Opera Omnia Luigi Einaudi

22-23 settembre 1920 – Avocazione allo Stato dei profitti di guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/09/1920

22-23 settembre 1920 – Avocazione allo Stato dei profitti di guerra

Atti Parlamentari – Senato del Regno – Discussioni

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 663-857

 

 

 

L’ordine del giorno prevede la discussione del disegno di legge sull’avocazione allo stato dei profitti di guerra (stampato n. 168). La tassazione di questi profitti era regolata da una serie di leggi risalenti all’inizio della guerra: il R. decreto 21 novembre 1915, n. 1.643, istitutivo di un’imposta straordinaria progressiva sui nuovi redditi realizzati nel periodo bellico, poi inglobato, con qualche variante, nel Testo unico 9 giugno 1918, n. 857 cit. (Allegato A: Imposta e sovraimposta sui redditi realizzati in conseguenza della guerra) e il R. decreto-legge 24 novembre 1919, n. 2.164, che varava un’imposta progressiva sugli aumenti di patrimonio derivanti dalla guerra, successivamente inasprita con il R. decreto-legge 22 aprile 1920, n. 495.

 

 

Il provvedimento in discussione propone di unificare le norme fiscali già esistenti e di sopprimere il criterio della tassazione progressiva dei profitti di guerra, a favore di quello della totale avocazione degli stessi. La discussione in aula è aperta dall’on. Pellerano; interviene quindi L. Einaudi:

 

 

Onorevoli colleghi, non ho chiesto la parola per discutere il concetto informatore del disegno di legge sull’avocazione dei profitti di guerra, perché ritengo che questa discussione nel momento presente finirebbe in un’inutile accademia. Ed inoltre credo che, se la competenza dell’alta assemblea è estesissima e può riferirsi a qualsiasi parte di qualsiasi problema che sorga in occasione del presente disegno di legge, il suo compito speciale possa essere quello di vedere se le disposizioni, le quali sono contenute nel disegno di legge, siano veramente tali da permettere allo stato di raggiungere il fine che esso vuole sia raggiunto. Determinare un fine fiscale spetta sopra tutto alla rappresentanza popolare: sono le grandi correnti dell’opinione pubblica che si debbono manifestare e che impongono al governo ed al Parlamento gli scopi che si vogliono raggiungere.

 

 

Lo scopo che la Camera dei deputati ha già accolto è quello della avocazione allo stato di qualsiasi profitto che sia stato conseguito durante la guerra.

 

 

Io parto – senza discuterlo e senza esprimere in merito alcuna opinione, poiché se la esprimessi dovrei giustificarla – da questa premessa, e suppongo che questo sia lo scopo da raggiungere; ed esaminerò soltanto se le disposizioni, le quali sono contenute nel disegno di legge, siano tali da permetterci di raggiungere tutto e solo questo risultato.

 

 

Dico subito che, se io ho dei dubbi a questo riguardo, essi non sorgono dalla formulazione del disegno di legge.

 

 

Il pregio maggiore del provvedimento presente credo consista appunto nella sua formulazione. Esso è formulato in una maniera così ampia e così indeterminata, che è possibile, attraverso le sue maglie assai larghe, dare un’interpretazione corretta al concetto, che è stato imposto dall’opinione pubblica ed accolto dall’altro ramo del Parlamento; interpretazione, che sia tale da permettere di poter conseguire lo scopo che, ripeto, accolgo come premessa di fatto, sulla quale il ragionamento deve essere impostato.

 

 

Infatti, il disegno di legge, a parer mio, molto opportunamente non stabilisce alcun vincolo al potere esecutivo nella formazione delle norme regolamentari, all’infuori di un unico vincolo vale a dire, che non sia oltrepassata la cerchia di imposizione dei precedenti decreti che stabilivano l’imposta sui sopraprofitti.

 

 

Vuole cioè il disegno di legge che soltanto i profitti di guerra i quali erano contemplati nei decreti precedenti potranno formare oggetto di avocazione nell’occasione presente.

 

 

Dico che quest’unica restrizione è stato bene accogliere nel momento presente, perché, per ragioni tecniche ed amministrative, sarebbe stato inopportuno impiantare tutto un nuovo sistema di accertamento dei guadagni di guerra, diverso da quello che da cinque anni funzionava, diverso da quello che attraverso a grandi difficoltà aveva cominciato a funzionare efficacemente. D’altro canto, ponendo quel vincolo, il disegno di legge non si lascia sfuggire gran che, perché, come espone bene il senatore Carlo Ferraris nella sua relazione, i soli cespiti non colpiti da avocazione, credo che finiscano di essere i guadagni dei proprietari coltivatori di terreni propri, quelli dei proprietari delle tonnare e delle solfare, nonché i guadagni dei professionisti e di altre specie di lavoratori, il cui reddito superi il limite stabilito nel disegno di legge.

 

 

Si tratta di categorie, le quali, in sostanza, non sono molto ampie non tolgono molto alla materia imponibile. Il più grande di questi cespiti è quello dei redditi ottenuti dai proprietari coltivatori di terreni propri, e credo che abbia fatto bene il governo ad escludere questa tassazione e demandarne la discussione ad un futuro disegno di legge, perché la materia si presenta irta di tali difficoltà pratiche, che io non avrei immaginato la possibilità di potere conglobare la tassazione di questi redditi nella tassazione di tutti gli altri contribuenti. Invero, la tassazione dei proprietari coltivatori di terreni propri si può concepire soltanto quando l’amministrazione finanziaria riesca ad effettuare la valutazione separata, che finora non era imposta nei nostri ordinamenti fiscali, ossia la valutazione separata dei redditi domenicali da quelli industriali, operazione questa d’importanza grandissima e di una portata pratica immane.

 

 

Non so quanti anni saranno necessari per giungere ad un’esatta definizione di questi due concetti. La valutazione di questi due redditi separati in domenicale e agrario non è una operazione da condursi a termine in pochi mesi, né tale che possa essere compiuta contemporaneamente all’avocazione degli altri profitti di guerra.

 

 

Quanto agli altri contribuenti, il disegno di legge ritengo che non lasci sfuggire nulla, inquantoché sono tassati non soltanto i guadagni dei fornitori, degli industriali e commercianti in genere, ma di qualunque contribuente, il cui reddito cada entro i limiti amplissimi della categoria B dell’imposta di ricchezza mobile e, in parte, della categoria C. Così i redditi dei negozianti di terreni, che nell’altro ramo del Parlamento furono considerati come avulsi dall’imposta, vi furono compresi; così i redditi degli speculatori di Borsa, per i quali la Camera dei deputati votò un ordine del giorno perché fossero tassati, sono già compresi in questo decreto. Io ritengo che il governo sia fornito di tutte le armi per colpire qualsiasi contribuente, che abbia compiuto qualsiasi operazione la quale durante la guerra abbia potuto portare ad un guadagno. La difficoltà sarà nella applicazione; non sarà una difficoltà insita nella legge. La legge per se stessa è amplissima, tale da consentire la tassazione di tutti i guadagni di guerra, all’infuori di quelli indicati prima.

 

 

Il disegno di legge, ricordo ancora, presenta un vantaggio molto grande sui decreti-legge e sulle leggi precedenti d’imposta sui sopraprofitti, perché esso è redatto in termini molto astratti: afferma il principio e rimanda l’applicazione ad un regolamento di carattere legislativo. Così operando, il disegno di legge apre la via ad evitare alcuni errori fondamentali, commessi in occasione dei decreti precedenti di tassazione sui profitti. Questi decreti sono inficiati da errori sia iniziali sia posteriori, i quali farebbero in guisa che, se essi fossero applicati alla lettera, non raggiungerebbero il risultato di tassare tutti e soli i guadagni di guerra. Se il Senato consente, io vorrei esaminare alcune cause, per le quali la legislazione vigente in materia di sopraprofitti sarebbe tale da impedire, se fosse applicata rigidamente, il raggiungimento del fine che il legislatore oggi vuole raggiungere.

 

 

Vi è un errore iniziale, fondamentale nella legislazione precedente di tassazione dei sopraprofitti, errore che in gran parte è oggi irrimediabile, sebbene per qualche parte possa trovare una certa attenuazione: l’errore deriva dalla inesatta, a parer mio, definizione che è stata data dei sopraprofitti di guerra. Il concetto fondamentale che si doveva avere sotto [gli] occhi era questo. I contribuenti al primo agosto 1914 possedevano un patrimonio: questo patrimonio non era oggetto d’imposta sui sopraprofitti prima, né oggi è oggetto di avocazione. Dopo di allora si sono verificati dei guadagni; i contribuenti hanno lavorato, hanno ottenuto dei guadagni. Soltanto una parte del guadagno, ottenuto in seguito, è soggetto prima alla legge d’imposta sui sopraprofitti e oggi all’avocazione. I guadagni ottenuti durante la guerra si distinguono in due parti: l’una, guadagni o redditi ordinari; l’altra, superguadagni. La prima parte rimane al contribuente, perché egli l’avrebbe ottenuta anche se la guerra non fosse stata, e quindi la guerra non è stata né causa né occasione di raggiungimento di guadagni. Invece l’imposta prima e oggi l’avocazione devono colpire l’eccedenza oltre l’ordinario guadagno. Questo io credo sia l’oggetto dell’imposta prima e dell’avocazione oggi. Però il criterio che si è adottato per distinguere il guadagno ordinario dall’eccedenza, è un criterio che non saprei come avrebbe potuto essere escogitato più contrario a ragione, più contrario ad una delle leggi fondamentali, alla quale deve obbedire non solo l’uomo, ma la natura intera, la legge del minimo mezzo. Non vi è campo dell’attività umana ed extra-umana (persino i minerali cristallizzandosi obbediscono a questa legge) che non segua la legge del minimo mezzo. Il legislatore nostro, preludiando alcuni legislatori stranieri, ha voluto andar contro questa legge fondamentale; ha dato una definizione dei sopraprofitti di guerra, la quale contrasta a questa legge fondamentale: ha detto, in sostanza, e trascurando le minori norme, che superguadagno è ciò che eccede l’8% del capitale investito. Dicendo questo, ha detto al contribuente: «fa in modo di non ottenere altro che l’8% del capitale impiegato: agisci come se non fossi un uomo che devi cercare di ottenere il massimo rendimento dall’opera tua; agisci in modo da ottenere il minimo rendimento col massimo del capitale». Il contribuente, grazie a questa definizione del reddito ordinario, ha avuto interesse diretto ed immediato di aumentare il capitale investito a fine non di ottenere un reddito minore, ma di far figurare una percentuale minore di reddito sul capitale impiegato: perché quanto più egli abbassava la percentuale…a di reddito, tanto minore era la somma d’imposta che doveva pagare allo stato, tanto minore è la somma di sopraprofitti che deve oggi restituire in base a questo disegno di legge. Questo è l’errore fondamentale iniziale, e, ripeto, quasi irrimediabile della nostra legislazione in materia.

 

 

Si tratta quasi come se il legislatore ordinasse ai gravi di non cadere, alla terra di non girare attorno al sole, di fare insomma delle cose contrarie alla natura. Il legislatore può scrivere in una legge quello che vuole, ma non può assolutamente ottenere che gli uomini agiscano in modo difforme dalla loro natura.

 

 

I risultati di questa politica sono stati quelli che dovevano essere dannosi e tali da costituire uno degli elementi più perturbatori della vita economica italiana.

 

 

La disposizione che definiva in maniera errata i guadagni di guerra, una eccedenza cioè di percentuale sul capitale impiegato portò a questo, che gli industriali hanno avuto interesse a gonfiare i loro capitali, specialmente le società anonime; tanto che non si è mai visto nella storia economica italiana il succedersi di tanti aumenti di capitale in così breve tempo. Gli aumenti di capitale delle società anonime furono tali, quali non si erano verificati in un periodo precedente di pace di dieci o venti anni, e furono in gran parte artificiosi, perché dovuti alla speranza, alla tendenza quasi tacita, inavvertita di riuscire ad abbassare la percentuale di reddito sul capitale impiegato, in modo da sfuggire all’imposta sopra gli extraprofitti di guerra ed oggi all’avocazione allo stato dei profitti stessi.

 

 

Altre cause, come la limitazione dei dividendi, causa questa del resto della stessa natura di quella tributaria, o l’aumento del costo degli impianti, possono aver contribuito a raggiungere il medesimo intento: ma quella che ho indicato ora fu certo tra le cause principali del lamentato fenomeno.

 

 

Qualunque ordine potesse dare, qualunque vincolo potesse mettere il legislatore, la conseguenza doveva fatalmente essere quella che fu, cioè il gonfiamento eccessivo dei capitali impiegati nell’economia industriale.

 

 

Noi oggi abbiamo stabilito una tale definizione, che spinge l’economia nazionale a lavorare non a costi minimi, ma a costi elevati perché tanto più è elevato il costo di produzione, tanto minore è il reddito sul capitale impiegato e quindi tanto minore la somma da pagarsi allo stato.

 

 

Ma questa legislazione ha prodotto anche altri risultati. Essa è stata tale da favorire quella tendenza allo spreco negli impianti industriali, che è stata un altro dei fenomeni più singolari dell’economia italiana negli ultimi tempi. Mai si fecero tanti impianti, la cui ragion d’essere non fosse perfettamente conosciuta. E ciò si spiega perfettamente, perché tra l’alternativa di dare una certa somma allo stato e quella d’impiegare la somma stessa in impianti anche poco redditizi, la tendenza naturale portava a fare questi impianti.

 

 

Inoltre, questa legislazione favorì anche la tendenza a largheggiare negli stipendi, nelle cointeressenze e nei salari, in quanto che si trattava di dare sotto questa forma ciò che non era proprio e che non sarebbe rimasto all’industriale.

 

 

Se oggi la perturbazione dei rapporti tra capitale e lavoro è così acuta, una delle cause che hanno contribuito a questo risultato e appunto la tendenza determinata dalla errata definizione, che si è voluta dare ai guadagni di guerra. La errata definizione è stata una multa per gli industriali abili, che con pochi capitali ottengono un risultato molto notevole. Tutti coloro che con un capitale minimo, ma col concorso del proprio lavoro e della propria intelligenza riuscirono ad ottenere grandi percentuali di reddito, sebbene l’ammontare totale del loro reddito fosse basso, furono colpiti con forti aliquote, ed oggi avranno un’avocazione molto più pesante di quella che dovranno sopportare le grandi imprese che lavorano con alti capitali.

 

 

Se si potesse fare un’analisi minuta di ciò che pagarono i contribuenti italiani, una delle osservazioni più interessanti, che saremmo forzati a trarre dai dati dell’esperienza, sarebbe questa, che non le grandi agglomerazioni di capitale pagarono forti imposte, ma le pagarono invece i piccoli capitali, le piccole aziende, in proporzione del capitale impiegato, perché le grandi agglomerazioni di capitale sono quelle che ottengono le percentuali di reddito meno elevate in proporzione al capitale impiegato.

 

 

Quindi la legislazione, come fu congegnata, tornò di minor danno alla grande industria, ma danneggiò soprattutto la piccola industria, coloro cioè che lavorano con un piccolo capitale e con un forte apporto della propria opera, della propria intelligenza e della propria iniziativa.

 

 

Furono danneggiate le migliori imprese industriali dell’anteguerra, quelle che noi economisti osavamo additare ad esempio di saggia amministrazione e di prudente preparazione dell’avvenire: quelle che avevano ridotto le valutazioni delle attività sociali al minimo, che portavano in bilancio stabilimenti, macchinario, ecc., ad una lira; che distribuivano prudentemente scarsi dividendi e mandavano forti somme a riserva; queste furono punite, perché furono tassate su eccedenze fortissime di reddito, facili ad aversi, dato il capitale minimo che figurava investito.

 

 

Invece, furono esaltate e risparmiate le società, le quali avevano largheggiato negli impianti, le quali distribuivano tutti i guadagni a titolo di dividendo per far crescere i valori in borsa, che non mandavano nulla o pochissimo a riserva, che lavoravano con un capitale alto. Queste potevano tenersi entro l’8 per cento; e non ebbero a soffrire o pochissimo a causa dell’imposta sui sopraprofitti, ed ora saranno poco toccate dall’avocazione.

 

 

Questa osservazione che faccio io qui, quasi con le stesse parole era stata fatta anche da un illustre economista nord americano, il prof. Taussig, illustre non solo come scienziato, ma anche per la parte che egli ha avuto nelle deliberazioni più importanti della politica americana. Egli è stato il presidente della più grande delle commissioni americane, quella delle tariffe doganali, e per la sua esperienza grandissima della vita industriale fu in quel paese una prima autorità.

 

 

Anch’egli rilevava che l’identico sistema adottato nel suo paese aveva condotto ai medesimi risultati, aveva favorito le grandi agglomerazioni di capitale, i grandi trust finanziari, e aveva invece danneggiato i piccoli industriali.

 

 

Era stato di danno soprattutto a quelli, i quali avevano raggiunto l’applicazione massima del principio del minimo mezzo, del minimo capitale, per ottenere il massimo risultato.

 

 

La norma contenuta nella legislazione sui sopraprofitti, (la quale io mi auguro che mediante l’applicazione del presente disegno di legge possa, se non essere modificata, almeno attenuata alquanto nelle sue asprezze eccessive), questa norma è non solo contraria al dettame dell’esperienza, non solo ha prodotte delle conseguenze economiche dannose, ma è contraria alle più alte tradizioni nazionali in materia di legislazione finanziaria.

 

 

Bisogna ricordare che in Italia noi abbiamo nel regime della imposta sui terreni da lunghissimo tempo forse la legislazione più perfetta che si conosca in Europa; e uno dei caratteri essenziali di questa nostra patria legislazione, di cui la documentazione e l’esplicazione si può trovare in quel documento mirabile, che è la relazione sulla perequazione fondiaria dell’on. Messedaglia alla Camera dei deputati uno dei caratteri fondamentali di questa legislazione è appunto quello di non tassare il reddito nuovo più del reddito ordinario, ma di portare più vivi i colpi del fisco sul reddito ordinario.

 

 

L’imposta sui terreni ha questo di caratteristico e di fecondo, che essa tassa il reddito ordinario, tassa coloro i quali non sono capaci di produrre più di quello che producono tutti, e invece esenta per un certo periodo quelli, che con la loro iniziativa riescono a produrre più di ciò che producessero prima, più di quanto producano tutti gli altri.

 

 

Mi auguro che, per quanto è possibile, nelle disposizioni regolamentari si riesca a far tornare la nostra legislazione ai suoi principi, a far si che essa si riattacchi a quelle che sono le sue caratteristiche più belle, che hanno permesso in passato – e lo ricorda Carlo Cattaneo nei suoi mirabili scritti – alla Lombardia di trasformarsi da quella regione improduttiva e sterile, che era sotto il regime spagnuolo, nella feconda e produttiva, ricchissima regione che divenne dopo il 1750.

 

 

Si doveva, invece che tassare l’eccedenza percentuale di reddito sul capitale investito, tassare l’eccedenza di guadagno per ogni unità di lavoro conseguito. Chi per ogni spoletta, per ogni metro di stoffa guadagnava soltanto la medesima provvigione o lucro di lavorazione di prima, costui doveva andare indenne dall’imposta. Chi con l’identico capitale riusciva a produrre più metri di stoffa ed a guadagnar di più in totale, pur diminuendo od almeno non aumentando il suo guadagno unitario per ogni metro di stoffa, quegli non doveva essere chiamato a pagare un’imposta che è detta imposta sui guadagni, che non si sarebbero fatti senza la guerra.

 

 

Egli ha impiegato il suo capitale ed il suo lavoro così come li avrebbe impiegati in pace, li ha indirizzati alle opere della guerra con la stessa e con maggiore alacrità, con cui li aveva indirizzati prima alle opere della pace; si è contentato dello stesso lucro; si è reso benemerito del paese.

 

 

Fu ingiustizia somma tassare costui. La tassazione andava riserbata a quelli che, con lo stesso sforzo, volevano ottenere un lucro più ampio; a quelli che facilmente si arricchirono con contratti leonini estorti nell’urgenza dell’ora allo stato.

 

 

Il principio era forse un pò più difficile ad applicarsi; ma nessuna legge tributaria moderna e giusta si applica facilmente. Le difficoltà bisogna superarle, se si vuole far opera di giustizia.

 

 

Comprendo che al danno, ripeto, ormai radicato troppo nella nostra legislazione, non si possa portare un rimedio completo, assoluto; ma un qualche rimedio, una qualche attenuazione dell’errore fondamentale di questa nostra legislazione credo che sia ancora possibile di poter introdurre. Mi riferisco specialmente al caso delle piccole aziende.

 

 

L’errore fondamentale fu invero collegato con un altro errore contenuto anch’esso nella nostra legislazione sui sopraprofitti: l’errore cioè che l’imposta non colpisca l’individuo, ma colpisca invece l’azienda, non colpisca colui il quale gode il guadagno di guerra, ma l’impresa che produce questo guadagno.

 

 

Questo è un altro errore fondamentale della legislazione sui sopraprofitti, errore il quale conduce ad una sperequazione grandissima tra contribuente e contribuente, inquantoché molti soci di una società, la quale è tassata fortemente nel suo complesso, finiscono, sebbene il loro reddito sia stato minimo, sebbene essi non abbiano guadagnato personalmente nulla di più di quello che può guadagnare un qualsiasi lavoratore, finiscono, pagando oggi l’imposta sui sopraprofitti, col dover pagare una somma maggiore di quella che possono vedersi avocata altri, che hanno fortune molto superiori, ma che possiedono, come singoli, un’azienda più vasta e provveduta di capitali più ampi e su cui la percentuale non gioca.

 

 

L’errore dipende dal fatto che la nostra imposta sui sopraprofitti s’impostò su quella di ricchezza mobile, senza aver subito assunto un carattere personale. Per conseguenza, molte volte persone più ricche furono tassate meno di persone povere.

 

 

Accadde quindi quel fatto che era la conseguenza logica della legge. Oggi vi sono ancora molti che hanno ottenuto grandi redditi dalla guerra e li ostentano, sotto una parvenza di legalità, perché la legge è tale che, essendo soli proprietari di un’azienda che ha un vasto capitale, hanno pagato delle imposte le quali erano minori di quelle di altri che avevano una capacità economica molto più bassa.

 

 

Qualche cosa, ripeto, può essere fatto per evitare i danni più gravi di questo errore iniziale della nostra legislazione.

 

 

Bisogna adottare lo stesso concetto che la Camera dei deputati ha voluto, con manifesto spirito di privilegio e perciò con spirito in se stesso biasimevole di classe, introdurre a favore delle cooperative. Non v’è ragione alcuna di trattare le cooperative in modo diverso dalle altre intraprese. Tutte debbono essere tassate o tutte esenti, quando si trovino nelle stesse condizioni.

 

 

L’esenzione concessa alle cooperative è una esenzione che, per essere giusta, dovrebbe essere generalizzata. È giusto tassare le cooperative, come fa ora il disegno di legge in seguito all’emendamento apportatovi dalla Camera dei deputati, soltanto sul reddito che ogni singolo socio ha, perché il vero arricchimento non riflette l’ente o la cooperativa: il vero arricchimento è quello di ogni singolo socio. Quindi, se ogni singolo socio della cooperativa ha ottenuto un guadagno di guerra, che superi quelle certe cifre prevedute dal disegno di legge (20.000 lire annue), egli deve pagare… (Voci: Vuol dire che non pagheranno mai)… Non pagheranno niente. E starà bene, perché in tal caso non si saranno arricchiti. Ma io dall’esenzione concessa alle cooperative, che è uno speciale regime di favore, non traggo la conseguenza che quel regime debba essere abolito, perché esso non è un regime di favore, è un regime che deve essere applicato a tutti indistintamente i contribuenti, e così potrà portare a conseguenze giuste.

 

 

Vero soggetto di tassazione devono essere gl’individui che fanno parte delle aziende, non le aziende. Colui che si è arricchito non è una società, un ente fittizio che non mangia e non beve e non veste panni; colui che si è arricchito è l’uomo. L’uomo deve essere tassato, sia che si chiami cooperatore, sia che non si chiami cooperatore.

 

 

Per questa ragione, traendo forza dall’esenzione concessa alle cooperative, io affermo che dovrebbe, a scemare il danno derivante dalla falsa definizione del guadagno di guerra, almeno concedersi una detrazione per salario ai singoli soci di azienda industriale privata, perché in tale maniera, tenendo conto di quello che è possibile nella legislazione vigente, noi parificheremo la condizione di socio lavoratore di una azienda privata alla condizione dei soci cooperatori.

 

 

Io porterò un esempio, dei cui elementi non darò giustificazione per non tediare troppo il Senato, l’esempio di una piccola azienda la quale, inizialmente, fosse composta nel 1914 di tre soci e che guadagnasse in tutto non più di 9.000 lire di rendita accertata. Era un guadagno di 3.000 lire a testa che poteva allora essere considerato quello di un artigiano. La guerra ha recato un vantaggio grande a questa azienda; essa si è sviluppata ed ha guadagnato In media 90.000 lire. Non voglio, ripeto, tediare il Senato con calcoli; mi basti ricordare questi risultati: secondo i principi di tassazione accolti dalla Giunta generale del Bilancio della Camera dei deputati, a questa azienda, ad avocazione compiuta, rimarrebbe un reddito di 6.000 lire a testa per ognuno dei tre soci: secondo i criteri, che a me paiono più accettabili, della Commissione di Finanze e del suo relatore Carlo Ferraris, rimarrebbe un reddito di circa 9.000 lire a testa.

 

 

Non credo che meta del legislatore sia stata quella di voler ridurre i comproprietari lavoratori di un’azienda a un reddito minore di quello che poteva essere il reddito di qualsiasi dei loro operai. Il congegno è viziato profondamente dalle disposizioni precedenti, le quali conducono al risultato, che persone le quali hanno rischiato, hanno avuto iniziativa, hanno impiegato capitali, rimarranno, alla stretta dei conti, se sono persone oneste, con un reddito minore di quello che poteva avere qualsiasi dei loro operai.

 

 

Un rimedio a questi inconvenienti si impone per istituire la giustizia tributaria fra le piccole aziende e le grandi aziende, che non sono soggette a questi inconvenienti, perché nelle grandi aziende ai direttori e amministratori si assegna uno stipendio, che è considerato come una spesa ed è dedotto dal profitto ed escluso dall’imposta sui sopraprofitti e dalla avocazione. In una piccola azienda ciò non avviene, perché i proprietari, che siano allo stesso tempo direttori e amministratori, non hanno assegno fisso ed essi non possono, in base alla erronea legislazione vigente, ottenere la detrazione dei loro salari dal profitto. Recentemente, proprio quest’anno, in Inghilterra, per rimediare all’inconveniente ora segnalato, si concedette una detrazione individuale di lire sterline 500 a testa, pari a lire 12.000 italiane alla pari dei cambi, a 40.000 lire al cambio attuale, quando il socio dell’azienda con piccolo capitale prestasse l’opera propria diretta nell’azienda.

 

 

Chiedo al ministro se non sia conveniente in sede di interpretazione di questo disegno, il quale lo consente, concedere una detrazione per salario a quelli tra i soci, i quali prestano l’opera propria. E badisi che la detrazione che ora chiedo è diversa da quella delle 20.000 lire, in quanto che la detrazione delle 20.000 lire è un’esenzione che è data sul guadagno già di guerra, ed è uguale sia che i soci lavoratori siano pochi o molti, e non può essere considerata in alcun modo come un equo riconoscimento dell’opera prestata dai dirigenti lavoratori nelle piccole intraprese. Io chiedo invece di concedere una detrazione per salario, che il direttore, il comproprietario dell’azienda deve ottenere come remunerazione del proprio lavoro.

 

 

Accanto a questa prima causa originaria di errori nella nostra legislazione altre se ne aggiungono, le quali vennero in seguito per conseguenza di un fatto che non era preveduto, e forse non era prevedibile nel momento in cui la prima legge d’imposta sui sopraprofitti fu emanata e cioè nell’autunno 1915. Allora non si prevedeva l’enorme svalutazione della moneta, la quale fu uno dei fatti caratteristici dell’economia mondiale e in maniera particolare dell’economia italiana negli ultimi anni della guerra e nei primi del dopo guerra. La svalutazione della moneta è stata causa di gravissimi delitti sociali: è essa, a parer mio, e non il fatto della guerra per sé che ha prodotto così profonde trasformazioni nei rapporti tra classi e classi sociali, ed ha dato impulso allo scatenarsi del malcontento in molte categorie sociali; orbene, questa svalutazione monetaria, la quale domani, se dovesse essere rimediata con una rivalutazione monetaria potrebbe condurre a crisi ancor più gravi di quelle che abbiamo attraversate, ha condotto a conseguenze, le quali hanno scompaginato l’assetto originario dell’imposta sui sopraprofitti, e hanno fatto si che non si avesse più alcun criterio distintivo preciso tra reddito e capitale, tra guadagno vero e apparente.

 

 

Accenno solo ad alcune circostanze: una prima è quella della valutazione delle varie attività sociali; la valutazione delle attività sociali è l’operazione che deve precedere qualsiasi determinazione del profitto di guerra. Il profitto non è che la differenza tra due inventari: fra l’inventario all’1 agosto 1914 e l’inventario all’1 luglio 1920; la differenza costituisce la somma, che era tassabile prima ed è avocabile oggi.

 

 

Nessun dubbio che la differenza costituirebbe il guadagno di guerra vero, se non fosse intervenuto il fatto della svalutazione monetaria: ma quel fatto, che esiste ora e non esisteva nel 1914, ci deve lasciare perplessi su quello che è veramente guadagno di guerra, che dovrà domani essere avocato allo stato.

 

 

In parte, dubbi non vi sono: se, ad esempio, un industriale aveva all’1 agosto 1914 un capitale d’un milione di lire e oggi, al 30 giugno 1920, che è la data in cui termina l’applicazione del disegno di legge, ha un capitale di 5 milioni di lire, entro certi limiti, la differenza di quattro è indubitatamente guadagno di guerra. Supponiamo che di questi 4 milioni di differenza, 3 milioni consistano in nuovi impianti, in nuove merci da lui possedute, o in dividendi da lui distribuiti, o guadagni da lui messi in tasca: nessun dubbio che tutto ciò costituisce una differenza tassabile.

 

 

Ma, se nel fare la valutazione, dopo aver aperto il patrimonio iniziale all’1 agosto 1914, valutato ad un milione di lire, questo patrimonio, rimasto nella sua entità fisica uguale, lo si rivaluta e si trova che al 30 giugno 1920 esso è valutato in due milioni di lire, la differenza non costituisce guadagno di guerra e non dovrebbe essere tassata. Il contribuente nulla possiede di più di quanto possedesse prima. Ha lo stesso impianto, le stesse macchine, le stesse merci. Di che cosa si sarebbe egli arricchito?

 

 

A questo riguardo la legislazione vigente, che mi auguro sia opportunamente integrata, giovandosi della latissima dizione dell’articolo di legge, dà una risposta che talvolta è corretta e talvolta invece è scorretta. Dà risposta corretta e giusta quando dice: voi industriali conserverete la vostra fabbrica, il vostro edificio, le vostre macchine che avevate nel 1914, inventariate al valore di allora perché non le avete alienate; e su questa parte non vi tasseremo. Su ciò la legislazione vigente dà una risposta corretta al problema.

 

 

Ma un industriale all’1 agosto 1914 non possedeva soltanto fabbriche, o macchine e capitali fissi che non vengono rivalutati, ma anche un monte-merci, che supponiamo fosse valutato per un milione di lire, perché consisteva in 100.000 quintali di una merce a un dato prezzo. Quel monte-merci, secondo le norme vigenti della legislazione sui sopraprofitti, viene rivalutato oggi al 30 giugno 1920: la sua consistenza è identica, sono sempre 100.000 quintali. Forse può darsi che sia diminuita: anzi è probabilmente diminuita per la difficoltà di procurarsi materie prime. Ma supponiamo che sia rimasta invariata. Orbene, per questa parte la legislazione vigente impone una rivalutazione al 30 giugno 1920, cosicché quegli stessi 100.000 quintali di merce non saranno valutati per un milione, ma per cinque o per tre milioni di lire, per quella cifra per cui deve moltiplicarsi 100.000 per il nuovo valore unitario. E il contribuente quindi era soggetto prima a tassazione e sarà soggetto ora ad avocazione per la differenza. A che conseguenze porta questa norma? Alla conseguenza che il contribuente, che ha conservato il suo monte – merci intatto, e non aveva alla fine nulla di più di quello che avea al principio, se ne vede portata via dalla finanza la metà, o i due terzi, a seconda dell’aumento di prezzo che si è verificato: invece di possedere 100.000 quintali alla fine del periodo rimarrà con 100.000 o 30.000 quintali.

 

 

Voglio portare l’esempio ad una esagerazione estrema che si è verificata in Austria. Disgraziatamente per l’Austria, le condizioni di svalutazione monetaria sono state peggiori che da noi: è venuto un momento in cui la corona austriaca, invece di valere una lira circa, valeva solo un centesimo; quindi un industriale che possedesse centomila quintali di merce prima della guerra, e fosse rimasto alla fine con i suoi centomila quintali di merce, avrebbe assistito ad uno spaventevole aumento di valore del suo monte-merci da 1.000.000 [di] corone a 100.000.000 [di] corone. Costui sarebbe oggi soggetto alla avocazione per il 99 centesimi di ciò che possedeva precedentemente. Invece di rimanere con 100.000 quintali sarebbe rimasto con 1.000 quintali di merce. Non credo che lo scopo del legislatore sia stato e sia oggi quello di ridurre i contribuenti a possedere soltanto una parte piccola o grande, il 20 o 30% in Italia, l’1% in Austria, l’1 per mille in Russia, di ciò che possedevano antecedentemente. Questo non può essere lo scopo di un disegno di legge che porta per titolo «avocazione dei profitti realizzati durante la guerra».

 

 

Se quest’altro fine volesse ottenersi, bisognerebbe discuterne, ma sotto il titolo di confisca di una parte dell’antico patrimonio posseduto dai contribuenti. Tanto ciò è esatto, che il legislatore italiano riconosce che la confisca non si debba fare pel capitale fisso, e non procede quindi alla rivalutazione per quanto tocca il capitale fisso. Non vi è alcuna ragione che debba procedervi per il capitale circolante, perché la differenza tra il capitale fisso e quello circolante è affatto artificiosa; ogni azienda vedrà cambiarsi di giorno in giorno le singole unità del monte delle merci da lei possedute, non sarà più quella partita di lana, sarà un’altra, non sarà più quella certa quantità di ferro, sarà un’altra quantità; ma un industriale deve possedere nella sua azienda un certo monte di merci, che fa parte del suo patrimonio, per le stesse ragioni, per cui ne fa una parte il suo capitale fisso, il fabbricato, le macchine.

 

 

Chiedo perciò esplicitamente al ministro delle Finanze che voglia dare qualche affidamento perché la avocazione non voglia dire espropriazione del patrimonio antico; non chiedo nessuna risposta dettagliata e impegnativa sui modi di attuare il concetto, ma bensì una dichiarazione esplicita nel senso di far sapere in modo preciso che la avocazione dei profitti vuol dire avocazione di ciò che si è creato nel frattempo, e non invece espropriazione di ciò che si possedeva precedentemente.

 

 

Io ritengo sia nell’animo del governo che l’industriale rimanga alla fine della guerra nella medesima situazione di prima, che continui ad avere le stesse macchine, lo stesso fabbricato e le stesse merci che possedeva, non di più, ma neanche di meno; questo mi pare sia la linea di condotta da tenere per interpretare nella sua essenza quello che è il concetto della avocazione. Or bene, io ritengo che, se la formula adoperata nel disegno di legge contiene questa interpretazione, non la consentirebbe forse l’interpretazione letterale, oramai non più tollerabile in seguito al verificarsi del fatto nuovo della svalutazione di quelle che sono le disposizioni dei decreti legge precedenti dell’imposta sui sopraprofitti.

 

 

La cosa ha una importanza, la quale trascende la discussione presente. Nell’altro ramo del Parlamento, e dinanzi l’opinione pubblica, fu discusso il quesito che il principio informatore di questo disegno di legge dovesse estendersi altresì agli arricchimenti verificatisi nel valore della proprietà fondiaria, e specialmente nei casi in cui la proprietà fondiaria rustica e urbana sia stata realizzata a prezzi differenti da quelli d’acquisto.

 

 

Or bene, il principio che verrà posto in questa sede per gli industriali sarà il principio che costituirà un precedente per quell’altra importantissima materia, quando verrà alla discussione sotto forma di eventuali concreti disegni di legge. Per ora non è stato votato nessun ordine del giorno in questo senso dalla Camera dei deputati, ma furono insistenti le richieste in questo senso. Or bene, soprattutto per la proprietà fondiaria si presenta il problema: cosa è questo aumento di valore? Cosa è arricchimento? Dovremo badare all’arricchimento effettivo, o a quello apparente? Dovremo badare al fatto che un bene rustico comprato per centomila lire sia stato venduto per duecento o trecentomila lire, ovvero dovremo badare alla sola vera circostanza se le 200 o 300.000 lire di realizzo di oggi valgono o no le centomila lire di prima?

 

 

Mi sia consentito citare una circostanza, che mi è occorso di conoscere pochi giorni fa in un piccolo paese di montagna che ha rapporti, per antica emigrazione, con paesi della Svizzera. Un contadino mi raccontava ci aver venduto un suo fondo, il quale, prima della guerra, era valutato quarantamila lire, e di averlo venduto, dico, per trentaduemila franchi svizzeri. Era stato venduto in franchi svizzeri e persone domiciliate, per cause di emigrazione, nella Svizzera. Qui si vede come quel fondo fosse nella realtà diminuito di valore, perché prima della guerra esso era stato valutato per quarantamila lire italiane che valevano quarantamila franchi svizzeri. C’era perfetta parità tra l’uno e l’altro tipo di moneta. Oggi quel fondo nella moneta più valutata è stato venduto per soli trentaduemila: franchi; il contribuente ha perduto una parte del suo patrimonio, ottomila franchi di meno. Tuttavia, se egli avesse fatto il contratto di vendita con un acquisitore italiano, avrebbe venduto quel fondo non per trentaduemila franchi svizzeri, ma, fatta la ragione dei cambi, per centodiecimila lire all’incirca, e si sarebbe detto fra noi: quanto ha guadagnato! Aveva quarantamila lire ed ora ne ha centodiecimila! Se il criterio della avocazione dall’industria si estendesse all’agricoltura, lo stato avrebbe ragione, in questo caso, di portar via la differenza fra quarantamila e centodiecimila lire. Ora, questa somma non vale neppure la somma precedente, ma soltanto trentaduemila lire antiche. Lo stato commetterebbe un’ingiustizia stridente; tasserebbe un profitto mai realizzato, tasserebbe quando invece c’è stata perdita.

 

 

Se questo criterio prevalesse, lo stato che volesse avocare a sé tutta la fortuna di un paese, e volesse avocarla affermando ipocritamente di non voler portar via nulla ai contribuenti di ciò che possedevano, non avrebbe che da moltiplicare a dismisura la quantità di moneta circolante, seguendo l’esempio dell’Austria e della Russia. Il valore di ogni singolo cespite di ricchezza nazionale si moltiplicherebbe per cento o per mille; e lo stato potrebbe dire: ti porto via non le mille lire di prima, ma, poiché da mille lire la tua fortuna è salita a centomila, ti porto via le 99.000 lire aggiuntesi nel frattempo. Se lo stato dicesse questo, formalmente avocherebbe a sé i guadagni, sostanzialmente confischerebbe la ricchezza antica. Perché quanto si possiede non sono delle formule, dei nomi che si adoperano a guisa di unità di misura; ciò che si possiede sono case, terreni e macchine.

 

 

Chiedo al governo se intenda di interpretare il disegno di legge nel senso di lasciare intatte le fortune precedenti, assorbendo soltanto i veri profitti ottenuti nel frattempo, e seguendo per il monte – merci il medesimo criterio seguito per il capitale fisso.

 

 

Considerazioni consimili ci devono aiutare a risolvere un altro grave problema che largamente è stato toccato nella relazione del senatore Carlo Ferraris; quello cioè della detrazione per i sopracosti e deperimenti.

 

 

A causa di tutto questo tramutarsi di valori e dell’incertezza conseguitane negli apprezzamenti monetari, nei decreti succedutisi sull’imposta dei sopraprofitti si accolsero criteri empirici e si disse: noi sappiamo che non tutte le macchine che voi ora acquistate, che non tutti gli impianti che voi ora fate, avranno alla fine della guerra l’identico valore che hanno oggi; bisogna concedere una quota di deperimento. E furono usate delle formule empiriche per detrarre dal valore degli impianti fatti durante la guerra delle quote che erano considerate quote di deperimento; perché, si diceva, le macchine e gli impianti non varranno alla fine della guerra ciò che valevano al principio.

 

 

Oggi viene il legislatore e dice: non è esatto affermare che il contribuente abbia perduto l’intero valore, che si intendeva scomparso per deperimento;. la realtà è che quei deperimenti non vi furono, che quella macchina ancora adesso vale tanto, che quell’impianto supposto già deperito e che all’inizio era costato 100.000, non vale solo 20.000, ma di più, 50.000, 70.000. Ed allora dice il legislatore nel disegno di legge: riprendiamo ciò che la macchina vale di fatto ancora in più di ciò che è considerato il valore legale di essa. Ed io dico che sta bene; io credo che la norma la quale è contenuta nel disegno di legge, ossia la norma della rivalutazione degli impianti al 30 giugno 1920, sia una norma corretta e quindi non muovo appunto a questa norma che ritengo anche utile e morale.

 

 

Non è bello che si diano quote di deperimento e che si considerino come spese e quindi si sottraggano alle imposte entità patrimoniali le quali tuttora esistono. Se la macchina che si suppone valere soltanto 20.000, nella realtà ne vale 50.000, è necessario tassarla per 50: non dobbiamo immaginare empiricamente, come hanno fatto i decreti precedenti, che essa valga soltanto 20.000. Su questo punto il disegno di legge adopera una dizione perfettamente corretta.

 

 

Io credo però che sia necessario interpretare la nuova e migliore disposizione contenuta nel disegno di legge in modo che per altra via non riesca un ingiusto danno per il contribuente. Qui il problema no è più connesso colla svalutazione monetaria, poiché non trattasi già di impianti fatti e di macchine possedute all’1 agosto 1914. Qui trattasi di profitti ottenuti nel frattempo ed investiti in nuovi impianti. Conformemente alla logica del disegno di legge, quei profitti vennero avocati. Ma, per avocarli, occorre tuttavia che oggi effettivamente esistano ancora. Occorre che si badi a quello che è il valore effettivo della macchina al 30 giugno 1920, nel momento in cui si fa la valutazione; occorre che si badi al valore effettivo dell’impianto a quelle date. L’impianto sarà costato quel che sarà costato, un milione, due milioni; il costo originario dell’impianto non deve avere nessuna importanza ai fini della tassazione; ma a questi fini deve avere importanza unicamente il valore che l’impianto ha al 30 giugno 1920.

 

 

La questione della valutazione è una questione di fatto: bisognerà vedere caso per caso a che cosa l’impianto serve e qual è il reddito che può dare al 30 giugno 1920; se l’impianto è stato devoluto a fini di pace, potrà dare un reddito maggiore o minore, di solito minore del reddito che l’impianto dava in guerra. Quindi bisognerà constatare caso per caso quale reddito l’impianto darà per il fine attuale e capitalizzare quel reddito effettivo, e su questa base rivalutare l’impianto alla data del 30 giugno 1920 e tassare per l’intero valore, niente di più, niente di meno. Il contribuente non deve dare alla finanza, né un centesimo di più, né un centesimo di meno di quello che l’impianto, costrutto coi profitti, vale alla data del 30 giugno 1920. Se è costato un milione e vale un milione, dia questa cifra; ma se, pur essendo costato un milione, vale solo 500.000 lire, egli, secondo giustizia, deve pagare solo 500.000 lire e non più. Io ritengo che su questo punto non possa esservi sostanziale dissenso fra tutti coloro che vogliano considerare obbiettivamente la materia allo scopo della avocazione di tutti e soli i sopraprofitti di guerra.

 

 

Col medesimo criterio deve essere risoluta la grossa questione, ampiamente trattata nella relazione, delle esenzioni speciali, concesse da decreti precedenti, dall’imposta dei sopraprofitti. Sono esenzioni, le quali sostanzialmente si riferiscono alle navi, agli impianti idroelettrici e agli scavi di combustibile. A parer mio, il disegno di legge merita lode, perché ha soppresso queste esenzioni. Le esenzioni speciali costituiscono un errore gravissimo; sono un privilegio e non dovrebbero mai essere ammesse. Le sole esenzioni ammissibili sono quelle che hanno carattere generale; è, ad esempio, ammissibile l’esenzione per i redditi minimi, poiché riguarda la generalità; è inammissibile una esenzione concessa ad un impiegato o ad un operaio, perché è concessa ad una classe di persone. Tutte le esenzioni particolari sono apportatrici di grave danno alla finanza dello stato ed hanno anche un carattere spiccatissimo d’immoralità politica. Le esenzioni particolari, le quali sono concesse a questa o a quella industria, presentano invero il gravissimo inconveniente che lo stato dà un sussidio ad una certa industria, come, ad esempio, quella della costruzione delle navi, degli impianti idro-elettrici, degli scavi di combustibile, perché ritiene che il fine sia meritevole di attenzione da parte dello stato, e debba essere incoraggiato. Ma, se ciò si ritiene, il solo metodo che dev’essere seguito è quello del premio diretto; deve esser concesso un premio diretto da parte della finanza a coloro, i quali esercitino la industria nuova meritevole di incoraggiamento. Almeno il Parlamento sarà chiamato a discutere a ragion veduta sulle cifre precise del sussidio da darsi.

 

 

Ma cattivo è il sistema di concedere invece delle esenzioni d’imposta, in quanto che le esenzioni implicano per lo stato una perdita di cifra non esattamente valutata. Noi non sappiamo mai cosa diamo, quando concediamo una esenzione per una certa industria, e non possiamo valutare se il sacrifizio dello stato sia commisurato al beneficio che la collettività riceve. Quindi, se si voglia aiutare qualche industria, questo aiuto sia palese, sia stabilito nel bilancio dello stato, ma non si concedano mai esenzioni d’imposta.

 

 

Lodo perciò il governo perché nel presente disegno di legge ha disposto per l’abrogazione assoluta di tutte le esenzioni speciali concesse durante la guerra in tema d’imposta. È certo che in questa maniera si va incontro al rimprovero di mancata fede. Ma io ritengo che questo rimprovero sia un danno minore di quello che non sia la prosecuzione del metodo, politicamente condannabile, delle esenzioni di imposta. Almeno il rimprovero, che non discuto, di mancata fede, avrà il vantaggio che in avvenire, quando lo stato concederà esenzioni particolari, nessuno vi sarà che presti fede alla promessa. Per il timore che le esenzioni stesse non saranno mantenute in seguito, nessuno più si azzarderà a fare impianti sulla semplice promessa di esenzione di imposte. In sostanza, si tratta di una promessa immorale e perciò è giusto che non sia mantenuta.

 

 

La giustizia della revoca però non deve farci chiudere gli occhi innanzi al concetto fondamentale esposto prima, che la tassazione cioè deve riferirsi soltanto a ciò che il contribuente conserva ancora di quello che ha guadagnato, del beneficio di immunità dalle imposte che gli è stato dato.

 

 

Un contribuente, ad esempio, guadagnò una somma fantastica poniamo cento milioni di lire; questi cento milioni di lire, per non pagarli allo stato, prima in parte e poi oggi in totale, li ha investiti in impianti idroelettrici, o in costruzione di navi, o nello scavo di combustibili; orbene, se questi cento milioni di lire al 30 giugno 1920 non hanno più conservato il loro valore di costo, logicamente e giustamente debbono essere assorbiti dalla finanza dello stato nella sola parte che di essi resta. Si tratta di una questione di fatto, ed è per ciò che mi permetto di chiedere al ministro delle Finanze quale sia la sua opinione in proposito. È certo e mi pare indubitabile che la finanza non debba fondarsi sul valore iniziale di costo, ma su quello che è il valore effettivo dell’impianto, che ancora rimane al 30 giugno 1920; perché può darsi che quelle navi, quegli impianti idro-elettrici, quegli scavi di combustibile, in cui furono impiegati i cento milioni guadagnati dal contribuente, siano scaduti di valore ed al 30 giugno 1920 valgano molto meno del costo originario.

 

 

Se al 30 giugno questi impianti varranno ancora cento milioni di lire, allora è giusto che siano assorbiti per intero, ma se varranno soltanto 80 o 50 milioni è chiaro che bisognerà avocare allo stato soltanto il valore che oggi hanno. Il contribuente non può pagare di più di ciò che è il valore da lui effettivamente posseduto. Se egli ha commesso l’errore di impiegare a perdita i suoi cento milioni, illuso soprattutto dall’esenzione d’imposta che gli fu concessa, sarebbe ingiusto che fosse costretto a dare, oltre il valore odierno di questi capitali, anche il di più che egli oggi più non possiede, avendolo perduto, per la svalutazione nel frattempo intervenuta degli impianti.

 

 

Io credo che anche su questo punto non possa esservi dissenso, in quanto che si tratta d’interpretazione logica di quello che è stato lo scopo del legislatore, quando ha deliberato l’avocazione dei sopraprofitti di guerra.

 

 

Questi sono casi generali che si riferiscono a tutta l’Italia.

 

 

Di questi casi particolari, ne ricorderò uno solo, perché è veramente un caso il quale merita attenzione, inquantoché si riferisce alla regione veneta la quale è stata così duramente provata dalle circostanze di guerra.

 

 

Nel momento dell’invasione vi furono parecchi stabilimenti, nella parte non invasa ma vicina alla zona di fuoco, i quali vendettero macchinari e impianti perché le industrie antiche non potevano più essere esercitate. Li vendettero a chi invece esercitò industrie di guerra. Un impianto di un milione di lire fu venduto per tre milioni di lire. La differenza, essendo stata realizzata, avrebbe dovuto essere soggetta all’imposta sopraprofitti se non fosse intervenuto un decreto luogotenenziale del 13 aprile 1910, n. 657 il quale esentava dalle imposte sui sopraprofitti l’apparente guadagno, se questo fosse stato investito nel ritrasportare in seguito quelle industrie stesse nella medesima regione, o l’impiantare una nuova industria nella regione medesima.

 

 

Questo decreto luogotenenziale era un decreto equo e perfettamente corrispondente alla giustizia tributaria, inquantoché la tassazione, e oggi la avocazione, della differenza tra un milione di valore antico e i tre milioni di realizzo, sarebbe una vera e gravissima ingiustizia poiché quel tale contribuente quando ha con i suoi tre milioni ritrasportato nel Veneto l’industria di cui si era dovuto disfare al momento dell’invasione, non ha potuto ricomprare nulla di più di quello che aveva in antecedenza. Egli forse non ha neanche potuto ricomprare né gli stessi impianti né le stesse macchine che possedeva nel 1914. Eppure, se si badasse alla semplice parola della abolizione di tutte le esenzioni precedenti, questo contribuente sarebbe oggi soggetto a vedersi espropriato di due terzi del valore degli impianti che possedeva prima della guerra. Solo per la circostanza, affatto fortuita dal punto di vista tributario, che egli fu costretto a vendere e poi a ricomprare quello che possedeva (a vendere nel momento della ritirata, e a ricomprare poi in seguito), non si può dire che ci sia stato un guadagno effettivo. Ci fu soltanto una trasformazione di patrimonio.

 

 

Chiedo anche qui se l’interpretazione da darsi alla disposizione di legge sia tale da condurre soltanto alla avocazione di quello per vero e reale profitto, o non invece ad una espropriazione del patrimonio che quei contribuenti possedevano precedentemente.

 

 

Molte osservazioni potrebbero ancora farsi su un altro capitolo discutibile della materia di tassazione ed avocazione dei sopraprofitti, quello delle spese.

 

 

Su queste ha già ragionato il nostro relatore e non ci ritornerò sopra, salvo per alcuni punti particolari. Per esempio, io non so quale sarà la sorte che spetterà, nel momento dell’avocazione, alle perdite che dovettero essere obbligatoriamente subite da industriali per causa dell’ordine che fu loro dato in un certo momento di investire una parte delle loro riserve in consolidato. Vi è poi il caso di pagamenti di forniture imposte in consolidato e in buoni del Tesoro. In sostanza si tratta di questo, che il contribuente, obbligatoriamente, invece di 86 lire ha ricevuto un titolo che ora ne vale 70 o 72. Io credo che giustizia voglia che egli non sia chiamato a pagare 86 lire ma solo il valore che il titolo aveva al 30 giugno 1920, ossia nel momento della chiusura del periodo di avocazione, perché la differenza è una perdita che ha subito e che deve essere considerata come spesa.

 

 

Un altro caso di spese discutibili è quello degli interessi passivi che debbono dai contribuenti essere pagati all’estero. La legislazione vigente in materia di imposta di ricchezza mobile ed anche di imposta sui sopraprofitti non ammette le detrazioni degli interessi passivi per i debiti che il contribuente ha verso l’estero, Astrattamente trattasi di una ingiustizia inquantoché non si può ammettere che sia reddito ciò che è invece spesa. L’ingiustizia è occasionata dal timore fiscale del pericolo imminente e continuo della frode, in quanto se il legislatore ammettesse in genere che fosse possibile di detrarre dal reddito in ogni caso gli interessi passivi pagati al creditore straniero, tutti inventerebbero compiacenti creditori stranieri. Ed è accaduto che l’amministrazione finanziaria italiana abbia non poche volte scoperto fughe ingenti (non di poche diecine o di centinaia di migliaia di lire, ma di parecchie diecine di milioni) di sedicenti interessi passivi, i quali trovavano così la loro via verso l’estero, mentre era reddito che era pagato ai soci sotto il nome di un fantastico creditore estero.

 

 

Quindi non ho nessuna obiezione da fare a che gli interessi passivi in genere non siano considerati come spesa; però, se in determinate circostanze il contribuente raggiunge la prova piena che gl’interessi passivi sono realmente dovuti a creditori esistenti, io credo che questi interessi passivi debbano considerarsi come spese e non essere avocati. È accaduto alcune volte perfino che certi debiti siano stati contratti per iniziativa e per ordine dello stato medesimo, il quale o si fece garante dei prestiti o in qualche altra maniera contribuì, durante la guerra, all’ottenimento di quel mutuo all’estero. Quando lo stato stesso è stato intermediario per il mutuo, è evidente che non c’è nessun dubbio che quel prestito esista. In questi casi ritengo che anche qui non vi sarà difficoltà a concedere la detrazione degli interessi passivi, quando realmente la prova piena dell’esistenza del mutuo sia raggiunta.

 

 

Da tutte le cose che ho detto mi pare che si deduca chiaramente che nessuna osservazione di principio io ho fatto al disegno di legge. Quel principio senza discuterlo e senza né ammetterlo né respingerlo, io l’ho assunto come una premessa del ragionamento. Ho cercato soltanto di esaminare se lo scopo voluto dal legislatore potesse essere raggiunto e se e quali provvedimenti potessero essere presi, in determinati casi, affinché la finanza non ottenga né di meno né di più di quello che deve avere e avochi a sé la vera somma dei profitti realizzati durante la guerra.

 

 

È necessario che l’esatto accertamento del vero ammontare dei guadagni di guerra sia raggiunto, perché altrimenti il fine che il legislatore vuole ottenere non sarebbe raggiunto, con grave nocumento della finanza e degli interessi collettivi, specialmente nel futuro.

 

 

Sia consentita a chi ha tenuto le sue parole esclusivamente nel campo tecnico e non ha voluto fare apprezzamenti di carattere politico e sociale, di fare, chiudendo, unapprezzamento non tecnico.

 

 

Ascoltare le voci che vengono dalla collettività, il bisogno di giustizia che è sentito nelle moltitudini: a questo fine s’ispira il disegno di legge, che vuol raggiungere la pacificazione sociale facendo in guisa che nessuno esca dalla guerra più ricco di quel che era precedentemente.

 

 

Dare ascolto a queste voci è compito specifico delle rappresentanze popolari. Quest’alta assemblea deve però avere anche un altro fine dinanzi a sé, oltre quello della pacificazione sociale.

 

 

Essa non deve farsi eco soltanto delle aspirazioni del momento presente, delle passioni che sommuovono le une contro le altre le varie classi sociali. Essa deve farsi eco altresì dell’eredità del passato, degli interessi delle generazioni avvenire, perché noi abbiamo una tradizione lunga del passato da difendere e dobbiamo preoccuparci di quelli che sono gli interessi della collettività nel susseguirsi perenne delle generazioni.

 

 

Altri vi sarà, il quale speri che la guerra passata sia l’ultima; io ritengo che circostanze nuove, forme nuove di vita sociale e politica possano in avvenire mettere di nuovo il nostro paese di fronte a un nemico; ed io credo che in quel momento il nostro paese debba essere pronto nuovamente, come lo è stato in passato, a sormontare prove forse più dure di quella che abbiamo superato.

 

 

Noi non potremo fare a meno in quel momento solenne di far ricorso a tutte le forze del paese, così alle forze dei combattenti e dei lavoratori, come alle forze dei dirigenti delle industrie: orbene, il voto che oggi il Senato è chiamato a dare deve esser tale da essere in quel momento di monito e di affidamento. Noi dobbiamo fare in guisa che il precedente che poniamo oggi sia tale da dire a tutti: «Voi dovete apparecchiarvi a dar tutta la vostra opera, tutte le vostre forze allo stato, senza avere speranza di uscire più ricchi: che se, alcuno vi sarà tra voi più avido, che riuscirà ad arricchirsi, voi sapete già, per il precedente attuale, che quello che avrà ottenuto di troppo gli sarà tolto».

 

 

Ma noi dobbiamo anche dare la sensazione viva, a quelli che vivranno nel momento futuro, che coloro i quali con l’opera e con i capitali coopereranno alla difesa dello stato non saranno danneggiati nel patrimonio che essi possedevano e che, dando intiera l’opera loro, essi non correranno il rischio di essere espropriati in rapporto a quello che era il loro possesso antico.

 

 

Se noi non dessimo questo affidamento, ci renderemmo colpevoli di aver diminuito la forza di resistenza del paese dinanzi al nemico. Or bene, se qualche affidamento il disegno di legge attuale è capace di dare, lo darà quando abbia potuto portare la persuasione profonda che la avocazione dei profitti di guerra ha realmente ottenuto lo scopo di impedire l’arricchimento da una parte e di non provocare dall’altra una ingiusta confisca, di conservare tutte le molle dell’azione e di non reciderne nessuna! (Applausi).

 

 

Seguono interventi degli on. Schanzer, Carlo Ferraris, Giardino, Facta e Frascara; prende quindi nuovamente la parola L. Einaudi:

 

 

Ho chiesto la parola per dare una spiegazione al senatore Giardino riguardo alla protesta che egli ha creduto di dover fare contro la mia affermazione, che forse è sembrata avesse carattere generale – ma che in questo caso è certamente andata al di là del mio pensiero – che fosse lodevole per lo stato di non mantenere in genere la parola data.

 

 

Or bene io volevo dire questo soltanto, che quando una data promessa fatta dal governo è tale che il suo adempimento fatalmente non può essere mantenuto, perché essa va non solo contro le necessità del bilancio dello stato, ma ha caratteristiche politiche immorali, quella promessa di fatto non può essere mantenuta e prima o poi deve venire un governo il quale dica che nella tassazione e nell’avocazione dei profitti di guerra sono compresi anche quelli dichiarati esenti, in base a precedenti disposizioni. Or bene questo fatto, comunque lo si voglia giudicare, rappresenta sempre una mancata fede alla parola data, per quanto sia un mancamento imposto dalla stessa necessità delle cose e dal fatto che la promessa era politicamente immorale. Sta in fatto che anche altre volte il medesimo fenomeno è avvenuto e cioè che lo stato italiano ha fatto promesse che poi non ha potuto mantenere. E perciò io mi auguro che poiché questi fatti si sono ripetutamente verificati, coloro a cui la promessa eventualmente in avvenire fosse data, ne traggano le dovute conseguenze e agiscano come se la promessa non fosse stata mai fatta. (Approvazioni).

 

 

La discussione continua, senza altri interventi di L. Einaudi, quindi viene rinviata all’indomani.

 

 

25. Intervento

 

 

23 settembre 1920

 

 

La discussione generale del disegno di legge sull’avocazione allo stato dei profitti di guerra, interrotta il 22 settembre, riprende con interventi degli on. Facta, Carlo Ferraris, Meda e Giolitti; ha poi inizio il dibattito sui singoli articoli della legge. Dopo la lettura dell’art. 1, prende la parola L. Einaudi:

 

 

Io avevo chiesto all’onorevole ministro delle Finanze alcune spiegazioni intorno a punti precisi relativi a questo articolo, e specialmente sulla questione della valutazione delle attività alla fine del periodo della tassazione, sulla detrazione delle spese e su altri argomenti a cui ha accennato anche l’onorevole relatore.

 

 

Ringrazio per la cortese promessa avuta di mettere allo studio le questioni che ho sollevate. Essa tuttavia mi lascia un pò insoddisfatto, perché, invece di una semplice promessa di studiare, sarebbero state assai opportune alcune dichiarazioni intorno al modo con cui il governo intende che queste questioni siano impostate. Punto da risolvere, nell’applicazione dell’articolo presente, era quello soltanto di sapere se si debbano tassare i soli guadagni di guerra o qualche altra cosa. La semplice promessa di studiare non basta a togliere il dubbio che, sotto colore di avocazione di profitti, si riesca, forse anche involontariamente, a confiscare il patrimonio antico. Un affidamento del governo in questo senso sarebbe stato molto utile, anche se fosse stato espresso in termini generalissimi. Sarebbe stato utile, anche per evitare l’accusa che si fa a questi provvedimenti, che, cioè, sono destinati a lasciar sfuggire molti contribuenti, in quanto che i mezzi tecnici di accertamento a carico di essi non esistono, e non vi è la possibilità di colpire quelli di essi che non hanno né macchine, né scorte, né contabilità impiantata, ma sono semplici intermediari: obbiezione questa che all’opinione pubblica farà dire che non si è riusciti a raggiungere l’intento. Per ovviare a questa obbiezione, che sorgerà dai fatti, non credo sia ragione sufficiente di risposta dire che si tasseranno altri più di quello che meritano. È mezzo antico, ma biasimevole, di adottare il criterio di usare contro i contribuenti fraudolenti dei mezzi di rivalsa a danno di altri contribuenti.

 

 

Avrei desiderato che, tenendo conto delle considerazioni sviluppate riguardo alla svalutazione, si fosse dato affidamento che il governo non intende se non di tassare i veri guadagni e non intende di assorbire, giovandosi di un fatto dovuto a sua colpa, ossia la svalutazione della moneta, quel che era il patrimonio del contribuente preesistente alla guerra.

 

 

Il provvedimento viene approvato lo stesso giorno a scrutinio segreto e diventa la legge 24 settembre 1920, n. 1.298, Avocazione allo stato dei profitti realizzati in conseguenza della guerra nel periodo dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920 (pubblicata nella «Gazzetta Ufficiale» del 28 settembre, n. 229).

 

 

L’indomani L. Einaudi pubblicherà sul «Corriere della sera» un articolo di commento alle nuove leggi sulla nominatività dei titoli e sull’avocazione dei profitti di guerra, dal titolo Il programma finanziario del governo.

 

 

26. Relazione

 

 

marzo 1921

 

 

La legge 24 settembre 1920, n. 1.298, sull’avocazione allo stato dei profitti di guerra, prevedeva la formazione di una Commissione parlamentare consultiva, incaricata di dettare le norme per l’applicazione pratica del provvedimento.

 

 

Vennero chiamati a farne parte tre deputati, designati dalla Giunta generale del Bilancio e tre senatori, nominati dalla Commissione di Finanza del Senato; la Commissione risultò composta dai senatori Paolo Emilio Bensa, Riccardo Bianchi e Luigi Einaudi, relatore, e dai deputati Giovanni Camera, Vincenzo Giuffrida e Salvatore Renda essa si riunì la prima volta il 15 dicembre 1920 presso il ministro delle Finanze, on. Facta, per esaminare un progetto di regolamento per l’applicazione della legge, redatto da una Commissione di funzionari presieduta dal sottosegretario Bertone. Dal 3 gennaio al 6 febbraio 1921 la Commissione tenne complessivamente ventidue sedute, nel corso delle quali esaminò memoriali ed ascoltò delegazioni di contribuenti colpiti dalla legge sull’avocazione e discusse il progetto di regolamento governativo; il 15 febbraio consegnò al governo un nuovo testo rielaborato del regolamento e incaricò L. Einaudi di redigere una relazione illustrativa sul lavoro svolto e sulle conclusioni raggiunte. L. Einaudi terminò il 28 febbraio la redazione del testo, che è il seguente:

 

 

CAPITOLO I.

 

 

Reddito ordinario, compensazione, unità del periodo, capitale investito, riserve sociali, sovraprezzi delle azioni.

 

 

Par. 1. – Concetto del reddito ordinario assunto a base del calcolo del guadagno di guerra.

 

 

Importantissima tra le questioni preliminari è quella del significato da attribuirsi al concetto del «reddito ordinario». Già la legislazione vigente su l’imposta e sovraimposta sui sopraprofitti di guerra aveva accolto il concetto fondamentale che oggetto di tassazione dovesse essere la differenza tra il reddito che il contribuente godeva prima della guerra ed il maggior reddito che egli venne ad ottenere negli anni della guerra.

 

 

Naturalmente il paragone ed il calcolo della differenza poteva farsi soltanto per quei contribuenti i quali già esercitavano commercio, industria o intermediazione innanzi all’1 agosto 1914. Per i nuovi contribuenti il confronto dovette essere fatto con un reddito ordinario, presunto per comparazione con quello che ottenevano innanzi alla guerra contribuenti situati nelle medesime condizioni. A facilitare il calcolo, il legislatore stabilì due criteri:

 

 

  • 1) per non dover fare indagini difficili intorno al vero ammontare del reddito percepito prima della guerra, si dovesse assumere come tale quello che risultava accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile per gli esercizi 1913 e 1914. Accadde perciò che il reddito in base a cui si fece il paragone, non fu quello del 1913 e 1914, bensì quello di anni anteriori, ossia degli anni rispetto ai quali erasi fatto il concordato coi contribuenti privati ovvero degli esercizi 1911 – 1912 per gli enti collettivi tassati in base al bilancio;
  • 2) fu presunto che il reddito ordinario non potesse in ogni caso essere minore dell’8% del capitale investito, se trattavasi di contribuenti antichi, e del 10% se trattavasi di imprese sorte durante la guerra in ragione di forniture da farsi per scopi bellici.

 

 

Il sistema sembrava dovesse funzionare ragionevolmente, in quanto l’imposta veniva a cadere soltanto sull’eccedenza del reddito ottenuto durante la guerra, non sul reddito che era già goduto dal contribuente innanzi alla guerra e che sarebbe stato da esso goduto astrazione fatta da questo.

 

 

Par. 2. – Critiche mosse alla base assunta dal legislatore per il calcolo del reddito ordinario.

 

 

Ma se il concetto appariva razionale ad un primo esame, subito si vide che esso prestava il fianco a disparità notevoli fra contribuente e contribuente. Una prima disparità derivava da ciò, che – negli anni base, rispetto a cui si calcolava il reddito ordinario, diversissime erano le condizioni iniziali dei contribuenti. Vi era colui il quale aveva già spinto la sua intrapresa al massimo di sviluppo ed otteneva già sul capitale investito ragguardevole reddito: ad esempio il 20 od anche il 50 per cento. Dato il sistema seguito dal legislatore, ne venne che tutto questo 20 o 50% fu considerato reddito ordinario, e divenne tassabile, ai fini dell’imposta e sovrimposta sui sovraprofitti, soltanto l’eccedenza oltre questa percentuale di reddito. E sin qui, partendo dal punto di vista dell’imposta sui sovraprofitti, non potevasi fa obiezione al sistema: ma l’obiezione nasceva quando anche per le aggiunte di capitale investito avvenute in seguito, dopo il 1911 e il 1912, e poi ancora durante il periodo della guerra, si continuò a calcolare come reddito ordinario una percentuale del 20 o del 50% uguale a quella che costituiva la percentuale ante-bellica sul vecchio capitale investito. Stava bene che al vecchio capitale fosse concessa quella remunerazione, perché già la otteneva prima della guerra, ma non vi era ragione di credere che le successive aggiunte di capitale investito avessero potuto ottenere una così alta rimunerazione.

 

 

Dal punto di vista della teoria economica non vi è nessun dubbio che se ciò inizialmente avesse potuto verificarsi, le imprese interessate avrebbero avuto ragione di continuare a crescere il capitale investito fino a che le ultime dosi del capitale medesimo avessero dato un frutto uguale a quello corrente per i capitali liberi nelle imprese di ugual rischio e difficoltà.

 

 

Una seconda critica poteva muoversi al concetto del reddito ordinario, supposto sempre eguale a quello ante – bellico, ed è che se talune imprese erano giunte al periodo base dell’ante – guerra a grande fioritura, altre invece si trovavano soltanto in sull’inizio del loro svolgersi. Tutte le intraprese nuove, che si erano costituite pochi anni prima della guerra, necessariamente avevano attraversato in quegli anni dal 1910 al 1914 un’epoca di prova, di difficoltà. Il loro reddito netto era stato scarso; ma ciò non era affatto un indice dello sviluppo che il reddito stesso avrebbe avuto naturalmente, a mano a mano che l’intrapresa si fosse assodata, anche se non fosse intervenuto il fatto straordinario della guerra. Accadde perciò che le intraprese nuove furono incise dal tributo straordinario ben più profondamente che le intraprese vecchie, e per esse fu considerato profitto di guerra, e quindi tassato, ed ora avocato, ciò che in realtà era reddito ordinario.

 

 

Aggiungasi ancora che il concetto medesimo del reddito di guerra, quale era stato delineato dal legislatore ai fini dell’imposta sui sovraprofitti, era tutt’altro che soddisfacente. Esso poneva a base del reddito di guerra l’eccedenza oltre una determinata percentuale sul capitale investito: tutto ciò che eccedeva l’8% del capitale investito o quella percentuale maggiore che già fosse stata ottenuta dal contribuente prima della guerra, era considerata sovraprofitto. In questo modo profitto di guerra non era già ciò che il contribuente otteneva con soverchia facilità crescendo oltre misura i prezzi di vendita al governo o ai consumatori privati, ma era il maggior lucro percentuale che si poteva ottenere sul capitale investito. È chiaro che in tal modo poteva ben darsi che colui il quale più guadagnava per unità di prodotto venduto, meno fosse tassato ove egli avesse la fortuna o l’accortezza di impiegare un forte capitale nella sua azienda; mentre invece poteva accadere che colui il quale aveva ben servito il paese contentandosi di un lucro limitatissimo per ogni unità di prodotto venduto, venisse ad essere molto tassato solo perché egli aveva avuto, insieme con gli altri suoi meriti, anche quello di utilizzare un piccolo capitale facendolo rendere assai. In sostanza il concetto prescelto del reddito di guerra aveva per effetto di dare un premio a quegli imprenditori i quali non riuscivano se non scarsamente a far fruttare il loro capitale, mentre invece multava quegli altri imprenditori che sapevano trarre gran partito dal capitale medesimo. Quasi il legislatore riteneva che invece di doversi applicar nelle cose economiche il principio del massimo risultato col minimo di sforzo, si dovesse applicare invece l’altra regola del minimo rendimento percentuale, col massimo di capitale investito. Né i contribuenti furono lenti ad apprendere tale insegnamento dal legislatore; ché la norma stabilita nella legislazione d’imposta sui sovraprofitti fu non ultima causa per la quale durante il periodo di guerra, e specialmente dal 1917 in poi, si susseguirono copiosi gli aumenti di capitale delle società anonime. Quanto più il capitale investito invero aumentava, tanto più scemava la percentuale del reddito al capitale investito e diminuiva la materia imponibile scendendo al disotto dell’8 per cento. Che se quella materia non diminuiva, diventava dessa tassabile con un’aliquota minore, passando dalle categorie ad alta percentuale alle categorie a percentuale meno elevata.

 

 

Par. 3. – Discussione avvenuta in seno alla Commissione sul sovradetto argomento.

 

 

Parecchie di queste questioni furono messe innanzi alla Commissione dai contribuenti interrogati e furono sviluppate nelle loro memorie; ma su nessuno di questi punti la Commissione ritenne di aver veste per intervenire a modificare la legislazione vigente in materia di sovraprofitti di guerra. Non mancò nella Commissione chi sostenne il concetto che la legge 24 settembre 1920, n. 1.298, non legasse menomamente le mani al governo e alla Commissione parlamentare incaricata di dare un parere sulle proposte del governo per quel che si riferisce alla definizione del reddito ordinario e dei profitti eccedenti il reddito ordinario. Ed invero l’articolo primo della legge medesima si riferisce alla legislazione vigente solo per ciò che riguarda l’indicazione dei contribuenti soggetti all’imposta. La legge mette cioè un vincolo al governo ed alla Commissione per quel che riguarda le categorie di contribuenti che possono essere soggetti ad avocazione ed apertamente afferma che può essere avocato il profitto di guerra esclusivamente per quei contribuenti che erano già soggetti all’imposta sui sovraprofitti di guerra, non potendosi invece avocare il profitto ottenuto da quelle altre categorie di contribuenti che prima non fossero già state tassate. Unica eccezione per ragioni particolari, come si vedrà poi, quella dei proprietari di zolfare della Sicilia. In virtù di questa limitazione stabilita dalla legge non possono essere avocati i profitti di guerra che eventualmente siano stati ottenuti da proprietari di terreni e di boschi esercenti essi medesimi l’industria agricola, da proprietari di tonnare e da professionisti e da alcune altre categorie di contribuenti. Ma la lettera della legge non poneva invece alcun limite al governo ed alla Commissione nella determinazione di quello che fossero i redditi ordinari ed i profitti di guerra dei contribuenti soggetti ad avocazione.

 

 

Parve tuttavia alla Commissione nella sua maggioranza che, se la lettera della legge nulla vietava al riguardo, lo vietasse lo spirito della legge medesima. Fu osservato invero come, nelle discussioni preparatorie e specialmente in quelle avvenute in seno alla Giunta generale del Bilancio della Camera dei deputati, concetto fondamentale che presiedette alle determinazioni prese, fosse stato quello che l’avocazione dovesse fondarsi sulla base dell’imposta preesistente sui sovraprofitti di guerra, accrescendo il gravame dei contribuenti, così da arrivare alla totale confisca, ed evitando di variare le basi dell’imposta in maniera che potesse eventualmente condurre ad una minorazione e non ad un aumento del debito per imposta sui contribuenti. Tale concetto non doversi per fermo considerare assoluto, cosicché in caso di evidente ingiustizia o di mancata detrazione a titolo di spesa non dovesse rendersi ossequio al diritto, ma dover essere però come una guida alla Commissione nel decidere intorno ai problemi che ad essa si presentavano. Fu perciò concluso, sempre a maggioranza, che non fosse opportuno di variare né il concetto del reddito ordinario, prevalente sin qui, e neppure il sistema di calcolo del sovraprofitto di guerra. Ciò avrebbe costretto l’amministrazione a rifare tutti i suoi accertamenti con risultati imprevedibili e forse dannosi per la finanza. È vero che in tal modo la finanza poteva essere danneggiata, inquantoché avrebbero continuato ad aver vigore i concetti già ammessi nella legislazione sui sovraprofitti di guerra anche quando – come fu spiegato sopra – essi potevano tornare di danno alla finanza perché ammettevasi che il capitale nuovamente investito fosse capace di rendere in via ordinaria la stessa percentuale di reddito fruttata dal capitale vecchio, anche quando questa percentuale fosse molto superiore all’8% e al reddito corrente e normale dei capitali. Ma contro questo danno della finanza fu ritenuto prevalessero, per i motivi e dai punti di vista già sopra indicati, i vantaggi derivanti dal tenersi fermi ai concetti già finora accettati nella legislazione vigente.

 

 

Par. 4. – Il problema particolare della rivedibilità del reddito ordinario anche agli effetti dei periodi 1914-915, 1916 e 1917.

 

 

Tuttavia a lungo si discusse intorno ad un punto particolare che già aveva trovato nella legislazione precedente una regolamentazione particolare, appunto in vista di un evidente errore nel quale il legislatore originariamente era caduto nella determinazione del reddito ordinario. Fu avvertito infatti che nel decreto luogotenenziale 21 novembre 1915, n. 1.643, istitutivo dell’imposta e sovrimposta sui sovraprofitti di guerra, si disse che «reddito ordinario», era uguale al reddito accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, nella media degli anni 1913 e 1914.

 

 

Accadde che, prima della guerra, il reddito accertato era spesso inferiore al reddito vero che i contribuenti fin già da allora riuscivano ad ottenere: vi erano tali contribuenti che già avevano 50.000 lire di reddito all’anno ed erano riusciti ad ottenere un accertamento di sole 20.000 lire. Il vantaggio ottenuto prima dal contribuente in frode alla finanza si volse durante la guerra in suo danno, inquantoché la finanza considerò come sopraprofitto tassabile l’intera differenza tra il nuovo reddito, supponiamo di 100.000 lire, ed il reddito accertato di 20.000, ossia 80.000 lire mentre nella realtà il vero sopraprofitto di guerra era soltanto uguale alla differenza tra le 100.000 lire e le 50.000 lire effettive di cui il contribuente godeva già prima della guerra. Subito i contribuenti rilevarono l’ingiustizia o il danno, come dir si voglia, che si verificava a loro detrimento e chiesero ripetutamente di essere autorizzati a dimostrare che il reddito effettivo da essi goduto prima della guerra non era già quello di 20.000 lire, accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, ma l’altro di 50.000 lire. Il legislatore, persuaso della giustizia della richiesta e della convenienza di accoglierla per la finanza, vi annuì con l’articolo 5 del testo unico 9 giugno 1918, 857, ma poiché erano già allora o conchiusi o in corso, gli accertamenti per l’imposta e sovraimposta sui sovraprofitti per i periodi dall’1 agosto 1914-31 dicembre 1915, 1916 e 1917, concedette tale facoltà ai contribuenti soltanto a partire dall’1 gennaio 1918: e così per gli esercizi 1918 e 1919 e primo semestre 1920 il contribuente ebbe diritto di dimostrare che il suo reddito vero effettivo prima della guerra era diverso e maggiore del reddito accertato ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, così da doversi calcolare il profitto di guerra non più in rapporto al reddito accertato ma al reddito vero. In conseguenza il contribuente doveva però assoggettarsi a pagare, a partire dall’1 gennaio 1918, l’imposta di ricchezza mobile non più sul reddito fittizio accertato: ma sul reddito ora dimostrato vero.

 

 

Tale è la legislazione vigente per l’imposta sui sovraprofitti di guerra, la quale perciò riconosce due periodi; nel primo dei quali (dall’1 agosto 1914 al 31 dicembre 1917) si considera sempre come reddito ordinario quello accertato per il 1913 – 14, mentre nel secondo periodo (dall’1 gennaio 1918 al 30 giugno 1920) può darsi che il contribuente riesca a dimostrare che il reddito ordinario in base a cui si doveva fare il calcolo, non è quello accertato, ma è un altro di cui effettivamente egli godeva già prima della guerra. La situazione in merito all’imposta sui sovraprofitti è, dal punto di vista della giustizia tributaria, alquanto incongrua, inquantoché la finanza è venuta ad ammettere formalmente che essa colpisce, in certi casi, come profitto di guerra per il periodo dall’1 agosto 1914 al 31 dicembre 1917 somme di cui il contribuente già fruiva innanzi alla guerra e che erano parte del suo reddito ordinario di pace; e malgrado tale formale riconoscimento, essa le considera come reddito di guerra, sottoponendole alla conseguente tassazione.

 

 

Presentavasi alla Commissione il quesito se, in tema di avocazione, dovesse continuare ad accogliersi il doppio sistema applicato per l’imposta sui sovraprofitti od invece un unico sistema e precisamente quello di continuare bensì a presumere che il reddito ordinario sia uguale al reddito accertato per il 1913 e il 1914, ma di ammettere che per l’intero periodo il contribuente, il quale abbia dimostrato o dimostri che il suo reddito ordinario era di fatto maggiore del reddito accertato, possa far considerare come base di tassazione il reddito vero e non quello accertato.

 

 

Qui le opinioni della Commissione rimasero divise fino all’ultimo: sostenevasi da una parte come fosse illogico ammettere, nel tempo stesso, che il reddito ordinario percepito prima della guerra fosse di 20.000 lire per farne il paragone coi redditi ottenuti dall’1 agosto 1914 al 31 dicembre 1917, ed invece di 50.000 lire per fare il paragone stesso coi redditi ottenuti dall’1 gennaio 1918 al 30 giugno 1920. Il reddito ordinario percepito prima della guerra non potere – secondo quest’opinione – essere che uno solo; la logica più elementare vietando che una stessa quantità possa una volta essere valutata in una cifra e un’altra volta in un’altra cifra. La logica e la giustizia vietare in modo assoluto che il legislatore possa riconoscere da un lato che il reddito vero ordinario era quello di 50.000 lire e nel tempo stesso negare questa verità basandosi per un certo periodo su un reddito – riconosciuto fittizio di 20.000 lire. La legge 24 settembre 1920 aver considerato il periodo dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920 come un tutt’uno, ed essere perciò impossibile di scinderlo in due parti a cui applicare due criteri differenti per la determinazione del reddito ordinario.

 

 

Ma l’altra parte della Commissione vivamente sostenne che ben poteva continuare ad accogliersi, anche ai fini della avocazione, il sistema della doppia valutazione del reddito ordinario nei due diversi sottoperiodi: fu colpa del contribuente di non aver prima della guerra denunciato alla finanza il vero sul reddito: sta bene che per ragioni di benevola giustizia, la finanza a partire dal 1918, abbia consentita la rivalutazione, ma sta benissimo che il contribuente subisca, almeno per una parte del periodo di guerra, le conseguenze della sua colpa: non essere ammissibile che si consenta al contribuente, senza una efficace sanzione di maggiori aggravi fiscali, di fare dichiarazioni false e persino false attestazioni in un bilancio.

 

 

Replicavano i commissari appartenenti all’altra corrente, che non potevasi in verità discorrere soltanto di colpa nei contribuenti, poiché prima del 1914 gli accertamenti, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, in moltissimi casi, si facevano non sulla base dei redditi effettivi, ma sulla base di paragoni tra contribuente e contribuente, tra categoria e categoria di contribuenti: essere invalso l’uso, per condiscendenza o debolezza della finanza e nell’interesse dei contribuenti, di non andar ricercando il vero reddito effettivo dei contribuenti, ma di stabilire cifre di reddito accertato di carattere fittizio, «quasi cifre di conto» aventi per unico scopo di equilibrare il peso fiscale gravante sui diversi contribuenti.

 

 

Nelle discussioni, nei concordati fra contribuenti e finanza, molto spesso non si disputava prima della guerra intorno al vero reddito del contribuente ed anche quando era pacifico che un tale contribuente guadagnava 50.000 lire, la finanza si acconciava alla tassazione di sole 20.000 lire, quando il contribuente dimostrava che essendo così tassato era equamente tassato in rapporto a contribuenti che esercitavano la stessa professione, la stessa industria o lo stesso commercio. Insomma le cifre di reddito accertato invalse prima della guerra non avevano agli occhi d’ambe le parti un valore assoluto, ma un semplice valore di paragone. Ciò posto sembrava evidente ad alcuni commissari che la colpa dei bassi accertamenti anteriori alla guerra non dovesse andare tutta a carico del contribuente: costui essere già a sufficienza punito con la tassazione più elevata sostenuta nel primo periodo ai fini dell’imposta sui sopraprofitti di guerra: essere ingiusto aggravare la pena per una colpa dovuta più all’ambiente che a lui, anche nel tema gravissimo della avocazione totale dei profitti di guerra.

 

 

Poiché le due opposte opinioni rimasero tali fino alla fine e non fu possibile di giungere ad un compromesso, la votazione condusse, presenti quattro commissari, a questo risultato: due voti, dati da membri della Camera dei deputati, contro la proposta di innovare in questa materia il progetto governativo di regolamento, il quale, essendo ricalcato sulla legislazione vigente in tema di sovraprofitti di guerra, manteneva il regime vigente, ossia ammetteva che si potesse rivalutare il reddito ordinario soltanto agli effetti degli accertamenti dall’1 gennaio 1918 in poi; contro due voti di senatori, i quali ritenevano corretto di riconoscere una sola base per tutto il periodo di guerra e precisamente il reddito accertato, ovvero – nel caso che questo fosse dimostrato erroneo dal contribuente – il reddito vero. Trattandosi di proposta di innovazione e non avendo questa riportato la maggioranza dei suffragi, essa cadde, cosicché le proposte della Commissione sotto questo aspetto non si discostano per nulla dalle proposte governative. I membri della Camera dei deputati aggiunsero ancora, che il loro avviso contrario alla modificazione del regolamento ministeriale doveva in ogni modo avere la prevalenza, in ragione delle prerogative tributarie spettanti alla Camera dei deputati.

 

 

Par. 5. – La compensazione tra profitti di un periodo e perdite di un altro periodo.

 

 

Una questione la quale si riannoda a quella della rivalutazione del reddito ordinario è quella della compensazione tra profitti e perdite tra l’uno e l’altro dei periodi annuali in cui si divide l’intero periodi di guerra dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920. Anche qui la legislazione in tema di sovraprofitti di guerra ebbe a subire una evoluzione, inquantoché nei primi tre periodi fino a tutto il 1917, quella legislazione aveva seguito fedelmente le norme dell’imposta di ricchezza mobile e, come questa, considerava ogni periodo a sé stante senza ammettere la compensazione fra i profitti dell’un periodo con le perdite dell’altro periodo. Il legislatore però riconobbe ad un certo punto che il sistema dell’isolamento di ogni periodo annuo od esercizio poteva essere tollerabile, sebbene non scevro di gravi ingiustizie, in tempi nei quali l’imposta era relativamente tenue, ma diventava troppo gravoso ed ingiusto quando l’imposta assurgeva alle altezze complessive invalse durante la guerra. Ad esempio, se un contribuente nell’esercizio 1916 lucrava 100.000 lire di sovraprofitti di guerra, l’imposta sui sovraprofitti gliene portava via circa 60.000, restando egli con un avanzo netto di 40.000 lire; se poi nell’esercizio successivo 1917 egli subiva una perdita di 100.000 lire, la finanza di esso non si preoccupava né tassandolo come era naturale e neppure restituendogli parte di ciò che aveva riscosso negli anni antecedenti, cosicché nella somma dei due anni il contribuente veniva a subire una perdita complessiva di 60.000 lire, mentre la finanza aveva riscosso 60.000 lire, come se invece di una perdita, il contribuente avesse ottenuto un lucro tassabile.

 

 

A partire dal 1918 tale sistema fu perciò mutato e fu consentita la compensazione fra le perdite di un periodo ed i lucri di un altro periodo successivo, cosicché se la medesima situazione sopra ipotizzata si fosse ripetuta nel 1918 e nel 1919, il contribuente avrebbe potuto compensare la perdita di 100.000 lire ottenuta nel 1919 col guadagno di 100.000 lire ottenuto nel 1918. In questo caso egli essendo rimasto senza profitti e senza perdite, non avrebbe dovuto pagare imposta sui sovraprofitti. Il che era corretto.

 

 

Ai fini della avocazione si presentava il quesito: quale metodo dovesse essere seguito per la compensazione. Il regolamento governativo risponde: mantengasi fermo il sistema già osservato, sebbene alquanto contraddittorio, per quel che tocca l’imposta e sovraimposta sui profitti di guerra, ossia nessuna compensazione tra un esercizio ed un’altro per i primi tre periodi fino al 31 dicembre 1917 e completa compensazione per gli ultimi tre periodi dall’1 gennaio 1918 al 30 giugno 1920; concedasi invece compensazione completa per tutto il periodo dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920 per quanto riguarda l’avocazione totale. La Commissione deliberò di dar parere favorevole alla proposta del governo. Non mancarono dubbi intorno alla giustizia di non concedere compensazione per i primi tre periodi ai fini dell’imposta e sovrimposta sui sovraprofitti. Certamente tale mancata compensazione può condurre ad ingiuste sovratassazioni, a far pagare cioè ai contribuenti una somma di imposta maggiore di quella che essi avrebbero dovuto pagare e maggiore del totale profitto ottenuto; ma fu opinato non essere compito della Commissione di innovare il sistema seguito in materia di una precedente imposta sui sovraprofitti; avere la Commissione potere di consigliare la abrogazione, la modifica o l’integrazione di disposizioni legislative vigenti (articolo 2 della legge 24 settembre 1920, n. 1.298), ma questo potere di consiglio doversi limitare a quanto riguarda l’applicazione della legge di avocazione, non potersi estendere a modificare norme regolatrici di tributi precedenti. Alcuni commissari, i quali erano di parere contrario e ritenevano che la Commissione avesse facoltà anche di variare le norme legislative connesse con l’argomento della avocazione, ritennero inutile di insistere su questo punto dato che già la Commissione aveva diversamente deciso in materia di definizione del reddito ordinario: il punto allora deciso costituendo un precedente che doveva essere osservato in seguito dalla Commissione per tutti i casi analoghi.

 

 

Par. 6. – Definizione del capitale investito.

 

 

Altro elemento importantissimo per la determinazione del profitto di guerra è la definizione del capitale investito. Quanto maggiore invero è il capitale investito tanto più diminuisce la parte del reddito totale la quale deve essere considerata come eccedente sul reddito ordinario ed è ora avocabile. Interesse per ciò della finanza è quello di ridurre quanto è possibile la cifra del capitale investito, mentre i contribuenti hanno manifestamente interesse inverso. Il problema non fu tuttavia discusso dalla Commissione in punto di principio, ma esclusivamente in rapporto a quesiti concreti, che qui di seguito vengono esaminati.

 

 

Par. 7. – Questione della inclusione delle somme ottenute con sovvenzioni o mutui nel capitale investito.

 

 

Le rappresentanze di contribuenti interrogate dalla Commissione vivamente si lagnarono a questo proposito del modo tenuto dalla finanza nel calcolo del capitale investito e principalmente appuntarono le loro critiche contro la negata inclusione nella cifra del capitale investito di quella parte del capitale investito nell’azienda che è ottenuta per mezzo di sovvenzioni o di mutui.

 

 

La questione è invero importantissima e merita attento esame. Non vi è nessun dubbio che secondo la legislazione vigente il capitale investito è uguale al capitale proprio del contribuente: ad esempio, il capitale azionario, più le riserve portate in bilancio e che sono anch’esse proprie del contribuente, più le riserve non portate in bilancio ma risultanti dalla contabilità sotto forma di eccezionali ammortamenti di svalutazione prudenziale fatti agli impianti e simili. Tutto ciò è pacificamente ammesso, salvo la valutazione da darsi ad ognuna di queste partite come parte del capitale investito.

 

 

Se però un contribuente, per poter ampliare la sua impresa, ottiene una sovvenzione od un mutuo da terzi, questo capitale non è considerato in base alla legislazione vigente sui sovraprofitti di guerra come parte del capitale investito in proprio dal contribuente e quindi, mentre non si tien conto nel reddito dei relativi interessi passivi, non si tien conto, nel capitale investito, del suo ammortamento. Quale è la conseguenza fiscale? Suppongansi due imprese le quali abbiano l’identico capitale investito di 10 milioni di lire: nella prima però tutto il capitale di 10 milioni di lire è di proprietà del contribuente. Ne segue che il contribuente stesso ha diritto di considerare come reddito ordinario l’8% sui 10 milioni, ossia 800.000 lire all’anno: e quindi il sovraprofitto tassabile, ed ora avocabile, è costituito soltanto dall’eccedenza sopra queste 800.000 lire all’anno. L’altro contribuente si sia fatto dare a mutuo, come molte volte accade, 6 milioni sui 10 investiti nell’azienda. In tal caso, possedendo egli un capitale proprio soltanto di 4 milioni di lire, ha diritto di considerare come reddito ordinario soltanto l’8% su 4 milioni ossia 320.000 lire all’anno, più naturalmente gli interessi passivi sui 6 milioni presi a mutuo; i quali, se noi supponiamo che il mutuo fosse stato ottenuto all’interesse del 6% all’anno, sono altre 360.000 lire che egli ha diritto di detrarre – in tutto 680.000 lire. Ecco che, in virtù della diversa composizione del capitale, il primo contribuente è tassato solo sull’eccedenza oltre le 800.000 lire, il secondo contribuente su tutta l’eccedenza oltre le 680.000 lire. L’ingiustizia di trattamento è stridente e può diventare ancora più grave quando cresca la parte del capitale investito la quale sia presa a mutuo e quando diminuisca il saggio d’interesse a cui il mutuo era stato ottenuto.

 

 

Le rappresentanze interrogate apertamente affermarono essere un sofisma il ragionamento in base a cui la finanza scinde dal capitale investito quello ottenuto a mutuo, affermando che tale capitale, non essendo proprio del contribuente, non fa realmente parte del capitale investito nell’azienda, avendo esso la natura semplicemente del capitale dato a mutuo, non di capitale il quale corra il rischio dell’azienda.

 

 

È vero – replicano i contribuenti – che il capitalista sovventore non incorre nei rischi dell’azienda; ma qui non si tratta di tassare costui bensì di tassare i profitti di guerra ottenuti dal debitore. L’industriale o commerciante che si è fatto dare 6 milioni a mutuo da un capitalista, non corre i rischi soltanto del capitale proprio che è di 4 milioni; egli rischia altresì i 6 milioni che ha ottenuto a mutuo, ne risponde col suo intero patrimonio; egli ha le preoccupazioni ed i doveri e deve esercitare la sua attività, non in ragione di 4 milioni, ma di tutti i 10 milioni suoi e altrui che egli ha investito nell’azienda. L’azienda ha le stesse dimensioni, implica le medesime responsabilità, richiede il medesimo sforzo di intelligenza e di iniziativa, come quella in cui il titolare possiede tutto il capitale investito: anzi di più, inquantoché le ansie di colui il quale amministra un’intrapresa con capitali di altri, sono maggiori di colui che nell’intrapresa ha investito propri capitali. Quest’ultimo, se anche perde due milioni, su dieci, ha perso soltanto un quinto del proprio capitale mentre il primo, se perde 2 milioni, non può ripartire la perdita sui creditori suoi, ai quali deve rimborsare esattamente ed interamente i 6 milioni mutuati: egli perde per suo conto metà del suo patrimonio. Ciò nonostante il contribuente che ha maggiori responsabilità e corre maggior rischio è tassato più duramente di colui il quale soggettivamente corre rischi minori.

 

 

La Commissione lungamente discusse il quesito. Se si trattasse di innovare la legislazione vigente, gli argomenti addotti dalle rappresentanze dei contribuenti avrebbero certamente grande peso: lo hanno tale che il legislatore col decreto-legge 24 novembre 1919 di riforma dei tributi diretti, collocò nella medesima categoria A1 dell’imposta normale, tanto il reddito puramente capitalistico derivante da interessi di capitali dati a mutuo, quanto il dividendo ripartito alle azioni delle società anonime. In questa maniera a partire dall’1 gennaio 1922, quando il decreto-legge entrerà in vigore, non vi sarà più differenza di trattamento tra la parte del capitale complessivo di un’azienda che sia propria del contribuente e quella la quale sia stata da lui presa a prestito: ambedue le parti saranno tassate per una medesima aliquota d’imposta normale e quindi cesserà per le società anonime la ragione di dissenso tra la finanza ed i contribuenti, rispetto al collocamento in una categoria piuttosto che in un’altra, derivante dalla diversa misura della tassazione delle due parti del capitale investito; cesserà di esistere l’ostacolo che oggi le società anonime trovano nel procurarsi il capitale necessario per mezzo di obbligazioni e l’imposta cesserà di costituire una spinta talvolta antieconomica a prescegliere l’una forma piuttosto che l’altra di uso dei capitali. Tutto ciò però si riferisce ad una modificazione profonda del nostro diritto tributario. La Commissione non ritenne che la legge di avocazione fosse il luogo opportuno per innovare in questa materia o per anticipare una innovazione la quale dovrà aver luogo nel regime ordinario delle imposte.

 

 

Taluni dei commissari anche qui sarebbero stati del parere che si dovesse innanzi tutto rendere giustizia ai contribuenti e, poiché le ragioni addotte da esso erano loro parse inconfutabili, ammettere che il capitale investito comprendesse insieme al capitale proprio anche quello ottenuto per sovvenzioni; notavano che già la finanza in taluni casi ha dovuto praticamente riconoscere la giustizia delle ragioni fornite dai contribuenti ammettendo a far parte del capitale investito le somme che i soci di società collettive versano in conto corrente nella propria società, sebbene a stretto rigore esse non abbian senz’altro la figura del capitale versato a titolo di quota o caratura nell’azienda; trattasi soltanto di fare un passo su questa via e riconoscere che il capitale investito non può essere separato artificiosamente in due parti solo perché l’una spetta ad un contribuente e l’altra spetta ad un altro; essere tanto più ragionevole quest’ammissione in quanto, sia le imposte sui sovraprofitti, sia questa avocazione, conservano la natura d’imposta reale e non personale, colpiscono cioè non il contribuente il quale gode il reddito, ma l’azienda la quale produce il reddito. L’azienda ha una figura a sé stante, e lavora non con una parte sola del capitale ma con tutto il capitale, senza distinguere fra capitale proprio degli uni e capitale proprio degli altri.

 

 

Ma a questa osservazione altri commissari replicarono insistendo sull’inopportunità di variare la legislazione vigente, sul pericolo che ove fosse ammesso il principio caldeggiato dalle rappresentanze dei contribuenti, fosse sottratta troppa materia imponibile alla avocazione e venisse meno quel che in sostanza, a parer loro, era stato lo scopo dell’avocazione stessa, ossia quello di fornire un largo gettito al tesoro dello stato. A questo punto la Commissione determinò di passare oltre e di non fare alcuna proposta di innovazione al regolamento governativo, fondandosi sulle medesime ragioni per le quali era stata respinta, come fu detto dianzi, la richiesta di mutare le proposte governative per ciò che si riferiva alla rivalutazione del reddito ordina- rio nei primi tre periodi della guerra.

 

 

Par. 8 – Inclusione nel capitale investito dei titoli di debito dello stato ed altri valori pubblici posseduti dal contribuente.

 

 

La risoluzione. ora presa importò senz’altro analoghe risoluzioni per quel che si riferisce ad un’altra domanda presentata dai contribuenti, ossia a quella di includere nel capitale investito altresì i titoli di debito pubblico, azioni ed obbligazioni private possedute dal contribuente, includendo in questo caso nel reddito netto del contribuente i relativi proventi. È norma seguita in moltissimi casi, che ora qui è inutile specificare perché non si vuole in nessuna maniera dare appiglio al formarsi di una giurisprudenza diversa da quella fino adesso osservata, che non si tenga conto, nel determinare il capitale investito nell’azienda, di quelle somme che il contribuente abbia investito vestito in titoli pubblici, ritenendosi che tale investimento non sia pertinente all’esercizio dell’industria e debba essere invece considerato come una causa di avulsione di una parte del capitale del contribuente dall’intrapresa.

 

 

In tal caso, come non si calcolano nel capitale investito questi valori, così non si calcola neppure nel reddito l’interesse o il dividendo fornito dai titoli stessi. Affermarono innanzi alla Commissione parecchie rappresentanze di contribuenti che tale metodo è illogico. Una società od un contribuente spesso investe parte dei suoi capitali in buoni del Tesoro o in titoli di debito pubblico, non allo scopo di fare uscire quel capitale dal giro dell’industria, ma allo scopo di tenere liquida e pronta una parte del capitale proprio, così da poterla investire, a seconda delle occorrenze, nell’acquisto di materie prime od in nuovi impianti, ovvero allo scopo di poter ottenere prontamente, mediante anticipazione o riporto, somme liquide col dare in pegno i titoli posseduti. Altra volta accade che una società industriale sia costretta, o per salvarsi da una concorrenza eccessiva ovvero per avere una ragionevole influenza in intraprese le quali producono oggetti connessi colla propria produzione, ad investire parte dei propri capitali in azioni di altra società. Neppure questa può essere considerata come un’avulsione di capitali dall’esercizio dell’industria.

 

 

Quale differenza mai vi è per una società di navigazione, tra l’investire una parte del proprio capitale nella costruzione di un cantiere direttamente gerito e l’investire la stessa somma di capitale nell’acquisto della maggior parte delle azioni di una società indipendente la quale abbia costrutto ed esercisca il cantiere? Le due operazioni sono economicamente ed intrinsecamente eguali: in ambedue i casi la società di navigazione possiede e controlla il cantiere; la forma giuridica soltanto è diversa.

 

 

Eppure nel primo caso la somma investita nel cantiere è considerata come parte del capitale investito, nel secondo caso la somma investita nell’acquisto della maggior parte delle azioni della società proprietaria del cantiere non è più considerata parte del capitale investito con conseguenze profonde per quel che si riferisce all’imposta sui sovraprofitti ed all’avocazione. Anche qui la Commissione non ha potuto negare il fondamento economico della ragioni addotte dalle rappresentanze di contribuenti, ma essa non ha opinato di poter dare un avviso contrario alla proposta governativa, per le stesse ragioni per le quali nei casi precedenti si era giunti ad eguale conclusione. Trattasi di innovazione profonda nel sistema tributario che esula dai poteri della Commissione: essa perciò si limita a segnalare al legislatore ed al governo l’importanza del problema, senza prendere su di esso deliberazioni tali da portare ad una modificazione del regolamento per l’avocazione dei sopraprofitti di guerra.

 

 

Coglie però l’occasione per segnalare all’amministrazione delle Finanze la stranezza di alcuni casi che le furono posti innanzi dai contribuenti.

 

 

Accadde persino che, non tenendosi conto dei capitali presi a mutuo e dei capitali investiti in titoli, in certi periodi il capitale investito di talune società anonime abbia potuto essere dalla finanza calcolato in una cifra negativa: il che, senza approfondire la cosa, presenta tali caratteri di assurdità, da far supporre qualche incongrua applicazione delle leggi vigenti; non essendo possibile che il capitale investito da una società la quale esercisce un’industria in una scala abbastanza vasta, produce redditi, paga salari e così via, possa sul serio valutarsi in una cifra negativa ossia minore di zero. Dubita la Commissione che lo stranissimo risultato sia dovuto alla norma seguita dalla finanza di non includere nel capitale investito quello che il contribuente investe nella costruzione di navi.

 

 

Sembra, a detta almeno delle rappresentanze degli interessati, che se una società possiede una nave in esercizio, il capitale relativo debba essere considerato come investito, mentre se la società, trovandosi nell’inizio della sua vita o in via di espansione, destina una parte del capitale alla costruzione di navi nuove, questa seconda parte non è considerata come capitale investito nell’azienda; il che pare grandemente dubbio ed irreale, essendo evidente che una qualsiasi intrapresa, e tanto più un’intrapresa di navigazione, deve tenere continuamente una parte del suo capitale investito sotto forma di nuovi impianti o di nuove costruzioni. Questo capitale così investito non è avulso dall’industria, ma è anzi quello che si può dire essere maggiormente utile al progresso dell’industria: opinare altrimenti equivarrebbe ad ammettere che la condizione normale dell’industria sia la stasi ed anzi la decadenza, poiché un’intrapresa la quale non fa nuovi impianti o nuove costruzioni è condannata irremissibilmente, a breve andare, alla scomparsa.

 

 

Par. 9. – Rapporto fra aumento di patrimonio avocabile ed ammontare delle riserve sociali.

 

 

Una questione sottile è quella la quale si innesta sulla norma contenuta nel progetto ministeriale secondo cui, quando trattasi di società commerciali, l’aumento di patrimonio avocabile non poteva mai essere inferiore all’ammontare delle riserve che le società contribuenti avessero costituito cogli utili in ciascuno dei periodi cui si riferisce l’accertamento dei profitti di guerra, qualunque fosse la forma dell’iscrizione nei bilanci o della ripartizione tra i soci, delle riserve stesse. La Commissione, ad unanimità di voti, è giunta alla conclusione che tale norma debba essere stralciata dal regolamento, come quella la quale è inutile ai fini della avocazione totale dei profitti di guerra e può essere causa di ingiuste tassazioni di somme, le quali non furono mai profitti di guerra e non debbono perciò essere avocate.

 

 

È evidente che, se la norma dovesse essere conservata così come fu inserita nella proposta di regolamento ministeriale e come si conteneva già del resto nel decreto-legge che istituiva l’imposta sugli aumenti di patrimonio, potrebbe darsi, non rare volte, che dovessero essere avocate somme non derivanti da profitti di guerra, per l’accidentale circostanza che quelle somme erano dagli amministratori state mandate a riserva. Suppongasi invero che a riserva siano state mandate dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920 somme ricavate da interessi di consolidato, da dividendi di azioni, da redditi di fabbricati o di beni rustici, da vendita di immobili fatta allo scopo non di speculazione ma di disposizione patrimoniale: queste somme, ove l’ammontare delle riserve fosse per caso maggiore dell’aumento di patrimonio avocabile calcolato per la via ordinaria, sarebbero avocate; cosa la quale non avrebbe nessun fondamento nella legge, nella giustizia e nell’ equità più evidente. Talvolta potrebbe accadere persino che le iscrizioni a riserva fatte per ragioni puramente contabili, dessero luogo ad un’avocazione altrettanto assurda quanto stridentemente ingiusta. Facciamo l’ipotesi, che corrisponde alla realtà, di un metodo speciale seguito nella scritturazione degli ammortamenti. L’ammortamento del fabbricato, dei macchinari e degli altri enti patrimoniali di un’intrapresa industriale, può esser registrato contabilmente in due maniere contabili: secondo la prima maniera, ogni anno il valore d’inventario della macchina che viene svalutato del 5% o di altra congrua percentuale riconosciuta dalla finanza. In questo caso non si costituisce nessuna riserva e non nasce pericolo di avocazione.

 

 

Talvolta però il metodo di scritturazione è un altro: si conserva sempre nell’attivo del bilancio la macchina al valore originario, per esempio di 100.000 lire; ma ogni anno, nel passivo del medesimo bilancio, si iscrive a riserva d’ammortamento la percentuale di cui la macchina in quell’anno è stata svalutata per il suo logorio fisico od economico: supponiamo di 5.000 lire all’anno. Alla fine dei venti anni, nel bilancio della società la macchina che non esiste più figura ancora per il valore di 100.000 lire, ma essendo controbilanciata da una riserva di altrettanta somma, la iscrizione all’attivo non porta nessuna conseguenza dannosa per la società, le due partite equivalendosi e cancellandosi l’una coll’altra. Questo sistema contabile è usato da alcuni contribuenti e merita lode. In bilanci di alcune tra le più note società commerciali italiane ed estere, è seguito questo sistema ed è a giusta ragione lodato come quello che mette innanzi agli occhi degli azionisti e dei terzi quasi la storia degli impianti della società, indicando chiaramente, in tutti gli esercizi successivi, quale sia stato il costo originario degli impianti e quale sia stata la condotta prudente o imprudente della società nell’ammortizzare successivamente di anno in anno gli impianti medesimi. Questa maniera logica ed utile di contabilizzare gli ammortamenti produrrebbe, ove fosse mantenuta la norma che sopra si disse, la più impensata e strana delle conseguenze; inquantoché anche questa riserva, la quale non risponde a nessun arricchimento del contribuente ma fotografa soltanto il progressivo deperimento di valore: degli enti patrimoniali, anche questa riserva darebbe luogo ad avocazione: il contribuente sarebbe privato di una somma, solo perché ha registrato fedelmente nei suoi libri che quella somma egli non la possiede più. Un’altra osservazione ancora: potrebbe darsi che fossero confiscati perfino gli accantonamenti che molti contribuenti – specialmente società – usarono fare in questi ultimi anni allo scopo di pagare le imposte. Spesso invero i contribuenti, non conoscendo a priori quale potesse essere l’ammontare delle imposte sui sovraprofitti da pagare, accantonarono somme in fondi appositi: queste somme così accantonate andrebbero eventualmente ad accrescere il patrimonio avocabile e darebbero luogo alle più imbrogliate e più ingiuste situazioni.

 

 

Ove dovesse essere perciò conservata la norma proposta dal regolamento ministeriale, essa dovrebbe essere per lo meno chiarita, affermandosi che l’ammontare delle riserve di cui si parla dovesse essere depurato di tutte quelle somme le quali non costituissero profitto di guerra. Soltanto in tal caso la norma conserverebbe una parvenza di ragionevolezza: ma essa allora diventerebbe perfettamente inutile, inquantoché il calcolo della somma degli utili di guerra fu già fatto e non occorre ripeterlo un’altra volta.

 

 

La Commissione perciò venne alla conclusione che la norma di cui si parla fosse inutile del tutto e feconda esclusivamente di ingiustizie. In fondo essa concreta un’idea completamente illogica, che è quella di valutare la medesima quantità patrimoniale avocabile in due maniere diverse: in una maniera diretta, che è quella seguita nel regolamento, con la determinazione del reddito netto ottenuto dai contribuenti, e con la detrazione dal reddito netto delle diverse partite che si giudicano costituire il reddito ordinario. Se l’aumento di patrimonio avocabile si conosce già per questa via è assurdo pretendere di valutarlo per un’altra e diversa via quale è quella del calcolo delle riserve; perché le riserve o si compongono di utili di guerra, ed allora si torna a rifare il calcolo già fatto, o sono composte di altre somme aventi diversa origine, ed allora è ingiusto includere queste altre somme.

 

 

Par. 10. – Trattamento fiscale dei sovraprezzi delle azioni ai fini della avocazione dei guadagni di guerra.

 

 

Una questione la quale ha un qualche rapporto con quella già trattata delle riserve delle società commerciali, è quella relativa alla avocabilità dei sovraprezzi delle azioni versate da azionisti durante la guerra.

 

 

È ben noto invero come, per giurisprudenza formatasi innanzi alla guerra, il sovraprezzo della azione sia stato considerato come utile delle società commerciali ed assoggettato perciò all’imposta di ricchezza mobile. La conseguenza più notevole della nuova giurisprudenza fu la diminuzione notevolissima dell’emissione di nuove azioni con sovraprezzi. Le società commerciali ritenendosi ingiustamente lese dalla tassazione, la quale veniva ad assorbire una parte del capitale versato dagli azionisti, abbandonarono il sistema fino allora seguito della emissione con sovraprezzo ed emisero quasi sempre le nuove azioni ad un prezzo eguale al valore nominale, riservandone però, per evidenti ragioni di giustizia, la opzione agli azionisti. In questo modo la finanza non poté più nulla o quasi nulla percepire per l’imposta che la giurisprudenza aveva sancito. La quale giurisprudenza è parsa altresì al legislatore non conforme alla realtà economica; talché nel decreto-legge 24 novembre 1919 per la riforma dei tributi diretti, la tassazione dei sovraprezzi delle azioni fu abolita istituendosi in vece sua, ed ai fini della imposta complementare progressiva sui redditi, la tassazione, la quale unicamente è giustificabile, degli incrementi di valore in generale.

 

 

Comunque sia di ciò, accadde durante la guerra che, per ragioni particolarissime, alcune emissioni di azioni nuove con sovraprezzi furono compiute da società le quali per antica tradizione seguivano questo costume, e da altre le quali per statuto o per la loro condizione di società anonime cooperative dovevano ragguagliare il prezzo di emissione delle nuove azioni a quello delle vecchie, con la aggiunta della quota parte competente delle riserve accumulate in passato. È questo il caso specialmente delle società anonime cooperative a capitale illimitato, le quali non possono negare per statuto l’accesso alla società a nuovi soci e per giustizia devono far pagare da questi nuovi soci le azioni a un prezzo equivalente a quello che realmente spetta ai vecchi azionisti. Tutto ciò si è dovuto premettere per spiegare la risoluzione a cui la Commissione è dovuta venire per quanto riguarda la avocabilità dei sovraprezzi. Se una dichiarazione esplicita negativa non fosse inserita nel regolamento, non vi sarebbe dubbio che un sovraprezzo versato dagli azionisti sarebbe completamente avocato allo stato qualora esso, sommato insieme con tutti gli altri titoli dei contribuenti, costituisca un’eccedenza sul reddito ordinario. La conclusione sarebbe per fermo strana, inquantoché non vi è nessun rapporto fra un versamento di nuovi capitali fatto dagli azionisti e l’utile di guerra: l’avocabilità sarebbe la conseguenza non del concetto a cui si informò la legge 24 settembre 1920, ma il risultato accidentale e non voluto di una giurisprudenza la quale si era formata in altri tempi e per fini tutto affatto diversi. Notisi, a suffragare il concetto dell’ingiustizia della avocazione in questo caso, che ben potrebbe darsi che gli azionisti nuovi si fossero decisi a versare un sovrappiù oltre il nominale sulla azione da essi sottoscritta, inquantoché nelle vecchie riserve erasi, andato ad accumulare una data somma di utili di guerra.

 

 

Questa somma avrebbe ad esempio aumentato le riserve da 30 lire, per ogni, 100 lire nominali di ogni azione, a 50 lire. Era corretto, che, poiché i vecchi azionisti possedevano ognuno di essi un’azione il cui valore era determinato dal capitale versato tutt’ora esistente di 100 lire, dalle vecchie riserve di 30 lire e dalle nuove riserve costituite da profitti di guerra di 20 lire ed in tutto di 150 lire, era corretto che i nuovi azionisti, se volevano partecipare ad eguaglianza di condizione agli utili futuri della società, dovessero versare per l’appunto 150 lire; ma se oggi lo stato in virtù della legge 24 settembre 1920 avoca a sé le 20 lire delle riserve le quali erano costituite da profitti di guerra, viene a mancare la ragione per la quale gli azionisti nuovi si erano decisi a versare le 20 lire di più sul valore delle loro azioni: e ciò nonostante lo stato verrebbe in maniera inopinata ad assorbire anche ciò che essi versarono dei loro risparmi per fronteggiare un utile che i vecchi azionisti possedevano a che oggi ad essi è stato tolto. La stranezza di questa conseguenza e, soprattutto, l’assurdo di considerare una somma versata dagli azionisti come utile di guerra avocabile, hanno indotto la Commissione nel concetto che debba farsi esplicita menzione di questo caso nel regolamento per dichiarare che il sovraprezzo dell’azione versato dagli azionisti non può essere considerato come utile di guerra avocabile. La Commissione ben consapevole che il suo mandato si limita all’applicazione della legge 24 settembre 1920, non afferma null’altro all’infuori di questa verità: cioè che il sovraprezzo sulle azioni di nuova emissione non è avocabile. Non fa nessuna affermazione per quanto riguarda il trattamento che il sovraprezzo medesimo deve avere ai fini dell’imposta ordinaria di ricchezza mobile e neppure ai fini di quella sui sovraprofitti di guerra: essa lascia la trattazione di questa questione e la relativa risoluzione, come è dovere suo, esclusivamente alla competente magistratura. E se nel progetto di regolamento da essa apprestato, si è usata la dizione: «Ai soli fini dell’avocazione non sarà tenuto conto, ecc. ecc.» ciò non significa affatto che ad altri fini se ne debba tener conto – punto che essa non ha voluto minimamente risolvere e lascia del tutto impregiudicato – ma vuole mettere bene in chiaro che la norma proposta si riferisce unicamente all’avocazione.

 

 

CAPITOLO II.

 

 

Significato della quota di 20.000 lire.

 

 

Par. 11. – Significato della quota di 20.000 lire libera da avocazione.

 

 

Un articolo fondamentale nel regolamento ministeriale è quello che aveva il n. 5 e che oggi nelle proposte della Commissione si è trasformato negli articoli 6 e 7. Esso aveva per iscopo di chiarire quale fosse l’aumento di patrimonio avocabile, facendolo consistere in una differenza fra l’ammontare totale dei redditi netti conseguiti dal contribuente dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920 e un altro ammontare comprendente l’insieme delle detrazioni. La differenza deve essere completamente avocata allo stato così come prescrive la legge sulla cui attuazione dobbiamo dare il nostro parere. Uno dei punti fondamentali che dovettero essere risoluti dalla Commissione fu quello del significato da darsi alla detrazione di lire 20.000 prescritta dall’articolo 1 della legge che noi siamo chiamati ad applicare. La legge dice che i profitti realizzati in conseguenza della guerra, sono avocati a favore dello stato per la parte che supera la somma annua di lire 20.000. È parso alla Commissione che il significato di questa norma fosse esplicito e chiarissimo e che nessuna interpretazione, per quanto suffragata dalla autorità della Giunta generale del Bilancio della Camera o della Commissione di Finanza del Senato o del ministro delle Finanze, poteva scrollare quella che derivava evidentemente dalla lettera e dallo spirito della norma medesima. Volendo esaminare l’interpretazione data a questa norma dagli organi legislativi od esecutivi soprariferiti si troverebbe che quelle interpretazioni contraddicono profondamente le une colle altre. Alcuni di quegli organi infatti implicitamente ritennero che si trattasse di una vera quota libera da avocazione di lire 20.000: gli altri si preoccuparono dei rapporti che dovevano intercedere tra l’imposta e la sovraimposta sui sovraprofitti, quella sugli aumenti di patrimonio e la nuova avocazione, nei rispetti appunto della quota libera di lire 20.000.

 

 

Diversi sistemi furono escogitati per regolare questi rapporti; l’ultimo di questi sistemi è quello che era contenuto nel regolamento governativo. Il governo infatti propone che dall’ammontare dei redditi netti del contribuente non sia già tolta la quota annua di lire 20.000, ma sia tolta questa, deduzione fatta dell’imposta e sovraimposta che la grava. Tale risultato è ottenuto, non dichiarando esplicitamente che ciò si vuol fare, ma affermando che da un lato si deve dedurre la quota annua di lire 20.000 e dall’altro lato non si devono dedurre tutte le imposte, compresa quella sui sovraprofitti, le quali hanno colpito il reddito del contribuente, ma solo quella parte delle imposte medesime che colpisce il reddito in eccedenza alle 20.000 lire. È logica la conseguenza che le lire 20.000 debbono sopportare per loro conto tutti i tributi che in passato su di esse hanno gravato, all’infuori di quello sugli aumenti di patrimonio che si considera come assorbito dalla avocazione. E ne viene per conseguenza che la somma lasciata libera al contribuente non risulterebbe in verità di lire 20.000, ma di una somma di gran lunga minore che è difficile valutare in maniera esatta ma che, tenuto conto della imposta di ricchezza mobile, della imposta e sovrimposta sui sovraprofitti di guerra, dei centesimi addizionali dei comuni; delle provincie, delle camere di commercio e degli altri tributi che su quelle lire 20.000 hanno potuto gravare, si ridurrebbe probabilmente a non più di 6.000 lire.

 

 

La Commissione, posta di fronte a questo risultato, non ha potuto non riconoscere ad unanimità di voti che questo non era il concetto del legislatore. I lavori legislativi preparatori della legge 24 settembre non fanno luce completa su di ciò, ma quei commissari che ai lavori legislativi medesimi hanno partecipato non nutrono dubbio che intenzione di coloro i quali hanno discusso ed approvato questa legge era che si volesse sancire un principio di giustizia, che cioè nessuno dovesse dopo la guerra e per causa della guerra rimanere con profitti ottenuti a danno dello stato e dei consumatori. Si riconobbe però che la avocazione totale dei profitti medesimi avrebbe potuto rappresentare d’altro canto una ingiustizia, in quantoché l’esercizio di intraprese industriali e commerciali aveva richiesto rischi e lavori specialissimi ai contribuenti, sicché parve corretto di lasciare ai contribuenti stessi un resto annuo di lire 20.000, al disopra di cui tutto il profitto ottenuto doveva essere avocato allo stato. Se questo è il concetto fondamentale a cui si è ispirato il legislatore, logiche ne derivano le conseguenze per l’applicazione della legge 24 settembre: il calcolo dell’aumento di patrimonio avocabile deve cioè essere condotto nella seguente maniera: si calcola in primo luogo quale è l’ammontare dei redditi netti ottenuti dal contribuente lungo tutto il periodo di guerra dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920; si deducono quindi da questo ammontare tutte le spese, perdite ed imposte che il contribuente ha dovuto pagare e così, a cagion di esempio, si deducono le imposte e sovrimposte sui profitti di guerra, le altre imposte e spese considerate detraibili, il reddito ordinario che già il contribuente ricavava prima della guerra e che non può essere considerato come utile derivante dalla guerra medesima.

 

 

Fatte queste detrazioni, l’eventuale resto deve essere tutto avocato allo stato, ad eccezione delle prime 20.000 lire all’anno.

 

 

Il calcolo è semplice e corretto senza complicazioni contabili e senza sofistiche interpretazioni le quali avrebbero mutato la volontà del legislatore. In questo modo nulla di quanto il contribuente doveva pagare a titolo di imposta cessa di essere pagato, ed in principal luogo tutto l’ammontare delle imposte e sovraimposte sui sovraprofitti di guerra deve completamente esser da lui versato allo stato.

 

 

Infatti la concessione delle 20.000 lire di quota libera viene fatta soltanto nei casi in cui la somma residua raggiunga almeno le 20.000 lire all’anno: se, fatte tutte le detrazioni che sopra sono state accennate, compresa quella della imposta e sovraimposta sui sovraprofitti di guerra, accade che l’utile residuo del contribuente non raggiunga neppure le lire 20.000 moltiplicato sei (supponendo per brevità che siano 6 gli anni del periodo di guerra) ossia lire 120.000; supponendo cioè che il guadagno di guerra, ossia l’aumento di patrimonio ottenuto dal contribuente, sia ad esempio in tutto il periodo della guerra soltanto di 50.000 lire, peggio per il contribuente: lo stato non gli deve restituire nulla di quanto egli ha già pagato a titolo di imposta e sovraimposta sui sovraprofitti fino a toccare le lire 120.000; egli deve rimanere con 50.000 lire per tutti i sei anni.

 

 

Ove invece l’utile residuo del contribuente per tutto il periodo di guerra sia stato di 500.000 lire lo stato gli lascia libere da avocazione le prime 120.000 lire (20.000 moltiplicato sei) e gli assorbe tutte le rimanenti 380.000 lire. In altre parole la quota di 20.000 lire annue non è mai una quota garantita al contribuente, ma è semplicemente una quota lasciata libera se essa esiste.

 

 

La Commissione non si è nascosta la conseguenza che la sua interpretazione produce, ossia quella che possa eventualmente darsi il caso, non frequente in verità ma possibile in determinate circostanze che al contribuente debba in conseguenza della avocazione così ordinata, restituirsi non mai una parte delle altre imposte comunque pagate compresa quella sui sovraprofitti di guerra, ma una parte dell’imposta che chiameremo intermedia sugli aumenti di patrimonio, ordinata coi decreti 24 novembre 1919, n. 2.164 e 22 aprile 1920, 495. Questa imposta sugli aumenti di patrimonio consentiva soltanto una detrazione unica di lire 20.000 per tutto il periodo di guerra e quindi può darsi che la avocazione odierna la quale consente invece una quota libera di lire 20.000 all’anno, faccia si che in certi casi determinati e specialmente per i contribuenti meno favoriti dalla fortuna, il debito di imposta sia minore di quello che sarebbe stato con la precedente imposta sugli aumenti di patrimonio.

 

 

Riconosciuto ciò, la Commissione non si è lasciata scrollare dal suo convincimento, in quantoché ha ritenuto che tale fosse la conseguenza legittima e doverosa del mutamento di opinione del legislatore in confronto ai profitti di guerra. Si può dire infatti che il legislatore è passato a questo proposito attraverso a tre diverse fasi. In una prima fase si è contentato di percuotere i sovraprofitti di guerra colla imposta e sovraimposta relativa, la quale giungeva in casi estremi ad assorbire circa i due terzi del reddito: in una seconda fase il legislatore ha ritenuto che l’imposta precedente non fosse sufficiente ed ha voluto colpire l’intero aumento di patrimonio ottenuto dal contribuente durante il periodo di guerra con una imposta progressiva dal 5 all’80%; in una terza fase, ossia quella di cui ci occupiamo, il legislatore, lasciando invariata la precedente imposta sui sovraprofitti, ha affermato che l’imposta intermedia, quella sugli aumenti di patrimonio, non era bastevole, ma doveva essere portata sino alla confisca totale, ossia fino alla aliquota del 100 per cento. Ma appunto perché affermava il principio della avocazione totale, ritornava in parte sui propri passi e reputava giusto che fosse al contribuente lasciato non più soltanto una quota libera di lire 20.000 per tutto il periodo di guerra, ma un’altra di lire 20.000 per ogni anno. Il che era corretto ove si ragioni dal punto di vista da cui il legislatore partì; inquantoché potevano considerarsi sufficienti le lire 20.000 uniche per tutto il periodo di guerra quando l’avocazione non era completa e lasciava ancora un discreto margine annuo di profitto nelle mani dei contribuenti: ma quando invece nulla più si ritenne di dover lasciare al contribuente, fu considerato giusto che si lasciasse a lui una quota iniziale, stabilita nella cifra di lire 20.000 appunto per dare un giusto compenso al maggior lavoro che il contribuente aveva dovuto sopportare per causa della guerra. È un nuovo concetto che ha presieduto all’opera legislativa e bisogna che le conseguenze di questo nuovo concetto siano rigidamente applicate, sia nei confronti colla finanza come in quelli coi contribuenti: e dal concetto medesimo non può non derivare l’interpretazione che la Commissione unanime ha dato, rispetto al significato delle 20.000 lire di quota annua. Queste devono essere detratte nella loro interezza, ove trovino capienza nel profitto di guerra del contribuente.

 

 

CAPITOLO III.

 

 

Detrazioni.

 

 

Par. 12.- La detrazione del minor prezzo al 30 giugno 1920 dei titoli, di portafoglio in confronto al prezzo d’acquisto.

 

 

Passando ora alle altre detrazioni che devono farsi dall’ammontare dei redditi netti per ottenere l’aumento di patrimonio avocabile, si comincerà a dire delle detrazioni le quali non furono ammesse dalla Commissione per passare poi a quelle di cui la Commissione ritenne giusta l’ammissione. Le rappresentanze degli industriali furono unanimi nel chiedere che fosse ammessa la detrazione del minor prezzo che al 30 giugno 1920 avevano i titoli di portafoglio posseduti dai contribuenti in confronto al prezzo di acquisto. Esse suffragarono la loro tesi nella seguente maniera. I contribuenti, e specialmente le società commerciali, hanno dovuto acquistare o hanno liberamente acquistato durante il periodo di guerra, o possedevano già prima, titoli pubblici svariati.

 

 

È giurisprudenza finora costante che le perdite o i guadagni dei titoli in portafoglio non debbano essere considerati ai fini della tassazione per l’imposta di ricchezza mobile, se non quando la perdita o il guadagno sia realizzato. Se un titolo è stato acquistato a 100 lire e fu rivenduto a 150 lire e il guadagno risulta dai bilanci della società, il guadagno medesimo di 50 lire, essendo stato realizzato, concorre a formare l’utile tassabile con l’imposta di ricchezza mobile. Per la stessa ragione che il titolo fu rivenduto per 50 lire, la perdita di 50 lire sarà considerata nel conto profitti e perdite e concorrerà a diminuire l’utile tassabile per l’anno in cui la vendita si è verificata. Ma la finanza, suffragata da una giurisprudenza oramai costante, si è sempre rifiutata a considerare come perdita, ed ha riconosciuto non si potesse considerare come utile, la semplice diminuzione o il correlativo aumento di valore che si fosse verificato nei titoli, finché essi rimanevano nel portafoglio del contribuente. Non ha avuto mai importanza ai fini degli accertamenti di reddito, la circostanza che un titolo acquistato da una società per 100 lire salga alla chiusura di un determinato esercizio a 150 lire ovvero scenda a 50 lire; del guadagno o della perdita, non essendo ancora stata realizzata, non si può tener conto: se ne terrà conto se e quando il contribuente alienerà il titolo e il guadagno o la perdita saranno diventati effettivi.

 

 

Questa giurisprudenza costante era stata accolta dai contribuenti e dalla finanza nella considerazione che soltanto così fosse possibile evitare l’arbitrio di considerare come utili o perdite quelli che potevano essere soltanto fenomeni temporanei dovuti semplicemente ad oscillazioni di valore susseguite da altre oscillazioni in senso contrario. Né il rinviare la tassazione o la detrazione al momento del realizzo danneggiava l’una o l’altra delle due parti. In un’epoca nella quale il saggio dell’imposta di ricchezza mobile non variava oltre misura, era indifferente su per giù alla finanza percepire un’imposta del 10% in un anno piuttosto che in un altro ed era altresì indifferente al contribuente di ottenere la detrazione, a titolo di spese, di una perdita pagando un 10% di meno di imposta in un esercizio piuttosto che in un altro.

 

 

Le condizioni – affermano i contribuenti – sono venute a mutare profondamente in seguito alla legislazione straordinaria sui profitti di guerra. Ben diverse conseguenze per i contribuenti si hanno a seconda che la tassazione cada nel periodo di guerra, dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920, ovvero dopo di esso: nel primo caso il profitto viene colpito col 100% e nel secondo soltanto con le imposte normali, sia pure portate al 18% dal decreto-legge 24 novembre 1919. E correlativamente, ove si tratti di perdite, è molto importante decidere se la detrazione della perdita avvenga durante il periodo di guerra ovvero dopo: nel primo caso il contribuente ottiene il sollievo di 100 lire d’imposta per ogni 100 lire di perdita ammessa, mentre nel secondo caso il contribuente otterrebbe soltanto un sollievo di 18 lire d’imposta per ogni 100 lire di perdita.

 

 

Le rappresentanze interrogate affermano che si sono date inoltre durante la guerra circostanze particolari le quali suffragano la loro tesi, per cui si dovrebbe considerare come perdita la differenza di valore per i titoli tutt’ora posseduti al 30 giugno 1920, tra il prezzo a questa data ed il prezzo di acquisto.

 

 

Dicono invero esse in primo luogo:

 

 

  • 1) la legge medesima le obbligò ad investire una parte dei loro profitti di guerra, e precisamente un terzo dei profitti mandati alla riserva straordinaria di accantonamento e rispetto, in titoli di debito pubblico. Per questa parte, la perdita sofferta per la diminuzione di valore avvenuta, ad esempio, nel consolidato 5%, fra il prezzo di sottoscrizione che poté essere di 90 lire o di 87,50 e il minor prezzo al 30 giugno 1920 di circa 70 lire, fu dovuta al comando del legislatore e non è giusto perciò che i contribuenti ne subiscano le conseguenze e che essi siano obbligati a pagare lire 87,50 allo stato di profitti di guerra come se le possedessero tuttavia, mentre nella realtà essi posseggono soltanto un titolo comperato per ordine del governo, il quale titolo alla data del 30 giugno 1920 aveva a mala pena il valore di 70 lire. Dicono i contribuenti di essere disposti a dare tutto ciò che essi posseggono e precisamente o il titolo o il valore del titolo stesso, ma di non essere per giustizia obbligati a pagare più di quanto essi posseggono;
  • 2) acquistarono le società contribuenti durante la guerra anche altri titoli di stato al di fuori di quelli che per legge erano obbligati ad investire sotto quella forma, ma lo fecero sia per dovere di patriottismo, sia perché in ogni maniera premuti dalle autorità governative, le quali facevano, in tutti i modi, presente la necessità assoluta di sovvenire lo stato mediante abbondanti sottoscrizioni: non essere giusto che i contribuenti, soltanto perché obbedivano a questi consigli che assumevano talvolta l’aspetto di ingiunzioni, soltanto perché fecero il loro dovere verso il paese, siano ora costretti a pagare, come si è detto innanzi, tutte le lire 87,50 di profitto lucrato quando invece essi posseggono soltanto un titolo che vale una somma minore;
  • 3) in terzo luogo le società contribuenti dovettero spesso, per le necessità assolute della loro intrapresa e per mettersi in grado di fronteggiare le richieste continue di forniture da parte del governo, investire una parte del loro capitale in azioni di società collegate con esse per affinità industriali: non essendo possibile spesso di poter attendere ad una lavorazione senza essere sicuri di poter avere o le materie prime da altre società congeneri o di poter fare elaborare ulteriormente i propri prodotti da altre intraprese dedicate appunto a queste successive elaborazioni. Se in tali circostanze alcune società acquistarono titoli da altre società, lo fecero per necessità di esercizio dell’industria. Quest’impiego deve essere considerato come un impiego industriale e deve perciò ammettersi che le azioni acquistate possano essere ammortizzate per la perdita che eventualmente esse hanno subito. Il ribasso di valore accaduto in una azione, supponiamo da 100 lire a 70 lire, è la conseguenza del diminuito valore degli impianti industriali e di altre circostanze che influirono sulla valutazione patrimoniale della società di cui si erano comperate le azioni. Se invece di provvedere agli ampliamenti industriali in questa forma indiretta, la società avesse fatto i suoi impianti direttamente, giustizia avrebbe voluto che si fosse tenuto conto delle perdite realmente, verificatesi nella valutazione degli impianti: per la stessa ragione devesi tener conto della perdita sopportata nel valore delle azioni comprate per ragioni di connessione industriale, anche se le azioni medesime non sono ancora state realizzate al 30 giugno 1920.

 

 

Queste ragioni attentamente considerate dalla Commissione apparvero di peso notevole e furono perciò oggetto di lunga discussione; alla fine della quale la Commissione tuttavia ritenne di non poter discostarsi dalla regola sempre osservata in passato che il momento della imputazione al conto profitti e perdite, sia degli aumenti di valore come delle diminuzioni, dovesse essere esclusivamente quello del realizzo, effettivamente verificatosi, del titolo posseduto dal contribuente. È questo un principio cardinale il quale non potrebbe essere scrollato senza motivi gravissimi che alla Commissione non parve di riscontrare nel momento presente. Se quel principio dovesse essere abbandonato, le conseguenze dovrebbero essere ben più vaste di quelle che furono messe innanzi dalle rappresentanze dei contribuenti. Non vi sarebbe in verità ragione di tener conto soltanto delle differenze negative di valore tra la quotazione al 30 giugno 1920 ed il prezzo d’acquisto: si dovrebbe tener conto altresì delle differenze positive di valore, si dovrebbe cioè fare una rivalutazione generale al 30 giungo 1920 di tutti i titoli di portafoglio a quell’epoca posseduti, portandosi ad aumento di profitto gli aumenti di valore e a diminuzione di profitto le diminuzioni avvenute. Ciò non fu chiesto da nessun contribuente e la Commissione non ritenne di dover proporre una innovazione così radicale nei metodi di valutazione degli utili e delle perdite. Tale innovazione non si sarebbe infatti potuta arrestare a questo punto, inquantoché la finanza avrebbe avuto ragione di chiedere che ogni altro ente patrimoniale dovesse essere assoggettato al medesimo processo: ad esempio gli edifici, le macchine è quant’altro era nel patrimonio del contribuente all’1 di agosto nel 1914. In questo caso i contribuenti sarebbero stati gravemente percossi, perché non può negarsi che il valore degli enti patrimoniali sia grandemente aumentato tra le due date estreme del periodo di guerra. Si sarebbe in tal caso risolta affermativamente, a danno dei contribuenti, una gravissima questione la quale è tutt’ora dibattutissima nella scienza e nella pratica, se cioè costituisca guadagno di guerra la semplice variazione di valore di un ente patrimoniale fra le due date estreme del periodo di guerra. È guadagno di guerra l’aumento di valore di un terreno, di una casa, o di una macchina da 100.000 a 300.000 lire avvenuto fra l’1 agosto 1914 e il 30 giugno 1920? Evidentemente no, ove tale differenza di valore sia semplicemente una conseguenza del diverso metro monetario con cui i valori sono misurati a quelle date: le 300.000 del 30 giugno 1920 possono essere una quantità minore delle 100.000 lire all’1 agosto 1914 e perciò il legislatore si è astenuto finora, né mai la finanza ha pensato di procedere ad una rivalutazione degli impianti industriali già esistenti all’1 agosto 1914. E la presente Commissione, come si vedrà poi, propone che, ai fini della avocazione, si faccia a meno di fare la stessa rivalutazione anche per una quota parte del monte merci posseduto dal contribuente, per quella parte cioè che può essere considerata come il minimo necessario all’esercizio dell’industria. Se dovesse esser fatta una rivalutazione degli enti patrimoniali alle due date, sarebbe necessario tener conto della svalutazione della moneta in guisa da poter tassare non tutte le eccedenze nominali di valore tra le due date, ma quella parte soltanto delle eccedenze di valore che può essere considerata come superiore alla eccedenza media spiegabile con la svalutazione della moneta. Se noi ad esempio supponiamo che le 300.000 lire del 30 giugno 1920 equivalgano alle 100.000 lire dell’1 agosto 1914, non potrà essere considerato come aumento effettivo di patrimonio l’aumento il quale stia entro quei limiti da 100 a 300: sarebbe invece da considerarsi come aumento di patrimonio tassabile la eccedenza oltre le 300.000 lire, perché tale eccedenza costituirebbe un vero lucro netto per il proprietario.

 

 

Tutto ciò però avrebbe portato la Commissione in un campo estraneo al proprio compito. Colla legge del 24 settembre 1920 il legislatore non ha mai inteso che si dovesse fare una rivalutazione completa di tutti gli enti patrimoniali posseduti dai cittadini in Italia; e l’impresa sarebbe gigantesca, irta di difficoltà spaventevoli. In nessun paese del mondo si è pensato finora di affrontare tale compito che ben può dirsi sovrumano. I risultati per la finanza sarebbero probabilmente inferiori alla fatica ed alla spesa sostenuta ed alla perturbazione che si arrecherebbe in tutta l’economia nazionale. Dovendosi, come si disse, per giustizia tener conto della svalutazione monetaria ed usare un medesimo metro monetario per misurare i valori alla data dell’1 agosto 1914 ed a quella del 30 giugno 1920, ben piccole risulterebbero probabilmente le eccedenze nette tassabili, forse per la maggior parte dei contribuenti controbilanciate dalle perdite per difettosa sovravalutazione. Il legislatore è partito in Italia, come negli altri paesi del mondo, da un concetto più semplice: cioè quello di tassare – ed in Italia avocare completamente – i lucri ottenuti dai contribuenti durante il periodo della guerra. Per lucro s’intende il maggior reddito ottenuto anno per anno dall’esercizio della industria e del commercio, senza preoccuparsi delle variazioni di valore del capitale investito dal contribuente medesimo nelle aziende. Il legislatore insomma non volle avocare a sé il capitale con cui il contribuente esercitava l’industria od il commercio ma disse soltanto al contribuente stesso: «tu con un dato capitale che possedevi prima e che io ammetto continui a rimanere nel tuo patrimonio, senza preoccuparmi se esso sia valutato oggi in una cifra maggiore o minore di prima, hai ottenuto in tutti gli anni della guerra un determinato reddito. Se questo reddito supera il reddito ordinario devi dare a me tutto il supero eccettuate le prime 20.000 lire annue». Questo è ciò che disse il legislatore: occorre perciò per poter considerare come avocabile una certa somma, che questa consista in frutti annui i quali si sono distaccati dalla sorte principale e sono diventati consumabili dal contribuente, senza intaccare la capacità primitiva di produzione del capitale investito.

 

 

Occorre perciò – applicando il ragionamento al caso nostro -che il titolo pubblico posseduto dal contribuente, non continui a formar parte del capitale ma sia già stato realizzato, cosicché si sia potuto riconoscere quant’è il soprappiù o il meno in confronto del prezzo d’acquisto. Soltanto il soprappiù potrà essere considerato come utile, ed il meno dedotto come perdita dall’utile annuo goduto dal contribuente. Se così non fosse, accadrebbe che il contribuente, il quale si è veduto ammettere in perdita la differenza negativa tra 87,50, prezzo di sottoscrizione del consolidato 5% e 70 prezzo corrente al 30 giugno 1920, tenendo il titolo per qualche anno, lo vedesse poi riaversi ad 80 e magari anche a 90 e lo vendesse a quest’ultimo prezzo, ricuperando tutt’intera la perdita che la finanza gli avrebbe riconosciuta nel momento della avocazione. Per evitare ciò sarebbe stato necessario istituire un fondo speciale di riserva, a favore di cui avrebbero dovuto andare a fluire tutti gli eventuali soprappiù di prezzo ottenuti dal contribuente al momento del realizzo, in confronto alla valutazione al 30 giugno 1920. Ma è evidente che questo fondo ben difficilmente avrebbe potuto essere alimentato, inquantoché il contribuente non avrebbe avuto nessun interesse a vendere il suo titolo ad un prezzo superiore a 70, perché tutto il sovrappiù ottenuto avrebbe dovuto andare nel fondo ed essere avocato allo stato; a meno che il titolo fosse stato conservato abbastanza a lungo da poterlo vendere ad un prezzo superiore ad 87,50 nel qual caso l’eccedenza oltre 87,50 avrebbe potuto rimanere al contribuente. Tutto ciò avrebbe complicato grandemente la contabilità della avocazione ed avrebbe nociuto a quella che è una esigenza sua, ossia alla più pronta e rapida definizione della somma di imposta dovuta dal contribuente; cosicché si possa ritornare sollecitamente alla normalità, senza più subire le conseguenze di un periodo di guerra di cui il legislatore ha voluto non rimanesse traccia positiva nel patrimonio del contribuente medesimo.

 

 

Aggiunsero alcuni commissari che l’ammissione delle perdite sui titoli non è neppure moralmente ammissibile. Non giova dire che quell’investimento fu fatto talvolta per ordine espresso e tal altra per consiglio imperioso del governo, inquantoché l’investimento, anche se non fosse stato ordinato, avrebbe dovuto, dai contribuenti essere egualmente fatto per ragioni imperiose di dovere verso la patria. Essi sottoscrissero ai prestiti governativi perché sottoscrivere era una necessità di difesa contro il nemico e di salvezza non solo degli utili ottenuti ma del patrimonio antico posseduto dal contribuente e di tutto ciò che doveva essere più caro al contribuente medesimo al di là del patrimonio. Se la deduzione della perdita non realizzata fosse ammessa, accadrebbe che il contribuente in questo caso accollerebbe allo stato, pagando una minore somma d’imposta per avocazione, l’intera differenza tra il prezzo di sottoscrizione ed il prezzo al 30 giugno 1920, mentre gli altri privati contribuenti, che pur sottoscrissero col proprio patrimonio non derivante da utili di guerra, dovettero accollarsi quella perdita ed ancora la subiscono e non si sa quando potranno risarcirsene grazie ad un aumento futuro di valore del titolo di stato. Quest’osservazione sebbene non fosse parsa persuasiva a tutti i commissari, si aggiunse alle altre sovraesposte, in virtù delle quali la Commissione non poté decidersi ad accogliere le richieste dei contribuenti, sicché nessuna proposta la Commissione fa al riguardo e lascia che il sistema vigente da tempo rimanga invariato.

 

 

Par. 13. – Del salario o stipendio dovuto ai famigliari del contribuente.

 

 

Talune rappresentanze chiesero altresì una innovazione al sistema vigente per l’imposta di ricchezza mobile, per quello che tocca le detrazioni a titolo di stipendi, salari ed assegni pagati dal contribuente e sinora non ammesse in spese.

 

 

Una ingiustizia la quale ferisce spesso molti contribuenti è il diniego che viene frapposto dalla finanza ad ammettere come spesa il salario che il contribuente, specialmente piccolo contribuente individuale, paga alla moglie o al figlio il quale lavora insieme con lui nella bottega o nel laboratorio. Osserva il contribuente: «io prendo ai miei stipendi un operaio o commesso estraneo alla mia famiglia; ed il salario a lui pagato mi viene giustamente dedotto dal provento lordo a titolo di spesa. Ma se per risparmiare l’operaio o commesso estraneo, io faccio lavorare il figlio o la moglie, la logica vorrebbe che mi si ammettesse come spesa il salario che il figlio o la moglie avrebbero potuto guadagnare e che in realtà meritano e guadagnano alle mie dipendenze. Invece tale detrazione non mi è concessa».

 

 

L’ingiustizia diede origine a lagnanze anche dinanzi alla nostra Commissione e fu esplicitamente richiesto in memoriali stampati che venisse concessa la detrazione a titolo di salario o stipendio per ogni figlio od altro membro della famiglia del contribuente che gabbia effettivamente lavorato nell’azienda sostituendo personale mercenario. La Commissione non si nascose che la richiesta è fondata su motivi di giustizia ed alcuni membri suoi specialmente fecero rilevare come il diniego opposto a considerare questa spesa come detraibile, ferisca profondamente specialmente le piccole aziende in cui famiglie numerose, ben affiatate fra loro, devote al loro capo, consacrano tutte le loro forze per la prosperità della cosa comune. E certamente questa considerazione ha un gran peso; ma parve alla Commissione che sovrastasse a questa considerazione di giustizia innegabile e sotto certi rispetti profondamente sentita dall’animo popolare, l’altra considerazione da cui il legislatore dell’imposta di ricchezza mobile era stato mosso nel negare in maniera formale il diritto alla detrazione in simili casi. Il pericolo a cui il legislatore volle ovviare fu quello della frode.

 

 

Troppo facile sarebbe ad un qualsiasi commerciante o industriale di sottrarre alla imposta – e nel caso nostro sottrarre alla avocazione – una parte dei suoi profitti realmente ottenuti, pretestando lavori forniti nella azienda dai suoi figli o dalla moglie. Il semplice fatto che qualche membro della famiglia occasionalmente o anche per gran parte del giorno si trovi presente nella bottega o nel laboratorio, non è ragione sufficiente perché si debba considerare quel membro della famiglia come realmente lavorante.

 

 

Testimonianze compiacenti potrebbero essere addotte per provare ad esuberanza che la moglie od il figlio effettivamente lavorarono nell’azienda paterna. Una volta ammesso il principio, sarebbe difficile negare la sola maniera di prova possibile in tali casi che è la prova testimoniale: il che aprirebbe la porta a frodi le quali danneggerebbero fortemente la finanza. Perciò la Commissione, pure augurando che in avvenire si possa trovar modo di contemperare le ragioni della giustizia con le esigenze della finanza, decise di passare oltre a questa richiesta dei contribuenti.

 

 

Par. 14. – Elevazione del reddito ordinario minimo sopra lire 2.500 in ragione della progressiva svalutazione della moneta.

 

 

Così pure non poté ammettere un’altra richiesta presentata dalla Associazione dei commercianti, secondo cui il reddito ordinario minimo avrebbe dovuto essere elevato, dalle lire 2.500 stabilite dalla legge d’imposta sui profitti di guerra, ad una cifra superiore in relazione alla progressiva svalutazione della moneta. Osservarono queste rappresentanze che se lire 2.500 potevano essere considerate sufficienti alla vita di un modesto negoziante nel 1914, più non lo furono negli anni successivi: sicché quella cifra avrebbe dovuto essere aumentata a 3.500, 5.000, 6.000, 10.000, in guisa tale da equipararsi alle 2.500 originarie. Per accogliere questa richiesta sarebbe stato necessario variare una norma esplicita di legge, una norma, per giunta, la quale è contenuta nella legislazione precedente per l’imposta e sovrimposta sui profitti di guerra che la maggioranza della Commissione ritiene di non aver il compito di mutare, salvo per quanto sia necessario ai fini dell’avocazione. Ma già fu detto innanzi per quali motivi la Commissione, a maggioranza, non abbia potuto ritenere opportuno di variare il concetto del reddito ordinario che fu base per l’applicazione delle imposte sui sovraprofitti di guerra, e se quel concetto fu mantenuto fermo in tesi generale non è possibile variarlo ora in questo caso particolare del suo minimo: onde la richiesta non fu considerata meritevole di approvazione.

 

 

Par. 15. – Del trattamento dei compensi dei dirigenti ed amministratori di società commerciali ai fini della avocazione dei profitti di guerra.

 

 

Del pari la Commissione non ritenne di poter seguire le rappresentanze delle società commerciali quando richiesero che essa, con deliberazione esplicita, affermasse un parere suo nel senso che i compensi assegnati agli amministratori delegati, ai dirigenti, ai procuratori, ai consiglieri di amministrazione di società, dovessero essere considerati come redditi di categoria C) e non redditi di categoria B) dell’imposta di ricchezza mobile. Chiesero le rappresentanze dei contribuenti che tale avviso fosse espresso in maniera esplicita inquantoché esse ritengono che sia sofistica la distinzione la quale vien fatta nei compensi pagati agli amministratori e dirigenti di società a seconda che essi siano stabiliti in cifra fissa ovvero in cifra variabile secondo gli utili della società: trattarsi sempre di compenso per un lavoro prestato che in un caso si reputa opportuno stabilire in cifra fissa, mentre in altri casi lo si commisura agli utili ottenuti dalla società: essere conforme agli interessi collettivi che i dirigenti di una società siano pagati nella misura nella quale effettivamente contribuiscono al progresso della società medesima: essere questo un principio talmente desiderabile, che ora da molti lo si invoca anche per le maestranze in generale col nome di partecipazione degli operai ai profitti: nessuna differenza può dal punto di vista economico, farsi tra il compenso variabile ed il compenso fisso: ambedue le forme perciò di compenso, vogliono essere collocate nella categoria dei redditi di lavoro, ossia nella categoria C) dell’imposta di ricchezza mobile.

 

 

La Commissione non ritenne di poter accogliere il desiderio dei contribuenti di manifestare un’opinione qualsiasi, in un senso o in una altro, su questa materia. Essa afferma a questo riguardo, a maggioranza, il suo netto proposito di non voler esercitare nessuna influenza né in un senso né in un altro sulla giurisprudenza, che via via si è formata sotto questo rispetto: essa ben sa che questa giurisprudenza è stata oscillante e che in taluni casi, pur trattandosi di compensi variabili, li ha collocati talvolta nella categoria B) tal altra nella categoria C). Comunque si sia di questa giurisprudenza, la Commissione, a maggioranza, ritiene di non dovere influire su di essa, anche se la conseguenza di una eventuale decisione delle competenti autorità di collocare un reddito di questa specie nella categoria B) ovvero nella categoria C) conduca al risultato che nel primo caso quel reddito sia considerato avocabile e nel secondo caso non lo sia. La Commissione lascia, come prima, alla giurisprudenza di trarre tutte le conseguenze che dalla decisione sua logicamente deriveranno.

 

 

Premesso questo, essa ha ritenuto suo dovere di affermare, che nei casi nei quali un compenso qualsiasi pagato agli amministratori sia considerato come utile avocabile (e su questo punto, ripetesi, la Commissione non vuole menomamente fare alcuna affermazione in nessun senso) debbano, per ragioni di giustizia, detrarsi dal reddito stesso le imposte precedentemente pagate in ragione di esso. Se, ad esempio, un compenso pagato ad un amministratore, di 100.000 lire, sarà per qualsiasi ragione considerato come parte del reddito della società e quindi sarà in tutto o in parte avocato allo stato, si dovrà tener conto che già su quelle 100.000 lire la società direttamente, ovvero l’amministratore, hanno pagato le imposte di ricchezza mobile, sui sopraprofitti di guerra o le imposte speciali sugli amministratori e dirigenti di società commerciali. Di queste imposte si dovrà tener conto nel calcolare il reddito avocabile allo stato e l’erario dovrà riscuotere soltanto quel di più che rimarrà a mano del contribuente quando questi abbia provveduto al pagamento delle imposte precedenti.

 

 

Tale suo concetto, il quale, come si vede, è subordinato all’ipotesi fatta che una certa somma pagata a titolo di compenso sia stata considerata dall’autorità competente come utile avocabile, la Commissione volle esplicitamente affermare in una proposta contenuta nell’articolo 9 del progetto di regolamento da essa compilato.

 

 

Par. 16. – La perdita per il rimborso in moneta straniera di obbligazioni estratte durante la guerra.

 

 

Su un punto la Commissione non ritenne necessario fare alcuna proposta in occasione del regolamento, ed è il seguente; se sia detraibile la differenza tra la somma effettivamente pagata in lire italiane per il rimborso dovuto in moneta straniera di obbligazioni estratte ed il valore nominale dell’obbligazione stessa; differenza la quale costituisce indubbiamente una perdita dell’ente emittente. Parve alla Commissione che non occorresse statuire particolarmente su questo punto, poiché è sembrato evidente che se un ente il quale abbia emesso obbligazioni al valore nominale di lire 500 obbligandosi al pagamento degli interessi ed al rimborso della obbligazione in oro od in una qualche moneta estera, ove a causa del rialzo del cambio avvenuto dopo l’1 agosto 1914 il rimborso importi una somma superiore a quella nominale, questo sovrappiù sia certamente una perdita la quale deve essere accollata agli esercizi in cui essa si verifica. L’ente emittente, come avrà potuto ottenere lucri per differenze positive di cambi, così ha dovuto subire perdite per differenze negative dei cambi medesimi: il rialzo dei cambi è connesso con fenomeni determinatisi durante la guerra ed in seguito ad essa. L’ente emittente che deve fare il servizio delle obbligazioni emesse secondo un dato piano di ammortamento, non potrebbe caricare sulle spese una perdita per obbligazioni estratte in più di quelle portate dal piano di ammortamento: ma la perdita sopportata entro i limiti del piano medesimo, si riferisce senza dubbio agli esercizi in cui l’estrazione avviene e deve senz’altro essere considerata secondo i principi generali come una spesa detraibile. Non è sembrato perciò necessario alla Commissione di far cenno di ciò nel regolamento, bastando all’uopo il richiamo che alle norme generali si fa nella presente relazione.

 

 

Par. 17. – Delle detrazioni per le quali fu espresso parere favorevole.

 

 

Passando ora all’esame delle detrazioni per cui fu ritenuto opportuno di stabilire espressamente nel regolamento il diritto alla detrazione, giova notare che le detrazioni stesse sono indicate tutte nel proposto articolo 7 in numero di 12. Di alcune di queste già si è ragionato, come ad esempio:

 

 

Reddito ordinario:

 

 

quella al n. 1 la quale concerne i redditi ordinari conseguiti dal contribuente, da determinarsi con le stesse norme dettate in tema di imposta e sovraimposta sui profitti (redditi) realizzati in conseguenza della guerra. Su questo punto già furono dette dianzi le ragioni per le quali non si ritenne di dover, variare alcunché intorno al modo con cui il medesimo reddito ordinario era valutato precedentemente.

 

 

Par. 18. – Imposta e sovrimposta nei profitti di guerra.

 

 

La imposta e sovrimposta che gravano sui profitti (redditi) realizzati dal contribuente in conseguenza della guerra. L’indicazione della Imposta e sovraimposta di cui al presente numero, ha per iscopo di indicare che il contribuente deve innanzi tutto solvere l’intero suo debito di imposta e sovrimposta sui sovraprofitti di guerra innanzi che si debba calcolare quale sia l’ammontare del profitto da lui ottenuto e da cui, ove vi sia capienza, si dovrà dedurre la quota di lire 20.000.

 

 

Par. 19. – Erogazioni di beneficenza, assistenza e cultura.

 

 

Le somme che il contribuente dimostri di aver prelevato dai redditi netti ed erogate in beneficenza straordinaria, assistenza civile, cultura, ed altre opere di carattere pubblico durante il periodo dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920.

 

 

Queste detrazioni erano già proposte dal governo nel suo schema di regolamento ed alla proposta governativa nessun’altra variante credette di fare la Commissione, al di fuori della aggiunta dell’aggettivo straordinaria alla parola «beneficenza». Con questa aggiunta la Commissione ritenne di dover mettere in chiaro che la detrazione di cui si parla deve riferirsi soltanto a quelle erogazioni di beneficenza che il contribuente avesse fatto durante il periodo di guerra in una misura superiore a quella che già usava fare innanzi ad esso. La beneficenza ordinaria deve cioè essere considerata come una erogazione di reddito che il contribuente è libero di fare sul reddito ordinario che egli già percepiva prima della guerra ed ha continuato a godere durante essa. Ciò di cui è giusto ché sia concessa la detrazione, è il supero di beneficenza a cui il contribuente si sia deliberato durante la guerra, tenendo conto da un lato dei suoi benefici straordinari, dall’altro lato dei suoi doveri cresciuti di carità e solidarietà sociale. Poiché il mezzo con cui esso provvide a questi doveri cresciuti furono i benefici straordinari, e poiché oggi lo stato avoca a sé questi medesimi benefici straordinari, è giusto che il contribuente imputi ad essi le spese di beneficenza straordinaria e quelle altre indicate al n. 11 che egli aveva potuto fare in ragione dei benefici stessi.

 

 

Par. 20. – Imposte in genere.

 

 

Per gli altri numeri dal 3 al 10 trattasi di detrazioni le quali costituiscono una notevole modifica o addirittura un’aggiunta a quelle che erano contenute nel progetto di regolamento ministeriale. Al n. 3 fu ritenuto opportuno di chiarir meglio quale fosse il significato della detrazione concessa nel progetto di regolamento ministeriale per le altre imposte inerenti all’eccedenza di profitti e non detratte in sede del loro accertamento, comprese le tasse di registro. Parve alla Commissione che tale dizione fosse troppo ristretta da un lato ed abbondasse dall’altro in una specificazione la quale poteva essere equivoca. Quando si dice imposte, può nascere invero il dubbio che si tratti unicamente ci quelle che nel linguaggio legislativo italiano sono chiamate tali, escludendosi cioè le sovrimposte spettanti agli enti locali e i tributi che hanno diverso nome da quello di imposta, come ad esempio, i centesimi addizionali, le tasse, i contributi e via dicendo. Inoltre l’indicare soltanto le tasse di bollo e di registro come comprese nelle altre imposte, poteva far sorgere il dubbio che tutte le tasse non indicate espressamente non fossero comprese nelle predette imposte. La Commissione ritenne di doversi porre il quesito generale del trattamento da dover farsi ai tributi pagati dai contribuenti. La ragione delle detrazioni da concedersi da un determinato reddito netto non può essere altra che questa: che il contribuente in sede di avocazione non può essere chiamato a dare allo stato nulla di più di quanto gli rimanga in mano dopo aver soddisfatto a tutte le spese e a tutti i gravami che su di lui sono caduti. Il contribuente cioè deve dare allo stato, eccezion fatta delle 20.000 lire annue, tutti i suoi guadagni di guerra, ma non deve esser chiamato a dare nulla di più dei guadagni medesimi. Partendo da questo concetto fondamentale, la Commissione ritenne che dovesse chiaramente indicare che sono detraibili tutti gli altri tributi – e dicesi «altri» perché al n. 2, per la loro specialissima importanza, furono indicate separatamente le imposte e sovra imposte sui sovraprofitti di guerra – i quali soddisfino alle seguenti condizioni:

 

 

  • a) di essere inerenti ai redditi netti conseguiti dal contribuente nel periodo dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920. Il significato di questa frase: «inerenti ai redditi netti» è che al contribuente debba essere consentita la detrazione di qualsiasi tributo, qualunque sia il suo nome, sia d’imposta di tassa o di diritto fiscale, il quale inerisca al reddito netto, ossia venga a diminuire la somma di cui il contribuente avrebbe avuto la disponibilità in quel periodo. Non si fa questione di nome del tributo, occorre badare all’effetto che il tributo medesimo produce, di diminuire il reddito netto che il contribuente ha conseguito: perciò parve inutile di indicare espressamente che erano detraibili le tasse di bollo e di registro, inquantoché è chiaro che queste tasse vengono per l’appunto a produrre quell’effetto di diminuire il reddito netto conseguito dal contribuente.

 

 

Ad esempio una tassa di bollo o di registro per un contratto di forniture conchiuso con lo stato, è una tassa la quale diminuisce il prezzo lordo che il contribuente consegue dallo stato, e quindi diminuisce per necessità il reddito netto che sul prezzo lordo medesimo il contribuente ha ottenuto.

 

 

Se ne deve tener conto, perché altrimenti il contribuente, il quale deve vedersi avocato l’intero suo profitto di guerra, dovrebbe di tasca sua tirar fuori quelle tasse di bollo e di registro che egli ha pagato soltanto per la speranza di poter ottenere il reddito netto di cui la parte costituente profitto di guerra gli è stata avocata.

 

 

Per la stessa ragione è sembrato inutile di indicare espressamente che sono detraibili i centesimi di guerra che durante il periodo della guerra vennero a decurtare dell’1 o del 2 o del 3% l’ammontare delle somme dovute dallo stato ai fornitori o ad altri contribuenti in generale. Ciò che il contribuente ricavò non furono 100 lire ma furono soltanto 99, 98, 97 lire, e quindi il pagamento dei centesimi di guerra venne a decurtare il reddito che altrimenti il contribuente avrebbe ottenuto;

 

 

  • b) che non siano già stati detratti previamente in sede del loro accertamento: il che è chiaro, allo scopo di non effettuare due volte la medesima detrazione,
  • c) siano dovuti per il periodo anzidetto allo stato, alle provincie ed ai comuni o a qualsiasi ente pubblico il quale abbia per legge facoltà di imporre. Non è infatti da restringersi la detrazione ai tributi pagati allo stato, poiché anche quelli pagati alle provincie ed ai comuni costituiscono un gravame inerente al reddito, ne diminuiscono l’ammontare disponibile per il contribuente, e quindi il guadagno avocabile allo stato. Non vi è alcuna ragione di distinguere tra imposta di stato e sovraimposte locali. La Commissione aggiunse, anche che siano detraibili i tributi pagabili a qualsiasi ente pubblico il quale abbia per legge facoltà d’imporre, volendosi con ciò riferire a quelle imposte e tasse che i contribuenti obbligatoriamente debbono pagare ad enti, come le Camere di commercio o a Consorzi i quali, per servigi resi, abbiano diritto di prelevare una parte del reddito del contribuente o di mettere su qualche atto compiuto dal contribuente una tassa o diritto speciale. Tutte queste tasse e diritti sono pagati per ragioni pubbliche, costituiscono un gravame sul reddito e non si può affermare che sia correttamente fatto il calcolo del reddito netto del contribuente, se di tali gravami non si tiene conto.

 

 

Par. 21. – Spese sopportate nel periodo di guerra per la costituzione delle società e simili.

 

 

Al n. 4 la Commissione ha ritenuto di dover specificar meglio una detrazione già contenuta nel progetto di regolamento governativo, in cui si considerano detraibili le spese che gli enti dimostrino di aver sopportato per la emissione di azioni e di obbligazioni. Parve alla Commissione che se indubbiamente queste spese devono essere cagione di detrazione, esse costituiscono un caso particolare di una specie più ampia, ossia – come è detto nel regolamento approntato dalla Commissione – un caso delle spese che i contribuenti sopportano per la costituzione e la fusione di società e per l’aumento di capitale delle società esistenti, sia che questa spesa sia sopportata mediante emissione di azioni o di obbligazioni od in qualche altra maniera. Insomma la emissione di azioni o di obbligazioni è un mezzo con cui si vuol raggiungere uno scopo che è quello della costituzione e fusione di società o l’aumento di capitale di una società esistente: e perciò parve opportuno di indicare che le spese detraibili fossero quelle che occorrevano per l’appunto per ottenere quello scopo; sia che quello scopo si ottenga con la emissione di azioni o di obbligazioni o altrimenti.

 

 

Ma una restrizione importante credette la Commissione di fare alla norma proposta dal governo, inquantoché così come essa era stilata sembrava nascere il dubbio che fossero detraibili tutte le spese che gli enti dimostrino di aver sopportato per la emissione di azioni o di obbligazioni avvenuta nel periodo di guerra. Ora tale detrazione sarebbe stata manifestamente troppo larga, in quantoché se una società emette una nuova serie di azioni per aumentare il proprio capitale da 10 a 20 milioni di lire e sostiene per questa emissione di 10 milioni di lire una spesa, ad ipotesi, di 500.000 lire, tale spesa non deve far carico tutta all’anno in cui essa fu sostenuta, ma deve essere razionalmente distribuita per tutto il periodo di tempo per cui la società avrà vita o per quell’altro periodo su cui è distribuito l’ammortamento delle obbligazioni emesse. Caso per caso dovrà essere stabilito il periodo di tempo a cui si riferisce il beneficio della emissione di azioni o di obbligazioni e dovrà sul medesimo periodo di tempo essere ripartita la spesa: cosicché se, a cagion d’esempio, la spesa sostenuta possa produrre delle conseguenze utili per la società lungo tutto un trentennio, la quota della detta spesa afferente al periodo di guerra sarà soltanto di tante trentesime parti quanti sono gli anni decorsi dal momento della fatta spesa fno al 30 giugno 1920.

 

 

Aggiunse ancora la Commissione una ulteriore restrizione, affermando esplicitamente non essere detraibili le spese eventualmente sopportate per l’emissione di azioni gratuite. Ed invero l’emissione medesima ha la natura di una distribuzione eccedente di dividendi e come tale deve far carico agli azionisti i quali hanno ottenuto tale beneficio.

 

 

Par. 22. – Interessi passivi e provvigioni pagate all’estero.

 

 

Una questione largamente dibattuta è quella degli interessi passivi e delle provvigioni pagate all’estero. È norma vigente, in tema di imposta di ricchezza mobile e quindi anche di imposta sui sopraprofitti che gli interessi passivi siano detraibili quando ne sia giustificata l’esistenza e quando siano accertate le persone ed il domicilio dei creditori nel Regno. La ragione di quest’ultima norma è quella che la finanza considera gli interessi passivi non dal punto di vista dalla spesa per l’ente, che li deve pagare, ma da quello del reddito di colui che li riceve; e quindi vuol poter tassare il reddito medesimo, esigendo l’indicazione della persona e del domicilio nel Regno di coloro i quali percepirono gli interessi allo scopo di poterli direttamente colpire di imposta. Quando il nome e il domicilio nel Regno del creditore non siano noti, la finanza non ammette la detrazione, ma tassa questi redditi a mano del debitore lasciando a lui libertà di rivalersi dell’imposta pagata a carico dei percettori.

 

 

La norma ha anche un’altra ragione, ed è di impedire le frodi le quali si verificherebbero ove fosse ammessa la detrazione degli interessi passivi; inquantoché, i contribuenti italiani, temesi, saprebbero ben fingere pagamenti di interessi a creditori stranieri, allo scopo di far sfuggire all’imposta parte notevole dei loro redditi netti.

 

 

Fin qui la legislazione vigente in tema di interessi passivi ai fini della vecchia imposta di ricchezza mobile. Quando fu istituita l’imposta sui sopraprofitti di guerra, la norma fu estesa anche alle provvigioni corrisposte dai commercianti ed industriali agli intermediari. Innanzi alla guerra, le provvigioni erano detratte anche al caso in cui fossero pagate all’estero, trattandosi manifestamente di spesa detraibile.

 

 

Cresciuta oltremodo l’aliquota dell’imposta, parve all’amministrazione prudente di porre un argine alla possibilità di frodi e fu perciò dettato quello che divenne poi l’articolo 7 del decreto luogotenenziale 9 giugno 1918, n. 857, allegato A, il quale pone, anche per le provvigioni, alla detraibilità la condizione che «ne sia pienamente giustificata la sussistenza e siano contemporaneamente accertati le persone e il domicilio degli intermediari stessi nello stato».

 

 

Nessuna osservazione può farsi alla prima condizione. Ma gravi obbiezioni sorgono rispetto alla seconda condizione – domicilio nel Regno – la quale viene ad assimilare le provvigioni agli interessi passivi, quando il pagamento avvenga all’estero.

 

 

La Commissione non si nascose le ragioni gravi le quali avevano indotto la finanza ad essere sempre più restrittiva nell’ammissione della detrazione in esame. Quando l’imposta assorbiva soltanto una parte moderata del reddito, l’escludere la detrazione degli interessi passivi non poteva esser causa di ingiustizia troppo grave per il contribuente: in sostanza si otteneva l’effetto che i contribuenti, i quali avevano rapporti di debito con l’estero, erano gravati di un’imposta maggiore di coloro i quali avevano rapporti di debito con l’interno, essendo chiamati a pagare l’imposta non solo sui loro redditi netti ma anche, senza possibilità di detrazione, sui redditi netti altrui, costituenti, per essi contribuenti, una spesa.

 

 

La situazione cambia profondamente oggi che parlasi di avocazione totale dei profitti di guerra e si nega altresì la detrazione delle provvigioni. Se non fosse concessa la detrazione degli interessi passivi e delle provvigioni pagate all’estero, accadrebbe che un contribuente il quale ha ottenuto un lucro di guerra, supponiamo di un milione, si vedrebbe avocato tutto questo milione di lire ed in aggiunta anche un altro mezzo milione che egli ha dovuto pagare all’estero perche era debitore di forti somme o perché doveva pagare provvigioni a stranieri per un’opera di intermediazione necessaria all’esercizio della industria. La questione delle provvigioni è specialmente importante nell’industria dell’armamento, la quale deve mantenere all’estero, per necessità della navigazione, numerosi agenti i quali nelle singole piazze rappresentino l’armatore, ricevano e consegnino la merce, l’imbarchino e la sbarchino, firmino e ritirino le polizze di carico rilascino ordini di consegna, sostituiscano insomma, in quelle lontane piazze, l’armatore ed il capitano. Nell’organizzazione attuale dell’industria dell’armamento, non accade più che il capitano si fermi a raccogliere il carico ed a svolgere a terra tutte le incombenze commerciali della nave e del carico: ciò poteva accadere nei tempi della navigazione a vela, quando la nave faceva lunghi rilasci in tutti i porti dove si fermava, ma nei tempi attuali di navigazione a vapore, e data l’urgenza che una nave ha di rimanere il minimo tempo possibile in un determinato porto, è necessario che tutte le operazioni siano preordinate da un agente locale, cosicché il capitano non abbia da perdere tempo in una attività alla quale, del resto, egli sarebbe impreparato, date le funzioni tecniche gravissime che ormai egli ha assunte. Senza gli agenti all’estero la produzione dei noli sarebbe impossibile, ed è quindi in linea di principio indiscutibile che le provvigioni pagate agli agenti all’estero costituiscano una spesa inerente al reddito.

 

 

La Commissione ritenne di soddisfare nel tempo stesso alle ragioni della giustizia ed a quelle della finanza, la quale vuole essere tutelata contro il pericolo di frode, stabilendo che gli interessi passivi e le provvigioni siano bensì detraibili, ma soltanto quando soddisfino alle condizioni seguenti:

 

 

  • a) che si tratti delle somme pagate entro i limiti dell’uso: e perciò si aggiunse la parola: «usuali» per escludere che il contribuente potesse far passare sotto colore di interessi passivi e di provvigioni una esportazione fraudolenta di utili netti. Se la provvigione usuale è del 5%, il contribuente non potrà ottenere la detrazione di un 10% che a lui sia piaciuto di dare al suo rappresentante: otterrà soltanto la detrazione della parte di provvigione la quale corrisponde agli usi.
  • b) che sia data al contribuente la dimostrazione che quel pagamento di interessi passivi o di provvigioni all’estero effettivamente accadde. La finanza e le commissioni amministrative saranno giudici della dimostrazione.
  • c) che il contribuente dimostri che quegli interessi passivi e provvigioni usuali erano inerenti ai redditi netti di cui si tratta e non ad altri fatti che con i redditi netti tassabili non hanno alcun rapporto.

 

 

Par. 23 – Imposte e tasse pagate all’estero.

 

 

Più controversa è la questione delle imposte e tasse pagate all’estero. Il problema è gravissimo e fu da parecchie rappresentanze di contribuenti illuminato largamente, adducendosi il pericolo che ad uno stesso contribuente, per il medesimo reddito, venga in Italia avocato completamente il guadagno di guerra ed egli, nel tempo stesso, sia all’estero assoggettato a forti imposte sui sovraprofitti di guerra. Non tutti i paesi seguono i medesimi criteri per la localizzazione del reddito soggetto ad imposta. In Italia, ad esempio, è ben noto come la territorialità e extraterritorialità di un reddito si giudichi riferendolo sempre al momento della produzione e non a quello della sua realizzazione. Un contribuente il quale in Italia abbia messo in essere gli elementi necessari od utili per la produzione di un dato reddito, si suppone abbia conseguito quel reddito in Italia e perciò quel reddito è considerato come tassabile con l’imposta di ricchezza mobile e con le imposte straordinarie di guerra ed ora avocabile per la parte che costituisce profitto di guerra. In altre legislazioni il momento della tassazione può essere ed è diverso; inquantoché taluni legislatori più che appuntare il loro sguardo al momento della produzione del reddito, si riferirono o al momento in cui il reddito stesso veniva ad essere trasformato in denaro o all’altro nel quale si era stipulato l’atto in base a cui il reddito fu ottenuto. Ne segue che, a causa di questa varietà di legislazione, un medesimo reddito può essere considerato avocabile in Italia e tassabile all’estero. Aggiungasi ancora esser difficile spesso di potere, anche ove il momento della tassazione sia lo stesso per i diversi paesi, scindere nettamente la parte del reddito la quale fu prodotta in un paese da quella che fu prodotta all’estero.

 

 

Durante la guerra i rapporti economici fra i paesi alleati furono così stretti, che ben spesso può essere dubbia quale sia la località in cui il reddito ha avuto origine e deve essere localizzato: ed anche in tempo di guerra seguitarono a valere le ragioni per cui taluni redditi, come ad esempio quelli bancari o di navigazione, hanno un carattere internazionale e possono dar luogo a tassazione nei più diversi paesi. Le rappresentanze dei contribuenti si dimostrarono assai preoccupate che un contribuente su 100 lire di profitti di guerra ottenuti potrebbe esser costretto a pagare tutte le 100 lire in Italia e forse 60, 70 o 80 lire all’estero, nel qual caso sarebbe depauperato.

 

 

Alla quale conseguenza sarebbe per fermo ingiusto arrivare, e la Commissione ne è persuasa; ma d’altro canto essa non poté nascondersi le difficoltà somme le quali contrastano l’attuazione di norme di giustizia nei rapporti internazionali. Essa ripete i voti che da tante parti, sia nella scienza che nella pratica, ripetutamente si elevarono per chiedere ai governi dei diversi paesi la stipulazione di trattati fiscali i quali abbiano per iscopo di regolare le interferenze tributarie fra un paese ed un altro, le quali vanno facendosi vieppiù numerose e più gravi di conseguenze talvolta disastrose per i contribuenti. Nello statuto della Società delle Nazioni il principio generale fu già ammesso: trattasi di attuarlo o, meglio, trattasi di generalizzare quei primi inizi di attuazione di cui si ha traccia qua e là; come ad esempio fra il Belgio e la Francia, tra la Francia e l’Inghilterra, tra l’Inghilterra e taluni dei domini dell’Impero Britannico. In sede di avocazione non si può fare nulla più se non un timido passo su questa via, limitatamente a quei casi nei quali risulti manifesta l’ingiustizia della doppia tassazione. La Commissione perciò propone che le imposte e tasse pagate all’estero debbano considerarsi detraibili ma limitatamente a quelle imposte e tasse le quali soddisfano alle seguenti condizioni:

 

 

  • a) abbiano una inerenza esclusiva ai redditi netti conseguiti dai contribuenti nel periodo di guerra. Si è aggiunto qui alla parola tradizionale di «inerenza», l’aggettivo «esclusiva» allo scopo di mettere bene in chiaro come soltanto quelle imposte e tasse, le quali possono essere considerate come inerenti esclusivamente ai redditi netti di cui si tratta, possono formare oggetto di detrazione. Quelle imposte e tasse le quali ineriscano ai redditi medesimi e insieme ad altri redditi non soggetti a tassazione e ad avocazione, in Italia non debbono affatto ottenere il beneficio della detrazione;
  • b) non possano entrare in campo se non i redditi netti i quali siano stati conseguiti in Italia; quindi non si possa in questa sede configurare il reddito diversamente da come lo configura la giurisprudenza italiana ponendo mente al momento in cui, secondo la nostra giurisprudenza, il reddito viene considerato come prodotto nel nostro paese. Se noi ci troviamo di fronte cioè ad un reddito il quale sia nazionalizzato italiano, prodotto cioè in Italia e se il contribuente dimostri che su questo reddito prodotto in Italia vennero a cadere imposte e tasse pagate all’estero, allora – a parere della Commissione – è data la dimostrazione che quel tal reddito ottenuto in Italia fu minorato per una causa straniera e può ammettersi la detrazione. Al contrario la detrazione non potrà essere ammessa tutte le volte che si tratti di un reddito, il quale abbia origine straniera o non sia un reddito a cui si riferisce la avocazione italiana. Con queste limitazioni e con piena riserva per la finanza e per le commissioni amministrative di valutare la dimostrazione data dai contribuenti di aver pagato quelle imposte e tasse, la Commissione è persuasa di aver tutelato le ragioni della finanza ed insieme reso ossequio ad un principio indiscutibile di giustizia.

 

 

Par. 24. – La detrazione del salario o stipendio assegnabile al contribuente o ai soci lavoratori di un ente collettivo.

 

 

Una cagione di lagnanza da parte di talune rappresentanze dei contribuenti fu quella di cui si fecero eco specialmente le rappresentanze dei contribuenti minori e privati.

 

 

Dissero costoro che altra è la situazione dal punto di vista tributario delle società commerciali e dei grossi contribuenti. Questi agiscono per mezzo di amministratori delegati, direttori generali, procuratori, gerenti, impiegati d’ogni fatta e ottengono per gli stipendi ed assegni pagati a questi loro gerenti e dipendenti la dovuta detrazione. Nessuna obiezione fanno le rappresentanze dei contribuenti minori alla giustizia resa per tal modo ai contribuenti maggiori; ma vivamente si lagnano dell’ingiustizia che contro di loro si compie, non considerando come detraibile lo stipendio o salario corrente che il negoziante o commerciante o mediocre industriale dovrebbe pagare a se stesso.

 

 

Qual differenza vi è tra una società anonima la quale paghi 50.000 lire in stipendi ai suoi dirigenti ed una società in nome collettivo la quale, facendo la stessa cifra di affari ed avendo il medesimo personale, costituito pero di soci della società stessa, dovrebbe attribuire, e normalmente in verità attribuisce, ai suoi soci un compenso a titolo di stipendio fisso? Nessuna differenza vi è fra le 50.000 lire percepite dai dirigenti della società anonima e le 50.000 lire percepite dai soci della società in nome collettivo: ambedue queste somme sono compenso di un lavoro prestato dai dirigenti. Eppure ben diverso è il trattamento fiscale; in quantoché le prime lire 50.000 essendo pagate da un ente – società anonima – a propri dipendenti, gerenti e dirigenti, sono considerate come spese e perciò detratte dal reddito ed oggi non avocabili, mentre invece le seconde 50.000 pagate magari in complesso a cinque soci a titolo di compenso, non esagerato per fermo, del lavoro, compiuto da ognuno di essi, non sono considerate come detraibili, ma parte, del reddito che la società commerciale in nome collettivo ottiene, e quindi sono soggette alla imposta sui sovraprofitti ed oggi corrono il pericolo della avocazione.

 

 

La Commissione ha ritenuto che le lagnanze di questa rappresentanza fossero fondate. La ragione del diverso trattamento è sopratutto storica e risale all’epoca nella, quale – nel 1864 – si posero i principi fondamentali della legge di imposta sui redditi di ricchezza mobile. In quell’epoca parve, e fu in realtà, un grandissimo progresso nella giustizia tributaria quello compiuto dal legislatore italiano, quando classificò i redditi in tre categorie: provenienti dal capitale puro, dal lavoro puro, e dal capitale misto al lavoro. Quella classificazione, la quale trova i suoi addentellati teorici nelle discussioni che dopo il 1850 andavano susseguendosi in Inghilterra in inchieste famose e nei lavori che per iniziativa del conte di Cavour erano stati compiuti dal conte di Broglio, rimane un vanto della legislazione italiana, la quale su questo terreno precedette la stessa Inghilterra, che pure a quella classificazione aveva fornito lo spunto. Ma non è da nascondersi che, dal 1864 in poi, la complicazione della vita economica è assai cresciuta e che quella categoria intermedia dei redditi provenienti da capitale misto a lavoro, oggi si è grandemente differenziata. Allora erano poche le società anonime, scarso il numero delle società le quali gestivano la azienda esclusivamente ad opera di agenti salariati; per lo più era l’industriale o il commerciante che direttamente geriva l’industria o il commercio, e con l’opera e col capitale suo otteneva il reddito. Oggi la situazione è profondamente mutata: accanto ad imprese piccole e mediocri nelle quali ancora il capo dell’azienda o i soci della società in nome collettivo prestano personalmente la loro opera, vi sono molte altre società ed enti in cui la direzione spetta e persone diverse dai capitalisti. Tutte queste intraprese appartengono alla categoria B) dell’imposta di ricchezza mobile e sono tutte trattate alla medesima stregua: ne viene la conseguenza, lamentata dai contribuenti minori, che alle società e contribuenti più grossi si concede, e giustamente si concede, una detrazione per spese di stipendi che non è concessa invece ai contribuenti piccoli e medi. Parve giusto perciò alla Commissione che si dovesse esplicitamente indicare che sono detraibili non solo le spese per stipendio o salario effettivamente sostenute dal contribuente perché pagate a salariati o stipendiati, ma siano detraibili altresì gli stipendi o salari che il contribuente singolo o la società in nome collettivo avrebbe pagati al contribuente singolo stesso o ad ognuno dei soci dell’ente collettivo, i quali abbiano effettivamente ed esclusivamente prestata la loro opera nell’azienda. Non c’è ragione che il contribuente singolo e il socio di una società in nome collettivo che ha faticato tutto l’anno nell’azienda e che anzi ha esclusivamente prestata la sua opera in essa, non debba ricevere uno stipendio o salario e che questo stipendio o salario debba essere avocato come profitto di guerra: esso deve essere considerato, come infatti è, una vera spesa di produzione e deve essere detratto. A guarentigia della finanza la Commissione ritenne opportuno di affermare talune cautele e cioè:

 

 

  • a) che lo stipendio o salario sia contenuto entro i limiti della cifra corrente, ossia di quella cifra che sarebbe stata pagata ad un impiegato o salariato qualunque se a questo invece che all’industriale o alla società si fosse ricorso. Dunque il contribuente non ha diritto di detrarre stipendi o salari fantastici ma solo quelli che sono dovuti a lui come sarebbero stati pagati ad un salariato qualsiasi;
  • b) che la detrazione si faccia soltanto per gli stipendi o salari assegnati entro i limiti ora detti, al contribuente singolo o a ognuno dei soci di enti collettivi che abbiano effettivamente ed esclusivamente prestata la loro opera nell’azienda;
  • c) che tale detrazione avvenga soltanto per il tempo della prestazione avvenuta durante il periodo dall’1 agosto 1914 al 30 giugno, 1920;
  • d) che non tutto lo stipendio o salario sia detratto, ma soltanto ciò che supera la detrazione che già eventualmente è stata concessa al contribuente a titolo di reddito ordinario. Il punto non ha bisogno di essere chiarito per i periti in materia, ma non è forse inopportuno lo sia ad informazione di quelli i quali non hanno una notizia particolare della legge d’imposta di ricchezza mobile. Nella categoria B) dell’imposta di ricchezza mobile il reddito dicesi misto, inquantoché si suppone che derivi dall’opera congiunta del capitale e del lavoro del contribuente: quindi se ad esempio un determinato commerciante o industriale ha ottenuto un reddito ordinario di 100.000 lire, quel reddito ordinario è composto di due parti, l’una la quale si riferisce al capitale impiegato nella azienda, l’altra che si riferisce al lavoro prestato dal contribuente.

 

 

La legge non stabilisce, e non poteva stabilire, quale sia la parte dovuta al capitale, quale quella dovuta al lavoro: dovrà questa distinzione essere il risultato di un apprezzamento da farsi caso per caso dall’amministrazione e dalle commissioni giudicanti, apprezzamento il quale dovrà essere fondato sull’importanza maggiore o minore del capitale investito nella azienda e del lavoro prestato dall’industria o dai soci dell’ente collettivo. Supponiamo ad esempio che la finanza o le Commissioni giudicatrici giungano alla conseguenza che le 100.000 lire si ripartiscano in 50.000 lire di reddito di capitale e 50.000 lire di reddito di lavoro: ciò vuol dire che già per il n. 1 delle detrazioni contemplate nell’articolo 7 fu concessa una detrazione a titolo di reddito di lavoro, ossia a titolo di stipendio o salario pagato all’industriale singolo o ai soci dell’ente collettivo esercenti l’industria di uno stipendio complessivo di lire 50.000. Poiché queste 50.000 lire di stipendio o di salario furono già dedotte una volta per la detrazione contemplata al n. 1, non debbono nuovamente detrarsi in applicazione del n. 7. Quindi delle due l’una: o lo stipendio o salario calcolato in base al n. 7 risulta non superiore alle 50.000 lire ed allora nessun’altra detrazione dovrà essere concessa in virtù del n. 7; ovvero lo stipendio o salario corrente, dato il gran numero di soci dell’ente collettivo, supera le 50.000 lire ed allora dovrà essere, in virtù del n. 7, concessa una detrazione uguale alla differenza tra lo stipendio o salario corrente così calcolato e le 50.000 lire già detratte. L’applicazione di questo n. 7 sarà perciò ristretta praticamente ai casi delle minori aziende commerciali ed industriali, per cui il reddito ordinario era calcolato in virtù delle norme vigenti in una cifra molto bassa. Pongasi ad esempio che il reddito ordinario di una ditta commerciale di cui tre sono i soci, fosse calcolato in lire 3.000 e che di queste lire 3.000, 2.000 potessero essere considerate come il reddito di lavoro, e 1.000 come il reddito del capitale investito nell’azienda. È chiaro che ognuno di questi tre soci ha diritto ad ottenere la detrazione dello stipendio o salario corrente che sarebbe stato pagato ad ognuno di essi qualora fossero stati dei semplici salariati; ad esempio 20 lire al giorno per 300 giorni lavorativi (salario comune, anzi inferiore a quello comune pagato ad un qualunque operaio): sono 6.000 lire all’anno di salario, che ognuno dei soci, il quale abbia lavorato effettivamente ed esclusivamente nella azienda, ha diritto di ottenere come stipendio e di vedere perciò detratto dal reddito netto. Essendo tre soci, la detrazione deve essere di lire 18.000 meno quella di 2.000 lire la quale era già stata concessa in virtù del n. 1 dell’articolo 7 A mano a mano che l’intrapresa diventa più importante, cessa la applicazione di questo n. 7 inquantoché l’ammontare degli stipendi e salari pagati al contribuente singolo o a ognuno dei soci a un certo punto diventa minore dell’ammontare di quella parte del reddito ordinario che già fu detratta in virtù del numero 1.

 

 

Un’eccezione potrà eventualmente soltanto esser fatta nel caso di società cooperative le quali siano composte di molti soci lavoranti. Alla Commissione fu segnalato il caso della Società artistica vetraria di Altare composta di 240 soci tutti effettivamente lavoranti nella azienda. È questa una delle più antiche società cooperative esistenti in Italia, forse anzi nel mondo: le sue origini risalgono a parecchi secoli addietro e la sua storia costituisce uno dei capitoli più interessanti della storia della cooperazione di produzione. Fu informata la Commissione che ai soci di questa società, durante il periodo della guerra, non fu usato corrispondere l’intero salario che era ugualmente pagato agli operai semplici delle aziende similari e persino agli operai ausiliari della medesima società cooperativa; e fu allora affermato, e risulta dalle deliberazioni del consiglio di amministrazione, che tale minor pagamento erasi fatto per costituire fondi di riserva a favore dei soci e per permettere alla società di migliorare i propri impianti. In questa guisa, dicesi, i soci rinunciarono pro tempore ad una parte del loro salario contentandosi di sole 10 o 15 lire al giorno, laddove agli operai equipollenti era pagato di solito un salario da 20 o 30 lire al giorno, allo scopo di fortificare la cosa comune e di assicurarsi una sorte migliore nella vecchiaia. La Commissione non vuole entrare nell’apprezzamento della fattispecie, non essendo questo il suo compito: l’esempio fu citato soltanto per mettere in chiaro, come possa darsi il caso di situazioni particolari per cui anche trattandosi di società costituite sotto la forma anonima, i soci lavoratori rinuncino a percepire l’intero salario che a loro sarebbe stato assegnato secondo i prezzi correnti per meglio raggiungere scopi di interesse comune. Non sarebbe giusto che questi operai i quali hanno dato prova di spirito di sacrificio corressero oggi il rischio della completa avocazione a titolo di profitto di guerra di ciò che in realtà costituiva parte del loro salario, a cui certamente non avrebbero rinunciato se avessero saputo che, invece di andare a raggiungere gli scopi che essi si erano ripromessi, esso sarebbe in avvenire stato avocato dallo stato. La giurisprudenza apprezzerà secondo verità ed opportunità questa particolare situazione di fatto.

 

 

La norma proposta dalla Commissione al n. 7 ha per iscopo di impedire che una grave ingiustizia sia fatta a carico di medi e piccoli contribuenti, di coloro i quali hanno prestato indefessamente il proprio lavoro durante il periodo di guerra e correrebbero il rischio oggi di vedersi avocati non solo i profitti, ciò che corrisponde allo spirito del legislatore, ma benanche una parte e talvolta una grossa parte del salario che era necessario alla loro esistenza e che essi avrebbero percepito se si fossero contentati di lavorare come semplici operai o alle dipendenze altrui e che essi probabilmente, anzi certamente, hanno già speso per il modesto mantenimento delle loro famiglie durante gli anni di guerra. Avocare il salario necessario alla vita più frugale col pretesto che, per qualche sottile ragione giuridica derivante da interpretazioni di testi antichi di legge di imposta di ricchezza mobile, legittima in altri tempi ed ancora oggi per altri fini, quel reddito può considerarsi come tassabile, sarebbe un manifesto andare contro alla volontà del legislatore che fu quella che dovessero essere avocati i veri profitti di guerra e non la onesta rimunerazione del lavoratore.

 

 

Par. 25. – Detrazione dell’imposta pagata sui salari e stipendi, per cui non si sia esercitata la rivalsa.

 

 

Di non grande importanza per i suoi risultati finanziari ma degna di considerazione dal punto di vista della giustizia tributaria, fu la lagnanza che da parecchie rappresentanze e in notevoli memoriali è raccolta contro l’incongruenza per cui il contribuente ottiene bensì la detrazione a titolo di spese detraibili dei salari e stipendi pagati agli impiegati, ma non di taluni accessori i quali hanno stretta connessione ed identica natura dei salari medesimi: si vuole accennare all’imposta di ricchezza mobile che gli enti collettivi ed industriali pagano in categoria C) per conto dei loro dipendenti. Qui si possono seguire praticamente due sistemi, i quali conducono a risultati differenti dal punto di vista fiscale. Può darsi invero che lo stipendio di 100 lire sia pagato all’impiegato lordo da imposta di ricchezza mobile, che supponiamo uguale a 15 lire; in tal caso l’impiegato riceve 85 lire nette e l’industriale o la società, avendo pagato all’impiegato 85 lire ed allo stato 15 lire, le prime a titolo di stipendio, le seconde a titolo di imposta di ricchezza mobile sullo stipendio medesimo anticipato per conto del suo impiegato, ottiene la detrazione di tutte le 100 lire dal suo reddito di categoria B). Il che è corretto. Ove invece l’industriale paghi, come si costuma di solito, lo stipendio di 100 lire al netto dell’imposta di ricchezza mobile al suo impiegato, non per ciò egli è esente dall’anticipare per conto di questi l’imposta di ricchezza mobile in categoria C), ed egli pagherà l’imposta per l’ammontare delle stesse 15 lire. L’onere che l’industriale ha sopportato è dunque di 115 lire; il vero stipendio che l’impiegato ha ottenuto non è di 100 lire ma di 115, di cui 100 le ha riscosse e 15 le ha lasciate a mano dell’industriale, affinché questi provveda a pagare l’imposta di ricchezza mobile che secondo le leggi dello stato grava sul suo stipendio. Ma la conseguenza che si ricava dal punto di vista fiscale è tutta diversa, inquantoché per giurisprudenza ormai costante l’industriale, quando si tratta di calcolare il reddito suo di categoria B ottiene la detrazione, a titolo di spese, soltanto delle prime 100 lire ed è esclusa invece la detrazione delle 15 lire che pure egli ha speso a titolo di imposta.

 

 

L’ipotesi da cui parte la giurisprudenza è un’ipotesi astratta, che cioè lo stipendio sia nella realtà di 100 lire, che questo stipendio sia lordo di imposta, ignorandosi completamente dalla finanza chi sia colui il quale effettivamente abbia pagate le 15 lire di imposta, supponendosi – anche quando la realtà è diversa – che le 15 lire siano state pagate dall’impiegato. Notisi che da questa ipotesi è sovratutto danneggiata la finanza, inquantoché questa viene a percepire la imposta del 15% non già, come sarebbe giusto, sullo stipendio lordo ma sullo stipendio netto: essendo l’imposta calcolata sulla base dello stipendio netto di 100 lire l’imposta è soltanto di 15 lire, mentre invece ove essa fosse calcolata sullo stipendio lordo, l’imposta medesima sarebbe superiore, in quanto graverebbe in questo caso non su 100 lire ma sulle stesse 100 lire accresciute dall’imposta medesima.

 

 

Così vere sono queste considerazioni che già il decreto-legge per la riforma dei tributi diretti del 24 novembre 1919, ha stabilito il principio che l’imposta normale debba gravare sempre i redditi al lordo dell’imposta stessa, così da mettere sullo stesso piede tutti i contribuenti; quelli di stato i quali pagano sempre l’imposta di ricchezza mobile sullo stipendio lordo di 100 lire, riscuotendo appunto 100 lire meno l’ammontare dell’imposta che per essi è del 9% ossia 91 lire; mentre i contribuenti privati pagano l’imposta sullo stipendio al netto.

 

 

Questa ingiustizia, la quale deve esser tolta dalla nostra legislazione, esercita una influenza ragguardevole sull’argomento che qui ci occupa, inquantoché gli industriali e gli enti collettivi hanno ottenuto la detrazione dal prodotto lordo della loro azienda, soltanto dell’ammontare degli stipendi e salari netti pagati ai loro dipendenti; non hanno ottenuto, in virtù della giurisprudenza ora accennata, la detrazione dell’imposta di ricchezza mobile la quale grava sugli stipendi medesimi e che deve essere in tutto considerata della medesima natura e quasi un accessorio dello stipendio e salario stesso.

 

 

La Commissione perciò propone di fare all’uopo una speciale detrazione, dando al contribuente il diritto alla detrazione anche per l’imposta di ricchezza mobile di categoria C) la quale sia stata pagata dai contribuenti dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920, per conto dei loro dipendenti e in ragione degli stipendi e salari pagati ad essi e per i quali la rivalsa non sia stata esercitata sui percettori del reddito. In tal caso però dovrà procedersi ad una rivalutazione degli stipendi e salari pagati ai dipendenti: questi stipendi e salari dovranno essere calcolati al lordo dell’imposta medesima e dovrà essere concessa la detraibilità per la differenza tra il lordo così calcolato e il netto di cui si era già concessa prima la detrazione. D’altro canto e per giusta corrispondenza, l’imposta di ricchezza mobile sulla differenza medesima, che il contribuente non aveva prima pagato calcolandosi l’imposta al netto, dovrà essere accertata ed il contribuente dovrà solvere l’imposta medesima per tutto lo stesso periodo di guerra.

 

 

Par. 26. – La stessa detrazione deve essere data per l’imposta sugli interessi passivi di obbligazioni.

 

 

La soluzione che la Commissione ora ha dato a questo problema di stretta giustizia tributaria deve essere estesa anche ad altri casi nei quali la medesima incongruenza si verifica. La Commissione indica appunto il caso degli interessi pagati ai portatori di obbligazioni emesse da società commerciali. Anche in questo caso si verificano le medesime conseguenze dell’identica giurisprudenza, per cui se una società ha emesso le proprie obbligazioni al lordo d’imposta essa paga l’imposta di ricchezza mobile per conto degli obbligazionisti su tutte le 5 lire d’interesse, trattenendosi poi l’ammontare all’atto del pagamento degli interessi agli obbligazionisti, i quali, supponendo un’aliquota del 20% riscuotono soltanto quattro lire nette. La società in tal caso, figurando gli interessi al 5%, ottiene in categoria B la detrazione di tutte le 5 lire a titolo di interessi passivi.

 

 

Ma se la società ha emesse le sue obbligazioni al netto dall’imposta di ricchezza mobile, ad esempio al 4%, essa è assoggettata all’imposta soltanto su 4 lire. Lo stato è danneggiato perché incassa soltanto 80 centesimi invece di una lira come nel caso precedente: gli obbligazionisti non hanno né danno né vantaggio perché continuano a ricevere 4 lire nette da imposta; la società emittente può ottenere in spesa nel calcolo dei suoi redditi di categoria B) soltanto la detrazione di 4 lire mentre invece essa ha effettivamente pagato 4 lire a titolo di interessi e 80 centesimi a titolo d’imposta di ricchezza mobile per conto dei suoi obbligazionisti – in tutto – 4,80. Anche qui la Commissione propone: che sia ricostituito il reddito al lordo dell’imposta così come dev’essere, ossia di 5 lire; che la società emittente ottenga la detrazione in categoria B) per tutto il periodo dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920 delle 5 lire lorde; ed avendo già ottenuto quello delle 4 lire, oggi si faccia la detrazione della lira in più non ancora detratta; ma che per converso la società, la quale aveva pagato l’imposta di ricchezza mobile soltanto sulle 4 lire, la paghi sulla differenza in più di una lira, cosicché la giustizia venga completamente osservata sia nei confronti della finanza sia nei confronti del contribuente.

 

 

La quale norma riferita sia agli stipendi e salari sia agli interessi pagati agli obbligazionisti, è tanto più necessaria inquantoché la tolleranza che prima si usava verso una tale ingiustizia tributaria a causa del margine di reddito lasciato ai contribuenti, più non è consentita oggi che si tratta di calcolare quale sia il vero guadagno di guerra che resta a mano del contribuente, dopo aver provveduto a pagare tutte le sue spese. Se così non si facesse, il contribuente si vedrebbe avocata dallo stato una somma che figurativamente è considerata come suo reddito, ma che egli in realtà ha già versato allo stato in un momento precedente.

 

 

Par. 27. – Le quote per assicurazioni sociali pagate per conto di operai dipendenti e per cui non si sia esercitata la rivalsa.

 

 

Un caso analogo è quello delle quote dovute dal contribuente in virtù di leggi per le assicurazioni sociali per conto dei suoi operai e dipendenti. È ben noto che talune leggi d’assicurazione sociale, ad esempio quella per l’invalidità e la vecchiaia, ripartono il carico dell’assicurazione tra gli imprenditori e gli operai: metà lo accollano agli imprenditori, metà agli operai. L’obbligato al pagamento della quota è però sempre l’imprenditore, salvo diritto di rivalsa, per la metà, sui suoi operai.

 

 

Non sorge questione per la quota di spettanza dell’imprenditore, la quale fu sempre considerata come spesa detraibile essendo un accessorio del salario: invece per la quota di spettanza dell’operaio, la finanza così ragiona: «La quota medesima non è in verità una spesa gravante sul reddito dell’intraprenditore, perché la legge afferma che essa debba far carico all’operaio e che l’imprenditore abbia diritto di rivalersi sull’operaio medesimo: se poi l’imprenditore non esercita la rivalsa a cui ha diritto, ciò è affar suo personale e non interessa la finanza. Vorrà dire soltanto che egli sul reddito suo, già calcolato ai fini della tassazione, ha voluto liberalmente prelevare una parte e donarla ai suoi operai; è un atto di beneficenza e di liberalità posteriore alla consecuzione del reddito». Nel fare quel ragionamento la finanza parte da un concetto di cui bisogna riconoscere la rigorosa logica, inquantoché è assioma costante per l’imposta di ricchezza mobile, che essa deve tener conto delle spese le quali sono necessarie ed utili alla consecuzione del reddito, ma sempre precedenti al reddito stesso: non bisogna mai invece tener conto, né detrarre le spese le quali sono posteriori alla consecuzione del reddito e che possono essere considerate come mezzo di godimento o di spesa del reddito già ottenuto. Non è infatti – e giustamente non lo è – una spesa detraibile la somma che il contribuente abbia pagato a titolo di pigione del suo appartamento privato o per il mantenimento della sua famiglia, o in spese di teatro o di viaggio; tutte queste sono spese posteriori al reddito, non anteriori, e non debbono essere detratte. Con questa logica rigorosa la finanza non considera detraibile la spesa che il contribuente abbia sostenuto per pagare la quota di assicurazione sociale pertinente ai suoi operai senza farsela da questi rimborsare. Ma qui il rigore della logica passa il segno, inquantoché è vero che l’industriale aveva un astratto diritto alla rivalsa della metà della quota dovuta per l’assicurazione; ma questo diritto di rivalsa non è sempre agevole ad esercitarsi e spesso non lo si esercita per scopi di pacificazione sociale e per rendere gli operai sempre meglio affetti alla azienda a cui sono impiegati. In sostanza, dal punto di vista economico, l’accollo che l’industriale si fa della quota di assicurazione sociale o è forzato dalla pressione delle masse operaie o è un atto utile al buon andamento della azienda la somma pagata a questo titolo deve considerarsi niente più che un accessorio del salario, di cui ha la natura. Come accessorio deve essere dedotto. Tanto più lo deve essere, in quanto qui si tratta, come già ripetute volte fu osservato, di avocazione e sarebbe ingiusto e strano che l’imprenditore si vedesse avocata, a titolo di sovraprofitto di guerra, una somma che egli invece ha speso per assicurare ai suoi operai la pensione nel caso di vecchiaia e di invalidità.

 

 

Par. 28. – Le somme assegnate a fondi di pensione o di assistenza agli operai dipendenti.

 

 

Vennero dinnanzi alla Commissione le rappresentanze della Federazione operai siderurgici, accompagnate da un deputato al Parlamento del partito socialista ufficiale, a far presente la condizione nella quale si troverebbero importanti gruppi di operai siderurgici qualora il regolamento per la avocazione non tenesse conto di deliberazioni prese in passato per accordi tra le due parti o anche spontaneamente da società industriali a favore delle loro maestranze. Una società industriale assai importante aveva, ad esempio, stanziato ripetutamente nel periodo dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920, somme in bilancio a favore degli impiegati e delle maestranze, per opere di assistenza e di previdenza sociale. In quel caso la somma pare giunga ad un milione di lire, accantonate in bilancio allo scopo di poter assegnare una pensione ai vecchi impiegati o agli operai. Temono le rappresentanze operaie venute dinnanzi a noi che, se un’apposita norma non viene scritta nel regolamento, quelle somme, sebbene siano state assegnate in bilancio agli operai, possano essere considerate come parte degli utili e quindi avocate allo stato. Il timore delle rappresentanze operaie non è privo di fondamento. Dal punto di vista dell’applicazione rigorosa della legge di imposta di ricchezza mobile (e come è ben noto l’interpretazione delle leggi di imposta deve sempre essere rigorosa) vi è molto dubbio se quella certa somma possa essere considerata come una spesa detraibile e quindi immune da avocazione. Osta a ciò la seguente considerazione: che in ogni esercizio, ovvero in ogni periodo finanziario, si possono considerare come spese detraibili soltanto le somme di cui il contribuente possa dimostrare la erogazione. Se, ad esempio, un contribuente iscrive al suo passivo nel bilancio dell’esercizio 1920 una somma di 100.000 lire a titolo di fondo per il rischio di insolvenza di taluni suoi debitori, quelle 100.000 lire non sono considerate come spesa detraibile, perché e fino a che la perdita non si sia realmente verificata. Soltanto quando le cambiali giunte a scadenza non siano state onorate dal debitore e quando sia dimostrata l’insolvenza del debitore medesimo, quella perdita sarà considerata come tale e detratta dal prodotto lordo prima di calcolare il reddito netto. In tempi normali ciò non produce alcun inconveniente, inquantoché le perdite che non furono detratte nell’anno 1920, lo saranno nel 1921 o nel 1922, quando di esse si sarà potuto dare la dimostrazione. Insomma la finanza non considera mai detraibili le spese puramente presunte, ma soltanto quelle verificatesi; il che fa a buona ragione, poiché altrimenti sarebbe ben facile al contribuente di immaginare spese grosse e tali da annullare il reddito, né la finanza avrebbe sempre modo, negli esercizi successivi, di perseguire le vicende di queste spese ammesse precedentemente e di cui non si sa quale sia stata la sorte effettiva. Ma la situazione si presenta grave di pericoli per il contribuente nel momento straordinario presente, in cui ci troviamo di fronte a due periodi ben nettamente distinti l’uno dall’altro: quello dall’1 agosto 1914 al 30 giugno 1920 e quello successivo. Nel primo di essi l’imposta, per una certa parte del reddito, raggiunge il 100% a titolo di avocazione; nel secondo periodo l’imposta ritornerà ad essere quella normale, assai meno elevata del 100%, sebbene certamente più elevata di quello che fosse prima della guerra. Non è niente affatto perciò indifferente sapere in quale periodo una certa spesa viene considerata detraibile, perché se la detraibilità si riferisce al periodo di guerra il contribuente non subisce per quella somma la avocazione; mentre invece se la detraibilità si è riferita ad un periodo successivo il contribuente comincia ad essere avocato per tutta intera la somma che si presume perduta; poi quando in un periodo successivo la perdita realmente si verificherà, egli otterrà il rimborso dalla finanza non della somma avocatagli ma soltanto della normale imposta gravante su di essa.

 

 

Egli in altre parole pagherà 100 nel primo periodo come se non avesse subita la perdita e nel secondo periodo, quando la perdita si sarà verificata, non otterrà il rimborso di tutte 100 ma soltanto all’incirca di 20. Applicando rigorosamente questa norma, di cui è facile intravedere tutta la gravità, al caso delle somme deliberate, ma non ancora erogate, a favore degli operai di una ditta industriale, si giungerebbe alla seguente conclusione: che la somma di un milione, che quella tale ditta aveva nel periodo di guerra assegnata agli operai, non essendo ancora stata erogata non può essere considerata come spesa detraibile e quindi, ove rientri nei profitti di guerra, quella somma sarà interamente avocata allo stato e la società contribuente non avrà più i mezzi di fare onore agli impegni presi verso gli operai. Se ciò nonostante in un periodo successivo alla guerra, nel 1921 o 1922, la società vorrà nuovamente, con altri suoi redditi, donare la medesima somma di un milione di lire ai suoi operai, allora essa potrà eventualmente – sebbene ciò non sia certo – ottenere la detrazione di questa nuova somma risparmiando in tal caso la imposta normale di ricchezza mobile di circa 200.000 lire su di essa. Basta porre il problema per vedere come sia ingiusto far gravare sulla società contribuente, e cioè attraverso ad essa sugli operai, il danno della avocazione. La destinazione della somma a favore degli operai, sebbene non sia ancora susseguita dalla positiva erogazione della somma stessa, ormai è un fatto compiuto; la società non può ritornare su di essa e a non farla tornare vegliano gli operai e le loro rappresentanze. Quindi è sembrato giusto alla Commissione che esplicitamente si dichiarasse che sono da considerarsi come spese detraibili le somme che sui suoi redditi netti il contribuente abbia assegnato a fondi di previdenza o abbia altrimenti accantonate o impiegate a vantaggio degli operai o dipendenti. Qualche guarentigia fu necessario prendere affinché la detraibilità ora concessa non venisse fraudolentemente rivolta a danno della finanza e fu perciò disposto che la detrazione possa essere consentita soltanto quando:

 

 

  • a) essa risulti da una regolare deliberazione, ad esempio, del consiglio d’amministrazione della società o, da un altro atto avente una data certa anteriore al 30 giugno 1920. La detrazione potrà così essere concessa anche ad assegnazioni le quali non siano state fatte da una società anonima, non risultino da regolare deliberazione del consiglio d’amministrazione, ma siano l’opera di un industriale singolo o di una società commerciale in nome collettivo, purché esse risultino da un atto avente data certa anteriore al 30 giugno 1920;
  • b) sia costituito entro due anni dalla pubblicazione del presente regolamento un fondo a cui si assegnino effettivamente le somme che erano state deliberate durante la guerra;
  • c) questo fondo sia riconosciuto a norma delle leggi vigenti, così da acquistare una individualità propria e da impedire che le somme ad esso assegnate possano, per vie traverse, far ritorno al contribuente, violando così lo spirito della detrazione che la Commissione propone adesso di concedere.

 

 

Non è necessario, perché la detrazione sia concessa, che l’assegnazione sia fatta ad un fondo di previdenza: l’industriale può venire in aiuto dei suoi operai anche in altre maniere; ad esempio, costituendo un fondo di accantonamento per la costruzione di case operaie, ovvero costruendo scuole, sale di lettura e dando vita ad altre istituzioni, le quali possono essere utili alle maestranze. Si può anche ammettere, come talvolta pare sia accaduto, che una società devolva a favore dei suoi operai, ove questi siano soci della società medesima, una parte del proprio utile investendola negli impianti della società medesima. Quando sia dimostrato che il reddito di questi impianti è devoluto esclusivamente a favore dei suoi operai, si potrà eventualmente, caso per caso, dalla finanza esaminare se si tratti di un assegno avente scopo di previdenza o di vantaggio a favore degli operai.

 

 

Par. 29. – La detrazione della quota annua di 20.000 lire.

 

 

Viene per ultima la detrazione della quota di lire 20.000 all’anno portata dall’articolo 1 della legge 24 settembre 1920, n. 1.298. La Commissione nuovamente chiarisce che nel suo concetto la detrazione delle 20.000 lire deve avere i caratteri di ultima ed eventuale: il conto deve essere impostato nella maniera più semplice ed immaginabile che è anche la sola logica; ossia fatto il conto dei redditi netti del contribuente e detratte tutte le spese che furono fin qui elencate, compresa in esse l’intera imposta e sovraimposta sui profitti di guerra dovuta dal contribuente per tutto l’intero periodo di guerra, il risultato può essere negativo ovvero positivo. Se è negativo la cosa finisce li, senza che la finanza abbia diritto ad avocare nulla perché nulla esiste: d’altro canto neppure il contribuente ha diritto di ottenere la quota di 20.000 lire perché egli non la ha prodotta; il contribuente non ha cioè diritto di ripetere dalla finanza parte dell’imposta e sovrimposta sui sovraprofitti che abbia già pagati o che ancora debba; egli deve finire di solvere quest’imposta e rimane, così come il conto porta, senza avere la possibilità di disporre delle 20.000 lire all’anno.

 

 

Ovvero la somma residua è positiva; ed in tal caso può essere minore di lire 20.000 all’anno o maggiore. Se è minore di 20.000 si ripete lo stesso ragionamento ora fatto: il contribuente avrà diritto di trattenere per sé tutta intera la somma residua, perché essa non giunge neppure a 20.000 lire, ma non avrà diritto affatto di ripetere dalla finanza nulla di ciò che egli abbia già pagato. Se è maggiore di lire 20.000 il contribuente tratterrà le prime 20.000 e dovrà versare alla finanza tutto il sovrapiù . Questa è, ripetesi, la costruzione più semplice e logica che si possa fare, allo scopo di attuare completamente l’intendimento da cui il legislatore fu mosso nello stabilire la avocazione dei profitti di guerra.

 

 

Par. 30. – Il calcolo presuntivo delle spese detraibili, e l’obbligo di motivare la negata fede ai libri regolarmente tenuti.

 

 

Le novità introdotte dalla Commissione nel vecchio articolo 5, diventato 7, del regolamento per quel che tocca le spese detraibili, hanno portato a dover lievemente variare anche la dicitura del vecchio articolo 7 diventato 9. Ben a ragione il regolamento ministeriale si era preoccupato della possibilità che in molti casi non si potesse fare il conto esatto delle spese detraibili. Il conto esatto si fece in passato e si continua a fare oggi, quando i contribuenti sono tassati sul bilancio; ed è quindi agevole di poter controllare le appostazioni di bilancio e stabilire in cifra esatta tanto l’ammontare dei prodotti lordi quanto l’ammontare delle spese detraibili. Ma nella maggior parte dei casi dei contribuenti privati, la finanza procede in una maniera diversa, che è quella dell’accertamento in via presuntiva.

 

 

L’accertamento in via presuntiva è un metodo, il quale è talvolta imposto dalla necessità ma che presta il fianco alle più gravi obiezioni. La Commissione ha sentito al riguardo querele numerose ed insistenti di rappresentanze di commercianti ed industriali. Queste si lamentarono assai del fatto che nelle leggi sia scritto l’obbligo del contribuente di tenere e presentare i libri alla finanza, che a quest’obbligo la finanza faccia spesso appello ogni qualvolta presume di ricavarne suo vantaggio, ma che quando poi i libri sono profferti dai contribuenti di essi non si tenga verun conto e siano messi da parte ricorrendosi all’accertamento presuntivo. La Commissione non vuole menomamente entrare nell’esame, che sarebbe delicato, della fondatezza e della portata delle querele che giunsero fino ad essa. Sarebbe stato d’uopo di valutare i singoli casi con l’interrogatorio degli agenti della finanza da una parte e dei contribuenti dall’altra per mettere in chiaro la verità di ogni singola fattispecie; il compito non entrava nell’ufficio che ad essa era stato affidato dalla legge e perciò essa se ne astenne. Essa esprime soltanto la fiducia ferma, la convinzione piena, che le querele dei contribuenti siano fondate su erronei apprezzamenti e che nella realtà la finanza tenga il più doveroso conto dei libri che le sono profferti dai contribuenti ogni qualvolta i libri stessi presentino le caratteristiche della veridicità. Essa ha creduto perciò opportuno di inserire all’articolo 31 una disposizione per la quale, mentre si accetta la proposta del regolamento ministeriale per cui i contribuenti i quali non abbiano consentita la visione dei loro libri, registri e documenti malgrado regolare diffida non li possano più presentare ai collegi giudicanti; impone d’altro canto alle commissioni giudicatrici medesime di motivare la decisione presa di non attenersi alle risultanze dei libri, registri e documenti regolarmente tenuti e tempestivamente presentati dal contribuente. Ed invero se i libri sono regolari e sono presentati in tempo dal contribuente, essi fanno fede entro i limiti prudenziali dell’apprezzamento della loro veridicità; non è possibile fare astrazione dai libri stessi senz’altro, come se non esistessero. La Commissione ritiene che ove i collegi giudicanti giungano alla conclusione che non sia giusto attenersi alle risultanze dei libri, il collegio debba di tale sua convinzione dare il motivo. È una guarentigia questa la quale non può tornare di alcun nocumento alla finanza e gioverà assai a diffondere nei contribuenti l’idea dell’opportunità e della necessità di tenere regolarmente i libri. Troppo spesso oggi si sente dire dai contribuenti: è inutile tenere e presentare alla finanza i libri, perché essa ne trae soltanto i dati che sono vantaggiosi alla sua tesi ed appena i libri parlano contro di essa, la finanza li trascura ed afferma non potersene tenere alcun conto e doversi procedere in via presuntiva. Questa opinione dei contribuenti, che noi abbiamo fiducia sia errata, va energicamente combattuta: e noi riteniamo che un mezzo moralmente efficace di combatterla sia quello di dire apertamente i motivi per i quali i libri, registri e documenti regolarmente tenuti e tempestivamente presentati sono considerati dai collegi giudicanti immeritevoli di fede.

 

 

Giova che un pò per volta l’educazione dei contribuenti si faccia, per modo tale da poter sempre fare gli accertamenti sulla base di bilanci e di documenti reali e potere alla lunga riuscire ad abbandonare il sistema degli accertamenti presuntivi, i quali sono cagione di grave disparità tra contribuente e contribuente e alimentano la frode ed il malanimo verso la finanza. L’accertamento presuntivo per lo più procede per via di ipotesi che la finanza fa sulla base della cifra d’affari del contribuente a seconda della natura dell’industria e del commercio esercitato. Si suppone bene spesso che in tale o tal altra città, in tale o tal altra circoscrizione tributaria, a 100 lire di cifra d’affari del contribuente corrisponda ora un utile di 20, ora di 15, ora di 10, ora di 5, ed ora forse anche di 25 o 30: e l’utile netto viene calcolato per via di cotali percentuali ugualmente per tutti i contribuenti, senza verun riferimento ai risultati ottenuti in effetto da ogni singolo contribuente. Il sistema è spiccio e porta più facilmente a concordati fra la finanza e i contribuenti; ma porta altresì a gravi sperequazioni, inquantoché, determinata per una data industria, in una data città ed in un certo anno, la percentuale di utili nel 20% della cifra d’affari, questo 20% viene applicato con rigore a tutti i contribuenti che si trovano in quella data situazione. Né dinnanzi alla finanza o ai collegi giudicanti trova mercé quel contribuente, il quale si affanni a dimostrare che il suo utile nella realtà non fu del 20% ma soltanto del 10 per cento. Si risponde che quella è una media, che ad essa bisogna attenersi, e che se certuni saranno danneggiati, altri saranno avvantaggiati, perché invece del 20% avranno lucrato il 30 per cento. Il quale ragionamento è bensì spicciativo, ma dal punto di vista della giustizia tributaria è inammissibile: esso in ultima analisi ha una portata più dannosa che benefica per la finanza, inquantoché spinge i contribuenti a legarsi fra di loro allo scopo di far abbassare quanto più è possibile la percentuale sulla cifra d’affari che è considerata come indice dell’utile netto. La Commissione si augura che tale sistema dell’accertamento in via presuntiva sia ridotto il più possibile per quel che si riferisce al periodo di guerra e alla avocazione, e col tempo possa andare eliminandosi sempre più. Il sistema dell’accertamento in via presuntiva poté e può ancora essere dettato da ragioni di necessità e perciò la Commissione non vuol muovere alcun minimo biasimo per tale motivo alla amministrazione; ma non giova nascondersi che, in tema di avocazione, il sistema della presunzione è non piccola causa dello scetticismo con cui l’avocazione è stata accolta nel pubblico, inquantoché se esso ha condotto ad accertamenti talvolta feroci per taluni contribuenti disgraziati, ha condotto d’altro canto ad accertamenti inferiori al vero per altri fortunati: cosicché il pubblico il quale vede ancora scarrozzare per le vie e far gran lusso taluni contribuenti i cui guadagni di guerra avrebbero dovuti essere avocati allo stato, non sa capacitarsene ed afferma, contrariamente al vero e con offesa agli sforzi sovrumani compiuti dall’amministrazione finanziaria, che la avocazione fu una burla e che i profitti di guerra effettivi non saranno stati avocati. Contro la quale impulsiva e frettolosa conclusione del pubblico che guarda alla superficie, stanno i miliardi già incassati dalla finanza e gli altri che ancora si incasseranno: non piccola cifra e ben poco discosta, quando saremo giunti al termine di questo processo di riassorbimento, dalla somma che idealmente avrebbe dovuto essere avocata.

 

 

Sta di fatto che quando l’accertamento in via presuntiva si fa, debbono altresì calcolarsi in via presuntiva le spese: alla regola empirica dal punto di vista del reddito netto deve corrispondere una regola empirica dal punto di vita delle spese relative. La finanza aveva supposto nel suo progetto di regolamento che l’importo delle spese, nel caso che queste dovessero essere valutate presuntivamente, rimanesse stabilito nella misura di un quarto della differenza tra il reddito netto complessivo e la somma del reddito ordinario, dell’imposta e sovrimposta sui profitti di guerra e della quota annua di lire 20.000. Era un metodo empirico sulla giustezza del quale è inutile di andar facendo ragionamenti, inquantoché esso corrisponde all’empiricità della valutazione dei redditi. Lo stesso sistema empirico ha dovuto accogliere la Commissione nel caso di valutazione presuntiva. Avendo però essa variati i criteri con cui debbono essere detratte dal reddito lordo le spese, ha dovuto stabilire che l’importo delle spese dovesse presumersi uguale al quarto della differenza tra il reddito netto complessivo e la somma del reddito ordinario e delle altre detrazioni accertate in cifra fissa. Vi sono invero, anche per questi contribuenti, delle detrazioni per cui l’accertamento si fece in via diretta e possono valutarsi in cifra esattamente conosciuta: ad esempio l’ammontare del reddito ordinario e così pure l’ammontare dell’imposta e sovrimposta sui sovraprofitti pagata o dovuta dal contribuente e così anche le differenze che sopra furono rilevate tra imposta di ricchezza mobile detratta prima e quella che si sarebbe dovuta detrarre. La Commissione insomma è partita dal concetto che si dovesse, per i contribuenti valutati presuntivamente, partire dal reddito netto, dedurre dal medesimo reddito netto il reddito ordinario e poi le imposte e spese accertate in cifra fissa; sul residuo debba ancora essere detratto a favore del contribuente un quarto, a titolo di spese presuntivamente da calcolarsi.

 

 

Par. 31 – Querele dei contribuenti contro la fissità della quota di lire ventimila.

 

 

La legge di avocazione del 24 settembre 1920 ha fatto una segnalata eccezione al principio che dovesse essere riconosciuta come libera da avocazione una somma di lire. 20.000 per anno e per azienda. Il principio generale è che la avocazione si riferisca ad ogni singola ditta contribuente. Non monta nulla che la ditta contribuente sia composta di una sola persona ed abbia modeste dimensioni o sia composta di molti soci od anche sia una società anonima con capitale di centinaia di milioni di lire.

 

 

La stessa quota franca di lire 20.000 viene riconosciuta al modesto industriale o commerciante ovvero alla grande società anonima con un capitale di 200 milioni: nessuna discussione è possibile al riguardo. Il legislatore è partito sotto questo rispetto dal concetto della realità dell’imposta: la avocazione, come già l’imposta sui sovraprofitti di guerra, non ha carattere personale, non bada cioè all’arricchimento del singolo contribuente come persona, ma bada all’arricchimento della ditta o intrapresa la quale produce il reddito, sia che la ditta operi con un capitale di 20.000 lire, sia che operi con un capitale di mezzo miliardo di lire. La somma consentita dal legislatore è sempre uguale: 20.000 lire all’anno. Parecchi rappresentanti di contribuenti sono venuti a lagnarsi vivamente innanzi alla Commissione di tale principio consacrato nella legge 24 settembre: lo dichiararono ingiusto ed immorale, affermarono che esso non corrisponde ai principi dell’equità tributaria, inquantoché lascia la medesima somma, sia all’unico contribuente come alla aggregazione di migliaia di contribuenti, i quali si unirono insieme per rendere più agevole la consecuzione del fine di un maggior prodotto. Essi affermarono che molto più giusto sarebbe stato di riconoscere il diritto ai contribuenti ad una somma variabile a seconda dell’importanza del capitale investito ed affermarono che almeno si sarebbe dovuto tener conto del numero dei soci e commisurare a questo e alla loro potenzialità contribuiva, la somma franca da avocazione e quella avocabile. La Commissione non vuole entrare in questo terreno, il quale non è di applicazione della legge ma di critica alla legge stessa. Essa ha semplicemente l’ufficio di fare rilievi e di dare pareri sull’applicazione della legge la quale deve essere in ogni modo da essa osservata.

 

 

Par. 32. – Eccezione unica al principio della fissità della quota di lire 20.000: le cooperative. Criteri per applicare l’eccezione.

 

 

Unica eccezione al principio della realità sancita nella legge è quella stabilita a favore delle società cooperative. Per queste soltanto il terzo comma dell’articolo 1 della legge di avocazione nettamente stabilisce che le 20.000 lire non debbono più essere calcolate per azienda ma per ogni socio; sostituendo così per le cooperative al criterio della realità il criterio della personalità. L’articolo 6 del regolamento ministeriale, diventato 8 nelle nostre proposte, cerca appunto di attuare questo concetto affermando che la detrazione della quota annua di lire 20.000 debba esser fatta tante volte per quanti sono i soci degli enti stessi alla chiusura degli esercizi a cui l’accertamento dei profitti si riferisce.

 

 

Nasceva a questo proposito il quesito della sussistenza effettiva del carattere cooperativo delle istituzioni le quali potevano accampare diritto al beneficio della personalità in confronto a quello della realità che deve applicarsi a tutti gli altri contribuenti. Il progetto governativo trovava per le cooperative di consumo il criterio di distinzione tra la cooperazione vera e la cooperazione falsa in ciò: che la cooperazione vera, la quale soltanto avrebbe diritto alla detrazione delle 20.000 lire per ognuno dei soci, sia quella la quale compie operazioni di vendita soltanto con i soci e non con i terzi. La Commissione non ha potuto accogliere tale concetto : esso, in Italia particolarmente, contrasta con la realtà. La cooperazione di consumo in Italia non si è potuta sviluppare mai ogni qualvolta le cooperative si sono ostinate a vendere esclusivamente ai soci: la loro vita, salvo alcune pochissime eccezioni, trascorse stentata e condusse le cooperative stesse ad una fine miserevole, contraria agli scopi che la cooperazione si ripromette. Essere socio o non socio di una cooperativa è un elemento trascurabile rispetto ai fini che la cooperazione di consumo si propone. Lo scopo di questa è di esercitare un’azione di calmiere sui prezzi correnti, azione la quale si esercita vendendo ampiamente a tutti coloro che si presentano a comperare: soltanto così la cooperativa può svilupparsi, fare acquisti su vasta scala, ottenere il beneficio dei prezzi all’ingrosso e fare beneficare di questi prezzi all’ingrosso la propria clientela. Il criterio vero in base a cui si deve distinguere fra la cooperazione di consumo, la quale attua i suoi ideali, e quella invece che si propone scopi di privata speculazione è tutt’altro: bisogna aver riguardo al trattamento che la cooperativa fa ai soci e ai non soci. Se la cooperativa vende alle medesime condizioni di prezzo ad ambedue le categorie e se non soltanto vende allo stesso prezzo ma, giunta alla fine dell’anno e fatti i conti e risultando un utile di vendita ossia una differenza tra il prezzo d’acquisto e tutte le spese da un lato ed il ricavo dalla vendita, questa differenza viene rimborsata nelle medesime proporzioni tanto ai soci come ai non soci, li ci troviamo dinanzi alla cooperazione di consumo propriamente detta. Ove invece la cooperativa faccia prezzi minori per i soci e più alti per i non soci ed alla fine dell’anno rimborsi il risparmio o la differenza tra il costo e i prezzi soltanto ai soci e non agli estranei, li ci troviamo di fronte ad una pseudo – cooperativa, ad una organizzazione di poche persone le quali hanno per iscopo di arricchire se stesse a danno di altre. Perciò la Commissione è venuta nel parere che debbano escludersi dal beneficio della personalità delle 20.000 lire quelle società cooperative di consumo, le quali, per quanto riguarda i prezzi di vendita e la restituzione dei sopraprezzi pagati dai consumatori, trattino diversamente i soci ed i terzi. A questa ha aggiunto un’altra esclusione e cioè: che debbono essere escluse dal beneficio mentovato, le cooperative di consumo le quali abbiano ripartito alle azioni un dividendo superiore al 6% sul capitale investito, considerando come investito il capitale versato più le riserve accumulate dai soci negli anni precedenti. Anche questa esclusione è necessaria perché ove il dividendo ripartito alle azioni superi il 6%, è più che dubbio che la cooperativa in discorso sia una cooperativa la quale si propone di attuare gli ideali della cooperazione.

 

 

Parve inoltre alla Commissione che fosse necessario di tener conto della circostanza che in Italia, nella maggior parte dei casi, le cooperative di produzione malamente possono soddisfare ai requisiti legali che la legislazione vigente ad esse impone per essere riconosciute come vere cooperative di produzione. Bisogna badare al fatto: se in una data fattispecie la finanza e i collegi giudicanti si persuadano di trovarsi di fronte ad una vera cooperativa di produzione la quale non si propone lo scopo dell’arricchimento di taluni fra i soci, ma si propone quello di avvantaggiare esclusivamente i soci lavoratori, non vi è ragione che ad essa non si applichino i benefici stabiliti nell’ultimo capoverso dell’articolo primo della legge di avocazione: e perciò nell’articolo 8 la Commissione propone che prudenzialmente il beneficio della personalità delle 20.000 lire sia esteso a tutte le cooperative di produzione sia legalmente costituite o sia esistenti di fatto le quali, non proponendosi scopi di privata speculazione, attuino nell’esclusivo interesse dei soci lavoratori i principi della cooperazione.

 

 

CAPITOLO IV.

 

 

Le esenzioni abolite.

 

 

Par. 33. – Abolizione delle esenzioni speciali e degli ammortamenti stabiliti prima ai fini della imposta sui profitti di guerra.

 

 

Gravissima tra le questioni presentatesi all’esame della Commissione è quella che era posta dalla abolizione voluta dalla legge 24 settembre 1920 dell’esenzione dall’imposta e sovrimposta sui sovraprofitti, in virtù di speciali disposizioni legislative e della ripresa in tassazione dei profitti che erano stati cancellati in virtù di norme particolari relative alla quota straordinaria di ammortamento per sopracosto o deperimento. Nella relazione presentata dal Senato, a nome della Commissione di Finanza, dal relatore onorevole Carlo Ferraris, è esaminata attentamente tutta questa materia ed è fatto un quadro compiuto delle esenzioni speciali concesse in materia dei sovraprofitti di guerra. Qui non si ripete quella dimostrazione supponendola nota.

 

 

Par. 34. – Le esenzioni alla Marina mercantile.

 

 

Forse il caso più importante di esenzione è quello della Marina mercantile.

 

 

Le situazioni create in virtù dei crediti di esenzione di cui i principali si possono intitolare al nome del ministro proponente e cioè i decreti Arlotta, 10 agosto 1916, n. 1.031; Villa, 18 agosto 1919 [rectius 1918], n. 1.149; De Nava, 30 marzo 1919, n. 502, si possono brevemente riassumere così:

 

 

Par. 35. – a) il caso delle navi in corso di esercizio a noleggio biennale e delle navi in costruzione le quali potranno andare a noleggio biennale.

 

 

Trattasi delle navi in corso di esercizio a noleggio biennale e di quelle in costruzione che potranno entrare in esercizio prima dello scadere dei termini per fruire del noleggio biennale (articolo 1 del decreto Villa 18 agosto 1919 [rectius 1918], n. 1.149, e articolo 1 del decreto De Nava del 30 marzo 1919, n. 502). Per queste navi lo stato nei due anni che le detiene a noleggio biennale, corrisponde un nolo mensile comprendente l’ammortamento del loro sovraccosto fino al limite della tabella, così detta B), in base alla quale lo stato indennizzava gli armatori delle navi perdute in servizio di requisizione. L’importo delle sovrimposte investite nell’acquisto viene dedotto dal sovraccosto da ammortizzarsi.

 

 

In conseguenza di questo congegno finanziario, lo stato viene a corrispondere due specie di sussidi per consentire all’armatore l’ammortamento della nave. Uno consistente nella esenzione dalle imposte sui sovraprofitti e l’altro nel nolo mensile.

 

 

Si premette che il legislatore ha voluto durante la guerra, ed ancora durante l’armistizio incoraggiare l’acquisto e la costruzione di navi appartenenti alla bandiera nazionale. Il problema economicamente si impostava così. A causa della diminuzione della costruzione e degli alti noli liberi che potevano essere lucrati dalle navi non requisite, il valore delle navi era aumentato notevolmente, cosicché mentre, ad esempio, una nave poteva innanzi alla guerra avere un valore di lire 300 per tonnellata. D. W., durante la guerra essa acquistò un valore di 1.800 per tonnellata D. W. Era presumibile allora che la nave avrebbe, col ritorno di condizioni normali, perduto gran parte del suo valore straordinario di monopolio e sarebbe a grado a grado tornata al valore originario di 300 lire: nessun armatore perciò si azzardava ad acquistare o a comperar navi, ove egli non fosse stato sicuro di potere, col guadagno dei noleggi elevati, ammortizzare la differenza tra 1.800, prezzo d’acquisto e 300 lire, prezzo a cui si prevedeva che la nave sarebbe diminuita, per tonnellata D. W., al ritorno di condizioni normali. Se non fosse stata prevista la possibilità di tale ammortizzo, nessuno avrebbe acquistato o fatto costruire navi. D’altro canto interessava allo stato che gli armatori italiani non rimanessero secondi nella gara che dappertutto si era pronunziata per l’accaparramento delle poche navi disponibili e riteneva di essere altresì interessato che i cantieri nazionali non perdessero tempo nel cominciare la costruzione di nuove navi atte ad arricchire la Marina mercantile nazionale che dai siluramenti era stata assai depauperata. Non voleva d’altro canto lo stato perdere il suo diritto di vincolare i noli allo scopo di impedire l’aumento eccessivo di essi, mentre nel tempo stesso voleva esser garantito di avere a propria disposizione una certa massa di tonnellaggio.

 

 

Per raggiungere tale intento lo stato offrì agli armatori di noleggiare per due anni le navi che essi avessero acquistato o che avessero costruito, purché esse fossero entrate in esercizio entro una certa data. Il nolo mensile convenuto dallo stato comprendeva oltre che il compenso per le spese di esercizio e un interesse per il capitale investito dall’armatore, anche un sovrapiù sufficiente per l’ammortamento entro i due anni della differenza tra il prezzo eccezionale di lire 1.800 addotto sopra ad esempio ed il prezzo che si supponeva dovesse ritornare normale, ad es. di lire 300. In una tabella cosi detta B, allegata al decreto Villa del 18 agosto 1919 [rectius 1918], n. 1.149, furono appunto indicati i prezzi che erano considerati come normali della nave, ed in base a cui lo stato si accollava l’ammortamento del sovracosto al disopra di detto valore della tabella B.

 

 

In un momento successivo lo stato, a facilitare ancor meglio la ricostituzione della Marina mercantile, esentò dall’imposta e sovrimposta sui profitti, i profitti i quali fossero investiti nell’acquisto di navi mercantili estere o nella costruzione di navi mercantili nei cantieri nazionali, per una somma quadrupla dell’ammontare dell’imposta dovuta sui redditi colpiti, somma che poi fu ridotta al doppio. L’esenzione fu subordinata al versamento presso la Cassa Depositi e Prestiti come deposito infruttifero, di una somma corrispondente all’imposta dovuta: il deposito doveva intestarsi al contribuente che acquistava o faceva costruire la nave con annotazione di vincolo a garanzia della imposta dovuta allo stato. Lo svincolo della somma depositata era accordato con decreto emesso di concerto dai ministri competenti, a condizione che fosse investita nell’acquisto o nella costruzione di una nave o caratura di nave una somma doppia dell’ammontare dell’imposta di guerra e che le navi nelle quali era investita la somma predetta entrassero in effettivo esercizio sotto bandiera nazionale entro un determinato termine. Ove il termine e le condizioni prescritte non fossero osservate, la somma depositata veniva introitata dallo stato con decreto emesso dai ministri competenti.

 

 

In questa maniera, come si disse sopra, l’aiuto porto dallo stato alla ricostituzione della Marina mercantile prendeva due forme a seconda che l’armatore acquistasse o facesse costruire la nave tutta con capitale suo proprio che qui si chiamerà capitale nuovo; e in parte con profitti di guerra che sarebbero stati assorbiti dallo stato a titolo di sovrimposta.

 

 

Se noi facciamo il primo caso, quello nel quale l’armatore abbia costruito la nave totalmente con capitale suo proprio nuovo, senza fruire di alcun beneficio di esenzione, lo stato doveva ammortizzare la differenza fra 1.800 lire costo completo della nave e 300 lire, valore presunto secondo la tabella B) della nave al ritorno delle condizioni normali, ossia lire 1.500.

 

 

Il nolo biennale corrisposto in 24 mensilità dallo stato doveva essere sufficiente e fu calcolato in maniera che fosse sufficiente a restituire all’armatore oltre che le spese di esercizio e gli interessi sul capitale impiegato, altresì quelle 1.500 lire di sovracosto che si supponeva dovessero scomparire al ritorno di condizioni normali.

 

 

In questo primo caso non essendovi impiego di somme esentate da imposte sui sovraprofitti di guerra, nessuna variante è da introdursi nel calcolo del nolo biennale.

 

 

Ove invece l’armatore avesse impiegato nell’acquisto della nave, per metà capitale suo proprio o nuovo e per metà sovraprofitti di guerra che altrimenti sarebbero stati assorbiti da sovraimposte, allora il conto del nolo biennale fu fatto legittimamente in una diversa maniera e cioè lo stato considerò come non investite le 900 lire di sovrimposte esentate e reputò che il capitale nuovo investito dall’armatore fosse soltanto di 900 lire e quindi calcolò il nolo biennale in una cifra più bassa, cosicché esso bastasse ad ammortizzare soltanto la differenza tra le 900 lire di capitale proprio dell’armatore e le 300 lire a cui si suppone sempre che la nave si riduca al ritorno di condizioni normali.

 

 

La differenza tra i due casi è dunque la seguente: che nel primo, quando l’armatore investe tutto il capitale proprio, lo stato gli dà una sola specie di sussidio, ossia gli restituisce il solo costo straordinario di lire 1.500 (differenza fra 1.800 e 300) in tante mensilità, sotto forma di noleggio – biennale; nel secondo caso invece il sovracosto risulta sempre di lire 1.500, uguale all’anzidetta differenza, ma di queste 1.500, lire 900 lo stato le rimborsa mercé condono di altrettanta somma di sovrimposta sui sovraprofitti e seicento le restituisce sotto forma di noleggio biennale.

 

 

A questo punto interviene la legge 24 settembre 1920 la quale dichiara soppresse le esenzioni accordate precedentemente, ed avoca allo stato le somme che prima erano state esentate.

 

 

Par. 36. – Influenza della legge d’avocazione a perturbare il calcolo del nolo biennale.

 

 

Le rappresentanze degli armatori, che ripetutamente ottennero di essere sentite dalla Commissione, misero innanzi parecchie proposte allo scopo di uscire dalla situazione la quale era creata da un lato dai decreti di incoraggiamento alla Marina mercantile e dall’altro lato dalla legge di avocazione del 24 settembre. Alcune avrebbero voluto che nel caso in discorso l’abolizione dell’esenzione non potesse ritenersi aver vigore, inquantoché si trattava non di una esenzione vera e propria dall’imposta, non di un beneficio arrecato al contribuente, ma di un compenso dato sotto questa forma dallo stato per sopperire ad una perdita che il contribuente avrebbe subito. Altri invece si limitò a chiedere che fossero stabilite delle norme in rapporto alle quali non fosse creata disparità di trattamento tra coloro che avevano investito capitali propri e coloro i quali invece avevano investito in parte capitali propri e in parte profitti esentati dall’imposta. Ed invero, continuando nel ragionamento esposto sopra, se oggi lo stato con la avocazione dei profitti prima esentati dall’imposta, viene a costringere l’armatore del secondo caso a versargli le 900 lire che prima erano state esentate, è evidente che il costo della nave per l’armatore cessa di essere quello soltanto di 900 lire (1.800 costo totale meno 900 sovrimposte esentate) ma diventa di tutte le 1.800 lire come per l’armatore del primo caso: tutte le 1.800 lire investite dall’armatore necessariamente devono ad esso provenire da capitale proprio dell’armatore, o nuovo o fresco come dir si voglia, e tutto quindi ha diritto all’ammortamento a norma del nolo biennale, così come fu stabilito per gli armatori della prima categoria.

 

 

Par. 37. – Non si può considerare nulla l’abolizione dell’esenzione voluta dalla legge 24 settembre 1920.

 

 

La Commissione non ha potuto entrare nell’ordine di idee di coloro i quali ritenevano che dovessero ancora mantenersi in qualche maniera in vigore le esenzioni che erano state concesse dai ripetuti decreti di incoraggiamento alla Marina mercantile. Dal far questo essa si trova assolutamente impedita dalla tassativa norma contenuta nell’articolo primo della legge 24 settembre 1920. Essa ha per compito di interpretare la legge, o meglio, di dare il suo parere sull’interpretazione che della legge stessa il governo abbia dato, ma non può creare la legge e neppure modificarla in alcuna maniera.

 

 

Poiché la legge stabilisce che siano abolite le esenzioni date prima, l’abolizione deve avere pieno vigore, e quindi in questo caso, come in tutti gli altri casi che saranno dopo esaminati, bisogna affermare il diritto assoluto e incontrastabile della finanza a riprendere i profitti di guerra che prima erano esenti dalla sovrimposta. Naturalmente la ripresa dei profitti esentati dall’imposta deve farsi, come si dirà poi, entro i limiti in cui i profitti stessi siano tuttora esistenti; e saranno in seguito appunto esaminate le questioni le quali toccano gli ammortamenti che debbono essere concessi per il deperimento sia fisico sia economico degli enti patrimoniali del contribuente. Come sarà detto poi, la nave acquistata dall’armatore per lire 1800 non dovrà essere senz’altro valutata per 1.800 lire per tonnellata D. W. come costò all’armatore; bisognerà guardare al valore che la nave stessa avrà nel periodo, che vedremo quale sia stato ritenuto opportuno di suggerire: ma fissato questo valore al 30 giugno 1920, cioè l’epoca nella quale si chiude il periodo di guerra, tutto il profitto di guerra prima esentato dall’imposta e che oggi si riconosca ancora sussistente in seguito alla valutazione così fatta della nave deve essere avocato allo stato.

 

 

Par. 38. – Voto della Commissione ai fini della revisione del calcolo del nolo biennale.

 

 

La Commissione però non ritiene di aver esaurito il suo compito quando abbia così provveduto all’applicazione della legge di avocazione. Essa non può non rilevare che l’applicazione doverosa dell’avocazione dei guadagni di guerra porta a conseguenze finanziarie rilevanti nell’economia dei contribuenti colpiti dall’avocazione e mette taluno di essi in una condizione di evidente inferiorità e di evidente perdita in confronto ad altri contribuenti. Suppongasi invero, continuando nell’esempio sopradetto, che tutte le 900 lire che il contribuente del secondo caso investì applicando alla costruzione di navi sovrimposte esentate siano oggi assorbite dalla avocazione: è chiaro, come già fu detto, che il costo della nave che per costui era calcolato ai fini del noleggio biennale soltanto di 900 lire, ridiventa di 1800, ed allora egli si trova nella medesima posizione del contribuente del primo caso.

 

 

Come questi egli ha investito 1800 lire, come questi egli ha diritto ad ottenere il compenso per il sovracosto di 1.500 lire e non soltanto di 600 lire. La Commissione ritiene che il governo debba attentamente studiare questa materia e debba farsi luogo ad una revisione del nolo biennale, cosicché il secondo contribuente non venga ad essere danneggiato in confronto del primo.

 

 

Qui appare come la funzione del Ministero delle Finanze debba essere giustamente e completamente separata dalla funzione degli altri ministeri i quali provvedono a scopi d’incoraggiamento dell’economia nazionale.

 

 

È pericoloso che gli altri ministeri per incoraggiare la Marina mercantile o per raggiungere un qualsiasi altro scopo, sottraggano a quello delle Finanze tributi stabiliti dalle leggi generali. In questa maniera viene ad esser resa meno chiara la situazione del bilancio dello stato e sembra quasi che il sacrificio sopportato dall’erario sia minore di quello che effettivamente è. In sostanza, in ambedue i casi sopraesaminati lo stato sopportò un sacrificio di 1.500 lire per tonnellata D. W. allo scopo di affrettare e consentire la costruzione di navi nei cantieri nazionali o di arricchire di navi estere la bandiera nazionale; ma nel primo caso tutto il sacrificio di 1.800 lire sopportato dall’erario compariva nel bilancio dello stato, mentre nel secondo caso sembrava quasi che il sacrificio fosse solo di 600 lire, essendo le altre 900 lire date per mezzo di un’esenzione tributaria, ossia date in modo che la somma pagata all’armatore dallo stato non figurava da una parte in entrata del Ministero delle Finanze e dall’altra in uscita del Ministero dei Trasporti. È opportuno che la legge di avocazione abbia ristabilito la netta situazione di cose e che la finanza torni ad avere tutto ciò che le era dovuto ossia le 900 lire di sovrimposta sui profitti di guerra. La conclusione sarà che nel bilancio del Ministero dei Trasporti dovrà essere iscritta una maggiore somma a titolo di noli biennali, corrispondente appunto a queste 900 lire di cui prima il contribuente aveva ottenuto l’esenzione e per cui oggi l’esenzione è tolta.

 

 

Questa conclusione della Commissione lascia impregiudicata la questione del valore di confronto da stabilirsi per il calcolo del sovracosto da ammortizzare. La legislazione vigente considerava il sovracosto eguale alla differenza tra il prezzo d’acquisto o di costruzione della nave ed il prezzo stabilito nella tabella B). Su di ciò la Commissione non esprime alcun parere e lascia ai ministri competenti la cura di provvedere in materia. Ma nessun danno potrà evidentemente venire alla finanza dello stato quand’anche il valore di confronto continui ad essere quello indicato nella tabella b) inquantoché, ove ciò si faccia, è evidente che l’armatore riceverà a titolo di nolo biennale il rimborso dell’intera differenza tra il prezzo effettivo da lui sborsato per l’acquisto o la costruzione della nave ed il prezzo della tabella B): tutta questa somma sarà considerata come una partita d’entrata nel suo bilancio a cui corrisponderanno nella parte passiva del bilancio le spese di esercizio e tutte le altre spese le quali possono diminuire il suo prodotto lordo. La finanza per mezzo della imposta sui sovraprofitti e per mezzo della avocazione assorbirà quanta parte legalmente le è dovuta del nolo biennale in questa maniera calcolato.

 

 

Se si assumesse un’altra cifra invece di quella della tabella B), ad esempio una cifra maggiore, evidentemente il nolo biennale verrebbe ad essere minore: la somma della parte attiva del bilancio risulterebbe meno elevata e scemerebbe il profitto di guerra da avocarsi a favore dello stato. Sembra dunque che sia indifferente dal punto di vista fiscale, che è quello che qui ci interessa, quale sistema debba essere osservato nel calcolo del nolo biennale, purché sia ben stabilito che tutto il profitto di guerra calcolato così come il regolamento presente stabilisce, debba essere avocato allo stato.

 

 

Par. 39. – b). Il caso delle navi in corso di esercizio, le quali optarono per il nolo libero.

 

 

È il caso delle navi già in corso di esercizio le quali optarono a norma dell’articolo 12 del decreto De Nava 30 marzo 1919 per il nolo libero, anziché avvalersi del regime a nolo biennale e della conseguente garanzia di esercizio. In questo caso le conseguenze tributarie non sono diverse da quelle già indicate alla lettera a), ma sono diverse le conseguenze di indole economica. Supponiamo sempre che il costo della nave sia stato di 1.800 lire per tonnellata D. W.; supponiamo ancora che il contribuente abbia acquistato o fatto costruire la nave mercé l’aiuto di 900 lire di sovrimposte esentate: il capitale nuovo da lui investito risulta perciò anche qui di 900 lire e poiché la tabella B) stabilisce come valore normale quello di 300 lire, il capitale nuovo da ammortizzare risulta anch’esso di 600 lire per tonnellata D. W. A differenza del caso a) in cui queste 600 lire erano rimborsate dallo stato attraverso il nolo biennale, non si effettua il rimborso. Le navi hanno prescelto di correre la sorte del mercato libero e quindi corrono il rischio di ottenere o non ottenere il rimborso del sovracosto da ammortizzare. Tuttavia lo stato aveva voluto anche qui aiutare la industria dell’armamento, stabilendo di concorrere con una somma uguale al sesto del sovracosto da ammortizzare. Nell’esempio ora fatto lo stato diede una quota di concorso di 100 lire (un sesto di lire 600), cosicché l’armatore doveva correre il rischio soltanto per le rimanenti 500 lire per tonnellata D. W.

 

 

Par. 40. – Voto della Commissione per la revisione della quota di concorso del sesto.

 

 

La conclusione dal punto di vista tributario appare semplice alla Commissione: tutte le 900 lire di sovrimposta prima esentate devono essere avocate allo stato. Su ciò non vi è dubbio ed il compito della finanza si limita esclusivamente a provvedere che le 900 lire versate dal contribuente al tesoro dello stato.

 

 

Finito però il compito della finanza pare alla Commissione non sia finito il compito dello stato e principalmente di quel dicastero dei Trasporti che provvede alla Marina mercantile; inquantoché se lo stato non intervenisse, nascerebbe un’evidente disparità di trattamento fra coloro i quali hanno costruito navi con capitale tutto proprio senza ricorrere all’investimento di sovrimposte esentate e gli armatori che si giovarono di queste sovrimposte, inquantoché i primi (rifacciasi sempre l’esempio ripetuto) avrebbero avuto il diritto di ottenere dallo stato un sesto dell’intera differenza tra 1.800 e 300 lire, ossia un sesto di 1.500 lire, cioè 250 lire, mentre gli altri ottennero soltanto, come si disse sopra, a titolo di sesto la somma di 100 lire. Oggi che la finanza riprende tutte le 900 lire di sovrimposte esentate, anche il secondo contribuente viene ad avere una cifra di capitale proprio investito di 1.800 lire da cui deducendo le 300 lire della tabella B) risulta il sovracosto da ammortizzare di 1.500 lire. E poiché lo stato aveva deliberato di concorrere nella misura del sesto, ragione vorrebbe che anche per costui si rifacesse il calcolo e che invece di 100 lire il sesto fosse elevato a 250 lire. Egli dovrà correre il rischio, avendo prescelto il nolo libero, del residuo sovracosto e cioè di 1.250 lire, mentre prima in regime di esecuzione l’aveva corso soltanto per 500 lire. Questa è una conseguenza ineluttabile della avocazione. La Commissione propone perciò che la avocazione abbia la sua piena esecuzione, ma che in altra sede e principalmente da parte di quel dicastero che provvede alla Marina mercantile, si riprenda in esame il calcolo del sesto e che i contribuenti a danno dei quali oggi si fa la avocazione, siano messi nella medesima condizione in cui sarebbero stati se essi fin dal principio avessero investito nell’acquisto o nella costruzione di navi tutto [il] capitale proprio, invece che in parte proprio e in parte sovraimposte esentate.

 

 

Par. 41. – c) Navi in corso di costruzione.

 

 

In questa terza categoria entrano le navi in costruzione o di cui la costruzione deve ancora essere iniziata con materiali già impegnati, le quali non potranno entrare in esercizio entro i termini consentiti per il noleggio biennale ma vi entreranno entro 18 mesi dalla pubblicazione della pace, se acquistate all’estero, oppure entro 30 mesi se costruite in Italia (art. 12 del decreto De Nava del 30 marzo 1919). La questione in questo caso riguarda principalmente i costruttori, perché per la maggior parte non trattasi di navi espressamente commesse ma di navi per le quali i costruttori hanno provveduto per loro conto ad acquistare i relativi materiali allo scopo di evitare soste di lavoro nei loro cantieri.

 

 

Affermano i costruttori venuti innanzi alla Commissione che essi non possono, in mancanza di ordinazioni, chiudere senz’altro i loro cantieri e riversare sulla piazza le maestranze: essi hanno predisposto, per temperare tali perniciose conseguenze, col provvedere a costruire per proprio conto, affrontando le alee di quello che sarà il valore commerciale delle navi al tempo in cui queste potranno essere pronte per la navigazione. Ma tale loro iniziativa essi dicono aver avuto esclusivamente per base la facoltà del reimpiego delle sovrimposte derivanti dagli utili di costruzione e delle altre esentate a tale scopo per cui il costo reale della nave restava istantaneamente ridotto alla metà; alla residua differenza per raggiungere il prezzo di mercato, avrebbero fatto fronte con gli eventuali utili dei noli e con gli altri profitti conseguiti durante la guerra. Ora nessun affidamento può ancora farsi che i noli ritornino ai prezzi trascorsi così da permettere larghi ammortamenti.

 

 

D’altra parte lo stato ha avocato ogni disponibilità, per cui i cantieri così impegnati si avviano ad una perdita gravissima che non è più perdita di profitto ma perdita reale del proprio capitale.

 

 

La determinazione presa, per necessità di interpretazione logica della legge, di non allontanarsi menomamente dal concetto che le esenzioni precedenti debbono essere completamente abolite e le sovrimposte relative riassorbite dallo stato, viene ad essa di fare qualsiasi eccezione alla regola stabilita. Anche qui però la Commissione fa presente al governo l’opportunità e la giustizia che anche per questa terza categoria di navi si rivedano le provvidenze a suo favore stabilite, in guisa tale che non esista alcuna differenza fra gli incoraggiamenti o sussidi che lo stato avrebbe dato, qualora l’armatore abbia iniziato la costruzione e possa ultimarla entro termini stabiliti dalla legge fidandosi delle sole due forze, e gli incoraggiamenti datigli nel caso in cui egli invece abbia fatto affidamento sulle esenzioni ora abolite. Poiché l’esenzione ora non esiste più, l’armatore o costruttore deve essere considerato come colui il quale abbia nella nave investito tutto capitale proprio; e perciò se il governo ha ritenuto, o riterrà, che un dato sussidio debba essere fornito all’armatore o costruttore, questo sussidio non abbia a differenziarsi menomamente, a causa dell’avvenuta esenzione prima, ed avocazione poi.

 

 

Par. 42.- Le navi da carico perdute per causa di guerra.

 

 

Diversa da quella precedente è la questione delle navi da carico perdute per causa di guerra. La questione può essere posta nella seguente maniera:

 

 

La legislazione vigente in materia di sovraprofitti di guerra decreto luogotenenziale 9 giugno 1918, n. 857, allegato B [rectius A] articolo 12 – qualificava come sovraprofitti i redditi derivanti da indennizzo per la perdita di navi eccedenti il valore dell’ante-bellum: se, per esempio, innanzi alla guerra il valore di una nave era di 300 lire per tonnellata D. W. e in seguito alla perdita avvenuta per causa di guerra, l’armatore ottenne dallo stato o da compagnie private di assicurazione un indennizzo di lire 1.800, le lire 1.500 di differenza furono considerate come sovraprofitto di guerra tassabile ed ora sarebbero profitto di guerra avocabile interamente allo stato. Subito gli armatori protestarono vivamente, contro questa norma di legge, affermando essere assurdo considerare come profitto di guerra la differenza fra il valore di assicurazione ed il valore ante bellico, inquantoché ciò a cui si deve badare, non è la somma diversa riscossa dall’armatore in confronto a quella spesa da lui per l’acquisto della nave, ma è invece l’eventuale diversità tra la nave nuova costruita e la nave vecchia perduta: Se, in sostanza, mercé l’indennizzo ricevuto di 1.800 lire, l’armatore riuscì ad acquistare soltanto una nave identica a quella perduta e che gli era costata 300 lire, è evidente che egli non ha ottenuto alcun lucro: egli possiede una nave come la possedeva prima. È vero che la nave vale oggi 1.800 lire per tonnellata D. W. mentre valeva 300 lire soltanto prima della guerra, ma in conclusione egli non è né più povero né più ricco di prima. Innanzi tutto può darsi, ed è possibile accada, che la nave torni ad avere un valore non superiore a quello ante-bellum, nel qual caso l’arricchimento a 1.800 lire sarebbe stato un puro fenomeno momentario destinato a risolversi in nulla, ed in secondo luogo, se anche al ritorno di condizioni normali la nave conserverà un valore superiore a quello originario, in realtà, ove si tenga conto della svalutazione della moneta, non vi sarà probabilmente alcuna differenza tra i due valori. Considerare tassabili ed ora avocabile la differenza, equivale a portar via al contribuente che avesse una nave i cinque sesti o i quattro quinti della nave medesima ed a farlo rimaner di gran lunga più povero di quanto non fosse antecedentemente. Le quali considerazioni parvero sicuramente alla Commissione di gran peso non potendosi certamente affermare che un vero arricchimento vi sia stato nei casi in cui l’armatore abbia reinvestita la somma ottenuta dall’assicurazione nell’acquisto di una nuova nave in tutto simile a quella che egli aveva perduta. Ma la Commissione si trova a questo punto legata dalle deliberazioni a maggioranza già prese in casi precedenti e poiché essa ha deliberato di non poter rivedere le definizioni che nel reddito ordinario erano state date in tema di sovraprofitti di guerra, così essa non ha ritenuto di poter fare alcuna proposta di variante al regolamento ministeriale in questa materia.

 

 

Par. 43. – Deduzione delle spese delle grosse riparazioni e riclassifica delle navi.

 

 

Ancora rispetto alle navi una questione di capitalissima importanza fu sollevata dagli armatori ed è quella relativa alla deduzione delle spese per riparazioni dei piroscafi. Osservano gli armatori:

 

 

«Si possono distinguere le riparazioni ordinarie e straordinarie e le riparazioni di riclassifica, le quali ultime sono quelle eseguite su richiesta del registro nazionale in occasione delle visite speciali che avvengono ogni quattro anni ed in base alla quale viene rinnovato al piroscafo il certificato di classe. La finanza negli accertamenti relativi alla sovrimposta sui sovraprofitti ha negato la deduzione delle anzidette spese considerandole perciò come redditi. Fa d’uopo accennare alle condizioni nelle quali si svolse durante la guerra l’industria dell’armamento in rapporto alle riparazioni delle navi. I piroscafi furono sottoposti al massimo sforzo; la necessità di navigare fece pretermettere ogni altra considerazione relativa all’opportunità tecnica di effettuare le riparazioni che, tranne casi di necessità assoluta, si dovettero senz’altro rinviare. Da ciò è derivato agli armatori un danno rilevantissimo: infatti, se le riparazioni fossero state compiute quando tecnicamente era il momento di farle, quando l’armatore le avrebbe fatte se non ne fosse stato impedito da vincoli legislativi e da ordini dell’amministrazione della Marina, esse sarebbero costate una somma di gran lunga minore di ciò che costarono di poi in seguito agli aumenti dei materiali e della mano d’opera. Nonostante ciò la finanza considera queste spese di riparazioni straordinarie e di riclassifica come spese d’impianto e quindi non le ammette in detrazione. La tesi della finanza è la seguente: il piroscafo, a seguito delle riparazioni, subì un miglioramento corrispondente alla spesa; correlativamente è aumentata perciò la consistenza patrimoniale dell’armatore e quindi la spesa va colpita come sovraprofitto di guerra. La tesi della finanza è viziata da due errori: prima di tutto disconosce il principio per cui non può costituire utile quanto si è dovuto spendere per mantenere lo strumento di produzione in stato di produrre. Se il piroscafo ha i tubi guasti, l’armatore deve mutarli, se non li muta il piroscafo non naviga più, ossia non produce più. In secondo luogo non si può invocare il maggior valore del piroscafo essendo tale concetto assolutamente estraneo alla materia considerata. La legge d’imposta di ricchezza mobile, per determinare la deducibilità delle spese, non prende affatto in considerazione il valore degli impianti, ma bensì e soltanto ha riguardo al principio della reintegrazione del mantenimento in efficienza degli strumenti di lavoro. Il piroscafo navigando si consuma; per mantenerlo in efficienza onde possa continuare a navigare, bisogna fare riparazioni ordinarie e straordinarie di riclassifica per sostituire elementi, lamiere, tubi fuori uso: tutto ciò è pura e semplice reintegrazione dello strumento di produzione. Sostenere il contrario in base al pretesto che ogni piroscafo è cresciuto di valore, è una via indiretta e mascherata per giungere ad una rivalutazione degli impianti. Ma ad un tale estremo nessuno ha ancora dichiarato di voler giungere e la legge finora vieta tale jattura».

 

 

Fin qui gli armatori. Ma la Commissione non ritenne di dover fare una proposta specifica in sede di regolamento a questo riguardo: la questione non pare invero debba essere risoluta, in tema di avocazione, diversamente da come verrebbe ad essere risoluta in via normale in tema di applicazione dell’imposta di ricchezza mobile. Gli stessi principi debbono presiedere all’imposta di ricchezza mobile ed a quella sui sovraprofitti ed alla avocazione, le quali in sostanza non sono che un inasprimento fino al massimo del 100% dell’imposta normale di ricchezza mobile; e perciò, salvo i casi particolari che sopra furono indicati, gli stessi criteri che debbono valere per il calcolo del reddito netto per l’imposta fondamentale debbono essere quelli che valgono per le imposte accessorie. Alla Commissione pare che il concetto giusto il quale deve tenersi presente in sede di interpretazione della legge vigente, sia quello di considerare come detraibili dal reddito lordo ottenuto durante la guerra, tutte le spese le quali idealmente possono riferirsi al medesimo periodo di guerra. Supponiamo che una nave si trovasse in stato di efficienza perfetta all’1 agosto 1914: su quella nave non furono eseguite grosse riparazioni e spese di riclassifica e per l’urgenza del tempo, furono male eseguite le comuni spese di manutenzione e di riparazioni, cosicché essa alla fine della guerra si trova deteriorata per metà della sua consistenza originaria al principio della guerra. Se essa si trova in queste condizioni, è chiaro che nel conto di esercizio degli anni di guerra deve essere messa in spesa una quota per le usuali manutenzioni e riparazioni e per la ricostituzione della nave: la quota stessa deve avere durante gli anni di guerra acquistato tali dimensioni da poter provvedere a ricostituire la nave così come essa si trovava in principio della guerra. Questa spesa, anche se non fu effettivamente sostenuta, è una spesa da ritenersi sempre stata ammessa come deducibile, trattandosi di un vero e proprio deperimento dell’ente patrimoniale. Ove invece di provvedere soltanto all’accantonamento delle quote necessarie per ricostituire la nave nella sua efficienza ordinaria si sia provveduto in un qualunque momento, e supponiamo anche in fine del periodo di guerra, a questa ricostituzione, se con essa non si fece acquistare alla nave un efficienza superiore a quella che essa aveva guadagnato, l’armatore si trovò semplicemente nella situazione in cui era prima. Questi principi ora esposti paiono alla Commissione ovvi e dedotti dalle interpretazioni della legge vigente. Essa non ritiene che faccia d’uopo alcuna norma nuova, potendosi questa già coi criteri stessi dedurre dalla legislazione vigente.

 

 

Par. 44. – L’avocazione rispetto agli impianti idroelettrici.

 

 

I principii esposti a proposito della Marina mercantile debbono essere tenuti presenti dall’amministrazione dello stato – e a tale scopo la commissione fa esplicito voto in questa relazione – anche in tutti gli altri casi di avocazione di somme le quali prima erano esenti da sovrimposta.

 

 

Un caso particolare di gran rilievo fu segnalato alla Commissione a proposito degli impianti idroelettrici. In applicazione del decreto luogotenenziale 28 marzo 1919, n. 454, e di altri decreti, furono accordate facilitazioni speciali a tutti coloro che si fossero assunta la costruzione di centrali termo – elettriche o di altri impianti di utilizzazione, dei combustibili nazionali. Le facilitazioni principali erano le seguenti: 1) in primo luogo la facoltà, di, impiego dei sovraprofitti con esenzione dal pagamento dell’imposta relativa; 2) sussidi da parte dello stato per 20 anni elevabili nel caso di centrali termiche fino a lire 150 annue per ogni kilowatt installato e precisamente fino all’occorrente, per colmare, il disavanzo eventuale nel preventivo di esercizio. L’applicazione dei decreti fu affidata alla Sezione seconda del Consiglio superiore delle acque e la Commissione è stata autorevolmente informata che il Consiglio stesso, nel controllare i piani finanziari, computò come capitale remunerabile ed ammortizzabile nell’esercizio non l’intero capitale speso nell’impianto, ma questo, diminuito della quota restituita al concessionario come esonero dall’imposta e sovrimposta sui profitti di guerra. E così il sussidio che avrebbe potuto raggiungere le lire 150 annue per Kw. fu ridotto a meno di 80 lire nei vari casi finora risoluti. Inoltre essendo ammessa una partecipazione dello stato agli utili superanti il 7% del capitale investito, fu imposto nel capitolato che nell’accertamento della percentuale degli utili il capitale investito dovesse considerarsi non nella sua integrità ma con detrazione della somma di cui sopra e cioè dei profitti di guerra esentati dall’imposta e sovrimposta relativa, che il concessionario si può dire otteneva a titolo di sussidio gratuito dallo stato. È evidente, che, mutatismutandis, si può per questi impianti di centrali termo – elettriche o in genere di utilizzazione dei combustibili nazionali, presentare il medesimo problema che fu chiarito sopra a proposito delle navi date a nolo biennale allo stato. Anche qui lo stato diede due forme di sussidi: l’uno consistente nella rinuncia da parte della finanza ad una certa somma che il contribuente avrebbe dovuto pagare a titolo d’imposta e sovrimposta sui sovraprofitti, la seconda in un sussidio annuo integratore del precedente contributo d’imposta. È evidente che se oggi, per effetto della avocazione, viene a cessare la prima forma di sussidio, il conto finanziario dell’intrapresa più non torna e perciò la seconda forma di sussidio dovrà essere riveduta e l’ammontare dovrà essere innalzato in guisa tale da soddisfare agli intenti che il legislatore si propose, così da permettere che possa formarsi un piano finanziario sufficiente per le imprese esercenti cotesti impianti.

 

 

Par. 45. – Conclusioni e voto della Commissione su tal punto.

 

 

La Commissione ripete qui le conclusioni a cui essa è giunta per le navi: doversi mantener fermo il principio della avocazione dei profitti che prima erano stati esentati dall’imposta; nulla quindi doversi variare a questo riguardo al progetto di regolamento apprestato dal governo; essere urgente però che il governo in altra sede o per mezzo delle amministrazioni a ciò delegate, riveda i rapporti creati tra lo stato ed il concessionario in guisa tale da riportare il piano finanziario a condizioni di equilibrio. La Commissione non vuole entrare a questo riguardo in una questione collaterale assai vessata, se cioè in taluni casi determinati non si tratti di una vera e propria esenzione d’imposta stabilita con una legge generale, ma si tratti di un sussidio particolare concesso convenzionalmente tra lo stato e i concessionari con un contratto nel quale si fossero precisati gli obblighi e i diritti delle parti contraenti. Tale questione esula dal campo d’indagine della Commissione e dovrà eventualmente formare materia di giudizio innanzi alla magistratura competente. La Commissione afferma soltanto che il principio della avocazione è assoluto e deve estendersi a tutti i casi nei quali l’esenzione era stata concessa ai contribuenti: ed afferma d’altro canto che in seguito a questa avocazione è mutata una condizione di cose in base a cui era stato stabilito per certe intraprese tale o tal altro ammontare di sussidio da parte dello stato. Mutata la situazione, il calcolo del sussidio deve essere riveduto in guisa da riportare la condizione del concessionario a quella che si sarebbe avuta se l’esenzione dei sovraprofitti non fosse mai stata concessa.

 

 

Par. 46. – Altri casi a cui la medesima soluzione deve applicarsi.

 

 

Situazioni consimili a quella ora spiegata per gli impianti termo-elettrici possono essersi presentate anche in altri casi; come ad esempio per gli impianti idro-elettrici in generale, per gli investimenti in impianti industriali che verranno creati nella zona industriale di Roma prima della fine del 1933; per le società anonime, in accomandita per azioni, per gli istituti di credito e le casse di risparmio aventi sede nei paesi già invasi dal nemico o sgombrati in tutto o in parte per esigenze militari. In tutti questi casi la avocazione degli utili di guerra deve aver luogo perché cosi prescrive la legge 23 [rectius 24] settembre 1920: ma nei casi nei quali l’avocazione predetta turbi la situazione finanziaria degli enti o contribuenti colpiti, dovrà vedersi in opportuna sede se siano mutate le condizioni in base alle quali doveva aver luogo l’applicazione di altre leggi. Per esempio la Commissione ritiene che per quanto riguarda le intraprese aventi sede nei paesi invasi dal nemico o sgombrati in tutto o in parte per esigenze militari, debba il governo por mente alla influenza che sull’ammontare dei danni risarciti di guerra abbia cagionato prima l’esenzione ed ora la avocazione degli utili di guerra. È evidente che, in regime di esenzioni, il danno risarcibile a favore di un cittadino, in qualunque cifra fosse stato stabilito, doveva essere minorato dell’ammontare degli utili che avrebbero dovuto esser pagati a titolo di imposta e sovrimposta sui sovraprofitti e che non eran pagati grazie all’esenzione medesima. Oggi che l’esenzione viene tolta, l’ammontare dei danni risarcibili deve essere riportato alla sua cifra originaria senza alcun diffalco per un’esenzione che non esiste più. Ma questa è una raccomandazione viva che la Commissione fa al governo, perché ne tragga le conclusioni doverose in altra sede, non in questa tributaria, per cui soltanto la Commissione è chiamata a dare un parere.

 

 

CAPITOLO V.

 

 

Le detrazioni eccezionali per sovracosti e deperimenti e la rivalutazione delle attività patrimoniali.

 

 

Par. 47. – Le speciali detrazioni per sovracosti e deperimenti e loro fondamento economico.

 

 

L’articolo primo della legge assoggetta ad avocazione non solo profitti dichiarati esenti da speciali disposizioni legislative, ma altresì quelli destinati a speciali detrazioni per sovracosti o deperimento. L’origine di questa norma sta in quelle le quali avevano precedentemente, ai fini dell’imposta sui sovraprofitti di guerra, ammesso detrazioni straordinarie per sovracosto o deperimento di impianti compiuti a scopo di forniture di guerra. Il concetto che aveva presieduto a tali detrazioni straordinarie era per fermo ispirato alla realtà: poiché e evidente che gli impianti fatti durante la guerra soffrivano di parecchi vizi irrimediabili tra i quali si possono annoverare: lo straordinario loro costo dovuto all’inesperienza della manodopera da ogni parte raccolta e non abituata ancora alla lavorazione industriale; l’alto costo delle materie prime e dei combustibili, l’uso non buono che degli impianti e delle macchine costruite faceva poi negli stabilimenti industriali una maestranza mal pratica; l’intenso logorio a cui i macchinari e gli impianti andarono soggetti per l’affrettata lavorazione, mossa soltanto dalla necessità di giungere subito ad approntare i mezzi di difesa contro il nemico. Tutte queste ragioni facevano presagire che un impianto costruito col costo di 1 milione di lire in un dato anno di guerra non poteva presumersi potesse ancora valere tale cifra, diminuita soltanto dell’ammortamento ordinario che si usava concedere in applicazione dell’imposta di ricchezza mobile e che non si discostava da percentuali molto tenui, variabili da industria ad industria e da impianto ad impianto. Era logico ed era giusto che si ammettesse in principio la verità dell’allegazione fatta dagli industriali, secondo cui un impianto di un milione di lire alla fine della guerra doveva avere un valore di gran lunga minore. Altre considerazioni spingevano al medesimo risultato: gli impianti di guerra, non solo dovevano andar soggetti ad un deperimento fisico, ma altresì ad un deperimento economico.

 

 

Si prevedeva, ed accadde di fatto, che molti impianti i quali erano stati costruiti ad un determinato scopo bellico, non avrebbero più potuto dopo la guerra essere destinati al medesimo uso. Alcune fabbriche erano state impiantate su scala vastissima per la produzione di esplodenti e di munizioni da guerra: quale uso si sarebbe potuto trovare a tali fabbriche, quando la domanda bellica fosse ritornata alle sue dimensioni normali? Qualche trasformazione sarebbe stata in taluni casi possibile, ma con un costo elevato ed in proporzione limitata, poiché se tutte le fabbriche di esplodenti, ad esempio, si fossero convertite in fabbriche di colori chimici, l’Italia avrebbe trovato colori per una quantità di gran lunga esuberante al suo consumo interno e poiché in altri paesi il medesimo fenomeno di trasformazione si andava verificando, sarebbe stata impossibile l’esportazione. In taluni altri casi, come, per esempio, per gli hangars di aeroplani o di dirigibili, una qualsiasi trasformazione era esclusa ed i locali medesimi, costruiti a gran costo, mal si sarebbero potuti adottare ad un qualsiasi altro uso che non fosse completamente disadatto a sfruttarne l’intera capacità. Di qui le disposizioni le quali concessero, in via straordinaria, detrazioni per sovracosti e deperimenti; detrazioni le quali potevano andare nel periodo di guerra fino a cancellare, coi profitti, ottenuti nel periodo stesso, l’80% del costo di costruzione degli impianti.

 

 

Par. 48. – Mutazioni monetarie intervenute dopo l’armistizio.

 

 

La fine della guerra ed il periodo di armistizio fecero sorgere una nuova circostanza, la quale mise in forse l’opportunità di una detrazione straordinaria empiricamente determinata in una percentuale uniforme, così come era stato fatto in virtù della legislazione sui profitti di guerra. Questa legislazione, come vedemmo, portò alla detrazione uniforme e costante dell’80% sul valore degli impianti costruiti per forniture di guerra. La norma aveva il suo fondamento, oltre che nelle considerazioni che sopra furono esposte, altresì nella previsione che allora era generalmente fatta, di un ribasso notevole dei prezzi al chiudersi delle operazioni belliche. Questa previsione, come è risaputo, non ebbe a verificarsi: i prezzi, a causa della inflazione monetaria la quale si andò accentuando in Italia principalmente appunto alla fine della guerra, invece che diminuire andarono aumentando, sicché taluni impianti, i quali erano già stati ridotti di valore da 100 lire fino a 20 grazie agli ammortamenti straordinari, poterono conservare invece il valore antico a causa della svalutazione monetaria.

 

 

Par. 49. – Discussione dell’influenza che sul problema ha la svalutazione monetaria e del conto che se ne deve tenere in questa sede.

 

 

Qui in verità il problema sarebbe complicato dalla variazione della misura monetaria con la quale i valori erano stati stimati nei due diversi momenti della costruzione e della stima finale dopo eseguiti gli ammortamenti: perché nell’un caso il metro sarebbe stato quello di una lira meno svalutata, e nel secondo caso quello di una lira più svalutata. Il problema, per convinzione profonda del relatore, avrebbe dovuto esser preso in considerazione da un punto di vista generale, allo scopo di tener conto della svalutazione del medio circolante ogni qualvolta fosse stato necessario di fare un paragone fra impianti, navi ed altri enti patrimoniali esistenti prima della guerra e gli stessi enti alla fine del periodo di guerra. Il caso sarebbe stato particolarmente quello della perdita di navi già esistenti prima della guerra, in cui si fece cenno sopra: ma giova osservare come nel caso presente la svalutazione monetaria non produca conseguenze rilevabili. Infatti qui non si tratta di rivalutare gli impianti ed enti patrimoniali esistenti all’1 agosto 1914; gli enti stessi non essendo rivalutati, non danno luogo, e giustamente, a tassazione per profitti di guerra ed oggi ad avocazione: qui si tratta di quegli impianti, i quali furono costruiti durante la guerra e per cui si concedette una detrazione particolare in conto, sovracosto e deperimento, la quale venne a ridurre l’ammontare dei profitti tassabili ed avocabili nel periodo di guerra. Quindi si può ammettere che gli impianti per la parte per cui essi furono ammortizzati durante il periodo di guerra siano stati costruiti con i profitti stessi. In fondo il contribuente, il quale anticipò un milione di lire per un determinato impianto e subito riprese nell’anno stesso o in anni assai prossimi 800.000 lire di questo milione, fino alla concorrenza di 800.000 lire impiegò nell’impianto l’ammontare dei profitti, salvo per un breve periodo di anticipazione. Stando così le cose, ove alla fine del periodo di guerra l’impianto in realtà non valesse soltanto 200.000 lire ma avesse un valore superiore di 600.000 lire, accadrebbe che il contribuente avrebbe potuto tenere a sue mani sotto forma d’impianti un ammontare di profitto di 400.000 lire che secondo la legge avrebbe dovuto essere interamente avocabile allo stato. Questa è la ragione per la quale il legislatore nell’articolo primo della legge 24 settembre, dichiarò avocabili i profitti destinati a speciali detrazioni per sovracosto o deperimento. Ma questa dichiarazione deve essere naturalmente contemperata dall’altra che siano avocabili soltanto quei profitti i quali realmente risultino ancora esistenti alla data del 30 giugno 1920; perché, se essi non esistono più, malamente potrebbero essere avocati. Nel caso che sopra si è fatto il problema si imposterebbe nella seguente maniera su un milione di lire spese dal contribuente per un impianto, 800.000 lire gli furono già restituite mediante prelievo straordinario sui profitti ottenuti durante la guerra e che altrimenti sarebbero stati avocati allo stato; e poiché l’impianto al 30 giugno 1920 non ha soltanto il valore di 200.000 lire ma ha invece quello di 600.000, il contribuente avrebbe ripresa una somma superiore alla perdita realmente sofferta.

 

 

Quindi egli deve, a norma della legge di avocazione, restituire allo stato 400.000 lire di quelle che gli erano state assegnate a titolo di sovracosto: e così facendo il contribuente il quale ha speso di capitale suo nuovo o fresco un milione, avrebbe ricevuto il rimborso, con prelievo sui profitti, di 400.000 lire ed il suo dispendio effettivo si sarebbe ridotto a 600.000 lire. L’impianto al 30 giugno 1920 vale per l’appunto 600.000 lire, ossia una somma uguale a quella di cui il contribuente è in disborso. Certamente anche così rimane il problema della svalutazione monetaria, inquantoché può ben darsi che il contribuente abbia speso 600.000 lire in un momento in cui la lira aveva ad esempio un valore di 70 centesimi, mentre invece egli rimane con 600.000 lire investite in un impianto quando la lira vale soltanto 25 centesimi: ma questa è una condizione, non particolare ai contribuenti soggetti ad avocazione, ma generale a tutti quei cittadini i quali fecero un impiego di capitale in modo che il titolo o l’ente patrimoniale in cui la somma risparmiata fu investita conservò l’identico valore monetario nominale, ma un valore monetario reale inferiore a quello del momento dell’investimento. In un sistema tributario perfetto si dovrebbe tener conto di tale perdita di capitale per dedurre un’opportuna quota d’ammortamento sulle somme di reddito soggette altrimenti alle imposte. I sistemi tributari moderni sono poco adatti a tener conto di tale fattore e sarebbe soltanto augurabile che essi fossero temporaneamente adottati alle nuove circostanze in guisa almeno da non considerare come profitti o reddito od aumento di capitale, ciò che non è se non una mutazione di nome e può nascondere una perdita di capitale reale. Nel caso presente il contribuente, il quale rimane con un impianto valutato oggi 600.000 lire mentre egli aveva fatto un impiego di 600.000 lire buone o almeno migliori, corre l’alea di tutti i contribuenti i quali si trovino nella medesima situazione: non avendo egli realizzato l’impianto durante il periodo di guerra, non ancora si può dire quale possa essere il valore definitivo dell’impianto medesimo, non si può ancora fare il conto di quello che sarà per essere in definitiva la sua vera situazione finanziaria.

 

 

Par. 50. – Conclusioni della Commissione.

 

 

La Commissione, pur non nascondendosi la gravità altissima del problema, ha dovuto fermarsi nel suo compito di interpretazione della legge del 24 settembre a quello che è l’ordine tassativo del legislatore. Il legislatore disse che dovevano essere avocati i profitti che erano stati destinati a speciali detrazioni per sovracosti e deperimenti. La norma non può essere altrimenti interpretata se non nel senso di avocare allo stato la differenza tra il sovracosto legale che era stato detratto ed il sovracosto effettivo che eventualmente si possa accertare essersi realmente verificato, precisamente come si disse sopra nell’esempio considerato. Le difficoltà sorgono quando si tratta di tradurre in norma legislativa questo principio generale. La Commissione nel suo articolo 15 (vecchio articolo 12 del regolamento ministeriale) ha cercato di fare in modo che la norma fosse espressa nella maniera che più contemperasse i diritti della finanza col legittimo interesse dei contribuenti a non dare alla finanza stessa un profitto non più esistente.

 

 

Par. 51. – Ripresa da parte della finanza dei sovracosti e deperimenti straordinari.

 

 

Quindi in primo luogo, si sancisce il diritto della finanza a fare una rettifica delle valutazioni delle consistenze patrimoniali al 30 giugno 1920. Questa rettifica delle consistenze patrimoniali non è una rettifica generale anche delle consistenze preesistenti all’1 agosto 1914, ma è una rettifica fatta unicamente allo scopo di riprendere in esame le deduzioni che fossero state accordate in più di quelle ordinarie a titolo di sovracosto o deperimento degli impianti a qualunque scopo costruiti o trasformati. La norma si applica non soltanto ai sovracosti e deperimenti degli impianti costruiti a scopo di esecuzione di forniture di guerra, ma anche alle detrazioni accordate in conto di sovracosto e ammortamento alla Marina mercantile ed a nuovi impianti e trasformazioni, anche se non destinati all’esecuzione di forniture di guerra. I sovracosti e i deperimenti straordinari vengono dunque ripresi dalla finanza e con essi torna a diventare avocabile allo stato quella parte del reddito, prodotto durante il periodo di guerra, che era per lo appunto stato destinato ad ammortizzare quei sovracosti e deperimenti straordinari che la legislazione sui profitti di guerra aveva stabilito in una percentuale ipotetica fissa. Dopo questa ripresa, un’altra operazione deve esser fatta, ossia la valutazione delle consistenze patrimoniali. Questa valutazione era stata proposto dalla finanza dovesse farsi alla data del 30 giugno 1920 in base ai prezzi di costruzione correnti a questa data. Il significato della norma era chiaro: ripigliando l’esempio precedente, il contribuente, il quale aveva impiegato in impianti o navi od altro qualsiasi impianto, una somma di un milione di lire ed aveva ottenuto il rimborso di 800.000 lire prelevandole sui profitti ottenuti durante la guerra, avrebbe dovuto restituire allo stato tutte le 800.000 lire in un primo momento ideale. In un secondo momento, si sarebbe paragonato il costo di costruzione dell’impianto in un milione di lire col prezzo corrente dell’impianto stesso al 30 giugno 1920, in base al costo di costruzione corrente alla data medesima: si sarebbe cioè dovuto far conto di quel che sarebbe costato l’impianto al 30 giugno 1920, ove l’impianto stesso avesse dovuto costruirsi a quella data. E qui tre ipotesi potevano verificarsi: o che l’impianto alla data del 30 giugno 1920 costasse per esempio un milione di lire, ed allora il contribuente dopo di aver rimborsate le 800.000 lire prelevate prima a titolo di sovracosto sui profitti del periodo di guerra, non avrebbe potuto ottenere nessuna detrazione: ed infatti egli in questo caso avrebbe impiegato un capitale suo proprio e fresco di 1 milione di lire e l’impianto gli sarebbe stato valutato al 30 giugno 1920 precisamente in questa cifra di un milione di lire, ed egli quindi, secondo il criterio della finanza, non avendo nulla perduto del suo capitale, non avrebbe avuto diritto ad ottenere alcuna detrazione a titolo di sovracosto.

 

 

Ovvero il costo di costruzione dell’impianto alla data del 30 giugno 1920 è valutato in lire 1.500.000 ed in questo caso egli non sarebbe stato chiamato a dar nulla e non avrebbe avuto diritto di ricevere nulla. Non avrebbe avuto diritto di ricevere nulla, evidentemente, perché egli nulla ha perso del capitale di un milione di lire impiegato; non avrebbe dovuto pagare nulla, oltre, s’intende, al rimborso delle 800.000 lire dianzi prelevate, inquantoché è vero che l’impianto gli è valutato per un milione e mezzo di lire mentre a lui costò soltanto un milione di lire, ma fino adesso non è accaduto il realizzo dell’impianto medesimo e noi sappiamo come la legge di imposta di ricchezza mobile, da cui tutte le susseguenti derivano, ferma il momento della creazione del reddito in quello in cui un certo investimento è realizzato.

 

 

Ovvero finalmente l’impianto, sempre tenuto conto del suo costo di costruzione al 30 giugno 1920, è valutato in 500.000 lire ed in questo caso il contribuente, il quale da un lato rimborsa allo stato le 800.000 lire di quota di sovracosto legale, ha diritto di ricevere dall’erario il rimborso di 500.000 lire, differenza fra la somma di un milione da lui effettivamente impiegata ed il valore riconosciuto del suo impianto in 500.000 lire.

 

 

Par. 52. – Come la teoria della finanza sia uguale alla teoria del costo di riproduzione di Francesco Ferrara.

 

 

Questa la teoria del regolamento ministeriale; la quale teoria, giova riconoscerlo, si ispira, non sappiamo se volutamente o non, ad una delle più eleganti teorie che in Italia siano state esposte nella dibattuta materia del valore dei beni economici: la teoria del valore di riproduzione di Francesco Ferrara. Se il grande economista, che fu anche ministro delle Finanze del Regno d’Italia, risorgesse in questo momento, forse non sarebbe compiutamente soddisfatto dell’applicazione che della sua teoria, la quale a quei tempi corse il mondo e costituì un passo notevole nel progresso della scienza economica, si fa oggi.

 

 

La teoria medesima del costo di riproduzione, se vede esattamente un lato del fenomeno, ne lascia infatti un altro nell’oscurità e conduce in questo caso ad una conclusione la quale e manifestamente erronea.

 

 

La teoria del costo di riproduzione invero suppone – perché essa sia una raffigurazione esatta della realtà – che in ogni momento vi siano produttori, i quali abbiano interesse a riprodurre o a continuare a produrre una determinata merce; ed allora è chiaro che il prezzo corrente della merce medesima non si adegua ai costi antichi che furono in passato soddisfatti da coloro che producono questa merce, ma al costo nuovo del produttore che oggi compie l’opera di produzione. Il costo antico è un fatto veramente storico e non ha nessuna importanza pratica: quello che conta è il costo nuovo del produttore attuale, il quale è capace di venire sul mercato ad offrire la merce. Se il costo antico è stato di 10 ed il produttore nuovo capace di offrire la merce sul mercato ad otto, il prezzo tende verso otto, nulla montando che i produttori antichi perdano; mentre per converso se il costo nuovo è di 12, il prezzo corrente della merce tende verso 12 e nulla importa che i produttori vecchi abbiano sopportato soltanto il costo di 10; poiché il consumatore non ha facoltà di sostituirsi al produttore se non al costo nuovo che è di 12 e quindi maggiore di quello precedente.

 

 

Par. 53. – Critica alla applicazione della teoria ferrariana al caso presente.

 

 

Nel caso che qui ci occupa, vi è però un’obiezione fondamentale da fare all’applicazione, che il regolamento fa della teoria del costo di riproduzione di Francesco Ferrara. Qui si tratta non di merci richieste dal consumo corrente, non di merci le quali debbano continuare ad essere prodotte perché esiste una domanda corrente delle merci stesse e per le quali quindi il concetto del costo di riproduzione può essere acconciamente seguito: qui si tratta di rivalutare, alla data del 30 giugno 1920, impianti ed enti patrimoniali, i quali furono costruiti durante il periodo di guerra, per far fronte ad una domanda che oggi non esiste più, ovvero esiste in dimensioni tutt’affatto diverse da quelle in cui esisteva allora.

 

 

In questa condizione può ben darsi che il costo di riproduzione o di ricostruzione dell’impianto, alla data del 30 giugno 1920, sia magari di un milione o di un milione e mezzo, ma può esser ben certo che questo costo di ricostruzione o di riproduzione è un dato puramente astratto, inquantoché nessun imprenditore sano di mente vorrebbe compiere oggi quella ricostruzione e riproduzione di impianti, perché sarebbe sicuro che il costo sarebbe di gran lunga superiore al prezzo che potrebbe ottenersi sul mercato da questi stessi impianti una volta che fossero costruiti. Un hangar per aviazione può ben essere costato un milione di lire e può ben darsi che, oggi, se lo si volesse costruire avrebbe un costo di riproduzione anche superiore ad un milione; ma chi è colui il quale, avendo capitali disponibili, vorrebbe compiere questa operazione pazzesca ed economicamente assurda?

 

 

A causa del salire continuo dei salari, delle materie prime, dei combustibili e di tutti gli elementi del costo di produzione, è possibile che il costo di riproduzione degli impianti al 30 giugno 1920 risulti superiore al costo che dovettero sopportare i contribuenti: ciò non vuol dire che i contribuenti abbiano ottenuto un lucro, inquantoché il confronto non deve esser fatto tra la spesa effettivamente sostenuta dal contribuente ed il costo di ricostruzione, ma fra quella spesa ed un altro dato, che è semplicemente il prezzo corrente al 30 giugno 1920.

 

 

Il costo di riproduzione è cioè un dato astratto, il quale poté essere adoprato da una mente potente, come quella del nostro massimo economista, per la creazione di una teoria del valore, ma non può assolutamente esser posto a fondamento di un’operazione cosi momentosa come quella della determinazione dell’ammontare di impostà dovuta dal contribuente. A questo fine, ciò che serve non è un astratto dato del costo di riproduzione, ma è il prezzo effettivo corrente che il contribuente avrebbe potuto realizzare, se alla data del 30 giugno 1920 avesse ritenuto opportuno di trasformare i suoi impianti od enti patrimoniali in moneta.

 

 

Par. 54. – Il confronto deve essere fatto tra il costo effettivo al momento dell’impianto e il prezzo corrente al 30 giugno 1920.

 

 

La Commissione perciò ritiene che il confronto debba esser fatto tra la spesa effettivamente sostenuta dal contribuente ed il valore assegnabile alla costruzione od impianto od ente patrimoniale, sulla base dei prezzi correnti, alla fine del periodo di guerra. Se la spesa effettivamente sostenuta fu superiore al valore che si può assegnare all’impianto in base al prezzi correnti alla fine della guerra, in questo caso – e soltanto in questo caso – il contribuente abbia diritto alla detrazione per la differenza, ossia per il sovracosto da lui sopportato e che non trova più rispondenza nel prezzo corrente dell’impianto al momento in cui si chiude il periodo di avocazione.

 

 

Par. 55. – Il prezzo corrente al 30 giugno 1920 deve essere calcolato secondo la media dei prezzi correnti, nell’intiero anno 1920. Ragione del criterio equitativo adottato.

 

 

Affermato questo principio la Commissione discusse, in seguito, quali fossero i criteri secondo i quali il principio stesso poteva essere applicato; e qui si ritenne di dover affermare nel regolamento taluni criteri essenziali.

 

 

In primo luogo il valore assegnato alla costruzione deve bensì essere riferito al 30 giugno 1920 ma parve alla Commissione che non potessero essere assunti come base di valutazione dell’impianto i soli prezzi di quel giorno. Bene spesso sarebbe persino impossibile conoscere i prezzi in quel giorno soltanto: necessità vuole che nel tener calcolo dei prezzi ci si fondi su un periodo più lungo, sia per questa ragione d’impossibilità, sia per l’altra evidente di equità, sia nei rispetti della finanza come nei rispetti del contribuente. Il prezzo di un giorno solo può essere puramente accidentale, determinato da circostanze eccezionali non destinate più a riprodursi. D’altro canto, la data del 30 giugno 1920 può ben essere, dal punto di vista della valutazione di un impianto, considerata come quella mediana fra una serie di date precedenti ed una serie di date susseguenti. Perciò la Commissione ritenne che dovesse, in via equitativa, tenersi calcolo della media dei prezzi correnti in tutto l’anno 1920: e poiché il 30 giugno sta precisamente in mezzo a quest’annata, la media dei prezzi correnti in tutta l’annata stessa è sembrata che fosse quella più adatta a mettere in chiaro il valore che l’impianto poteva avere nel mezzo di quell’anno. Notisi che la data del 30 giugno in molti casi sarebbe stata quella del culmine a cui durante il periodo trascorso arrivarono i prezzi di molti elementi i quali entrano nella costruzione degli impianti industriali. Fino a quel momento i prezzi continuarono a salire e talvolta in misura fantastica: a partire da quel momento si delineò invece una tendenza verso il ribasso, cosicché, anche sotto questo aspetto, il fare la media dei prezzi correnti in tutto l’anno 1920 può togliere quel che di aspro e di ingiusto vi sarebbe nel fondarsi soltanto sul culmine massimo mai raggiunto dai prezzi durante la guerra.

 

 

In verità, questa considerazione del ribasso dei prezzi delineatosi appunto dopo il 30 giugno 1920 indusse molte rappresentanze industriali a chiedere che non si tenesse conto della data del 30 giugno 1920, ma si spingesse lo sguardo sino al giorno in cui i prezzi raggiungeranno nuovamente un livello stabile. Che monta aver guadagnato 1 milione di lire al 30 giugno 1920, quando fatalmente il ribasso dei prezzi ridurrà al nulla tale guadagno? Sebbene qualche commissario riconoscesse il fondamento della domanda, la Commissione ritenne di non potere soffermarvisi, dato che il suo compito è esclusivamente quello di dar parere nell’applicazione di una legge, la quale si basa su quella data del 30 giugno 1920. Mutare la data, sarebbe stato un modificare non un interpretare la legge; cosa che è vietata, alla Commissione.

 

 

Par. 56. – Di quali prezzi si deve tener conto: di quelli di ricostruzione ed insieme di quelli di capitalizzazione del rendimento?

 

 

Fermato questo punto che i prezzi di cui si deve tener conto siano quelli medi dell’anno 1920 e che in questa maniera si raggiunga nel modo più equo possibile un prezzo corrispondente veramente alla data del 30 giugno 1920, rimane l’altro quesito: quali siano questi prezzi correnti nell’anno 1920 di cui si deve fare la media: I prezzi sono quelli degli impianti, costruzioni e altre attività patrimoniali che si tratta di rivalutare: ma questi prezzi possono essere valutati in due maniere: nell’una maniera essi si riferiscono al costo di costruzione o di riproduzione ferrariana degli impianti; nell’altra, sono quelli di capitalizzazione della loro capacità di rendimento. Sono i due principii diversi ed opposti, che sempre, ai fini di qualsiasi valutazione, sono considerati dagli stimatori quando si tratta di fare una stima di un qualsiasi ente patrimoniale.

 

 

Qui le rappresentanze interrogate avrebbero voluto andare ad un estremo opposto a quello preferito dalla finanza. La finanza, con conseguenze ingiuste per i contribuenti, avrebbe voluto fermarsi come sopra si è visto, al costo di riproduzione: le delegazioni dei contribuenti avrebbero voluto che la Commissione ponesse i suoi sguardi sopra la capitalizzazione del reddito futuro degli impianti medesimi. Si diceva: la nave oggi costerebbe, se la si volesse costruire, 2.000 lire per tonnellata – costo di riproduzione (criterio della finanza) -; ma se si bada al reddito, se si pensa che a partire dal 30 giugno 1920 cominciò il periodo di declino dei noli marittimi e ben presto accadde che i noli stessi diventarono inferiori alle spese di esercizio della nave, si vede che la nave stessa, non solo non può essere costruita, ma per quelle costruite il reddito netto si, ridusse a zero ed anzi ad una quantità negativa. Ora poiché il reddito zero o negativo non dà luogo a capitalizzazione positiva, si potrebbe perfino giungere alla conseguenza che il valore della nave sia eguale a zero. A questo estremo i contribuenti non arrivavano, inquantoché riconoscevano che una nave, sebbene oggi dia un reddito zero, sia suscettibile in futuro di veder ritornare il reddito a limiti più tollerabili, e anzi le leggi economiche portano necessariamente al ritorno verso l’equilibrio e al ritorno dei noli ad un livello, se non uguale a quello straordinario del periodo di guerra, almeno sufficiente a compensare il capitale occorrente alla costruzione della nave.

 

 

Che il costo di riproduzione e la capitalizzazione del reddito siano i due criteri tra cui deve muoversi la valutazione dei prezzi correnti di un qualsiasi ente patrimoniale è manifesto, ripetesi,dalla pratica universalmente seguita dagli stimatori, i quali, per esempio, quando sono chiamati da un istituto di credito fondiario a valutare una casa, sempre tengono conto di quei due elementi e diligentemente ricostruiscono quale sarebbe il costo di costruzione della casa se essa fosse costruita nel momento in cui la stima viene fatta, tenendo conto naturalmente del deperimento avvenuto nel frattempo; e dall’altro lato esaminano quali siano i fitti che il proprietario ricava oggi e può ricavare in avvenire dal nolo degli appartamenti di cui la sua casa si compone: ne deducono le imposte e le altre spese ed ottengono un reddito netto, il quale, capitalizzato al saggio d’interesse corrente, dà luogo ad un secondo valore di stima della casa, derivato appunto dalla capitalizzazione del reddito netto. Per lo più gli stessi stimatori concludono facendo una media aritmetica delle due valutazioni; quella derivata dall’analisi del costo di ricostruzione e quella che si trae dalla capitalizzazione del reddito netto. La Commissione ritiene che un sistema consimile debba essere applicato nella valutazione del valore assegnabile agli impianti ed alle costruzioni al 30 giugno 1920. Non afferma che si debba fare meccanicamente la media aritmetica tra le due valutazioni; afferma soltanto che si debba nel tempo stesso aver riguardo da un lato al costo di ricostruzione e dall’altro alla capitalizzazione del reddito futuro degli enti da valutarsi.

 

 

La finanza e le commissioni amministrative con l’ausilio del Collegio dei periti di cui si vedrà poi, terranno equo conto di questi due elementi ed insieme li contempereranno, per stabilire quale sia il valore assegnato alla costruzione, tanto da un lato come dall’altro; tanto quando, si dovrà stabilire il costo di ricostruzione degli impianti, come quando si dovrà calcolare il reddito degli enti, si dovrà badare ai costi correnti di ricostruzione nella media del 1921 ed alla capacità di reddito, secondo i prezzi correnti, lungo tutto l’anno 1920. Ottenuti questi due valori, la finanza e le commissioni ne faranno quella media che caso per caso possa essere ritenuta meglio opportuna a rappresentare la realtà.

 

 

Par. 57. – Per conseguenza furono eliminati altri criteri di valutazione presi in esame.

 

 

Data la conclusione alla quale la Commissione era arrivata intorno al criterio della rivalutazione degli impianti per la ripresa delle quote di sovracosto o deperimento straordinario accordate durante la guerra, caddero altri criteri che lungo le discussioni o in seguito alle richieste venute fuori dalle delegazioni dei contribuenti erano stati messi innanzi. Era stato, ad esempio, da taluno desiderato che il valore degli impianti dovesse essere determinato da una dichiarazione da parte del contribuente e che lo stato avesse diritto di far suoi gli impianti al prezzo denunciato dal contribuente. Si diceva che tale criterio era già stato votato dallo stato nel decreto-legge istitutivo dell’imposta sul patrimonio rispetto ai titoli esteri, per cui si rendeva difficile una valutazione diretta da parte della finanza. Fu data allora facoltà al contribuente di denunciare quel qualunque prezzo che per i titoli esteri a lui sembrasse il più corretto e, ad evitare che egli denunciasse un prezzo troppo basso, si diede facoltà alla finanza di far suoi quei titoli a norma del prezzo voluto dal contribuente sino all’ammontare dell’imposta che il contribuente stesso doveva. Lo stesso criterio, si affermò, può essere seguito per gli impianti di cui si parla, per i quali difficilissima riesce la valutazione, mancando qualsiasi criterio opportuno all’uopo; non valendo quello della ricostruzione, perché si tratta d’impianti che nessuno rifarebbe oggi; non valendo neppure quello del reddito probabile futuro, perché trattasi bene spesso di enti patrimoniali, privi di ogni possibilità di reddito. Il contribuente perciò stabilisca egli stesso il valore dell’impianto, e se questo pare insufficiente allo stato, abbia lo stato il diritto di far suo l’impianto che a lui sembra troppo svalutato dal contribuente. La Commissione non poté entrare in quest’ordine di idee, avendo dessa già ritenuto, almeno a giudizio della sua maggioranza, avere la legge di avocazione uno scopo ben chiaro, che è quello di fornire all’esausto tesoro nuovo ristoro di entrate in danaro, portando l’imposta sui profitti di guerra, dalle antiche percentuali, al 100 per cento. Non risulta affatto che l’intenzione del legislatore sia stata quella di procacciarsi il possesso di impianti industriali, di navi e di altri enti patrimoniali. Fa d’uopo evitare perciò qualsiasi norma la quale possa condurre a questo risultato, anche quando la norma stessa possa, per altri versi, essere ritenuta conforme ad equità. Le valutazioni degli impianti debbono bensì esser fatte in maniera equa, ed a ciò la Commissione si è sforzata, indicando i criteri sovraesposti, ma nulla di più può esser fatto, dovendosi mantener fermo il principio che la avocazione sia feconda di un reddito pecuniario allo stato. Il principio invero, una volta accolto, non avrebbe potuto fermarsi qui: inquantoché al diritto dello stato di far suoi gli impianti al prezzo denunciato dal contribuente, avrebbe do vuto contrapporsi quello del contribuente ad abbandonare gli enti patrimoniali al prezzo valutato dalla finanza; il che avrebbe condotto inevitabilmente lo stato a farsi padrone di una congerie di impianti, di macchinari e di altri enti patrimoniali a lui inservibili, costosi per spese di manutenzione ed amministrazione, i quali, per quanto scarso sia il reddito che se ne può ragionevolmente sperare, meglio rimangono in possesso di privati che non in quello dello stato. Onde il partito deve essere risolutamente respinto, come quello che sarebbe troppo grave di pericoli per la finanza e per la collettività.

 

 

Par. 58. – La rivalutazione del monte merci e scorte combustibili al 30 giugno 1920. Opinione prevalente nelle commissioni su tal punto.

 

 

Nell’argomento della valutazione delle attività patrimoniali esistenti al 30 giugno 1920, la Commissione ha dovuto tener conto di un problema che aveva fatto oggetto di discussione nei dibattiti parlamentari e che di nuovo era stato risollevato nelle audizioni delle rappresentanze dei contribuenti; si vuole accennare alla rivalutazione del monte merci e della scorta di combustibili esistenti al 30 giugno 1920. È questo il caso tipico delle difficoltà sorte dalla svalutazione monetaria, la quale ha profondamente cambiato la situazione dell’industria durante il periodo di guerra. È ben nota la lagnanza a cui dà luogo la facoltà che la finanza finora ha avuto di rivalutare, alla fine di ogni esercizio, il monte merci posseduto dal contribuente. Suppongasi che, un contribuente abbia avuto all’1 agosto 1914, una scorta di 1.000 tonnellate di carbone fossile, le quali, valutate al prezzo di 40 lire per tonnellata, davano luogo ad una impostazione di 40.000 lire nell’attivo del contribuente. Suppongasi che al 30 giugno 1920 la scorta di combustibile sia rimasta invariata in 1.000 tonnellate. Potendo ognuna di esse esser valutata a 600 lire, ecco che l’attività patrimoniale balza a 600.000 lire e, rivalutandosi le scorte, la finanza avrebbe diritto di avocar a sé l’intera differenza fra 600.000 e 40.000 lire; ossia in buona sostanza avrebbe diritto di portar via al contribuente quasi tutta la scorta di combustibile che egli possedeva già al principio della guerra, e ridurla da 1.000 ad appena 66 tonnellate di carbone. È evidente che qui non si può parlare, se non nominalmente, di guadagno di guerra. Una scorta di 1.000 tonnellate è, per ipotesi, assolutamente necessaria al contribuente di cui si parla per l’esercizio della sua industria: egli deve possedere costantemente quella certa scorta, così come possiede un dato macchinario, un dato edificio, se l’industria vuol essere esercitata. È vero che le singole unità che compongono la sua scorta di combustibile continuamente cambiano, di modo che nessuna particella della scorta posseduta è uguale a quella che possedeva precedentemente; ma nella sua unità la scorta rimane invariata e deve essere costantemente conservata. Portar via la differenza fra 600.000 e 40.000 lire ridurrebbe il contribuente ad una posizione economica di gran lunga inferiore a quella in cui si trovava al principio della guerra; ed è logico perciò che, come non si procedette, e non si doveva procedere, ad una rivalutazione degli impianti posseduti all’1 agosto 1914, così non si debba procedere ad una rivalutazione delle scorte merci e delle scorte combustibili che esso possedeva all’1 agosto 1914; altrimenti la legge di avocazione avrebbe impoverito il contribuente invece di contentarsi di portargli via la ricchezza da lui guadagnata durante la guerra.

 

 

Par. 59. – Ragione di dubitare da parte di qualche commissario,

 

 

La Commissione non fu tutta unanime nel giungere a questa conclusione, inquantoché fu riflettuto da taluno che poteva essere pericoloso il concetto del divieto di rivalutazione del monte merci e della scorta di combustibile, inquantoché si sarebbe affermato un principio diverso da quello pacificamente accolto da molto tempo ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, per cui sempre alla fine di ogni esercizio si procede ad una rivalutazione del monte merci, portando a profitto il ricavo delle merci e scorte realizzate ed a perdite il prezzo di costo di quelle nuovamente acquistate. Il che in un periodo di prezzi crescenti equivale a considerare tassabili le differenze in più; ed in un periodo di prezzi calanti a considerare deducibili le differenze in meno. Fu ribattuto che questa, la quale è sostanzialmente rivalutazione annua, del monte merci non dava luogo ad inconvenienti e ad ingiustizie in materia d’imposta di ricchezza mobile, perché i valori delle merci non andavano soggetti a sbalzi così profondi come quelli che si ebbero durante la guerra e perché soprattutto il metro con cui le merci si misuravano al principio e alla fine di ogni esercizio rimaneva costante, mentre oggi il metro stesso è andato via via riducendosi di lunghezza e diventando sempre più corto, col risultato puramente figurativo di far comparire molte più unità di merci laddove le unità sono rimaste invariate. Dato il fatto nuovo, nuova dev’essere la norma giuridica la quale lo regoli.

 

 

Par. 60. – Conclusioni e cautele della proposta della Commissione.

 

 

La Commissione però ritenne, di tener conto di questa obiezione da parte della sua minoranza, affermando che il divieto di rivalutazione non deve aver valore all’infuori della avocazione imposta dalla legge 24 settembre 1920: il principio sancito dalla maggioranza della Commissione deve cioè riferirsi alla avocazione dell’aumento di patrimonio. Esplicitamente si dichiara nel testo del regolamento proposto dalla Commissione, e si torna ad affermare in questa relazione, che il divieto stesso non deve avere nessuna influenza per quel che riguarda i criteri seguiti per l’imposta di ricchezza mobile ed in materia dei sovraprofitti di guerra. La Commissione nel suo parere vuole strettamente tenersi a quella che è materia sottoposta, al suo esame ed esclude espressamente che il suo parere riguardi qualsiasi altra legge che non sia quella della avocazione. Vedrà il legislatore se non convenga, date le trasformazioni monetarie profonde verificatesi dopo l’1 agosto 1914, apportare come sarebbe giusto, qualche correttivo alle norme fino adesso seguite, le quali erano state create e si adattavano ad un’epoca di tranquillità monetaria: ma la Commissione ritorna anche qui ad insistere che le sue proposte non debbono avere alcuna virtù di mutare né in un senso né in un altro quella che è la norma vigente in passato per l’imposta di ricchezza mobile; è neppure di dare un giudizio qualsiasi in merito ad essa.

 

 

Fu osservato ancora che è molto difficile di poter valutare quale sia la scorta di combustibili e di merci la quale occorre ad un industriale per l’esercizio della sua industria. La guerra, sotto questo rispetto, è stata feconda di ammaestramenti notevoli, inquantoché taluni industriali i quali affermavano e sinceramente reputavano di non poter correre il rischio della industria qualora essi avessero avuto nei loro cantieri una scorta di combustibile inferiore a quella necessaria per consentire l’esercizio dell’industria per tutto un mese e talvolta per un trimestre, si adattarono poi benissimo durante la guerra forse con maggiore ansietà e preoccupazione, ma con risultati tecnici ed economici non troppo diversi, a scorte di combustibili e a un monte merci sufficiente appena per garentire l’esercizio dell’industria per pochi giorni. È vero che la continuità dell’esercizio parve ad ogni momento essere in forse, ma ogni giorno portò con sé la soluzione del problema assillante, cosicché di fatto le sospensioni di lavoro non furono quelle che da alcuni pessimisti si temevano. Dato ciò, sembra difficile di poter stabilire un criterio per la determinazione della scorta di combustibili o merci di cui un contribuente ha necessità e che quindi possa considerarsi capitale circolante nelle sue unità e fisso nel suo insieme. La Commissione diede il giusto peso a queste considerazioni e volle chiaramente scolpire nel testo della formula da essa proposta per il regolamento che il divieto di rivalutazione si riferisce soltanto alla scorta minima necessaria per l’esercizio dell’industria. È impossibile in un regolamento o in una legge andar al di là di una formula di carattere generale: con essa si dice chiaramente che la scorta deve avere il carattere della necessità e deve essere la minima fra tutte quelle che possono considerarsi come indispensabili all’esercizio dell’industria. Giudicherà volta per volta la finanza, assistita dalle commissioni amministrative, quale sia l’ammontare che all’esercizio dell’industria possa essere considerato come assolutamente necessario e come un minimo, al disotto del quale non si possa scendere. Tra la scorta di parecchi mesi e talvolta di un anno che era ritenuta necessaria prima della guerra e la scorta di pochi giorni che eccezionalmente talvolta bastò per garantire la continuità dell’industria, vi è un margine di arbitrio entro cui potranno spaziare i collegi giudicanti, per giungere ad una conclusione la quale sia equa ed eviti l’ingiustizia stridente alla quale si giungerebbe qualora si procedesse ad una rivalutazione completa delle scorte ossia alla espropriazione assoluta per il contribuente della ricchezza già da lui posseduta. Se ad un temperamento del genere di quello proposto dalla Commissione non si volesse accedere, si giungerebbe a quest’estremo, che uno stato il quale voglia impadronirsi completamente della ricchezza dei suoi cittadini, affermando nel tempo stesso di portar via soltanto i loro guadagni eccezionali, potrebbe con emissioni a getto continuo di carta-moneta, svalutare siffattamente il medio circolante da ridurlo ad una centesima o ad una millesima parte del valore antico; spingere quindi tutti prezzi ad un livello cento o mille volte superiore a quello di un tempo, e poi portar via tutta l’eccedenza oltre l’unità, affermando che il contribuente il quale possedeva uno ad un dato momento resta, ancora con uno al termine del periodo della svalutazione monetaria, anche quando gli siano stati portati via i 99 centesimi o i 999 millesimi della quantità di merci o di titoli o di case possedute o di qualsiasi altra ricchezza da lui originariamente posseduta.

 

 

In minor proporzione, ma in proporzione pur sempre gravissima, questo fenomeno accadde in Italia nel periodo di guerra. La svalutazione monetaria è stata tale, che bene spesso i prezzi del 1920, risultarono quintupli e sestupli di quelli del 1914, cosicché, portando via tutta la differenza di prezzo ai contribuenti anche per le cose materiali che possedevano prima della guerra, essi sarebbero ridotti ad un possesso di gran lunga minore di quello che avevano già dianzi. Ingiustizie stridenti si commetteranno in tema di avocazione per questo motivo: la Commissione volle evitare che si commettesse la più stridente di tutte, ossia la appropriazione di ciò che il contribuente possedeva già prima della guerra e che costituisce ancor adesso un elemento assolutamente indispensabile per l’esercizio dell’industria. Di qui la proposta contenuta nel penultimo comma dell’articolo 15 dello schema di regolamento da essa proposto.

 

 

CAPITOLO VI.

 

 

Delle interferenze tra la legge d’avocazione e quella per l’imposta patrimoniale.

 

 

Par. 61. – Interferenze fra la legge d’avocazione ed i criteri di stima dei valori azionari ai fini dell’imposta patrimoniale.

 

 

L’avocazione dei profitti di guerra fa sorgere problemi di valutazione i quali in parte interferiscono con la azione di altre imposte. Un caso tipico è quello dell’influenza che l’avocazione esercita sul prezzo dei titoli azionari emessi da società soggette ad avocazione. È ben noto che i decreti-legge 24 novembre 1919 e 22 aprile 1920 istitutivi dell’imposta straordinaria sul patrimonio, stabilirono alcuni criteri per la valutazione dei titoli, azioni od obbligazioni e titoli di stato che entrano a far parte del patrimonio del contribuente. Per limitarsi a ciò che ha connessione con l’argomento della avocazione, si ricorderà soltanto che le azioni di società sono valutate, ai fini dell’imposta patrimoniale, a seconda del prezzo medio corrente nel semestre dall’1 aprile al 30 settembre 1919.

 

 

In quel periodo, né si parlava di avocazione dei guadagni di guerra, né nelle valutazioni correnti delle azioni di società commerciali si teneva conto dell’influenza che un avvenimento ancora futuro ed ignoto avrebbe avuto sulle quotazioni dei titoli stessi. Potè darsi perciò che una azione fosse valutata al prezzo di 130 lire, perché nel patrimonio della società commerciale esistevano, oltre le 100 lire versate dagli azionisti e oltre a 10 lire di riserva accumulate dalla società prima dell’1 agosto 1914, anche 20 lire di profitti di guerra che non erano state distribuite dagli azionisti, anche per il divieto espresso fatto dal legislatore, ma erano state mandate a riserva. Poiché il capitale versato, la riserva antica e la riserva nuova composta coi profitti di guerra erano realmente esistenti nella somma complessiva di 130 lire, il prezzo dell’azione corrente in borsa o privatamente contrattato, era per l’appunto di 130 lire: e su tale base furono valutati i titoli denunziati dai contribuenti per l’imposta patrimoniale. Viene in seguito, con la legge del 24 settembre 1920, il fatto nuovo dell’avocazione: con esso lo stato riprende tutti i profitti di guerra ed avoca a sé perciò quelle 20 lire di profitto di guerra che dalla società commerciale erano state accantonate a riserva. Ecco che il valore dell’azione, a causa esclusiva dell’avocazione, cade da 130 a 110 lire poiché la società più non possiede quelle 20 lire che erano state un elemento essenziale della valutazione antica. Ragione vorrebbe che fosse consentito ai contribuenti, i quali avevano denunciato il possesso dei titoli, di ottenere la rettifica del valore dei titoli stessi da 130 a 110, poiché è manifestamente ingiusto e non può conciliarsi con alcun criterio di equità tributaria, che essi siano chiamati a pagare l’imposta sul patrimonio su 20 lire, che non solo non posseggono più, ma che essi non posseggono più perché sono state avocate a sé dallo stato.

 

 

Se un rimedio non si apportasse a questa situazione di cose, lo stato avrebbe assorbito non solo tutte le 20 lire, ma quasi per ischerno avrebbe ancora costretto i contribuenti a pagare un’altra imposta – quella patrimoniale – per il fatto di essere stati temporaneamente in possesso di queste medesime 20 lire.

 

 

L’ingiustizia si aggraverebbe nei confronti tra gli azionisti di società anonime ed altri contribuenti, inquantoché per tutti gli altri contribuenti privati ed enti collettivi non retti a forma di società anonima, è ammesso dalla legislazione vigente che i contribuenti soggetti ad imposte sul patrimonio possono dedurre dal loro patrimonio tutte le imposte ancora dovute all’1 gennaio 1920 allo stato e ad altri enti pubblici. E cioè il contribuente, il quale oggi si vede avocato un profitto di guerra che egli reputava essere entrato nel suo patrimonio, ha diritto di tener conto di questa avocazione se egli aveva denunciato un patrimonio di un milione di lire e aveva però contemporaneamente dichiarato un suo debito per cifra ancora da precisarsi a titolo di imposta dovuta allo stato, tra queste imposte entra anche la avocazione dei profitti di guerra almeno per la parte dei profitti di guerra che erano già stati ottenuti dal contribuente al 31 dicembre 1919. Il contribuente cioè non avrà diritto di detrarre dall’ammontare del suo patrimonio i profitti ottenuti nel primo semestre 1920 ed avocati dallo stato, perché questi profitti essendosi prodotti in un periodo posteriore all’1 gennaio 1920 non hanno avuto alcuna influenza sulla situazione patrimoniale all’1 gennaio: si produssero in seguito e come si produssero scomparvero nuovamente a causa dell’avocazione odierna; ma restano un fatto estraneo e posteriore alla situazione patrimoniale all’1 gennaio 1920. Tutti i profitti ottenuti prima di questa data erano invece entrati a far parte del patrimonio e quindi calcolati nell’attività della denuncia patrimoniale, ma poiché scomparvero dopo a causa dell’imposta sui sovraprofitti e dell’avocazione, costituiscono una passività della sua denuncia. Dunque mentre i contribuenti privati ed altri enti collettivi sono trattati secondo giustizia, i soli azionisti di società anonime sarebbero ingiustamente colpiti e sarebbero così colpiti perché essi sono persone diverse da quelle della società soggetta all’imposta di avocazione.

 

 

Par. 62. – Disparere intorno alle conseguenze da trarsi dalla constatazione di fatto avvenuta concordemente: e rinvio del punto all’esame del governo in sede di riforma della legge istitutiva dell’imposta patrimoniale.

 

 

Fin qui la Commissione rimase unanime.

 

 

Sorse un disparere intorno alla conseguenza da trarre da questa constatazione di fatto: gli uni invero avrebbero voluto che, fatta la constatazione, se ne traesse senz’altro in questa sede la opportuna illazione; ossia si inserisse nel regolamento una norma con la quale si riconoscesse il diritto agli azionisti di società anonime – le cui azioni furono valutate nel semestre aprile – settembre 1919 ai fini dell’imposta patrimoniale, come se in essa fosse incorporato un profitto di guerra, che dopo fu tolto ad esse dalla legge dell’avocazione – di ottenere una rettifica dei prezzi dell’azione medesima. Non volevano questi commissari senz’altro stabilire i criteri per la rettifica, ma affermare soltanto che la rettifica dovesse essere concessa secondo i criteri prudenziali da applicarsi dalla finanza e dalle commissioni amministrative nei singoli casi. Si sarebbe cioè dovuto tener conto della diminuzione che l’avocazione avrebbe arrecato nelle riserve delle società anonime e della influenza che presumibilmente avrebbe avuto sulla valutazione delle azioni, qualora il fatto della avocazione fosse stato conosciuto lungo tutto il periodo dall’1 aprile al 30 settembre 1919. Si opposero altri commissari a questa conclusione, inquantoché, pur riconoscendo anch’essi la giustizia della rettifica, affermarono che essa esulava dai poteri della Commissione: avere questa esclusivamente per iscopo di provvedere al regolamento della avocazione; a questo fine avere il potere di far proposte di coordinamento, di abrogazione, di modifica o di integrazione di disposizioni legislative vigenti, ma questa facoltà non esser illimitata; non estendersi fino alla facoltà di modificare leggi regolatrici di altre imposte; ma solo a quella di modificare le altre leggi limitatamente ai fini della avocazione. Essere i due concetti profondamente distinti; il primo portare al diritto sconfinato di modificare una qualsiasi legge tributaria come tale, perché essa è in conflitto con la legge di avocazione; il secondo limitarsi, e giustamente limitarsi, alla modifica delle altre leggi tributarie nell’ambito proprio dell’avocazione senza mutare per nulla i tributi diversi da questa. Insomma dicevasi da questi commissari che si può si mutare una legge vigente, non tuttavia per riformare l’imposta in essa contemplata, bensì al solo scopo di adattarla al fine dell’avocazione.

 

 

Resistevano gli altri commissari all’interpretazione restrittiva data all’articolo 2, inquantoché essi ritenevano che la facoltà del governo, col parere della Commissione, fosse amplissima e si estendesse a qualunque norma la quale fosse in contrasto con la legge di avocazione: dai lavori preparatori e dalle discussioni avvenute non risultare di alcuna restrizione a questa facoltà di coordinamento, abrogazione, modifica o integrazione e non potersi perciò restringere ciò che il legislatore aveva voluto affermare in una maniera amplissima.

 

 

Il contrasto non fu potuto comporre, sicché nessuna proposta fa la Commissione nel regolamento a questo riguardo. Essa però è unanime nel segnalare al governo l’ingiustizia della conseguenza derivante dall’avocazione nei rispetti degli azionisti della società anonima ed è unanime nel presentare al governo il voto perché, in altra sede, si provveda a coordinare le disposizioni di legge relative all’imposta patrimoniale con le conseguenze che necessariamente derivano dall’avocazione dei profitti di guerra. Al governo non mancherà il modo di correggere il decreto-legge sull’imposta patrimoniale, in guisa che si eviti l’ingiustizia che il contribuente sia chiamato a pagare l’imposta, su ciò che egli più non possiede, perché gli è stato avocato dallo stato.

 

 

CAPITOLO VII.

 

 

L’industria solfifera siciliana.

 

 

Par. 63. – L’industria solfifera siciliana.Sistema speciale di tassazione vigente a suo carico.

 

 

Come era già stato osservato nella relazione presentata al Senato dal senatore Carlo Ferraris a nome della commissione di Finanza, una situazione particolare sia nei rapporti dell’imposta sui profitti di guerra, sia nei rapporti della avocazione, è quella dell’industria solfifera siciliana. In virtù di speciali circostanze che qui non accade di riferire minutamente, l’industria solfifera siciliana è stata assoggettata, da una legislazione la quale risale alla legge del 22 luglio 1897, n. 317, modificata poi dalle leggi 15 luglio 1906, n. 333, 30 giugno 1910, n. 361, dal decreto-legge luogotenenziale 26 maggio 1918, n. 739, e dal Reggio decreto-legge 2 settembre 1919, n. 1.669, ad un regime tributario speciale. Tutti gli oneri fiscali a carico della lavorazione delle solfare e del commercio dello zolfo, fu stabilito dovessero essere soddisfatti mediante il pagamento di una tassa d’abbonamento da corrispondersi nella misura di lire una per ogni tonnellata di zolfo uscita dalla Sicilia. Questo sistema originario fu mantenuto in seguito, variandosi soltanto il criterio di applicazione: la tassa d’abbonamento fu cioè applicata sopra ogni tonnellata di zolfo venduta e consegnata ai compratori dal Consorzio zolfifero siciliano, obbligatoriamente istituito fra tutti i produttori di zolfo dell’isola. L’istituzione di questa tassa di abbonamento si collega infatti col regime speciale a cui l’industria siciliana dello zolfo è soggetta per quanto riguarda il commercio dello zolfo. Abolite invero la contrattazione privata e la vendita dello zolfo fatta dai singoli produttori, sia esercenti come proprietari, il commercio dello zolfo è compiuto esclusivamente da un consorzio obbligatorio, il quale, con norme speciali, si incarica della vendita, e della ripartizione ai proprietari ed agli esercenti dei prezzi ottenuti. Parve opportuno di considerare il Consorzio zolfifero siciliano come unico rappresentante non solo dei produttori rispetto al commercio mondiale, ma anche dei produttori medesimi come contribuenti di fronte alla finanza. Ragioni di praticità consigliarono il governo a sostituire la tassa unica di abbonamento a tutte le altre tasse e imposte pagate dai singoli esercenti e proprietari di miniere. Esplicitamente il Regio decreto 2 settembre 1919, il quale è l’ultimo che regola questa materia, stabilisce che «la tassa unica e complessiva dovuta dal Consorzio sia pagata, in sostituzione dell’imposta fondiaria, di quella sul reddito dei fabbricati, di quella sul reddito di ricchezza mobile, nonché di qualunque altro tributo o tassa diretta o indiretta, erariale o provinciale o comunale che sia applicabile secondo le leggi del Regno a carico del Consorzio zolfifero siciliano o dei singoli consorziati per la produzione e il commercio dello zolfo». La tassa unica e complessiva d’abbonamento la quale, come fu detto sopra, era originariamente stabilita nella misura di una lira per ogni tonnellata, fu variata, a partire dall’1 agosto 1918 in un altra tassa ragguagliata al prezzo medio effettivo ricavato dalla vendita dello zolfo nella proporzione dell’1% sulle prime 300 lire e del 10% sul maggior prezzo oltre le lire 300. Questo il regime vigente in materia d’imposte di ogni fatto gravanti sul Consorzio zolfifero siciliano e sui singoli suoi consorziati.

 

 

Par. 64. – Se la tassa di abbonamento comprenda anche l’imposta sui profitti di guerra.

 

 

Fu disputato in un primo momento se questa tassa unica di abbonamento dovesse altresì ritenersi comprensiva dell’imposta sui profitti di guerra; e mentre dapprima i contribuenti ritenevano di dover essere immuni da quest’imposta straordinaria, riconobbero poi di doverla pagare ma affermarono ed affermano tuttavia, ch’essa è compresa nella tassa unica di abbonamento così variata a partire dall’1 agosto 1918 e resa proporzionale, anzi progressiva, al valore dello zolfo prodotto. Alla tesi dei contribuenti non resisté la finanza, la quale riconosce che per quanto ha tratto all’imposta sui sovraprofitti di guerra, essa sebbene non sia esplicitamente compresa fra quelle per cui si paga la tassa d’abbonamento, vi è implicitamente inclusa.

 

 

Par. 65. – Come alla tassa d’abbonamento e perciò alla avocazione siano soggetti anche i proprietari di zolfare.

 

 

Partendo da questo punto fermo, parecchi sono i quesiti che si presentarono alla risoluzione della Commissione. In primo luogo: chi sono i contribuenti i quali debbono essere assoggettati alla avocazione, dati i precedenti ora esposti. Se questi precedenti non fossero esistiti, una conseguenza certa si imponeva: ed è che la avocazione, come, già prima l’imposta sui sovraprofitti di guerra, si, sarebbe potuta applicare unicamente agli esercenti le miniere zolfifere, non mai, ai proprietari delle miniere stesse. E quando la figura del proprietario e quella dell’esercente fossero state unite nella medesima persona, l’imposta sui sopraprofitti e la avocazione si sarebbero dovute applicare soltanto a quella parte di reddito che fosse stata ottenuta da questa persona nella sua qualità di esercente, non ai redditi e profitti ottenuti nella qualità di proprietario. È ben noto in vero ed è esplicitamente affermato dall’articolo 1 della legge d’avocazione, che l’avocazione si applica «ai contribuenti indicati nell’articolo 1 dell’allegato B) al decreto luogotenenziale 21 novembre 1915, n. 1.643». Ora in quest’allegato sono indicati soltanto i commercianti e gli industriali ed intermediari, ossia contribuenti iscritti nella categoria B) ed in quella C) dei redditi soggetti ad imposta di ricchezza mobile.

 

 

I proprietari che non sono commercianti o industriali o intermediari, non sono mai stati colpiti con l’imposta sui sovraprofitti e non possono essere oggi colpiti dalla avocazione. Ciò può essere, secondo l’opinione di molti, anche autorevolmente manifestata in uno dei due rami del Parlamento, una lacuna gravissima della legge, sicché si è fatto voto dalla Giunta generale del Bilancio della Camera dei deputati che a questa lacuna si ponesse riparo, così da assoggettare anche i profitti di guerra ottenuti da proprietari di terreni coltivatori di terreni propri, dai proprietari di zolfare e da altri contribuenti che si trovano nella medesima situazione.

 

 

Tutto ciò però vuol essere osservato in tema di legge condenda, non in tema di applicazione di una legge vigente. I proprietari di zolfare, secondo i principi accolti nel diritto minerario, sono tali perché proprietari della superficie e sono assoggettati all’imposta sui terreni non a quella di ricchezza mobile, e quindi sfuggirebbero, senza i precedenti sopra ricordati, alla possibilità di applicazione sia dell’imposta sui sovraprofitti, sia della avocazione dei sovraprofitti medesimi.

 

 

Ma i precedenti modificano la conclusione a cui si arriverebbe sulla base delle leggi generali vigenti in Italia. Non è controverso neppure dai proprietari di zolfare che essi sono stati assoggettati dalle leggi speciali, così come gli esercenti le miniere ad una tassa unica di abbonamento, la quale tassa unica colpisce ogni tonnellata di zolfo prodotto dalle miniere sia che questa tonnellata appartenga all’esercente sia che faccia parte dell’estaglio in natura che è riservato, secondo i contratti di gabella, al proprietario della miniera. Non esiste alcuna differenza tra la tassa di abbonamento che grava il resto dello zolfo e quella che grava l’estaglio spettante al proprietario; e perciò si deve ammettere che nella tassa di abbonamento gravante sullo zolfo che fa parte dell’estaglio del proprietario, siano comprese tutte le imposte medesime che gravano sull’esercente e quindi è compresa altresì l’imposta sui sovraprofitti di guerra.

 

 

Quindi, ancora, in virtù delle disposizioni legislative speciali mentovate sopra, il proprietario delle miniere è stato assimilato all’esercente ed assoggettato a tutte le imposte a cui l’esercente è soggetto, tra cui anche in principal modo quella che ora ci interessa, sui profitti di guerra: e perciò, ancora logicamente concludendo, i proprietari delle zolfare sono in via d’eccezione assoggettati altresì alla avocazione dei profitti di guerra.

 

 

Par. 66. – Metodo proposto dalla finanza per l’avocazione dei guadagni di guerra delle zolfare.

 

 

Fermato questo punto il quale riguarda le persone soggette all’avocazione nel caso delle zolfare siciliane, si passa all’altro punto, quale è quello del modo da tenersi per tassare questa categoria particolare di contribuenti. Le soluzioni potevano essere due una è quella abbracciata dalla finanza, l’altra è quella desiderata dal Consorzio zolfifero siciliano.

 

 

La finanza nell’articolo 11 del suo schema di regolamento diceva: «se l’esenzione (dall’imposta e dalla sovrimposta sui profitti di guerra) deriva ed è connessa alla corresponsione di altri tributi, come per l’industria zolfifera, l’ammontare del tributo che il contribuente abbia sopportato deve essere detratto da quello che il contribuente stesso è chiamato a corrispondere in forza delle presenti disposizioni».

 

 

Il sistema che la finanza veniva a creare con la disposizione ora riprodotta è il seguente: si procede nei confronti dei proprietari ed esercenti delle miniere al calcolo individuale del reddito netto e delle detrazioni spettanti ai contribuenti stessi, così come si fa per qualsiasi altro contribuente. Si calcola e si avoca il profitto di guerra nella stessa maniera degli altri contribuenti al 100 per cento: per calcolare la detrazione spettante contribuente in virtù dell’imposta sui profitti di guerra da lui già pagati o dovuti, si calcola quanta parte della tassa unica progressiva di abbonamento dell’1 e del 10% possa considerarsi come pagata in contemplazione della imposta è sovrimposta sui profitti di guerra. Questa parte della tassa unica di abbonamento si considera come detrazione invece di quella concessa agli altri contribuenti a titolo di imposta e sovrimposta sui sovraprofitti. Più brevemente e semplicemente: si faccia il calcolo individuale del reddito netto ottenuto dai produttori e dai proprietari ed esercenti zolfare siciliane; si facciano tutte le detrazioni ammesse dalla legge per gli altri contribuenti; e poiché gli altri contribuenti hanno diritto alla detrazione delle tasse ed imposte di qualunque genere da essi pagate, per i contribuenti di cui si parla si detragga l’intero ammontare della tassa unica di abbonamento da essi già soluta e dovuta.

 

 

Par. 67. – Osservazioni fatte in merito dal Consorzio solfifero siciliano.

 

 

Questo il sistema della finanza, al quale si oppone il Consorzio solfifero siciliano.

 

 

Osserva questo, in persona del suo direttore generale, che per l’industria solfifera siciliana è stato creato un regime speciale di commercio e di tassazione che non vi è nessuna ragione di abbandonare: con questo regime speciale, il quale è consigliato da circostanze che furono equamente apprezzate dal legislatore del tempo e che non sono venute meno nel frattempo, l’industria solfifera siciliana non vuole menomamente sottrarsi al pagamento della somma dovuta a titolo di avocazione dei profitti di guerra: essa chiede soltanto che sia conservato il metodo antico per l’applicazione anche di quest’imposta così come di tutte le altre imposte precedenti; essere il sistema della tassa unica di abbonamento assai più semplice e facile da seguirsi non importando una indagine complessa e difficile nei conti di ogni singolo proprietario ed esercente di miniere: salvo poche eccezioni essere i 900 esercenti le miniere solfifere siciliane gente poco usata a tenere contabilità di profitti e perdite, non di rado illetterata; ogni estimazione analitica del reddito simile a quella che si fa per gli altri contribuenti susciterebbe opposizioni vivissime negli interessati; peggio, darebbe luogo a controversie senza fine ed in definitiva risulterebbe di aggravio per l’industria e dannoso per la finanza medesima, la quale riscuoterebbe una somma minore di quella che può esser sicura di riscuotere con facilità col sistema dell’abbonamento.

 

 

Par. 68. – Conclusioni della Commissione favorevoli al metodo dell’abbonamento anche per l’avocazione.

 

 

La Commissione rimase persuasa da questo ragionamento. Essa non vede la ragione per la quale mentre esiste per tutte le altre imposte, compresi i sovraprofitti di guerra, un sistema speciale di abbonamento, questo sistema debba essere abbandonato per la sola avocazione, la quale in sostanza non fa altro se non che integrare l’imposta sui profitti di guerra portando il saggio al 100 per cento. Così come si poté calcolare la parte si potrà calcolare il tutto: la difficoltà è meramente contingente e non di principio e quindi il principio della tassa d’abbonamento sembra non possa essere abbandonato. Basta a tutelare i legittimi interessi della finanza, stabilire che, mercé la tassa speciale di abbonamento, si applichi, come propone l’articolo 14 della Commissione, anche a questa categoria di contribuenti la totale avocazione dei profitti di guerra.

 

 

Qual metodo tenere per estendere anche ai proprietari ed esercenti zolfare l’avocazione totale dei profitti di guerra attraverso la tassa d’abbonamento? La Commissione avrebbe essa potuto, sentiti gli interessati e studiata la questione tecnicamente ed economicamente, suggerire la percentuale dell’aumento da apportarsi alla tassa attuale unica che è come sopra fu detto dell’1% per tonnellata fino a 300 lire e del 10% per la parte del prezzo superiore alle 300 lire: ma la Commissione si astiene dal dare questo suggerimento per parecchi motivi.

 

 

Innanzi tutto l’industria zolfifera siciliana ha attraversato, dal 1° agosto 1914 al 30 giugno 1920, due periodi nettamente distinti l’uno dall’altro. In un primo periodo, il quale corrisponde all’incirca agli esercizi 1914-15-16- 17, l’industria zolfifera attraverso una grave crisi. Ridotte le vendite per la chiusura di molti mercati stranieri, aumentati i costi di produzione, disertate le miniere per il richiamo di molti picconieri alle armi, la produzione scemò grandemente ed i prezzi o rimasero stazionari o persino diminuirono, cosicché in quel periodo di tempo con una legislazione speciale, fu dato perfino diritto agli esercenti di chiedere la revisione dell’estaglio pagato ai proprietari al fine di riparare alla grave perdita che essi sopportavano nei loro bilanci: e talvolta la riduzione fu concessa e in molti altri casi già si era cominciato a trattare su questo punto. Ma a partire da una certa data dell’anno 1917 le cose mutarono, perché sorse una nuova domanda bellica dello zolfo; e per le difficoltà dei noli e per l’aumento dei cambi i prezzi dello zolfo, espressi in lire italiane, subirono fortissimi aumenti. Cosicché gli anni 1918, 1919 e primo semestre 1920 possono considerarsi come fruttiferi Per i contribuenti. Dare un criterio unico per tutto il periodo di guerra, sarebbe stato pericoloso; d’uopo è che la misura dell’aumento da apportarsi alla tassa unica di abbonamento venga accuratamente studiata sulla base di dati precisi per ognuno dei periodi della guerra, cosicché la avocazione venga compiuta secondo giustizia.

 

 

La Commissione ha ritenuto inoltre di non avere sufficienti dati per proporre una misura precisa di aumento della tassa di abbonamento; e crede perciò di aver adempiuto al suo compito suggerendo che la misura dell’aumento debba essere determinata dal Ministero delle Finanze di concerto col ministro del Commercio, sentito il Consorzio solfifero siciliano: contro la determinazione del ministro delle Finanze si propone che il Consorzio solfifero siciliano, unico rappresentante dei proprietari ed esercenti, possa entro trenta giorni dalla ricevuta notificazione ricorrere alla Commissione centrale, la quale giudicherà secondo le norme portate dall’articolo 22 e generali per tutti gli altri contribuenti.

 

 

69.- Diversità della misura della tassa d’abbonamento per i proprietari e gli esercenti delle zolfare.

 

 

Un punto subordinato da risolversi, era quello se l’aumento della tassa unica di abbonamento dovesse essere uniforme per gli esercenti e per i proprietari. Senza entrare ad esporre cifre, le quali potrebbero essere controvertite, la Commissione dopo accurati studi è venuta unanime nell’opinione che la differenza debba essere fatta fra proprietari ed esercenti in questo senso: che l’aumento debba essere calcolato diversamente per i due, tenendosi conto della differenza tra le spese gravanti sui proprietari e quelle le quali cadono sull’esercente la miniera. Ed invero vi sono bensì degli elementi comuni a proprietari ed esercenti, elementi i quali dovranno essere equamente valutati dal Ministero delle Finanze, sentito il Consorzio zolfifero siciliano, fra cui piace di ricordarne particolarmente due. In primo luogo per ambedue le parti aumentò negli ultimi anni del periodo contemplato, il prezzo unitario della tonnellata di zolfo e quindi aumentarono i prodotti lordi monetari ricevuti dai contribuenti: in secondo luogo diminuirono per ambedue le parti il tonnellaggio di zolfo prodotto e quindi il maggior prezzo dovette essere moltiplicato per una produzione ridotta talvolta a meno della metà di quello che era antecedentemente. Cosicché se il prodotto. unitario per tonnellata crebbe assai, il prodotto complessivo crebbe assai meno. Dal prodotto complessivo però le detrazioni che devono esser fatte a titolo di spesa sono differenti per le due categorie di contribuenti, inquantoché l’esercente deve detrarre dal prodotto lordo monetario tutte le spese di produzione, la tassa d’abbonamento già soluta, le spese di assicurazione sociale, a suo carico, le spese di trasporto fino al porto d’imbarco e via dicendo; mentre il proprietario sul valore monetario dell’estaglio ricevuto deve detrarre spese assai minori e cioè, si può dire, soltanto le spese di trasporto cresciute durante la guerra, le spese per ingegneri e capimastri e personale esterno per la sorveglianza della miniera e per il controllo dell’estaglio dovuto dall’esercente, le spese consorziali, i contributi per opere sociali, la tassa d’abbonamento e la perdita in determinati casi sopportata per la riduzione dell’estaglio, la quale ebbe luogo qualche volta sotto forma di rilascio di una determinata somma e tal’altra sotto forma di rilascio di una determinata percentuale di zolfo per un certo periodo di tempo. Più recentemente fu concordato in Palermo nel 1920 con decorrenza dal 4 ottobre dello stesso anno, il rilascio del 15% dell’estaglio da parte dei proprietari a favore degli operai. Tutte queste spese sommate insieme, gravano tuttavia proporzionalmente assai meno sui proprietari che non gravino le spese proprie sulla quota di produzione spettante agli esercenti; cosicché la differenza va fatta, sotto questo riguardo, nella determinazione dell’aumento della tassa speciale d’abbonamento, in questo senso: che l’aumento dovrà essere maggiore per la quota spettante al proprietario che non per la quota cadente sull’esercente la miniera. Il che può dirsi sia vero, anche quando si tenga conto, come è doveroso fare, della osservazione fatta dal rappresentante dell’Associazione dei proprietari di solfare che per i proprietari il prodotto netto della miniera non può tutto considerarsi reddito netto ma è in parte rimborso, per esaurimento, del valore capitale della miniera quale preesisteva al 1ø agosto 1914; sicché reddito netto, di cui l’eccedenza oltre l’ordinario soltanto è avocabile, sia il valore residuante dopo tale rimborso.

 

 

Par. 70. – Osservazioni particolari sull’applicazione del metodo per abbonamento.

 

 

Nota ancora la Commissione:

  • 1) che ove la miniera sia esercita dallo stesso proprietario, ovviamente si dovrà tener calcolo della diversità delle funzioni sue distinguendosi la produzione nelle due parti idealmente spettanti al proprietario e all’esercente e tassando ognuna di esse nella misura propria che la finanza reputerà opportuno di stabilire;
  • 2) che per comodità di pagamento, l’aumento della tassa di abbonamento debba essere corrisposto dal Consorzio solfifero siciliano per quanto riguarda la tassa dovuta dagli attuali appartenenti al Consorzio, salvo diritto di rivalsa del Consorzio contro di essi. Naturalmente il Consorzio zolfifero siciliano non dovrà esser chiamato a corrispondere l’aumento della tassa per quei contribuenti i quali più non appartengano al Consorzio. Per essi si procederà nelle maniere usate per tutti gli altri contribuenti;
  • 3) che non possa negarsi ai contribuenti dell’industria solfifera siciliana il diritto sancito dall’articolo 1° della legge del 24 settembre 1920 ad una quota libera di lire 20.000. Potrà infatti benissimo, anche sotto forma di aumento nella tassa di abbonamento, calcolarsi il debito d’imposta dovuto da ognuno dei contribuenti ed il calcolo sarà assai più agevole a farsi per i contribuenti zolfiferi che non per qualsiasi altra specie di contribuenti; inquantoché il Consorzio tiene un accurato rilievo di tutta la produzione ottenuta dai singoli consorziati. Dall’ammontare della tassa d’abbonamento dovrà farsi detrazione, in quanto vi sia capienza, della somma annua di lire 20.000. Insomma la quota annua di abbonamento dovrà essere stabilita, come è detto nel 1° comma dell’articolo 14, in misura da portar via al contribuente totalmente i profitti di guerra ottenuti; ma poiché la misura dell’aumento dovrà esser tale, giusto è che dall’aumento medesimo si detraggano tante volte 20.000 lire quanti sono stati gli anni di guerra e per ognuno dei contribuenti.

 

 

CAPITOLO VIII.

 

 

Dichiarazione, prescrizione, rateazione e valida garanzia.

 

 

Par. 71. – Termine e modalità della denuncia da farsi dal contribuente.

 

 

Nessuna sostanziale proposta di modifica ebbe a ritener necessaria la Commissione per ciò che si riferisce alla denuncia da farsi dal contribuente dei profitti di guerra realizzati nel periodo dal 1° agosto 1914 al 30 giugno 1920 e degli aumenti di patrimonio avocabili allo stato.

 

 

Allo scopo di tener conto del ritardo con cui probabilmente il regolamento per l’applicazione della legge del 24 settembre 1920 sarà pubblicato, la Commissione suggerisce all’articolo 16 (antico art. 13) che il termine per la denuncia dei profitti di guerra dal 1° gennaio al 30 giugno 1920 sia cambiato dal 15 marzo 1921 ad una data di 2 mesi da quella della pubblicazione del regolamento medesimo, ovvero, se si ritenesse più opportuno fissare una data certa, al 30 aprile 1920, ove il regolamento fosse pubblicato in febbraio o più tardi se il regolamento fosse pubblicato in un’epoca ancora ulteriore. Una sola aggiunta fece la Commissione, di carattere non sostanziale, a questo riguardo ed è l’obbligo fatto al contribuente di presentare nello stesso termine sopraindicato una dichiarazione complessiva nella quale siano richiamate le denunzie presentate anteriormente cosicché resti determinato dal contribuente stesso l’aumento di patrimonio avocabile per tutto il periodo dal 1° agosto 1914 al 30 giugno 1920 in conformità delle norme contenute nel presente regolamento. Una denunzia suppletiva sarà invero per lo più necessaria a farsi dal contribuente, perché questi possa far presente all’amministrazione le ragioni di speciali detrazioni che gli competano in materia di avocazione e che non gli erano concesse invece in materia di imposta di ricchezza mobile e di sovrimposta sui profitti di guerra. Dato ciò parve utile che il contribuente presentasse una dichiarazione complessiva, la qua le potrà riuscire utile a lui ed all’amministrazione per stabilire quale sia l’ammontare netto di patrimonio avocabile.

 

 

Par. 72.- Prescrizione dell’azione della finanza.

 

 

Una modifica di non grande rilievo apportò eziandio la Commissione alla proposta del governo per quel che si riferisce alla Prescrizione dell’azione della finanza per l’accertamento dei profitti di guerra. Nel sistema governativo, il quale è il frutto di proroghe successive accordate all’azione della finanza da decreti modificativi dei provvedimenti iniziali, l’azione della finanza secondo l’ultima proposta si prescriverebbe, per tutti i periodi di guerra compresi nelle date tante volte sopra riferite, entro il 31 dicembre 1923 se trattasi di rettificare le denunzie presentate dal contribuente ed entro il 31 dicembre 1924 se trattasi di accertamenti d’ufficio. Tuttavia la Commissione centrale e la finanza hanno ancora diritto di rivedere gli accertamenti divenuti definitivi per decisione della Commissione centrale medesima entro il 31 dicembre del secondo anno successivo a quello nel quale siasi verificata la definizione degli accertamenti stessi. Tenendo conto di queste due disposizioni, sembra che la definizione dei problemi relativi agli accertamenti dei profitti di guerra possa trascinarsi assai a lungo, inquantoché la finanza dopo avere entro il 31 dicembre 1923 o entro il 31 dicembre 1924 provveduto ai primi accertamenti, ha ancora due anni di tempo dopo quel periodo intermedio che potrà esser ritenuto necessario, per la definizione degli accertamenti fatti da parte sia della finanza sia della Commissione provinciale o centrale.

 

 

In questa maniera può darsi che si vada al 31 dicembre 1925 o al 31 dicembre 1926 come minimo, e più in là ancora e forse notevolmente se la definizione degli accertamenti abbia a trascinarsi ancora più a lungo.

 

 

Aggiungasi che l’ultimo comma dell’articolo 22, come è proposto dal governo, statuisce che per i profitti di guerra i quali si siano prodotti entro il 30 giugno 1920 ma vengono a maturare dopo tale data, i termini fissati s’intendono prorogati per un numero di anni pari a quello intercorso fra il 1921 e l’anno in cui i profitti stessi si realizzeranno. In tal modo sarà sempre possibile alla finanza anche in un’epoca futura assai lontana, per esempio nel 1930 e più in là, cercare di provare che un dato profitto di guerra, solo allora maturato, è stato originato da cause produttive anteriori al 30 giugno 1920 ed avrà ancora la finanza allora un termine lungo di tempo per provvedere ai nuovi accertamenti.

 

 

La Commissione a questo riguardo ha certamente dovuto dare gran peso alle considerazioni le quali ripetutamente hanno mosso la finanza a prolungare i termini normali di prescrizione. Trattavasi di materia nuova, di terreno quasi vergine da scoprire attraverso alla resistenza silenziosa od attiva da parte dei contribuenti: non era possibile che l’amministrazione d’un tratto affinasse i suoi strumenti di accertamento così da essere in grado di scoprire i redditi accresciuti o nuovi che andavano moltiplicandosi in virtù delle mutate condizioni economiche del paese. Si può quindi ammettere che i termini di prescrizione a poco a poco siano stati prolungati, così da giungere sino al punto attuale. Ma la Commissione non può nascondersi che codesto prolungarsi continuo dei termini di prescrizione è contrario ad ogni sano principio della pubblica finanza.

 

 

Uno dei canoni fondamentali, che non solo si leggono in tutti i trattati di scienza delle finanze ma che sono il frutto di un’esperienza secolare in materia di imposte e prima che dagli scrittori furono esposti dai finanzieri pratici, si è quello della certezza dell’imposta. Non è conveniente, né dal punto di vista dell’interesse collettivo, né da quello della finanza, che sul capo dei contribuenti penda per lungo periodo di tempo la spada di Damocle dell’accertamento di imposta per cifra incerta, rispetto alla quale non è possibile di fare alcun calcolo. Il contribuente durante tale periodo di incertezza non sa più quale sia il patrimonio suo proprio e quello che gli dovrà esser tolto dalla finanza. Anche nell’ipotesi del contribuente più corretto disparità di opinioni ragionevoli possono manifestarsi tra lui e la finanza, disparità di opinioni che possono condurre a conseguenze fiscali rilevantissime.Èopportuno ed anche necessario che tale periodo di incertezza finisca al più presto possibile, tanto più necessario nel momento presente di assestamento dell’economia privata e dell’economia nazionale, nel quale nulla importa tanto come di uscire dal trambusto economico e sociale della guerra e riprendere il lavoro di ricostruzione da cui dipende la salvezza del paese. La Commissione ha ritenuto di dover mutare pochissimo alla proposta del governo, limitandosi ad abbreviare di un anno, ossia al 31 dicembre 1922, la data del 31 dicembre 1923, la quale era stata stabilita per la prescrizione del diritto di rettifica da parte della finanza delle denunzie presentate dai contribuenti. In quei casi in cui i contribuenti furono diligenti e con la loro denuncia misero in grado la finanza di fare l’accertamento, d’uopo è che la finanza sia sollecita e nei quasi due anni di tempo che ancora intercorrono da oggi al 31 dicembre 1922 eseguisca i suoi accertamenti sicché entro quel termine si prescriva la sua azione. I termini, invece, di prescrizione per i contribuenti negligenti, i quali si lasciarono accertare d’ufficio, rimasero nel pensiero della Commissione uguali a quelli che erano stati proposti dal governo.

 

 

Un nuovo termine ritenne opportuno la Commissione di stabilire e fu quello per i profitti di guerra che avendo avuto causa anteriore al 30 giugno 1920 verranno a maturare dopo quella data. Non parve alla Commissione necessario per la finanza ed opportuno per l’economia nazionale di lasciare quel termine aperto indefinitamente, sicché ritenne di dover stabilire una data, e precisamente quella del 31 dicembre 1925, come l’ultima alla quale s’intendono prorogati i termini di prescrizione stabiliti nell’articolo 16 per l’accertamento anche di questi profitti di guerra. Ed invero o i profitti stessi verranno ad essere accertati entro quella data ed allora sarà plausibile una dimostrazione della finanza la quale pretenda di riconnettere quei profitti a cause produttive anteriori al 30 giugno 1920, ovvero quella data sarà superata, e sarebbe probabilmente uno sforzo logico eccessivo ed una ricerca storica priva di fondamento quella di voler riconnettere profitti maturati dopo il 30 dicembre 1925 a cause produttive anteriori al 30 giugno 1920.

 

 

La connessione, se anche in qualche raro caso potrà esistere, sarà così vaga ed indefinita che non merita il conto di lasciar pendere sull’economia dei contribuenti una tale minaccia per un così problematico ed irrilevante risultato finanziario.

 

 

In ogni caso la Commissione s’augura che la finanza proceda con la massima rapidità possibile agli accertamenti, cosicché tutta l’opera non solo di accertamento ma anche di riscossione dell’imposta sull’aumento di patrimonio venga ad essere liquidata assai prima che scadano i termini stabiliti prudenzialmente nell’articolo 23.Ènecessario che l’amministrazione proceda assai rapidamente sia per il motivo ora detto di togliere una cagione di incertezza dall’animo dei contribuenti e di renderli più disposti ad attendere con sicurezza alla produzione avvenire; sia e soprattutto nell’interesse della finanza: questa deve sollecitamente trarsi fuori dai ricordi del passato; – deve liquidare ogni contabilità relativa al periodo di guerra, così da poter volgere i suoi sforzi fecondi agli accertamenti normali dei redditi che si verificheranno ora innanzi.Èda questa fonte dei redditi annui che la finanza deve attendere i frutti migliori e i rimedi per mettere in equilibrio il bilancio dello stato. Le ricerche storiche ed archivistiche, potranno dare buoni frutti; ma sono frutti che si possono raccogliere una volta tanto e che non ripetendosi non torneranno per l’avvenire di alcun sussidio alla finanza. Ogni sforzo compiuto nelle ricerche relative al passato, toglie la possibilità alla finanza di guardare all’avvenire e pur non volendo sminuire i risultati fiscali in tal modo ottenuti, uopo è riconoscere che essi sono inferiori a quelli che apparentemente sembrano, imperocché contro ad un provento per sovraprofitti o per avocazione di un dato numero di miliardi, sta la contropartita di minori accertamenti di redditi correnti da parte di una finanza le cui forze non possono oltrepassare un determinato limite.

 

 

Par. 73. – La rateazione per il pagamento delle somme dovute a titolo di avocazione.

 

 

Più lunghe discussioni furono fatte in seno alla Commissione per quel che si riferisce alla rateazione da darsi ai contribuenti per il pagamento della dovuta imposta. Il sistema governativo era quello di concedere, agli effetti del pagamento dell’imposta e sovrimposta sui profitti di guerra e dell’imposta sugli aumenti di patrimonio (avocazione) una ripartizione eccezionale, a domanda dei contribuenti iscritti a ruolo, in 12 rate, invece che nel numero normale di 6 rate. Tale numero di 12 rate veniva eccezionalmente aumentato a 5 anni, ossia a 60 rate, per quei contribuenti ai quali furono accordate in passato esenzioni speciali in considerazione del reimpiego dei profitti di guerra; quinquennio decorrente dal 1° gennaio 1921.

 

 

Par. 74. – Richieste di assai più lunghe rateazioni presentate dai contribuenti.

 

 

A questo proposito le rappresentanze dei contribuenti unanimi presentarono proposte le quali grandemente si allontanano dagli intendimenti della finanza. Essi fecero rilevare che, a partire dal dicembre 1920, hanno cominciato a giungere in scadenza a carico di contribuenti industriali e commercianti numerose rate di imposte. L’imposta e la sovrimposta sui profitti di guerra del 1919 e spesso anche degli esercizi anteriori per i quali gli accertamenti erano stati ritardati, l’imposta sugli aumenti di patrimonio per tutto il periodo dal 1° agosto 1914 31 dicembre 1919, l’imposta complementare sui redditi complessivamente superiori a lire 10000 – l’imposta di ricchezza mobile sulle riserve di ammortamento e di rispetto state costituite ai termini dei decreti limitativi dei dividendi sociali dal 1915 a tutto il 1917 – l’imposta straordinaria, sui dividendi e sugli interessi di cui nei decreti legislativi del 18 [rectius 17] novembre 1918, 24 novembre 1919 e 22 aprile 1920; ai quali tributi sono ancora da aggiungere: le imposte suppletive sui redditi della categoria A-2) e C) di ricchezza mobile, le sovrimposte comunali e provinciali consentite dal regio decreto 4 maggio 1920, n. 588, le ordinarie imposte e sovrimposte sui terreni e sui fabbricati – le imposte e tasse a favore delle Camere di commercio, e tutti gli altri contributi i quali fanno carico nel momento presente all’industria. Le rappresentanze interessate dichiarano che gli industriali non possono assolutamente soddisfare a questo carico tributario nelle brevi more concesse dalle leggi vigenti. Citiamo uno solo dei memoriali pervenuti alla Commissione:

 

 

«Le nostre industrie attraversano oggi una crisi così difficile e tormentosa che l’uguale non si ricorda in tutta la storia di questi 60 anni di vita del Regno d’Italia.

 

 

Mancano le materie prime e le difficoltà di rifornirsene si fanno ogni giorno più aspre sia per il vertiginoso rialzo dei cambi sia per la sfiducia che l’estero ci dimostra in causa delle nostre interne condizioni politiche ed economiche.

 

 

Continuano le agitazioni operaie e gli scioperi; né sono cessate minaccie di nuove violente occupazioni degli opifici. La incoercibile indisciplina delle masse operaie disorganizza il lavoro. In contrasto con la progrediente diminuzione del rendimento orario del lavoro, spesseggiano le pretese di nuovi esorbitanti aumenti di paghe.

 

 

L’incertezza generale determinata da questa situazione scoraggia le industrie, ne deprime le energie, isterilisce ogni spirito di iniziativa. In conseguenza la produzione rallenta il suo ritmo, diminuisce e tende ad esaurirsi ogni giorno più. Dalle industrie lo stato attinge il massimo contingente delle sue entrate.Èquindi supremo interesse della finanza l’aiutare le industrie a trarsi da questo doloroso passo per metterle in condizione di sostenere l’immane peso delle imposte che ora le opprime.

 

 

Con il Reale decreto del 7 corrente mese, n.1541, la facoltà già accordata al governo dal precedente anzidetto Regio decreto del 22 aprile 1920, di ripartire in 12 rate bimestrali il pagamento dell’imposta sugli aumenti di patrimonio, viene estesa anche all’imposta sui profitti di guerra.

 

 

Ma il provvedimento non è sufficiente a risolvere l’angoscioso problema.

 

 

Nel breve termine delle 12 rate, moltissime ditte non potranno certamente assolvere tutto lo schiacciante debito delle imposte loro richieste.

 

 

D’altra parte l’obbligo di prestare valida garanzia costituisce un impedimento gravissimo, pressoché insuperabile, alla consecuzione della proroga. Le banche non concedono crediti, né fanno garanzie per il pagamento di tributi, e se in qualche raro caso a ciò consentono, gli è a condizioni onerosissime, e le spese di registro e di bollo che richiede la stipulazione dell’atto accrescono ancora di più il gravame dell’imposta.

 

 

Questa impossibilità di soddisfare il loro debito verso l’erario nell’angusto limite di tempo stabilito dal recente decreto, si verificherà specialmente per le aziende – e sono in grande numero – che hanno investito i loro profitti di guerra in nuovi impianti, in ampliamento o trasformazione di impianti già esistenti per eseguire le forniture di guerra. Esse si troveranno nella necessità di ipotecare o alienare i loro impianti. Ma i crediti fondiari non fanno mutui su stabilimenti industriali. E nello stato di scoramento e di panico che oggi affligge industriali e capitalisti, chi saranno i prestatori di denaro o i compratori di quegli impianti? E, ancora, a quali disastrose condizioni? Il danno sarebbe non meno grave per l’economia generale del paese che per gli stessi alienanti; perché le industrie, ad essere bene condotte, vogliono capacità speciali; è le capacità industriali non si improvvisano.

 

 

Quale, dunque, il rimedio? L’avocazione allo stato dei profitti di guerra, la quale come già si è avvertito, surroga ed assorbe l’imposta sugli aumenti di patrimonio, differisce dall’imposta straordinaria sugli aumenti di patrimonio sostanzialmente in ciò solo, che quella si risolve nella confisca totale del patrimonio di guerra, questa nella confiscaparziale del patrimonio posseduto dal contribuente al 1°gennaio 1920.

 

 

Il pagamento dell’imposta sul patrimonio deve essere effettuato in un ventennio, oppure in un decennio quando il patrimonio risulti costituito, per almeno tre quinti del suo ammontare netto, da beni mobili (articolo 30, 3° capoverso, Regio decreto-legge 22 aprile 1920 n.494). Ora sarebbe giusto che anche per il versamento dei profitti di guerra avocati allo stato si concedesse la stessa rateazione che è ammessa per l’imposta sul patrimonio; anzi a rigore di logica trattandosi di una imposta molto più gravosa le facilitazioni per il pagamento dovrebbero essere maggiori.

 

 

Ma volendosi soprattutto tener conto delle stringenti esigenze dell’erario, le industrie si potrebbero contentare della dilazione di 10 anni od anche, se pure con grave loro sacrificio, di un termine in ogni caso non inferiore a 5 anni.

 

 

Nessun ragionevole timore può sorgere nel frattempo circa la solvibilità delle ditte debitrici.

 

 

L’Industriale che, come privato contribuente all’imposta sul patrimonio, è considerato solvibile per 20 o per 10 anni non presenta maggiori garanzie di solvibilità della ditta o società industriale alla quale egli appartenga. Anzi nella più parte dei casi le garanzie saranno maggiori per questa che per quello.

 

 

D’altronde le cautele delle quali la legge munisce la riscossione dell’imposta sugli aumenti di patrimonio, e in sostituzione di questa, la avocazione allo stato dei profitti di guerra, sono delle piùrassicuranti. Basta tener presente per rimanerne convinti, l’articolo 18 della legge 24 novembre 1919, n. 2164, che dichiara applicabili alla riscossione della detta imposta le disposizioni degli articoli 28, 29, 30, (comma 1, 3 e 4) 33 e 34 del testo unico 9 giugno 1918, n.857, allegato A sui profitti di guerra. Nessun’altro sistema tributario in Europa tutela con maggiore circospezione e rigore i diritti dell’erario (allegato B).

 

 

Bisogna aiutare il riassetto delle industrie se si vuole raggiungere lo auspicato ristauro della pubblica finanza. Finanza assestata e industrie in rovina sono termini assolutamente contraddittori e inconciliabili. Le ditte industriali non domandano privilegi; domandano soltanto di essere lasciate vivere e di venire messe in grado di soddisfare, come hanno sempre fatto, i loro doveri di onesti contribuenti verso lo stato».

 

 

Par. 75. Discussione di proposte le quali risolverebbero indirettamente il problema della rateazione. Creazione di un titolo di cointeressenza dello stato.

 

 

Ed altri memoriali si potrebbero citare tutti intonati al medesimo concetto. La Commissione lungamente discusse intorno all’opportunità di accogliere in parte le proposte avanzate dalle rappresentanze dei contribuenti. Per un momento parve che una via di uscita si potesse trovare mantenendo fermi i termini brevi del progetto governativo, qualora si fosse accolto indirettamente il concetto che era già adombrato nella relazione senatoriale dell’onorevole Carlo Ferraris, il quale, pur affermando che la disposizione relativa alle 12 rate dovesse essere mantenuta ferma, aveva aggiunto potersi lasciare al prudente arbitrio del Ministero di aumentare anche il numero delle rate e di concordare metodi di pagamento che differissero dal consueto pagamento in denaro. Una proposta fu a questo riguardo ampiamente discussa ed è quella consentire al contribuente, il quale si dichiarasse incapace a pagare entro i due o i cinque anni voluti dalla finanza l’imposta, di consegnare allo stato un titolo di partecipazione alla proprietà ed agli utili della sua intrapresa. Poniamo, ad esempio, che una società anonima fornita di un capitale complessivo di 10 milioni di lire esistente secondo l’ultimo bilancio, debba pagare allo stato una imposta complessiva di 2 milioni di lire. I due milioni esistono bensì nelle attività patrimoniali della società, ma, essendo completamente investiti in edifici o macchinari, la società non ha modo di pagare in danaro la somma di cui resta debitrice verso la finanza. Perché, fu osservato, non dare facoltà alla società contribuente di creare nuova serie di azioni per l’ammontare di 2 milioni di lire, consegnando le nuove azioni allo stato, il quale diventerebbe così comproprietario e azionista della società per l’ammontare intero del suo credito di imposta? La proposta pareva consentire una via di uscita dal dilemma: o la finanza richiede il pagamento immediato o quasi immediata entro i due anni del debito d’imposta e molti industriali saranno costretti al fallimento, nel qual caso la finanza malgrado il suo privilegio potrà trovarsi ridotta a riscuotere una somma di gran lunga minore di quella accertata e persino potrà essere indotta, per evitare una liquidazione disastrosa, a concorrere alla pubblica asta ed ottenere l’assegnazione dello stabilimento dell’industriale fallito; nel qual caso le cose si complicherebbero grandemente per la finanza, inquantoché tutti questi scampoli di stabilimenti distribuiti per tutta Italia sarebbero gravosissimi per l’erario, darebbero ad esso ben poco frutto e fornirebbero soltanto agio ai migliori funzionari dell’amministrazione di sottrarsi ai loro gravosi sebbene utili compiti per quello più agevole di amministrare come curatori aziende dissestate ed avocate in natura allo stato: – ovvero la finanza consente a rateare il pagamento dell’imposta sull’aumento di patrimonio in un lungo periodo di anni, da 10 a 20, come è quello che è richiesto dalla rappresentanza degli industriali; ed allora l’imposta si trasforma da un’imposta una volta tanto o meglio da una vera e propria confisca del patrimonio in un’imposta sul reddito futuro conseguito dalle aziende così colpite. Poiché nessuna di queste due alternative e accettabile per la finanza, la consegna da parte dei contribuenti di una nuova serie di titoli azionari può essere una soluzione nel tempo stesso elegante ed efficace.

 

 

Elegante, inquantoché idealmente il contribuente salda in un solo istante è subito il suo debito d’imposta verso lo stato e così attua il principio fondamentale della avocazione, che è quello di essere una decurtazione del patrimonio del contribuente alla data del 30 giugno 1920. Efficace, perché il contribuente ottiene una proroga effettiva al pagamento dell’imposta dovuta, che non è più stabilita in maniera empirica ed uniforme per tutti i contribuenti, ma può variare di caso in caso a seconda delle sue necessità.

 

 

Par. 76.- Limiti della proposta dello stato azionista a fini tributari.

 

 

La creazione di una nuova serie di azioni di proprietà dello stato non ha per invero scopo di rendere lo stato azionista dell’impresa privata in perpetuo. La Commissione non ha voluto entrare in quest’ordine di idee, ritenendo che un problema così grave come l’interessenza dello stato nelle imprese industriali private non debba essere risoluto incidentalmente allo scopo di ottenere il pagamento di un’imposta. In questa sede si sarebbe dovuto risolvere unicamente un problema fiscale ed è perciò che le società contribuenti avrebbero sempre dovuto avere il diritto indiscutibile di riscattare le azioni consegnate allo stato a titolo di pagamento dell’imposta; e sarebbe stato agevole prevedere che le società avrebbero fatto ogni sforzo per togliersi di dosso l’ingerenza dello stato azionista e quindi si sarebbe creato un interesse diretto al pagamento il più rapido possibile dell’imposta dovuta a titolo di avocazione.

 

 

Mentre oggi i contribuenti si affannano a dimostrare l’impossibilità per essi di pagare subito e la necessità della rateazione; col sistema dello stato azionista avrebbero cercato in ogni modo di accelerare il riscatto delle azioni consegnate allo stato ossia di pagare in contanti l’imposta.

 

 

Par. 77.Inconvenienti della proposta anche così limitata.

 

 

Ma il problema posto in questo modo sotto una luce simpatica, dovette essere approfondito di più, ed allora furono messi in rilievo i suoi non piccoli inconvenienti; in quanto lo stato azionista avrebbe portato come conseguenza necessaria la nomina da parte di esso di consiglieri di amministrazione o di sindaci dotati di speciali facoltà, allo scopo di garantire l’interesse della finanza. La nomina di consiglieri di amministrazione da parte dello stato dovette subito escludersi, inquantoché si sarebbe quasi reso impossibile il normale funzionamento delle società aventi come azionista lo stato. I consiglieri d’amministrazione statali avrebbero quasi sempre ritenuto di dover intervenire alle adunanze del consiglio d’amministrazione non con voto definitivamente deliberativo ma ad referendum – trattandosi di funzionari dello stato, questi avrebbero voluto mettere in salvo la loro responsabilità riferendo ai loro capi servizio e questi in ultima analisi ai ministri: ed i ministri o meglio il ministro delle Finanze e quello del Tesoro, si sarebbero veduti sovraccarichi di quesiti relativi ad ogni più piccola faccenda delle migliaia di società le quali avessero scelto di pagare l’imposta in questa maniera. Tutto ciò avrebbe significato la paralisi dell’industria ed un accrescersi spaventoso di lavoro per la pubblica amministrazione.

 

 

Nemmeno il partito di dare allo stato soltanto il diritto di intervento ai consigli di amministrazione per mezzo di sindaci o commissari speciali avrebbe risoluto il problema, inquantoché questi commissari, pur non avendo voto deliberativo positivo, avrebbero dovuto avere il diritto di sospensiva sulle deliberazioni dei consigli di amministrazione che a loro sembrassero dannose per la finanza; diritto del quale non di rado avrebbero creduto di dover far uso a limitazione della loro responsabilità, con conseguenze in tutto simili a quelle che sono già state descritte.

 

 

Aggiungasi ancora che l’amministrazione finanziaria avrebbe fatalmente scelto una parte di questi commissari, o forse tutti tra i propri funzionari e così i migliori tra gli agenti delle imposte sarebbero stati assorbiti da un lavoro forse meglio remunerato di quello dello stato, ma poco produttivo per la pubblica finanza e, per conseguire un miserevole vantaggio temporaneo, si sarebbero trascurati gli interessi permanenti della finanza, diminuendo il numero già scarso di funzionari abili ed intelligenti, capaci di procedere alle operazioni delicate dell’accertamento del reddito dei contribuenti.

 

 

Par. 78. – Creazione di un titolo speciale di credito a favore dello stato.

 

 

Scartato il metodo della consegna di azioni allo stato, fu discusso,, in seguito se potesse ammettersi la creazione di un titolo di credito speciale a favore dello stato. Accertato il debito d’imposta del contribuente, il contribuente avrebbe dovuto consegnare allo stato un titolo o parecchi titoli con privilegi speciali a saldo dell’imposta dovuta. A questo punto sarebbe finito il compito dell’amministrazione finanziaria e lo stato sarebbe diventato un semplice creditore di somme fisse in virtù di un titolo che avrebbe potuto anche essere ceduto o scontato del Tesoro. In fondo però il sistema del titolo di credito ammortizzabile in un certo numero di anni – per esempio in dieci o quindici anni – non mutava se non la forma della rateazione, forse peggiorandola, inquantoché una rateazione concessa nei modi normali del debito d’imposta per un lungo periodo di anni, avrebbe lasciato immutate le potestà della finanza per l’esazione delle rate via via scadenti ed avrebbe lasciato in piedi il sistema vigente, dimostrato buono dall’esperienza di tanti anni per ridurre al minimo le quote inesigibili; mentre invece avrebbero dovuto apprestarsi nuovi ordinamenti non ancora sperimentati, per garantire alla finanza la riscossione delle rate del titolo di credito.

 

 

Par. 79. – Opportunità di evitare il rischio di novità e il pericolo di porre un «precedente».

 

 

Non fu inutile l’esame delle alternative che si presentavano alla rateazione, inquantoché esso dimostrò come, per vari rispetti, queste alternative non potessero essere accolte o almeno non potessero essere accolte senza fare un esperimento, il quale si poteva presentare sotto parecchi rispetti rischioso, anche per virtù del precedente che esso avrebbe costituito. Elemento decisivo nella mente di talun commissario fu invero questo criterio del «precedente»; poiché è ben vero che la Commissione, ove l’avesse proposto, avrebbe dato alla creazione dello speciale titolo azionario o dello speciale titolo di credito un valore totalmente provvisorio e quasi opposto al valore che esso avrebbe avuto o in regime normale di stato azionista o cointeressato nell’impresa industriale.

 

 

Coloro che favoriscono l’esperimento dello stato azionista, vorrebbero che questo esperimento fosse fatto per raggiungere un risultato definitivo; ritengono utile che lo stato divenga e rimanga azionista di intraprese private con tutte le conseguenze economiche sociali e finanziarie che derivano da tale concetto. Ove invece fosse stato accolto il concetto dello stato azionista o cointeressato per ragioni tributarie, esso sarebbe stato accolto evidentemente con uno scopo tutto affatto opposto, ossia per quello di dare una spinta al contribuente per il pagamento più rapido possibile dell’imposta e per la liberazione sua dal controllo dello stato azionista; ossia si sarebbe creata questa figura dello stato azionista soltanto per distruggerla subito e per dare nello stesso tempo diritto e interesse al contribuente e far cessare tale anormale stato di cose. L’accoglimento del principio dello stato azionista non avrebbe dunque dovuto servire logicamente come precedente; ma non può escludersi che servisse di fatto come tale, inquantoché una volta ammesso che lo stato, possa diventare azionista per ragioni fiscali, a molti sarebbe sembrato non osservi ragione per non ammetterlo per altri motivi: e così, contrariamente all’intenzione della Commissione, essa avrebbe fornito per l’avvenire un’arma in mano a coloro che volessero fare un esperimento per tanti rispetti pericoloso ed a cui la maggioranza della Commissione non può adattarsi così da accoglierlo come istituto permanente.

 

 

Par. 80. – Ragioni della minoranza favorevole ad una rateazione più lunga di quella voluta dalla finanza.

 

 

Non rimane altro se non che la scelta tra la rateazione lunga voluta dai contribuenti e la rateazione breve voluta dalla finanza. E qui la Commissione si divise, la minoranza propendendo per accogliere il concetto del contribuente e la maggioranza dimostrandosi favorevole a quello della finanza. La minoranza ritiene che una rateazione più lunga di quella normale dei due anni ed eccezionale dei 5 anni proposta dalla finanza, si imponga sotto ogni rispetto nell’interesse dell’economia e nell’interesse della finanza. In quello dell’economia, inquantoché un’imposta, qualunque ne sia il nome, anche d’imposta patrimoniale o di avocazione una volta tanto dei profitti di guerra, non può mai perdere la sua misura ineluttabile e necessaria che e quella di essere una prelevazione sui redditi ottenuti dal contribuente durante l’anno. Nella stessa maniera come non si fa la guerra con il capitale esistente in un paese, salvo eccezionali casi di consumo di scorte di materie prime che fossero state accumulate per altre ragioni nel paese, perché non si alimentano i soldati e non si provvedono di munizioni e di armi consumando case, macchine, edifici ed altre forme di capitale esistenti nel paese, così nessuna imposta può essere pagata sul serio col capitale. Anche se si dice che l’imposta è un prelievo sul capitale, siccome non è possibile dare allo stato in natura le cose costituenti il capitale, giuocoforza è che l’imposta venga pagata sul reddito, così come la guerra si fa con la produzione annua di beni destinati al consumo bellico anziché al consumo di pace.

 

 

Né le cose mutano riconoscendo la verità che se l’imposta sul capitale o la avocazione non possono dalla collettività esser mai pagate sul capitale, lo possono bensì essere dagli individui singoli, inquantoché l’individuo singolo il quale è chiamato a pagare un milione di lire a titolo di avocazione e questo milione deve prelevare dal suo patrimonio in cui già si è immedesimato per investimenti precedenti, può pagarlo vendendo una parte del suo patrimonio. soltanto in apparenza l’imposta è così pagata col patrimonio, inquantoché è chiaro che di fronte al contribuente che ha venduto una parte del patrimonio vi è necessariamente l’acquirente che lo ha acquistato e l’acquirente non lo ha potuto acquistare con altra parte del suo patrimonio se non vendendo anch’esso un altro suo ente patrimoniale o prelevando il prezzo d’acquisto dal reddito. Nel primo caso si ripete la medesima condizione fin che si sia arrivati al reddito. Siccome lo stato vuol esser pagato in denaro contante e vuole poi trasformare questo denaro contante in mezzi di consumo, è necessario che l’imposta sia pagata in definitiva con il reddito da cui soltanto possono esser prelevati i detti mezzi di consumo. Quindi nessuna imposta può eccedere in complesso la massa di reddito che è prodotto dalla collettività in ogni determinato momento.

 

 

Il partito opposto può essere abbracciato soltanto da coloro i quali hanno approvata la avocazione dei profitti di guerra o l’imposta patrimoniale partendo dall’idea grezza che i contribuenti avessero in qualche parte nascosto a guisa di tesoro una certa somma di denaro con la quale fosse possibile il pagamento dell’imposta. Questa è l’idea che poco riflessivamente taluni si fanno del pagamento d’imposte straordinarie: si immagina sul serio che vi siano in qualche posto dei mucchi di denaro coi quali sia possibile di poter pagare le imposte straordinarie. Ora tutto ciò è completamente difforme dalla realtà. Salvo casi speciali di tesaurizzazione, che non possono essere assunti come regola di ragionamento, la gran massa degli uomini ha soltanto a disposizione il quantitativo di denaro che è giornalmente necessario per i pagamenti; ma il disponibile è in molte maniere impiegato o direttamente o indirettamente e quando l’impiego è indiretto, a mezzo di depositi bancari o in casse di risparmio, esso è ancora e forse più legato di quello che non sia l’impiego diretto a determinate forme di edifici, macchinari, terreni e via dicendo. Poiché l’imposta necessariamente deve esser pagata non con il capitale ma col reddito annuo, uopo è che essa non ecceda nel suo complesso una quota parte del reddito che il contribuente di anno in anno ricava dalla sua azienda; tale parte del reddito non può eccedere nel suo complesso, ossia tenuto conto di tutte le imposte ,dovute dal contribuente. Un margine ancora deve essere lasciato al contribuente, allo scopo di provvedere al necessario della sua vita ed alla formazione di un risparmio il quale è richiesto dalle necessità dello sviluppo dell’industria. Se a questo requisito non si soddisfa, conseguenze gravissime sono inevitabili: da un lato l’arresto negli investimenti industriali, la stasi nelle industrie; dall’altro forse la rovina dell’industria stessa, la quale non ha i mezzi di poter immediatamente soddisfare il debito d’imposta e deve, per procurarseli, ricorrere a fidi costosi e mettersi nelle mani di creditori i quali possono non avere le attitudini necessarie alla gestione dell’industria.

 

 

Par. 81. – Ragioni opposte dalla maggioranza della Commissione per tenersi ferma alle rateazioni brevi proposte dal governo.

 

 

A queste argomentazioni non oppose la maggioranza della Commissione un diniego assoluto. Osservò bensì che i contribuenti sono abituati a lagnarsi oltre misura anche al di là di quello che sia portato dalla verità e che sempre essi hanno usato di proclamarsi in procinto di essere rovinati dalle imposte, mentre fino ad esso cotale rovina non si è verificata. Il quale argomento non fu ammesso come buono dalla minoranza, inquantoché per il passato le querele di rovina si riferivano ad aliquote d’imposte che erano ben lungi dall’assurgere alle altezze odierne; ma quando si giunge all’avocazione totale dei profitti dl guerra e quando non si può disconoscere che i profitti stessi sono stati in gran parte o consumati o reinvestiti, non si può negare che le apprensioni dei contribuenti non abbiano un grave fondamento di verità, a meno di supporre generale il fatto dell’evasione dall’imposta, per cui pure parlandosi di avocazione al 100% il contribuente in realtà, essendo riuscito a nascondere parte del suo profitto alla finanza, paghi un’aliquota minore. Ma quest’ipotesi della frode generale non può accogliersi, sia perché essa è contraria al vero in moltissimi e vuolsi sperare nella gran maggioranza dei casi, sia perché essa non deve formare la base di provvedimenti legislativi. Il legislatore se deve avere il diritto di essere severo, deve anche presumere che i contribuenti siano non fraudolenti, ma ossequenti alla legge: soltanto a questa condizione le leggi d’imposta possono essere applicate in maniera ferma e severa per tutti; che se si comincia a supporre quasi legalmente la frode nei contribuenti, si arreca ingiusto e grave danno ai contribuenti onesti che pur sono numerosi, perché si sottopongono ad una pressione tributaria sia per l’altezza dell’aliquota sia – e questo è il caso presente – per le modalità di riscossione, superiore a quella che essi debbono giustamente sopportare.

 

 

Ma astrazion fatta da ciò, alla maggioranza della Commissione parve dovesse tenersi fermo il concetto fondamentale della legge d’avocazione, la quale importa la confisca di ciò che fu guadagnato durante la guerra in maniera eccedente alla misura voluta dal legislatore.

 

 

La confisca importa prelievo immediato, in un determinato momento della somma che ingiustamente il legislatore ritiene essersi appropriata dai contribuenti. Sapeva il legislatore che le conseguenze economiche sarebbero state dannose ai contribuenti stessi e forse anche terribili per la loro economia, ma ciò nonostante volle espressamente tale confisca per, ragioni di indole sociale e politica. Qualunque possano esserne le conseguenze, la volontà del legislatore deve avere il passo, e persino la rateazione in 12 rate in via normale e quella eccezionalmente proposta per taluni casi in 5 anni, costituiscono già un segnalato favore per il contribuente, il quale non dovrebbe avervi alcun diritto. La maggioranza della Commissione ammette che questa concezione dell’imposta di avocazione sia severa, ma afferma che tale severità non è in arbitrio della Commissione di mutare, poiché fu appunto voluta dal legislatore. Importa in ogni modo, evitare, secondo la maggioranza della Commissione, che si ottenga il fine che sembra essere voluto dalla minoranza, ossia la trasformazione dell’imposta per avocazione in una imposta gravante sui redditi annui futuri del contribuente, in una autorizzazione a prelevare l’imposta sui suoi redditi avvenire, perché in tale maniera verrebbe quasi ad istituirsi un’ipoteca su tali redditi avvenire in guisa da diminuirne l’ammontare disponibile per i consumi privati e per i consumi pubblici. Se l’imposta per avocazione di un milione di lire potesse trasformarsi in dieci annualità di 100.000 lire l’una, il contribuente avrebbe agio a pagare queste 100.000 lire sulle 200.000 lire di reddito annuo avvenire; e queste, pur rimanendo astrattamente in tale cifra in realtà sarebbero ridotte a 100.000 lire e in tal misura soltanto rimarrebbero disponibili, sia per i consumi privati dei contribuenti, sia come materia imponibile per lo stato, le provincie, i comuni; dimodoché questi enti pubblici per una diecina d’anni verrebbero quasi necessariamente ad essere costretti a contentarsi d’imposte minori di quelle che a loro sarebbero dovute ove il reddito potesse valutarsi in 200.000 lire. Replicò la minoranza che il raggiungimento di tale scopo è puramente illusorio, inquantoché non monta che il milione di lire sia pagato subito dal contribuente ovvero sia ripartito in dieci annualità: in ambedue i casi il reddito disponibile per il contribuente per l’avvenire si riduce a 100.000 lire. Nel primo caso del prelievo immediato, perché il contribuente per potere immediatamente pagare il milione di lire deve alienare una parte del suo patrimonio il quale riducendosi di massa rimane fruttifero soltanto più di 100000 lire invece che delle 200.000 che avrebbe potuto fornire se fosse rimasto nella sua cifra iniziale; nel secondo caso, ove l’imposta sia ripartita in 10 annualità, il reddito rimane di 200.000 lire, ma è decurtato dal pagamento dell’annualità d’imposta di 100.000 lire. Non e possibile di sfuggire in nessuno dei casi alla conseguenza della diminuzione del reddito avvenire del contribuente, con l’ulteriore illazione che lo stato non avrà a sua disposizione come materia imponibile nulla di più di 100.000 lire. Al che fu replicato che in realtà il contribuente pagherà l’imposta unica con altri mezzi senza alienare il capitale produttivo o risparmierà e lavorerà di più, mantenendosi il suo reddito fermo e perciò tassabile in lire 200.000.

 

 

Le opinioni delle due parti della Commissione rimasero perciò a questo punto inconciliabili ed essendosi venuti a decisione, prevalse il partito di accogliere in principio la proposta della finanza, la quale limita a 12 rate, ossia a 2 anni, la rateazione del pagamento dell’imposta sull’aumento di patrimonio e solo l’estende a 5 anni in casi eccezionali e precisamente in quei casi nei quali l’imposta per avocazione sia dovuta da contribuenti ai quali fossero state accordate precedentemente esenzioni speciali in considerazioni del reimpiego dei profitti di guerra.

 

 

Par. 82. – Da quale data debbono prendere inizio le rate.

 

 

Fermato questo principio si discussero ancora alcune particolaritàdi applicazione. In primo luogo quale fosse la data a partire dalla quale le rate dovessero avere inizio. La finanza proponeva che due rate concesse in via generale partissero dall’iscrizione a ruolo dei contribuenti, mentre invece i cinque anni di rateazione straordinaria nel caso speciale di esenzione partissero dal 1ø gennaio 1921. La Commissione ritenne che non potesse usare disuguaglianza di trattamento tra le due categorie di contribuenti stabilendo per i contribuenti in generale come punto iniziale l’iscrizione a ruolo e per i contribuenti a cui viene concessa la rateazione quinquennale, la data fissa. Nel concetto della Commissione invero la rateazione quinquennale non è un favore concesso ai contribuenti, ma è il riconoscimento del fatto che essi avevano dalle leggi avuto non solo facoltà, ma obbligo di reimpiego delle somme per cui avevano ottenuto l’esenzione: quindi essi debbono avere maggior tempo per disinvestire le somme che forzatamente avevano dovuto investire per godere la esenzione legale. Non essendo questo un favore, ma invece una necessità finanziaria, ne viene che essi debbono realmente godere del quinquennio a partire da una data uguale a quella dalla quale godono tutti gli altri contribuenti la rateazione biennale. Orbene questi hanno la rateazione dal momento dell’iscrizione a ruolo, ossia dal momento in cui furono in via di massima risolute le controversie relative al se ed al quantum dell’imposta dovuta.

 

 

È vero che l’iscrizione a ruolo può anche farsi prima che avvenga tale definitiva decisione, ma trattasi sempre di iscrizione provvisoria contro cui è possibile il ricorso.

 

 

Il sistema della data fissa per i contribuenti della seconda categoria farebbe sì che il quinquennio cominci quando forse nessuna delle questioni relative alla determinazione dell’ammontare dell’imposta da pagarsi è ancora, nonché risoluta, neppure posta; con che la rateazione concessa da un lato verrebbe ad essere ritolta in molti casi dall’altro.

 

 

Questa è la ragione per la quale la Commissione ha deliberato di accogliere anche per i contribuenti a rateazione quinquennale la stessa data iniziale dell’iscrizione a ruolo, la quale era stata affermata per gli altri contribuenti.

 

 

Par. 83. – La valida garanzia per la concessione delle rate d’imposta. Suoi inconvenienti.

 

 

Un altro punto relativo al pagamento dell’imposta è quello della valida garanzia. Contro di essa, che già era richiesta dalle leggi precedenti delle imposte sui sovraprofitti e sugli aumenti di patrimonio, rivolsero vive lagnanze le rappresentanze interrogate dei contribuenti; esse dissero che in realtà la richiesta della valida garanzia si riduce a porre nel nulla il beneficio delle 12 rate invece di sei e del quinquennio nei casi speciali. Inquantoché in che cosa può consistere la valida garanzia all’infuori di una fidejussione da parte di istituti bancari reputati di primo ordine dalla finanza, ovvero in concessioni d’ipoteche su beni immobili posseduti dal contribuente?

 

 

Ambedue i mezzi di valida garanzia sono respinti come dannosi dai contribuenti.Èrespinto il metodo dell’ipoteca inquantoché esso vieta, – nei casi non numerosi in cui è ancora possibile, in cui cioè esiste ancora un margine di valore, non già ipotecato a favore di altri – la possibilità di credito di cui il contribuente può avere bisogno. Avere il proprio patrimonio immobiliare ipotecato dalla finanza a titolo di pagamento d’imposte, significa non avere più il modo di ottener somme a credito in altra via, rendere difficile per le società l’emissione di obbligazioni, sminuire il credito di cui le aziende italiane hanno bisogno di fronte ai loro fornitori e creditori stranieri. Quale fiducia mai potrà avere un fornitore o capitalista straniero in un’azienda italiana, quando sappia che l’amministrazione finanziaria italiana ne ha così poca da richiedere persino, per il pagamento d’imposte, l’iscrizione di un’apposita ipoteca?

 

 

La fidejussione bancaria presentasi d’altro canto sommamente pericolosa: da un lato le banche sono riluttanti a concedere tale fideiussione e bene a ragione: in quantoché il credito bancario deve essere riservato, non a scopi consuntivi, ma esclusivamente a scopi produttivi. Una banca può far credito a un industriale quando sa che l’industriale impiegherà la somma mutuata nell’esercizio o nell’ampliamento della sua industria; non può e non deve far credito quando sa che l’industriale lo impiega per consumi famigliari [o] – il che fa lo stesso – per pagamento d’imposte. Pagare le imposte non è un’operazione la quale sia feconda di profitti in avvenire e quindi in se stessa contenga gli estremi per rendere possibile il rimborso della somma mutuata; ed è ben noto ed è pacifico che il credito bancario deve riposare esclusivamente su questo fondamento: di esser fatto cioè’ soltanto nei casi in cui il mutuo crei le condizioni del proprio rimborso. E se pur si può ammettere che in taluni rari casi le banche contravvengano alle ragioni del proprio istituto e andando contro all’esperienza passata, vogliano concedere mutui per scopi consuntivi, tali mutui non potranno essere ottenuti se non a condizioni onerosissime. Il contribuente, il quale deve pagare 100 a titolo di avocazione e deve ottenere una fideiussione bancaria per godere il beneficio della rateazione, nella realtà non pagherà più 100 ma 110 e forse più, contravvenendosi così al principio informatore della legge d’avocazione di portar via al contribuente tutto ciò ma nulla di più di ciò che egli ha lucrato dalla guerra.

 

 

Par. 84.- Plausibilità delle ragioni addotte per escludere la valida garanzia nel caso di rateazione biennale.

 

 

Queste ragioni parvero alla Commissione convincenti per ciò che si riferisce alla rateazione biennale. La concessione di una rateazione in 12 rate invece che in sei, è una necessità impellente se vuolsi che l’imposta sia pagata; non è né tecnicamente né economicamente possibile ottenere il pagamento in un numero minore di rate e quindi in questo caso la finanza non deve richiedere altre garanzie all’infuori di quelle generali con le quali essa procura di assicurarsi il pagamento dell’imposte in genere. D’altro canto la finanza già gode di tali garanzie in materia d’imposte in generale e d’imposte sui sovraprofitti in particolare, che nel caso di rateazione fino a 12 rate non è davvero necessario di andare escogitando nuove garanzie. Si pensi al privilegio fiscale sui beni mobili ed immobili del contribuente, alla facoltà che dai decreti sui sovraprofitti è stata concessa alla finanza di far persino dichiarare il fallimento del contribuente; al diritto che ha la finanza, nei casi in cui intravvegga un pericolo di insolvenza, di fare eseguire un’iscrizione speciale a ruolo una volta sola; alla responsabilità solidale del cedente e del cessionario di aziende industriali. Tutte queste garanzie sono così forti e così ampie che il rischio di insolvenza del contribuente appare davvero ridotto al minimo e non superiore a quella consueta proporzione di quote inesigibili che sempre si è avuta per tutte le imposte e che costituisce un onere, dall’esperienza dimostrato trascurabile, in confronto alla massa dei tributi esatti dalla finanza.

 

 

Par. 85.- Necessità della garanzia. Nel caso della rateazione quinquennale.

 

 

La valida garanzia fu invece ammessa dalla Commissione nel caso in cui la rateazione si spinga fino ai cinque anni. Non si è ritenuto opportuno di specificare meglio in che cosa possa consistere la valida garanzia: una specificazione e parsa inopportuna alla Commissione, come quella la quale avrebbe potuto legare le mani alla finanza ed essere inutilmente fastidiosa per il contribuente.

 

 

Fu discusso se non convenisse di istituire uno speciale privilegio sui beni del contribuente, il quale privilegio perseguisse i beni stessi mobili ed immobili anche in mano degli acquirenti di buona fede: ma la Commissione si arrestò di fronte alle difficoltà insuperabili che tale sistema di privilegio speciale avrebbe cagionato. Sarebbe stato d’uopo per il privilegio sui beni immobili, regolare minutamente il rapporto tra il nuovo privilegio speciale a favore della finanza ed il diritto precedente a favore di creditori ipotecari con data anteriore a quella della nascita del nuovo privilegio fiscale. Per i beni immobili l’esistenza di un privilegio fiscale avrebbe reso impossibile la contrattazione di merci e di titoli.

 

 

Nessuno avrebbe più osato acquistare alcunché, per il timore che il bene acquistato fosse soggetto ad un ignoto privilegio fiscale a favore della finanza. Essendo così il privilegio fiscale fecondo di danni di gran lunga superiori ai vantaggi, dovette essere senz’altro abbandonato: vedrà la finanza volta per volta di accordarsi col contribuente intorno alla miglior maniera di valida garanzia da prestarsi.

 

 

Par. 86.- Ripartizione delle spese e tasse occorrenti per la valida garanzia fra finanza e contribuente.

 

 

A rendere più facili gli accordi, ritenne opportuno la Commissione di stabilire un equo temperamento per la ripartizione delle spese derivanti dalla richiesta fatta dalla finanza di valida garanzia. Sia nel caso di garanzie ipotecarie come di garanzie bancarie, la prestazione di valida garanzia offerta dal contribuente ed accettata dalla finanza, sarà indubbiamente cagione di pagamento di tasse e di altre spese per interessi e provvigioni. Ritiene equo la Commissione che tali tasse e spese siano ripartite per giusta metà tra la finanza ed il contribuente. Se tutte queste tasse e spese dovessero essere accollate al contribuente, si verificherebbe l’ingiusta conseguenza che il contribuente a cui deve essere avocato un aumento di patrimonio di 100, sarebbe invece privato di una somma superiore, per esempio di 110. D’altro canto parve inopportuno di accollare tali tasse e spese esclusivamente alla finanza, inquantoché avrebbe potuto nascere nel contribuente un interesse a largheggiare negli interessi e provvigioni pagate ai suoi sovventori. La divisione per metà parve opportuna anche allo scopo di evitare che la finanza troppo leggermente, anche nei casi in cui non è necessaria, richieda una garanzia: sapendo che parte del costo di tale garanzia dovrà essere dedotto dall’ammontare di imposta dovuta dal contribuente, la finanza andrà più prudente in tale richiesta e la farà soltanto quando ciò sia imposto dalle circostanze del caso.

 

 

CAPITOLO IX.

 

 

Giuramento deferito – Ricorso all’autorità giudiziaria. Collegio peritale – Segreto d’ufficio.

 

 

Par. 87. – Problemi relativi al contenzioso: abolizione del giuramento deferito al contribuente.

 

 

Un ultimo gruppo di questioni si riferisce al contenzioso relativo all’imposta. Qui la Commissione propose alcune novità: la soppressione del vecchio articolo 20 il quale, a somiglianza di alcune delle leggi precedenti in tema di imposta patrimoniale e di profitti di guerra, aveva istituito un giuramento non obbligatorio per tutti i contribuenti, ma deferito dall’amministrazione finanziaria, stabilendo che il giuramento non debba essere fornito in tutti i casi ma solo in quelli in cui l’amministrazione finanziaria lo giudichi opportuno. Il legislatore in tutti questi casi ritenne che il giuramento generalizzato a tutti i contribuenti perda della sua efficacia e si risolva in una delle tante formalità alle quali si aderisce senza consapevolezza della loro importanza. Divenuto invece raro e deferito appositamente dalla finanza, il giuramento, poteva conservare una certa austerità e gravità. Tuttavia la Commissione ha ritenuto che fossero prevalenti le ragioni di sopprimere quest’esperimento, non stimando che in sostanza esso aggiungesse alcunché alle altre sanzioni le quali già sono comminate ai contribuenti che facciano una denunzia infedele o la omettano completamente. Il giuramento in sostanza non farebbe altro che aggiungere alle penalità già stabilite, quelle corporali portate dal Codice penale per il falso giuramento ed inoltre una pena pecuniaria pari all’imposta che si è cercato di sottrarre allo stato. Ma la medesima penalità è già stabilita all’articolo 32 in tutti quei casi nei quali veramente il colpevole abbia cercato di sottrarre allo stato un ammontare di imposta con atti fraudolenti. Dice l’articolo 32 alla lettera c) e dice benissimo: «Chi abbia compiuto atti per determinato fine di frode allo stato, quale l’alterazione di registri di contabilità, la omessa iscrizione negli inventari di attività, o l’iscrizione di passività inesistenti, la formazione di scritture fittizie od altri documenti per nascondere in tutto o in parte la verità, la negata esistenza totale o parziale di cespiti e gli atti rivolti a costringere altri al diniego stesso, è soggetto ad una pena pecuniaria pari all’imposta che ha cercato di sottrarre allo stato e all’interdizione temporanea dai pubblici uffici». Perché questa penalità possa essere pronunciata non occorre affatto l’esperimento del giuramento: basta che sia riscontrato che questi atti di frode allo stato sono stati compiuti. E se questo si riscontra, che cosa può aggiungervi il falso giuramento? D’altro canto è molto dubbio quale sia l’efficacia morale del giuramento in materia tributaria: esso servirà soltanto a mettere in una condizione di disparità coloro i quali, atterriti dalla solennità del giuramento, s’indurranno a dire la verità in confronto di coloro i quali assolveranno l’obbligo del giuramento con perfetta indifferenza, come se si trattasse di un’altra qualsiasi delle formalità di dichiarazione.

 

 

Par. 88. – Ricorso all’autorità giudiziaria. Ragioni per ammettere il ricorso alla Cassazione di Roma.

 

 

Il progetto ministeriale conservava il sistema usato in tutta la legislazione dell’imposta sui profitti di guerra, di far cominciare il contenzioso tributario delle commissioni provinciali delle imposte dirette e farlo finire definitivamente per tutte le questioni, sia di estimazione come di interpretazione della legge, dinanzi alla Commissione centrale. A questa restrizione dei diritti dei contribuenti la finanza si era indotta per la necessità della sollecitudine e per evitare in tempo di guerra il trascinarsi di questioni dinanzi alla magistratura ordinaria a cominciare dai tribunali per giungere fino alla Corte di cassazione di Roma. La Commissione riconosce che persistono le ragioni le quali hanno indotto l’amministrazione ad evitare il ricorso alla magistratura ordinaria dei tribunali e delle Corti d’appello; ma poiché l’avocazione per gli aumenti di patrimonio è un atto il quale prelude al ritorno alle condizioni legali, essa ha ritenuto che fosse conveniente tenere una via di mezzo, facendo bensì terminare il contenzioso dinanzi alla Commissione centrale per tutto ciò che si riferisce alle questioni di estimazione, ma dando il diritto al contribuente di ricorrere alla Corte di cassazione di Roma per quel che si riferisce alla violazione ed alla falsa applicazione della legge, ed alle sezioni unite della Corte di cassazione medesima per incompetenza ed eccesso di potere.

 

 

Infatti il dilemma è chiaro: o la legge fu falsamente applicata, ed allora è ingiusto che il contribuente non abbia diritto di far riconoscere dalla suprema magistratura il caso di violazione e falsa applicazione di legge; o invece la legge fu correttamente applicata, e nessun danno la finanza può ottenere dall’esperimento del diritto di ricorso. Non vale l’obiezione del ritardo della riscossione dell’imposta dovuta per avocazione, inquantochéè ben noto come il ricorso alla magistratura ordinaria possa sperimentarsi soltanto quando tutto l’importo dell’imposta in contestazione sia stato versato dal contribuente al fisco. Il principio del solve et repete garantisce ampiamente la finanza della dovuta imposta. Specialmente in tema di avocazione, parve alla Commissione che fosse necessario concedere al contribuente il diritto di far riconoscere un’eventuale violazione e falsa applicazione di legge dalla Corte di cassazione, inquantoché per esso entra in giuoco non il pagamento di una somma maggiore o minore d’imposta, ma la confisca totale del suo guadagno di guerra. Importa perciò nel tempo stesso ai contribuenti e alla giustizia che vi sia una magistratura la quale possa dichiarare se esista o no il guadagno di guerra che si tratta di avocare completamente allo stato. Ove, per mancanza di questo diritto di ricorso, il contribuente venisse ad essere privato di qualche cosa che non è per legge profitto di guerra, l’ingiustizia sarebbe gravissima e turberebbe profondamente il senso di equità dei contribuenti: un’imposta severa come questa, tanto più incontrerà l’approvazione universale quanto più essa si asterrà da applicazioni le quali siano contrarie alla legge.

 

 

Par. 89. – Istituzione di un collegio di tecnici periti per le questioni di estimazione degli enti patrimoniali.

 

 

Riservato alla Commissione centrale il giudizio definitivo intorno alla questione di estimazione, parve però che fosse opportuno di porgere alla Commissione centrale qualche presidio per talune delle questioni più importanti le quali potevano sorgere per l’appunto in materia di estimazione. Tra queste la più importante è senza dubbio quella che è regolata dall’articolo 15 del progetto parlamentare ossia quella della valutazione delle consistenze patrimoniali al 30 giugno 1920. Furono dette sopra le ragioni per le quali l’estimazione deve esser fatta in base alla media dei prezzi correnti nell’anno 1920, tenuto conto da un lato del costo di costruzione e dall’altro lato della capacità di rendimento degli enti da valutarsi.

 

 

Siffatta valutazione richiede conoscenze tecniche ed economiche, che può darsi non siano possedute per tutti i rami d’industrie esistenti in Italia dalla Commissione centrale delle imposte dirette, composta prevalentemente, come è naturale, di persone esperte in cose amministrative e giuridiche. Quando sorgono questioni di estimazione complicate, come quelle di cui è parola nell’articolo 15, è evidente che la Commissione centrale deve per forza riferirsi a periti da essa stessa designati, i quali l’informino intorno alla peculiarità del caso che si tratta di decidere. La Commissione ritenne che fosse opportuno di regolare la scelta dei periti in modo che essi dessero il massimo affidamento possibile di serietà e di uniformità di criterio. Fu questa la ragione per la quale essa propone che la Commissione centrale possa di volta in volta aggregarsi, con voto puramente consultivo, un competente funzionario degli uffici tecnici di finanza. Gli uffici tecnici di finanza sono già l’organo naturale dell’amministrazione, al quale questa si rivolge tutte le volte che si tratta di risolvere una questione di estimazione o di tecnica industriale. Nessuna novità sostanziale perciò fino a questo punto propone la Commissione. Essa però aggiunge che il funzionario competente, aggregato alla Commissione con voto consultivo, a sua volta abbia il dovere di informarsi presso un collegio di due tecnici, diverso per ognuna delle categorie d’industria o di commercio in cui i contribuenti già si dividono a norma del regolamento per l’applicazione dell’imposta di ricchezza mobile. Non è da presumersi invero che il funzionario degli uffici tecnici di finanza, per quanto competente in generale, abbia una conoscenza diretta e dell’industria dell’armamento e di quella dello zolfo, di quella del cotone, della banca, e di tanti altri rami di industria e commercio, quanti sono quelli ai quali la avocazione dei profitti dovrà essere applicata: quindi l’opportunità per lui di consultarsi con due tecnici specialmente competenti in ogni ramo d’industria. La scelta di questi due tecnici formò oggetto di dibattito in seno alla Commissione; e si finì per ritenere che le maggiori garanzie di serietà e di uniformità si potessero ottenere quando la scelta non fosse fatta volta per volta e quasi a caso, su una lista di ingegneri o di periti preparata in ogni sede di tribunale o di Corte d’appello, ma in virtù di designazione fatta dall’organizzazione medesima degli industriali e commercianti soggetti alla avocazione. Il sistema dei periti scelti su una lista compilata lata presso l’autorità giudiziaria, offre l’inconveniente che la scelta medesima è fatta di volta in volta quasi a turno e che non sempre i periti scelti in una determinata questione, hanno una competenza specifica nella questione stessa. Essi vengono poi quasi a ritenersi difensori di una delle parti, ed il loro giudizio non è sempre così spassionato come sarebbe desiderabile in tema di applicazione di imposta. Se invece si segua il sistema da noi proposto, accadrà che in tutta l’Italia la organizzazione, ad esempio, degli industriali del cotone designerà due tecnici: questi due tecnici i quali rappresenteranno le condizioni diverse dell’industria del cotone nelle varie parti d’Italia, avranno una responsabilità non diretta verso ogni singolo contribuente, ma generale verso l’organizzazione dell’industria; rappresenteranno gli interessi dell’industria in generale, non quelli singoli di ognuno dei membri delle organizzazioni. Essi dovranno attenersi nei loro rilievi a criteri uniformi, i quali una volta affermati per un contribuente, dovranno ai loro occhi aver valore anche di fronte agli altri contribuenti. Allo scopo di rendere l’intervento dei due tecnici il più rapido possibile, fu stabilito che il Ministero delle Finanze non dovesse prendere alcuna iniziativa per la loro costituzione: le organizzazioni degli industriali e dei commercianti dovranno esse stesse designare al Ministero delle Finanze i componenti i collegi dei periti. Nel caso in cui parecchie organizzazioni designassero diversi componenti di un collegio della stessa categoria d’industria o di commercio, la scelta della persona designata sarà fatta dalla Commissione centrale. Il collegio avrà l’obbligo di dare il proprio avviso al funzionario dell’ufficio tecnico di finanza entro un mese dalla ricevuta interpellanza. Ove l’avviso ritardi ed i collegi per negligenza dell’organizzazione non si costituiscano, la Commissione centrale deciderà senz’altro sulla controversia.

 

 

Par. 90. – Il segreto d’ufficio; sue ragioni e limitazione della comunicazione dei dati raccolti ai soli fini della imposta di successione.

 

 

All’articolo 33 il progetto ministeriale statuiva che non importava violazione di segreto la comunicazione dei dati riflettenti la misura del reddito conseguito o del capitale investito, che venga fatta ad altri organi delle amministrazioni dello stato, ai comuni, alle provincie, alle Camere di commercio o agli altri enti ai fini dell’applicazione di leggi vigenti.

 

 

Questa norma è qualche cosa che sta di mezzo fra il sistema della pubblicità assoluta, che era seguito in materia d’imposta di ricchezza mobile ed il sistema del segreto che invece è stato adottato recentemente per l’imposta completamentare progressiva sul reddito e per l’imposta sul patrimonio.

 

 

Ambo i sistemi hanno i propri vantaggi ed i propri difetti.

 

 

Il sistema della pubblicità si raccomandò al legislatore italiano, e forse soltanto al legislatore italiano in una misura così ampia, inquantoché si ritenne che la pubblicità dei ruoli potesse essere di ottimo ausilio alla finanza per il controllo che i contribuenti potevano esercitare l’uno sull’altro e per il controllo generale della pubblica opinione sull’esattezza delle denunzie fatte dai contribuenti. Si sperava con la pubblicità di riuscire ad ottenere una elevazione degli accertamenti, in guisa che essi rispondessero meglio a verità. L’esperienza fatta in un sessantennio di applicazione della legge d’imposta di ricchezza mobile, dovrebbe aver fatto svanire tutte le illusioni che a tale riguardo si erano concepite. I risultati ottenuti dalla pubblicità furono assai differenti e si potrebbero dire perfettamente contrari a quelli che il legislatore aveva sperato. I contribuenti andarono bensì a rovistare i volumi dei ruoli pubblicati periodicamente nelle aule comunali, ma lo fecero per un intento ben diverso da quello sperato dal legislatore: essi andarono raccattando su quei ruoli le cifre dei propri concorrenti e dei contribuenti esercitanti la medesima industria, o commercio, o professione allo scopo di trarne argomento dinanzi ai funzionari della finanza ed alle commissioni amministrative, per dimostrare che essi dovevano ottenere una riduzione d’accertamento per metterli in parità di condizione con altri contribuenti i quali già fruivano di accertamento basso. La pubblicità fu una delle cause non minori della degenerazione che innanzi alla guerra si era verificata nei metodi di accertamento. Un po’ per volta sotto l’influenza premente delle querele dei contribuenti, i quali mettevano sempre dinnanzi alla finanza ed alla Commissione il confronto con altri contribuenti che erano stati più mitemente trattati, si venne a formare nell’amministrazione finanziaria quella mentalità, di cui facemmo già menzione altra volta, per cui non si andava alla ricerca del vero, accertato indipendentemente per ogni contribuente, ma di un reddito equitativo o comparativo che non aveva nessuna rispondenza nella realtà, e serviva soltanto a mettere un contribuente nelle medesime condizioni in cui si trovavano altri contribuenti similari. La degenerazione verificatasi in Italia aveva avuto luogo anche in altri paesi e per circostanze pressoché simili: nella letteratura finanziaria sono noti i libri i quali descrivono accuratamente questo processo degenerativo, per cui all’idea del reddito vero si era sostituita l’idea di un reddito fittizio il cui fondamento stava soltanto nell’equità del paragone per tal modo istituito fra contribuente e contribuente. I funzionari della finanza sono concordi nel ritenere che la pubblicità non abbia mai offerto alla finanza stessa il mezzo di poter aumentare i redditi dei contribuenti per via del controllo che un contribuente esercita sull’altro. Essa è stata cagione invece della resistenza tenace che moltissimi, per non dire tutti i contribuenti, hanno offerto alla finanza: quand’essa tentava di spingere gli accertamenti più vicini alla verità, sempre i contribuenti rispondevano «noi ci assoggetteremo a quest’aumento di accertamento qualora anche altri subiscano la medesima sorte; ma poiché altri è trattato diversamente, noi chiediamo invece una diminuzione di reddito». L’esperienza seguita in altri paesi viene a suffragare la conclusione che si ricava dall’esperienza italiana.

 

 

Nei paesi nei quali le imposte sul reddito e sul patrimonio sono state meglio ripartite fra i contribuenti ed hanno dato frutti più fecondi per la pubblica finanza, ossia nell’Inghilterra, nella Germania e negli Stati Uniti, il sistema seguito con rigore è quello opposto: dell’assoluto segreto mantenuto sulle dichiarazioni dei contribuenti e sulle cifre di reddito o di patrimonio accertate in loro confronto. Quei legislatori ritennero che il segreto del successo degli accertamenti consisteva per questo rispetto nel tener fede al riserbo più assoluto intorno alle cifre di reddito e di patrimonio accertate: penalità severissime sono state stabilite contro i funzionari i quali palesino a chicchessia l’ammontare degli accertamenti fatti. Nell’Inghilterra si va tant’oltre in questo rispetto del segreto dovuto ai contribuenti che questi hanno diritto, quando lo vogliano, a non essere tassati dagli ufficiali locali della finanza e a non vedere i loro accertamenti discussi dinnanzi alle commissioni locali, ma di aver fatto l’accertamento da ufficiali superiori residenti a Londra, i quali direttamente assumono la pratica dell’accertamento di ognuno del contribuenti che ne facciano domanda e risolvono tutte le controversie relative, senza che nessuno tra i funzionari locali e delle commissioni risiedenti sul posto abbia notizia qualsiasi dei risultati a cui si è pervenuti; non solo, ma i contribuenti accertati per tal modo a Londra, non sono tenuti a pagare sul luogo l’ammontare dell’imposta, ma direttamente la versano nella tesoreria della capitale. I legislatori dei paesi nei quali le imposte sul reddito e sul patrimonio hanno ottenuto il massimo successo, ritengono che il segreto sia uno dei coefficienti del successo, inquantoché affermano che la finanza è ben più agguerrita di fronte al contribuente singolo, di quanto non lo sia di fronte all’universalità dei contribuenti.

 

 

Il confronto crea una tacita solidarietà tra i contribuenti, promuove le manifestazioni collettive, preme per mezzo delle rappresentanze politiche sul potere esecutivo e fa sì che il gettito dell’imposta sia minore di quel che sarebbe se ad ognuno dei contribuenti fosse assicurato il più rigoroso segreto intorno ai risultati degli accertamenti fatti in suo confronto. Aggiungasi che il contribuente più facilmente s’induce a dire la verità qualora sia sicuro che di questa verità altri non venga a conoscenza.

 

 

Esistono ottime ragioni per le quali un contribuente può avere interesse a non palesare ad altri la consistenza del suo patrimonio o l’ammontare del suo reddito. Un contribuente a cui in taluni anni le cose volgono sfavorevoli, desidera mantenere alto il suo credito e non vuole che un accertamento basso possa sotto questo rispetto pregiudicarlo; un altro avrà ragione di non voler far conoscere al pubblico il successo incontrato dalla sua azienda per attrarre meno l’attenzione dei suoi concorrenti e per godere quindi più a lungo di un qualche reddito privilegiato che egli abbia ottenuto in virtù di una sua invenzione o di un processo segreto che egli abbia trovato e su cui l’acume dei concorrenti non mancherebbe di esercitarsi qualora si sapesse che egli dal segreto ricava redditi vistosi.

 

 

Altri vi è il quale non desidera di far conoscere ai congiunti stretti, e perfino ai figli ed alla moglie, l’ammontare del suo reddito e del suo patrimonio perché egli teme, e talvolta a ragione, che ciò sia causa di domande di consumi che a lui riuscirebbero spiacevoli e che potrebbero condurre innanzi tempo alla dilapidazione del suo patrimonio. Questi sono i motivi per i quali il legislatore inglese, tedesco e nord-americano hanno tenuto assai a dare all’accertamento dell’imposte quasi il carattere di una confessione auricolare fatta. dal contribuente al funzionario delle imposte, tenuto al più rigoroso segreto di ufficio.

 

 

Il progetto ministeriale a questo punto tiene come si è detto una via di mezzo tra la pubblicità assoluta ed il segreto assoluto, inquantoché ammette il segreto per il pubblico in generale, ma ammette che possano comunicarsi i dati ottenuti dall’amministrazione ad altre amministrazioni di stato, ai comuni, alle provincie, alle Camere di commercio e ad altri enti ai fini dell’applicazione di leggi vigenti. Non si vede per quale motivo la finanza abbia voluto dare potestà ad altri enti di giovarsi di dati da essa raccolti con grande costo, dati che dovrebbero essere riservati a suo esclusivo beneficio. L’amministrazione finanziaria non può non essere danneggiata dal fatto che i contribuenti sappiano che qualunque dichiarazione di reddito conseguito o di capitale investito sarà comunicata ad altri enti e potrà formare oggetto di tassazione anche da parte dei comuni, delle provincie, delle Camere di commercio e di qualsiasi altro ente. La resistenza del contribuente si acuirà e ne sarà danneggiato il buon funzionamento della legge d’imposta per avocazione. Se si trattasse di un’imposta ordinaria potrebbe disputarsi (sebbene, a parere del relatore scrivente la questione dovrebbe esser decisa in modo negativo) intorno all’opportunità di siffatte comunicazioni; ma quando, come nel caso presente, si tratta di avocazione completa del guadagno di guerra, qual fondamento morale può mai trovarsi ad una comunicazione fatta ad altri enti delle somme per tal modo avocate? Ciò può far nascere il dubbio che il contribuente il quale ha pagato il 100% del guadagno di guerra, debba ancora pagare qualche cosa ad altri enti oltre questo 100%. La Commissione perciò ritenne di dover escludere tutte le comunicazioni fatte di dati conseguiti in sede di avocazione di aumento di patrimonio salvo che in un caso solo: che è l’unico che fu del resto segnalato dai funzionari della finanza competenti interrogati, ossia quello dell’applicazione dell’imposta sulle successioni. L’imposta sulle successioni soltanto per ragioni amministrative è tenuta separata dall’imposta sul reddito e sul patrimonio.

 

 

In realtà ove si badi alla sua natura, l’imposta di successione altro non è se non un’imposta sul reddito e sul patrimonio protratta all’epoca della morte del contribuente. Per ragioni ben note, il momento della morte del contribuente è scelto giustamente dalla finanza come quello più opportuno per fare gravare tutto d’un colpo sul contribuente quel sovrapiù d’imposte sul reddito e sul patrimonio che non si era ritenuto prudente di far gravare su lui quando era vivo.Èragionevole perciò che i dati già conosciuti per l’applicazione dell’imposta sul reddito e sul patrimonio, vengano utilizzati anche in tema di applicazione dell’imposta successoria.

 

 

Gli eredi del contribuente il quale sia stato colpito da avocazione, potranno dimostrare che il patrimonio suo è stato decurtato per la avocazione avvenuta, ma dovranno anche soggiacere all’imposta sul patrimonio, per il residuo ancora rimasto a sue mani, perché considerato capitale investito ed esistente prima della guerra. Quest’ultima eccezione conferma però la regola, inquantoché si afferma il principio che le dichiarazioni del contribuente debbano essere utilizzate entro i limiti dell’imposta di cui si parla. Noi ci troviamo di fatto dinanzi ad una sola imposta la quale ha parecchie branche: l’unica imposta è quella sul reddito, la quale si scinde in imposte reali sul reddito ed imposte personali, in imposta esatta apertamente col nome d’imposta sul reddito, ed imposta esatta in ragione del patrimonio; in imposta esatta sul reddito e sul patrimonio durante la vita e imposta esatta sul reddito e sul patrimonio al momento della morte. Trattandosi di tante branche di un’unica imposta, branche le quali furono separate unicamente per ragioni amministrative e che tutte vanno a fluire nelle casse del medesimo ente, giova che l’ente in tutti i suoi rami amministrativi possegga i dati necessari all’applicazione dell’unica imposta e che le varie amministrazioni interessate si comunichino i dati ottenuti distintamente. Ma fuori di questo caso non giova alla finanza dare pubblicità alle notizie ottenute, perché questa pubblicità produrrebbe i danni che sopra sono stati descritti e che hanno condotto sperimentalmente a conclusioni opposte a quelle che erano parse raccomandabili dapprima.

 

 

CAPITOLO X

 

 

Di un eventuale diritto di rivalsa delle società anonime contro gli azionisti.

 

 

Par. 91. – Di un eventuale diritto di rivalsa dell’imposta sull’aumento di patrimonio sugli azionisti delle società anonime.

 

 

La Commissione discusse se, nella stessa maniera in cui era stabilito un diritto di rivalsa da parte delle società commerciali in nome collettivo ed in accomandita semplice della imposta portata dalla legge di avocazione sopra i singoli soci e del pari era stato concesso alle società commerciali di qualsiasi specie un diritto di rivalsa per la parte d’imposta che si riferisce a quote di patrimonio avocabili le quali fossero state assegnate o distribuite ad amministratori delegati o dirigenti o consiglieri di amministrazione, lo stesso diritto di rivalsa fosse da concedersi alle società anonime sui portatori di azioni.

 

 

Par. 92. – Ragione di ritenere logico il diritto di rivalsa.

 

 

Teoricamente un tale diritto di rivalsa sarebbe giustificato, inquantoché le società anonime debbono, dal punto di vista tributario, essere considerate non come contribuenti per se stesse, ma come contribuenti per conto dei loro proprietari che sono gli azionisti. La società altro non è se non una produttrice di reddito, il quale deve essere ripartito fra gli azionisti e gli altri interessati; il vero percettore del reddito e quindi il vero contribuente non è la società ma l’azionista. Perciò anche la imposta sull’aumento di patrimonio deve andare a gravare in definitiva sugli azionisti e quel che più monta, dovrebbe andare a gravare sugli azionisti in proporzione del tempo per cui essi rimasero tali ed in proporzione del guadagno di guerra fatto dalla società durante il tempo per cui essi rimasero azionisti: altrimenti si potrebbero dare ingiustizie non lievi.

 

 

Suppongasi che Tizio sia stato proprietario di 100 azioni di una data società fino a tutto l’anno 1919. La società ottenne tutti i suoi lucri di guerra appunto nel periodo che finisce col 31 dicembre 1919: il primo semestre 1920 non recò alla società alcun beneficio che possa essere considerato come avocabile. La società per obbligo di legge prima, e poi anche per buona amministrazione prudenziale, non ripartì nulla dei guadagni di guerra in eccedenza all’8% del capitale investito; l’azionista quindi non incassò nulla del guadagno di guerra, il quale rimase a disposizione della società.

 

 

Oggi la società è chiamata a versare tutto l’intero guadagno di guerra allo stato. Sembra a primo aspetto che la società non abbia affatto d’uopo di rivalsa sugli azionisti, inquantoché essa aveva mandato a riserva sia obbligatoria sia prudenziale l’intero ammontare del guadagno di guerra e l’azionista non ne aveva affatto beneficato: la società quindi non ha altro da fare se non che pagare con i fondi accumulati nella sua riserva l’imposta dovuta per avocazione.

 

 

Vi è però una circostanza la quale ha fatto riflettere assai alla Commissione se non convenisse dare il diritto di rivalsa sull’azionista.Èbensì vero che egli non ha incassato nulla del guadagno di guerra ottenuto dalla società, ma è altrettanto vero che egli sapeva che i guadagni di guerra, detratta la parte assorbita da imposta sui sovraprofitti e quella che venne dopo per gli aumenti di patrimonio, rimanevano o nella cassa o nel patrimonio della società, alcune rare volte in danaro contante o in depositi o in buoni del Tesoro, più spesso sotto forma di reinvestimento industriale. Sapevano cioè gli azionisti, e con essi lo sapeva il mercato, che le azioni invece di corrispondere soltanto al capitale versato di 100 lire, corrispondevano a quel capitale versato più, ad esempio, 30 lire accumulate nelle casse della società e non distribuite a cagione dei guadagni di guerra verificatisi fino al 30 giugno 1920. Se l’azionista conserva ancor oggi l’azione, la rivalsa non è necessaria; essa si verifica automaticamente in quantoché la società, venendo privata della riserva costituita cogli utili di guerra, possiede un capitale minore e quindi la quota parte attribuita ad ogni azione, da 130 lire ritorna ad essere di 100 lire; il possessore dell’azione perde, sotto forma di minor valore della sua azione, tanto quanto aveva prima guadagnato sotto forma di aumento dell’azione. Ma le cose vanno diversamente se l’azionista ha venduto l’azione prima che si sentisse parlare od in qualche modo si presumesse possibile la avocazione. Allora egli ha venduto l’azione a 130 lire ed ha quindi consolidato a suo beneficio nel prezzo di vendita il guadagno di guerra: il vero danneggiato dalla avocazione non è più lui, ma è l’azionista acquisitore dell’azione, il quale avendola pagata a 130 lire, perché presumeva che essa contenesse una quota di guadagno di guerra di 30 lire, adesso si vede sfumare questa quota e ridotto il valore dell’azione da 130 a 100 lire. Ragione vorrebbe perciò che l’azionista nuovo avesse un diritto di rivalsa sull’azionista vecchio in ragione della diminuzione di valore che necessariamente si deve verificare nel prezzo dell’azione in conseguenza dell’avocazione.

 

 

Par. 93. – Difficoltà grandissime e quasi impossibilità di attuare praticamente il concetto.

 

 

Tutto questo è ineccepibile dal punto di vista della giustizia formale; ma gravi si presentano i dubbi e le difficoltà quando si voglia passare dall’espressione del principio di giustizia formale alla sua effettiva attuazione e quindi alla affermazione di un principio di giustizia sostanziale.

 

 

Innanzitutto, non è facile dimostrare che il valore dei titoli fosse in passato per l’appunto rialzato in ragione delle riserve accumulate con guadagni di guerra. Spesso le riserve non erano in tutto palesi ed erano anzi tenute volutamente nascoste anche agli occhi degli azionisti per ragioni prudenziali. Più spesso anche quando esistevano se ne temeva la scomparsa e persino la confisca, ora avvenuta, e tali timori si scontavano sul prezzo.

 

 

Ove poi queste difficoltà di valutare le ripercussioni dei guadagni di guerra mandati a riserva sui corsi di borsa fossero superate sorgono altre difficoltà tecniche.

 

 

Potrebbe la rivalsa esser concepita, qualora vigesse già un sistema di nominatività dei titoli azionari; sebbene anche qui le difficoltà per i numerosi trapassi verificatisi durante il periodo di guerra sarebbero pressoché insolubili; ma come poter effettuare la rivalsa quando le azioni sono state fino adesso quasi sempre al portatore e quando è impossibile verificare chi fosse il precedente o i precedenti detentori e chi sia l’attuale possessore? Controversie infinite ed inestricabili sorgerebbero e l’avocazione dei profitti di guerra, la quale non mancherà di far sorgere attriti numerosi fra stato e contribuenti, provocherebbero attriti ancor più numerosi ed irritanti fra varie categorie di persone le quali vorrebbero scaricarsi una sull’altra la responsabilità dell’imposta pagata dalla società allo stato.

 

 

Dovrebbe farsi una specie di ripartizione dell’imposta in ragione di tempo ed in ragione dell’utile della società nei diversi periodi di tempo per cui gli azionisti conservarono il possesso dell’azione. Non basterebbe fare questa ripartizione anno per anno, ma occorrerebbe scendere ad una ripartizione per periodi minori. Ora ciò contraddirebbe alla realtà ed al principio che la finanza la Commissione furono unanimi nel sostenere: che dovesse esser concessa la compensazione fra i redditi di un esercizio ed i redditi di un altro ai fini della avocazione, purché tutti gli esercizi siano compresi nel periodo dal 1° agosto 1914 al 30 giugno 1920. Il periodo essendo considerato uno solo, non può farsi separazione tra le diverse sue sezioni e tutto dev’essere considerato come un unico insieme produttivo di un determinato guadagno di guerra.

 

 

Par. 94. – Delle azioni gratuite ripartite con utili di guerra mandati precedentemente a riserva.

 

 

La Commissione trovatasi di fronte a queste difficoltà, si limita a segnalare l’esistenza del problema, ma non fa alcuna proposta per la sua risoluzione. Tutt’al più essa si sofferma su un caso particolare di rivalsa che si potrebbe chiamare indiretto. Può accadere che talune società abbiano recentemente ripartito fra i loro soci una nuova serie d’azioni gratuite, senza sborso cioè di capitale da parte degli azionisti. Qui si possono dare due casi: o le azioni gratuite furono ripartite con gli utili accumulati dalla società precedentemente allo scoppio della guerra o in ogni caso con gli utili non derivanti dalla guerra e non soggetti ad avocazione, ed in tal caso il problema non si presenta. Ovvero le azioni gratuite furono per l’appunto ripartite approfittando di riserve costituite con utili di guerra ed allora si presenta il problema: che valore hanno coteste azioni gratuite, se la riserva con la quale esse furono distribuite deve oggi essere avocata allo stato? In sostanza viene a mancare il fondamento della ripartizione, poiché più non esiste nel patrimonio della società il capitale corrispondente alla nuova serie.

 

 

Pare però che il problema possa essere risoluto con i principi generali relativi al capitale delle società anonime. Il Codice di commercio stabilisce le regole che devono essere osservate in caso di diminuzione del patrimonio e quali siano i provvedimenti che la società è chiamata a prendere nel caso in cui il patrimonio sociale diminuisca entro un certo segno. Caso per caso si dovrà vedere se quelle norme debbono essere osservate e se quindi si debba far luogo ad una riduzione del capitale nominale della società. In tal caso sembrerebbe giusto che la diminuzione del capitale sociale dovesse riferirsi non alle azioni in generale, ma dovesse incidere sulle azioni gratuite, le quali erano state ripartite mandando a capitale le riserve costituite con quegli utili di guerra che adesso diventano avocabili allo stato. Ma altri obbiettò che in tal modo potrebbe darsi che il vecchio azionista, il quale, in aggiunta alla sua azione onerosa di 100 lire, ottenne un’azione gratuita pure di 100 lire e poi vendette, prima della legge d’avocazione o prima che essa influisse sulla quotazione, l’azione gratuita per 100 lire, rimanesse con tutta la vecchia azione del valore di 100 lire e col ricavo in 100 lire contanti di quella gratuita.

 

 

Eppure egli aveva lucrato le 100 lire; mentre l’acquirente, che nulla lucrò, sborsò di suo lire 100 per comprare l’azione gratuita, rimane con un pezzo di carta senza valore. Sicché si dovrebbe concludere che giovi lasciare alle società medesime la cura di ripartite, in caso di rivalsa, l’onere dell’avocazione tra gli interessati.

 

 

EINAUDI, relatore.

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