Opera Omnia Luigi Einaudi

22 gennaio-16 febbraio 1946 – Avocazione allo stato dei profitti di guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 22/01/1946

22 gennaio-16 febbraio 1946 – Avocazione allo stato dei profitti di guerra

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 127-143

 

 

 

È all’esame della Commissione Finanze e Tesoro il seguito della discussione, iniziatasi il 21 gennaio, dello schema di provvedimento legislativo «Avocazione allo stato dei profitti di guerra e dei profitti eccezionali di speculazione» (n. 70). Questo progetto di legge detta le norme per l’avocazione dei profitti di guerra conseguiti nel periodo 1939-1945, disponendo la cessazione dell’imposta straordinaria dall’1 gennaio 1946 e adeguandone l’applicazione, per gli anni 1944-45, alla nuova situazione monetaria venuta a crearsi nel paese; dispone inoltre l’avocazione degli utili eccezionali di speculazione.

 

 

La discussione è aperta dal relatore Vanoni, quindi L. Einaudi osserva scetticamente che lo schema di provvedimento in esame ricorda l’esperienza già fatta nel 1921 con la legge Giolitti che stabiliva l’avocazione dei profitti di guerra. Quella legge, che aveva soprattutto uno scopo politico, non fu potuta applicare, perché verso la primavera del 1921 i prezzi cominciarono a precipitare ed i profitti furono ingoiati dalle perdite.

 

 

Dichiara di temere che anche questa volta si verifichi lo stesso fatto, perché i profitti che potevano registrarsi, sono in gran parte stati ingoiati dalle perdite durante il 1945. Osserva infatti che i costi delle industrie sono superiori alle entrate e che tutte le aziende vanno ad elemosinare denari dalle banche, per colmare i vuoti dei loro bilanci. Si domanda come potranno le industrie pagare i profitti che sono stati scritti sulla carta e che sono poi stati assorbiti dalle perdite subite nel 1945.

 

 

Il consultore Lavatelli replica che «se si parte dal concetto che non esistono profitti, la legge non serve a nulla…»; il sottosegretario di stato per le Finanze Visentini informa che «il gettito dato finora da questa imposta è stato di 5 miliardi e 200 milioni per la parte imposta, e di miliardo e 800 milioni per i versamenti in tesoreria». L. Einaudi domanda fino a quale data l’imposta ha dato il gettito di 5 miliardi e 200 milioni.

 

 

Il direttore generale della Finanza straordinaria Di Paolo risponde che «ciò si è verificato fino ai primi assaggi del 1943».

 

 

Dopo un intervento del relatore, il presidente Siglienti dichiara chiusa la discussione generale sul provvedimento; ha così inizio, con un nuovo intervento di Vanoni, la discussione per articoli. L. Einaudi domanda quale è il rapporto fra il primo comma dell’articolo 1 e l’articolo 15, il quale dichiara che l’imposta straordinaria sui profitti cessa di avere applicazione dall’1 gennaio 1946.

 

 

Il relatore «chiarisce che il primo comma dell’articolo 1 si riferisce all’avocazione delle quote indisponibili; l’articolo 15 trae le conseguenze da quella rilevazione di carattere economico e politico che sta a fondamento di questo primo comma».

 

 

L. Einaudi domanda se questa imposizione resta completamente chiusa.

 

 

Vanoni risponde affermativamente. Il presidente mette quindi ai voti il primo comma dell’art. 1, che viene approvato. Ha poi inizio la discussione sul secondo comma dell’articolo; intervengono Vanoni, De Cataldo, Ricci, Visentini, Molle e Fré; L. Einaudi prospetta l’opportunità di trovare qualche espediente, al fine di ratizzare questo pagamento per evitare il pericolo che coloro che hanno già investito si trovino nella impossibilità pratica di pagare.

 

 

Il sottosegretario Visentini «dichiara che l’ipotesi della ratizzatione è stata già prevista».

 

 

L. Einaudi aggiunge che è necessario anche cercare una formula la più comprensiva possibile la quale tenga conto di tutte le spese che, secondo la legge sull’imposta di ricchezza mobile, non possono essere considerate spese di produzione del reddito, e anche delle altre spese che, sebbene successive, vadano a diminuire ciò che resta di netto al contribuente.

 

 

Dopo altri interventi di Molle e Visentini, il secondo comma dell’art. 1 è messo ai voti e approvato, quindi la discussione sul provvedimento viene rinviata.

 

 

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24 gennaio 1946

 

 

La Commissione Finanze e Tesoro riprende la discussione, interrotta il 22 gennaio, sullo schema di provvedimento n. 70, relativo all’avocazione allo stato dei profitti di guerra. Prende la parola per primo il relatore Vanoni e osserva, a proposito del terzo e quarto comma dell’art. 1, che «secondo i criteri di applicazione dell’imposta di ricchezza mobile, tutte le perdite che si verificano nel corso di un determinato esercizio sono deducibili ai fini del reddito sottoponibile all’imposta». Interviene poi il sottosegretario di stato per le Finanze, Visentini, quindi L. Einaudi rileva che quella concernente il ciclo di tassazione della imposta sui sopraprofitti di guerra è una vecchia questione. Anche questa volta si è passati attraverso stadi diversi. Si è cominciato a considerare ogni anno come un ciclo separato da liquidarsi separatamente l’uno dall’altro e quindi gli utili risultati alla fine dell’esercizio e accantonati vengono considerati tali e sulla loro qualificazione non si può più ritornare. Ma la realtà dimostra che il ciclo annuale è un artificio, il quale normalmente non produce gravi conseguenze e per le imposte ordinarie di ricchezza mobile riesce indispensabile alla necessità del bilancio dello stato. Ma di fronte al fatto della guerra esso palesa immediatamente la sua incongruenza ed illogicità, in quanto ci si trova di fronte ad un ciclo più ampio, quello cioè formato da tutto il periodo della guerra. Non si può, in verità, sapere se ci sia stato un utile, oppure ci sia stata una perdita, fino a che la guerra non sia finita. Ricorda che la legge sulla avocazione, adottata dopo la precedente guerra mondiale, rinunciò all’artificio della divisione del tempo in anni e considerò nel suo complesso il periodo intercorso dal 4 agosto 1944 (rectius 1914) al 30 giugno 1919. A più forte ragione egli ritiene che lo stesso criterio debba adottarsi per la recente ultima guerra, ed a tal proposito cita il caso di un industriale il quale, avendo conseguito grossi guadagni all’inizio della guerra, abbia visto successivamente la sua azienda totalmente o parzialmente distrutta in seguito a bombardamenti aerei. Soggiunge che d’altra parte, non era stato preventivamente detto che l’accantonamento dei così detti utili dovesse essere avocato allo stato; si trattava infatti di un accantonamento provvisorio, la cui destinazione sarebbe stata stabilita in un secondo tempo. Conclude associandosi al consultore Vanoni nel senso che non si può parlare di utile, se non quando si è tenuto conto di tutte le perdite.

 

 

Segue un ampio dibattito, nel corso del quale vengono approvati gli articoli da 1 a 7; intervengono Fré, Vanoni, Visentini, Siglienti, Ricci, Manes, De Cataldo, Puggioni e Di Paolo. La Commissione passa quindi all’esame dell’articolo 8 del provvedimento, che fissa i coefficienti di rivalutazione monetaria del reddito ordinario.

 

 

Il relatore, Vanoni, osserva che «Nel R. decreto 3 giugno 1943, n. 598… per la categoria di contribuenti costituita dai rappresentanti di commercio è stata fissata una cifra assoluta di reddito ordinario, vale a dire una somma di 15.000 lire. Tale criterio non gli sembra accettabile, perché, sotto la terminologia di rappresentante di commercio, si può avere sia il grande rappresentante… come il piccolo piazzista… Orbene, lo stesso ragionamento si può fare per l’ultimo comma dell’articolo 8, per cui il reddito ordinario di questa categoria di contribuenti, già fissato in cifra assoluta nella somma di lire 15.000, viene aumentato a centomila. In tale comma… non si fa dunque alcuna differenziazione fra le varie categorie di rappresentanti di commercio». Il comm. Di Paolo obietta che «si è stati costretti a fissare una cifra assoluta per la difficoltà di valutare» le varie categorie di rappresentanti. A questo punto L. Einaudi osserva che non è vantaggioso per la finanza fissare una valutazione così bassa del reddito ordinario per questa categoria di contribuenti. E meglio quindi tener conto della realtà, procedendo all’esame di quegli elementi ai quali ha accennato il relatore.

 

 

Intervengono quindi Ricci e Antonio Manes, e di nuovo L. Einaudi rileva che, relativamente ai redditi di categoria B, cioè ai redditi misti di capitale e lavoro, sarebbe difficile fare una distinzione netta fra capitale liquido e capitale fisso. Ad esempio, l’industria bancaria si esercita con capitale liquido, ma il reddito di tale industria è dato, oltre che dal capitale, anche dall’organizzazione e dal lavoro. Pertanto, non si può fare riferimento al puro capitale, ma al complesso dei vari coefficienti, in quanto col variare di tali coefficienti varia il reddito.

 

 

Seguono interventi di Ricci, Vanoni e Fré, quindi il presidente ricorda che il relatore ha proposto di sopprimere il quinto comma; Di Paolo si dichiara contrario, Antonio Manes si associa e L. Einaudi ritiene egli pure che non sia possibile fare una distinzione circa gli accertamenti fra il Nord ed il Sud. Aderisce pertanto alla proposta del relatore.

 

 

La proposta di soppressione è messa ai voti e approvata, quindi anche l’art. 8 ottiene il parere favorevole della Commissione; segue la votazione e approvazione dell’art. 9, poi la discussione del provvedimento è nuovamente rinviata.

 

 

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25 gennaio 1946

 

 

La Commissione Finanze e Tesoro riapre la discussione sul provvedimento n. 70, relativo all’avocazione dei profitti di guerra. L’art. 10 viene approvato senza dibattito; quindi il relatore Vanoni interviene sull’art. 11 e propone la seguente modificazione «che i saldi attivi di rivalutazione monetaria possano essere portati, contrariamente a quanto prescrive l’articolo 11, ad aumento del capitale»; prendono poi la parola i consultori Pesenti e Ricci; L. Einaudi osserva che con l’emendamento proposto dal relatore i saldi attivi di rivalutazione monetaria dovranno essere pure messi in evidenza in qualche capitolo dei bilanci delle aziende; quindi saranno portati a capitale o a riserva speciale. Rileva però che il portarli a riserva speciale può implicare il pericolo che possano essere considerati come utili e quindi destinati a fronteggiare eventuali perdite.

 

 

Il relatore risponde che «ciò è inevitabile, perché se non si consentirà che i saldi attivi di rivalutazione monetaria siano destinati a fronteggiare le perdite, probabilmente un rilevante numero di società sarà costretto a dichiarare fallimento, mentre ora la posizione patrimoniale di tali aziende è tuttavia in buone condizioni per poter continuare la loro attività produttiva». L. Einaudi osserva che la situazione non cambia affatto, se le Banche debbono far credito alle società, avendo come garanzia soltanto la differenza tra il capitale di ieri e quello rivalutato. Ritiene che la concessione di crediti da parte delle Banche sia indipendente dalla avvenuta rivalutazione dei capitali delle aziende, bensì in relazione all’impiego che le aziende stesse faranno a tali capitali; ed aggiunge che se il credito fosse richiesto dalle aziende per acquistare beni improduttivi, l’aumento di capitale si risolverebbe piuttosto in un danno che in un beneficio.

 

 

Il presidente Siglienti «desidererebbe conoscere il parere del senatore Einaudi circa la possibilità di considerare i saldi attivi di rivalutazione monetaria come contropartita delle perdite».

 

 

L. Einaudi dichiara che se ci saranno perdite, il loro importo sarà detratto dal capitale rivalutato; se un’azienda ha, ad esempio, 100 milioni di capitale e 300 milioni di perdite, la rivalutazione del capitale, invece di 1.000 milioni, sarà soltanto di 700.

 

 

Bresciani Turroni domanda «se non sia il caso di rinviare la soluzione del problema dell’aumento di capitale al momento in cui esso si presenterà per tutte le aziende, non già, come avviene col provvedimento in esame, soltanto per una determinata categoria»; L. Einaudi dichiara che la semplice rivalutazione non è altro che la constatazione contabile di un fatto già avvenuto. Si tratta quindi soltanto di mettere in evidenza una situazione reale e ciò è sempre utile.

 

 

Ritiene poi che una qualche utilità potrebbe derivare dall’attuazione di una disposizione sul genere di quella accennata dal consultore Pesenti circa la possibilità di distribuire i dividendi commisurandoli al nuovo capitale rivalutato, perché uno dei bisogni più urgenti nel momento presente è che le singole aziende non ricorrano esclusivamente al credito per aumentare i capitali, ma anche agli azionisti. Inoltre, se si potessero distribuire i dividendi anche sul capitale rivalutato, ciò potrebbe costituire un incitamento per molte persone a sottoscrivere nuovi capitali: il che tornerebbe a vantaggio delle aziende.

 

 

Intervengono ancora i consultori Fré, Vanoni e Antonio Manes, quindi il presidente mette ai voti l’articolo 11 con gli emendamenti proposti dal relatore e l’articolo viene approvato. La Commissione passa all’esame dell’art. 12. Il relatore osserva «che sorge una grave questione di principio, se cioè sia giusto comprendere in una legge sui profitti di guerra e di congiuntura la tassazione dei profitti risultanti da una normale attività speculativa. Ricorda che l’ipotesi è stata prevista per la prima volta dalla legge del 1942, allo scopo di colpire soprattutto gli atti di speculazione compiuti da speculatori non professionali; senonché la dizione della norma ha portato a comprendere anche gli atti di speculazione isolata su beni immobili, che costituiscono una materia assai controversa per gli interpreti della legge sull’imposta di ricchezza mobile. Ricorda di aver già fatto in proposito alcune osservazioni, quando illustrò il provvedimento in esame in sede di discussione generale. Se è eccessivo portare via l’intero soprareddito alle persone cui si riferisce l’articolo in questione, è pure difficile suggerire dei temperamenti alla disposizione dell’articolo 12, perché ormai essa si applica da più di tre anni. È noto che la Finanza deduce l’intento speculativo dal non lungo periodo di tempo trascorso tra l’acquisto e la rivendita; ma osserva che ora, con tale espressione, s’intende un periodo di dieci o quindici anni, cosicché l’aver comprato un immobile dieci o quindici anni fa e l’averlo rivenduto oggi, può essere considerato un atto di speculazione immobiliare. Riconosce che ciò può dar luogo a vere e proprie ingiustizie, quando si tratti di persone che abbiano rivenduto un immobile acquistato molto tempo fa per far fronte alle difficoltà del momento».

 

 

L.Einaudi afferma che si potrebbe stabilire un limite massimo di tempo tra la data di acquisto e quella di rivendita.

 

 

Seguono interventi di Fré, Ricci, Vanoni, Antonio Manes, Cesare Gabriele e Friggeri, quindi la Commissione decide di rinviare l’approvazione dell’art. 12, approva senza discussione l’art. 13 e passa all’esame dell’art. 14.

 

 

Il relatore Vanoni «dichiara che, a proposito dell’articolo 14, sorge la questione, già accennata in sede di discussione generale, sulla possibilità di revisione del reddito ordinario, non accertato nel 1937-38, ma divenuto definitivo per altre ragioni. È stato osservato infatti che molti accertamenti sono errati per colpa del contribuente, che non si è curato di fare le dichiarazioni in aumento, cercando di frodare il fisco più che fosse possibile».

 

 

L. Einaudi ricorda che lo stesso problema si presentò in occasione dell’avocazione dei profitti, nel 1920. Se ben ricorda, allora si giunse alla conclusione di dare ai contribuenti il diritto di chiedere la revisione del reddito ordinario, assoggettandoli però, nel tempo stesso, alla sanzione di pagare la differenza dell’imposta straordinaria e di ricchezza mobile sul di più.

 

 

Si potrebbe ora applicare la stessa norma.

 

 

Il relatore propone quindi il seguente emendamento: «aggiungere il seguente comma all’articolo 14: Qualora il reddito da assumere come ordinario ai sensi dei primi tre commi dell’articolo 2 del citato testo unico, sia stato determinato altrimenti che per decisione delle commissioni delle imposte e sia dimostrato che è inferiore di almeno un quarto al reddito reale del periodo di riferimento, è consentita la rettifica agli effetti dell’avocazione delle quote indispensabili, nonché dell’accertamento dell’imposta straordinaria, ferme restando le liquidazioni di questa ultima già divenuta definitiva.

 

 

È dovuta l’imposta di ricchezza mobile per l’anno o per gli anni di riferimento sulla differenza tra il reddito precedentemente accertato ed il reddito definitivamente rettificato».

 

 

Il presidente mette ai voti l’art. 14 così emendato e la Commissione l’approva.

 

 

Segue l’approvazione dell’art. 15. Sull’art. 16 intervengono quindi il relatore Vanoni e Antonio Manes; L. Einaudi osserva che nell’articolo 16 si comprendono due casi: primo è quello che si riferisce ai profitti derivanti dall’esercizio, in qualsiasi campo, di attività svolte in deroga alle disposizioni concernenti il conferimento obbligatorio, il blocco delle merci e la limitazione dei prezzi, ossia ad attività che potrebbero senz’altro essere definite illecite. A questo proposito fa presente che se si tratta di attività illecite, esse dovrebbero essere definite tali dal giudice e quindi si dovrebbe stabilire che l’avocazione allo stato dovrebbe seguire ad una sentenza penale; perciò non ci dovrebbe esser bisogno d’introdurre, come fa l’articolo 16, un altro gravame che colpisce tali attività le quali sono già soggette alla legge penale.

 

 

Il secondo caso riguarda invece ogni altra attività profittatrice connessa con la congiuntura economica e con la situazione derivante dagli eventi bellici. Indagando sulla natura di queste attività, osserva che se sono di categoria B, cioè di intermediazione, esse sono già colpite dalle disposizioni precedenti del provvedimento. Esclude che possa trattarsi di attività di borsa nera, perché si parla di commercianti i quali sono già soggetti all’imposta straordinaria e all’avocazione, ed osserva che se finora essi non sono stati perseguiti – e ciò dipende dall’amministrazione che non ha saputo farlo – non li si potrà colpire certo in base alle norme dell’articolo 16. Di qui la conclusione che tale norma si dimostra inutile, a meno che non si riferisca ad altri contribuenti. In tal caso però sarebbe bene raccomandare che essi fossero specificati, perché le leggi debbono essere sempre chiare, specie quando si tratta di sapere quali sono i soggetti delle imposte.

 

 

Seguono interventi dei consultori Vanoni, Friggeri e De Cataldo, poi L. Einaudi osserva che l’unica disposizione che abbia valore nell’articolo 16 è quella dell’ultimo comma che si riferisce a tutti i contribuenti. Sarebbe quindi il caso di lasciare in vigore soltanto la disposizione del comma anzidetto.

 

 

Prendono di nuovo la parola Antonio Manes, Vanoni, Cesare Gabriele e Friggeri; il presidente, “propone, vista l’insoddisfazione manifestata in merito alla dizione dell’articolo 16, che si riunisca il giorno 26 alle ore 11 una Commissione composta dei consultori Vanoni, Gabriele Cesare, Manes Antonio, Solari e Friggeri con l’incarico di redigere in forma migliore il testo dell’articolo 16”. Così rimane stabilito. Quindi Antonio Manes, il relatore Vanoni e Friggeri prendono la parola a proposito dell’art. 17; L. Einaudi osserva che il principio contenuto nell’articolo 17 è di eccezionale gravità, perché qui non si tratta di persona che abbia frodato, ma soltanto di persona che non paga.

 

 

Il presidente propone di rinviare l’approvazione degli art. 17 e 18. La Commissione accetta; l’art. 19 ottiene quindi parere favorevole, dopo un breve dibattito. A questo punto la discussione dei restanti articoli del provvedimento, cioè gli articoli sospesi, 12 e 16 – 18, è nuovamente rinviata.

 

 

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16 febbraio 1946

 

 

La Commissione Finanze e Tesoro riprende la discussione, interrotta il 25 gennaio, sullo schema di provvedimento legislativo n. 70, sull’avocazione dei profitti di guerra. L’art. 12, il primo degli articoli lasciati in sospeso nelle sedute precedenti, viene approvato dopo brevi interventi del relatore Vanoni e del consultore Fré. Il relatore passa quindi all’esame del successivo art. 16, per il quale propone la seguente nuova stesura: «Con effetto dall’anno 1939 sono avocati allo stato i sopraprofitti derivati dall’esercizio di qualsiasi attività in violazione delle disposizioni concernenti il conferimento obbligatorio, il blocco delle merci o la limitazione dei prezzi.

 

 

Per l’accertamento dei profitti indicati nel comma precedente e per la loro riscossione, si applicano le norme per l’accertamento dei maggiori utili relativi allo stato di guerra e per la riscossione delle quote di detti utili avocati allo stato.

 

 

Tuttavia l’accertamento dei profitti può procedersi in via induttiva, avuto riguardo alle circostanze ed in special modo al tenore di vita e al patrimonio posseduto attualmente, del quale il contribuente non giustifichi la provenienza».

 

 

Prende la parola il consultore Cesare Gabriele, e si dichiara contrario a questa nuova formulazione dell’articolo. L. Einaudi osserva che non possono esistere, nel mercato nero, dei profitti che siano legittimi; d’altra parte quelli illegittimi sono compresi nella formula proposta dal relatore.

 

 

Intervengono poi i consultori Zoli e Manes, che dichiara, tra l’altro «di approvare in linea di massima la formula Vanoni, nella quale tuttavia preferirebbe che la parola violazione fosse sostituita da un’altra che esprimesse meglio il concetto e avesse un contenuto più largo». L. Einaudi è d’accordo con il consultore Manes per quanto riguarda la necessità di uno studio più approfondito del problema che non può essere risolto in una breve discussione. Osserva infatti che per i profitti derivanti da violazione di legge la soluzione è facilmente raggiungibile con la loro avocazione allo stato, ma rileva che approvando una qualsiasi formula riguardante i casi in cui la violazione di legge non esiste, si verrebbe a perpetuare l’avocazione dei profitti di guerra che si riteneva dovesse cessare al 31 dicembre 1945.

 

 

Ritiene che i fondamentali problemi da risolvere siano lo stabilire quello che si voglia tassare e in quale misura, quali siano i profitti da considerare normali e non avocabili e quali debbano essere quelli considerati come derivanti dalla contingenza bellica. Conclude riconoscendo che la materia è degna del più attento studio e una definizione di essa non può essere improvvisata.

 

 

Seguono interventi di Della Giusta e Bresciani Turroni; quindi L. Einaudi insiste sulla necessità che la materia debba formare oggetto di uno studio accurato, facendo presente che, prolungando nel tempo la legislazione sui profitti di guerra, si verrebbe a stabilire che nessun commerciante o industriale può guadagnare più di un tanto per cento sul capitale impiegato e che tutti i profitti eccedenti la percentuale devono essere avocati allo stato. Si tratterebbe di un’affermazione di estrema gravità, che potrebbe sconvolgere tutta l’economia, specie nel campo dell’attività privata.

 

 

Interviene a questo punto Cesare Gabriele, poi prende la parola il relatore, Vanoni che, «concordando con quanto ha detto il consultore Einaudi, ricorda che il periodo di eccezione dovrebbe calcolarsi finito e dovrebbe essere iniziato quello della ricostruzione e del riassetto dell’economia nazionale». Seguono interventi di Di Paolo, direttore generale della Finanza straordinaria, Della Giusta, Ricci e Scoca. L. Einaudi prende nuovamente la parola e osserva che si tratta di colpire i profitti ottenuti fino al 31 dicembre 1945, non vede quali di questi possano sfuggire legalmente all’avocazione; se si tratta invece di profitti connessi con la congiuntura economica, si domanda quando tale congiuntura potrà cessare, dato che si passa dalla fase in cui i prezzi sono alti a quella in cui sono bassi e viceversa, senza arrivare ad un periodo stazionario.

 

 

Bisogna considerare che tutte le attività sorte in questi ultimi tempi, come quelle dei trasporti delle merci dal Nord al Sud, pur avendo permesso dei guadagni anche rilevanti, hanno indubbiamente portato un beneficio alla popolazione, contribuendo anche al ribasso dei prezzi. Sono senza dubbio da tassare coloro che fino al 31 dicembre 1945 hanno ottenuto dei profitti eccezionali, ma non è possibile stabilire una legislatura che, riferendosi al futuro, potrebbe paralizzare ogni ripresa dell’attività economica.

 

 

A questo punto il relatore propone due emendamenti al nuovo testo dell’articolo, che, così modificato, viene messo ai voti e approvato.

 

 

Seguono la votazione e approvazione degli articoli 17 e 18, poi il presidente mette ai voti la seguente raccomandazione: «La Commissione Finanze e Tesoro invita il governo ad esaminare se tutte le posizioni che hanno dato luogo o danno luogo a profitti eccezionali dipendenti dalla congiuntura connessa con lo stato di guerra, siano comprese nell’ambito di applicazione della legge sull’imposta sui sopraprofitti di guerra e sulla relativa avocazione, ed a studiare le provvidenze legislative atte ad eliminare le eventuali sperequazioni ed a colmare i vuoti della legislazione vigente». La raccomandazione viene approvata, quindi il presidente «invita i consultori Einaudi, Manes e Vanoni a prendere contatti con l’amministrazione, allo scopo di studiare i problemi accennati nella raccomandazione».

 

 

La Commissione esprime a questo punto parere favorevole al provvedimento.

 

 

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