Opera Omnia Luigi Einaudi

Archivi: Discorsi Parlamentari

13 dicembre 1955

13 dicembre 1955 

Atti Parlamentari, Senato della Repubblica. Dibattiti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 801-819

21 novembre 1953 – Sui diritti e compensi del personale degli uffici dipendenti dal Ministero delle Finanze e del Tesoro e della Corte dei Conti

21 novembre 1953 – Sui diritti e compensi del personale degli uffici dipendenti dal Ministero delle Finanze e del Tesoro e della Corte dei Conti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 801-819

29 luglio 1947 – Approvazione del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947

29 luglio 1947 – Approvazione del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947

Atti Parlamentari – Assemblea Costituente – Assemblea plenaria, Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 683-694

23 luglio 1947 – Sull’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio

23 luglio 1947 – Sull’istituzione di un’imposta straordinaria progressiva sul patrimonio

Atti Parlamentari – Assemblea Costituente – Assemblea plenaria, Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 667-682

18 giugno 1947 – Sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio

18 giugno 1947 – Sulle comunicazioni del Presidente del Consiglio

Atti Parlamentari – Assemblea Costituente – Assemblea plenaria, Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 619-666

3 maggio 1947 – Ddl “Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale”

3 maggio 1947 – Ddl “Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale”

Atti Parlamentari – Assemblea Costituente – Assemblea plenaria, Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 609-614

31 luglio 1946 – Le autonomie locali (II)

Atti parlamentari – Assemblea costituente – Commissione per la Costituzione – Seconda sottocommissione, resoconto sommario, Roma, Tip. della Camera dei Deputati, s. d. (1946-1947), 31 luglio 1946, pp. 56-60

 

La Seconda sottocommissione per la Costituzione prosegue la discussione sul problema delle autonomie locali; dopo un ampio intervento del deputato La Rocca prende la parola L. Einaudi:

In materia finanziaria non crede esista una soluzione unica, la quale possa soddisfare alla necessità di dare, sia alla provincia, per coloro che vogliono mantenerla, sia alla regione, per coloro che vogliono crearla, una finanza che non abbia bisogno di altri enti maggiori o minori. E crede che sia impossibile trovare questa soluzione, in quanto ciò condurrebbe a ricorrere ad espedienti che si sono adottati già tante volte nella storia, ma che non hanno mai dato risultati soddisfacenti. Vi sono stati luoghi e tempi nei quali l’ente intermedio (chiamiamolo regione) viveva dei contributi dei comuni (nel Regno di Napoli, prima del 1860, qualche cosa di simile si è verificato); ma il risultato fu sempre che la regione, ente intermedio, viveva una vita meschina, in quanto nasceva necessariamente la gara al peggio fra i comuni che avrebbero dovuto dare il contributo necessario per far vivere l’ente intermedio. Tutti i comuni facevano a gara per dimostrare la loro povertà, la loro incapacità a dare. Il risultato che si aveva, e che si avrebbe di nuovo se si applicasse il sistema dei contributi pagati dal comune, sarebbe l’impossibilità della vita finanziaria della regione. Lo stesso dicasi del sistema opposto di far vivere l’ente intermedio mediante il contributo dello stato. È un sistema che è stato qualche volta anch’esso applicato, ma ha sempre prodotto la corruzione politica. Se la regione deve vivere del contributo dello stato, si faranno vivere quelle regioni che hanno maggiore influenza politica e quindi vi saranno sempre regioni arretrate che si troveranno in condizioni sfavorevoli. Per conseguenza crede che l’esperienza dimostri che la regione non possa vivere con il sistema finanziario dei contributi, sia che questi partano dall’ente minore, il comune, sia che partano dall’ente maggiore, lo stato. Quindi necessità di fatto che l’ente intermedio abbia una finanza, che si potrebbe chiamare propria se, invece di essere chiamata propria, non dovesse essere chiamata finanza in partecipazione con gli altri enti: il comune e lo stato.

La ragione per cui non è possibile immaginare un sistema che sia proprio alla regione sta nel fatto che in sostanza la materia imponibile è una sola: il reddito del contribuente. Questo reddito si potrà afferrare all’origine, quando entra nel bilancio del contribuente, o quando, sotto forma di consumi, esce dal bilancio del contribuente; ma fuori del reddito non esistono altre materie imponibili. Quindi necessità tecnica, di fatto, che la regione ricorra alla medesima materia imponibile a cui forzatamente debbono ricorrere lo stato ed i comuni. Si tratterà di trovare metodi di compartecipazione della regione a quest’unica materia imponibile, che è il reddito del contribuente, che siano meglio adatti alla regione medesima, lasciando allo stato e rispettivamente al comune quelle altre parti di reddito che siano meglio adatte l’uno alla natura unitaria dello stato, l’altro alla natura piccola, locale del comune.

Presa questa via che è la sola possibile, quali limiti si possono mettere alla finanza regionale?

Innanzi tutto qualche limite di esclusione. Si devono escludere tutte quelle imposte che, se diventassero imposte regionali, costituirebbero un impedimento alla vita economica unitaria. Le riforme che si vogliono attuare devono tener conto delle necessità economiche del paese. Per limitarci in un primo momento alle imposte sul consumo, si devono escludere dal campo di applicazione delle regioni tutte quelle imposte che sminuirebbero l’unità economica del paese. Non si può dare alle singole regioni il diritto di stabilire un’imposta di fabbricazione sullo zucchero, senza avere per conseguenza che ogni regione diventerebbe un campo chiuso. Se una regione stabilisce un’imposta di fabbricazione di mille lire ed un’altra regione la stabilisce di ottocento, quella che l’ha stabilita di mille deve mettere un dazio contro l’altra regione che l’ha stabilita di ottocento, perché altrimenti rovinerebbe la propria industria. Tutto ciò che costituisce barriera, vincolo, ecc., al commercio fra una regione e un’altra è una materia imponibile che deve essere sottratta alla regione. L’atto fondamentale dovrebbe quindi sancire un principio il quale contempli i casi singoli di esclusione nei quali la regione non può intervenire, perché il suo intervento sarebbe dannoso all’economia del paese. Ma la regione dovrà, come la provincia oggi, avere un suo campo tributario che si rivolga soprattutto alle imposte dirette.

Oggi la provincia ha funzioni sue proprie molto limitate e che si riferiscono ai manicomi, brefotrofi e strade. Queste funzioni danno luogo alle spese obbligatorie e, in relazione a queste spese, ad un sistema tributario. Ma la regione non si potrà contentare di queste funzioni così limitate; dovrà avere funzioni più importanti e più larghe, a cui dovranno corrispondere delle imposte a più larga base. Non sarà possibile accontentarsi dei centesimi tradizionali sulle imposte sui terreni e fabbricati, ma bisognerà dare sotto forma di centesimi addizionali, il diritto di imporre più largamente sulle industrie, sui commerci e sulle professioni. In realtà questa imposta non è altro che una parte della imposta di ricchezza mobile con qualche piccola esclusione per le categorie A, C e D. Siccome è impossibile tecnicamente concedere ai comuni il diritto di sovraimposizione sulla imposta di ricchezza mobile (perché ha un campo di applicazione che va al di là del comune), si è creato il succedaneo della sovrimposta all’imposta di ricchezza mobile, che si chiama imposta sulle industrie, i commerci e le professioni, ma che non è nient’altro che una forma particolare di sovrimposta applicata alle necessità del caso. Forse bisognerà dare qualche cos’altro, ma il nucleo fondamentale della forma che dovrà assumere la finanza regionale sarà quello della sovrimposizione sui redditi che si formano nell’ambito della provincia.

Rimane il quesito se alla regione debba essere dato anche un diritto di sovraimposizione sull’imposta personale che da noi oggi si chiama imposta complementare progressiva sul reddito per lo stato e imposta di famiglia per i comuni. Non si può, a priori, negare alla regione anche il diritto di sovrimporre su questa fonte, nei limiti consentiti dalla sua natura territoriale.

Nello stato si è creata una imposta complementare progressiva sul reddito, perché lo stato non poteva limitare la sua potestà di imposta soltanto a quei redditi che nascevano nel territorio dei singoli comuni, come erano le imposte sui terreni e fabbricati, ma doveva allargare la sua capacità di imposta a tutti i redditi nascenti nello stato, ed anche a quelli nascenti fuori dello stato. La nostra imposta progressiva teoricamente colpisce tutti i redditi che il cittadino, persona fisica, riceve in Italia, sia che i redditi si producano in tutto lo stato italiano od anche all’infuori dello stato italiano, in quanto dei redditi nascenti fuori dello stato italiano si abbia qualche notizia diretta, cioè che questi redditi siano importati e goduti nello stato. È lo stato che ha questa capacità di imposizione a titolo di imposta progressiva, perché è soltanto lo stato che ha i mezzi di accertamento per scoprire il reddito dovunque esso sia sorto.

Né il comune né la provincia o regione hanno la possibilità di conoscere il reddito sorto all’infuori dei loro comuni e si può inoltre fondatamente dubitare se abbiano ragione di colpirlo. Può derivarne una lotta fra i singoli comuni e le singole regioni o provincie. Ogni ente locale deve avere una certa potestà di colpire il reddito personale che sorge ed è attinente, per l’origine e per il consumo, al proprio territorio. Ma perché dovrebbe colpire anche i redditi che nascono fuori del suo territorio, con il pericolo di una doppia tassazione, con la necessità poi di risolvere a posteriori i conflitti che possono sorgere con altri comuni o con altre regioni? È bene quindi che la legislazione ponga a priori dei limiti ai comuni ed alle provincie, per impedire che comuni e provincie colpiscano, come materia di tassazione personale, redditi che hanno avuto origine o in qualche modo si consumano fuori dai limiti del comune e della provincia. In fondo, in maniera imperfetta, empirica, il legislatore italiano aveva tentato di risolvere questi problemi per i comuni con una imposta sul valore locativo e con una imposta di famiglia. Erano certamente degli strumenti, dal punto di vista degli accertamenti, imperfetti; ma non si può dire che l’idea che li informava fosse errata. Si diceva che il comune ha il diritto di imporre sul reddito personale complessivo del contribuente quando tale reddito del contribuente ha una qualche attinenza col comune; di qui l’imposta sul valore locativo. Anche l’imposta di famiglia, così come era stata costruita in origine, aveva tratto al reddito goduto, visibile della famiglia in quella certa località; materia imponibile che non era quella del reddito tassato dall’imposta complementare complessiva sul reddito appartenente allo stato. Lo stato deve abbracciare tutto. Lo stato, se ci riesce, deve abbracciare anche ciò che nasce fuori dai confini dello stato medesimo e che poi, in qualche modo, rientra e viene goduto dentro lo stato. Ma perché la regione dovrebbe violare l’eguale diritto di altri comuni o di altre regioni? Quindi occorre che il reddito, nelle sue varie trasformazioni, abbia acquistato una fisionomia locale, regionale e che il comune e la regione tassino quel reddito in quanto esso abbia questa configurazione comunale o regionale.

Ricorda di avere redatto una relazione alla Consulta sul decreto sull’imposta di lusso, presentato e fatto approvare dal ministro Scoccimarro, relazione favorevole in principio e contraria per le applicazioni, perché quel decreto, sebbene giusto in linea di principio, dal punto di vista della tecnica non era accettabile. In principio quel progetto si informava all’idea di creare una imposta che conglobasse insieme le due vecchie imposte di famiglia e sul valore locativo, tenendo conto anche di tutti gli altri coefficienti visibili del reddito e del consumo. In sostanza tutto il reddito prodotto è, parlando in generale, tassabile dallo stato. Questo reddito, consumato e goduto, deve avere necessariamente delle manifestazioni locali ed in quanto sia goduto e consumato costituisce la materia imponibile dei comuni e dell’ente regione. Certamente, non si tratta di tassare un reddito nuovo: lo si vede soltanto in momenti diversi, i quali sono appropriati alla natura dell’ente che deve imporre l’imposta. La distinzione avrà maggiore o minore successo a seconda dei metodi di applicazione, in quanto che, se si continuasse nella via attuale, qualunque sistema sarà inventato e legiferato produrrà sempre risultati dannosi. Finché si dimenticherà che stato, provincie, regioni e comuni colpiscono sempre la medesima materia imponibile e cioè il reddito, e si guarderà alle singole imposte invece che al loro insieme, i contribuenti saranno sovratassati e continueranno a reagire con la frode; e questa sarà tale solo di nome. È molto difficile sapere oggi quello che paga il contribuente italiano.

Un calcolo fatto dell’onere complessivo che il contribuente italiano dovrebbe sopportare per le tre imposte reali, quella complementare sul reddito e quella ordinaria sul patrimonio, tenendo conto delle sovraimposte locali, dà i seguenti risultati. Partendo dall’ipotesi che si tratti della famiglia media italiana, cioè composta dei genitori e due figli, il proprietario della terra dovrebbe pagare aliquote che vanno dal 49 al 96%. Se si trattasse poi di un celibe, questo dovrebbe pagare come minimo il 42% e come massimo il 108%. Ora, non è possibile pensare ad aliquote di questo genere; il sistema è assurdo e non può essere applicato. Se si tratta di un proprietario di fabbricati, sempre ammogliato con due figli, dovrebbe pagare dal 53,3 al 73,7%; se è un industriale, o commerciante che abbia un’azienda individuale, l’aliquota andrebbe dal 45,6 al 71,9; se è una società, l’aliquota andrebbe dal 44,1 al 71,3. Un professionista che vive del suo lavoro pagherebbe il 15,7 per i redditi minimi e il 63,1 per i redditi massimi.

A questo riguardo oggi non si deve pensare che esistano redditi molto elevati, specialmente per talune categorie; per esempio un professore universitario che aveva nel 1914 un reddito di 10.000 lire corrispondenti almeno ad 1 milione di lire attuali, e paga circa l’8%, ha oggi un reddito di 200.000 lire e dovrebbe pagarne per imposte almeno il 15%.

Quindi, tutte le riforme che si possono escogitare saranno inutili se non si troverà un modo per attribuire una parte al comune e alla regione, ma sempre in maniera che non si eccedano certi limiti nel complesso della tassazione. Notisi che le percentuali dette sopra si riferiscono solo alle imposte dirette. Accanto a queste vi sono le imposte di successione, sugli affari e sui consumi.

Ammesso che le imposte dirette nel sistema fiscale delle provincie e dei comuni diano la percentuale maggiore, poiché l’inverso accade per lo stato, è chiaro che a quelle aliquote occorrerebbe aggiungere almeno altrettanto; sicché il contribuente, per compiere il proprio dovere, dovrebbe soccombere.

Per far sì che ognuno degli enti tassati abbia la sua parte, ma che non ecceda un certo livello, si sono adoperati in Italia mezzi ben noti: il legislatore ha stabilito un limite massimo; ma comuni e provincie dopo averlo raggiunto, hanno dichiarato che non potevano vivere, e allora si è creato un secondo limite a cui sollecitamente tutti i comuni sono arrivati; e, allorché se ne è creato un terzo, questo è stato subito raggiunto dalla totalità dei comuni. È un sistema che non funziona, perché crea negli amministratori dei comuni e delle provincie la tendenza ad ottenere l’autorizzazione ad arrivare fino al limite massimo stabilito; essi finiscono per concepire il raggiungimento dell’ultimo limite di tassazione come una cosa naturale; come un diritto di proprietà. L’amministratore del comune concepisce il diritto di giungere fino ad un certo limite come un dovere di giungervi, tanto più che la spinta a spendere c’è sempre, quando esiste la possibilità di tassare. In tal modo si arriverebbe anche al quarto e al quinto limite se ci fossero.

Si era immaginato di trovare un freno nel senso che l’eccedenza oltre il limite dovesse essere autorizzata con una legge speciale; ma la sola conseguenza di questo è stata la moltiplicazione dei disegni di legge per la fissazione dei limiti. La verità è che un rimedio veramente efficace per tutti i casi non esiste.

In Inghilterra si segue un sistema che sembra funzioni meno male, e che ha già avuto una sua tecnica legislativa: il sistema che le autorizzazioni ad una maggiore imposta siano collegate con speciali esigenze, per cui il comune, la contea, la parrocchia, ecc., chiedono l’autorizzazione ad aumentare le loro imposte in relazione a qualche spesa che deve essere fatta.

È da vedere, però, se questo sistema può essere applicato in Italia.

Certamente, conviene cercar di regolare la materia nel senso che il forte sostenga il debole; che la provincia o la regione ricca sostenga la provincia o la regione povera, attraverso il fondo generale delle imposte statali. Ma è dubbio se lo stato accentratore, quale è esistito finora, sia il più adatto ad adempiere a queste necessità, perché le provincie che hanno un maggiore peso elettorale, cioè quelle più popolose, hanno una forza preponderante e finiscono per soverchiare le provincie più povere, cioè meno popolose. Il sistema delle autonomie rende le regioni meno asservite allo stato e capaci di far sentire meglio la propria voce.

In Svizzera la confederazione interviene a favore dei singoli cantoni e soprattutto a favore dei cantoni alpestri, più poveri, che hanno minore capacità finanziaria e non possono coi propri mezzi adempiere ai servizi richiesti per mettersi alla pari con i cantoni più ricchi, nei quali è accentrata l’industria. Non per questo le regioni povere non hanno diritto ad essere aiutate; questi aiuti si chiamano rivendicazioni. Un cantone povero, il quale ha bisogno di ferrovie, di scuole, ecc., e che si trova al di sotto del minimo necessario per sostenere quelle spese, rivendica dalla confederazione un contributo sancito dalla legge. In Italia il contributo potrebbe essere dato dallo stato, dalla provincia o dalla regione all’ente minore.

In vari modi si può concepire il limite: al comune che non abbia raggiunto il limite dell’imponibile lo stato può imporre anzitutto di raggiungerlo, per aiutarlo, se necessario, quando l’avrà raggiunto. Al comune che abbia superato quel limite potrà imporre di mettersi in regola riducendo le aliquote, salvo a aiutarlo quando si sarà messo in regola, affinché possa adempiere alle sue funzioni che con i suoi mezzi non può adempiere. Non è un sistema che possa funzionare con semplicità; ma la materia tributaria non è semplice, anzi tende a diventare sempre più complicata, per la diversificazione dell’economia e per il fatto che il contribuente può ricavare i propri redditi da fonti di natura diversa e situate in località diverse.

Entro i limiti delle necessità tecniche, si possono fissare dunque per la finanza regionale e locale alcune idee fondamentali.

Circa l’esclusione delle imposte che, se fossero applicate dagli enti locali, creerebbero barriere tra comune e comune, non si tratta di pericoli immaginari. Ricorda un bellissimo articolo in cui Giuseppe Prato denunziò i dazi protettivi creati in Italia all’ombra dei dazi comunali sui consumi. Con i dazi si erano create delle vere e proprie barriere, che non rendevano nulla ai comuni, ma proteggevano l’interesse degli industriali risiedenti nella cerchia murata della città a danno degli altri industriali, i quali esercitavano la loro industria, magari a due passi fuori della cinta daziaria. Si deve impedire che il territorio nazionale diventi una specie di quadro bizzarro di tanti stati, separati economicamente ed operanti contro le esigenze della economia nazionale.

Altre idee fondamentali sono: partecipazione degli enti locali, comuni e regioni, alle imposte reali, in quanto queste abbiano attinenza con le località; partecipazione anche alle imposte personali, in quanto queste assumano la forma dell’imposta sul reddito consumato, perché il reddito consumato necessariamente ha un’attinenza con il luogo dove è consumato; e finalmente collaborazione o aiuto del forte al debole, attraverso lo stato, collaborazione realizzata non per arbitrio, ma sulla base di leggi; cosicché l’ente locale possa rivendicare un suo diritto dimostrando di trovarsi nelle condizioni richieste dalla legge.

Passando ad un punto più generale, osserva che l’onorevole Piccioni, affermando giustamente che è preferibile la regione alla provincia, ha dato di questa sua affermazione una spiegazione dicendo che la provincia è una creazione artificiosa, mentre la regione è una creazione naturale. Pur consentendo nella preferenza, non può condividerne la spiegazione. L’evoluzione storica del Piemonte certamente non la giustifica. Nelle Langhe, una propaggine collinosa del Monferrato, i vecchi contadini, quando vanno a Cuneo dicono che vanno in Piemonte, perché nella loro mente il paese in cui vivono non è Piemonte. E in realtà il Piemonte è una creazione storica recente, nata non prima ma dopo le provincie. Prima della Rivoluzione francese, la denominazione Piemonte era ristretta al piccolo territorio della regione pedemontana. La Val d’Aosta, il Monferrato, le Langhe non erano Piemonte. Il Piemonte è una creazione di Napoleone I che fuse insieme venticinque vecchie provincie nelle quattro tradizionali di Torino, Cuneo, Alessandria e Novara, che per qualche tempo si chiamarono divisioni militari e poi “provincie “. Le vecchie provincie, in parte, diventarono circondari; poi i circondari furono aboliti. Quindi storicamente si va dai piccoli circondari alle quattro divisioni, diventate provincie, e la regione è il punto di arrivo. Appunto per questo la regione può essere una creazione sana; se fosse un punto di partenza, sarebbe una creazione artificiale.

Uno scrittore francese ha affermato che molte istituzioni statali sono al di sopra ed al di là della natura dell’uomo; comunque è certo che vi è un contrasto tra i moderni ordinamenti territoriali e la capacità dell’uomo a dominarli. E quindi impossibile che un amministratore domini tutta la materia di una regione. Il Piemonte, ad esempio, ha tre milioni e mezzo di abitanti e il futuro presidente regionale non potrà conoscere intimamente tutte le esigenze degli abitanti. In molti campi, che si possono chiamare economici e che sono quelli spiritualmente meno interessanti in quanto si tratta di tecnica (strade, ponti, costruzioni in genere) la regione potrà essere uno strumento adatto. Ma vi sono altri campi dell’attività politico-amministrativa in cui è indispensabile il contatto diretto dell’amministratore con gli amministrati; è necessario che l’amministratore si faccia conoscere dai suoi amministrati e sappia apprezzare le esigenze migliori, spirituali dell’uomo. Quindi si può creare la regione, ma non si deve eccedere nel fissarne i compiti. Alcune funzioni affidate ad essa provocherebbero gli stessi inconvenienti cui si va incontro quando sono attribuite allo stato. Richiama a questo proposito il problema della scuola elementare in cui è evidente lo stretto legame fra genitori, alunni e insegnanti. Molti comuni sono troppo piccoli per poter far fronte alle esigenze dell’insegnamento; possono far fronte solo alle prime due classi elementari. Le esigenze odierne richieggono che, oltre alla terza e alla quarta, si dia grande sviluppo alle scuole di avviamento e scuole tecniche. Occorre, quindi, ricercare un quid medium, un consorzio tra comuni o, magari, il “collegio” (meglio che la “comunità”), quella circoscrizione che a un dipresso è la tradizionale del collegio uninominale, in cui l’eletto conosceva i propri elettori e riusciva a farsi conoscere. Il collegio dovrebbe comprendere non più di 80-100.000 abitanti; a capo starà la cittadina od il borgo col suo mercato centrale in cui si riuniscono gli abitanti una volta la settimana; il pretore, l’Ufficio del registro, ecc. Questa unità sarà la più adatta per far fronte a quel decongestionamento delle grandi città che è un’esigenza fondamentale della vita moderna. Questa circoscrizione intermedia fra la regione e il comune, che non è la provincia, non dovrà essere obbligatoria, ma dovrà essere incoraggiata da favori legislativi; si chiamerà collegio, o consorzio o distretto e dovrà fronteggiare le spese che oltrepassano le forze del comune e che da un punto di vista non materiale, superano le forze dell’uomo che governa la regione.

27 luglio 1946 – Le autonomie locali (I)

Atti parlamentari – Assemblea costituente – Commissione per la Costituzione – Seconda sottocommissione, resoconto sommario, Roma, Tip. della Camera dei Deputati, s. d. (1946-1947), 27 luglio 1946, pp. 12-14

 

È all’esame della Seconda sottocommissione il problema delle autonomie locali. Interventi dei relatori Ambrosini e Perassi, quindi intervento di Zuccarini]

EINAUDI: si associa all’apprezzamento molto favorevole fatto da tutti i colleghi alle relazioni.

All’onorevole Zuccarini osserva che non conviene fermarsi sul punto: quale degli argomenti debba essere trattato prima; la regione o il comune o l’ordinamento generale dello Stato. Le sue esperienze in materia di elaborazione di testi legislativi, che risalgono ad un quarto di secolo, lo hanno condotto alla conclusione che l’essenziale è cominciare da un punto qualsiasi e redigere uno schema. Sarebbe conveniente che i relatori preparassero uno schema articolato; forse alla fine della discussione gli articoli che ne usciranno saranno diversi da quelli presentati; non per questo la fatica dei relatori sarà stata meno meritoria. Poi si dovrà armonizzare i risultati della Seconda sottocommissione con quelli delle altre, e probabilmente alla fine quello che nascerà sarà del tutto diverso da quello che provvisoriamente era stato approvato. Ma, seguitando a domandarsi quale argomento debba essere discusso prima, si finisce col non discutere nulla. Dal punto di vista metodologico non c’è un argomento più importante di un altro; bisogna pur cominciare da qualcuno.

Passando a qualche osservazione specifica, afferma che, se si vuole istituire la regione, si deve abolire la provincia, perché, se si aggiungesse la regione alla provincia, si moltiplicherebbero gli uffici e i gravami fiscali.

Per la determinazione della competenza di questi organi, occorre tener presente che noi non siamo nella situazione di un gruppo di stati che intendono federarsi. In questa situazione come è avvenuto in Svizzera e negli Stati Uniti d’America – gli stati che si federano determinano essi quali sono le competenze che intendono attribuire al governo federale e riservano a sé tutte le altre. Noi, invece partiamo dallo stato unitario, che intendiamo mantenere, ed allora la soluzione migliore è che siano attribuite dalla carta costituzionale alla regione determinate competenze e che la regione non ne abbia nessuna di più di quelle stabilite dall’atto costituzionale. Ciò non impedisce che quando si sia constatato che le regioni danno buona prova, si possano, con emendamenti successivi, ampliare i poteri delle regioni. L’altra via, per la quale si tratterebbe di lasciare all’ente regione la facoltà di fare tutto salvo quello che è attribuito allo stato, al momento attuale gli pare pericolosa.

Rispetto alla finanza crede che si debba tener conto dell’esperienza, la quale dimostra che qualunque tentativo sia stato fatto di specificare le imposte da assegnare ai comuni, alle provincie o alle regioni e in genere agli enti minori è andato a vuoto, perché ha urtato contro un ostacolo essenziale; qualsiasi sistema preciso di attribuzione di un gruppo di imposte agli enti locali si dimostra o insufficiente o esuberante. È sempre accaduto cosi, ed è impossibile che una preordinata distribuzione delle fonti tributarie tra l’ente stato e gli enti minori possa soddisfare allo scopo della sufficienza: non si può mai prevedere se le spese della regione potranno essere coperte da quelle imposte. Quindi il sistema è da scartare, e conviene piuttosto fare qualcosa nel senso di negare alla regione la facoltà di stabilire taluni tipi di imposta che, se la regione potesse usarli, li userebbe in senso dannoso all’interesse collettivo. Per esempio, se le si attribuisce il diritto di stabilire molte imposte indirette, come dazi, imposte sui consumi ecc., pur senza volerlo, si crea un sistema di mercato chiuso, che sarà di impedimento al traffico interregionale. Se un principio fermo deve essere scritto in una costituzione, questo è che sia negato a qualsiasi ente locale il diritto di mettere qualsiasi impedimento al traffico tra una località e l’altra. Deve essere invece attribuita alla regione una certa lata facoltà di stabilire le imposte che non sono negate espressamente.

Ma è certo che si verificherà un inconveniente. È probabile che le imposte che possono essere stabilite diano un gettito insufficiente specie nelle regioni meno progredite. Questa previsione, derivante dalla esperienza, potrà forse suggerire il modo di sostituire, nella regione come nella provincia o nel comune, qualche cosa ai controlli preventivi esercitati da parte dell’autorità centrale, come prefetti, giunte provinciali amministrative, ecc. Bisogna ammettere che qualche ente locale abusi dei propri poteri e allora quali saranno i correttivi? Per le regioni che non hanno da chieder nulla allo stato, possono essere soltanto quelli d’ispezione; e le ispezioni devono continuare ad esser fatte dalle autorità centrali, a mezzo di ispettori volanti, inviati da un’autorità competente centrale, come il Ministero dell’Interno, il Ministero delle Finanze, la Sanità pubblica. E quali sanzioni dovrebbero avere i risultati negativi che determinassero il biasimo degli ispettori? Non ve ne è altra all’infuori dell’appello agli elettori. I risultati delle ispezioni sono pubblici, e saranno gli elettori che, in base ad essi, si decideranno a non rieleggere gli amministratori colpevoli. Per le regioni, invece, e per i comuni per i quali le imposte assegnate sono insufficienti e che hanno da chiedere qualche cosa allo stato, bisogna pensare a qualche altra sanzione in aggiunta a quella del ricorso agli elettori, e questa sanzione evidentemente prende nome di norme relative alla concessione di un contributo dallo stato alla regione.

La questione dei contributi è delicatissima e forse nessun paese è mai riuscito a risolverla. Quando lo stato dà contributi agli enti minori che non hanno entrate sufficienti, tutti gli enti minori finiscono per chiedere sempre contributi all’ente centrale, e in questa situazione non vale stabilire in qualsiasi modo l’autonomia: gli enti locali dipenderanno dall’ente centrale che li sovvenziona. La soluzione che è stata trovata dopo molti esperimenti – si può pensare agli esperimenti svizzeri e inglesi – è quella che il contributo non sia stabilito a priori a libito delle autorità centrali, ma siano invece stabiliti dei criteri oggettivi in base ai quali l’ente locale abbia diritto ad un certo contributo. Per esempio, un municipio povero, perché la sua popolazione è scarsa, la ricchezza per testa è insufficiente, il reddito delle imposte molto basso, non potrà avere scuole al di là della seconda o della terza elementare: se si vuole che superi questo limite, è necessario un contributo. Il contributo viene allora dato in funzione di una considerazione oggettiva.

Ricorda qui di aver conosciuto un ufficiale inglese della Commissione alleata, antico segretario comunale di un comune inglese, che aveva assunto poi un altro ufficio: le sue funzioni erano di introduttore delle esigenze dei comuni presso il Ministero dell’Interno, la Sanità pubblica o la Camera dei comuni per ottenere di volta in volta un atto privato, un atto speciale. Funzione giuridica, non lasciata all’arbitrio dell’autorità centrale; funzione certamente non perfetta, ma che soddisfa una esigenza giuridica: quella di eliminare l’arbitrio dell’ente centrale, il quale esercita il suo controllo sulla base di norme stabilite per legge, che non possono essere violate né dal potere centrale né da quello locale.

Circa la questione dell’elettorato, di cui è cenno nella relazione Ambrosini, dichiara di essere contrario a qualunque forma di elettorato professionale, che, a suo avviso, costituirebbe un enorme errore nella nostra legislazione. Ma è una questione generale su cui non intende dilungarsi.

In materia di elettorato una certa larghezza di criteri dovrebbe essere lasciata agli enti locali, in quanto negli enti locali ciò che importa di stabilire è il legame diretto fra comuni o regioni ed elettori. Non può essere elettore nella regione e nel comune il primo venuto: occorre che abbia dato prova con una residenza di un certo numero di anni, di non essere una persona che, stando li quasi di passaggio, determini col proprio voto delle norme che saranno poi obbligatorie per quelli che risiedono sul posto in permanenza, mentre lui se ne sarà andato via. Quindi la possibilità di limitare il diritto elettorale, senza alcuna distinzione di opinioni, di culto, di razza ecc.; ma relativamente alla durata dei rapporti che intercedono fra l’abitante del comune o della regione e il diritto elettorale. Il cittadino italiano ha diritto di votare sempre, perché è cittadino italiano, ma per il comune un rapporto temporale, anche di piccola durata, deve essere tenuto presente.

Su un altro punto importante richiama un recente volume dell’Olivetti, che, fra molte affermazioni forse un po’ fantastiche, ha un’idea che può essere accolta anche in misura limitata, sperimentalmente: quella della “comunità” (parola non appropriata). L’Olivetti quando parla di “comunità” probabilmente vuole riferirsi a qualche cosa di simile ai distretti nelle provincie del Veneto, minori del circondario e maggiori del mandamento. Esiste infatti una certa circoscrizione, la quale non è il comune, e di gran lunga non è la provincia; una circoscrizione che si raggruppa intorno ad un mercato, ad una cittadina di diecimila abitanti, per esempio. Questa risponde ad una situazione più propria dell’Alta e Media Italia che non dell’Italia Meridionale. Nell’Italia Meridionale esistono grosse città che raggruppano moltissimi abitanti, mentre nell’Italia Settentrionale vi sono molti borghi di tre-quattro-cinquemila abitanti, vi sono comuni di mille-millecinquecento abitanti che non hanno i mezzi per vivere, né li avranno mai e non potranno mai mantenere complessi servizi; onde la necessità di un qualche cosa che raggruppi tutti questi piccoli comuni che gravitano intorno ad un mercato centrale, che sarà un mercato economico, ma potrebbe anche essere un centro giudiziario; sarà la cittadina che è sede del tribunale o dove si trovano gli uffici del registro, delle imposte, ecc., o della pretura. Per molti servizi, come ad esempio quelli del medico condotto, del veterinario ecc., questa circoscrizione può essere attuata, se non nella maniera concepita dall’Olivetti, in modo più ristretto, in forma sperimentale, quasi di consorzio: ma l’idea non deve essere abbandonata.

Per gli enti minori è favorevole all’idea del referendum. Un po’ conservatore per tradizione, relativamente poco per le cose economiche, ma molto per le cose tradizionali, ha constatato che il referendum è un organo di conservazione di tutto ciò che è tradizionale, a cui gli abitanti tengono e che invece molte volte gli uomini politici, credendo di innovare a vantaggio della popolazione, vogliono distruggere. Il referendum, per esempio nella Svizzera, porta quasi sempre ad emendamenti di progetti di legge che sono stati votati qualche volta ad unanimità dai grandi consigli dei cantoni o dai consigli comunali. Così è avvenuto, per esempio, nel 1944, con un referendum nel Canton Ticino, proprio sull’elettorato. Tutto il Canton Ticino aveva votato in favore di un allargamento dei criteri dell’elettorato; ma gli elettori respinsero il disegno di legge, perché tenevano molto a che gli elettori nei comuni fossero persone che essi conoscevano, che erano vissute sul posto almeno per un certo numero di anni. Il corpo elettorale spesso risponde negativamente quando si tratta di cose che toccano le tradizioni famigliari, le istituzioni fondamentali di carattere morale, a cui molto tengono gli elettori, i quali in questa materia credono poco alle innovazioni.

Circa la giurisdizione, dubita molto della opportunità di estendere alla regione il diritto di avere una giurisdizione propria. Crede che questo urti contro l’esperienza anche di quei paesi nei quali si avevano tribunali locali. È una esperienza che si è fatta nella Svizzera in forma moderata, negli Stati Uniti in forma clamorosa, perché il gangsterismo nord-americano ha trovato alimento nella impotenza delle autorità di polizia e delle autorità giudiziarie federali. Perciò oggi in tutti gli stati federali c’è la tendenza a restringere l’autorità – degli organi giudiziari, della polizia locale, e aumentare l’autorità della polizia centrale. Per la stessa ragione tecnica per la quale tutti sono d’accordo che le ferrovie, le poste e telegrafi, ecc., siano di spettanza, per il loro regolamento, delle autorità centrali e non di quelle locali, si riconosce che, per praticamente amministrare la giustizia e la polizia, è assolutamente necessario che queste siano di spettanza dell’autorità centrale e non delle autorità locali.

Ciò conforta ancora la tesi che in materia di autonomia, condizione essenziale nel nostro paese è quella di stabilire tassativamente in precedenza quali siano le materie di competenza delle autorità locali; tutte le altre spettano all’autorità centrale. Via via, fatta la necessaria esperienza – nessuna costituzione è perfetta – tali competenze potranno essere allargate o ristrette.

Rinnova in ultimo il desiderio che, dopo le relazioni, siano formulati degli articoli, che si possano esaminare e discutere uno ad uno, salvo a rivederli ancora in rapporto a quelli che, sulle altre materie, saranno formulati dalle altre sottocommissioni.

13 aprile 1946 – Stato di previsione di spase del Ministero del Commercio Estero

13 aprile 1946 – Stato di previsione di spase del Ministero del Commercio Estero

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 205-209

22 gennaio 1946 – Previsione di spesa del Ministero dell’assistenza postbellica

22 gennaio 1946 – Previsione di spesa del Ministero dell’assistenza postbellica

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 145-148

20-22 dicembre 1945 – Sul sequestro, pignoramento e cessione degli stipendi e salari dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni

20-22 dicembre 1945 – Sul sequestro, pignoramento e cessione degli stipendi e salari dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 47-57

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20 dicembre 1945 – Variazioni allo stato di previsione di entrata e spesa di vari ministeri

20 dicembre 1945 – Variazioni allo stato di previsione di entrata e spesa di vari ministeri

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp.43-46

19-20 dicembre 1945 – Indennità al personale statale in servizio nei centri distrutti, semidistrutti o danneggiati

19-20 dicembre 1945 – Indennità al personale statale in servizio nei centri distrutti, semidistrutti o danneggiati

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp.37-42

19-21 dicembre 1945 – Rivalutazione degli estimi catastali dei terreni e del reddito agrario

19-21 dicembre 1945 – Rivalutazione degli estimi catastali dei terreni e del reddito agrario

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 31-36

22 novembre 1945 – Riordinamento degli organi che esercitano la disciplina del commercio con l’estero

22 novembre 1945 – Riordinamento degli organi che esercitano la disciplina del commercio con l’estero

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 19-24

28 novembre 1922 – Concessione al governo di pieni poteri per il riordinamento della pubblica amministrazione e del sistema tributario

28 novembre 1922 – Concessione al governo di pieni poteri per il riordinamento della pubblica amministrazione e del sistema tributario

Atti Parlamentari – Senato del Regno – Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 935-948

12 maggio 1922 – Tasse di successione, di registro e di manomorta nelle zone occupate dagli Austriaci e nella zona di operazioni durante la Guerra

12 maggio 1922 – Tasse di successione, di registro e di manomorta nelle zone occupate dagli Austriaci e nella zona di operazioni durante la Guerra

Atti Parlamentari – Senato del Regno – Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 921-925

17 marzo 1922 – Concessione di una indennità caroviveri agli impiegati delle provincie e dei comuni

17 marzo 1922 – Concessione di una indennità caroviveri agli impiegati delle provincie e dei comuni

Atti Parlamentari – Senato del Regno – Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 913-920

17 dicembre 1921 – Relazione al Ministro della Giustizia sulla conversione in legge di alcuni decreti in materia di fitti

17 dicembre 1921 – Relazione al Ministro della Giustizia sulla conversione in legge di alcuni decreti in materia di fitti

Atti Parlamentari – Senato del Regno – Documenti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 590-598

14-26febbraio 1921 – Sugli affitti e sulla limitazione dei poteri del commissario governativo agli alloggi

14-26febbraio 1921 – Sugli affitti e sulla limitazione dei poteri del commissario governativo agli alloggi

Atti Parlamentari – Senato del Regno – Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 475-587

7 dicembre 1920 – Pubblicazione dei dati della circolazione e annunciato aumento della circolazione stessa

7 dicembre 1920 – Pubblicazione dei dati della circolazione e annunciato aumento della circolazione stessa

Atti Parlamentari – Senato del Regno – Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 869-875

28 settembre 1920 – Disposizioni relative al commercio e provvedimenti contro gli aumenti eccessivi dei prezzi

28 settembre 1920 – Disposizioni relative al commercio e provvedimenti contro gli aumenti eccessivi dei prezzi

Atti Parlamentari – Senato del Regno – Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 859-868

24 marzo 1920 – Relazione al Ministro Guardasigilli della Commissione sui provvedimentiper agevolare la soluzione della crisi delle abitazioni

24 marzo 1920 – Relazione al Ministro Guardasigilli della Commissione sui provvedimentiper agevolare la soluzione della crisi delle abitazioni

Roma, Tip. della Camera dei Deputati, 1920

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 272-373

6 marzo 1919 – Relazione sul Disegno di legge presentato dal ministro delle Finanze. Riforma generale delle imposte dirette sui redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali

6 marzo 1919 – Relazione sul Disegno di legge presentato dal ministro delle Finanze. Riforma generale delle imposte dirette sui redditi e nuovo ordinamento dei tributi locali[1]

Atti Parlamentari – Camera dei Deputati – Documenti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 7-251

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