Opera Omnia Luigi Einaudi

24 marzo 1920 – Relazione al Ministro Guardasigilli della Commissione sui provvedimentiper agevolare la soluzione della crisi delle abitazioni

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 24/03/1920

24 marzo 1920 – Relazione al Ministro Guardasigilli della Commissione sui provvedimentiper agevolare la soluzione della crisi delle abitazioni

Roma, Tip. della Camera dei Deputati, 1920

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. I, Senato del Regno (1919-1922), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1980, pp. 272-373

 

 

 

Eccellenza,

 

Il compito della Commissione era chiaramente indicato nel decreto suo istitutivo secondo il quale essa aveva l’incarico di studiare e proporre al governo «i provvedimenti necessari per agevolare e sollecitare la risoluzione dell’attuale crisi delle abitazioni e degli alloggi ed il ritorno graduale allo stato normale di libertà delle contrattazioni, tutelando ed equamente garantendo con disposizioni transitorie il diritto di ogni cittadino all’alloggio ed i diritti che la legge assicura al proprietario di immobili».

 

 

Scopo definitivo dei nostri studi è dunque la risoluzione della crisi delle abitazioni ed il ritorno allo stato normale di libertà delle contrattazioni. Come mezzo, per questa risoluzione il decreto indica l’opportunità di provvedimenti graduali e transitori con cui si contemperi il diritto del cittadino all’alloggio ed insieme il diritto dei proprietari di immobili alla tutela del loro diritto di proprietà.

 

 

Parte prima

Posizione del problema.

 

 

Le due soluzioni del problema del contemperamento del diritto dell’inquilino all’abitazione e di quello del proprietario alla sua casa.

 

 

Il punto più difficile ad interpretare del mandato, che ci era così affidato è quello relativo al contemperamento dei due diritti che il decreto segnala alla nostra attenzione, quello degli inquilini all’alloggio e l’altro del proprietario alla sua casa.

 

 

La soluzione collettivista.

 

 

Ove si voglia considerare il problema da un punto di vista teorico, due sole sono le maniere con le quali è possibile di contemperare effettualmente questi due diritti: l’uno si attua in una società collettivista, l’altro in una società la quale abbia per fondamento l’assoluta libertà delle contrattazioni. In una società collettivista in cui non esista la proprietà privata delle case ed il lavoro dei cittadini sia organizzato nel puro interesse collettivo, un ministro o commissario od ente per le abitazioni dovrebbe di autorità distribuire l’intera popolazione fra le case disponibili, provvedere alla costruzione del fabbisogno annuo di abitazioni, in relazione al crescere del numero degli abitanti ed alla variazione dei loro gusti, ed assegnare ad ogni cittadino ed alla sua famiglia quel quantitativo di locali che soddisfi alla necessità sua.

 

 

Non è compito della Commissione dire se e dentro quali limiti tale programma, non diciamo tale ideale di distribuzione degli alloggi, sia attuabile.

 

 

Non si può tuttavia escludere a priori che una distribuzione delle case fatta in questa maniera non possa essere considerata per lo meno come logicamente ed astrattamente concepibile.

 

 

La soluzione della libertà assoluta delle contrattazioni.

 

 

Del pari dobbiamo considerare come stabile quella distribuzione degli appartamenti che tende a verificarsi in un regime di completa libertà delle contrattazioni, quale vige in una società in cui la proprietà delle case sia privata, sia libera la costruzione e lo stato non intervenga nei rapporti fra proprietari ed inquilini.

 

 

In una società siffatta, l’equilibrio viene ottenuto grazie al prezzo che sul mercato si stabilisce degli appartamenti.

 

 

Il prezzo viene stabilito in funzione della quantità di moneta che gli inquilini sono disposti a pagare per l’uso della casa ed alla quantità di appartamenti che a quel dato prezzo è possibile di costruire. Se la popolazione cresce e cresce la quantità di case domandate mentre contemporaneamente non è ancora cresciuta la quantità delle nuove case prodotte ed offerte sul mercato, il prezzo dell’appartamento sale fino al punto da rendere la quantità domandata eguale alla quantità offerta.

 

 

Le variazioni dei prezzi provocano un aumento od una diminuzione degli immobili nuovi prodotti, cosicché in ogni singolo momento si può ritenere che il livello dei fitti sia eguale a quello che è necessario per compensare al saggio dell’interesse corrente, e tenuto conto delle quote di rischio di insolvenza, di spese di amministrazione, di riparazione, di assicurazione, ecc., il costruttore di case sorte al margine della città dove la costruzione è ancora possibile.

 

 

Anche questa è dunque una soluzione, oltreché attuata in passato,logicamente attuabile.

 

 

Le soluzioni intermedie sono soluzioni imperfette.

 

 

Le soluzioni le quali possono escogitarsi come intermedie per risolvere il problema delle abitazioni non possono essere mai stabili o sono da considerarsi come imperfettissime, sia che si considerino in rapporto alla distribuzione collettivista, ovvero alla distribuzione liberista. Non è possibile che lo stato intervenga nello stabilire dei vincoli senza che questi vincoli non reagiscano sulle parti del meccanismo economico che non sono ancora state vincolate e non producano conseguenze imprevedute e talvolta contrarie alle intenzioni del legislatore. Si verifica in regime intermedio la stessa vicenda che sotto i nostri occhi si è attuata ogni qual volta durante la guerra lo stato ha voluto intervenire per regolare qualche parte del meccanismo di produzione e distribuzione della ricchezza; si è veduto come non bastasse fissare i prezzi di imperio, ma occorresse requisire la merce calmierata e non solo requisirla ma anche distribuirla d’autorità per tesseramento. La soluzione statale o è completa o produce inconvenienti maggiori di quelli a cui si era voluto riparare.

 

 

Vicende a grandi linee del mercato edilizio dopo l’inizio della guerra.

 

 

Così anche è accaduto per le case. La Commissione ritiene inutile di riesporre particolareggiatamente le vicende dei provvedimenti governativi, i quali ad un certo punto parvero necessari per frenare la spinta che avvenimenti diversi avevano dato ai prezzi degli appartamenti. A grandi tratti e senza pretesa di affermare cose le quali siano egualmente valide per tutte le diverse regioni d’Italia su cui agirono fattori diversissimi, si può, ritenere che il corso degli avvenimenti sia stato il seguente, con maggiore intensità nell’Alta Italia, con un massimo nella città di Roma e con intensità decrescente nell’Italia meridionale e nelle Isole.

 

 

  • 1. Allo scoppio della guerra, in seguito al richiamo di molte classi sotto le armi, si ebbe nel 1915 una crisi di sfitti; molti richiamati abbandonarono i loro alloggi ed inviarono le loro famiglie in campagna o presso i genitori sicché il numero degli «appigionasi» e degli est locanda, che si potevano osservare nelle vie delle grandi città italiane, era verso la fine del 1915 rilevantissimo.
  • 2. A poco a poco nel 1916 e nella prima parte del 1917 questa crisi di sfitti aveva potuto parzialmente essere eliminata in conseguenza del graduale afflusso di una parte della popolazione rustica nelle città per il sorgere delle industrie belliche. Verso la metà del 1917 potevasi ritenere che il livello dei fitti avesse raggiunto di nuovo il livello antebellico e che il numero degli appartamenti sfitti non fosse più specialmente degno di nota.
  • 3. Nell’ottobre/novembre del 1917 si verifica l’afflusso dei profughi dalle provincie venete invase. Questo afflusso coincide con un nuovo richiamo di contadini nelle grandi città per la intensificazione data alle industrie di guerra. Gli appartamenti sfitti che avrebbero bastato ad una richiesta normale diventano insufficienti di fronte a questa richiesta straordinaria; nascono le prime lagnanze ed il governo interviene con successivi decreti vincolatori sempre più rigidi, a tutelare gli inquilini contro le richieste di aumento da parte dei proprietari di case.

 

 

La svalutazione della moneta ed il ribasso effettivo del prezzo di uso degli appartamenti vincolati.

 

 

In conseguenza di fatti generali non specifici nell’industria edilizia si verifica un doppio movimento nella domanda e delle case, il quale tende ad inasprire il rialzo dei fitti che in regime di libertà si sarebbe verificato. Di questi fatti il più importante è la svalutazione della moneta ed il conseguente aumento della quantità di moneta disponibile che i consumatori posseggono per far richiesta della casa che essi ritengono per sé desiderabile. I redditi espressi in moneta sono aumentati per la grande maggioranza della popolazione: c’è la possibilità astratta di poter dedicare all’uso della casa una somma maggiore di moneta di quella che si dedicava prima. Questa possibilità astratta però non può tradursi in atto in causa dei vincoli, i quali limitano i fitti per le case già costruite e danno agli inquilini attuali un diritto di insistenza nella casa stessa. Gli inquilini vecchi il cui reddito unitario per unità di tempo, ad esempio di giorno, è aumentato da 5 lire a 15/20 lire, dedicavano prima della guerra un quinto, a cagion d’esempio, ossia una lira su cinque all’acquisto dell’uso della casa; in seguito essi possono continuare a spendere soltanto una lira per l’uso della casa quando i loro guadagni monetari sono diventati di 15-20 lire. È evidente che per questa classe la casa è diventata una merce molto a buon mercato in confronto a tutte le altre merci. Moltissime persone le quali pagano per un paio di scarpe 70/80 lire invece di 15, o due lire quel biglietto di cinematografo che prima costava venti centesimi, trovano naturale di continuare a pagare trenta centesimi per l’uso durante un’intera giornata di una camera (120 lire all’anno per locale, prezzo in molte città superiore al livello antebellico dei fitti). Questa categoria di inquilini si è abituata a godere, ad un prezzo effettivamente molto minore di prima, di alloggi i quali non potrebbero essere messi sul mercato se non ad un prezzo di gran lunga superiore.

 

 

La immobilizzazione degli inquilini vecchi. Cessazione del consueto continuo smistamento delle camere.

 

 

In regime normale, quando i fitti fossero stati liberi e fossero raddoppiati o triplicati, questa categoria avrebbe dovuto ridurre il suo consumo di case e far posto ai nuovi inquilini. Oggi ciò non è assolutamente possibile, perché sloggiare da un appartamento di cinque camere il quale costa 1.200 lire all’anno per restringersi a tre significa non fare un risparmio, ma incontrare una maggiore spesa, in quanto le tre camere in una casa nuova ben difficilmente potrebbero essere prodotte e messe sul mercato se il fitto fosse inferiore a 2.000 lire; quindi il diritto di insistenza dell’inquilino vecchio si è convertito in una immobilizzazione dell’inquilino stesso. Ogni movimento e smistamento degli alloggi è cessato e nessun inquilino, salvo ragioni gravissime, abbandona il proprio appartamento, perché non sa quale sarebbe la sua sorte in caso contrario. È venuta così artificialmente a mancare quell’offerta continua di alloggi disponibili, la quale permetteva a coloro che avevano bisogno di cambiar casa nella stessa città o di trasferirsi dall’una all’altra città, di trovare agevolmente come collocarsi. La situazione degli inquilini nuovi i quali sono costretti ad andare in cerca di un appartamento, la situazione specialmente dei funzionari di stato trasferiti da una città all’altra, degli sposi novelli, è diventata tragica. Il numero degli appartamenti disponibili è addirittura trascurabile e quei pochi i quali sono disponibili e liberi hanno acquistato prezzi proibitivi.

 

 

La crisi degli appartamenti è divenuta acutissima anche in città, nelle quali, come a Firenze, la popolazione è diminuita dal 1914 al 1919, secondo le indagini dell’ufficio tecnico, da 236 a 214.000 abitanti, e donde oramai sono partiti profughi, militari ed altri avventizi. E lo stesso fenomeno si verifica in piccole cittadine provinciali, rinomate un tempo per la abbondanza delle case disponibili e la mitezza dei fitti e non contrassegnate da afflusso straordinario di gente forestiera. Il vincolo ha fatto scomparire le case perché ne ha distrutto il commercio.

 

 

Funzionari senza case, prezzi da monopolio dei pochi appartamenti disponibili, fiorire degli intermediari e del commercio clandestino.

 

 

Durante le sue indagini la Commissione è venuta a conoscenza di cifre sbalorditive di pigioni richieste e pagate e di inquilini senza casa. A Milano diecine di funzionari postelegrafici i quali sono costretti a dormire su brande nei locali d’ufficio; a Roma pigioni di due/tremila lire per locale; prezzi richiesti e pagati per camere mobiliate di 600 lire al mese per una sola camera. A poco valgono le norme le quali impediscono che i proprietari richieggano agli inquilini prezzi di affitto superiori alla pigione pagata dall’inquilino precedente. Fiorisce l’industria degli accaparratori di appartamenti, alcuni dei quali arrivano a disporre in una sola città di 50 appartamenti e riescono, collocandovi dentro mobili ed affittandoli come alloggi mobiliati o pretendendo dagli inquilini sopravvenuti prezzi spettacolosi per la cessione del mobilio, ad ottenere fitti di gran lunga superiori a quelli legalmente possibili. Scomparsa ogni offerta pubblica di appartamenti, il commercio delle case diventa clandestino ed esercitato da mediatori, portinai, uffici d indicazione, ognuno dei quali percepisce provvigioni altissime, per dare la preferenza all’uno piuttosto che all’altro degli aspiranti. Ad ogni inconveniente sorto si invocano nuovi provvedimenti legislativi ed il governo interviene dando facoltà straordinarie ai prefetti ed in seguito creando i nuovi commissari degli alloggi. I vincoli posti all’industria degli affittacamere hanno tuttavia avuto come principale conseguenza una scemata propensione da parte di privati, che sarebbero stati disposti ad affittare, eccezionalmente le loro camere, per ricavarne un lucro transitorio, ad attuare il loro proposito per evitare di andar soggetti a vessazioni ed a controlli ufficiali. Si prospettano ora nuove norme le quali rendono obbligatorio il subaffitto per coloro che detengono camere esuberanti od aboliscono il divieto di subaffitto iscritto nei contratti di locazione, norme tutte le quali non potranno non avere come necessaria conseguenza l’inasprirsi della clandestinità nel commercio delle case e l’accrescimento delle difficoltà, in cui gli inquilini si troveranno, nel procacciarsi case.

 

 

L’aumento del costo di produzione delle case nuove.

 

 

Mentre ciò accadeva dal punto di vista della domanda delle case, un corrispondente fenomeno si verificava per quel che riguarda l’offerta delle case. La svalutazione della moneta faceva aumentare grandemente il costo di produzione delle case nuove. Intorno alle cagioni le quali rendono oggi difficile ed oltremodo costosa la ripresa della fabbricazione, diremo più innanzi. Qui basti osservare come il costo di costruzione delle case, entro i limiti ristrettissimi in cui la costruzione è tecnicamente possibile, è cresciuto grandemente in confronto al periodo antebellico. Il calmiere naturale che al crescere dei prezzi di affitto opponeva prima della guerra la costruzione delle case nuove al margine della città, oggi più non funziona: c’è un distacco enorme fra i prezzi vincolati delle case vecchie ed i prezzi che i costruttori di case nuove dovrebbero richiedere per ottenere nulla più che la rimunerazione corrente per i loro capitali. Laddove la camera vecchia è affittata a lire 100 all’anno, la camera nuova non può essere fornita a meno di 400 lire, e spesso nelle città dove prima la camera vecchia valeva 200 lire, oggi è impossibile dare la camera nuova a meno di 800 lire all’anno. Chi costruisce case di affitto per ottenere una rimunerazione non minore del proprio capitale che quella che può essere ottenuta investendolo in consolidato 5%, è costretto a pretendere fitti per l’appunto di 800 lire all’anno per stanza.

 

 

Il distacco fra le pigioni vincolate e il costo delle costruzioni nuove trattiene gli imprenditori dalle costruzioni.

 

 

Astrazion fatta, ripetiamo, della possibilità tecnica di produrre case nuove, sorge qui una causa nuova di immobilizzazione delle case e di impedimento alla loro circolazione. C’è un distacco profondo fra il prezzo vincolato delle case vecchie, ad esempio 200 lire, ed il prezzo a cui si possono produrre case nuove, ad esempio 800 lire. I costruttori i quali, dopo aver fatto i loro calcoli, si trovano di fronte a questa differenza, temono di non riuscire ad ottenere alla lunga, quando il mercato sarà diventato completamente libero, una pigione sufficiente per la casa che oggi si costruirebbe; temono quindi di dover spendere oggi per costruire la casa una somma ad esempio di lire 10.000 per camera e prevedono di non potere fra qualche anno realizzare la casa stessa se non ad un valore molto inferiore. La paura della perdita li trattiene dal costruire. Mancando un prezzo libero delle case non si sa se il prezzo possa poi salire abbastanza da legittimare l’impiego di capitali in nuove costruzioni. Perciò, malgrado la fame di case, malgrado la propensione dei nuovi inquilini a pagare fitti molto superiori a quelli di una volta, l’industria privata non si azzarda a tentare nuove costruzioni, sicché i prezzi dei pochi appartamenti, che si vanno rendendo liberi, assumono apertamente o clandestinamente valori impressionanti.

 

 

Previsioni inquietanti per il mercato degli appartamenti nell’avvenire prossimo: il fattore demografico, fin qui assente, comincia a farsi sentire.

 

 

Le condizioni probabili del mercato degli alloggi nell’avvenire si prospettano ancor più inquietanti di quello odierno. Bisogna tener conto di fattori demografici i quali finora non hanno premuto sul mercato degli alloggi con intensità molto notevole. Un calcolo recente compiuto dal professor Coletti («Corriere della sera», 11 febbraio 1920) dimostra che la popolazione italiana al 31 dicembre 1917 era di 36.800.000 individui, mentre al 31 dicembre 1919, a causa della mortalità eccezionale dovuta alla guerra ed all’infierire della spagnola, era ridotta a 36.211.000 anime. Vi fu dunque una diminuzione effettiva nel numero degli abitanti in Italia, diminuzione che è probabile non abbia a verificarsi nell’anno corrente e nei prossimi. Molti matrimoni, i quali erano stati procrastinati per le circostanze straordinarie della guerra vanno oggi celebrandosi e sotto la pressione dell’aumento della popolazione e dell’aumento del numero delle famiglie è da prevedersi che la difficoltà di trovar casa andrà aumentando.

 

 

Durante la guerra vi furono spostamenti di abitanti da luogo a luogo in una popolazione decrescente; nell’avvenire vi sarà un aumento nella popolazione complessiva; a meno che la emigrazione riprenda, cosa improbabile, in misura superiore a quella antebellica. Se il problema delle abitazioni divenne acuto a causa della sola immobilizzazione delle case nelle città a popolazione decrescente, quali proporzioni assumerà quando al fattore della immobilizzazione si aggiunga quello dell’aumento della popolazione? D’altro canto non vi è nessun accenno ad una spontanea smobilitazione degli appartamenti vecchi, pochissima fiducia potendosi prestare in una smobilitazione o tesseramento forzato sostituito allo smistamento continuo che si verificava prima della guerra in regime di libertà di contrattazioni. L’acme della gravità nella crisi degli alloggi non sembra dunque che sia ancor raggiunto. Forse sarà raggiunto nel 1921, dopo la qual epoca è da augurare possano avere un’efficacia gradualmente maggiore e temperatrice le nuove costruzioni ed i provvedimenti di graduale ritorno alla libertà delle contrattazioni che è nostro compito di proporre.

 

 

Ulteriori provvedimenti di vincolo non ispirano fiducia. L’opportunità del ritorno a condizioni normali in una lettera del ministro guardasigilli al presidente del Consiglio.

 

 

Noi non abbiamo fiducia che alla situazione si possa trovare rimedio inasprendo i provvedimenti di vincolo che parvero al governo necessari nel passato e non potremmo meglio mettere in luce le ragioni di tale nostra convinzione che col riprodurre la parte, che interessa i nostri studi, di una lettera che l’E. V. ha indirizzato in data 26 dicembre 1919 al presidente del Consiglio dei ministri per illuminare l’opportunità di un ritorno alle condizioni normali:

 

 

«Penso che la crisi degli alloggi non sia per giungere a soluzione con quella sollecitudine e rapidità che è nei desideri di tutti. Troppi elementi comuni e d’ordine generale la collegano e la fanno dipendere dallo stato di perturbamento conseguente alla guerra, perché possa sperarsene subito una felice definizione, isolatamente dalle altre questioni economiche-sociali.

 

 

D’altra parte è mia ferma convinzione che i provvedimenti d’impero adottati per ragioni politiche nel passato, abbiano influito ad aggravare la situazione allontanando ed ostacolando la possibilità di un facile ritorno allo stato normale e, al tempo stesso, contribuendo insieme con la deficienza e l’alto costo della mano d’opera e dei materiali a dissuadere il capitale privato dall’impiego non remunerativo in costruzioni edilizie.

 

 

Non ho piena fiducia che la deficiente attività dei privati in questo campo possa oggi essere compensata con un eccezionale incremento alla fabbricazione di stabili urbani per parte di enti pubblici e cooperativi, né che le agevolazioni concedute dallo stato siano sufficienti a superare la non convenienza attuale di un privato impiego di capitali nella industria edilizia.

 

 

Ritengo pure che ogni altro provvedimento, oggidì imposto dal governo per ragioni politiche e diretto a limitare ancor di più la libertà delle contrattazioni, potrebbe forse avere un effimero successo di palliativo, ma sarebbe ben lontano dall’avviare pure soltanto la crisi verso l’auspicata soluzione. Certamente però devierebbe vieppiù il fenomeno economico del suo naturale corso.

 

 

Nell’attuale stato legislativo, d’altronde, credo ben difficile poter procedere ad ulteriori limitazioni e restrizioni del diritto dei proprietari d’immobili od a modificazione in favore degli inquilini, dei patti contrattualmente convenuti e prorogati. Dal punto di vista giuridico e nell’ambito dei principi che regolano la proprietà ed il diritto delle obbligazioni, nulla più si potrebbe fare senza vulnerare i principi stessi e senza che s’imponesse la corrispettiva necessità dell’intervento economico riparatore o compensativo dello stato medesimo. Superare il limite imposto dalle fondamentali leggi vigenti o modificare l’ordine sociale esistente, imponendo, come da taluni si chiede, il razionamento degli alloggi, ed il conseguente obbligo del subaffitto pei locali superflui, presuppongono decisioni di politica sociale ed economica di così grande entità e di tanto vasta ripercussione da non poter essere prese a cuor leggero e, quasi incidentalmente, per provvedere soltanto a contingenti necessità ed in casi specifici.

 

 

D’altra parte non so, e dubito ancora assai, se l’entità numerica delle famiglie e delle persone che si pretendono “senza tetto” sia tanto elevata come vorrebbe farsi credere. Da qualche notizia che io ho potuto ottenere dai prefetti ho ragione per credere che siasi molto esagerato e che le agitazioni mosse in qualche luogo fossero più rumorose che temibili per la quantità dei veri interessati e danneggiati. E così pure ho motivo di dubitare se le sospensioni degli sfratti, da qualche prefetto decretate, si imponessero inderogabilmente per tutelare l’ordine pubblico minacciato o non siano state piuttosto la conseguenza di preoccupazioni sproporzionate alla realtà del pericolo e di intimidazioni di minoranze audaci e faziose che hanno trovato troppo facile e condiscendente accoglienza in chi avrebbe potuto con maggior energia e con l’uso della propria autorità, contenerle. In ogni modo attualmente in tutte le agitazioni che si vanno inscenando un po’ dappertutto si vede uno scopo ed un movente politico che vuole sfruttare uno dei più sensibili disagi della generale crisi economica che attraversiamo, per provocare, anche con espedienti retorici e sentimentali, un turbamento profondo dell’ordine sociale per giungere, magari, in questo campo ad esperimenti comunistici di facile attuazione, pure gravi di irreparabili conseguenze.

 

 

È per tutte queste ragioni, lungamente considerate e frutto di attenta osservazione che io sono convinto non potersi altrimenti avviare a soluzione durevole la crisi degli alloggi se non riaffermando la volontà del governo di tornare allo stato normale della libertà delle contrattazioni, sia pure attraverso a doverosi temperamenti ed a disposizioni transitorie che consentano di giungervi senza troppo gravi scosse. Nel libero gioco della domanda e dell’offerta si troverà naturalmente il giusto equilibrio.

 

 

Poiché se l’esperienza di tutti i tempi dimostra che è vano, se non pure esiziale, cercar di contenere e modificare artificiosamente i fenomeni economici con disposizioni di impero, è anche certissimo, nel caso specifico, che nessuno dei provvedimenti legislativi semplicisticamente invocati come sicura panacea, varrà ad aumentare d’un solo vano le case destinate attualmente ad alloggio.

 

 

Con gli intendimenti suaccennati è stata appunto istituita la Commissione che inizierà in data del 28 corrente i suoi lavori ed alla quale deferirò l’esame dei quesiti proposti e dei memoriali presentati in materia di alloggi».

 

 

Parte seconda

 

Metodo, limiti e cautele nel ritorno al regime normale della liberta delle contrattazioni.

 

Limitazione degli studi della commissione ai provvedimenti intesi a facilitare il passaggio dal regime vincolistico a quello di libertà.

 

 

La Commissione informandosi ai criteri chiaramente indicati nel suo decreto costitutivo e lucidamente esposti dall’E. V. nella sua lettera, ha ritenuto che non fosse di sua competenza esaminare l’opportunità di introdurre nel periodo transitorio provvedimenti, i quali avrebbero esacerbato i risultati, che sopra si è tentato di descrivere, del sistema vincolistico, provvedimenti come l’abolizione del divieto di subaffitto, la requisizione da parte del governo, delle autorità locali o dei commissari degli alloggi, dei locali vuoti od imperfettamente utilizzati, e dei locali considerati esuberanti al bisogno delle famiglie, il tesseramento dei locali fra tutti gli aventi diritto. Tutti questi provvedimenti da molte parti invocati e di cui si trovano larghe traccie nelle istanze pervenute da varie parti al Ministero insieme con le numerose controrepliche giunte dalle associazioni dei proprietari, parvero alla Commissione tali da non poter essere presi in considerazione, quando si abbia di mira gli scopi che i suoi lavori si debbono proporre, ossia il ritorno graduale al regime di libertà delle contrattazioni. Data la meta da raggiungere parve che potessero essere soltanto studiati provvedimenti transitori i quali facilitassero il passaggio dal regime vincolistico al regime di libertà, impedendo che, durante questo passaggio, il monopolio di cui godono attualmente le case già costruite possa provocare un rialzo improvviso e fortissimo del prezzo dell’uso delle case.

 

 

Necessità di un aumento nei prezzi d’uso della casa. La vendita sotto costo si fa per il pane con imposte generali pagate da tutti i contribuenti, per le case con un’imposta speciale sui proprietari di case.

 

 

La Commissione non può non riconoscere che ad un aumento del prezzo medesimo sarà inevitabile di acconciarsi; troppi fattori lo rendono inevitabile. Primo di essi la svalutazione della lira la quale oggi si è ridotta a meno di un terzo della sua potenza di acquisto iniziale antebellica. Il prezzo d’uso delle case, il quale prima della guerra poteva dirsi in equilibrio col prezzo di tutte le cose consumabili, oggi che i decreti vincolatori lo hanno tenuto fermo, si trova con gli altri prezzi in profondo squilibrio. Per ragioni politiche il governo ha ritenuto opportuno di mantenere in prezzo del pane e delle case ad un livello non differente da quello antico; ne è risultato che siccome i costi di produzione sono aumentati, l’erario pubblico, ossia i contribuenti in generale, debbono sopportare una fortissima perdita di parecchi miliardi di lire all’anno per sopperire alla perdita la quale necessariamente deriva dal vendere il pane sotto costo. Per le case questa perdita non è stata accollata alla collettività ma ad un gruppo speciale di contribuenti: i proprietari di case, i quali ricevendo oggi il medesimo prezzo in lire di prima, ricevono in realtà una quantità di numerario, la quale acquista a mala pena un terzo delle merci consumabili e dei servigi che con lo stesso numerario si acquistavano prima della guerra. È una vera imposta speciale equivalente ai due terzi del reddito lordo, quale viene fatta gravare sui proprietari dei fabbricati antichi.

 

 

Permangono le ragioni politico sociali che sconsigliano un rialzo improvviso nei prezzi d’uso della casa. Difficoltà tecniche che si oppongono alle nuove costruzioni.

 

 

È innegabile d’altronde che quelle ragioni politico sociali le quali hanno consigliato il regime dei vincoli, continuano oggi ad opporsi ad un raddoppiamento o triplicamento dei prezzi monetari dell’uso delle case, quale forse in molte città si verificherebbe se improvvisamente fosse ristabilita la libertà delle contrattazioni. Né si può sperare che l’offerta delle case nuove messe sul mercato possa funzionare da efficace calmiere in un breve volger di tempo.

 

 

La Commissione ha a questo proposito diramato un breve questionario ad associazioni di capi mastri e di ingegneri, ha interrogato direttori e tecnici di istituti autonomi per le case popolari. Dalle indagini fatte esce limpida la conclusione dell’impossibilità di prevedere uno sviluppo notevole e rapido dell’industria edilizia.

 

 

Disorganizzazione delle imprese edilizie, mancanza dei materiali da costruzione.

 

 

Mancano parecchi fra i fattori i quali un tempo permettevano alle imprese edilizie di mettere rapidamente sul mercato un numero cospicuo di vani e di risolvere la crisi per mancanza di abitazioni che già altra volta aveva dato luogo a discussioni interessanti intorno al problema della casa. Le imprese sono state disorganizzate dalla guerra. Una parte notevolissima degli operai addetti alla industria edilizia è stata durante la guerra attratta dagli alti salari delle industrie belliche; una parte non meno cospicua, per il caro della vita nelle città ed il rialzo dei salari nelle campagne, è ritornata, specialmente nell’Alta Italia, ai lavori pubblici.

 

 

Si calcola che nella sola città di Milano le maestranze edilizie, le quali nel 1910 ammontavano a 35.000 individui, oggi a mala pena raggiungano i 10.000. Fanno difetto inoltre le attrezzature ed i materiali da costruzione; difficilissimo a trovare il legname per le impalcature necessarie alle costruzioni; rialzati di prezzo, qualche volta al decuplo, i mattoni, la calce, il cemento, il ferro; ma sovrattutto incertissima la possibilità di procurarsi i materiali necessari. Anche in quei pochi cantieri nei quali alcune lavorazioni furono iniziate, fu d’uopo non di rado sospendere il lavoro per la mancanza dei materiali da costruzione, i quali debbono essere elemosinati qua e là da molti fornitori senza alcuna garanzia di consegna.

 

 

La disorganizzazione dei trasporti causa fondamentale della mancanza dei materiali da costruzione.

 

 

Causa dominante delle difficoltà ed incertezze nel procurarsi i materiali da costruzione è la disorganizzazione dei trasporti. Mancano i carri ferroviari; una gran parte è in riparazione e, sebbene molte siano le promesse delle autorità preposte alle ferrovie, ai materiali da costruzione non viene data quella preferenza che l’urgenza del problema richiederebbe. Gli stabilimenti dell’interno sono nella assoluta impossibilità di procurarsi quel quantitativo di ferro il quale sarebbe necessario per sistemare le costruzioni; calcolando un fabbisogno di una tonnellata di travi di ferro per vano, ovvero di un terzo di tonnellata per vano in tondini per le costruzioni in cemento armato; ovvero anche due metri cubi di legname per le costruzioni in cui invece del ferro si adoperi soltanto il legname, compresi in esso le serramenta, occorrerebbero per la costruzione di 100.000 vani, ove si supponga che per la metà di essi si faccia uso del ferro e per l’altra metà del legno, 50.000 tonnellate di ferro e 100.000 metri cubi di legname. Gli stabilimenti metallurgici nazionali si trovano, secondo le dichiarazioni attendibili di costruttori, nella assoluta impossibilità di consegnare questo quantitativo di ferro; né è agevole di potersi procurare una massa cospicua di legname, cosicché anche nelle città, per le quali si potrebbe ricorrere a materiali da costruzione locali come per Roma e Napoli i blocchi di tufo, per Palermo i conci di pietra, l’inizio delle costruzioni a stento può verificarsi. Gioverà, come fu stabilito, poter far venire in esenzione assoluta di dazio, passando sopra a qualsiasi altro interesse privato, il ferro ed il legname dall’estero.

 

 

Contratti cospicui sarebbe possibile di concludere con i produttori di legname della Cecoslovacchia, della Carinzia, e di altri paesi ex austro-ungarici, ma la difficoltà dei trasporti fin adesso è stata insuperabile.

 

 

È necessario dunque provvedere con mano di ferro a quella riorganizzazione dei trasporti ferroviari che è la condizione indispensabile ed iniziale per la ripresa delle industrie in generale e soprattutto per la ripresa dell’attività edilizia. Gioverà più la riorganizzazione dei trasporti a risolvere la crisi di costruzione che qualsiasi altro provvedimento potesse essere preso dal governo. A poco valgono gli incoraggiamenti di ogni specie che il governo ha già dato per le costruzioni, tanto popolari come civili, fino a che sia impossibile di procurarsi il materiale da costruzione.

 

 

La sicurezza nei trasporti gioverebbe moltissimo altresì a rompere quegli accordi fra i fabbricanti locali di laterizi, i quali si sono qua e là formati, approfittando della posizione di monopolio in cui si trovano i produttori locali messi al sicuro contro la concorrenza delle fornaci più lontane dall’impossibilità dei trasporti.

 

 

La impossibilità di previsioni sul costo della mano d’opera.

 

 

Un’altra circostanza la quale rende difficile la ripresa dell’attività edilizia è la impossibilità di poter fare previsioni sul costo della mano d’opera. Nessun costruttore oggi assume impegni tassativi con i committenti per quel che si riferisce al costo sia della muratura come dei finimenti di ogni specie. Variano di mese in mese, qualche volta più rapidamente, gli elementi di costo. Non solo variano i salari, ma le continue interruzioni nel lavoro e la riduzione nelle ore del lavoro non compensata da una intensificazione nel lavoro stesso, fanno si che i costi siano non solo aumentati ma divenuti incerti.

 

 

Mancanza della spinta iniziale, la quale può mettere in moto il meccanismo industriale.

 

 

Passiamo attraverso ad un periodo di instabilità nei prezzi di ognispecie, durante il quale a stento e con fatica potranno essere mantenute vive le organizzazioni preesistenti le quali rendevano agevoli le costruzioni. La mancanza dell’antica attrezzatura nell’industria edilizia reagisce a sua volta sulla produzione delle imprese fornitrici dei materiali da costruzione; vi è un circolo vizioso fra i mattoni che i costruttori non riescono a procurarsi perché non ci sono e la ripugnanza delle fornaci spente – a Milano si calcolano oggi soltanto due o tre fornaci attive su 20 fornaci che erano accese prima della guerra – a riprendere la loro attività per l’incertezza in cui si trovano di smerciare i laterizi prodotti ad imprese edilizie che non si sono ancora ricostruite. Da questo circolo vizioso si uscirà e, fatto il primo passo, il meccanismo ritornerà a poco a poco sempre più rapidamente a funzionare in pieno, come accade ad una valanga la quale prende forza e cresce di volume a mano a mano che scende verso la vallata.

 

 

Minimo di tempo occorrente per la ripresa dell’industria edilizia. Previsioni variabili, ma tutte escludenti il 31 luglio 1921.

 

 

Ma occorre un certo minimo di tempo affinché possa verificarsi la ripresa dell’industria ed in questo minimo di tempo l’offerta delle case sul mercato sarà forzatamente assai limitata. Nessuna previsione ragionevole può farsi intorno al tempo occorrente affinché la ripresa edilizia si verifichi in pieno. Previsioni discordanti variabili fra i 3 ed i 10 anni sono state fatte dai tecnici interrogati dalla Commissione. Certamente si può affermare che per il 31 luglio 1921, data che per i decreti vigenti sarebbe quella del ritorno completo alla libertà, l’industria edilizia non batterà in pieno.

 

 

Previsione sicura di un aumento permanente del costo delle costruzioni.

 

 

Non bisogna nascondersi d’altra parte che, anche quando si saràprovveduto alla riorganizzazione dei trasporti e via via l’industria edilizia sarà ritornata in tutti i suoi rami alle condizioni normali, e il valore della lira si sarà finalmente stabilizzato ad un qualsiasi livello, questo livello con tutta probabilità sarà superiore a quello che si aveva prima della guerra. Trattasi di un fatto non peculiare all’Italia ma mondiale. La guerra ha agito come la scoperta di un immenso campo aurifero. La quantità del numerario circolante è cresciuto nel mondo in una misura permanente; se anche in qualche paese la quantità del medio circolante potrà diminuire, ed è augurabile che dappertutto diminuisca in una certa proporzione, è assurdo però ritenere che la quantità relativa di moneta abbia a ridursi alla misura antebellica, non essendo neppure prudenza di stato ricondurla rapidamente al limite originario. Questa prudenza consiglia ed imporrà per forza a tutti i governi di regolare la circolazione per modo da togliere l’asprezza maggiore dell’attuale alto livello dei prezzi, senza tuttavia provocare una crisi di disoccupazione o di svalutazione dei capitali impiegati nelle imprese economiche, la quale produrrebbe in senso contrario inconvenienti eguali a quelli verificatisi durante la rapidissima ascesa. Il livello dei prezzi dovrà stabilirsi ad un certo punto ma rimarrà permanentemente superiore a quello che si aveva prima. Senza voler fare alcuna previsione, la quale sarebbe presuntuosa e non scientifica, può affermarsi che non si rivedranno più i prezzi da 1.000 a 2.000 ed a 3.000 lire per vano a cui si costruivano prima della guerra i locali abitabili in molte città italiane. Oggi a Milano si sono costruiti i locali dei villaggi di casette, di cui molto lodevolmente ha preso l’iniziativa il comune, con un costo variabile da 4.500 a 5.000 lire per locale, quando il costo di costruzione poteva prima della guerra aggirarsi sulle 1.000 lire. Nella stessa Milano il locale di case civili della media borghesia che prima costava da 2.000 a 2.500, oggi è variamente valutato da 6 a 15.000, lire. A Torino, il metro cubo, vuoto per pieno, dal livello del marciapiede, al filo di gronda, da 16 lire e salito ad 80-100 per le case popolari, e da 25 a 150 per le case civili. A Roma, dove le condizioni costruttive sono molto diverse da quelle di Milano e Torino le costruzioni dell’Istituto per le case degli impiegati sono calcolate ad un costo variabile da 7 a 9.000 lire, contro alle 2.000 antiche e quando trattasi di costruzioni civili si sale su rapidamente alle 10 e 15.000 lire, per giungere alle 20.000 per vano per case di lusso.

 

 

Riassumendo, si può dire che i costi di costruzione in quanto siano prevedibili – e qui sta come sopra si è detto, la difficoltà maggiore – si sono quadruplicati, quintuplicati e talvolta sestuplicati. Non si sa quanta parte di questo enorme aumento nei costi di costruzione persisterà quattro o cinque anni dopo la fine della guerra.

 

 

Ma nell’ipotesi più favorevole sembra potersi legittimamente concludere che il costo della costruzione sarà per lo meno doppio di quello antebellico.

 

 

Previsione sui fitti nuovi in condizioni normali.

 

 

Se al maggior costo noi aggiungiamo l’altro fattore del rialzo del saggio d’interesse per cui il costruttore, il quale prima poteva contentarsi del 4,5% quando il consolidato italiano fruttava solo il 3,5% oggi invece richiede il 6%, contentandosi per i suoi rischi e le sue fatiche di uno scarto minore di prima, in confronto del 5,70%, fruttato dal nuovo consolidato; se ancora si tien conto delle molto cresciute spese di riparazione, manutenzione, assicurazione ed amministrazione; se si suppone che le case nuove non siano esentate dalle imposte e sovraimposte (queste ultime in special modo formidabilmente cresciute), noi vediamo che mentre prima era possibile mettere sul mercato un locale abitabile ad un fitto annuo di 150 lire, oggi il fitto annuo equivalente dovrebbe essere invece da 700 a 1.000 lire. Sembra azzardato supporre in ogni modo che il ritorno alle condizioni normali, senza alcun margine di profitto o di rendita di monopolio per i proprietari, con redditi equivalenti appena al reddito ottenibile in altri impieghi, possa avvenire a fitti inferiori a 400-500 lire all’anno per locale.

 

 

Preoccupazioni politiche per lo sbalzo improvviso dei fitti al 31 luglio 1921.

 

 

Lo sbalzo dunque che si potrebbe verificare al 31 luglio 1921 al ritorno improvviso della libertà degli affitti sarebbe notevolissimo e noi che siamo chiamati ad indicare le vie per un ritorno graduale a quella libertà, non possiamo non tener conto delle preoccupazioni in cui a quella data il governo si troverebbe qualora, in molte parti d’Italia, se non dappertutto, i fitti improvvisamente raddoppiassero o triplicassero.

 

 

Ragioni d’indole tecnica, le quali escludono il 31 luglio 1921 come data unica per la smobilitazione delle case.

 

 

Né contro al ritorno improvviso della libertà nelle contrattazioni al 31 luglio 1921 ostano soltanto preoccupazioni di indole politica. Vi sono ragioni di indole tecnica, le quali fanno si che una data unica e prossima, qualunque essa sia, debba considerarsi come di possibile attuazione. Già le date consuetudinarie per i traslochi – 29 settembre a Milano, 4 maggio a Napoli, 11 agosto a Palermo – erano cagione di gravi difficoltà tecniche prima della guerra, quando lo smistamento degli alloggi si verificava per piccole porzioni di popolazione, essendo le famiglie in trasloco una parte non rilevante della popolazione totale delle città. Oggi, dopo un lungo periodo di immobilizzazione forzata, se fosse ristabilita improvvisamente la libertà degli affitti, si può affermare che mezza la popolazione delle grandi città dovrebbe traslocare, perché l’equilibrio non potrebbe essere raggiunto se non con uno spostamento di moltissimi inquilini, i cui mezzi non potrebbero sostenere un aumento troppo forte dei fitti, verso appartamenti più piccoli, ed un correlativo spostamento di altri inquilini, i cui redditi sono aumentati ed i quali anelano ad una casa più ampia, verso alloggi a fitti più elevati. Un’unica data sarebbe certamente interessante dal punto di vista sociologico, in quanto si avrebbe un quadro vivo per le pubbliche strade della trasformazione profonda che si è verificata nella struttura della società, per cui una parte notevole della vecchia borghesia alta e media si è andata impoverendo, ed invece quello che era anticamente il proletariato affollantesi in poche camere anguste, ha acquistato mezzi pecuniari tali che gli consentono di occupare, pagando fitti molto più elevati, gli alloggi della media borghesia e dal seno del proletariato e delle classi medie è uscito un numero ristretto di uomini più audaci ed intraprendenti, i quali oggi costituiscono la nuova borghesia arricchita. Certamente questo sarebbe una interessantissima cinematografia sociologica per l’uomo di studio, ma oltre ad essere una cagione di gravi preoccupazioni sociali, sarebbe un assurdo dal punto di vista tecnico. Mancherebbero assolutamente i carri, i cavalli, i camions e gli uomini necessari per effettuare un trasloco in così grande stile, che prenderebbe l’aspetto di una vera migrazione di popoli entro i recinti delle grandi città. Un valentissimo tecnico da noi interrogato ha calcolato che in quei pochi giorni si dovrebbe a Milano smobilitare con mezzi tecnici inesistenti un traffico eguale almeno ad un trimestre di quello del porto di Genova. Se con un’organizzazione ben lungi dall’essere perfetta, ma ad ogni modo esistente e funzionante da decenni gli ingorghi sono quotidiani sul porto di Genova per un traffico diluito in un trimestre, l’immaginazione si rifiuta di dipingere il quadro dell’ingorgo spaventevole che si verificherebbe quando il traffico di un trimestre dovesse compiersi in pochissimi giorni in una città priva assolutamente dei mezzi tecnici occorrenti al traffico.

 

 

Necessità che lo smistamento sia graduato nel tempo.

 

 

Occorre dunque, per imprescindibili necessità tecniche, che lo smistamento, il quale pure deve verificarsi per il ritorno ad unequilibrio normale, sia graduato nel tempo.

 

 

Questa è una prima conclusione a cui la Commissione venne e che era imposta dall’evidenza medesima dei fatti.

 

 

I due metodi della smobilitazione delle case: 1) la smobilitazione generale preceduta da aumenti graduali uniformi.

 

 

Più gravi difficoltà si manifestarono quando si dovette passare dall’affermazione generica del principio della gradualità, alla sua applicazione concreta. Qui si manifestarono due tendenze contrarie ben distinte e ben nette. Una faceva capo a quella che può chiamarsi la smobilitazione generale delle case preceduta da aumenti graduali uniformi, l’altra alla smobilitazione per classi di alloggi. Le ragioni le quali militano a favore di ognuna di queste soluzioni, vengono qui esposte nella maniera più oggettiva che al relatore sia stato possibile di adoperare. Il sistema della smobilitazione generale e graduale consiste nel fissare una data unica, più lontana di quella del 31 luglio 1921, ad esempio l’1 luglio 1923 per il ritorno contemporaneo alla libertà di contrattazione per tutte indistintamente le case. Allo scopo di evitare che a quell’unica data prorogata si abbiano a verificare gli inconvenienti tecnici che si verificherebbero alla data del 31 luglio 1921, occorre:

 

 

In primo luogo che quella data sia fissata ad un’epoca nella quale già possano essere portate sul mercato nuove case in numero sufficiente ad albergare le famiglie che oggi si trovano senza casa e quelle le quali continueranno ad affluire nelle città più importanti.

 

 

In secondo luogo che tra la data odierna e quella futura il governo consenta aumenti periodici di sei in sei mesi o da un anno all’altro, delle pigioni, così da portare le pigioni stesse gradatamente dal livello fittizio attuale ad un livello superiore meglio corrispondente a quella che potrà essere all’1 luglio 1923 la svalutazione della moneta. Grazie a questi aumenti periodici lo smistamento degli appartamenti dovrebbe verificarsi a grado a grado ad ogni sei mesi od a ogni anno, imperocché le famiglie le quali non potessero sopportare l’aumento consentito dai decreti, a poco a poco dovrebbero cercare di restringersi, lasciando il proprio posto ad altre famiglie desiderose di allargarsi e disposte a pagare una pigione superiore. Grazie a questi traslochi intermedi, la situazione all’1 luglio 1923 dovrebbe essere divenuta normale. Né a quella data si potrebbe prevedere un nuovo aumento improvviso fortissimo nei fitti, in quanto già i fitti antichi a poco a poco si sarebbero approssimati al livello normale e le nuove costruzioni entrerebbero in campo già svalutate, per la rivalutazione nel frattempo della lira. Il sistema è dai suoi fautori, a cui appartiene la maggioranza delle associazioni dei proprietari di case, considerato il più equo sotto parecchi rispetti. La svalutazione della lira è un fenomeno economico generale che riguarda indistintamente tutti gli inquilini e tutti i proprietari di case, senza fare alcuna distinzione fra appartamenti piccoli ed appartamenti grandi, e quindi giustizia vuole che il ritorno alla normalità dei prezzi si effettui contemporaneamente per tutti. Si aggiunga che in moltissimi casi, ed anzi, a parere dei fautori di questa tendenza, nella maggioranza dei casi, i proprietari di case divise in piccoli appartamenti sono quelli i quali sono stati maggiormente danneggiati dalla guerra. Essi hanno avuto tra i loro inquilini il massimo di mobilitati ed hanno quindi dovuto subire talora una perdita della metà dei fitti e nei casi più favorevoli, il rinvio dei pagamenti di questa metà, mentre appunto per essere gli appartamenti molto numerosi ed abitati da molte persone, le spese di amministrazione e di manutenzione sono salite in misura ragguardevole. Né per questi piccoli appartamenti fu sempre possibile di ottenere con trattative private aumenti nei canoni di fitto. Questi proprietari di case divise in modesti appartamenti – affermasi anche da autorevoli rappresentanti dei proprietari appartengono per lo più alle classi meno ricche dei proprietari. Invece nella scala delle fortune i proprietari di case con ampi alloggi signorili sarebbero posti più in alto e sarebbe perciò ingiusto che essi potessero godere prima degli altri della libertà di disporre dei loro appartamenti e quindi di aumentare i fitti a piacimento quando già durante la guerra essi non hanno subito perdite apprezzabili per il condono od il ritardo nel pagamento della metà dell’affitto e fu più agevole ad essi contrattare aumenti spontanei di fitto con i loro inquilini.

 

 

2) La smobilitazione graduale per classi di alloggi.

 

 

A queste ragioni, le quali sussidiano la tesi della smobilitazione graduale e generale, altre ragioni si oppongono a favore della tesi della smobilitazione graduale per classi, tendenza quest’ultima che finì per prevalere nella Commissione.

 

 

Parve cioè alla maggioranza della Commissione che la speranza di poter smobilitare gli appartamenti con aumenti graduali di fitto fosse alquanto azzardata. Qualunque possano essere gli aumenti graduali consentiti legalmente, questi aumenti, per ragioni di prudenza politica ed anche per la impossibilità di poter prevedere l’avvenire, dovranno contenersi entro limiti assai modesti, mentre per ottenere prezzi eguali sostanzialmente a quelli antebellici, tenuto conto della minor potenza di acquisto della moneta, converrebbe aumentare i fitti da 100 a 300, ossia del 200 per cento. Sarebbe chiaramente impossibile che questi aumenti abbiano ad essere sanciti in una disposizione legislativa. Troppo grave sarebbe, anche se graduale, lo sconcerto che si verificherebbe nelle economie private. È del resto grandemente dubitabile se in regime di libertà, qualora alla libertà si giunga a poco a poco, davvero il prezzo delle case abbia ad aumentare in una misura così notevole. Delle case non si può dire la stessa cosa che degli abiti e delle scarpe. Di cuoio, di lana, di cotone, effettivamente c’è una scarsità notevole in confronto al bisogno; manca la materia prima e quindi mancano anche i prodotti finiti ed il prezzo della poca merce esistente necessariamente deve salire molto. Invece le case esistenti prima della guerra esistono ancor quasi tutte oggi e la popolazione per quanto siasi spostata parzialmente, non supera oggi, come si disse, quella di qualche anno fa. (È) un raffinamento di gusti che si è verificato, piuttosto che una diminuzione della quantità di merce offerta e se gli aumenti uniformi e generali non fossero, come non potrebbe essere, se non relativamente miti, assai difficilmente si potrebbero osservare smistamenti su una vasta scala. La casa continuerebbe ad essere per la grandissima maggioranza della popolazione, come il pane, una merce sotto costo. Pochi quindi vorrebbero correre il rischio di uno spostamento che potrebbe portare ad un aumento notevole di spesa. Arriveremmo perciò all’1 luglio 1923 od a quell’altra data che fosse per essere determinata, su per giù nelle stesse condizioni in cui ci troveremmo al 31 luglio 1921 e la data stessa dovrebbe essere nuovamente prorogata per la impossibilità tecnica e politica di attuarla. Meglio giova, per ritornare a condizioni normali, smobilitare gradatamente gli appartamenti per classi di valore, cominciando a smobilitare quelli i quali superano una cifra assai elevata, diversa a seconda delle categorie delle città, abitati presumibilmente da inquilini ricchi, i quali possono sopportare un aumento di fitto. Mentre si rende libero assolutamente il mercato per questa prima e più alta categoria di appartamenti, gli appartamenti di valore inferiore continuerebbero ad essere vincolati, concedendosi per la categoria seconda il diritto al proprietario di ottenere un aumento discreto nelle pigioni; mentre per le ultime categorie, composte di appartamenti abitati dalla piccola borghesia, dai modesti professionisti, dagli impiegati e dalle classi operaie, si concederebbe il diritto ad un aumento molto moderato di fitto. Ad una data successiva si smobiliterebbero la seconda e la terza categoria, mantenendosi il vincolo per la quarta, concedendo per quest’ultima il diritto ad un ulteriore moderato aumento, finché ad un’ultima data sarebbe smobilitata anche l’ultima categoria degli appartamenti di piccolo valore.

 

 

Colla smobilitazione per classi, si può prevedere un aumento fortissimo nelle pigioni più ricche. Il che è appunto desiderabile.

 

 

In questa maniera si giungerebbe gradatamente alla libertà; lo smistamento comincerebbe ad effettuarsi per gli appartamenti più ricchi. Dato il numero limitato degli appartamenti componenti la prima categoria, è probabile che i prezzi saliranno per questa, appena sia dichiarata la libertà, ad un livello forse anche altissimo. Ma questo è per l’appunto la condizione necessaria affinché gli inquilini, che del resto per loro medesima confessione sono in grado di pagare affitti elevati, si decidano a restringere la loro domanda di case ed a far posto ad altre famiglie appartenenti alla loro categoria e che adesso si costipano in appartamenti di valore inferiore. In questo modo un qualche vuoto potrebbe verificarsi, già fin da quando ancora dura il regime dei vincoli, negli appartamenti della seconda, terza e quarta categoria.

 

 

Lo stesso fenomeno, sebbene in proporzioni più limitate, dato il maggior tempo intercorso e data la crescente offerta di case nuove, si verificherebbe nel momento della smobilitazione degli appartamenti della seconda categoria, cosicché è augurabile si possa arrivare alla smobilitazione completa senza scosse troppo forti ed abituando gradatamente i consumatori di case a pagare un prezzo meglio corrispondente alla realtà dei costi di costruzione e sovratutto alla svalutazione del numerario in cui si pagano le pigioni.

 

 

Difetti insiti anche nel secondo sistema.

 

 

Certamente la maggioranza della Commissione non ha potuto nascondersi i difetti che sono insiti anche in questo secondo metodo. Il problema più arduo era quello della determinazione delle categorie. Differenze grandissime si riscontrano tra città e città, né vi è alcun criterio il quale da solo possa servire per una classificazione degli appartamenti in tutte le città italiane. Il criterio medesimo della popolazione che già fu adottato dal nostro legislatore nei decreti di vincolo, criterio a cui la Commissione si è attenuta per l’impossibilità di trovarne uno migliore, è certamente imperfetto, in quanto che l’esperienza dimostra che a parità di popolazione i fitti pagati nelle diverse città sono diversi e diversa quindi dovrebbe essere la classificazione degli appartamenti.

 

 

È quasi impossibile inoltre di trovare una definizione soddisfacente delle case di lusso, la quale non si basi sul semplice dato numerico dell’ammontare del fitto, mentre tuttavia è certo che l’ammontare anche elevato del fitto non è sempre indice di ricchezza o di lusso, ben potendo darsi che una famiglia numerosa, la quale paghi più di 4.000 lire di fitto nelle grandi città (si cita questa cifra come quella che costituisce il limite dei fitti della prima categoria secondo i decreti vigenti) sia di gran lunga meno ricca di uno scapolo il quale nella medesima città ha un quartierino forse inferiore al valore di 1.000 lire annue.

 

 

La perfezione assoluta è impossibile. Bisogna scegliere il minimo di errori.

 

 

Ma una legislazione vincolistica è necessariamente tale da cagionare sperequazioni ed ingiustizie di ogni fatta. È assolutamente impossibile di poter compiere in questo campo opera perfetta la quale si adatti a tutte le contingenze dei casi singoli. Già fu osservato il principio di questa relazione che con due soli mezzi è possibile ottenere uno stato di perfetto equilibrio: o con quello cioè di un onniveggente ministro delle abitazioni, sapientissimo ed onnipotente, che distribuisca la popolazione secondo categorie di così detta giustizia in una società comunistica; ovvero con quello di una perfetta libertà delle contrattazioni. Invece il regime vincolistico, che perpetua irrigidite le condizioni di un determinato momento, è sinonimo di ingiustizia e di sperequazione.

 

 

La smobilitazione per classi è il minimo errore politico.

 

 

Per uscirne si può al massimo sperare di commettere un minimo di errori, ed è sembrato alla maggioranza della Commissione che la smobilitazione per classi fosse appunto il sistema, il quale è suscettibile di questo minimo di errori; minimo politico in quanto che si comincia a dare la libertà delle contrattazioni per gli appartamenti abitati da quelle classi le quali presumibilmente possono meglio sopportare un incremento dei fitti, e per cui si suscita il minimo di opposizione da parte delle masse, in quanto alla libertà si arriva per le masse soltanto dopo un congruo numero di anni ed attraverso ad aumenti moderati ed in un momento in cui l’offerta delle case nuove da parte di privati costruttori e sovra tutto di enti pubblici avrà consentito a queste masse una certa libertà di scelta.

 

 

È anche il minimo errore economico.

 

 

Minimo di errore economico, in quantoché, come sopra fu detto, gli aumenti di fitto che si verificheranno nelle case di maggior pregio indurranno forse di fatto a quelle restrizioni nel consumo degli alloggi che sono necessarie se si vuol creare un qualche, sia pur modesto, vuoto nei locali occupati.

 

 

Le ingiustizie insite nel sistema sono un prolungamento dei danni da cui sono stati colpiti durante la guerra i proprietari di case.

 

 

Certamente non tutti i proprietari verranno egualmente trattati col metodo della smobilitazione per classi: in quanto vi sarà colui il quale disponendo di alloggi ricchi, potrà senz’altro ritornare al reddito effettivo antico sotto forma di una pigione apparentemente maggiore in lire svalutate; vi saranno invece altri i quali dovranno attendere più a lungo l’abolizione del carico che sulla loro classe è stata rovesciata per ragioni di indole generale. Ma trattasi di fortuna di guerra e non si può pretendere che la guerra sia un’operazione la quale possa essere condotta con perfetta giustizia comparativa per tutte le classi di cittadini. Ciò che più monta del resto per la classe dei proprietari non è tanto di ottenere immediatamente un aumento di affitto, quanto di ottenere a poco a poco la libera effettiva disponibilità delle loro case.

 

 

Il ritorno graduale alla libertà delle contrattazioni è preferibile socialmente all’aumento immediato dei fitti.

 

 

La Commissione si è trovata a questo punto nella sua maggioranza, a cui non aderivano in tutto i rappresentanti delle associazioni dei proprietari, convinta che meglio si giova nel tempo stesso all’inquilinato ed all’industria edilizia ritardando di qualche po’ gli aumenti nelle pigioni, pur di persuadere coi fatti che a poco poco si deve ritornare a condizioni normali nelle contrattazioni.

 

 

Il pensiero dominante della Commissione è stato di cercare di togliere i vincoli esistenti, anche se, per toglierli definitivamente, si dovesse accollare alla classe dei proprietari un ulteriore aggravio per una parte degli appartamenti.

 

 

Rapida inchiesta condotta dalla Commissione sul livello dei fitti nelle città di più di 20.000 abitanti.

 

 

Naturalmente la Commissione ha dovuto cercare di evitare che la smobilitazione per classi producesse troppe ingiustizie ed a questo scopo ha in primo luogo ordinato una rapida inchiesta per conoscere in tutte le città aventi più di 20.000 abitanti quale fosse il livello massimo medio e minimo dei fitti per le quattro categorie; 1) della borghesia ricca; 2) della borghesia media e dei professionisti ed impiegati più elevati; 3) della borghesia minuta dei professionisti modesti e degli impiegati in generale; 4) finalmente della classe operaia.

 

 

Criteri generali per la classificazione delle case. 1) La popolazione delle città.

 

 

Sulla base dei risultati dell’inchiesta statistica così condotta, la Commissione ha compilato un quadro di distribuzione degli appartamenti per classi, a seconda della popolazione delle città, correggendo l’elemento puro della popolazione con altri elementi oggettivi derivanti da situazioni di fatto cui si accennerà sotto, esponendo la classificazione medesima.

 

 

2) La ricchezza notevole degli inquilini od il loro arricchimento durante la guerra.

 

 

La Commissione ha cercato di integrare altresì l’elemento oggettivo della popolazione con elementi di carattere personale, collocando cioè nella prima categoria degli appartamenti i quali andranno ad essere smobilitati del tutto a più prossima data, non solo gli appartamenti aventi un valore locatizio massimo, ma anche quelli che pur avendo un valore locativo inferiore, e fors’anche minimo, sono però abitati da inquilini le cui condizioni economiche sono manifestamente tali da consentire che per essi sia tolto al più presto un qualsiasi vincolo. Non sarebbe corretto infatti continuare oltre il minimo indispensabile in una situazione di cose per cui oggi inquilini ricchissimi od arricchitisi a dismisura durante la guerra, possono continuare a pagare fitti irrisori a proprietari i quali si trovano per lo più in condizioni economiche di gran lunga inferiori a quelle dei loro inquilini.

 

 

La Commissione sia collettivamente, sia per comunicazioni fatte ai suoi singoli membri, è a conoscenza di situazioni individuali che si potrebbero considerare atroci, di proprietari di case, coperte di ipoteche o in ogni modo fruenti di un reddito minimo, inferiore a quello che oggi è richiesto per la vita di una famiglia operaia modesta, i quali debbono continuare ad affittare a canone mitissimo appartamenti abitati da inquilini talvolta ricchi a milioni o provveduti di redditi altissimi e cresciuti durante la guerra. Quando queste condizioni soggettive di ricchezza notevole o di larghi redditi si riscontrano, manca completamente la ragione di tutela del povero o del disagiato che ha ispirato i decreti vincolistici ed è giustificata la proposta della Commissione di collocare questi appartamenti, qualunque sia il loro valore locatizio, nella prima classe la quale dovrà essere smobilitata al più presto.

 

 

3) Gli alloggi occupati a scopo di lucro da intermediari.

 

 

In questa medesima categoria la Commissione ha ritenuto opportuno di collocare altresì, qualunque sia il loro valore locatizio, quegli appartamenti i quali sono abitati in più del primo da inquilini che esercitano l’industria del subaffitto. Il vincolo agli affitti è stato concesso dal governo allo scopo di tutelare l’inquilino contro il pericolo di improvvisi fortissimi aumenti derivanti dalla situazione monopolistica in cui si trovavano durante la guerra i proprietari, non già per concedere agli intermediari il diritto di ricavare lauti profitti disponendo di appartamenti vincolati in confronto ai proprietari e di fatto liberi in confronto agli inquilini. Non esiste nessuna ragione per la quale il proprietario di casa non debba avere il diritto di licenziare immediatamente coloro che esercitano l’industria della intermediazione degli alloggi e di ricuperare la piena disponibilità della casa propria. Togliendo i vincoli per questa categoria di appartamenti, qualunque sia il loro valore, si giova alla collettività in quanto si elimina una classe parassitica di intermediari la quale è venuta rapidamente, appunto per causa dei decreti vincolistici, formandosi ed estendendosi durante la guerra. Tutta la nostra legislazione è orientata nel senso di eliminare per quanto è possibile l’intermediario che non compie una funzione socialmente utile e di mettere in rapporto diretto consumatori e produttori, contadini e proprietari, ecc. Così è utile accada altresì tra inquilini e proprietari di case. Anche le classi trarranno giovamento dalla eliminazione degli intermediari; la quale è tanto più urgente in quanto essa non fu dovuta a cause naturali; ma fu la conseguenza artificiale della legislazione vincolistica.

 

 

La Commissione non si è soffermata a considerare le norme che in regime di vincolo furono adottate per limitare l’azione degli intermediari e per dare gli alloggi da essi detenuti alla disponibilità dei commissari degli alloggi. Le norme per lo più furono inefficaci a raggiungere lo scopo, più valendo la malizia degli intermediari che la diligenza dei commissari, e mancando qualunque stimolo nei proprietari a denunciare gli intermediari quando essi non riabbiano la disponibilità dell’alloggio. Ciò che monta non è sostituire all’intermediario il vincolo nuovo del decreto del commissario agli alloggi; è di ricreare un mercato libero delle case, su cui liberamente ed apertamente si svolgano contrattazioni. Mercato in principio ristretto ad una categoria e poi a mano a mano allargantesi a categorie sempre più vaste. Giova, affinché la prima categoria non riesca troppo smilza, che in essa siano compresi anche gli appartamenti occupati da intermediari per uso di lucro, per cui manca ogni ragione di tutela.

 

 

Questi sono i criteri fondamentali ai quali si è ispirata la maggioranza della Commissione nel decidersi piuttosto per il criterio della smobilitazione generale. Ora si passa appunto a spiegare quale sia il sistema tenuto nell’attuazione di questo concetto generale.

 

 

Il problema della classificazione delle città.

 

 

Il primo quesito da risolvere per quanto si riferisce alla smobilitazione graduale era quello della classificazione della città. La via entro certi limiti era già tracciata dai decreti vigenti, i quali distinguono le città in tre categorie, a seconda che superino i 200.000 abitanti, stiano fra i 100.000 ed i 200.000, o siano inferiori a 100.000. Nel sistema vigente questa classificazione ha valore soltanto per quanto si riferisce alla separazione dagli altri degli appartamenti aventi rispettivamente un valore locativo annuo superiore a 4.000, 2.400, ed a 1.000 lire all’anno. Parve alla Commissione che questi punti di riferimento dovessero in massima essere considerati fissi, tanto per ciò che si riferisce alla distribuzione delle città, quanto per ciò che si riferisca al valore degli appartamenti. Il passaggio invero dal sistema vincolistico al sistema della libertà deve avere come suo punto di partenza lo stato di fatto vigente e deve cercare di variarlo il meno che sia possibile.

 

 

Trattamento speciale per la capitale.

 

 

Tuttavia parve alla Commissione che qualche variazione potesse ragionevolmente introdursi nella classificazione vigente. La capitale invero presenta, per quel che si riferisce all’altezza dei fitti, caratteristiche sue peculiari, le quali non si riscontrano o non si riscontrano con altrettanta intensità nelle altre anche grandi città. In essa i fitti sono più elevati per tutte le categorie della popolazione e se per le altre grandi città un fitto di 4.000 lire può essere considerato come indice di ricchezza, non così per Roma, dove quel fitto è relativamente frequente anche nei bilanci delle classi semplicemente agiate, mentre i fitti di 2-3.000 lire, che altrove sono già considerati rilevanti, a Roma paiono comuni. È questa la ragione per la quale la Commissione ritenne opportuno di togliere da quella che finora è stata considerata la prima categoria la città di Roma e costituirla in categoria a sé.

 

 

I comuni complementari a grandi centri.

 

 

Un’altra circostanza dovette essere presa in considerazione ed è quella per cui le grandi città, specialmente Napoli, Milano, Genova irradiano la loro popolazione attorno a sé nel territorio di comuni amministrativamente separati. Una tendenza a fitti alti, di solito ignoti in comuni aventi lo stesso numero di abitanti, si riscontra ad esempio a Greco Milanese, a Musocco, attorno a Milano: Turro e Greco Milanese, Musocco, Vigentino, Affori; attorno a Napoli: San Giovanni a Teduccio, Portici, Resina, Torre del Greco, Afragola, Pozzuoli, Antignano; attorno a Genova: Sampierdarena, Quarto, Sestri Ponente, ecc. Parve perciò alla Commissione che questi comuni circostanti a grandi centri e che possono considerarsi quali complemento di essi, e certamente sono da essi influenzati in materia di pigione, debbano essere collocati in una categoria diversa da quella alla quale spetterebbero in ragione di popolazione. Non si possono classificare senz’altro nella stessa categoria della città di cui sono il complemento, in quanto i fitti, se sono in essi più alti dell’ordinario, non giungono all’altezza della città principale; ma è ragionevole classificarli, qualunque sia la loro popolazione, nella categoria immediatamente inferiore a quella a cui appartengono le città da cui essi dipendono.

 

 

Le città balneari ed i luoghi di cura.

 

 

Un’altra variante alla classificazione ordinaria parve consigliabile di introdurre per ciò che si riferisce alle città balneari ed ai luoghi di cura.

 

 

Anche in esse i fitti sono più elevati di quanto sarebbe comportabile nella ragione semplice della popolazione. Non essendovi per queste città però un termine di riferimento, un’altra città cioè di cui esse possano essere considerate una dipendenza, si ritenne, senza commettere errore troppo grave, di poterle classificare tutte nella categoria delle città con più di 100.000 e meno di 200.000 abitanti.

 

 

L’elenco da compilarsi dai prefetti.

 

 

Le norme ora dette sono proposte però in via semplicemente indicativa. Alla Commissione facevano difetto gli elementi per poter individuare le singole città per le quali le disposizioni ora indicate possono valere. Trattasi di apprezzamenti, di circostanze di fatto, le quali meglio possono essere valutate dalle autorità locali. La Commissione ritenne opportuno di stabilire che, entro 15 giorni dalla data di pubblicazione del presente decreto, i prefetti debbano compilare un elenco dei comuni circostanti ai grandi centri e delle città balneari e dei luoghi di cura, compresi nelle rispettive provincie. Nei 15 giorni successivi gli interessati avranno diritto di reclamare presso il Ministero dell’Interno il quale deciderà inappellabilmente. Le Piazze forti di Spezia, Taranto e Brindisi e la città mineraria di Caltanissetta.

 

 

In alcuni casi soltanto, la Commissione ritenne opportuno di fare una designazione specifica, in quanto le indagini statistiche preordinate la persuasero che, per circostanze particolarissime, le piazze forti di Spezia, Taranto e Brindisi, e la città mineraria di Caltanissetta sarebbero state erroneamente classificate, qualora si fosse tenuto conto soltanto della loro popolazione. In nessun altro caso, dopo un maturo esame, fu ritenuto di poter fare eccezione alla regola della popolazione, la quale potrà prestare il fianco a qualche critica, ma nel suo complesso addimostrasi sufficientemente adeguata ai fatti che vennero a conoscenza della Commissione.

 

 

Per queste quattro città invece, oltreché per le due categorie genericamente sopra designate, la classificazione ordinaria sarebbe stata indubbiamente erronea e perciò esse furono collocate, alla pari delle città balneari e dei luoghi di cura, nella classe delle città con più di 100.000 e meno di 200.000 abitanti.

 

 

I comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti.

 

 

La Commissione, come tolse dalle grandi città la capitale, così ritenne opportuno sceverare dai comuni di popolazione fino a 100.000 abitanti quelli con popolazione minima, non superiore a 5.000 abitanti. Per questi comunelli, di carattere per lo più rurale, non esiste un vero problema di affitti e neppure di industria edilizia. Per lo più la popolazione vive in casa propria, ovvero in case rustiche, che sono il complemento necessario di fondi agricoli e sono date in uso gratuito od a fitti nominali ai coloni.

 

 

Non esiste industria edilizia propriamente detta, per la non convenienza di costruire case a scopo di locazione.

 

 

Non v’è alcuna probabilità che la costruzione di case in questi comuni abbia a svolgersi in misura diversa da quella usata in passato, per soddisfazione di bisogni individuali.

 

 

Parve perciò alla Commissione fosse privo di significato distinguere le case dei piccoli comuni in classi a seconda dell’ammontare degli affitti.

 

 

Non esistono per lo più fitti; e dove esistono appartengono sempre all’ultima categoria. Perciò si fece dei fitti dei comuni piccoli un’unica categoria assegnandola alla prima categoria dei fitti, per i quali viene concessa la libertà a partire dall’1 luglio 1921. Viene cioè conservato per i comuni piccoli il regime vigente dei vincoli, senza alcuna ulteriore proroga. Nessuna delle due parti può lagnarsi, essendo serbate in vigore le condizioni vigenti; né la proroga avrebbe giovato alla consecuzione di alcun fine economico o sociale.

 

 

La distribuzione di fitti in categorie. La prima categoria.

 

 

Ordinate così le città in quattro classi, dovevano ordinarsi in categorie i fitti correnti per ognuna delle quattro classi.

 

 

Per non turbare, come si disse, lo stato di diritto vigente in base ai decreti vincolatori, fu ritenuto doversi mantenere per la prima e più alta categoria di pigione i minimi già indicati nei decreti stessi. Così nella prima categoria sono compresi gli appartamenti con pigioni superiori a lire 1.800 per le città della quarta classe (da 5.001 a 100.000 abitanti). Per la terza classe di città da 100.001 a 200.000 abitanti, appartengono alla prima categoria i fitti superiori a 2.400 lire. Per le città della seconda classe, con più di 200.000 abitanti, nella prima categoria sono collocate le pigioni oltre le 5.000 lire annue.

 

 

Roma che fa classe a sé (prima) ha un trattamento speciale, essendosi, per le ragioni dette, calcolate nella prima categoria soltanto le pigioni di un valore annuo superiore a 6.000 lire.

 

 

A questa prima categoria la Commissione ritenne opportuno, come fu spiegato sopra, di assegnare, oltre le case con pigioni superiori alle cifre già indicate, anche tutto un altro gruppo di case contrassegnate da carattere non più oggettivo ma soggettivo. L’art. 4 del progetto di decreto indica quali sono queste case le quali debbono, per ragione della posizione sociale o di altre caratteristiche degli inquilini, essere collocate nella prima categoria e correre quindi presto l’alea del mercato libero.

 

 

Qualunque sia la pigione pagata, anche minima, è evidente che se un inquilino ha ottenuto rilevanti profitti di guerra ed è stato perciò inscritto o dovrà essere inscritto nei ruoli sui sopra – profitti di guerra od in quelli della imposta per aumenti di patrimonio derivanti dalla guerra per una cifra non inferiore a 100.000 lire, costui non ha alcuna ragione di pretendere l’immobilizzazione della cifra di pigione da lui pagata.

 

 

Tanto meglio se, costretto a pagare una pigione più elevata, devolverà una parte dei guadagni ottenuti alla costruzione di una casa per suo uso. Sarà questo un risultato utile della smobilitazione della casa da lui abitata. Egli devolverà una parte dei suoi guadagni alla costruzione di una casa per sé e lascierà libero l’alloggio da lui occupato attualmente, con vantaggio di altri inquilini privi di casa.

 

 

Per la stessa ragione non sembrano degni di ulteriori riguardi del legislatore, e quindi debbono rientrare nella legge comune a quella data dell’1 luglio 1921 che oggi è stabilita in generale, anche coloro i quali abbiano un patrimonio non inferiore ad un milione accertato agli effetti dell’imposta straordinaria sul patrimonio o abbiano un reddito non inferiore a lire 50.000. Se persone provvedute di largo censo o di rendite cospicue vogliono dedicare solo una piccola frazione del loro reddito all’uso della casa, siano liberi di farlo, ma non pare lecito che essi godano i fitti bassi i quali sono stati voluti dal legislatore soltanto a tutela delle classi più disagiate. Finalmente non pare lecito che un inquilino detenga col privilegio del vincolo più case di abitazione, in numero superiore a quello che al 31 dicembre 1919 erano stabilmente occupate da esso o dai suoi ascendenti o discendenti e relative famiglie. Se un inquilino occupa parecchi alloggi oltre quelli indicati sopra, segno è che egli su di essi esercita una speculazione a proprio profitto ed è quindi strano che egli nell’esercizio della sua speculazione privata sia aiutato dallo stato con un vincolo a suo favore. Gli appartamenti da lui detenuti a scopo di speculazione siano nell’interesse della collettività rimessi sul mercato. Come già si disse, ciò ridonderà a favore nel tempo stesso della classe dei proprietari e di quella dei veri inquilini la quale potrà venire direttamente a contatto coi proprietari senza passare attraverso alle forche caudine di speculatori.

 

 

Le ulteriori categorie.

 

 

I valori della seconda, terza e quarta categoria furono, come si vede nella tabella che qui sotto si riproduce, desunti dai valori minimi della prima categoria. Si assunse cioè come valore minimo della seconda e terza categoria la metà del valore minimo della categoria immediatamente superiore, salvo per quanto si riferisce al valore minimo della seconda categoria della seconda classe di città, per cui parve più rispondente ai fatti osservati nelle statistiche raccolte, assumere come valore minimo la cifra di 2.400 lire all’anno.

 

 

Fatti diversi assaggi la classificazione che qui si presenta sembrò essere quella che meglio si adatta alla generalità dei casi. Forse sarebbe stato opportuno di istituire una speciale classe per le città da 1.001 a 20.000 o 30.000 abitanti, ma in tal caso sarebbe stato necessario di abbassare tutti i valori delle pigioni per quest’ultima categoria, ossia anche il valore iniziale di 1.800 lire minimo delle pigioni più elevate, già accolto nei decreti vigenti. Se così si fosse fatto, forse si sarebbe compiuta opera meglio rispondente alla realtà, ma si sarebbe violata una regola che la Commissione ritenne opportuno di imporsi ed è questa: che il ritorno alle condizioni normali debba operarsi senza cagionare alcuna offesa alle legittime aspettative delle classi interessate. La legislazione vincolistica ha turbato diritti esistenti ed ha provocato squilibri notevoli. Giova che il ritorno alle condizioni normali si effettui senza produrre alcun altro squilibrio in senso inverso. Bene o male che sia, la legislazione vigente ha fatto una classe sola di tutte le città fino a 100.000 abitanti ed ha garantito a tutti gli inquilini con pigione di valore non superiore a lire 1.800 il diritto di conservare il proprio appartamento fino al 31 luglio 1921 con aumenti non superiori al 10-20%. Se si fosse frazionata l’ultima categoria in due sotto categorie e se si fosse assegnato per l’ultima un valore diverso e più basso di 1.800 lire, si sarebbe violata questa legittima aspettativa degli inquilini.

 

 

La creazione della quinta classe dei comuni con popolazione rurale fino a 5.000 abitanti è necessaria, per non prorogare inutilmente i vincoli anche nei casi nei quali la proroga non giova ad alcun interesse né politico né sociale; ma per tutti gli altri comuni, la Commissione, almeno nella sua maggioranza, non volle che il ritorno alla libertà delle contrattazioni si inaugurasse con una violazione, anche soltanto di una legittima aspettativa, e perciò fu costretta a conservare la classificazione in non più di cinque classi di comuni.

 

 

Quadro della classificazione.

 

 

Ecco ora il quadro della classificazione proposta per classi.

 

 

Categorie delle pigioni ad anno.

 

 

CLASSI DI CITTÀ categoria 1 categoria 2 categoria 3 categoria 4
classe 1 – Roma Oltre6.000 lire da 3.000,01 a 6.000 da 1.500,01 a 3.000 fino a 1.500
classe 2 – Comuni con più di200.000 abitanti Oltre4.000 lire da 2.400,01 a 4.000 da 1.000,01 a 2.400 fino a 1.000
classe 3 – Comuni da 100.001 a200.000 abitanti Oltre2400 lire da 1.200,01 a 2.400 da 600,01 a 1.200 fino a 600
classe 4 – Comuni da 5.001 a100.000 abitanti Oltre1.800 lire da 900,01 a 1.800 da 450,01 a 900 fino a 450
classe 5 – Comuni fino a5.000 abitanti. qualunque fitto

 

 

Metodo della smobilitazione; diverse vedute fra i commissari.

 

 

Passando ora al punto più importante che è quello del metodo da tenersi per la smobilitazione graduale a seconda delle classi di città e delle categorie di alloggi, la Commissione si trovò unanime nel ritenere che la smobilitazione dovesse cominciare dalla prima categoria e via via procedere a quelle susseguenti.

 

 

Si manifestarono invece disparità non lievi di vedute tra i rappresentanti delle associazioni dei proprietari e gli altri membri della Commissione a cui dal decreto istitutivo era affidato piuttosto il compito di rappresentare gli interessi degli inquilini e degli smobilitati.

 

 

I primi affermando l’opportunità di arrivare più rapidamente e sulla base di incrementi più rapidi dei fitti durante il residuo periodo di vincolo alla libertà completa; ritenendo gli altri più opportuno di procedere con maggior lentezza sia nella smobilitazione, sia nella ragione degli aumenti consentiti durante il periodo di vincolo.

 

 

Ragione dell’opinione comune della gradualità della mobilitazione non solo, ma anche degli aumenti di fitto.

 

 

Si comincia qui ad indicare le ragioni dell’opinione comune, in cui tutti furono d’accordo, che cioè, essendo prevalse per le ragioni già dette che il concetto che la smobilitazione dovesse effettuarsi per classi di città e per categorie di pigioni, questa smobilitazione dovesse essere graduale ed accompagnata da un aumento progressivo nei fitti durante il periodo residuo di vincolo.

 

 

Che la smobilitazione debba essere graduale già fu dimostrato ad esuberanza in una precedente parte della presente relazione. Per motivi tecnici e politici, che qui non occorre ripetere, la liberazione delle pigioni deve cominciare dalla prima categoria e procedere a distanza di tempo alla seconda, alla terza ed alla quarta, in modo da raggiungere la completa libertà delle contrattazioni in quel momento nel quale si possa presumere che le condizioni del mercato edilizio siano ridivenute normali. Normali s’intende, in rapporto all’equilibrio nuovo dei prezzi che si sarà stabilito a cose assestate, non in rapporto all’equilibrio antico che oramai non vi e più nessuna probabilità di veder ristabilito. Ed è appunto per questo che unanime fu altresì il consenso nell’opportunità, anzi nella necessità di concedere, durante il periodo residuo di vincolo il diritto ai proprietari di ottenere un aumento progressivo di fitto.

 

 

Manca oramai la necessità di guerra di mantenere quella forma speciale di imposta di classe che è il vincolo ai fitti.

 

 

Questa necessità si può dimostrare in due maniere. In primo luogo se ragioni gravissime di ordine pubblico richiedevano che una imposta speciale fosse stabilita, sia pure sperequatamente e per il solo motivo della fortuna di guerra, su una classe particolare di contribuenti, costringendoli a ricevere un reddito invariato in moneta via via scadente nella sua potenza di acquisto e quindi un reddito reale sempre decrescente, mentre tutte le altre classi sociali, fatte pochissime eccezioni, ottenevano, anche le meno fortunate, come quella dei pensionati, aumenti di reddito più o meno notevoli, questa necessità più non esiste oggi e quindi sarebbe scorretto mantenere una legislazione, la quale permanentemente imponesse un tributo particolare ad una sola categoria di contribuenti. Continuare invero a ricevere 100 lire quando il valore delle 100 lire si è ridotto a 50 e poi a 30 lire di prima, equivale a subire un’imposta speciale a favore delle altre categorie di cittadini il cui reddito, ossia la cui partecipazione al flusso di ricchezza attualmente prodotta nel paese, si accresce proporzionalmente di quanto diminuisce la porzione spettante ai proprietari di case. Il che è, anche dal punto di vista della giusta ripartizione delle imposte, tanto più scorretto in quanto sul medesimo reddito lordo pecuniario sono venute a gravare imposte crescenti e spese di amministrazione, riparazione, assicurazione, pur esse aumentate in misura gravissima.

 

 

Fa d’uopo graduare gli aumenti in modo che, al momento della liberazione completa della casa, non ci sia un distacco troppo forte fra i fitti vincolati ed i fitti liberi.

 

 

In secondo luogo la necessità di concedere un aumento graduale delle pigioni durante il periodo residuo di vincolo, deriva dalla ragione per la quale la Commissione ritiene di dover abbandonare la data unica del 31 luglio 1921. Trattasi di evitare dei salti bruschi, di passare dal regime di vincolo a quello della libertà gradatamente, senza che d’un tratto le pigioni abbiano ad aumentare moltissimo con grave scompiglio nelle economie private. Ciò non si può ottenere se non concedendo graduali aumenti di fitto, così ordinati che al momento della liberazione delle successive categorie di pigioni, queste si trovino già elevate ad un livello che su per giù non sia troppo diverso ed inferiore a quello che si determinerebbe in condizioni di libertà.

 

 

Il fatto degli aumenti di fitto realmente avvenuti incoraggerà alla costruzione.

 

 

Aggiungasi finalmente che il problema del regime delle pigioni per le case vecchie, già costrutte, non può scompagnarsi dal problema delle nuove costruzioni ed è vano sperare che queste ultime si sviluppino per iniziativa privata, nel modo largo che sarebbe desiderabile, se i costruttori di case nuove, dalla esperienza effettiva di una graduale smobilitazione e di un graduale aumento di fitti non siano fatti persuasi che essi potranno ricavare dal loro capitale una rimunerazione sufficiente finché durano i vincoli. Pochissimi costruttori privati si azzardano a costruire, salvo quando siano sicuri di poter rivendere immediatamente in blocco o ad appartamenti le case costruite, perché sempre temono e non a torto, che un nuovo decreto venga ad estendere alle case loro i vincoli stabiliti per le case vecchie.

 

 

Poco giovano le promesse, anche solennemente fatte dal governo, poiché il privato costruttore non ha fiducia nella stabilità dei ministeri e nella continuità della loro opera legislativa. Solo il fatto visto e toccato con mano, solo l’esistenza di un mercato libero delle pigioni, via via formatosi per la smobilitazione graduale delle case può persuadere i costruttori che sul serio l’epoca vincolistica è passata e che essi si possono consacrare con animo sicuro alle costruzioni.

 

 

Il dissenso sull’epoca della liberazione e sull’ammontare degli aumenti; opinione dei rappresentanti dei proprietari di case.

 

 

Fin qui unanime era il consenso della Commissione. I dissensi cominciarono quando si trattò di tradurre in cifre ed in date i criteri generali ora spiegati.

 

 

Qui sotto si riassumono in una tabella i risultati a cui le due tendenze giunsero dopo lunghi, approfonditi e sereni dibattiti.

 

 

DATA

di inizio dei periodi

Aumenti progressivi per classi di alloggio

I

II

III

IV

Tendenza economica:        
1 luglio 1920

libertà

60%

50%

40%

1 luglio 1921

libertà

60%

50%

1 luglio 1922

Libertà

60%

1 luglio 1923

libertà

Tendenza politico sociale:

1 luglio 1920

40%

1 luglio 1920 o 1 gennaio 1921

25%

15%

10%

1 luglio 1921

libertà

1 luglio 1921 o 1 gennaio 1922

35%

25%

20%

1 luglio 1922 o 1 gennaio 1923

libertà

libertà

30%

1 luglio 1923 o 1 gennaio 1924

libertà

 

 

I rappresentanti delle associazioni dei proprietari chiesero che per la prima categoria (fitti superiori a 6.000, 4.000, 2.400 e 1.800 lire per le diverse classi di città), fosse immediatamente consacrata la libertà di contrattazioni fin dall’1 luglio 1920. Per la seconda categoria di pigioni chiesero un aumento del 60% a partire dall’1 luglio 1920 e la libertà a partire dall’1 luglio 1921. Per la terza categoria l’aumento chiesto fu del 50% all’1 luglio 1920 con un successivo 10% a partire dall’1 luglio 1921 e la libertà a partire dall’1 luglio 1922. Per la quarta categoria dei minimi (fino a 1.500, 1.000, 620 e 450 lire) nelle quattro classi di città essi chiesero un aumento del 40% a datare dall’1 luglio 1920 ed un successivo 10% all’1 luglio 1921 con altrettanto di aggiunta all’1 luglio 1922 e la libertà all’1 luglio 1923.

 

 

Suffragarono i rappresentanti delle associazioni di proprietari la loro richiesta con queste ragioni: non esservi alcun motivo perché agli inquilini delle case aventi i valori massimi, inquilini i quali si trovano presumibilmente in una condizione sociale ed economica assai elevata, debba essere concessa la facoltà di profittare ulteriormente, per un anno e mezzo dopo che di fatto è ritornata la pace, del regime di vincolo imposto per ragioni di guerra. Trattasi in questo caso di rapporti fra classi sociali consimili. Non esservi motivo perché inquilini, talvolta ed anche nell’opinione dei sostenitori di questa tesi, per lo più notevolmente più ricchi dei loro proprietari, abbiano a fruire di reddito a loro non spettante ed a cagionare un ingiusto danno ai proprietari di case, costretti ad un reddito monetariamente eguale o di poco cresciuto e sostanzialmente assai inferiore a quello di prima. Essere finalmente necessario ed opportuno nell’interesse collettivo, che le pigioni della prima categoria abbiano ad aumentare anche moltissimo, duplichino o triplichino o fors’anche crescano in una misura superiore. Essere questa la condizione necessaria affinché gli inquilini della prima categoria si decidano a restringersi ed a far posto a coloro i quali appartengono alle categorie inferiori.

 

 

Riconoscono i rappresentanti dell’associazione dei proprietari che gli aumenti delle pigioni in regime di libertà limitata a questa categoria sarebbero fuori di ogni proporzione con l’aumento che si verificherebbe sul mercato se tutte le categorie di case fossero contemporaneamente smobilitate, perché, essendo pochissime le case appartenenti alla prima categoria, di queste vi sarà una grande ricerca, così da spingerne molto all’insù il prezzo; ma affermano che questo appunto è necessario, sia per indennizzare molto parzialmente i proprietari delle perdite subite in passato e di quelle a cui saranno assoggettati in avvenire per le pigioni di valore inferiore, sia e soprattutto per costringere gli inquilini ad uno spostamento su scala rilevante ed a far vuoti utilissimi a rimediare alla crisi delle case.

 

 

Quanto agli aumenti richiesti per le altre categorie e che giungono ad un massimo del 60% all’1 luglio 1920, 1 luglio 1921 e 1 luglio 1922 rispettivamente per la seconda, terza e quarta categoria, essi ritengono di essersi mantenuti molto miti nelle loro richieste, in quantoché un aumento massimo del 60% ottenuto gradatamente per l’ultima categoria in tre anni è di gran lunga inferiore a quello che dovrebbe essere consentito dalla svalutazione della moneta. Il fitto pagato dagli inquilini, anche aumentato del 60% avrà un valore sempre inferiore alla metà di quello originario antebellico, contrattato in moneta buona. Essi si sono limitati a chiedere un aumento del 60% sia perché riconoscono quali sono i doveri della proprietà nell’agitato momento presente, sia perché sono persuasi che la mancanza di case non sia così acerba come oggi si crede e che per la grandissima maggioranza delle case, che sono quelle modeste o minime, l’aumento delle pigioni in regime di libertà non sarà mai quello che sarebbe proporzionato alla svalutazione della moneta. Questa consentirebbe ed imporrebbe aumenti del 200 e più per cento, così come accadde per la massima parte delle altre merci; nella realtà non potendosi contrarre l’offerta delle case come si contrae la produzione delle altre merci, secondo ogni probabilità l’aumento di fitto che si verificherà in regime di libertà sarà molto inferiore a quello determinatosi per le altre merci. Giova sperare inoltre che quando la smobilitazione sarà completata la lira siasi rivalutata con una saggia politica tributaria e monetaria. Sarebbe perciò antieconomico chiedere aumenti superiori a quelli dinanzi esposti, ove essi non potessero poi essere mantenuti in regime di libertà.

 

 

Pregiano finalmente i rappresentanti dei proprietari più che l’aumento della pigione il diritto alla libera disposizione della cosa propria. Il regime vincolistico li offende e li danneggia sovrattutto perché essi non sono in grado di fare nelle case proprie tutte quelle variazioni le quali sono richieste dalla convenienza di modificare la struttura degli appartamenti per adattarli alle esigenze nuove e dall’opportunità di mutare in qualche parte la composizione dell’inquilinato quando per ragioni evidenti di moralità o di convivenza, la permanenza di qualcheduno degli inquilini nella casa non sia più consigliabile.

 

 

Sanno che ogni riparazione oggi è impossibile nelle case, perché il proprietario non può sostenere le enormi spese di tal genere con proventi fissi; e sono certi che gli aumenti chiesti sono appena appena sufficienti a ridare ai proprietari un interessamento nella casa propria tale da incoraggiarli ad impedirne la progressiva dilapidazione. Ritengono perciò che gli aumenti chiesti siano ugualmente utili agli inquilini ed ai proprietari; e sostanzialmente ed alla lunga più ai primi ce ai secondi.

 

 

Ritengono infine che la data dell’1 luglio 1923 sia ragionevolmente lontana, potendosi prevedere che nei tre anni ancora a decorrere fino a quella data, si possa essere ritornati in condizioni normali nel mercato edilizio, essendo ormai in quel momento utilizzabile una massa notevole di case nuove, costruite dagli enti pubblici e dall’iniziativa privata ed avendo la liberazione delle case di categorie superiori fatto vuoti ragguardevoli e tali da consentire a tutta la popolazione di trovare collocamento.

 

 

Opinione dei rappresentanti degli inquilini e combattenti.

 

 

Ai due membri della Camera dei deputati non fu possibile di accedere all’opinione sopra espressa. Essi ritengono che un primo punto debba rimanere ad ogni modo fermo, ed è questo, che sino al 31 luglio 1921 non si abbia a mutare lo stato di diritto attualmente vigente. Essi ritengono bensì opportuno di mutare la data del 31 luglio, la quale appare a primo tratto non rispondente ad alcuna circostanza di fatto, in quella più ragionevole dell’1 luglio dello stesso anno, ma, fuori di questa piccola variante, deve rimanere fermo il diritto dell’inquilino a godere dell’appartamento ora abitato ed a non subire aumenti superiori a quelli consentiti dai decreti vigenti.

 

 

Non vale il dire, come osservarono a questo punto i rappresentanti dei proprietari, che anch’essi hanno diritto secondo i decreti vigenti, ad ottenere la piena disponibilità delle loro case al 31 luglio 1921 e quindi ad ottenere un compenso, con una anticipazione sulla data della smobilitazione per la prima categoria e con un aumento di pigione maggiore di quello sancito dai decreti vigenti per le altre categorie, al danno che essi subiscono dal ritardo frapposto alla smobilitazione delle categorie più numerose; non vale questo argomento, in quanto che il ritardo alla smobilitazione delle categorie seconda, terza e quarta al di là del 31 luglio 1921 è un ritardo imposto da necessità tecnica e da convenienza politica. La stessa classe dei proprietari di case si giova di questo ritardo e non può pretendere un compenso per ciò che in definitiva torna a essa di vantaggio. Affermato questo punto iniziale della necessità di mantenere fino all’1 luglio 1921 lo stato di diritto attualmente esistente, logiche ne derivano le conseguenze:

 

 

  • 1 – Per la prima categoria di pigioni i decreti vigenti consentono ed hanno consentito già un aumento del 20% e consentono a partire da due mesi dalla proclamazione della pace un ulteriore aumento del 20%. Diasi per questa prima categoria per semplicità e nettezza di posizione il diritto all’aumento del 40% sulla pigione vigente al 31 dicembre 1919 e diasi la libertà completa all’1 luglio 1921. Il 40% si calcoli sulle pigioni in corso al 31 dicembre 1919. Questa regola empirica ha per scopo di togliere ogni appiglio a contestazioni, pregio massimo di tutte le disposizioni le quali debbono essere stabilite per il passaggio alla libertà delle contrattazioni dovendo essere appunto quello, e ne sarà più ampiamente discorso in seguito, di togliere di mezzo per quanto sia possibile, qualsiasi materia di contestazione tra proprietario ed inquilino. Bisogna inoltre tener conto per questa prima categoria di case e per tutte le susseguenti che il governo, quando sancì il diritto ad un ulteriore aumento del 20% per la prima categoria e ad un primo aumento dal 10 al 20% per le altre categorie a partire dal sessantunesimo giorno dalla proclamazione della pace, aveva in mente una data di pace assai vicina. Previsione che non ebbe a verificarsi, con danno grave della classe dei proprietari; ma il danno già subito non autorizza ad aggravarlo – sono ben pronti per spirito di giustizia a riconoscerlo i rappresentanti degli inquilini – con un prolungamento al di là dell’1 luglio 1920 o 1 gennaio 1921 del divieto di aumento. In confronto alle intenzioni del legislatore i proprietari con la fissazione della data dell’1 luglio 1920 o 1 gennaio 1921 come inizio degli aumenti sono certamente danneggiati. Ma essi vorranno sopportare il danno in ragione dello scopo politico-sociale da raggiungere;
  • 2 – Per le altre tre categorie di pigioni deve rimanere fermo il principio che, oltre alla proroga sino all’1 luglio 1921, debba essere concessa almeno una ulteriore proroga di un anno per la seconda e terza categoria e due altre proroghe di un anno ciascuna per la quarta categoria più numerosa;
  • 3 – Per la seconda categoria di case, l’inquilino debba avere il diritto di rimanere nell’appartamento locato per due anni ancora in regime di vincolo, a partire dal giorno della pace legale. Se questo giorno sia determinato in una data posteriore al 30 giugno 1920 i due anni comincino dall’1 gennaio 1921. Per il primo anno di proroga l’aumento è fissato nel 25%; per il secondo anno si conceda un ulteriore 10%.

 

 

Le case appartenenti a questa seconda categoria diventino libere al più presto all’1 luglio 1922 ed al più tardi all’1 gennaio 1923 a seconda che il giorno della pace legale sia determinato in una data non posteriore o posteriore al 30 giugno 1920. Lo stesso regime sia stabilito per la terza categoria con questa sola differenza, che il primo aumento non potrà essere superiore al 15%, rimanendo fermo il secondo in un ulteriore 10%.

 

 

La data della liberazione delle case appartenenti alla seconda ed alla terza categoria si stima opportuno sia la stessa, in quanto sostanzialmente trattasi di case abitate dalla medesima classe sociale, con qualche leggera variante di reddito e non si ritenne opportuno che troppo in là dovesse andare la smobilitazione completa.

 

 

Per la quarta categoria l’aumento sia del 10% per il primo anno di proroga, del 20 per il secondo anno e del 30 per il terzo anno di proroga. Le case spettanti a quest’ultima categoria ridiventino libere al più presto il 10 luglio 1923 od al più tardi l’1 gennaio 1924 a seconda della data della pace legale. In ogni caso l’indicazione delle date primo luglio e primo gennaio non ha mai valore tassativo, non essendo opportuno di sostituire date arbitrarie a quella consuetudinaria vigente nelle diverse città italiane. Come già si fece nei decreti precedenti, alle date dell’1 luglio e primo gennaio si intendono sostituite per le città dove gli sloggi avvengono ad epoche consuetudinarie quella immediatamente anteriore o posteriore, a seconda che l’una o l’altra sia la più vicina.

 

 

Le conclusioni a cui giunsero i due membri della Camera dei deputati sono dunque diverse da quelle degli altri due membri della Commissione, in quanto allontanano da sei mesi ad un anno la data della smobilitazione delle diverse categorie di case ed in quanto invece di arrivare al massimo di aumento del 60%. arrivano a massimi variabili ma tutti sensibilmente inferiori. Essi ritengono di apporsi al vero quando affermano che non sarà possibile il ritorno a condizioni normali così velocemente come d’altra parte si augura, e ritengono che ragioni evidenti di politica sociale consiglino al governo di non concedere inizialmente, ossia per il primo anno dopo la data della pace legale od al massimo dopo l’1 gennaio 1921 aumenti sostanzialmente diversi da quelli stabiliti nei decreti vigenti. I decreti vigenti consentono il 40% per la prima classe e dal 10 al 20% per le altre classi. Questi medesimi aumenti è necessario conservare sia pure precisando il secondo che ha carattere arbitrario e può dar luogo a dispute utilmente evitabili, in aumenti fissi di diritto del 25,15 e 10% per la seconda, terza e quarta categoria.

 

 

La media di queste tre cifre, tenuto conto del fatto che la quarta categoria è quella di gran lunga più numerosa, e ha quindi un peso massimo nella formazione della media, può presumersi appunto eguale a quel 15% che sta di mezzo fra, il 10 ed il 20%.

 

 

Posto questo punto di partenza, è sembrato, sempre per ragioni di carattere sociale, utile di non eccedere percentuali successive del 10%.

 

 

Ingiustizia della proposta relativa ai fitti minimi, secondo i rappresentanti dei proprietari.

 

 

Contro una di queste proposte in ispecial modo i rappresentanti delle associazioni dei proprietari elevarono formale protesta ed è quella che limita al 10% il primo aumento per i fitti minimi della quarta categoria. Osservarono che dessa viola il diritto acquisito dai proprietari di ottenere un aumento che può andare dal 10 al 20%; e lo viola in confronto della classe più disgraziata dei proprietari; spesso i proprietari meno ricchi e sempre quelli che dalla guerra ebbero i maggiori danni. Poco giova a questi che i loro colleghi abbiano subito aumenti del 15 e del 25%; essi debbono contentarsi di un 10%, neppure sufficiente a fronteggiare il solo crescere dei pesi tributari. Ingiustizia più stridente di questa, male potrebbe essere immaginata.

 

 

Ma i rappresentanti degli inquilini non si arresero a queste ragioni, di cui non disconoscono la giustizia astratta sembrando ad essi prevalente la ragione politico – sociale del provvedimento. Un certo distacco deve essere riconosciuto tra le varie classi sociali nella capacità di sostenere aumenti di fitto; e del resto, come già si disse sopra, i tre aumenti del 10, del 15 e del 25% proposti per le tre categorie di case sono la media ponderata di quell’aumento incerto dal 10 al 20% che il legislatore oggi stabilisce.

 

 

Opinione del quinto membro della Commissione.

 

 

Il presidente della Commissione e relatore essendosi trovato forzatamente nella condizione di dover egli decidere il punto di discussione, crede suo dovere di affermare nettamente che, dal punto di vista economico, le argomentazioni dei due rappresentanti delle associazioni dei proprietari di case gli paiono ineccepibili. A parer suo la risoluzione della questione dell’abitazione si sarebbe ottenuta più velocemente qualora si fosse immediatamente concessa la liberazione per le pigioni della prima categoria e qualora aumenti non troppo esigui fossero stati fissati per le successive categorie.

 

 

Gli aumenti richiesti dai proprietari di case nella misura massima del 60% non sono in realtà aumenti, ma semplici e parziali ricuperi delle perdite finora subite. Se 100 era la pigione del 1914, quando 100 lire equivalevano a 100 lire in oro, dell’oro antebellico, le 100 lire del 1920 possono tutt’al più ritenersi uguali a 25-30 centesimi di lire oro, al valore dell’oro post – bellico, il che forse equivarrà a 12-15 centesimi in oro ante-bellico. Quindi i proprietari, chiedendo un aumento del 60% in realtà si contenterebbero di riscuotere forse 20 lire vecchie corrispondenti a 160 lire nuove. È meglio di quelle 13 lire vecchie che, sotto colore di riscuotere 100 lire nominali, in realtà percepiscono oggi; ma il loro resta pur sempre fra tutti il reddito più falcidiato sostanzialmente dalle vicende monetarie della guerra. Egli ritiene che i proprietari si sarebbero messi in una posizione ancora più incrollabile dal punto di vista economico, sebbene ad essi più vantaggiosa, se avessero dichiarato di contentarsi di fitti uguali appena ad una quota parte, al 90%, all’80%, al 70% ed al 60% dei fitti ante-bellici, purché pagati nella moneta stessa usata prima della guerra. Essi avrebbero messo in luce che in realtà la loro richiesta non è di un aumento, bensì di una diminuzione di perdita, in confronto dei fitti antichi. Il sistema, sebbene forse complicato, avrebbe giovato a mettere a nudo il fenomeno realmente avvenuto.

 

 

Ma questo, sebbene rilevantissimo, non è neppure il fattore più rilevante da prendere in considerazione.

 

 

Nella disputa tra proprietari di case ed inquilini egli ritiene che siano soprattutto degni di considerazione gli inquilini nuovi che non trovano casa. Sono questi i veri paria del momento presente dal punto di vista edilizio. Sono i funzionari senza casa, quelli i quali sono costretti a lasciare la famiglia con grandissimo dispendio nella città da cui sono stati traslocati, mentre essi vivono una vita raminga e meno comoda da soli nella città in cui prestano la loro opera. Sono i componenti le nuove famiglie quelli che sono degni di massima considerazione e non trovano ad alloggiarsi da nessuna parte. A nulla gioveranno per risolvere il problema di questi paria gli espedienti di requisizione e di tesseramento da varie parti immaginati; unico mezzo efficace è di promuovere le costruzioni nuove, di cui si discorrerà in seguito, o costringere gli inquilini vecchi a spostarsi verso abitazioni più ristrette, così da far posto ai sopra venuti. Ma per costringere gli inquilini vecchi a fare del vuoto occorre affrettare la smobilitazione delle case, almeno per le categorie più elevate e stabilire aumenti che senza raggiungere il livello consentito dalla svalutazione della lira, possano essere di qualche spinta alla ridistribuzione degli appartamenti in ragione dei redditi dell’inquilino.

 

 

Ragione della sua adesione alla tesi politico-sociale.

 

 

Tuttavia, dopo matura considerazione, egli ha finito per accedere all’opinione dei due membri della Camera dei deputati, tenendo conto delle ragioni di indole politica e sociale che li hanno mossi e sovratutto dalla opportunità di ripristinare il rispetto alla legge vigente, qualunque essa sia. Il diritto vigente, in base ai decreti vincolistici, porta, come ben osservarono i membri della Camera dei deputati, ad una legittima aspettativa degli inquilini all’alloggio attualmente occupato, fino al 31 luglio 1921, sulla base di aumenti moderati del 10-20% per la seconda, terza e quarta categoria e del 40% per la prima categoria. Poiché questo è il diritto vigente, deve essere osservato. Potranno stabilirsi piccole varianti nelle aliquote di aumento e quella leggera mutazione dal 31 all’1 luglio che fu sopra accennata; ma in massima è necessario che il ritorno alle condizioni normali ed al rispetto del diritto civile ordinario avvenga rispettando altresì quelle norme eccezionali che si credette opportuno di emanare i tempi difficili.

 

 

Il rispetto alle norme vigenti è una condizione necessaria per togliere cagione di dispute, ricorsi a commissioni, ecc. Egli reputa che qualunque sacrificio della classe dei proprietari sia poca cosa in confronto al beneficio che alla collettività deriva e si ripercuote poi vantaggiosamente sulla medesima classe proprietaria, della soppressione delle cause di ricorso a magistrature incompetenti, fastidiose e creatrici di molti più inconvenienti di quelli a cui esse possono rimediare.

 

 

La legislazione vincolistica fu, a suo parere, anche in tempo di guerra, un errore gravissimo, i cui danni furono previsti e diventarono col tempo sempre più gravi ed insopportabili. Meglio sarebbe stato prendere, in talune circostanze peculiarissime, provvedimenti speciali per i profughi; ma non turbare un regime capace di risolvere, attraverso momentanee crisi, il problema delle abitazioni. Oggi però che il male è stato commesso, si deve riconoscere che, se la tesi economica è ineccepibile, ad essa sovrasta la necessità di ritornare al regime normale della libertà delle contrattazioni, senza sovvertire una altra volta ed in senso inverso il diritto vigente, sia pure dannosamente vigente. Egli accede perciò alla tesi politico-sociale perché alla lunga il rispetto al diritto gli sembra ancora la soluzione meglio ispirata al vantaggio della collettività.

 

 

Applicazione dei concetti suesposti nello schema precedente.

 

 

Gli articoli dall’1 al 7 del progetto di decreto traducono in formula legislativa le norme la cui ragion d’essere è stata sopra spiegata.

 

 

L’art. 8 riafferma un principio il quale è stato sempre mantenuto fermo, per cui le case nuove non sono soggette ai decreti vincolistici; la libertà per le nuove costruzioni è necessaria affinché i costruttori possano sentirsi incoraggiati ad una ripresa edilizia.

 

 

L’art. 9 ha per scopo di evitare, per quanto sia possibile, le cagioni di contestazione, stabilendo norme di diritto applicabili per virtù di legge a meno che l’inquilino non voglia risolvere il contratto di locazione non tenendo conto del diritto alla proroga che gli sarebbe concesso.

 

 

Subaffitti, tesseramento, requisizioni di case vuote. Materia estranea al compito della Commissione.

 

 

La Commissione non ha creduto, pur avendo in merito lungamente discusso, che fosse suo compito di fare proposte intorno ai subaffitti, al tesseramento ed alla requisizione delle case vuote. Molte proposte vennero fatte in senso contradditorio da varie parti intorno a questi argomenti. Si chiede dagli uni che venga concesso a tutti gli inquilini il diritto di subaffitto di parte del proprio appartamento, anche quando nel contratto di locazione sia iscritto il divieto di subaffitto; da altri si chiede invece che il diritto di subaffitto sia abolito anche là dove esso è contrattualmente permesso. Ambe le parti ritengono con le proposte di giovare a mettere sul mercato una maggior quantità di locali, gli uni in quanto gli inquilini che ora vorrebbero subaffittare e non possono, sarebbero disposti a privarsi del godimento di una parte dei loro locali; gli altri in quanto ritengono che una causa precipua del rialzo delle camere mobiliate sia la speculazione degli intermediari, la quale cerca di appropriarsi appartamenti vuoti, li provvede di modesto mobilio, ne innalza il prezzo di subaffitto sia palesemente, sia colla forma larvata della vendita del mobilio.

 

 

La Commissione ha ritenuto di doversi mantenere entro i limiti del compito che le fu assegnato dal decreto istitutivo, compito il quale consiste nella ricerca dei provvedimenti opportuni ad agevolare e sollecitare la risoluzione dell’attuale crisi delle abitazioni e degli alloggi. Essa ritiene perciò che l’aggiungere nuovi vincoli, in qualsiasi senso, alla libertà delle contrattazioni, non possa se non prolungare l’attuale periodo di crisi ed allontanare quel ritorno alla libertà delle contrattazioni che deve essere considerata la meta della legislazione che essa ha l’incarico di suggerire.

 

 

Qualunque norma fosse escogitata per regolare i subaffitti imporrebbe nuovi vincoli, nuovi interventi da parte dell’autorità governativa o comunale o dei commissari degli alloggi, trasformazione del sistema di rapporti diretti fra proprietari ed inquilini in un sistema di rapporti soggetto ad una regolamentazione minuta da parte delle pubbliche autorità. Queste dovrebbero intervenire per assicurarsi che la facoltà del subaffitto non sia esercitata dall’inquilino in guisa dannosa al proprietario, sia consentendo l’accesso alla casa a persone le quali non presentino le dovute garanzie di solvibilità e di moralità, sia permettendo un sopra affollamento nocivo all’igiene ed alla buona manutenzione dello stabile.

 

 

Né, si potrebbe togliere il divieto del subaffitto ammettendo però che l’inquilino possa subaffittare a persone benevise al proprietario, in quanto che o il proprietario può rifiutare il suo consenso senza motivazione ed allora ricadiamo nel divieto del subaffitto, o egli è tenuto alla motivazione ed allora resta a lui praticamente impossibile dimostrare dinanzi al magistrato il fondamento dell’opposto rifiuto. Anche quando, per informazioni ottenute, la moralità e le qualità personali del subinquilino sono tali da sconsigliare il consenso, il proprietario non potrebbe pubblicamente esporre i motivi del suo rifiuto, sia perché per lo più le prove evidenti dell’immoralità mancano, sia perché troppo grave è il rischio a cui egli andrebbe incontro di vedersi trascinato in giudizio con querele e controquerele di ingiuria e diffamazione.

 

 

La Commissione ritenne che una delle garanzie principalissime per il ritorno a condizioni normali sia la riduzione al minimo delle cause di contestazione giudiziarie intorno agli affitti, e pur non dando alcun giudizio intorno alla questione dei subaffitti, ritenne che l’intervento dello stato in tale materia non sia consono allo scopo che è stato prefisso ai suoi lavori. Del resto colla disposizione contenuta nell’articolo 4 lettera c, una smobilitazione dei locali detenuti da intermediari subaffittanti viene raggiunta, in quanto fin dall’1 luglio 1921 tutti gli appartamenti in eccedenza a quelli occupati dalla famiglia vengono ad essere liberi e restituiti alla normale contrattazione diretta fra proprietari ed inquilini.

 

 

Per questi stessi motivi la Commissione non ha creduto di dover fare proposte relative al tesseramento dei locali, cosi detti esuberanti al bisogno delle famiglie od alla requisizione dei locali vuoti o non sufficientemente abitati. Anche qui sarebbe stato d’uopo di affidare ad una autorità pubblica, in ipotesi al commissario agli alloggi, l’ufficio gelosissimo di giudicare intorno alla sufficienza ed esuberanza degli alloggi al bisogno delle singole famiglie. Nella pratica, qualunque norma si fosse voluto indicare al riguardo sarebbe stata contrastante con le abitudini sociali della maggior parte delle regioni e delle città d’Italia, le quali sono diversissime da luogo a luogo e da classe a classe. Necessariamente si sarebbe dovuto affidare un potere arbitrario al commissario agli alloggi e si sarebbero dovuti istituire commissari in ogni comune d’Italia, a cui sarebbe stato devoluto il compito gelosissmo dell’equa distribuzione degli abitanti nelle varie case. Invece di tendere verso un regime di libertà di contrattazione, il tesseramento avrebbe inasprito il regime vincolistico, avrebbe sostituito alla libera determinazione dei bisogni umani, a seconda dei gusti particolari, la determinazione d’autorità sulla base di criteri comuni e avrebbe reso pressoché impossibile la risoluzione del problema degli appartamenti.

 

 

Quanto alla requisizione dei locali vuoti o non sufficientemente utilizzati, la Commissione ritenne trattarsi di provvedimenti contingenti, non regolabili per via di norme generali, i quali caso per caso e con la maggior prudenza possono già essere presi in virtù della legislazione vigente delle pubbliche autorità. Non si ritenne che la generalizzazione di provvedimenti imposti dalle necessità urgenti possa in alcun modo giovare alla soluzione del problema delle abitazioni, la quale non può ottenersi se non colla restrizione volontaria da una parte del consumo e coll’aumentata offerta dall’altra di nuove case.

 

 

Botteghe, negozi, studi ed uffici. Non vi è motivo di prolungare lo stato di vincolo al di là dei termini stabiliti dalle leggi vigenti.

 

 

Accanto alle case destinate ad abitazione, i decreti vincolatori hanno emanato norme altresì in materia di locazione per le case ad uso di botteghe, negozi, studi ed uffici. In tutti questi casi la Commissione non ha ritenuto di poter scorgere motivo per prolungare lo stato di vincolo al di là del termine di tempo stabilito dai decreti vigenti. Mancano le ragioni di tutela delle classi meno agiate della popolazione contro il pericolo di improvvisi aumenti. Trattasi qui non di locali destinati alla vita famigliare, ma di strumenti ordinari dell’esercizio dell’industria, commerci e professioni esercitate a scopo di lucro. Non vi è perciò ragione di prolungare vincoli aventi motivi contingenti, al di là di quanto fu originariamente stabilito. Il prezzo del locale adibito ad un uso speculativo od economico giova sia stabilito liberamente fra le due parti contraenti in relazione alle variazioni del guadagno ricavabile dall’uso della casa locata. Gioverà la libertà delle contrattazioni di questi locali a restringerne eventualmente l’uso a quelli i quali sono assolutamente necessari per l’esercizio dell’industria, commercio e professione, così da fare qualche vuoto a favore dell’uso di abitazione.

 

 

Fu discusso, anche in occasione di memoriali giunti alla Commissione, intorno al cosidetto diritto alla proprietà commerciale, che vorrebbesi riconosciuto a favore dei negozianti, per quella parte dell’avviamento del negozio, che possa reputarsi dovuto all’opera e all’iniziativa del conduttore.

 

 

Ma la Commissione, oltrecché reputare il problema al di fuori della sua specifica competenza, deve riflettere che in tema di legislazione straordinaria sui fitti non si possa legificare su tal materia. Siamo in un periodo straordinario di perturbazioni monetarie, le quali rendono difficilissimo e quasi impossibile separare in un eventuale aumento di fitto di un negozio la parte dovuta all’avviamento da quella dovuta al ritorno al normale equilibrio dei prezzi. Se il fitto di un negozio venisse, in regime ristabilito di libertà delle contrattazioni, aumentato da 10.000 a 30.000 lire, è impossibile affermare che l’aumento sia dovuto all’avviamento, da chiunque creato, o non invece al ristabilimento dell’equilibrio dei prezzi, per cui le 30.000 lire nuove equivalgono, né più né meno, alle 10.000 lire di prima.

 

 

Epperciò crede la Commissione che il problema della proprietà commerciale sia uno di quei problemi, frequenti nel momento presente, intorno a cui non pure la legiferazione, ma persino lo studio debba essere rinviato all’epoca futura nella quale da qualche anno si sia ritornati alla libertà delle contrattazioni ed alla normalità monetaria. Altrimenti si rischia di sancire la spogliazione di una classe a vantaggio di un’altra, senza alcun beneficio per la collettività.

 

 

Si fa solo eccezione per gli studi degli smobilitati.

 

 

Una sola eccezione ritenne opportuno di fare la Commissione al ritorno della libertà delle contrattazioni all’1 luglio 1921 ed è quella contenuta al penultimo comma dell’articolo 4. Si propone cioè che venga rinviato all’1 luglio 1922 il termine per l’affitto degli studi dei professionisti smobilitati, i quali abbiano prestato servizio militare per almeno un anno fuori della città di loro abituale residenza.

 

 

Per questi professionisti smobilitati le condizioni invero in cui essi si trovano, risultano notevolmente differenti da quelle della maggior parte degli altri negozianti, industriali e professionisti. Questi hanno quasi sempre ottenuto dalla guerra vantaggi singolarissimi di reddito e sarebbe strano concedere, ad essi che hanno lucrato, un ulteriore beneficio di vincolo a danno dei proprietari di case i quali dalla guerra sono stati danneggiati. I professionisti smobilitati invece, ove dalla guerra siano stati costretti a risiedere in città diversa da quella di loro abituale residenza, hanno spesso perduto tutta o parte della loro clientela. Il periodo di ripresa nell’attività professionale è quindi per essi un periodo di prova e di difficoltà economiche. Giova che il trapasso dal regime di vincolo a quello della libertà di locazione dei loro studi non sia improvviso ed è per questo che la Commissione si è trovata unanime nel proporre il prolungamento del vincolo per un altr’anno al di là del limite ora consentito.

 

 

Il residuo arretrato di pigione degli inquilini smobilitati.

 

 

Una situazione degna di interesse è quella la quale esiste oggi per gli inquilini smobilitati i quali fruiscono dei vantaggi loro conferiti dal Regio decreto del 15 agosto 1919. L’inquilino capo di famiglia il quale abbia prestato servizio militare, aveva invero la facoltà di corrispondere soltanto una metà dei fitti per l’alloggio abitato fino a sei mesi dopo la cessazione del servizio militare. Il debito, per la metà non pagata, doveva poi essere estinto in rate mensili, non superiori ad un ventiquattresimo della somma totale, durante un periodo di due anni dalla scadenza dei sei mesi successivi alla cessazione dal servizio militare. L’inquilino stesso ha diritto, anche quando si sia giovato della concessione sopra indicata, a non vedersi aumentata la pigione attualmente corrisposta durante il periodo utile alla estinzione del debito di arretrati.

 

 

In seguito a queste disposizioni, una varietà grandissima di casi si è andata verificando nella pratica.

 

 

Alcune volte proprietari ed inquilini richiamati si sono accordati per ridurre senz’altro il fitto ad una quota superiore alla metà ed inferiore al totale, rinunciando il proprietario al diritto di riscuotere in avvenire la parte condonata. Negli altri casi invece in cui gli inquilini si giovarono della facoltà di ritardo, ed al ritorno di essi alla vita civile si iniziò regolarmente il rimborso degli arretrati. In altri casi ancora questo rimborso stenta ad effettuarsi. Qua e là sono sorte agitazioni di inquilini smobilitati allo scopo di ottenere il condono definitivo della parte di fitto non pagata, agitazioni le quali hanno trovato un’accoglienza svariata nella classe dei proprietari di case.

 

 

Da un lato si osserva che la beneficenza ad una categoria sociale, la quale pur ne sia meritevole, non si fa con denari di un’altra classe sociale all’uopo obbligatoriamente e singolarmente designata. Sovvenire ai bisogni degli inquilini richiamati ed ora smobilitati può essere socialmente utile, ma non ne discende logicamente la conseguenza che quest’opera di beneficenza sociale debba essere fatta dai singoli proprietari in misura diversissima tra essi, cosicché accade frequentemente che i proprietari più ricchi non siano chiamati a prestare nulla ed i proprietari più poveri, e qualche volta bisognosi e gravati d’ipoteche, siano chiamati a gravi sacrifici.

 

 

Il condono degli arretrati, se deve avvenire, dovrebbe aver luogo a carico dell’intera collettività dei contribuenti.

 

 

D’altro canto si osserva che il problema sta avviandosi verso la sua soluzione naturale. Molti inquilini hanno soddisfatto in tutto od in parte il loro debito; non sarebbe opportuno di creare oggi un’amministrazione speciale la quale dovesse provvedere al condono degli arretrati residui ancora da pagarsi a favore degli inquilini ed al rimborso degli stessi arretrati ai proprietari. Quest’amministrazione dovrebbe caso per caso indagare se i singoli inquilini si trovino in tale condizione economica da non poter effettivamente pagare gli arretrati, non concependosi evidentemente una carità fatta a spese dei contribuenti se non nei casi di assoluta necessità. L’indagine pere sarebbe difficilissima ed il costo probabilmente superiore ai vantaggi ottenuti.

 

 

Opportunità del condono del residuo non pagato, agli inquilini.

 

 

Sembra che in questo caso ci si trovi di fronte ad una di quelle situazioni dalle quali è opportuno di uscire con un taglio netto, anche se il taglio possa nuocere agli interessi della classe dei proprietari. Questa ne sarà avvantaggiata in generale col ristabilimento di normali rapporti tra inquilini e proprietari e con la eliminazione di una causa perturbante di contese e di acri recriminazioni sul passato.

 

 

In tal caso tuttavia gli inquilini debbono rientrare nel regime normale degli altri inquilini. Facoltà di opzione ad essi lasciata.

 

 

Tuttavia se agli inquilini venga concesso il condono degli arretrati ancora da pagarsi, manca la ragione per la quale essi debbano conservare il godimento di un altro privilegio quale è quello del diritto ad una pigione immutata durante il periodo utile all’estinzione del debito degli arretrati. Condonato il debito, essi ritornano alla condizione generale in cui si trovano tutti gli inquilini e non vi è ragione che non debbano correre le sorti comuni di tutti, godendo unicamente dei vantaggi delle proroghe che saranno sancite in generale a favore degli inquilini, a seconda delle città e delle classi di abitazione a cui appartengono. Unanime perciò si è trovata la Commissione nel proporre che gli inquilini smobilitati, i quali godono dei vantaggi loro conferiti con Regio decreto del 15 agosto 1919, n. 1.440, abbiano una facoltà di scelta:

 

 

  • a) fra l’abbuono totale delle quote di fitto non corrisposte durante il servizio militare, rinunciando in questo caso alle misure di favore stabilite dall’articolo 5 del succitato decreto (divieto di aumento della pigione durante il periodo di estinzione del debito di arretrati), ovvero:
  • b) il mantenimento di queste misure di favore con l’obbligo di pagare le quote arretrate di fitto.

 

 

L’inquilino potrà cioè scegliere liberamente quella delle due alternative che gli paia più conveniente. Se egli non vuole pagare più gli arretrati saprà di rimettersi nella condizione generale di tutti gli inquilini, se egli preferisce di conservare il privilegio dell’inamovibilità del suo alloggio a pigione invariata, dovrà pagare gli arretrati.

 

 

Il condono riguarda solo l’avvenire e gli smobilitati le cui famiglie godessero del sussidio governativo.

 

 

S’intende che la norma indicata riguarda soltanto gli arretrati ancora da pagarsi. Quelli che in passato furono già versati rimangano acquisiti senz’altro ai proprietari. S’intende ancora che il condono degli arretrati deve andare a favore soltanto degli inquilini smobilitati, i quali abbiano realmente bisogno del beneficio; e per evitare contestazioni complicate, la Commissione ha ritenuto di proporre che indice del diritto ad avere il condono degli arretrati sia il fatto, facile a constatarsi, che le famiglie dell’inquilino stesso abbiano percepito il sussidio governativo concesso alle famiglie dei richiamati sotto le armi. Data la larghezza con la quale i sussidi furono concessi, è evidente che gli inquilini la cui famiglia non ha potuto fruire del sussidio governativo, non possono vantare diritti ad un condono di arretrati che essi sono in grado di pagare.

 

 

Le case occupate dagli stranieri; e decisione di non variare per esse il diritto comune.

 

 

Tra le proposte ricevute dalla commissione vi è anche quella che dovessero liberarsi immediatamente, il che per noi avrebbe avuto il significato di collocamento nella prima categoria delle abitazioni da liberarsi all’1 luglio 1921, le abitazioni occupate da stranieri. Mancano, si osservava, le ragioni di politica interna le quali hanno consigliato di imporre vincoli alle abitazioni; mancano altresì per lo più le condizioni di disagio economico dell’inquilino che avrebbe reso troppo duro un balzo improvviso del fitto. A causa della svalutazione della lira sui mercati internazionali, gli stranieri possono oggi pagare i fitti vincolati ed espressi in lire, con una quantità di moneta straniera, spesso notevolmente inferiore a quella sulla quale essi avevano fatto i loro calcoli originari.

 

 

La Commissione però, pur non negando valore a queste argomentazioni, ritenne di non poter far sua la proposta. Essa contrasta troppo alla tradizione italiana di parificazione fra cittadini e stranieri, che è vanto nostro di aver introdotto e conservato. Non giova aggiungere nel dopoguerra nuove cause di dissapore fra i popoli che si vorrebbero riuniti insieme da nuovi vincoli di fratellanza. È difficile inoltre distinguere tra forestieri di passaggio, i quali potrebbero pagare fitti aumentati e che del resto li pagano per lo più vivendo in camere d’albergo, e stranieri da lungo tempo residenti nel nostro paese ed ivi aventi l’esercizio di industrie o di commercio, i quali si trovano nelle medesime condizioni economiche di tutti gli altri cittadini italiani.

 

 

Il diritto del proprietario ad abitare nella casa propria.

 

 

Contrastanti sono altresì le richieste le quali furono fatte in merito alla questione dibattutissima del diritto del proprietario a recarsi ad abitare in casa propria.

 

 

Secondo i decreti vigenti (art. 3 del decreto luogotenenziale 29 (rectius 27) marzo 1919, n. 370) il locatore non può opporsi alla proroga a meno che non possa dimostrare di aver necessità di adibire la casa per abitazione propria o non concorrano altre speciali e gravi circostanze le quali giustifichino il suo diniego.

 

 

La maggioranza della Commissione non ha ritenuto di poter variare la dizione di questa norma, la quale quindi è riprodotta testualmente nel primo comma dell’art. 10.

 

 

Intorno a questa norma già si è venuto intessendo una speciale giurisprudenza variabile a secondo delle città e che la Commissione a maggioranza ritenne di non dover pregiudicare con una variazione anche soltanto formale della norma.

 

 

La norma speciale per la città di Roma per gli acquisti posteriori all’1 aprile 1919.

 

 

Ossequente però al suo principio di evitare, per quanto sia possibile, le ragioni di contestazione e di dubbio, la maggioranza della Commissione ritenne essere opportuno trarre partito, non però nello stesso senso, e con le stesse conseguenze, da una norma la quale fu già parzialmente adottata nella città di Roma. Per questa fu fissata la data dell’1 aprile 1919, a partire dalla quale i nuovi proprietari non hanno più diritto di richiedere di adibire la casa per abitazione propria, anche quando siano in grado di dimostrarne la necessità. Il legislatore ritenne che in questo caso non si trattasse più di una contesa fra proprietario ed inquilino, ma tra inquilino residente nell’alloggio e inquilino nuovo desideroso di entrarvi e disposto a pagare, invece di un fitto annuo al proprietario, un prezzo d’acquisto dell’appartamento medesimo. Posta così la questione, il legislatore ritenne che per la città di Roma fosse conveniente garantire i vecchi inquilini contro l’occupazione della loro casa da parte di nuovi inquilini fattisi acquirenti dell’appartamento.

 

 

La Commissione non ritenne di estendere a tutta l’Italia il principio accolto per Roma, in quanto per le altre città l’acquisto degli appartamenti, fatto prevalentemente allo scopo di cacciar via un inquilino con un altro inquilino non assunse un’intensità degna di nota ed anche in quelle città in cui le case si vendono ad appartamenti come nella Riviera ligure, non pare che vi sia stata una intensificazione particolare di questi acquisti.

 

 

Opportunità di precisare le condizioni di necessità per coloro che erano proprietari innanzi all’1 aprile 1919.

 

 

La data però dell’1 aprile 1919 parve, come tale, utile a fermarsi allo scopo di meglio chiarire quali sono le condizioni di necessità le quali possono costringere il proprietario di adibire la casa per abitazione propria. Questa condizione di necessità è assai difficile ad essere definita, e molto variabile fu la pratica delle commissioni arbitrali in tale argomento. Talvolta bastò che il proprietario non avesse più a disposizione un alloggio confacente alle mutate condizioni di famiglia per ottenere dalla Commissione arbitrale la facoltà di andare ad abitare nella casa propria; tal altra non fu possibile di ottenere tale consenso neppure quanto si dimostrò che il proprietario non aveva alcun appartamento disponibile in cui abitare, sia per essere egli stato cacciato dalla casa in cui risiedeva, sia per essere stato traslocato da altro luogo o ritornato dal servizio militare nella città in cui possedeva la casa. Accadde persino che proprietari di case i quali avevano affittato il proprio appartamento perché richiamati al servizio militare non poterono, dopo aver onoratamente servito il paese e qualche volta riportato ferite od aver ottenuto distinzioni militari, rientrare nella casa propria per l’ostinato rifiuto dell’inquilino ad andarsene, pur nei casi nei quali era stato chiaramente stipulato tra i due interessati che l’affitto avrebbe dovuto durare soltanto nelle more del servizio militare, sicché l’ex – combattente, nella città sua, in cui possedeva casa, dovette andarsene ramingo per gli alberghi od in camere mobiliate.

 

 

Voto della maggioranza della Commissione.

 

 

La Commissione ritenne perciò che per i proprietari, i quali possedevano la casa dall’1 aprile 1919, fosse utile specificare meglio le speciali e gravi circostanze indicate già nei decreti vigenti, le quali possono dargli diritto ad adibire la casa per abitazione propria ed è per questo motivo che nel secondo comma dell’articolo 10 si indicarono fra queste circostanze i mutamenti dello stato civile, nella costituzione della sua famiglia, nell’attività professionale, nel luogo del lavoro e nelle peggiorate condizioni economiche del locatore. Il proprietario potrà anche altrimenti dimostrare il suo stato di necessità ed addurre altre speciali e gravi circostanze, le quali confortano il suo proposito di recarsi ad abitare in casa propria. Parve opportuno però mettere in special rilievo alcune fra queste circostanze le quali necessariamente debbono essere prese in considerazione, e ritenute tali da legittimare la richiesta del proprietario, salvo sempre l’apprezzamento dei casi singoli da parte del magistrato.

 

 

Naturalmente il proprietario, che era tale prima dell’1 aprile 1919, può, quando il contratto di affitto sia scaduto, far valere le circostanze indicate, allo scopo di ottenere di potersi recare ad abitare nella casa propria, contro qualunque inquilino, anche quando questi avesse locato la casa da un più antico proprietario, usufruttuario od altro avente diritto da cui però la proprietà fosse passata all’attuale proprietario prima dell’1 aprile 1919.

 

 

Per coloro i quali diventarono acquirenti della casa a partire dall’1 aprile 1919, si deve ammettere esistesse già la conoscenza al momento dell’acquisto non solo dei decreti limitatori, ma anche delle gravi difficoltà che la giurisprudenza, opponeva ai nuovi acquirenti ad occupare la casa propria. Quindi per essi rimanga invariato il diritto vigente; ad essi incomberà l’obbligo di dimostrare la necessità di adibire la casa per abitazione propria o l’esistenza di speciali e gravi circostanze, le quali dovranno essere dimostrate caso per caso ed apprezzate dal magistrato. Se già questa dimostrazione hanno dato alle commissioni arbitrali e queste hanno accolto la loro istanza, la decisione già emanata conserverà l’intimo suo vigore e nulla sarà variato in confronto alla situazione vigente.

 

 

Voto della minoranza.

 

 

La minoranza della Commissione non ritenne di potersi adagiare a questa proposta della maggioranza. Ritenne invero la minoranza che la dizione dei decreti vigenti, riprodotta nel primo comma dell’unito progetto, sia troppo vaga ed imprecisa, cosi da lasciar luogo agli arbitri più gravi da parte delle commissioni arbitrali, le quali talvolta facilmente concedono e tal altra interpretano così restrittivamente il criterio della necessità da rendere intollerabile la posizione dei proprietari a cui in nessun modo non è reso possibile di recarsi ad abitare nella propria casa.

 

 

La minoranza della Commissione ritenne che sia necessario fornire un mezzo semplice per la dimostrazione della necessità e ritenne che questa necessità debba estendersi all’abitazione propria dei genitori o dei figli che debbono contrarre matrimonio. La necessità deve cioè presumersi secondo la minoranza della Commissione, ma allo scopo di impedire che il proprietario faccia uso troppo soggettivo della sua facoltà e pretenda di ottenere libero l’appartamento al solo scopo di poterlo poi in avvenire subaffittare a migliori condizioni, vuole che esso debba versare una cauzione pari al doppio della pigione annua pagata dall’inquilino, cauzione la quale, qualora la casa non venga poi occupata di fatto dal locatore o dalle persone per le quali egli l’ha reclamata, dovrà restare devoluta a vantaggio dell’Istituto delle case popolari. Il locatore non solo dovrà assoggettarsi alla perdita della cauzione, ma dovrà risarcire i danni arrecati all’inquilino fatto sloggiare, qualora venga chiarito che il suo desiderio di ottenere la casa per abitazione propria era un mero pretesto.

 

 

Ragioni del quinto membro della Commissione per aderire al primo avviso.

 

 

Certamente il sistema della cauzione e della perdita pecuniaria si presenta, sotto un certo aspetto, attraente, come quello che permette di evitare le indagini sullo stato di necessità, e per un momento al presidente della Commissione, forzatamente arbitro nei casi di parità della decisione da prendersi, il sistema stesso era sembrato accettabile; ma una meditazione più lunga lo persuase dell’opportunità di non innovare troppo sul sistema vigente. Anche in questo caso le ragioni del suo decidersi piuttosto per la tesi che si può chiamare dell’inquilino che non per quella che si può chiamare del proprietario fu l’opportunità di togliere occasioni a contese e di sopprimere, per quanto sia possibile, ogni disputa dinanzi al magistrato per ragioni di affitto di case. È vero che il sistema della cauzione è più semplice in un momento iniziale, ma fa sorgere la possibilità di contese complicate in un momento successivo, quando l’inquilino, o per esso l’Istituto delle case popolari a favore di cui andrebbe devoluta la cauzione, voglia dimostrare che il proprietario non ha effettivamente usato la casa a uso di abitazione propria, dei genitori o dei figli. Queste dispute sarebbero senza limite di tempo e par meglio che, dovendosi disputare, il magistrato decida subito ed inappellabilmente sullo stato di necessità. D’altro canto l’aggiunta del secondo comma dell’articolo 10 facilita l’opera del magistrato, in quanto che, per quei proprietari i quali siano stati tali prima dell’1 aprile 1919 e per cui si può ragionevolmente presumere che non hanno acquistato la casa al solo intento di sostituire se stessi all’inquilino occupante, annovera alcune circostanze precise, come il mutamento nello stato civile, nella costituzione della famiglia, nell’attività professionale, nel luogo del lavoro, ecc, le quali debbono obbligatoriamente essere tenute in considerazione dal magistrato nel giudicare se il proprietario abbia fondato motivo di recarsi ad abitare nella propria casa.

 

 

Proposta di scioglimento delle commissioni arbitrali. Ritorno al magistrato ordinario.

 

 

Come conclusione terminale di tutte le norme le quali fin qui furono commentate, la Commissione si è trovata unanime nel proporre, all’articolo 13, che siano disciolte le commissioni arbitrali istituite allo scopo di decidere le questioni fra proprietari ed inquilini. Tutti gli sforzi fatti precedentemente allo scopo di costruire un sistema preciso di diritti e di obblighi da parte dei proprietari e degli inquilini spiegano la proposta che ora si fa.

 

 

L’imparzialità delle commissioni stesse è stata molte volte messa in dubbio; l’esistenza loro fa sorgere le questioni le quali vorrebbero essere abolite, dà modo al legislatore, con decreti facili ad emettersi, di attribuire ad esse sempre nuove competenze, perpetuando lo stato di incertezza che è uno dei più gravi ostacoli alla ripresa dell’attività edilizia ed al ritorno a condizioni normali.

 

 

Sembra perciò necessario che qualunque magistrato speciale venga ad essere abolito e che si ritorni alla situazione normale di diritto, per cui le controversie fra proprietari ed inquilini, qualunque esse siano, debbano essere giudicate dal magistrato ordinario.

 

 

La Commissione unanime ritiene che questa proposta sia forse la più importante tra quelle che essa ha in questa parte l’onore di fare a V.E. L’accoglimento dimostrerà con fatti che il governo è deciso a ristabilire le condizioni normali ed a rendere sicurezza e tranquillità all’industria edilizia, togliendola da quell’ambiente litigioso e vincolistico, in cui attualmente si trova.

 

 

L’unanimità in questa proposta fu la ragione per cui si poté formare una maggioranza favorevole alla tendenza politico – sociale rispetto alla durata dei vincoli e alla misura degli aumenti di fitto.

 

 

Fu subordinatamente all’esigenza di questa abolizione che si poté formare una maggioranza disposta a prolungare notevolmente al di là di quanto era richiesto dai rappresentanti di proprietari di case, il periodo di vincolo ed a tener i rialzi dei fitti, durante il periodo stesso, entro limiti assai più moderati di quanto non sarebbe stato in tutta giustizia richiesto dalla svalutazione della lira.

 

 

La maggioranza della Commissione ritiene infatti che non tanto l’aumento dei fitti, quanto la sicurezza nella situazione di diritto e la soppressione di qualsiasi giurisdizione speciale, sia la premessa necessaria per il ritorno alle condizioni normali.

 

 

Abolizione dei commissari agli alloggi.

 

 

Inspirandosi ai medesimi concetti, la Commissione ha ritenuto che la istituzione dei commissari agli alloggi contrasti a quel normale ritorno alla libertà delle contrattazioni a cui si deve pervenire. Anche quando – superato il primo periodo di inesperienza e di errori – l’opera di essi si svolga con somma prudenza e tenga conto delle circostanze di fatto, essa necessariamente tende a sostituire il prezzo d’imperio a quello libero, la ripartizione delle case d’autorità a quella spontanea; coopera a mantenere lo spirito litigioso nella popolazione, radica l’idea che le case siano una merce di cui i proprietari non possono disporre, ma sia a disposizione dell’autorità politica, diminuisce nei costruttori lo stimolo ad impiegare i capitali nelle case, prevedendo costoro che della casa costruita non essi ma i commissari avranno la reale disponibilità. Lo scoraggiamento dei costruttori trae origine dalla previsione che essi fanno, di non potere poi riuscire agevolmente a vendere le case costruite, salvoché ad appartamenti ad inquilini diretti, essendo i risparmiatori trattenuti dall’investire i loro capitali nelle case dalla paura di comperare una merce di cui altri potrà disporre, non certamente i proprietari.

 

 

La Commissione non ritenne di inserire nello schema di disegno di decreto una norma espressamente abolitrice dei commissari agli alloggi, perché la loro istituzione trae origine non da un atto legislativo, bensì da un atto del potere esecutivo, il quale si è fondato su una interpretazione estensiva dell’articolo 3 della legge comunale e provinciale; ma fa voti affinché il governo, che li ha istituiti, addivenga nel più breve termine possibile alla soppressione di questi commissari agli alloggi, chiaritisi organo non vantaggioso alla soluzione del problema delle abitazioni.

 

 

Risarcimenti fiscali ai proprietari danneggiati.

 

 

La Commissione, almeno nella sua maggioranza, ha ritenuto doversi imporre ad alcune classi di proprietari nuovi sacrifici oltre quelli stabiliti dai decreti vigenti. A non parlare della proroga della smobilitazione al di là del 31 luglio 1921, vi è il condono degli arretrati di fitto ancora dovuti dagli inquilini smobilitati e vi è per la quarta categoria di alloggi la fissazione al 10% di quell’aumento di fitto che oggi può spaziare fra il 10 e il 20%. Se il nuovo danno si impone, deve però essere cercato un qualche compenso al danno medesimo.

 

 

Del primo danno – condono degli arretrati di fitti ancora dovuti – si possono temperare le conseguenze sancendo, come si fa nell’ultimo comma dell’articolo 15, che i proprietari abbiano diritto di ripetere dallo stato, dalle provincie e dai comuni l’ammontare delle imposte e delle sovrimposte pagate sulle quote di affitto non riscosso. La proposta è giustificata dal fatto che la perdita di fitto è imposta d’impero. In condizioni normali, è utile non si concedano rimborsi d’imposta per sfitti se non nei casi eccezionalissimi contemplati dalla legislazione vigente. La difficoltà di ottenere il rimborso delle imposte è valida spinta a non tenere le case lontane dal mercato. Nel caso presente lo sfitto non è dovuto a volontà del proprietario, ma a ordine del principe; ed è corretto che il principe, il quale ha imposto il danno, non pretenda poi il tributo sul reddito, di cui ha vietato la riscossione. Opportune norme disciplineranno la materia, affinché il rimborso avvenga per quella parte del reddito imponibile del fabbricato che corrisponda alla quota parte proporzionale dei fitti non riscossi in confronto di quelli riscossi.

 

 

Un altro risarcimento fiscale la Commissione ritiene opportuno di concedere. Essa è contraria, come poi si vedrà, a qualunque esonerazione di imposta avente carattere di classe. Ma appunto perciò ritiene che quando una classe di contribuenti si trovi in condizioni di disagio che la rendono incapace a sopportare il tributo, questo debba essere tolto. Mossa da questi convincimenti essa augura che per tutti i contribuenti alla recentissima imposta straordinaria sul patrimonio venga concessa una detrazione per carichi di famiglia: provvidenza equa e necessaria per ripartire giustamente il carico delle imposte. Ritiene frattanto, senza esorbitare dal compito prefissole, di potere applicare il concetto generale delle detrazioni al caso di quei proprietari, che per avere il proprio patrimonio prevalentemente, ossia per più della metà, composto di alloggi spettanti alla quarta categoria, hanno subito e subiranno al massimo i danni della legislazione vincolistica; e propone che per essi e per i membri della loro famiglia sia concessa la detrazione di lire 5.000 per testa dalla cifra del patrimonio imponibile. È questa una anticipazione giusta di una modificazione ai decreti-legge tributari, che tutti i partiti e tutte le scuole sono concordi nell’invocare.

 

 

Parte terza

I provvedimenti tecnico-economici per agevolare la costruzione di case nuove.

 

 

Fabbisogno di case nuove. Insufficienza di dati statistici precisi.

 

Ogni provvedimento il quale si limitasse a ristabilire la libertà delle contrattazioni per le costruzioni vigenti sarebbe inutile quando contemporaneamente non si riuscisse a mettere sul mercato una quantità sufficiente di costruzioni nuove che potesse servire da calmiere al rialzo dei prezzi, e fornire alloggi alle popolazioni esuberanti. Riguardo a quest’ultimo punto la Commissione ha cercato di formarsi una idea di quello che sia il bisogno attuale delle case, ma dati precisi non fu possibile di ottenere.

 

 

Il commissario agli alloggi di Milano valuta in 2.000 il numero dei locali costituenti il fabbisogno urgente delle persone le quali sono prive assolutamente di abitazione, o l’hanno talmente disagevole da non riuscire sopportabile qualunque indugio.

 

 

Da fonti autorevoli abbiamo avuto l’impressione che il fabbisogno urgente delle costruzioni in Roma si aggirasse intorno ai 20.000 vani all’anno per i prossimi dieci anni, cifra sufficiente per provvedere all’aumento di popolazione verificatosi dopo il 1915. Notisi che in passato il massimo dei locali costruiti in un anno fu di 15.000 nella stessa città.

 

 

A Palermo, in occasione di una agitazione degli inquilini si poté constatare che il numero delle famiglie prive di abitazione ammontava a 76, di cui una parte priva solo di quella abitazione più comoda o più centrale che essa desiderava.

 

 

Condizioni limitatrici della deficienza di alloggi.

 

 

Come bene ha fatto rilevare l’E. V. nella lettera al presidente del Consiglio citata in principio di questa relazione, l’agitazione per la mancanza di alloggi ha non di rado un carattere artificiale e deriva sia da associazioni a bella posta create le quali debbono dimostrare l’utilità della loro esistenza, sia dall’intromettersi di elementi politici nel dibattito, sia dalle difficoltà che la legislazione vincolistica oppone allo smistamento tra le diverse categorie di inquilini. Giova ritenere che a mano a mano che il regime vincolistico lascierà il posto al regime di libertà, venga meno quel che vi è di artificioso nella mancanza di alloggi. Del resto se anche per avventura si eccedesse nelle nuove costruzioni, sarebbe una eccedenza non priva di vantaggi, in quanto il bisogno di case è uno dei più sani e fondamentali bisogni a cui importa di provvedere a preferenza di moltissimi altri. Una delle cause principalissime per le quali la popolazione italiana non gode spesso di quel conforto nell’abitazione che sarebbe desiderabile, è stata fin qui la scarsa propensione dei cittadini a dedicare alla casa una porzione sufficiente del proprio reddito. La vita sulla strada, la ricerca delle compagnie nei pubblici esercizi, le troppe lunghe ore di lavoro, hanno disamorato moltissimi dalla casa, si da farli contentare di vivere in troppa gente in una sola stanza o in pochissime, e in condizioni repellenti ed antigieniche.

 

 

Una grande mutazione notasi fortunatamente dopo la guerra. Il rialzo dei salari nelle città industriali e la diminuzione delle ore di lavoro cominciano a far sentire la necessità della casa più ampia e più bella. La conoscenza che molti cittadini del Mezzogiorno hanno avuto delle migliori condizioni di vita nel Settentrione, hanno reso ad essi incomportabile la vita negli antichi bassi privi di luce, umidi e sopraffollati, sicché anche nel Mezzogiorno, aiutato dai rialzi dei salari e dai guadagni ottenuti coll’esercizio della piccola industria agricola, si è iniziato un movimento promettentissimo verso l’acquisto della casetta propria e molti aspirerebbero a costruirsela non trovandoIa da comprare, ove appena ciò fosse possibile. Questo desiderio della casa più ampia, più igienica e più bella, è forse la causa principale di quel che si chiama la crisi delle abitazioni. Non è una crisi in confronto alle antiche condizioni di vita, ma un moto di assestamento verso nuove migliori condizioni. Ed è perciò una crisi grandemente salutare ed utile dal punto di vista sociale.

 

 

Il fabbisogno non è uniforme in tutta Italia ed è diverso nelle grandi e piccole città.

 

 

Il problema alla cui soluzione deve collaborare lo stato con una acconcia legislazione, non è evidentemente un problema uniforme per tutta Italia. Per quanto invero si riferisce ai piccoli borghi ed alle cittadine meno importanti, la mancanza assoluta dell’industria edilizia fa si che le case siano sempre state e possono solo essere costruite dal privato il quale intende abitarvi, e tutt’al più desidererà di erigere una casa con qualche piano eccedente ai suoi bisogni allo scopo di ricavare dall’affitto di essi il mezzo di sopperire alle spese ed alle imposte gravanti sulla casa.

 

 

Il fabbisogno a cui devono provvedere enti pubblici e privati costruttori è più ristretto e si limita alle grandi città, e ad un certo numero di città minori in cui per circostanze speciali la crisi delle abitazioni è più intensamente sentita. Da tecnici praticissimi aventi molta dimestichezza con l’attività degli enti autonomi edilizi, ci fu riferito che l’ordine di intensità nel fabbisogno di case nuove, poteva essere il seguente:

 

 

1) Roma; 2) Milano; 3) Napoli; 4) Venezia; 5) Torino, Bari, Bologna, Genova.

 

 

Il fabbisogno prossimo assolutamente urgente ed indispensabile fu calcolato dai medesimi tecnici per queste città in 30.000 vani all’anno per cinque anni, senza tener calcolo del fabbisogno per le costruzioni di case signorili, cifra avente un significato intermedio tra quella dei 2.000 vani accennati dal commissario degli alloggi come urgentissimi per Milano e quello di 20.000 vani all’anno per il prossimo decennio, indicato pure per Roma. Il fabbisogno di 30.000 vani all’anno indicherebbe quella cifra, la quale corrisponde alla necessità di dare abitazione a coloro i quali sono oggi privi di casa o lo saranno a mano a mano quando dovranno trasferirsi nelle maggiori città. La cifra lascia fuori di conto quel maggior fabbisogno che corrisponde alle idee nuove di comodo, a cui la popolazione italiana oggi giustamente aspira.

 

 

L’intervento dello stato a favore delle nuove costruzioni.

 

 

In che modo lo stato può intervenire per facilitare l’offerta di nuove case sul mercato? Attraverso alle sue indagini ed agli interrogatori di persone pratiche, la Commissione si è potuta formare la convinzione che i mezzi si possono distinguere in due categorie: tecnico-economici e tributari.

 

 

I provvedimenti tecnico-economici.

 

 

In primo luogo si dirà dei provvedimenti di indole tecnico-economica, i quali debbono avere la precedenza, come quelli che più efficacemente possono rimuovere gli ostacoli che a detta di tutti i pratici dell’argomento contrastano le costruzioni delle case nuove.

 

 

La difficoltà dei trasporti.

 

 

1. Il principale e più grave ostacolo alla costruzione di case nuove, è la difficoltà dei trasporti. È una lagnanza universale che viene da tutte le parti d’Italia: dagli ingegneri dirigenti gli enti autonomi edilizi, ai costruttori privati di case, dai collegi degli ingegneri ai rappresentanti di imprese di materiale da costruzione. È praticamente impossibile di poter fare qualsiasi assegnamento sulla consegna dei materiali laterizi, del cemento, del ferro, del legname, di tutto ciò insomma che sarebbe necessario per le costruzioni. Si sa che ingenti quantitativi disponibili di legname, fors’anche di ferro, esistono nelle provincie dell’ex impero austriaco. Provviste di legname in parte già abbattuto e lavorato per ragioni militari esistono qua e là in Italia. Ma l’esistenza dei materiali è tutt’altra cosa della loro disponibilità sul cantiere di lavoro. A causa del disservizio ferroviario, ed anzi della mancanza assoluta di carri e dell’ingombro delle ferrovie, questo materiale, pur così urgente è come se non esistesse.

 

 

Il ristabilimento di condizioni normali nei trasporti è la prima condizione della ripresa edilizia, come del resto della ripresa di tutta l’attività nazionale.

 

 

1. Quindi la Commissione deve fare un voto vivissimo al governo affinché sia provveduto a rimettere in assetto il servizio ferroviario. È questo un provvedimento di carattere generale il quale non si riferisce in modo specifico al problema edilizio, ma investe tutto il problema dell’attività nazionale. Certa cosa è, essere perfettamente vano qualsiasi incoraggiamento dato dal governo sotto altre forme alle costruzioni edilizie, che non prenda le mosse dal ristabilimento di un normale servizio ferroviario. Se per tempo si fosse provveduto ad attuare nell’Alta Italia un sistema di navigazione fluviale all’interno, il quale da Venezia giungesse sino a Torino, una parte dell’asprezza odierna del problema dei trasporti dei materiali da costruzione, per lo più poveri e pesanti, sarebbe tolta. Ma è oggi inutile fare recriminazioni sul passato; giova solo affermare, insistendo nella maniera più chiara e magari fastidiosa, che qualunque altra legislazione non servirà a nulla, se innanzi tutto non si porrà in ordine il sistema dei trasporti interni. Da questo fattore dipende la ripresa delle industrie produttrici di materiali da costruzione. Oggi fornaci, segherie, fabbriche di cementi, o rimangono spente od inattive, o non lavorano in pieno perché manca assolutamente qualsiasi sicurezza di poter trasportare sui cantieri di costruzione il materiale predetto; mancando la produzione, manca la possibilità del consumo dei materiali stessi e l’industria edilizia non può riaversi; non essendovi la certezza di avere in tempo calce, cemento, mattoni, ferro e legname, gli intraprenditori edilizi esitano nell’assumere qualsiasi impegno perché non sanno di poterli mantenere e non vogliono correre il rischio di pagare salari ad operai forzatamente disoccupati e di pagare ai committenti multe per inadempienza; non essendovi la sicurezza della continuità del lavoro, le maestranze sbandate non si ricostituiscono.

 

 

Su ciò unanime è stato il consenso di tutti gli interrogati e quindi noi siamo giustificati nel porre il ristabilimento di condizioni normali nei trasporti in capo alla lista delle esigenze a cui imprescindibilmente si deve soddisfare se si vuole sul serio una ripresa nell’attività edilizia.

 

 

Il ritorno alla normalità nei trasporti delle persone.

 

 

2. Non trascurabile è pure l’importanza del ritorno nella normalità dei trasporti ferroviari per quanto si riferisce alle persone. In parecchie grandi città sarebbe possibile sfollare in misura forse minore di quanto alcuni entusiasti si ripromettono, ma tuttavia non trascurabile, il centro, qualora tornassero ad esistere i mezzi di trasporto che prima della guerra collegavano il grande centro con i centri minori circostanti. Roma, Napoli, Milano, Genova, Torino e forse altre città, hanno nei borghi e nelle cittadine vicine possibilità di albergare una parte della popolazione esuberante. Ma questa possibilità non può essere utilizzata in quanto mancano i treni e le tramvie suburbane le quali colleghino rapidamente i centri vicini a quello principale. Temono sovratutto coloro i quali pur si adatterebbero o forse desidererebbero di andare a risiedere nei centri vicini, la discontinuità nel servizio dei trasporti. Gli scioperi continui e le interruzioni che per altra via si verificano nel servizio, li trattengono dal cercare altrove quella casa che pure preferirebbero. Anche qui trattasi di un problema non puramente edilizio, ma di un problema di carattere generale. Il ritorno a condizioni normali nei trasporti delle persone favorirà la migliore distribuzione della popolazione ed allevierà la parte più acuta del problema edilizio. Fa d’uopo però che questo ritorno alle condizioni normali sia energicamente promosso dal governo, il quale, avendo assunto l’esercizio della parte principale delle ferrovie ed il controllo sulle rimanenti, ha obblighi morali di far sì che l’opera sua conduca allo scopo a cui essa è intesa.

 

 

La sicurezza personale nei sobborghi e nelle case sparse nelle campagne circostanti alle città.

 

 

3. Un altro problema d’indole generale connesso con la crisi delle abitazioni è quello della sicurezza personale di coloro i quali abitano nei sobborghi delle città e nelle case sparse nella campagna circostante. La minor cura con cui si provvede nei dintorni delle città ai servizi pubblici, alla illuminazione, e alla pavimentazione delle strade, la scarsa frequenza dei comandi dei carabinieri rendono restii moltissimi a trasportarsi nei sobborghi e vivere nelle case di campagna proprie o affittate, dove pur desidererebbero di rimanere. Il mantenimento della pubblica sicurezza è una delle funzioni fondamentali dello stato e l’azione diretta di questo per la risoluzione della crisi edilizia riuscirebbe di gran lunga più efficace quando fosse accompagnata dalla perfetta osservanza di quei suoi doveri fondamentali, senza la quale non è concepibile una ordinata vita sociale.

 

 

La riforma dei regolamenti edilizi.

 

 

4. Passando ora ai provvedimenti di carattere più specifico, ed a parer nostro meno importanti dei provvedimenti sovra elencati di carattere generale, vuolsi dare un posto non trascurabile alla riforma da molte parti invocata dei regolamenti edilizi. Questi risalgono in parecchi casi ad epoche ormai troppo antiche e non rispondono alle necessità nuove dell’edilizia, ovvero accrescono senza motivo il costo delle costruzioni. Spesse volte i regolamenti richieggono per i singoli ambienti condizioni di superficie, di altezza, di luce i quali praticamente riescono inutili a fini igienici e costituiscono un elemento di rincaro artificioso della costruzione. Suggestivo a questo riguardo è il caso dell’ente autonomo per le case popolari ed economiche di Milano il quale, pur essendo iniziativa pubblica e pur costruendo talvolta per conto medesimo del municipio, ha ritenuto necessario di violare, salvo susseguente sanatoria, i regolamenti edilizi in materia di superficie della cucina, del bagno e dei locali accessori. Una innovazione interessantissima nelle costruzioni dell’Istituto autonomo milanese è ad esempio per l’appunto la riduzione a superficie minima, talvolta appena di 4 metri quadrati, della cucina concepita come locale puramente di preparazione delle vivande. Concezione questa la quale migliora notevolmente le condizioni igieniche della piccola famiglia popolare, mentre è contraria ai regolamenti edilizi pretesi igienici. Altri casi di incongruenza nei regolamenti edilizi si potrebbero citare: come ad esempio le uniformità delle esigenze per le grandi caserme, per cui occorre cercare aria e luce nell’ampiezza di cortili e delle vie circostanti e per le piccole casette per le quali data l’ampiezza dello spazio occupato, la libertà di circolazione dell’aria, la esistenza di orti e giardini basterebbero vie di gran lunga meno ampie di quelle che si richieggono nei quartieri a caserme. È naturale che per quest’ultime si debba richiedere una minima superficie od altezza per ogni stanza allo scopo di provvedere alla circolazione dell’aria; mentre stanze assai più piccole e meno alte sono sufficienti per le casette delle città giardino, dove la circolazione dell’aria non è impedita da nessun ostacolo. Spesso le dimensioni richieste dalle finestre sono anche eccessive e richiedono spese inutili per serramenta, anche nei casi in cui le stanze sono piccole e possono essere per altra guisa aerate.

 

 

La Commissione esprime quindi il voto che si consiglino i comuni ad una attenta revisione dei regolamenti edilizi, la quale, salvaguardando le vere esigenze dell’igiene, le contemperi con quelle del costo oltremodo cresciuto delle costruzioni e tenga conto delle singole situazioni in cui le costruzioni sorgono, distinguendo tra centro e sobborgo, tra quartiere a caserma e quartiere a casette, provvedendo diversamente per le città le quali si trovano ad essere in pianura piatta e quelle invece per cui luce ed aria sono diffuse a causa delle variazioni di livello tra punto e punto della stessa città. È deprecabile qualsiasi regolamento tipo che dovrebbe essere foggiato da una autorità centrale forzatamente ignara delle condizioni particolari dei singoli comuni italiani. È utile soltanto che le autorità centrali diano qualche consiglio molto generico che possa essere di guida ai comuni nella revisione necessaria dei regolamenti edilizi.

 

 

La revisione dei regolamenti edilizi nelle zone a villini ed a casette basse.

 

 

5. La Commissione ritiene a questo proposito di dover fare altresì un voto relativo alla revisione dei regolamenti edilizi nelle zone delle città da costruirsi a villini o in genere a casette di scarsa elevazione, limitato ad esempio a un pianterreno o tutt’al più a un primo piano. I regolamenti edilizi sono spesso improntati a criteri di uniformità i quali non hanno ragione di essere perché estendono alle zone di fabbricazione criteri i quali sono giusti soltanto per le zone delle città nelle quali la fabbricazione possa spingersi a molti piani. Per queste ultime zone è evidentemente necessario fissare limiti minimi abbastanza ampi alle strade e stabilire vincoli notevoli per i cortili, ecc.: invece nelle zone le quali sono destinate alle costruzioni di villini o di casette sparse in giardini la larghezza delle vie pubbliche può senza alcun nocumento essere ridotta al minimo possibile. Strade per le quali possa passare semplicemente un carro in una sola direzione possono essere largamente sufficienti al servizio di queste zone: l’incrocio dei carri potrà benissimo essere ottenuto con avvedimenti non difficili i quali permettano il giro dei carri stessi attraverso a vie che fra di loro si intersechino. Il vantaggio delle vie strette, di pochi metri è evidentemente notevole per la città: vi sono minori spese di manutenzione, il passaggio meno frequente dei carri fa si che le strade siano meno danneggiate o richiedano minori spese di riparazione; non occorrono marciapiedi veri e propri; la strada assume piuttosto l’aspetto di un sentiero di campagna ben tenuto che non quello di una strada propriamente detta. È evidente che il regolamento edilizio, pur consentendo questa minore larghezza per le zone a bassa fabbricazione deve prevedere però che giunga il momento in cui la fabbricazione diventi intensiva anche in queste zone e convenga consentire l’elevazione dei fabbricati anche al di sopra del primo piano. Ma già in molte città estere, principalmente in quelle nelle quali la fabbricazione della città giardino si è da più tempo estesa, si è trovato un rimedio all’inconveniente che in avvenire potrebbe manifestarsi; il rimedio consiste nel rendere obbligatoria l’assegnazione, di quello che sarebbe il suolo stradale di una strada ampia, a giardino frontale anteriore alla casa. Per 10 o 20 anni quella zona di terreno può essere destinata a giardino e giovare così alla migliore vita famigliare degli abitanti della città giardino e nel tempo stesso a diminuire le spese di manutenzione stradale per il comune. Quando, passato qualche decennio, quel quartiere diventa più centrale è sempre possibile l’occupazione della zona destinata a giardino e l’allargamento conseguente della strada.

 

 

In questa zona i servizi pubblici possono essere notevolmente ridotti: si possono applicare provvisoriamente sistemi di fognatura temporanei così da evitare eccessive spese alla città.

 

 

Siccome il grave costo di sistemazione dei quartieri a piccole casette basse è l’argomento più forte addotto per lo più contro le casette e in favore delle grandi caserme, è parso opportuno alla Commissione di insistere sulla possibilità che le città hanno di ridurre le loro spese con qualche avveduta modificazione dei loro regolamenti edilizi.

 

 

Vincoli allo altius non tollendi.

 

 

6. In occasione di questa revisione dei regolamenti edilizi sarà opportuno di provvedere ad incongruenze antiche le quali impediscono la edificazione o la sopra elevazione in località per le quali esistevano un tempo circostanze oggi venute a mancare. Per Milano, ad esempio, ci fu segnalato come esista sull’attuale viale Venezia una servitù pubblica di altius non tollendi, per consentire originariamente agli accorrenti alle corse delle carrozze sui bastioni di Porta Orientale, di godere il panorama delle Prealpi. Oggi al di là dei bastioni è sorta tutta una nuova grande città i cui edifici non soggetti alla detta servitù tolgono completamente la vista delle Prealpi a coloro che passeggiano sui bastioni. Tuttavia per forza d’inerzia, la servitù per le case situate sul corso è rimasta, impedendosi così una sopraelevazione la quale potrebbe essere utile a mitigare la crisi delle abitazioni. Esempi analoghi furono citati in numero per altre città come ad esempio Napoli. Gioverà che nella revisione dei regolamenti edilizi si ponga riparo a queste incongruenze di carattere storico; abolendo le servitù non utili ai fini pubblici, salvo naturalmente, il compenso al comune quando esso sia dovuto per la legislazione vigente o per eventuale convenzione privata.

 

 

Rispetto alla convenienza che vi potrebbe essere di sopraelevare i fabbricati esistenti la Commissione ha dovuto prendere in esame le osservazioni che da varie parti le sono giunte riguardo agli ostacoli che le sopraelevazioni incontrano non soltanto nei regolamenti edilizi e in altre disposizioni di carattere pubblico di cui già si fece cenno, ma nella situazione giuridica della proprietà delle case che si tratterebbe di sopraelevare. Accade non di rado di osservare anche in quartieri centrali delle città casette basse a un primo piano solo o a pochi piani, non rispondenti per la loro vetustà o per altri particolari costruttivi, alle esigenze moderne ed a quello che sembrerebbe altresì l’interesse evidente dei proprietari delle case di utilizzare il valore dell’area giunto in quei quartieri centrali ad altezza notevole. Il motivo di questa singolare inutilizzazione delle aree centrali spesso è da ricercarsi nel frazionamento eccessivo della proprietà delle case fra molti consorti. È accaduto che per via di successioni e di divisioni successive la proprietà di quelle case spetti ormai a molte persone, alcune minori di età, altre incapaci per altri motivi, alcune forse residenti in luoghi lontani ed all’estero. È difficile e quasi impossibile di poter mettere tutti questi consorti d’accordo per indurli ad una sopraelevazione la quale altrimenti sarebbe utile. Alcuni dei consorti non hanno la capacità finanziaria per sottostare alla spesa, sia pure rimunerativa, della sopraelevazione.

 

 

La Commissione segnala il fatto alla E. V. ma non è in grado di poter indicare un rimedio a questa situazione. Trattasi di rapporti giuridici delicatissimi, i quali dovrebbero essere regolati e su cui dovrebbe rivolgersi l’attento esame del governo a fine di trovare una soluzione la quale consenta il rispetto al diritto di proprietà dei singoli consorti e al tempo stesso consenta una migliore utilizzazione delle aree. Il concetto che in generale potrebbe affermarsi sarebbe quello che il diritto dei singoli consorti si trasformasse, da diritto sulla cosa, in un diritto sul prezzo ricavato dalla cosa stessa. Occorre però che la materia sia accuratamente disciplinata a fine di non pregiudicare ingiustamente gli uni a vantaggio degli altri. E perciò la Commissione si limita a segnalare l’argomento all’attenzione del governo.

 

 

La sopraelevazione dei fabbricati esistenti. Opportunità di facilitarla, ma non di renderla obbligatoria.

 

 

7. Su un punto di questi regolamenti occorre intrattenersi a parte, ed è quello della sopraelevazione dei fabbricati esistenti. Naturalmente la Commissione fa voti che i regolamenti edilizi siano congegnati in maniera tale da consentire la sopraelevazione dappertutto dove ciò non nuoccia all’estetica della città, non sia contrario alla pubblica igiene ed alla solidità degli edifici sottostanti. Entro i limiti dei riformati regolamenti edilizi vigenti, è augurabile che ogni proprietario, ove ne veda la convenienza, utilizzi meglio con acconce sopraelevazioni la sua proprietà.

 

 

Taluni però vorrebbero che si facesse obbligo ai proprietari di sopraelevare le loro case secondo criteri che dovrebbero essere stabiliti dall’autorità comunale, ritenendosi che per tal modo sia possibile di poter fornire a un buon mercato relativo nuove abitazioni in misura ragguardevole.

 

 

La Commissione non può naturalmente non augurarsi come già e stato detto or ora, che, ogni qual volta la sopraelevazione sia conveniente ed igienicamente ed esteticamente consigliabile, essa sia consentita dalle autorità comunali; ma non crede di poter andare al di là di questo voto. Sancire un obbligo di sopraelevazione potrebbe andar contro alle norme più evidenti della convenienza economica e all’interesse dei medesimi inquilini. Non è possibile affermare in generale che la sopraelevazione sia più economica che non la nuova costruzione. L’esperienza di parecchi costruttori e di taluni istituti autonomi per le case popolari, porterebbe invece a conchiudere che, fatta salva la questione dell’area, e della sistemazione generale del quartiere, la costruzione di piccole casette a un piano terreno sopraelevate sia il tipo di costruzione più economico fra tutti quelli che possono essere oggi intrapresi. Il danno derivante dall’essere le fondamenta e il tetto distribuiti sopra un piano solo invece che sopra due o tre o quattro e più piani è largamente compensato da altri vantaggi, come ,la possibilità di tenere le mura più sottili, di risparmiare sulle scale e di utilizzare meglio tutti i locali e di evitare gli impianti costruttivi che assorbono notevole parte del costo di costruzione.

 

 

Il costo della demolizione e della ricostruzione del tetto in questi tempi può essere proibitivo, talora la sopraelevazione può essere sconsigliabile per ragioni tecniche; aggiungasi che per sopraelevare occorre, per tempi più o meno lunghi, talvolta rendere impossibile la permanenza degli inquilini nei piani sottostanti o almeno renderla grandemente malcomoda. In alcune città occorrerebbe mutare i regolamenti edilizi, poiché l’ultimo piano, per cui è consentita un’altezza minore degli altri, diventando il penultimo dopo la sopraelevazione, dovrebbe a sua volta essere sopraelevato, con una spesa ragguardevole.

 

 

Insomma è impossibile decidere a priori se la sopraelevazione sia conveniente oppur no, e perciò la Commissione ritiene che sia sconsigliabile qualsiasi norma costrittiva al riguardo e consigliabili invece tutte quelle modificazioni ai regolamenti edilizi le quali, come si disse sopra, senza nocumento dell’igiene e dell’estetica delle città, consentano ai proprietari di procedere alla sopraelevazione, quando le ragioni della convenienza superino quelle del danno.

 

 

Interessi contrastanti dei pochi inquilini insistenti in fabbricati sopraelevabili.

 

 

8. Accade non di rado che proprietari vogliosi di sopraelevare i loro fabbricati o di abbattere vecchie e disadatte costruzioni per costruirle con costruzioni moderne e capaci di sovvenire assai più largamente di quanto oggi non accada ai bisogni della popolazione, trovino grave impedimento nel diritto di insistenza dei pochi inquilini attuali.

 

 

Segnalammo già l’opportunità che le città tolgano i vincoli oggi esistenti per ragioni storiche venute meno di fatto alla sopraelevazione; ma ci furono comunicati casi nei quali pur avendo già le autorità municipali consentito di togliere il vincolo dello altius non tollendi, i proprietari si trovavano nell’impossibilità di potersi giovare della facoltà concessa dal municipio, perché uno o pochissimi inquilini si ostinavano a rimanere nella casa vecchia e disadatta e impedivano un’opera di trasformazione la quale potrebbe riuscire utilissima alla città. Evidentemente qui contrastano due interessi ugualmente degni di considerazione; da un lato vi è l’interesse degli inquilini i quali fino al 31 luglio 1921 o a quelle altre date che la Commissione ha proposto in questa relazione hanno diritto di rimanere al loro alloggio; dall’altro lato vi è l’interesse della collettività coincidente con quello del proprietario che ad una casa vetusta o antica, la quale per esempio contiene soltanto 50 camere, si sostituisca una nuova moderna costruzione con un numero di camere quattro, cinque o magari dieci volte superiore. La Commissione non ritiene si possa a questo riguardo dare nessuna norma di carattere generale la quale stabilisca quando si possa passar sopra al diritto degli inquilini a rimanere ancora per un certo tempo nel loro alloggio. Qualunque norma di carattere generale che volesse darsi potrebbe contrastare con le singolarità dei casi. Ritiene perciò la Commissione che si debba dare ai municipi la facoltà di dichiarare nell’atto medesimo nel quale danno la loro approvazione al piano della sopraelevazione se questa possa essere compiuta anche contro l’opposizione al licenziamento degli inquilini.

 

 

Naturalmente nel dare o negare questo permesso di licenziamento degli inquilini anche prima delle date fissate dal decreto-legge, l’autorità comunale si regolerà a seconda della maggiore o minore importanza della casa costruenda; del numero maggiore o minore di inquilini che si tratterebbe di spostare, e darà la prevalenza a quello fra i due interessi che dal punto di vista collettivo sia da considerarsi dominante.

 

 

Poiché alcune delle istanze che ci pervennero si riferivano in questo caso a costruzioni adibite ad uso di albergo, la Commissione ritiene che l’autorità municipale nel concedere o negare la facoltà al proprietario desideroso di costruire il suo fabbricato, debba tener conto dell’effettiva importanza dell’albergo.

 

 

Quando trattasi di alberghi di quarto ordine o di osterie di scarso rilievo non utili all’industria del forestiero, è evidente che deve prevalere l’interesse collettivo della ricostruzione, ed in tal caso – rispettate sempre le locazioni in corso – il municipio potrà consentire che sia data licenza agli albergatori, quando il proprietario si impegni a costruire un edificio di molta maggior portata ed utilità per abitazione. La medesima facoltà potrà essere data qualora si tratti bensì di alberghi di notevole importanza ma il proprietario si obblighi a ricostruire anche in altra località una costruzione specialmente adatta ad uso di albergo e che possa sostituire quella la quale verrebbe a essere abbattuta o trasformata. Questo è anzi un concetto generale che la Commissione si pregia di segnalare al governo affinché siano modificati i decreti vigenti in materia di vincolo agli alberghi esistenti. Ciò che importa non è tanto che sia conservato ad uso di albergo quel preciso edificio che attualmente vi è destinato. Può darsi anzi che l’edificio stesso non fosse stato originariamente costruito ad uso di albergo ma vi fosse stato destinato dopo adattamenti più o meno felici. In questo caso giova alla collettività che al posto della vecchia costruzione sottentri una nuova costruzione capace di fornire alloggio al medesimo o a un maggior numero di clienti e più adatta per la sua struttura interna all’uso specifico di albergo.

 

 

In questo caso dovrebbe sempre essere consentito al proprietario dell’albergo di trasferire il vincolo del vecchio al nuovo edificio rendendo così libero il vecchio edificio per la sua destinazione ad altro scopo diverso da quello della industria alberghiera.

 

 

Le costruzioni provvisorie a tipo baraccato.

 

 

9. Fu prospettato da varie parti il problema delle costruzioni provvisorie a tipo baraccato, di cui molte sono già state sperimentate in Italia con successo variabile. Non c’è un taglio netto fra la costruzione stabile ordinaria e la costruzione baraccata, procedendosi per via di transizioni insensibili dall’uno all’altro tipo ed essendo in certe regioni, come quelle soggette al pericolo del terremoto, la costruzione baraccata divenuta il tipo normale delle costruzioni.

 

 

La Commissione non ritiene suo compito di dare consiglio in questa materia, tutto dipendendo dalle circostanze locali, dalle condizioni del clima, dall’altitudine e latitudine, le quali ora favoriscono ed ora contrastano le costruzioni baraccate. Ad esempio, le case in legno, le quali hanno dato buona prova al di sopra di una certa altitudine e nei paesi di montagna, non sono riuscite egualmente fortunate nelle città di pianura dove domina l’umidità e vi sono grandi variazioni di temperatura. Quando non si adoperino metodi molto rigorosi di pulizia, le case in legno diventano facilmente fonte di infezione per la loro sporcizia, e un esempio tipico al riguardo ci è fornito da alcune zone della città nuova di Messina.

 

 

Loro carattere di costruzioni di fortuna.

 

 

10.Le costruzioni baraccate, salvo si faccia astrazione dalle zone sismiche, hanno il carattere di espedienti di fortuna; servono per poter con rapidità risolvere alcuni problemi i quali si impongono sovrattutto in ragione del tempo. Quando manchino i materiali da costruzione ordinaria, quando sia impossibile di procurarsi laterizi o cemento o calce, ed occorra dare ricovero ad una certa popolazione, può essere necessario ricorrere alle costruzioni baraccate. Ed allora queste adempiono egregiamente al loro ufficio, se bene sia da dubitarsi se il loro costo abbia ad essere notevolmente inferiore a quello delle costruzioni più stabili dello stesso tipo, ad un piano solo terreno od a due piani.

 

 

Limiti entro cui le costruzioni baraccate possono ritenersi consigliabili.

 

 

11. In ordine decrescente, la Commissione ritiene che le costruzioni baraccate potrebbero servire quando l’urgenza del tempo lo richieda:

 

 

  • a) Per gli uffici pubblici allo scopo di sfollare case permanenti le quali meglio potrebbero essere utilizzate a scopo di abitazione. Giova insistere sull’opportunità, già segnalata nel decreto istitutivo dei commissari degli alloggi, che ogni qualvolta sia possibile, gli uffici pubblici di carattere provvisorio, ed anche, aggiungiamo noi, quelli di carattere permanente, vengano collocati in baracche, sia in quelle esistenti, sia in altre che opportunamente, avendosi a disposizione il materiale, potrebbero essere costruite. L’ufficio pubblico dovendo essere occupato soltanto nelle ore migliori del giorno, hanno minor importanza le condizioni igieniche le quali sconsigliano la vita permanente delle famiglie nelle baracche. Né ha poca importanza la considerazione che, diminuendosi per tal modo il comodo degli impiegati addetti ai pubblici uffici provvisori, questi si decideranno più rapidamente a mettere in luce le ragioni le quali consigliano la soppressione dell’ufficio, a cui invece per ragioni personali essi tendono a dare perpetuità quando l’ufficio sia comodamente allogato in costruzioni di carattere stabile. L’emigrazione dei pubblici uffici nelle baracche avrà così due benefici effetti: uno di rendere disponibile case permanenti per abitazione e l’altro di favorire la soppressione degli uffici pubblici inutili;
  • b) in attesa di costruzioni di carattere stabile, l’esperienza ha dimostrato che gli edifici baraccati possono egregiamente servire altresì per aule scolastiche, per ospedali o locali di cure provvisorie, forse meglio di appartamenti privati frettolosamente occupati, per cui non è possibile un adattamento completo allo scopo specifico cui quei locali dovrebbero essere destinati;
  • c) gli edifici baraccati possono anche essere utilizzati convenientemente specie sulle aree edificabili centrali, per le quali sarebbe sconsigliabile una costruzione di carattere permanente che non utilizzasse convenientemente il valore potenziale dell’area stessa. In molte città, qua e là nel concentrico dell’abitato, si trovano sparpagliate aree edificabili vuote, le quali sono mantenute tali non per semplice desiderio di lucro del proprietario, ma perché l’attesa giova a raggiungere il momento, il quale potrà arrivare soltanto fra 10 o 20 anni, in cui il quartiere sia diventato anche più centrale e sia possibile di costruire sopra quell’area un edificio che utilizzi in pieno le qualità dell’area, ad esempio a scopo di ufficio o di negozio o di albergo o di casa signorile capace di dare alti redditi. Sarebbe antieconomico costruire su quelle aree a buon mercato di carattere popolare, perché quella utilizzazione frettolosa potrebbe nuocere all’utilizzazione più piena e più utile nell’interesse della collettività, la quale potrà farsi dopo un certo periodo di tempo. Le costruzioni baraccate, le quali hanno carattere provvisorio ed il cui costo deve essere ammortizzato in un breve periodo di tempo, possono giovare ad utilizzare queste aree. Venuto il momento dell’utilizzazione piena giova sperare che sarà anche venuta meno la crisi delle abitazioni che oggi ha consigliato la costruzione di fortuna e quindi gli edifici pubblici, le aule scolastiche, gli ambulatori medici o chirurgici, le casette baraccate per abitazioni private, potranno senza danno essere demolite, utilizzando per lo più in misura ragguardevole il materiale impiegato e lasciando l’area ormai cresciuta di valore ad una utilizzazione più perfetta.

 

 

Il ristabilimento nell’industria edilizia della fiducia nel ritorno effettivo ad un regime normale.

 

 

12. La Commissione non può non ricordare infine tra le condizioni le quali favoriranno la ripresa delle costruzioni il ristabilimento della fiducia nell’industria edilizia, la quale sarà la conseguenza del ritorno al regime normale della libertà delle contrattazioni.

 

 

Quando al primo luglio 1921 si vedrà di fatto liberata una parte piccola e limitata degli appartamenti più ricchi e quelli abitati dagli inquilini soggettivamente posti in condizioni economiche più fortunate, quando i costruttori edilizi toccheranno con mano che una parte almeno delle case vecchie comincia ad essere rimessa sul mercato, diminuirà il timore da cui oggi sono presi e che li allontana dalle costruzioni; il timore cioè di costruire agli attuali costi elevati e di vedersi poi costretti, dalle agitazioni popolari e dalla sottomissione delle loro case al regime vincolistico, a fitti non rimuneratori. Come si può sperare che un costruttore privato si decida ad impiegare i propri capitali nella costruzione di locali che a lui costeranno da 6 a 10 a 12.000 lire l’uno e gli importeranno perciò tra interessi sul capitale, imposte e spese un onere annuo variabile da 400 a 1.000 lire per locale, quando egli teme che un decreto governativo o una disposizione dei commissari degli alloggi lo costringa poi ad affittare il medesimo locale ad un prezzo di 200 lire all’anno? Il timore di perdere la differenza fra 4.000, 1.000 e 200 è sufficiente per distruggere ogni fiducia nell’avvenire dell’industria edilizia e per indurre i capitali ad allontanarsi timorosamente da qualsiasi iniziativa. Solo il ritorno effettivo anche se graduale alla libertà delle contrattazioni potrà far cessare questa psicologia dell’incertezza e della sfiducia e mettere al posto di essa un sentimento rinnovato di iniziativa industriale.

 

 

Parte quarta

 

 

I provvedimenti economico-tributari per agevolare la costruzione di case nuove.

 

 

Passiamo ora al secondo ordine di provvedimenti che è quello economico tributario. Il problema si imposta in una maniera molto semplice e già il governo del resto lo ha imposto in questa precisa maniera nel testo unico delle leggi per le case popolari ed economiche (regio decreto-legge 30 novembre 1919, n. 2.318, e nel susseguente regio decreto-legge 8 gennaio 1920, n. 16, che modifica il predetto testo unico).

 

 

Il costo delle costruzioni dal livello antibellico che, per ipotesi e senza voler affatto generalizzare la cifra, possiamo supporre di 1.000-3.000 lire per locale, si è oggi innalzato ad un livello il quale va dalle 6 alle 12.000 lire e più per locale. Se questo rialzo nei costi di costruzione fosse permanente, nessun provvedimento di carattere economico tributario sarebbe necessario per favorire le costruzioni ordinarie.

 

 

Si osserva che per le case economiche e popolari esiste già una legislazione vasta e sufficiente.

 

 

Dicesi le costruzioni «ordinarie» delle quali soltanto in questa sede la Commissione si occupa. Essa invero ha ritenuto che al suo compito fosse per questa parte sottratto tutto ciò che si riferisce alla legislazione per le case economiche e popolari. Oramai per queste ultime vi è nella legislazione italiana un insieme imponente di disposizioni le quali tendono a favorire le costruzioni per le classi meno agiate ed a consentire di porre sul mercato appartamenti modesti a fitti inferiori a quelli che si possono chiamare correnti e normali. Il legislatore italiano ha cioè ritenuto necessario che per vaste classi della popolazione fosse d’uopo di incoraggiare l’amore alla casa provvedendo questa a sotto costo, e perciò ha concesso lunghe esenzioni dalle imposte e sovraimposte sui fabbricati, incoraggiamenti cospicui sotto forma di mutui a bassi saggi di interessi e di concorso nel pagamento degli interessi ad istituti aventi carattere pubblico o semipubblico, i quali si propongono lo scopo della costruzione di case a proprietà indivisa e talvolta anche divisa.

 

 

Il problema qui discusso si riferisce alle costruzioni ordinarie.

 

 

Il problema che oggi la Commissione deve risolvere non è quello di favorire la produzione di case da affittarsi a sotto costo, ma di studiare se vi possa essere qualche mezzo con cui si possa favorire la costruzione di case da affittarsi a prezzi tali da compensare normalmente il capitale impiegato, rimborsando le spese ordinarie che sulle case gravano.

 

 

Posto così il problema, è evidente che, se il costo attuale straordinariamente elevato della costruzione dovesse diventare permanente, nessun bisogno vi sarebbe di un intervento dello stato diverso da quelli tecnico – economici che furono indicati dinnanzi. Il costruttore, costruendo un locale al costo attuale di 10.000 lire, sarebbe sicuro che l’avvenire non potrebbe essere causa per lui di rischi, di perdite di capitale o di reddito, perché, ragionando nei modi consueti, il locale che oggi costa 10.000 lire potrà avere sul mercato un valore corrispondente e seguiterà ad averlo, soggetto soltanto a quelle vicissitudini ordinarie nei prezzi e negli affitti che sono sempre esistite nell’industria edilizia e di cui non occorre preoccuparsi in maniera particolare.

 

 

La incertezza sul costo futuro delle case rende aleatoria la costruzione nel momento presente.

 

 

Ma i costruttori prevedono che forse in avvenire il costo delle costruzioni che oggi si è elevato a 6.000-12.000 lire abbia a ribassare, forse non al livello antico di 1.000-3.000, ma ad un livello intermedio, ad esempio di 3.000-6.000 lire. Le cifre sono citate soltanto come tendenziali, senza fare alcuna affermazione in merito a valutazioni le quali sono tutte in balia dell’incertezza più oscura.

 

 

Supposta la verità dell’ipotesi fatta dai costruttori, è evidente che non conviene la costruzione nel momento attuale. Chi ha interesse oggi a costruire al costo di 6.000 lire col pericolo che fra qualche anno il valore della casa abbia a ribassare a 3.000 lire per locale, secondo il costo futuro della ricostruzione? Se da qualche parte non vi è garanzia di ricuperare le 3.000 lire previste di perdita per la differenza fra il costo attuale ed il costo futuro, le ricostruzioni sono quasi impossibili.

 

 

Casi speciali per i quali le costruzioni sono oggi possibili.

 

 

Il che è tanto vero che oggi le sole costruzioni private le quali si siano iniziate appartengono a due categorie: vi è il nuovo arricchito, il quale non riesce a trovare casa confacente ai suoi gusti, raffinatisi per l’acquistata ricchezza, e costui si fa fabbricare a sue spese il villino confacente ai suoi gusti, senza badare a spesa; ovvero vi è l’impresario edilizio, il quale costruisce la casa a parecchi piani ed a molti appartamenti, essendo perfettamente sicuro di trovare a rivenderla ad appartamenti agli inquilini, i quali sono desiderosi di trovar casa e non la trovano in conseguenza dei decreti vincolistici. Se oggi non si costruiscono case a scopo di rivendita a proprietari per impiego di capitale, perché occorrerebbe venderle a prezzi proibitivi, si costruiscono invece case per la vendita ad appartamenti separati.

 

 

Vi sono molti inquilini, specialmente a Roma, i quali acquistano l’alloggio nelle case nuove che si vanno innalzando sulla base della semplice pianta degli appartamenti a prezzi variabili da 10 a 20.000 lire per camera. Questi prezzi sono altissimi, ma paiono tuttavia tollerabili a coloro i quali si sentono chiedere, per l’affitto di modestissimi appartamenti da 7 a 10 camere, prezzi di affitti i quali vanno da 10.000 e 20.000 lire all’anno e che per avere il quartiere a questi prezzi sbalorditivi debbono assoggettarsi dall’acquisto oneroso del mobilio messosi dentro da intermediari speculatori. Resta per essi assai più conveniente comprare l’appartamento anche pagando per ogni locale un fitto corrispondente al costo di costruzione attuale. In questo caso il rischio della costruzione non è più del costruttore ma degli inquilini e questi lo ammortizzano risparmiando il soprafitto che sarebbe loro richiesto in questi momenti di scarsità di alloggi liberi, soprafitto che dovrebbe durare alcuni anni, e risparmiando altresì la taglia dell’acquisto del mobilio dagli speculatori.

 

 

Se il rischio della costruzione nel momento attuale debba essere appunto dello stato.

 

 

All’infuori di questi casi il rischio dovrebbe cadere sul costruttore, né si trova alcuno che sia disposto a correrlo. Nasce a questo punto la domanda: perché lo stato non si accolla esso il rischio medesimo se ritiene che la costruzione di case sia giovevole all’interesse generale? Supponendo ché il costo attuale sia di 6.000 lire ed il costo futuro si preveda in 3.000, ove lo stato si accolli l’onere della differenza, è evidente che l’industria privata potrà essere sollecitata a riprendere la costruzione perché l’onere residuo su di essa gravante si ridurrà a 3.000 lire per vano, ossia precisamente a quel valore che l’industria stessa privata ritiene abbia ad assumere il locale quando siano trascorse le attuali contingenze straordinarie.

 

 

Il problema di metodo.

 

 

Il problema dunque è questo: quale è il metodo più efficace e meno pericoloso perché lo stato si accolli il rischio della differenza fra il costo attuale e il costo futuro, perché lo stato, per cosi dire, lanci un ponte di passaggio tra il passato ed il futuro, superando l’ostacolo costituito al presente dagli alti ed eccezionali costi di costruzione che si presumono transitori.

 

 

 

I due metodi seguiti nella legislazione vigente: esenzioni tributarie e premi alle costruzioni.

 

 

Due metodi si contrastano a questo riguardo il campo: uno è quello delle esenzioni di carattere tributario, e l’altro è quello dei premi diretti alle costruzioni. Ambedue i sistemi sono stati adottati dal legislatore italiano per quel che si riferisce alle case economiche e popolari. Noi, come sopra fu già avvertito, non abbiamo la veste ed espressamente escludiamo dalle nostre considerazioni tutto ciò che si riferisce alle case popolari ed economiche intorno a cui non siamo stati chiamati ad esprimere alcun parere.

 

 

Riferendosi soltanto alle case che si possono chiamare non popolari, la legislazione vigente è regolata dai già citati testo unico 30 novembre 1919, n. 2.318, articoli 44, 45, 46, e regio decreto-legge 8 gennaio 1920, n. 16, articoli 2, 3 e 4.

 

 

Le norme vigenti accettabili: riduzione della tassa di registro.

 

 

Il sistema seguito in questi articoli è quello della esenzione temporanea e della riduzione di tasse ed imposte. Alcune di queste disposizioni ci trovano senz’altro consenzienti. Così, ad esempio, la norma dell’art. 45 del testo unico, la quale riduce ad 1/4 della misura normale la tassa di registro sui contratti di appalto di costruzione, completamento e restauro al fabbricato, è da approvarsi perché rappresenta una tendenza la quale sarebbe utile da seguire in generale ed in modo permanente, allo scopo di non ostacolare la stipulazione perfetta di questi contratti e la eliminazione di ogni causa di controversia intorno ad essi.

 

 

Così pure ci trova consenzienti la riduzione a metà, sancita dall’art. 46 del medesimo testo unico, dell’ordinaria tassa di registro, dovuta sulla compra-vendita di case stipulata entro un triennio dal trasferimento stesso.

 

 

Questa riduzione a metà ha carattere razionale in quanto la tassa di registro non ha per scopo suo di colpire realmente il trasferimento delle case, ma piuttosto è un metodo escogitato per tassare i capita investiti nelle case stesse; quindi razionalmente la tassa di registro dovrebbe essere tanto più tenue quanto più e breve l’intervallo fra un trasferimento ed un altro e dovrebbe invece inasprirsi quando il trasferimento avviene a periodo di tempo molto lungo. Soltanto in tal modo l’imposta può essere perequata e non costituire una ingiusta spogliazione degli uni ed un arricchimento degli altri contribuenti. Certamente è difficile seguire questa regola in maniera completa, ma ogni disposizione la quale si avvia a questo risultato deve essere considerata come approvabile.

 

 

L’esenzione dai dazi di importazione dei materiali da costruzione.

 

 

Plaudiamo altresì all’art. 4 del decreto 8 gennaio 1920, il quale accorda l’esenzione dai dazi di importazione ai materiali di costruzione che servono a case di abitazione, escluse quelle di lusso, da iniziarsi entro un anno dal 5 luglio 1919 e da completarsi entro il 30 giugno 1922.

 

 

Questa norma, non ancora abbastanza conosciuta, corrisponde ad un desiderio manifestatoci da moltissime parti, data la scarsità grandissima dei materiali da costruzione e la difficoltà di poterseli procurare all’interno. Importanti consumatori di materiali da costruzione hanno espresso la loro convinzione, non sappiamo quanto fondata, che i produttori nazionali, specialmente di materiale da costruzione in ferro, mettano assai poca buona volontà nell’occuparsi delle richieste dell’industria edilizia. L’importazione in franchigia dei materiali da costruzione dall’estero potrebbe servire di sprone e di calmiere, sovrattutto di calmiere, notandosi differenze enormi fra i prezzi che sono quotati all’estero ed i prezzi italiani. Gioverebbe che le norme al riguardo fossero divulgate, rese applicabili colla massima semplicità, e gioverebbe altresì che il termine del 30 giugno 1922 fosse almeno prorogato sino all’1 gennaio 1924, data alla quale, secondo il sistema da noi proposto, si dovrebbe rientrare nel regime normale delle contrattazioni.

 

 

La esenzione temporanea dalle imposte e sovraimposte sui fabbricati per le nuove costruzioni.

 

 

Ma più vivo dibattito suscitò la norma contenuta adesso nell’articolo 2 del decreto dell’8 gennaio 1920, relativa alla esenzione temporanea dalle imposte e sovraimposte sui fabbricati di nuova costruzione.

 

 

Il regime vigente si riassume così:

 

 

  • 1) esenzione completa per 10 anni delle case di abitazione, escluse quelle di lusso, la cui costruzione sia iniziata entro un anno dal 5 luglio 1919 e completata entro il 30 giugno 1922;
  • 2) proroga per un secondo decennio, quando si constati alla fine del primo decennio un deprezzamento di almeno un quinto dell’immobile per mutate condizioni di mercato, in confronto al costo di costruzione del fabbricato, calcolato in base ai prezzi correnti, per gli elementi principali della costruzione;
  • 3) ulteriore proroga di altri 5 anni sempreché si accerti una persistenza di un deprezzamento dello stabile di almeno un quinto in confronto del primitivo accertamento compiuto al momento della costruzione.

 

 

Riforme da introdursi nel sistema vigente della esenzione temporanea, ove lo si voglia mantenere.

 

 

A questo sistema si possono fare obbiezioni di indole subordinata e di indole generale. Quelle dell’indole subordinata si riferiscono a riforme che sarebbe opportuno di introdurre nel sistema ove si ritenesse di mantenerlo.

 

 

In questo caso la Commissione è di parere che il sistema delle successive proroghe sia per dimostrarsi poco attraente alla maggior parte dei costruttori di case. Un beneficio incerto e subordinato ad una perizia è un beneficio il quale ha poco valore. Per ottenere la proroga bisogna far fare un primo accertamento dall’intendenza di finanza in contraddittorio con il proprietario ed i suoi incaricati e con decisione inappellabile dell’ingegnere capo del genio civile della provincia. Bisogna perciò cominciare a costruire nell’incertezza che poi la valutazione fatta in seguito a perizia corrisponda al costo vero della costruzione. Alla scadenza dei 10 anni nuova perizia per accertare che lo stabile è deprezzato di almeno un quinto in confronto al primitivo accertamento. Possibilità di discussioni, specie sui deprezzamenti dovuti a trascurata manutenzione, a sinistri od a danni e per i miglioramenti arrecati da lavori straordinari dopo la costruzione, dei quali non si dovrebbe tener conto.

 

 

Tutte queste formalità e pratiche e incertezze graveranno sulla valutazione che i costruttori saranno portati a fare dell’esenzione promessa dall’imposta sui fabbricati. Meglio sembra alla Commissione che, ove vogliasi mantenere il sistema, sia definito chiaramente e una volta per sempre il numero degli anni per cui l’esenzione è data. Meglio gioverebbe a stimolare l’iniziativa privata una esenzione franca per un numero minore di 25 anni, ad esempio per 15 o 20 anni, piuttostoché i tre periodi successivi di 10, 10 e 5 anni. Praticamente lo stato avrà il danno dell’esenzione per tutti i 25 anni, in quanto le perizie finiranno per riscontrare, per vari motivi più o meno plausibili, l’esistenza dei deprezzamenti voluti. Sicché è meglio che ove il danno abbia a prodursi, questo sia stabilito per un numero di anni certo e definito fin da ora.

 

 

Il sistema della esenzione, considerato in se stesso: i precedenti.

 

 

Ma il dubbio fondamentale che la Commissione mette innanzi è quello se giovi conservare questo metodo di incoraggiamento alle nuove costruzioni o non invece convenga sostituirlo con l’altro del premio alle costruzioni. L’esperienza storica ci fornisce esempi dell’uno e dell’altro sistema. Ricordasi l’esenzione concessa a Torino per 50 anni ai fabbricati dell’antica via Dora Grossa, attuale via Garibaldi e della piazza San Carlo, esenzione che pare sia stata feconda di utili risultati. Si può citare d’altra parte il premio di 160 Lst. che il governo inglese oggi concede a chiunque voglia costruire una casetta comprendente il numero dei vani, all’incirca cinque, necessari per l’abitazione di una famiglia. Gli argomenti relativi alle due tesi si possono così riassumere.

 

 

I vantaggi.

 

 

Il sistema dell’esenzione dall’imposte è in primo luogo già introdotto nella nostra legislazione finanziaria. Esso fu giustificato in passato partendo dal concetto che l’erario pubblico nulla perde rinunciando ad una materia imponibile che attualmente non esiste, anzi si prepara per l’avvenire una messe più cospicua, perché i capitali incoraggiati ad accorrere verso l’industria edilizia daranno luogo a costruzioni numerose che, passato il periodo di esenzione frutteranno allo stato ed agli enti locali messe cospicua di imposta e sovraimposte.

 

 

In secondo luogo il sistema dell’esenzione è semplice, non importa una contabilità complicata tra contribuente ed amministratore.

 

 

In terzo luogo risponde ad un desiderio vivo dei costruttori ed anche degli acquisitori delle case, i quali si sottraggono alle incertezze derivanti dalle variazioni dell’ammontare delle imposte e precipuamente delle sovraimposte, ottenendo l’uso della casa franco di oneri pubblici per un lungo periodo di tempo corrispondente praticamente alla vita probabile di coloro i quali si rendono acquisitori di casa per propria dimora.

 

 

Gli inconvenienti.

 

 

Ma contro questo vantaggio si oppongono d’altro canto obbiezioni di gran peso, le quali distruggono le argomentazioni dei fautori delle esenzioni e di questa fanno risaltare difetti non piccoli.

 

 

Non vale in primo luogo l’argomento che l’erario dello stato a nulla rinunci, perché la materia imponibile non esiste ed anzi si prepari, come sopra si è detto, una ricca messe di entrate per l’avvenire. Questo è un errore proveniente dall’aver immaginato che il capitale che si sarebbe impiegato nella costruzione attrattovi dalle esenzioni tributarie non potrebbe altrimenti trovare impiego e dare frutti. Ora questo non è; il capitale esistente in un paese in un determinato momento è una quantità definita, la quale tutta si impiega lasciandosi attirare verso gli impieghi più produttivi. Se l’impiego più produttivo, a causa dell’esenzione tributaria, diventa quello edilizio, questo è un impiego sostituito a quegli altri che sicuramente in caso contrario sarebbero stati preferiti.

 

 

Quindi l’erario pubblico senza alcun dubbio rinuncia positivamente e subito alla massa di imposte che avrebbero potuto ottenere dalle imprese e dai redditi che sarebbero sorti in conseguenza di quegli altri impieghi favoriti. È dunque una pura illusione credere che lo stato non compia nessun sacrificio con queste esenzioni di imposte.

 

 

Il sacrificio c’è ed è completo.

 

 

In secondo luogo il preteso vantaggio della semplicità ci pare non esista in misura superiore a quello che può ottenersi coll’altro sistema dei premi.

 

 

Se facile è definire quale sia la casa la quale evita di essere esentata dall’imposta è altrettanto facile definire quella la quale merita di essere incoraggiata con un premio.

 

 

Se qualche difficoltà si presenta, come ad esempio quella connessa all’articolo 2 del decreto dell’8 gennaio e derivante dalla necessità di valutare se la parte dei fabbricati adibita o affittata per botteghe, magazzini, esercizi industriali, cantieri e simili, dia un reddito non superiore al quarto del reddito o dell’intero fabbricato, questa difficoltà esiste medesimamente per il sistema dell’esenzione e per il sistema dei premi. Del resto già sopra si misero in rilievo gli inconvenienti derivanti dalla scissione del periodo dei 25 anni in tre sotto periodi, dei quali il primo soltanto è certo e gli altri due sono incerti.

 

 

Questa difficoltà è più grave col metodo dell’esenzione che col metodo del premio, in quanto col metodo del premio lo stato si grava di una somma certa e non aumentabile, mentre può ammettersi che lo stato esiti a rinunciare per 25 anni ad un ammontare di imposte e sovraimposte variabili nel tempo e soggette probabilmente ad aumenti, specie per quanto si riferisce alle sovraimposte.

 

 

Distinzione tra esenzioni e privilegi tributari.

 

 

In terzo luogo la simpatia da cui è circondato il metodo dell’esenzione dall’imposta nel pubblico è un sentimento il quale va combattuto in ogni modo perché contrario all’interesse pubblico e dimostrazione di poco civismo.

 

 

Qui entriamo nel vivo dell’argomento.

 

 

Il sistema delle esenzioni dall’imposta, che si è andato diffondendo nella legislazione italiana allo scopo di incoraggiare il raggiungimento di fini particolari e in ispecie la esenzione dalle imposte per le costruzioni edilizie è uno dei fenomeni più contrari a qualsiasi concetto di equa distribuzione dell’imposta che si possano immaginare.

 

 

Bisogna nettamente distinguere tra esenzioni e privilegi. La legislazione tributaria nelle sue tendenze più moderne è favorevole all’allargamento delle esenzioni tributarie, in quanto queste esenzioni si colleghino con le condizioni personali dei contribuenti. È per questi motivi che si ampliano le esenzioni dei redditi minimi; nel decreto del 24 novembre scorso si sancisce il principio che l’esenzione per i redditi minimi sia portato dalle antiche 400 lire imponibili alle nuove 1.200 lire effettive, e si preordina dopo il trascorrere di un quinquennio l’estensione della esenzione anche ai redditi dei terreni.

 

 

È per questi motivi che lo stesso decreto nella parte istitutiva dell’imposta complementare progressiva sul reddito accorda larghe esenzioni per i redditi più bassi, per carichi di famiglia, per pagamenti di quote di assicurazione contro la vita e quote di previdenza. Tutto questo sistema che con nuovo fervore va affermandosi nella legislazione fiscale ha per scopo di graduare l’onere tributario in rapporto alla capacità effettiva del contribuente a pagare imposta.

 

 

Contro questo sistema moderno veramente democratico, ispirato a concetti di giustizia tributaria, si erige il metodo dei privilegi, il quale or qua or là tenta ancora di rinnovare i danni prodotti nel passato. È un privilegio, ad esempio, esentare dall’imposta non chi si trova in condizioni personali tali da fargli giustamente pretendere l’esenzione, bensì colui che appartiene ad una classe o colui che esercita un’industria. È giusto e democratico che siano esentati dall’imposta sul reddito complessivo coloro che hanno un reddito inferiore a 4.000 lire e coloro che, pur avendo un reddito superiore, sono carichi di famiglia, ma non è affatto democratico né comportabile che si esentino coloro che hanno il nome, ad esempio, di operai o di proprietari di terreni esercenti l’industria agraria in economia, solo perché appartengono ad una classe e nonostante che il loro reddito sia di gran lunga superiore al minimo esente. Sotto mutato nome, si ristabiliscono le immunità del clero e della nobiltà.

 

 

L’esenzione dei membri di una classe come tale, anche se provveduti di un reddito di 1.000 lire al mese, è antidemocratica ed anticivica, mentre l’esenzione di tutti coloro i quali hanno un reddito minimo è corretta ed ispirata a criteri di giusta ripartizione delle imposte. È corretto accordare l’esenzione dall’imposta per un primissimo periodo iniziale alle intraprese e quindi anche alle case, ad esempio per due anni, per il quale si può presumere che praticamente il reddito non si sia ancora formato, ma è scorretto e dannoso per la cosa pubblica che vi siano categorie speciali di industrie le quali vadano per lungo periodo di tempo esenti dall’imposta. Sono da condannarsi perciò aspramente tutte le esenzioni le quali sono tornate di moda e che hanno per scopo di esentare o dalle imposte ordinarie o da quelle sui sopra profitti certe speciali industrie, come quella delle costruzioni e dell’armamento delle navi, dello scavo e dell’esercizio di miniere di lignite ed anche, diciamo noi sovrattutto in questa sede, le costruzioni delle case civili.

 

 

Danni dei privilegi tributari.

 

 

I danni che questo sistema di esenzione procura sono parecchi:

 

 

  • 1) in primo luogo si crea una classe particolare di cittadini privilegiati, la quale pur avendo redditi capaci di sopportare l’imposta, rimane sottratta al regime normale dell’imposizione. Questo è un privilegio perfettamente eguale ai privilegi del clero e della nobiltà nell’antico regime ed è condannabile;
  • 2) si disinteressa tutta una classe di cittadini della cosa pubblica per l’immunità tributaria di cui essi godono. Ora ciò potrà essere simpatico, ma è anticivico. È assolutamente necessario che tutti coloro i quali si trovano nelle condizioni soggettive per pagare le imposte le paghino, perché solo a questo prezzo essi saranno indotti ad occuparsi della cosa pubblica e ad esercitare quel controllo su di essa che è dovere di tutti i cittadini;
  • 3)in terzo luogo la esenzione fa nascere l’illusione che l’erario pubblico nulla perda; pura illusione, come sopra si è dimostrato, e dannosissima per i suoi effetti in quanto in tal maniera non si fa chiaramente risultare nel bilancio della spesa l’onere che i contribuenti sopportano per concedere un sussidio ad una determinata categoria di cittadini. Supponiamo ad esempio che lo stato italiano ritenga opportuno di spendere un miliardo di lire per incoraggiare l’industria edilizia. Se questo miliardo di sussidi viene concesso sotto forma di esenzione dall’imposta per 10, 20 o 25 anni, ecco che il miliardo di sussidio non compare affatto in nessuno dei bilanci dello stato; sembra che questa spesa non sia mai esistita, mentre invece essa esiste ed è ingente;
  • 4) in tal modo si sottrae al Parlamento il controllo su una parte delle pubbliche spese; viene meno la funzione costituzionale degli organi legislativi, i quali non possono esprimere la loro opinione su una spesa di cui la cifra non figura in bilancio; danno politico questo non lieve e che dovrebbe essere evitato a qualunque costo;
  • 5) col generalizzarsi dei privilegi tributari l’onere delle imposte non diminuisce ma soltanto va a cadere su una materia imponibile che sempre più si restringe col crescere dei privilegi. Le aliquote dell’imposta forzatamente debbono diventare alte ed incomportabili man mano che qualche classe o qualche industria riesce con speciosi pretesti a strappare la immunità tributaria? Siamo ricondotti senza volerlo alle condizioni tributarie del basso impero quando le imposte andavano tutte a cadere sul decurionato e nessuno più voleva accettare le cariche o a quelle che si dice prevalessero prima della Rivoluzione francese quando il terzo stato doveva sostenere le spese pubbliche per sé e per le classi immuni.

 

 

L’esenzione dall’imposta delle case nuove non fa si che il municipio cessi proporzionatamente, di dover costruire marciapiedi, aprire strade, sostenere la spesa dell’illuminazione e della pubblica sicurezza nei nuovi quartieri, apprestare aule scolastiche ed asili ai figli degli inquilini delle case nuove privilegiate; le spese vanno via via crescendo col crescere della superficie destinata a costruzioni, ma le spese vanno a gravare tutte sulla residua materia imponibile, la quale va restringendosi o tutt’al più rimane stazionaria.

 

 

Il difetto principalissimo delle imposte italiane, che è la enormità delle aliquote, è costretto perciò ad inasprirsi appunto perché alcuni contribuenti debbono sopportare il danno della immunità di cui godono gli altri contribuenti. Nessun sistema perciò di incoraggiamento alle nuove costruzioni deve essere considerato come più corruttore e condannabile dal punto di vista generale e politico, di questo dell’esenzione dalle imposte.

 

 

Avviso unanime della Commissione favorevole al sistema dei premi.

 

 

La Commissione perciò fu di unanime avviso che ad esso dovesse preferirsi il sistema franco ed aperto dei premi alle nuove costruzioni. Se si ritiene che il fine dell’incoraggiamento alle nuove costruzioni sia degno di essere raggiunto in uno stato moderno e civile, il Parlamento ogni anno deve sapere e discutere la somma dei sussidi che deve essere pagata per incoraggiare le nuove costruzioni.

 

 

In questo modo si evita anche un pericolo insito nel sistema delle esenzioni. Queste vanno di tempo in tempo inutilmente prolungandosi in quanto sembra sempre che lo stato a nulla rinunci. Invece è assolutamente necessario che il legislatore possa intervenire quando l’esperienza abbia dimostrato che il periodo della crisi edilizia è ormai trascorso e che le costruzioni nuove sono possibili senza alcun sussidio da parte dello stato.

 

 

L’intervento dello stato a dare un sussidio non deve essere circondato da quella luce fatuamente simpatizzante con cui si circondano le esenzioni tributarie: deve essere ritenuto come una cosa seria, un sacrificio notevole fatto sopportare ai contribuenti in generale per il raggiungimento di un fine di interesse comune. Deve essere ben impresso dinanzi all’opinione pubblica il concetto che quel sacrificio è tollerabile soltanto fino a che quel fine non sia ancora raggiunto: ma quando il fine stesso sia ottenuto, la crisi sia passata, le costruzioni siano possibili senza incoraggiamento, sarebbe gravissimo danno, sarebbe anzi ingiustizia stridente continuare nel sistema dei sussidi.

 

 

Premi in contanti. Si esclude che il premio sia dato con nuovi biglietti.

 

 

Passando ora alla definizione del metodo più opportuno per la concessione dei premi di costruzione, la Commissione si è trovata dinanzi a parecchi sistemi; un primo sarebbe la concessione di un premio in denaro contante, quando la costruzione sia giunta ad un certo punto, ovvero a costruzione ultimata. Ma il sistema presenta il vizio di richiedere allo stato lo sborso di una somma che forse l’erario nel momento presente non ha disponibile e che dovrebbe procurarsi sia emettendo nuova carta moneta, sia ricorrendo a prestiti. La emissione di carta moneta è da escludersi nel modo più energico. Sulla circolazione e quindi sui prezzi premono non soltanto i biglietti emessi per conto diretto dello stato, ma anche i biglietti che si dicono emessi per conto diretto del commercio. Ove pure si ritenga che i biglietti emessi per dare premi ai costruttori abbiano ad appartenere alla categoria della circolazione per conto del commercio, nessuna differenza sostanziale si può riscontrare tra questa categoria e quella dei biglietti emessi per conto dello stato, per quanto si riferisce alla spinta degli aumenti dei prezzi. I costruttori di case pagherebbero i materiali da costruzione, gli operai, ecc., con biglietti nuovi; sarebbe una domanda nuova di merce, la quale verrebbe ad essere posta sul mercato ed una nuova spinta all’incremento generale dei prezzi.

 

 

Vantaggi e inconvenienti del premio in rendita consolidata o in titoli speciali edilizi.

 

 

Potrebbe invece lo stato concedere il sussidio ai costruttori sotto forma di titoli di debito pubblico, sia che i titoli fossero uno speciale titolo edilizio, sia che, più opportunamente e per non moltiplicare a dismisura i tipi dei titoli posti sul mercato, un comune titolo di debito pubblico, consolidato perpetuo 5%, fosse consegnato dallo stato ai costruttori al prezzo corrente di mercato, purché non inferiore ad una cifra la quale di volta in volta fosse fissata dal Ministero del Tesoro.

 

 

Questo sistema si presenta come simpatico e semplice, non aumenta la circolazione perché il costruttore dovrà vendere sul mercato il titolo contro biglietti già circolanti, quindi non si introduce sul mercato una domanda nuova di merci, ma si sposta soltanto quella precedente e non si da una spinta all’aumento del livello generale dei prezzi.

 

 

Fu osservato però che in tal modo la quantità di titoli messa sul mercato non dipenderebbe più dai criteri, qualunque essi siano, del Ministero del Tesoro, ma dall’interesse privato dei costruttori, i quali col moltiplicare le costruzioni costringerebbero lo stato ad aumentare anche la sua emissione di titoli di debito pubblico. Argomentazione questa la quale non ha una portata assolutamente decisiva, in quanto che o con un metodo o con un altro, o con prestiti pubblici o con prestiti privati, o con utilizzazione di capitale proprio, la costruzione di case nuove implica un assorbimento del nuovo risparmio. Quindi, a parità di altre condizioni, un rialzo nel saggio dell’interesse ed un’influenza depressiva sul corso di tutti i titoli esistenti nello stato. Giova però riconoscere che altra cosa è l’influenza diretta dell’emissione di titoli pubblici, altra l’influenza indiretta che sul medesimo titolo si può esercitare per una nuova domanda generica di capitale attraverso ostacoli ed attriti molteplici. Quindi si può comprendere la ripugnanza del tesoro all’emissione di titoli di debito pubblico per concedere premi agli industriali che si ritiene opportuno di incoraggiare.

 

 

Premio per mezzo di contributi al pagamento degli interessi sui mutui edilizi.

 

 

Non possiamo d’altro canto non tener conto di una circostanza la quale suffraga siffatta ripugnanza ed è che forse nel momento presente il privato costruttore di case riesce ad ottenere a mutuo con ipoteca prestiti a condizioni più favorevoli di quelle a cui lo ottiene lo stato. Non è impossibile che mentre lo stato paga il 5,71% e, tenendo conto del premio di rimborso, forse anche il 6% e più di interesse sui suoi mutui, il privato proprietario di case possa ottenere prestiti al 5%. Conviene perciò nell’interesse generale che sia lasciata la cura al privato costruttore di procacciarsi i capitali occorrenti da lui non posseduti nella maniera che a lui sembrerà più opportuna. Si presenta a questo punto alla nostra attenzione il metodo che già è introdotto nella legislazione vigente, secondo il testo unico relativo alle case popolari ed economiche.

 

 

Per queste, a norma dell’art. 30, lo stato contribuisce al pagamento di una parte, degli interessi dei mutui concessi, contro prima ipoteca e non eccedenti il 75% del valore accertato dagli immobili costituiti in ipoteca. Il testo unico non suggerisce quale sia la misura del contributo dello stato al pagamento degli interessi, ma da autorevole fonte siamo stati informati che quel contributo può giungere sino al 4% del capitale preso a prestito e praticamente si aggira intorno a questa cifra.

 

 

Il sistema è certamente semplice.

 

 

L’onere dello stato verrebbe chiaramente indicato nel bilancio del Ministero dell’Industria; lo stato potrebbe fermarsi nella concessione di nuovi contributi di interesse quando riscontrasse che il bisogno dell’incoraggiamento più non esiste e così i suoi impegni potrebbero essere chiaramente determinati in una cifra massima, nella stessa agevole maniera che si potrebbe fare per il premio in contanti.

 

 

Preferenza data a questo sistema da tecnici pratici.

 

 

Il sistema del contributo dello stato nel pagamento degli interessi parve raccomandabile, anche a parecchi tecnici pratici che abbiamo avuto occasione di interrogare.

 

 

Richiesti intorno al loro parere sulla preferenza da darsi all’esenzione dalle imposte ovvero al contributo al pagamento degli interessi, questi tecnici nettamente si manifestarono propensi al secondo sistema, come quello che a loro avviso dà effettivamente un aiuto ai costruttori per sopperire all’eccedenza di costo nella costruzione oltre i valori che la costruzione si presume possa avere a cose riassestate.

 

 

L’esenzione dalle imposte è sicuramente un beneficio, osservano questi tecnici, ma sulla garanzia di questo beneficio non si può ottenere alcuna somma a mutuo; mentre se lo stato contribuisce al pagamento di una parte degli interessi dei mutui ipotecari accesi sulla casa, resta molto facilitata la ricerca della somma a mutuo e questa può ottenersi a migliori condizioni. Questi stessi tecnici, appartenenti a un grande istituto per le case di impiegati, ritengono però che lo stato meglio provvederebbe a facilitare la ricerca dei mutui da parte dei privati costruttori, quando il contributo stesso non si riferisse soltanto all’interesse dei mutui, da contrarsi, ma si riferisse all’annualità complessiva che gli istituti mutuanti impongono ai privati mutuatari di pagare per un dato periodo di anni a titolo di interesse, quota di ammortamento, rimborso delle imposte, diritti ed accessori.

 

 

Metodo dell’annualità trentennale proposto dalla Commissione.

 

 

Questa idea, espostaci da tecnici competenti di riferire il contributo dello stato alla annualità complessiva dovuta dai mutuatari agli istituti mutuanti fu quella la quale ci condusse a quella proposta definitiva che la Commissione si onora di presentare all’E. V. La proposta si ispira agli esempi da lungo tempo introdotti nella nostra legislazione, con fortuna, a proposito delle concessioni ferroviarie e di altre opere pubbliche. Lo stato per queste concessioni dà ai concessionari che si obbligano alla esecuzione di una data opera pubblica, un’annualità costante comprensiva di ammortamento e di interesse e duratura per un certo numero di anni, ad esempio 1.000 lire per chilometro di ferrovie e per 30 anni. Questo sistema presenta vantaggi notevoli, in quanto il concessionario, il quale ha diritto di ricevere dallo stato l’annualità trentennale, può agevolmente cederla ad una Cassa di risparmio od altro istituto di credito in cambio di una somma capitale con cui egli provvede alla costruzione della ferrovia.

 

 

Vantaggi già sperimentati del sistema.

 

 

Il sistema, già noto, ha creato un mercato delle annualità abbastanza importante. Parecchi sono gli istituti i quali finanziano le opere pubbliche acquistando le annualità dovute dallo stato: il concessionario non ha più rapporti finanziari con lo stato, in quanto la Cassa di risparmio o l’istituto cessionario riscuote direttamente l’annualità dallo stato. Il concessionario quando non voglia cedere l’annualità ad un istituto di credito, può direttamente emettere sul mercato azioni ed obbligazioni e farne il servizio con l’annualità statale: insomma il contributo per mezzo di annualità, si presta ad una varietà di combinazioni la quale giova moltissimo al compimento di un’opera pubblica consigliata dall’interesse generale ed impossibile a compiersi per sola iniziativa privata.

 

 

Sua applicazione alle case civili.

 

 

Il medesimo sistema può essere applicato anche alle case civili. Lo stato, secondo la nostra proposta, contribuirebbe per le case di abitazione civile di cui si iniziassero le costruzioni entro il 1920 e che risultassero abitabili entro il 31 dicembre 1923, con un’annualità non superiore al 40% del costo di costruzione della casa, escluso quindi il valore dell’area. L’amministrazione potrà far variare il contributo entro il limite massimo del 40% a seconda delle speciali circostanze dei casi, così da dare un contributo maggiore in quei casi nei quali le difficoltà da superare per le costruzioni fossero maggiori. Il contributo sarà corrisposto al privato costruttore sotto forma di annualità costante comprensiva delle rate di ammortamento e degli interessi al saggio del 5% con differimento minimo pari a 30 anni. Ciò vuol dire che se una casa costasse per la sua costruzione 100.000 lire, lo stato dovrebbe pagare come contributo massimo suo lire 40.000. Le 40.000 lire non sarebbero pagate in contati ma verrebbero trasformate in una annualità per la durata minima di 30 anni ed eventualmente anche superiore, annualità calcolata al saggio di interesse del 5%. Si è assunto il saggio del 5% sebbene questo sia inferiore al saggio d’interesse pagato dallo stato per il consolidato al saggio effettivo, perché dovendo l’operazione avere una lunga durata è sembrato opportuno fare i propri calcoli su un saggio di interesse che fosse alquanto minore di quello eccezionale presentemente vigente. Il costruttore della casa, ricevendo l’annualità dallo stato, ne potrà fare l’uso che riterrà migliore. Se egli, come accadrà in molti casi, non sarà provveduto di tutto il capitale occorrente alla costruzione, cederà l’annualità ad un istituto di credito od anche ad un privato alle condizioni migliori che gli saranno possibili. Ma vi è un vantaggio grandissimo nello scegliere questo sistema ed è che in questo modo si incoraggia altresì l’impiego di capitali nella costruzione di case da parte di coloro i quali sono già essi forniti di capitali ma non li investirebbero mai nelle costruzioni edilizie, perché a giusta ragione temerebbero di ricevere dal capitale loro, dati gli altissimi costi della costruzione, una remunerazione troppo bassa, o (cosa che equivale ad esporre il medesimo concetto) temerebbero di vedersi sfumare di tra le mani, dopo qualche anno, una parte del valore della casa quando il costo di costruzione si fosse ridotto ad una cifra inferiore. In questa guisa invece il costruttore spende anche volentieri le 100.000 lire che egli possiede, ben sapendo che fra qualche anno la casa sua non avrà più il valore di 100.000, ma solo di 60.000, perché lo stato gli concede il rimborso delle restanti 40.000 lire sotto forma di annualità trentennale o ultra trentennale.

 

 

Ragioni del limite del 40% del costo di costruzione.

 

 

La percentuale massima di concorso dello stato, entro il limite del 40%, fu adottata come quella che corrisponde all’incirca ad un contributo di metà degli interessi e della rata di ammortamento per mutui equivalenti al 75% del valore della casa costruita. Sono tutte formule le quali conducono al medesimo risultato; ma il sistema proposto dalla Commissione pare più semplice e più atto allo scopo di incoraggiare l’investimento di capitali nella industria edilizia nella maniera più larga possibile. Il 40% si riferisce solo al costo delle costruzioni, non al valore dell’area. Questa, nell’attuale scarsità di costruzioni, non ha subito aumenti apprezzabili di prezzo reale in confronto all’ante – guerra, né v’è pericolo di grandi svalutazioni per l’avvenire. Manca perciò la ragione di far contribuire lo stato al pagamento del suo prezzo di acquisto.

 

 

Suggerimento che lo stesso metodo sia applicato alle case popolari.

 

 

Pare anzi alla Commissione che la proposta da essa fatta possa essere presa in considerazione dal legislatore anche per ciò che si riferisce alle case economiche e popolari contemplate da leggi apposite ed a cui oggi la legislazione vigente assicura benefici molto più importanti, nella loro portata complessiva, di quello che non sia la concessione di una annualità trentennale proposta dalla Commissione per le case civili. Invero questo sarebbe l’unico beneficio diretto concesso dallo stato alle case civili, beneficio a cui si contrappone l’obbligo, che la Commissione vuole conservato, di pagare interamente le imposte e le sovraimposte gravanti sui fabbricati medesimi. Insomma il costruttore di case civili, da un lato, per le ragioni già ampiamente svolte dovrà continuare a pagare le imposte e le sovraimposte allo stato ed agli enti locali, dall’altro riceverà dallo stato un’annualità la quale può andare fino al 40% del costo della costruzione. È ben noto invece che per le case economiche e popolari i benefici sono notevolmente maggiori, in quanto lo stato concede l’esenzione per 25 anni da tutte le imposte e sovrimposte ed inoltre un contributo che può andare fino al 4% all’anno nel pagamento degli interessi sui capitali presi a mutuo per la costruzione delle case. Varie altre facilitazioni, che qui non monta di ricordare, sono, per il finanziamento e per la costruzione, concesse ancora alle case popolari ed economiche. La Commissione, mentre ritiene che non sia suo compito di esaminare l’argomento delle case popolari ed economiche, per tanti motivi e sotto tante specie favorite dallo stato non ritiene tuttavia fuori di luogo di far presente al legislatore se non convenga di sostituire a quello fra gli incoraggiamenti dati alle case economiche e popolari che consiste nel contribuire al pagamento degli interessi sui mutui, la concessione di un’annualità simile a quella proposta per le case civili. Gli enti costruttori di case popolari cioè, oltre ad avere tutti gli altri vantaggi sopra annoverati, dovrebbero poter avere la facoltà di scelta fra il contributo nel pagamento degli interessi sui mutui e la concessione di un’annualità. Probabilmente molti enti sceglierebbero questa seconda parte dell’alternativa, come quella che meglio consente a loro di ottenere a prestito le somme opportune alla costruzione delle case.

 

 

Confronto tra gli incoraggiamenti di stato alle varie specie di case.

 

 

Se questo concetto fosse accolto, questo sarebbe il quadro complessivo degli incoraggiamenti dati dallo stato alla costruzione delle varie specie di case.

 

 

  • Case di lusso:

Nessun incoraggiamento.

 

 

  • Case civili:
    • Premio sotto forma di annualità trentennale fino al 40% del costo di costruzione della casa (esclusa l’area).
    • Detrazione degli interessi passivi dei debiti dal reddito imponibile.

 

 

  • Case popolari:
    • Contributo al pagamento degli interessi sul mutuo contratto per la costruzione della casa ovvero, come sopra, premio sotto forma di annualità trentennale fino al 40% del costo di costruzione della casa.
    • Esenzione dall’imposta dei mutui contratti per la costruzione delle case.
    • Esenzione per 25 anni dall’imposta e dalle sovrimposte sui fabbricati.
    • Finanziamento ad interessi di favore degli enti, cooperative ed istituti per la costruzione di case popolari.

 

 

Cautele per il contributo statale alle costruzioni.

 

 

Allo scopo di cautelare lo stato sarà necessario che il costruttore, il quale intenda usufruire della concessione dell’annualità di concorso, presenti un progetto completo del fabbricato da costruire e del suo costo presunto. Ove il consuntivo superi di troppo, ad esempio di oltre il 10%, il preventivo, non si terrà conto dell’eccedenza nel determinare il valore della casa costruita.

 

 

Come già nella legislazione vigente per l’esenzione delle case di abitazione in generale dalle imposte e sovraimposte, esenzione che si propone qui di abolire, il concorso dello stato si limita alle case le quali non siano di lusso. È difficile di poter determinare, come sarebbe opportuno, quali siano i connotati precisi delle case di lusso, e perciò noi ci asteniamo dall’indicarle. L’autorità la quale dovrà esaminare il progetto di fabbricato per l’ammissione al concorso dello stato, dovrà pure, caso per caso, riscontrare se esistano quelle caratteristiche che nelle condizioni particolari della località possono indicare l’esistenza del fabbricato di lusso ed in tal caso il fabbricato non sarà ammesso preventivamente al concorso dello stato ed il costruttore sapendolo prima sarà libero di continuare o no nel suo divisamento di costruire.

 

 

Pure a guarentigia dello stato, si ritiene opportuno di concedere il beneficio del concorso dello stato soltanto a quei fabbricati i quali per almeno tre quarti siano destinati ad uso di abitazione, non potendo la parte destinata a botteghe, magazzini, ecc.. superare il quarto del valore dello stabile.

 

 

Altre riforme proposte di carattere tributario: detrazione delle annualità passive per le nuove costruzioni.

 

 

Accanto a questa proposta generale, che noi riteniamo la piùsemplice e la più efficace per favorire le costruzioni e la più chiara e meno pericolosa nell’interesse dello stato, alcune altre disposizioni noi riteniamo opportuno vengano introdotte nella legislazione finanziaria allo scopo di non ostacolare la costruzione di fabbricati nuovi.

 

 

È una lagnanza antica e giustificata dei proprietari di case quella contro la negata detrazione degli interessi passivi dei debiti gravanti sui fabbricati stessi. Il proprietario di un fabbricato fruttifero di 10.000 lire nette imponibili paga l’imposta su tutte queste 10.000 lire, anche quando esse siano decurtate di 5.000 lire di interessi passivi dovuti ad un creditore ipotecario. È questo un caso flagrante di doppia tassazione. Fin qui erano accomunati nella ingiustizia, insieme coi proprietari di fabbricati anche i proprietari dei terreni. Per questi ultimi però, a partire dall’1 gennaio 1926, secondo le norme sancite dal regio decreto-legge 24 novembre 1919, n. 2.162, essendo il reddito trasportato dalla categoria A/3 in quella B, esso godrà del diritto alla detrazione degli interessi passivi, così come ne godono gli altri redditi di carattere industriale. Il diritto alla detrazione è limitato agli interessi ipotecari, ai canoni, censi e livelli, ma è insomma riconosciuto si può dire quasi totalmente. Gli unici contribuenti, i quali rimarranno anche col nuovo ordinamento tributario soggetti a questa gravissima ingiustizia del pagamento dell’imposta su un reddito che non godono e che debbono passare ai creditori ipotecari, saranno i proprietari di fabbricati.

 

 

Noi non vogliamo in questa sede fare proposte, le quali pur sarebbero legittime, di estendere ai redditi dei fabbricati in genere il diritto comune alla detrazione delle annualità passive; ma non possiamo a meno di fare proposta formale affinché nella determinazione del reddito netto imponibile delle nuove costruzioni, si faccia luogo alla detrazione dal reddito dell’ammontare delle quote annue per interessi, diritti ed accessori dei mutui contratti, i quali restino a carico del costruttore e dell’acquirente dello stabile.

 

 

Noi riteniamo politicamente immorale e socialmente anti-civico che venga concessa una esenzione ai proprietari dei fabbricati nuovi dalle imposte e sovraimposte per il reddito da essi realmente goduto, ma riteniamo altrettanto immorale ed ingiusto che si faccia ad essi pagare l’imposta anche sul reddito che non hanno. Quindi il proprietario della casa nuova, costruita a seguito degli incoraggiamenti ricevuti dal governo, paghi le imposte come qualsiasi altro contribuente, ma abbia il diritto di pagarle soltanto sul reddito vero suo, depurato dalle quote annue che egli effettivamente pagherà per gli interessi, diritti ed accessori dei mutui contratti.

 

 

Egli cioè avrà diritto a detrarre dal suo reddito non tutta l’annualità da lui pagata per il servizio del mutuo contratto, ma l’annualità stessa meno la rata di ammortamento, essendo il pagamento della rata non un onere, ma un rimborso di debito, ossia un aumento di patrimonio per il contribuente debitore.

 

 

Carattere permanente della detrazione proposta.

 

 

Questo è un beneficio di carattere costante e perpetuo, il quale deve essere concesso ai costruttori di case nuove. È un beneficio il quale, mentre risponde a giustizia, non crea alcun privilegio, anzi toglie un privilegio a rovescio da cui erano afflitti giustamente i proprietari.

 

 

Servirà davvero di incoraggiamento potente alle nuove costruzioni, perché renderà possibile di ottenere somme a mutuo per le costruzioni, senza sottostare all’onere gravissimo di dover pagare due imposte per un solo reddito.

 

 

Voto perché lo stesso beneficio venga concesso anche alle costruzioni antiche; specie se il mutuo sia dato esso pure a costruzioni nuove.

 

 

Giova ritenere che questo principio, il quale dovrebbe essere sancito con carattere di assoluta permanenza per tutte le nuove costruzioni, qualunque esse siano, godano o non del concorso governativo, possa essere a breve scadenza esteso altresì alle costruzioni antiche.

 

 

Noi riteniamo anzi che convenga fin d’ora concedere il medesimo trattamento di giustizia tributaria anche per i fabbricati antichi i cui proprietari volessero accendere un mutuo ipotecario su di essi allo scopo di impiegarne il ricavo alla costruzione di case nuove. È ben noto invece che una delle difficoltà che si incontrano nel procacciarsi mutui su nuove costruzioni è quella, che i costruttori per lo più non posseggono una somma in contanti sufficiente per iniziare a costruzione e condurla almeno sino al tetto. Esigenza del resto sana e non da scoraggiarsi, in quanto fa sì che la costruzione di case nuove sia intrapresa soltanto da persone pratiche e solvibili e per conto di proprietari forniti di una parte del capitale occorrente alla costruzione. Ma se il costruttore possiede già un altro fabbricato non deve essergli di ostacolo la mancanza di un capitale in contanti per la nuova costruzione, perché egli può dare garanzia sui suoi vari stabili.

 

 

In tal caso però non deve sussistere l’ostacolo derivante dall’ingiusta legislazione vigente la quale colpisce due volte il reddito unico derivante dalla casa.

 

 

Con disposizione transitoria sarà agevole provvedere alle esigenze dello stato e degli enti locali i quali potrebbero essere danneggiati dalla scomparsa di una parte della materia imponibile. Il diritto a imposta e sovraimposta venuto meno a carico del proprietario del fabbricato potrebbe essere trasferito a carico del percettore degli interessi del mutuo ipotecario. Lo stato nulla perderà e rimarrà salvo il principio di giustizia che il reddito complessivo del fabbricato, comunque ripartito tra proprietari e creditori, venga ad essere colpito da una sola imposta e non da due.

 

 

Proposta non accolta di esenzione dall’imposta sui sopraprofitti di guerra delle somme destinate a nuove costruzioni.

 

 

Le considerazioni sopra fatte in merito alla esenzione dalle imposte, dispensano la Commissione dallo spendere molte parole riguardo ad una proposta che fu da varie parti messa innanzi e che si sostanzia nella richiesta di estendere alle nuove costruzioni il principio già ammesso per la costruzione di nuove navi e per l’impianto di coltivazioni di lignite ed altri combustibili nazionali.

 

 

È risaputo che la legislazione vigente concede di sottrarre all’imposta sui sopraprofitti i redditi di guerra qualora questi siano impiegati in una certa proporzione nell’acquisto di navi e nella utilizzazione dei combustibili nazionali.

 

 

Noi riteniamo non ammissibile il privilegio concesso in questi due casi ai contribuenti delle imposte sui sopraprofitti e non ci sentiamo perciò di accogliere la domanda che il medesimo ingiusto privilegio sia concesso a coloro i quali, avendo goduto dei sopraprofitti di guerra volessero consacrarli alla costruzione di case nuove.

 

 

Parte quinta

 

 

Provvedimenti tributari proposti per la costituzione di un fondo edilizio popolare.

 

 

Alla Commissione sono venute numerose proposte le quali tenderebbero a promuovere la risoluzione del problema delle abitazioni, usando lo strumento delle imposte. Due ordini di provvedimenti sono stati prospettati a volta a volta e qui si enunciano e si discutono separatamente.

 

 

Di un’imposta speciale sui locali esuberanti al fabbisogno delle famiglie.

 

 

Secondo una prima corrente, la costruzione delle case sarebbe favorita se i comuni fossero autorizzati a istituire un’imposta speciale sugli inquilini in ragione dei locali esuberanti al fabbisogno delle famiglie. Discordano notevolmente i proponenti nelle modalità del nuovo tributo e specialmente per quanto riguarda la definizione dei locali esuberanti, in quanto vorrebbero taluni si considerasse esuberante ogni locale in eccedenza al numero di uno per membro della famiglia, con l’aggiunta eventuale della cucina, anticamera ed altri locali di servizio; mentre altri vorrebbero che si differenziasse fra i diversi componenti della famiglia, così da concedere ai membri adulti due camere per capo e un minor numero per i minori di età e per le persone di servizio. Si discute ancora se tra i locali necessari debbano essere sempre annoverati, in aggiunta, la cucina, i locali di servizio, la camera da pranzo, lo studio, ecc. Intorno a queste particolarità del resto è inutile indugiarsi, in quanto il problema da discutersi è quello di principio, se convenga o non convenga l’istituzione di questa imposta speciale sui locali esuberanti.

 

 

Lo studio delle nuove imposte deve essere fatto con criteri tributari.

 

 

Qui la Commissione non poté a meno di rilevare che tale argomento sfugge dalla sua competenza specifica, mal potendo giustificarsi la proposta di istituire tributi nuovi ogni qual volta paia al legislatore di dover conseguire un determinato scopo. Lo studio dell’istituzione di tributi nuovi deve essere compito di quell’amministrazione la quale presiede alle cose tributarie. Non può prescindersi in questo studio dai rapporti che il nuovo tributo deve avere con tutti gli altri tributi già esistenti. È a notizia della Commissione, per comunicazione fattane dal suo presidente, che contemporaneamente a questa siede un’altra Commissione, la Commissione reale per l’ordinamento degli enti e dei tributi locali, la quale ha già lungamente fermata la sua attenzione appunto su questo problema dell’istituzione di un’imposta fondata sul valore locativo con carattere progressivo e tenendo conto anche dei locali esuberanti.

 

 

Inconvenienti di questa imposta, secondo opinioni autorevoli.

 

 

Quella Commissione, avente competenza specificatamente tributaria, ha lungamente discussa la possibilità di istituire un’imposta di questo genere, ma si è arretrata dinanzi agli inconvenienti che un’imposta specifica sui locali esuberanti o in genere sul valore locativo eccedente potrebbe provocare. Un’imposta di questo genere – fu riflettuto in quella sede – appartiene al tipo delle imposte le quali si fondano su un determinato indice della spesa. Conseguenza di tutte le imposte di questo genere è quella di tendere a restringere l’impiego di quell’indice che costituisce base d’imposta. Naturalmente gli inquilini tenderanno a diminuire il numero delle camere abitate, si provocherà una tendenza, non utile nel momento presente, ai locali grandi e si porrà ostacolo a quella che deve essere una delle preoccupazioni dell’edilizia moderna, cioè di utilizzare al massimo la cubatura, rispettando sempre le ragioni dell’igiene. Il locale ampio non è quello che è meglio adatto alle condizioni moderne di alto costo dei materiali da costruzione e degli altri elementi costruttivi; giova meglio all’uopo il locale relativamente piccolo ma congegnato in modo da sfruttare al massimo la costruzione. Un’imposta di questo genere è destinata a dare un’entrata decrescente alle finanze comunali, le quali sono invece assetate di entrate progressive e crescenti. Per questo motivo quella Commissione tributaria è venuta bensì nel divisamento che convenisse creare a favore dei comuni un’imposta sulla spesa con carattere di progressività e con esenzione variabile da caso a caso per la spesa necessaria o modesta, ma lasciando ai comuni una certa ragionevole libertà di valutazione degli indici della spesa, così da evitare che taluni contribuenti, evitando quella speciale spesa che fosse per essere scelta come indice, si sottraessero al loro debito di imposta verso l’erario comunale. Fra tutte le forme di spesa, rifletté quella Commissione, la spesa per l’abitazione è ancora una tra le più morali e più utili alla collettività; e non parve perciò che fosse conveniente di multare in maniera particolare questa spesa in confronto ad altre, molte volte più inutili e più dannose agli interessi collettivi.

 

 

La nostra Commissione. non può che prendere atto di queste conclusioni della Commissione reale per l’ordinamento degli enti e dei tributi locali e, senza prendere alcuna deliberazione in merito, pensa che, quando i comuni ritengano utile provvedere alla costruzione di case popolari, non sia necessaria l’istituzione di un’imposta speciale, ma giovi quel qualsiasi strumento tributario che si dimostrerà meglio atto a procacciare larghe entrate alle finanze comunali. Il comune dotato così di entrate crescenti, potrà, quando ne riconosca la necessità, devolvere una parte di queste entrate all’incoraggiamento delle costruzioni popolari ed alla creazione di un forte demanio edilizio.

 

 

Di una imposta sui proprietari in ragione degli aumenti di reddito non guadagnati ad essi concessi.

 

 

Un secondo ordine di provvedimenti tributari riguarda la istituzione di un’imposta da pagarsi non più dagli inquilini detentori di locali esuberanti come sarebbe quella precedente, ma di un’imposta gravante sui proprietari di case in ragione degli aumenti di fitto che fossero loro consentiti da oggi in poi. Si dice cioè da taluni: sia pur concesso ai proprietari di aumentare il fitto, ad ipotesi del 60%, sulla cifra attuale; ma di questo aumento soltanto una parte – ad esempio la metà – rimanga a loro favore e l’altra parte debba essere da essi versata ad una cassa speciale comunale o ad un istituto per le case popolari, e costituisca la base di un grandioso finanziamento per la costituzione di un demanio edilizio pubblico. Si giustifica questa proposta con il fatto che i proprietari di case ottengono un aumento di reddito, una vera rendita non guadagnata, derivante dalle circostanze in cui attualmente si svolge il mercato edilizio e si dice che a questo aumento di reddito debbano i comuni partecipare.

 

 

La Commissione ha esaminato anche questo problema e fa in proposito le seguenti osservazioni.

 

 

Esiste già l’imposta sugli aumenti di reddito superiori al 20%.

 

 

1. Già la legislazione vigente provvede a far partecipare gli enti pubblici (stato, provincia e comune) agli incrementi di reddito percepiti dai proprietari, in quanto ove il fitto percepito da essi aumenti di oltre un quarto in confronto del reddito imponibile accertato precedentemente, si fa luogo ad una revisione dell’imposta a favore dell’erario, e l’erario colpisce l’incremento di reddito con l’imposta fabbricati, con aliquote le quali giungono oggidì a circa il 24% per lo stato, oltre a percentuali variabili a favore delle provincie e dei Comuni, percentuali che in complesso portano la somma dell’imposta e delle sovraimposte a non meno del 40% ed in moltissimi casi al 50 ed al 60% del reddito. La partecipazione dunque del pubblico erario agli aumenti di reddito eventualmente ottenuti dai proprietari oltre un certo limite, è già stabilita nella legislazione vigente. Il problema si ridurrebbe perciò a studiare se questa partecipazione invece di essere attribuita, come è adesso, allo stato, alle provincie ed ai comuni in generale, debba invece essere attribuita ad un ente speciale per la costituzione di un demanio edilizio. E qui sorge la obbiezione già fatta che la Commissione non ritiene di sua competenza studiare e proporre riforme di carattere tributario a lunga portata. Devolvere un’entrata che oggi esiste, ma che è attribuita in parte allo stato ed in parte alle provincie ed ai comuni, ad un ente con destinazione speciale, è proposta la quale tocca troppo profondamente l’ordinamento tributario, in un momento in cui tutti gli enti pubblici hanno bisogno di forti entrate. La Commissione ritiene che l’importante sia di fornire gli enti pubblici di congrue entrate: essi discuteranno poi, nei loro organi legislativi ed amministrativi, quale uso debbasi fare di queste entrate, giudicheranno quindi se convenga destinare una parte di queste entrate alla creazione del demanio edilizio. Ma affermare tassativamente che certe pubbliche entrate debbano affluire, non più al tesoro dello stato o agli erari provinciali e comunali, ma ad un ente speciale, parve alla Commissione che fosse fuori del suo mandato.

 

 

Esiste già la tassazione degli incrementi pro tributari.

 

 

2. La tassazione degli aumenti di reddito o di quelli che si chiamano rendite non guadagnate, è argomento degnissimo di studio. Né la Commissione ignora come esso sia stato lungamente discusso appunto a proposito degli incrementi di valore delle aree fabbricabili e delle case costruite. Ricorda altresì come tale materia sia già disciplinata dagli articoli da 74 a 78 del regio decreto-legge 24 novembre 1918, n. 2.162, per il riordinamento dei tributi diretti, i quali sanciscono che tutti gli incrementi patrimoniali realizzati dai contribuenti debbano andare soggetti, con modalità che qui non monta di ricordare, e che in ogni modo sono notevolmente più perfette di quelle che da molte parti si propongono ad imitazione di cattivi esempi forestieri, all’imposta complementare progressiva sul reddito.

 

 

Inopportunità di studiare e legiferare oggi in ordine ad aumenti di reddito e di patrimoni. Manca ogni possibilità di confronto fra i redditi antichi e quelli nuovi.

 

 

Non può però a meno di riflettere la Commissione che il momento presente è quanto mai inopportuno per un esame e per una deliberazione in merito alla tassazione, sia degli aumenti di redditi che degli incrementi di valore. Questa tassazione presuppone come sua condizione necessaria la possibilità di fare dei confronti esatti di redditi e di valori fra un’epoca e un’altra. Per poter tassare l’aumento di fitto ottenuto da un proprietario da 10.000 lire nel 1914, a 15.000 nel 1921, sarebbe cioè necessario che i due termini, 10.000 e 15.000, fossero fra di loro comparabili, che si trattasse di lire uguali nell’una e nell’altra epoca. Allora si potrebbe accertare l’esistenza di un aumento effettivo di reddito a favore del proprietario in lire 5.000 e potrebbe essere fatto oggetto di studio attento e di eventuale deliberazione l’opportunità di tassare questo incremento di reddito di lire 5.000. Oggi purtroppo non ci troviamo in condizioni le quali consentano la comparabilità dei redditi e consentano quindi lo studio dell’argomento, in quanto le 10.000 lire di reddito del 1914 sono espresse in un’unità monetaria la quale non ha nulla a che fare con l’unità monetaria con cui si esprimono le 15.000 lire di oggi o si esprimeranno quelle dell’anno venturo. L’osservazione già fatta in antecedenti parti di questa relazione, che la svalutazione della lira, in regime di vincolo dei fitti, ha posto ai proprietari di case una imposta speciale gravissima su di loro, in quanto essi, continuando a ricevere oggi 10.000 lire di fitto per la loro casa, ricevono in realtà una somma la quale può essere variamente stimata, equivalente forse a 1.200, 1.500 o al massimo 2.000 lire di una volta. I proprietari, in virtù del vincolo degli affitti, sono perciò stati colpiti da una grave imposta speciale e se anche fosse loro consentito di aumentare i fitti da 10 a 15.000 lire, essi in realtà non otterrebbero nessun reale aumento di reddito, in quanto le 15.000 lire di oggi a mala pena equivalgono a 4 o 5.000 lire del 1914. Essi continuerebbero ancora, pur con un aumento del 60%, a subire una vera imposta.

 

 

Rischio di tassare le diminuzioni effettive di reddito mascherate da aumenti monetari.

 

 

In queste contingenze sembra priva di significato, o almeno difficilissima a definirsi, una tassazione sugli aumenti di reddito, quando questi aumenti di reddito sono tutt’affatto apparenti e corrispondono a perdite di reddito effettive. Le epoche di perturbazione monetaria sono le meno indicate per istituire imposte le quali colpiscono aumenti di reddito o di patrimonio: è gravissimo in ogni caso il rischio di colpire ciò che non è aumento, ma è invece effettiva riduzione. Nei periodi di moneta turbata le imposte devono rassegnarsi a colpire il reddito quale di anno in anno si forma o i patrimoni quali di tempo in tempo si possano accertare, senza correr dietro alle variazioni da un’epoca all’altra, delle quali invano si ricercherebbero il significato e la vera portata. La Commissione dunque ritiene che il momento presente sia inopportuno al riguardo e che debba attendersi un’epoca di stabilizzazione monetaria per discutere ed eventualmente legiferare in materia.

 

 

Utilità di non aggiungere un’ altra alle cause di incertezza che ostacolano oggi l’incremento dell’industria edilizia.

 

 

Essa crede in questo modo di giovare il meglio che sia possibile alla risoluzione del problema delle abitazioni, in quanto non conviene aggiungere alle altre cause di incertezza che rendono l’industria edilizia tanto ardua, una nuova causa la quale potrebbe allontanare i capitali dall’industria stessa. Quello che monta, in tema di case popolari, non è di cercare una fonte purchessia per ottenere entrate, ma è di costituire un sistema tributario capace di dare il massimo d’entrata che in ogni momento è possibile. Di questa condizione di cose si gioveranno altresì i comuni per finanziare, ove lo credano, le costruzioni di case e per incoraggiare la formazione di un grande demanio pubblico edilizio; ma dell’ordinamento migliore del sistema tributario non è questo il luogo di occuparsi, né la Commissione ha mandato alcuno al riguardo.

 

 

Luigi Einaudi

 

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