in alcune città, e specialmente a Londra, a creare tutta un’organizzazione di agenti di cambio la quale permette che il congegno, pur arrugginito e faticoso, possa funzionare.

 

 

Noi questa organizzazione, che là è stata il frutto di una esperienza quasi centenaria, dobbiamo ancora crearla, e quindi dobbiamo cercare di fare in modo di ottenere il medesimo effetto senza ché si debbano superare tutti gli ostacoli che là soltanto la lunga esperienza ha potuto permettere di superare.

 

 

Nella sua relazione il senatore Rolandi Ricci ha già indicato parecchi di questi espedienti i quali potranno servire a rendere la nominatività, e specialmente la trasmissione dei titoli nominativi, se non facilissima almeno relativamente facile. A questo riguardo credo che una parola di lode debba essere data specialmente all’amministrazione finanziaria, e in primo luogo a quella del debito pubblico, in quanto che essa deve avere già preparato tutto un piano per la trasformazione del sistema. di trasmissione dei titoli del debito pubblico. Le singole società penseranno ai casi loro e troveranno il modo di rendere queste trasmissioni non troppo lente; ciò di cui noi ci dobbiamo preoccupare in particolar modo è della trasmissione dei titoli del debito pubblico. Oggi questi titoli raggiungono la cifra cospicua di 13 milioni e mezzo – in numero, non in valore – e la trasformazione al nome di tutti questi titoli è un’impresa così colossale che se fosse compiuta coi metodi attuali, con quei metodi che oggi sono imposti per legge, sarebbe assolutamente impossibile.

 

 

Occorrerebbero anni ed anni prima che la trasformazione fosse compiuta. Oggi la più piccola operazione di debito pubblico richiede almeno sessanta giorni, quella più breve, quella che non implica nessuna formalità speciale, per titoli su cui non esista alcun vincolo; appena comincia a comparire un vincolo, il periodo di tempo occorrente per la trasformazione si allunga; invece di due mesi può diventare di due anni e conosco casi di due, tre e quattro e anche cinque anni.

 

 

Il sistema attuale deve perciò essere modificato e credo che il direttore generale del debito pubblico abbia approntato le grandi linee del nuovo sistema che s’impernia sul decentramento amministrativo e sulla creazione presso le principali città di uffici distaccati i quali provvedano alla trasformazione del titolo nella maniera più rapida possibile. Se qualche cosa di simile non si farà, si avrà l’arenamento completo di tutte le operazioni del debito pubblico. Al riguardo mi permetto di fare una piccola proposta alla Commissione parlamentare per un provvedimento transitorio che dovrà essere preso nel periodo di tempo nel quale si compierà la operazione di debito pubblico. Potrebbe invero accadere che alcuni possessori di titoli, i quali hanno consegnato i loro titoli al portatore e ne hanno chiesto il trasferimento al nome, rimangano nel frattempo, per uno o due semestri, finché il nuovo titolo non sia pronto, senza la possibilità di riscuotere le loro cedole; quindi dovrebbe essere consentito qualche espediente transitorio che potrebbe essere, per esempio, il taglio della cedola di uno o due semestri, la quale potrebbe rimanere in mano del possessore e potrebbe essere esatta nella maniera solita dei titoli al portatore.

 

 

Il senatore Rolandi Ricci ha anche esposto quali sono le difficoltà materiali per la creazione di questi titoli; la difficoltà della carta è grandissima. Nel momento presente un titolo qualunque non può essere stampato che a un costo variabile da una a due lire.

 

 

Se il taglio del titolo è piccolo, come ci auguriamo debba essere per la sua grande diffusione, il costo di fabbricazione del titolo in rapporto al valore del titolo stesso è elevatissimo; quindi qualunque espediente, anche la iscrizione al nome sullo stesso titolo al portatore, deve essere raccomandato.

 

 

È da studiare inoltre se non sia conveniente di permettere in avvenire la creazione di titoli al nome di specie differenti.

 

 

Non occorre che i titoli del debito pubblico siano tutti eguali in quantoché ci sarà colui il quale sarà contento di ricevere un titolo nominativo iscritto al nome di un’altra persona ed a lui girato e ci sarà colui a cui questo sistema non piacerà e preferirà avere il proprio titolo nuovo, intestato direttamente a lui. Specialmente non garberà sempre al venditore che si sappia da tutti i futuri possessori del titolo che egli tempo addietro, mesi od anni prima, lo aveva posseduto; e vorrà consegnare al compratore, per mezzo dell’agente di cambio obbligato al segreto professionale, il titolo nuovo, che non porti alcuna traccia del suo possesso, già intestato al compratore. Altra volta invece di ciò al compratore non importava nulla.

 

 

Quindi occorre che ci sia la più ampia libertà di scelta da parte dei venditori e compratori per avere titoli con la girata o nuovi.

 

 

Dovrà essere anche disciplinata la materia del pagamento del prezzo. Io ricordo una legge recente francese, quella dell’1 agosto u. s., la quale regola questa materia. Questa legge fa obbligo all’agente di cambio compratore di pagare il prezzo al suo collega senz’altro ricevendo il titolo nominativo, ancora intestato al venditore. Di regola cioè spetta all’agente di cambio compratore provvedere alla nuova intestazione. Per eccezione talvolta è invece obbligato l’agente di cambio venditore a pensare a tutte le operazioni necessarie per il trasferimento del titolo a nome del compratore. Ciò quando sul titolo ci sia qualche vincolo; in tal caso l’agente di cambio venditore deve provvedere a consegnare il titolo disintestato e libero da qualsiasi vincolo e consegnarlo intestato al compratore. Sono modalità le quali è opportuno siano tenute presenti per evitare inconvenienti.

 

 

Nella relazione sono annoverate varie persone che potranno essere chiamate ad apporre il visto dell’autenticità della girata; soltanto notai ed agenti di cambio. Mi permetto di notare l’opportunità di estendere il novero di queste persone, perché per la facilità delle trasmissioni potrebbe essere opportuno che altre persone potessero mettere il visto, come per esempio i funzionari degli Istituti di emissione, il direttore delle stanze di compensazione al nome di cui dovranno essere intestati transitoriamente molti titoli e altre persone ancora, come capaci di apporre un vincolo.

 

 

Tanto più che queste persone potranno facilitare le trasmissioni, perché i notai in generale sono piuttosto rigidi nell’interpretare la legge e nel volere l’adempimento delle non poche formalità necessarie. Ho sotto gli occhi, tra le tante, una lettera di un notaio che dice: «Mi permetto di ricordare una sentenza della Corte d’appello di Casale, 11 luglio 1911, in causa Tricomi-Avignone (“Giurisprudenza”, 1912, 96) la quale ha negato al notaio di poter invocare, in fatto della conoscenza delle parti, l’errore invincibile, ed ha conseguentemente condannato un notaio a rifondere lire 50.000 perché aveva autenticato, per trapasso di una cartella del debito pubblico, una firma di una signora, presentatagli da un capitano come sua moglie, e dal notaio dichiarata come tale, mentre, pur essendo ritenuta pubblicamente moglie dell’ufficiale, ne era, invece, appena l’amante, e la vera moglie trovavasi altrove. Non sarà, dunque, per la tenuità del compenso, ma per il sentimento del loro dovere, per impedire abusi e per la gravità dei pericoli incombenti, che i notai, trincerandosi dietro la legge, si ricuseranno di autenticare alla leggera le firme ogni qualvolta (e sarà nella enorme maggioranza dei casi) non avranno personale conoscenza delle parti. È noto che alla sola stanza di compensazione di Milano si compensano per valori di miliardi le azioni, (le) obbligazioni, le rendite, i prestiti. Chi avrà il tempo ed il coraggio di fare coscienziosamente e rapidamente le corrispondenti autentiche? Forse i funzionari di stato che non prestano cauzione e che, a differenza dei conservatori delle ipoteche e dei notai, non hanno, di fatto, alcuna responsabilità personale; non i notai che, data la loro speciale funzione, devono per necessità di cose, nell’interesse della pubblica fede, moltiplicare le diffidenze burocratiche, specialmente nelle indagini sulla legittimità del possesso, sull’avvenuto pagamento delle tasse di successione, sulla capacità giuridica decedente, sulla regolarità degli atti che integrano tale capacità giuridica nei casi di minori inabilitati”, ecc.

 

 

Se i notai dovranno fare tutte queste indagini, l’autenticazione potrà andare per le lunghe, mentre, moltiplicando il numero delle persone autorizzate a porre l’autenticazione, sarà più facile trovare chi conosca la persona e possa porre questa autenticazione.

 

 

Vi è un punto che nella relazione dell’Ufficio centrale non è stato toccato, perché forse di interesse collaterale, ma che mi sembra meritevole di esser tenuto in considerazione, cioè quello dei metodi che dovranno essere tenuti per utilizzare a favore della finanza l’istituto della nominatività dei titoli.

 

 

Noi non vogliamo la nominatività per sé; non facciamo dell’arte per l’arte, perché ciò sarebbe improduttivo e forse anche dannoso e costoso; vogliamo questo istituto per sole ragioni fiscali. Questo è il solo motivo che ci induce a dar voto favorevole. Quando avremo stabilito che tutti i titoli dovranno essere nominativi, saremo al principio della strada: dovremo ancora utilizzare la nominatività per l’accertamento dei redditi e dei patrimoni dei contribuenti.

 

 

Ora, a questo riguardo, a me sembra che l’addentellato con la legge ci sia, perché a seconda dei metodi che terremo si potranno avere diverse indicazioni per le modalità da seguire nella trasmissione dei titoli. La finanza deve scoprire i titoli nominativi posseduti dai contribuenti e a tale scopo ci sono vari sistemi. Un primo potrebbe essere il sistema dello schedario, che dovrebbe essere compilato e tenuto a giorno nel palazzo del Ministero delle Finanze e che dovrebbe occupare molto spazio, molti saloni di quel Ministero. In ogni scheda del grandioso schedario ci dovrebbe essere il nome di ogni singolo contribuente italiano con l’indicazione dei titoli da lui posseduti. Tutte le società e le amministrazioni del debito pubblico dovrebbero mandare periodicamente l’indicazione del nome del venditore e consegnatore e i funzionari finanziari dovrebbero scaricare il primo e caricare il secondo. Di giorno in giorno questo casellario dovrebbe essere tenuto al corrente.

 

 

Basta esporre questo sistema per vedere come difficilmente potrebbe in modo pratico funzionare; credo che sarebbe necessario per impiantare al completo questi schedari. La loro manutenzione sarebbe costosissima e darebbe luogo ad errori per molti nomi identici, e questi errori darebbero anche luogo a controversie infinite.

 

 

Altro sistema potrebbe essere quello della creazione di una specie di tessera del contribuente. Per evitare il groviglio dello schedario centrale, è stato appunto proposto di creare una tessera del contribuente.

 

 

A costui dovrebbe essere attribuito un numero di ordine, e tutte le volte che egli compra e vende titoli, dovrebbe essere citato quel numero d’ordine e quindi i notai, gli agenti di cambio; ecc., dovrebbero inviare alle singole agenzie delle imposte del domicilio del numero d’ordine del compratore e del venditore la indicazione del trasferimento avvenuto.

 

 

Lo schedario in questo sistema, sarebbe meno colossale perché sarebbe diviso in tanti schedari, quante sono le agenzie delle imposte, e non dovrebbe essere possibile una duplicazione a cagione del numero d’ordine.

 

 

Ma anche questo è un sistema che io mi limito ad esporre, perché non ho potuto approfondirne le difficoltà, non gli sbagli eventuali nella copia del numero d’ordine. Controversie non mancherebbero.

 

 

Il sistema più pratico che converrà d’adottare a questo riguardo, sarà quello di non fare niente… (Voci: No, no) … né schedario centrale né schedario per ogni agenzia di imposte, e limitarsi alla denunzia del contribuente, in quanto che, Il contribuente che non denunzia tutti i titoli nominativi che possiede, correrà dei rischi perché il possesso dei suoi titoli potrà essere accertato e in tal caso si dovranno applicare penalità e sanzioni gravissime che gli facciano perdere la voglia di nascondere i suoi titoli.

 

 

Se non erro il sistema di non fare gli schedari è adottato in Inghilterra.

 

 

Veramente in Inghilterra il problema si è posto soltanto recentemente, perché sebbene il sistema della nominatività vi duri da molto tempo, finora non si utilizzava ai fini fiscali. La nominatività diventa utile a tale fine quando le imposte diventano progressive, perché se l’imposta è proporzionale, il titolo paga tutte le imposte. Noi in Italia finché c’era soltanto l’imposta di ricchezza mobile si era sicuri che tutti i titoli al portatore pagavano tutte le imposte, perché le imposte erano esatte presso l’ente che emetteva i titoli. La necessità della nominatività è sorta quando l’imposta è diventata progressiva, e quando fu perciò necessario di conoscere i nomi dei singoli contribuenti e l’ammontare della loro ricchezza. È questo un fatto recente. Fino ad oggi in Inghilterra il problema era del resto importante in tutto il Regno Unito per soli 11.000 contribuenti, solo a carico di questi la finanza aveva interesse a conoscere l’ammontare dei titoli da essi posseduti, perché per gli altri l’imposta, essendo proporzionale, veniva completamente esatta presso gli enti emittenti. Solo con l’istituzione della imposta progressiva sul reddito, al di sopra delle 3.000 poi delle 2.000 sterline, fu necessario conoscere il nome dei contribuenti; ma si limitò alla dichiarazione dei contribuenti senza lo schedario.

 

 

Adottando questo sistema semplice delle denunzie si porrebbe un altro quesito; è necessario di tener dietro giorno per giorno alle trasmissioni?

 

 

È necessario che la finanza venga a conoscere tutte le trasmissioni che si sono verificate durante l’anno?

 

 

Ma non basterebbe che, una volta all’anno, l’amministrazione del debito pubblico e la direzione delle società fossero obbligate a trasmettere il nome di coloro che in un dato giorno sono proprietari di titoli? Salvo la prima volta basterebbe anzi mandare ogni anno le variazioni.

 

 

Gli elenchi servirebbero alla finanza a scopo di controllo e ogni tanto essa potrebbe fare una specie di scandaglio, cioè prendere a caso qualche sezione di contribuenti o società e vedere se quelli che sono iscritti negli elenchi figurano nelle dichiarazioni. Il rischio di cadere nei detti scandagli sarebbe sufficiente ad indurre i contribuenti a fare le dichiarazioni esatte.

 

 

Ci sarebbe ancora qualche caso di evasione, ma sarebbe talmente raro e così poco pericoloso, che forse è opportuno di perdere qualche centinaio di migliaia di lire pur di non spendere decine di milioni all’anno per tenere in ordine gli schedari.

 

 

Del resto questa è una questione che solo l’esperienza potrà risolvere.

 

 

I colleghi possono chiedermi a questo punto: se la nominatività dal punto di vista economico non è feconda di vantaggi; se probabilmente essa produce qualche risultato dannoso; se socialmente può essere d’ostacolo alla diffusione del titolo al portatore, e quindi al rinsaldamento degli interessi privati con quelli dello stato, se il costo dell’istituzione della nominatività e il costo della trasmissione dei titoli nominativi è costo che non dovrà essere considerato come leggero, per quali motivi devesi accogliere questo sistema?

 

 

Il motivo è fiscale, però debbo aggiungere che il vero motivo fiscale non è quello immediato. Se si trattasse soltanto di ottenere un gettito immediato e largo, dico che sarebbe meglio non far niente, e non ricorrere alla nominatività.

 

 

Non voglio ripetere le cifre che nell’altro ramo del Parlamento per opera dell’on. Belotti dell’on. Bertone ed altri, sono state citate, battute e controbattute, per andare alla ricerca del provento di questo istituto.

 

 

Bene a ragione il nostro relatore trova che, si tratti di dieci milioni di più o di dieci milioni di meno, questo non è l’argomento essenziale. Dal punto di vista fiscale immediato la nominatività potrà rendere quel che renderà.

 

 

Non c’è nulla di più pericoloso che fare previsioni sul rendimento di nuovi istituti finanziari che si creano. Questi istituti daranno più o meno a seconda dello spirito con cui saranno applicati e secondo i mezzi di accantonamento usati dall’amministrazione finanziaria.

 

 

Sostanzialmente il gettito immediato non sarà grandioso; non potrebbe giustificare questa profonda innovazione nel diritto commerciale, e non compenserebbe i danni economici e sociali che ho prima indicati: perché quel centinaio o quelle due centinaia di milioni che la nominatività potrà rendere potrebbero essere ottenuti con molta maggiore facilità con tasse, più facili, come per esempio quella del 15% sui dividendi ed interessi dei titoli al portatore che, ove fosse estesa a tutti i titoli, darebbe assai più milioni di quello che non possa renderne la nominatività.

 

 

La nominatività non si raccomanda per il gettito immediato ma per le conseguenze finanziarie future dell’obbligo morale, al quale oggi dobbiamo imperiosamente sottostare.

 

 

Il progetto sulla nominatività dei titoli, è, mi sia lecito dirlo, il solo dei quattro grandi provvedimenti che ci sono presentati, che corrisponda ai dettami della vera pratica finanziaria, che possa essere fecondo di risultati finanziari durevoli. Perché io sono scettico su quel che darà l’inasprimento d’imposta sulle successioni, fornirà l’imposta sulle automobili; e credo che il gettito della avocazione dei sopraprofitti sarà una cifra la quale non giustificherà le speranze che in quel provvedimento si sono riposte. Invece l’odierno provvedimento si inspira ai veri e sani principi non solo della scienza, ma anche della pratica finanziaria, in quanto è il solo tra questi quattro provvedimenti che metta in prima linea, sopra tutto il resto, la esigenza essenziale del momento presente, ossia l’accertamento esatto dei redditi.

 

 

Gli altri provvedimenti s’ispirano all’idea di aumentare la aliquota dell’imposta, e si spera con essi di ottenere risultati finanziari utili allo stato. Io non ci credo, e ritengo che questa sia una politica finanziaria che ci condurrà a gravi disinganni, mentre il sistema della nominatività che non tocca le aliquote e cerca di risolvere il problema principale dell’esatto accertamento della materia imponibile, è quello che meglio corrisponde alle esigenze del momento presente. La finanza italiana soffre della disuguaglianza degli accertamenti: è questo un vizio fondamentale del sistema tributario: vi è colui che paga imposte ferocissime sui propri redditi e sui propri patrimoni, vi è colui che paga imposte minime e vi è finalmente colui che non paga nulla. Orbene il sistema della nominatività cerca di portare alla uguaglianza dei contribuenti e vuole far si che l’accertamento avvenga in maniera migliore, in modo cioè che sia instaurata la giustizia fra le diverse classi sociali.

 

 

Tutti i provvedimenti di giustizia tributaria costano. Ma noi che abbiamo voluto la guerra italiana sebbene sapessimo che economicamente non era una cosa vantaggiosa (tutti gli economisti che si sono occupati di questo argomento hanno detto che come operazione economica era un errore) l’abbiamo voluta da un punto di vista superiore; sapevamo che il lato economico doveva passare in confronto di altri fattori d’importanza molto superiori. Così in questo caso il fattore tributario immediato ci farebbe dire no, la nominatività è un passo sbagliato, ma il fattore morale dell’instaurazione della giustizia fra le varie categorie di contribuenti, ci fa concludere che il provvedimento è necessario e tale da raccomandarsi vivamente al nostro voto. E si raccomanda per parecchie ragioni.

 

 

Io non credo che il vantaggio principale sarà nemmeno quello di assoggettare delle imposte dovute i possessori di titoli al portatore. Fino a questi ultimi tempi, fino a quando furono instaurati i sistemi di progressività, i possessori di titoli al portatore hanno pagato tutte le imposte che dovevano pagare ed in misura maggiore di altre categorie di contribuenti i quali si proclamavano sovraccarichi. Era sinora una leggenda che i possessori di titoli al portatore sfuggissero alle imposte. Non sfuggivano affatto alla imposta di ricchezza mobile fino all’ultimo centesimo; non sfuggivano se non in piccola parte alla imposta di successione ed anche per questa erano assoggettati all’imposta differenziale di negoziazione che controbilanciava in parte il minor pagamento che facevano. Quindi era un’accusa ingiusta quella che si faceva contro i possessori di titoli al portatore. Vi erano i possessori di titoli del debito pubblico esenti dalle imposte, che non pagavano in nessun senso; ma non pagavano perché l’esenzione era stata data nell’interesse dello stato.

 

 

Era lo stato che aveva proclamata l’esenzione delle imposte, perché così facendo riusciva a vendere i titoli del debito pubblico ad un prezzo più elevato di quello a cui avrebbe potuto venderli se non fossero stati esenti da qualsiasi imposta, nel qual caso li avrebbe venduti a 20 o 30 lire di meno. Quindi, in sostanza, lo stato veniva a prendere subito tutte le imposte a cui apparentemente rinunciava. Era dunque un errore che i possessori di titoli al portatore non pagassero prima le imposte dovute; oggi, col sistema della nominatività, essi pagheranno non solo l’imposta proporzionale ma le imposte progressive. E di ciò sono lieto, sia perché essi pagheranno tutte le imposte che dovranno pagare, sia perché ciò sarà d’incitamento e di obbligo al legislatore e alla finanza di far pagare anche gli altri che sfuggono alle imposte. I possessori di titoli al portatore oggi ottengono si e no ogni anno un reddito che è difficile poter valutare, ma che non credo sia superiore ad una cifra di tre o quattro miliardi di lire all’anno. Su per giù la cifra del reddito, degli interessi e dei dividendi di titoli del debito pubblico e i titoli privati sarà sui quattro miliardi di lire. Di questi quattro miliardi una parte già paga le imposte, ma in ogni modo sono al più quattro miliardi che verranno acquisiti alle imposte nuove progressive sul reddito, sul patrimonio, sulle successioni.

 

 

Or bene gli altri redditi a quale cifra ammontano? Io voglio fare un calcolo.

 

 

Il censimento del 1911 accerta l’esistenza di 6 milioni di addetti all’industria e di 9 milioni di addetti all’agricoltura.

 

 

In questi 15 milioni di lavoratori sono compresi anche tutti i professionisti, gli impiegati, i tecnici, i commercianti, gli industriali, gli affittuari, i mezzadri ed in genere tutti i lavoratori più o meno elevati. Ora il reddito minimo di questi 15 milioni di lavoratori non credo che possa essere calcolato in misura inferiore alle 20 lire al giorno per i lavoratori industriali e alle 12 lire al giorno ai lavoratori della terra.

 

 

Supponendo che il salario medio per tutti sia di 15 lire al giorno e calcolando una media annuale di 300 giorni lavorativi e quindi un salario annuo per ciascuno di essi di 4.500 lire, si arriva a 70 miliardi circa di reddito. A questo reddito del lavoro puro e del lavoro misto a capitale, dobbiamo aggiungere quei 4 miliardi di reddito dei titoli di debito pubblico o dei titoli privati. Un altro miliardo dobbiamo aggiungere per il reddito della proprietà edilizia, il quale oggi non supera questa cifra, perché i decreti vincolatori impediscono gli aumenti di fitto e se qualche aumento hanno consentito esso è andato piuttosto a favore degli intermediari che non dei proprietari, intermediari che sono già compresi nei calcoli precedenti.

 

 

Si arriva così a 75 miliardi. Prima della guerra si calcolava che il reddito della proprietà fondiaria (l’ultimo elemento che ci rimane da esaminare) fosse di un miliardo o poco più. Tenendo conto degli spostamenti di valore verificatisi nel frattempo, quintuplichiamo questa cifra ed arriviamo in complesso ad 80 miliardi di reddito.

 

 

Or bene la finanza di questi 80 miliardi di reddito quanti ne accerta oggi? Io non credo di dire cosa molto lontana dalla verità, affermando che la finanza oggi non conosca più di cinque o sei miliardi di reddito. I diversi ruoli delle imposte non ci danno infatti cifre superiori. Il Senato vede dunque quale enorme divario ci sia tra il reddito accertato di sei miliardi come massimo ed il reddito minimo probabile effettivo di 80 miliardi.

 

 

C’è un ampio campo entro il quale la finanza può spaziare e che potrà essere mietuto, anche salvaguardando la condizione essenziale della finanza moderna, che è quella della progressività e della esenzione dei redditi minimi. Oggi l’imposta normale, che entrerà in vigore dall’1 gennaio 1921, stabilisce come reddito minimo 1.200 lire. Io voglio immaginare che questo minimo sia molto aumentato, sia duplicato o triplicato, il che vuol dire quadruplicato o sestuplicato in confronto ai minimi antibellici di 640 e 533 lire.

 

 

Ad ogni modo rimane sempre un margine al di sotto delle 2.400 o delle 3.600 lire, margine da mietere, su cui la finanza potrà esercitare la sua azione.

 

 

Un ostacolo alla perequazione tributaria e a quest’opera di giustizia era stato sempre dato dal fatto della esistenza dei titoli al portatore, che si afferma ingiustamente sfuggissero alla imposta. Finché esistevano i titoli al portatore quelle classi di cittadini che non pagavano imposte, mentre avrebbero dovuto pagarle, rispondevano sempre: ci sono altri che non pagano, prima fate pagar loro e poi pagheremo anche noi. È il solito malvezzo che prevale in questa materia e cioè che non c’è nessuno che voglia essere il primo a pagare. Io credo che sarebbe meglio che tutti cominciassero a pagare per conto proprio e facessero tutti il proprio dovere.

 

 

Soltanto colui che avesse fatto il proprio dovere dovrebbe poter avere il diritto, di dire che si facciano pagare anche gli altri.

 

 

Ma siccome il malvezzo esiste, io credo che abbia fatto bene il governo a cominciare dalla nominatività l’opera di perequazione tributaria, per togliere di mano ad elementi facinorosi (intendo con questo aggettivo riferirmi a coloro che dovrebbero pagare le imposte e non le pagano e non le vogliono pagare) il pretesto, che adducevano per giustificare il proprio non adempimento del loro dovere verso lo stato. Quando lo stato avrà tolto lor di mano questo pretesto, avrà un buon argomento per dire ad essi: pagate nei limiti entro cui dovrete pagare, non in tanto in quanto siete appartenenti ad una determinata classe sociale, giacché noi non vogliamo creare privilegi a favore di classe e categorie, ma in quanto avete un diritto superiore ad un certo minimo stabilito.

 

 

Questo a mio giudizio è il vantaggio più grande che ci potrà dare la nominatività dei titoli, di tassare cioè anche altre categorie di contribuenti che oggi sfuggono al pagamento dell’imposta.

 

 

Ma oltre questo c’è anche un altro vantaggio morale, il quale, ripercuotendosi esso, alla lunga, sulla finanza, produrrà anche un indiretto vantaggio finanziario.

 

 

Ho avuto occasione di dire che il provvedimento attuale si raccomanda, a differenza degli altri contemporaneamente presentati al nostro esame, perché rappresenta un principio di giustizia tributaria e perché non accoglie il metodo sempre usato nella nostra finanza, di continuamente aumentare le aliquote. Noi abbiamo il pregiudizio dell’aumento delle aliquote.

 

 

Tutte le volte che c’è un maggiore bisogno diamo un giro di vite al torchio finanziario e aumentiamo alquanto le aliquote; e ci illudiamo che con questo aumento si riesca ad ottenere un aumento di reddito finanziario. È un errore gravissimo, ma debbo confessare che questo errore è provocato dalla resistenza di quelle classi le quali dovrebbero pagare le imposte e che finora avevano questo pretesto in mano di dire: «comincino a pagare i portatori di titoli”. Ci sono molte persone le quali hanno dei redditi cospicui e che ciò non ostante sono decise a non voler pagare: molti contadini proprietari di terreni, e che li coltivano direttamente con redditi molto superiori ai minimi esenti, e molti operai i quali hanno dei redditi notevolmente superiori attualmente alle 1.200 lire (e in avvenire se il minimo sarà aumentato anche assai superiori) che possono pagare e non pagano nessuna imposta.

 

 

Essi oggi plaudono tutte le volte che un provvedimento governativo aumenta l’aliquota degli altri. Quando invece, tolto il pretesto dei titoli al portatore, si sarà riusciti a generalizzare la imposta sarà più facile che si possa resistere alla tendenza continua all’aumento delle aliquote.

 

 

Molti contribuenti sentiranno in carne propria e patiranno le conseguenze di questi aumenti. Allora si vedrà che la politica finanziaria migliore è quella di abbassare le aliquote, di tenerle basse ma di accertare con la massima, precisione e certezza la materia da tassare.

 

 

Altri pagano le imposte e si illudono di non pagarle. Vi sono azionisti di società i quali pur avendo pagato fino ad ora tutte le imposte che il legislatore aveva su loro caricato, si sono sempre illusi di non averle pagate, si sono illusi perché per ragioni tecniche l’imposta è esatta non presso di loro ma presso la società della quale essi sono azionisti. La società anonima paga le venti o trenta lire di dividendo netto e così l’azionista malamente si illude di non pagare l’imposta, inquantoché riceve le dieci o venti lire nette, ma in realtà egli, se l’imposta non ci fosse stata, ne avrebbe ricevute undici o dodici.

 

 

Ciò fa si che queste varie categorie di contribuenti non s’interessino alla cosa pubblica e credano che il suo andamento non li riguardi.

 

 

Gli impiegati della stessa società, gli stessi operai della società, credono che le imposte siano una cosa che non li riguardi e quindi non si oppongono all’aumento della aliquota.

 

 

Quando invece col sistema della nominatività, e soprattutto con la estensione conseguente per ragion di giustizia, della tassazione a tutte le classi sociali, ogni contribuente sarà chiamato a pagare la sua parte alla finanza dello stato, ci sarà in questa circostanza un freno potente, l’unico freno possibile che si possa immaginare all’aumento delle spese da parte dello stato.

 

 

Gli altri rimedi che le vecchie legislazioni, i vecchi sistemi rappresentativi avevano creato, sono freni che oggi non funzionano più. Il solo freno possibile è quello d’interessare tutti i contribuenti al pagamento delle imposte, perché quando ogni contribuente vedrà che a seconda della buona o cattiva condotta finanziaria dello stato diminuirà o aumenterà l’aliquota sua, sarà portato a cercare le ragioni di questo aumento e ad interessarsi a che la politica finanziaria si svolga nel modo più favorevole ai suoi interessi, agli interessi collettivi.

 

 

Una delle educazioni migliori che i popoli diversi dal nostro, il popolo germanico, il popolo svizzero, il popolo inglese (questo specialmente) abbiano avuto in questi ultimi anni, è stata l’estensione della imposta diretta a profonde categorie di contribuenti. Lo stupore maggiore dei nostri operai quando emigrano in Isvizzera, in Germania o in Inghilterra è quello di vedersi presentare dagli esattori la bolletta per il pagamento delle imposte, il che accadeva prima della guerra in Germania, anche quando i loro redditi superavano appena i 900 marchi all’anno, ed anche ora in Inghilterra, quando il reddito supera 3.250 lire nostre all’anno, ossia cifre le quali sono comuni a tutti i salariati. Essi ritenevano che fosse un loro diritto il non pagare. Questa è invero una educazione finanziaria pessima, perché disinteressa milioni e decine di milioni di persone dall’andamento dell’azienda dello stato.

 

 

Quando sarà universalizzato il sistema del pagamento delle imposte dirette, si raggiungeranno risultati grandissimi.

 

 

Noi avremo allora portato la nostra finanza verso il suo risanamento.

 

 

Io credo che questo sia il massimo vantaggio che noi possiamo aspettarci dalla nominatività.

 

 

Certo non possiamo necessariamente aspettarcelo; inquantoché i due fatti non sono tra di loro necessariamente congiunti: è possibile che si stabilisca la nominatività dei titoli e che siano tassati giustamente i relativi quattro miliardi di reddito ed è anche possibile che per debolezza non si tassino anche altri redditi di contribuenti, i quali oggi sfuggono alla imposta.

 

 

In tal caso il massimo vantaggio della nominatività sarebbe perduto. Quindi la conclusione ultima alla quale arrivo è la seguente: che la nominatività ci potrà dare vantaggi quando essa sia soltanto un primo passo verso quell’assetto di perequazione finanziaria che lo stato italiano deve ancora attuare. Oggi ci troviamo in una situazione di ingiustizia stridente poiché tassiamo i sei quando dovremmo tendere a tassare gli ottanta milioni di lire di reddito annuo e sebbene si possa ammettere che di questi ottanta milioni quaranta, cinquanta e anche sessanta debbano essere esenti dall’imposta perché appartengono a redditi minimi, la nominatività avrà adempiuto al suo fine quando sarà stata utilizzata in guisa da permettere la tassazione della parte residua dei redditi giustamente tassabili che oggi va esente dall’imposta. Perciò io cominciando diceva che la nominatività ci si impone come una legge morale che noi non dobbiamo adottare perché ci possa essere feconda di vantaggi economici di immediato provento fiscale; ma perché [la] dobbiamo attuare e dovendola attuare dobbiamo provvedere affinché essa in avvenire possa altresì essere feconda di buoni risultati finanziari. Io faccio voti affinché il principio oggi introdotto possa essere utilizzato, anche esteso in guisa da darci il massimo risultato morale e finanziario di perequazione e giustizia per tutti. Qualunque siano le difficoltà finanziarie dell’ora, noi saremo sicuri di vincerle se sapremo e soltanto se sapremo attuare nei tributi la giustizia per tutti. (Approvazioni vivissime; molti senatori vanno a congratularsi con l’oratore).

 

 

Seguono Interventi degli on. Frola, Beneventato, Rota, Cannavina, Levi Civita, Facta, Meda e Rolandi Ricci; gli accenni e le repliche al discorso di L. Einaudi sono numerosi e le sue argomentazioni sono riprese, in particolare, da Facta e Rolandi Ricci.

 

 

Quindi L. EINAUDI prende nuovamente la parola:

 

 

Avevo domandato di parlare per associarmi alla raccomandazione fatta dal senatore Levi Civita.

 

 

L’articolo 53 del decreto-legge 22 aprile 1920 sull’imposta del patrimonio, minaccia davvero di rendere non commerciabile tutta la materia imponibile, compresa la proprietà immobiliare.

 

 

Il congegno dell’imposta patrimoniale è di forma progressiva e tale che il debito imposto da un contribuente è in funzione dell’ammontare del suo patrimonio. Chi ha forte patrimonio è debitore di forti somme d’imposta.

 

 

Disgraziatamente questa forte somma d’imposta non sarà determinata nella sua cifra precisa se non quando saranno definite le operazioni di accertamento, e valutazione dei diversi cespiti, sicché passeranno molti anni prima che la valutazione sia compiuta. Ciò sopratutto a causa della rivalutazione che deve essere fatta dalla proprietà immobiliare rustica che oggi è valutata inferiormente alla realtà in base ad un coefficiente empirico di 325 volte l’ammontare dell’imposta erariale principale dovuta per il 1916. Quando si verrà alla valutazione definitiva il debito potrà essere superiore a quello che oggi sembra. Quindi ogni contribuente rimane per un certo tempo nell’incertezza. L’amministrazione finanziaria ha un privilegio per questo suo credito di ammontare incerto. Un contribuente, che oggi ha un patrimonio di dieci milioni di lire, diventerà così debitore definitivo di una certa somma d’imposta, ad esempio, due milioni di lire. Costui col tempo aliena tutte le sue attività e queste sue attività in gran parte o le ha consumate o non sono scopribili. Rimane visibile una casa, un fondo rustico: casa e fondo rustico che egli ha già venduto ad un compratore in buona fede. Questi potrà in qualche anno trovarsi costretto a pagare di nuovo a titolo di imposta allo stato l’intero valore della proprietà che egli ha acquistato e pagato.

 

 

È un pericolo gravissimo, che raccomando all’attenzione del ministro del Tesoro ed a quello delle Finanze. Non faccio proposte ma mi associo alle raccomandazioni del senatore Levi Civita perché quest’argomento sia studiato.

 

 

Il pericolo c’è anche per i titoli perché io ho il dubbio che cioè se un contribuente, ossequente al disposto del decreto-legge sull’imposta patrimoniale, ha fatto la dichiarazione del numero d’ordine e della qualità dei suoi titoli, il privilegio si riferisca a questi titoli, e che colui che avrà da lui acquistato in tutto o in parte i titoli, direttamente od attraverso a successivi acquisti, si veda tra qualche tempo nel pericolo di perdere l’intiero titolo, in perfetta buona fede; meglio corre il pericolo di dover pagare allo stato tanta imposta quanta equivale al valore del titolo.

 

 

Oggi questo pericolo non è ancora conosciuto, ma se la conoscenza si diffonde, credo ne vengano conseguenze dannose per la commerciabilità dei beni immobili principalmente. Chi vorrà comprare una casa col pericolo di doverla pagare una seconda volta allo stato, in causa del privilegio d’imposta su di lui gravante?

 

 

Credo che una via d’uscita potrebbe essere trovata in questo: che si desse un diritto veramente esercitabile al contribuente al riscatto.

 

 

Bisognerebbe che il contribuente avesse diritto di far fare la valutazione definitiva e che questa non potesse in seguito essere più variata. Così si fisserebbe in cifra definitiva il debito d’imposta del contribuente; gli eventuali compratori saprebbero quale è il valore preciso del privilegio a cui eventualmente possono essere chiamati a sottostare. Sarà un valore magari cospicuo. Ciò non monta. Purché si sappia quant’è. In tal caso sarebbe qualcosa di simile al privilegio per l’imposta fondiaria che non fa male a nessuno. Tutti i contraenti potrebbero fare i loro calcoli.

 

 

Questa è l’idea: il problema è certamente degno della più attenta considerazione da parte del governo.

 

 

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