Opera Omnia Luigi Einaudi

31 luglio 1946 – Le autonomie locali (II)

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 31/07/1946

Atti parlamentari – Assemblea costituente – Commissione per la Costituzione – Seconda sottocommissione, resoconto sommario, Roma, Tip. della Camera dei Deputati, s. d. (1946-1947), 31 luglio 1946, pp. 56-60

 

La Seconda sottocommissione per la Costituzione prosegue la discussione sul problema delle autonomie locali; dopo un ampio intervento del deputato La Rocca prende la parola L. Einaudi:

In materia finanziaria non crede esista una soluzione unica, la quale possa soddisfare alla necessità di dare, sia alla provincia, per coloro che vogliono mantenerla, sia alla regione, per coloro che vogliono crearla, una finanza che non abbia bisogno di altri enti maggiori o minori. E crede che sia impossibile trovare questa soluzione, in quanto ciò condurrebbe a ricorrere ad espedienti che si sono adottati già tante volte nella storia, ma che non hanno mai dato risultati soddisfacenti. Vi sono stati luoghi e tempi nei quali l’ente intermedio (chiamiamolo regione) viveva dei contributi dei comuni (nel Regno di Napoli, prima del 1860, qualche cosa di simile si è verificato); ma il risultato fu sempre che la regione, ente intermedio, viveva una vita meschina, in quanto nasceva necessariamente la gara al peggio fra i comuni che avrebbero dovuto dare il contributo necessario per far vivere l’ente intermedio. Tutti i comuni facevano a gara per dimostrare la loro povertà, la loro incapacità a dare. Il risultato che si aveva, e che si avrebbe di nuovo se si applicasse il sistema dei contributi pagati dal comune, sarebbe l’impossibilità della vita finanziaria della regione. Lo stesso dicasi del sistema opposto di far vivere l’ente intermedio mediante il contributo dello stato. È un sistema che è stato qualche volta anch’esso applicato, ma ha sempre prodotto la corruzione politica. Se la regione deve vivere del contributo dello stato, si faranno vivere quelle regioni che hanno maggiore influenza politica e quindi vi saranno sempre regioni arretrate che si troveranno in condizioni sfavorevoli. Per conseguenza crede che l’esperienza dimostri che la regione non possa vivere con il sistema finanziario dei contributi, sia che questi partano dall’ente minore, il comune, sia che partano dall’ente maggiore, lo stato. Quindi necessità di fatto che l’ente intermedio abbia una finanza, che si potrebbe chiamare propria se, invece di essere chiamata propria, non dovesse essere chiamata finanza in partecipazione con gli altri enti: il comune e lo stato.

La ragione per cui non è possibile immaginare un sistema che sia proprio alla regione sta nel fatto che in sostanza la materia imponibile è una sola: il reddito del contribuente. Questo reddito si potrà afferrare all’origine, quando entra nel bilancio del contribuente, o quando, sotto forma di consumi, esce dal bilancio del contribuente; ma fuori del reddito non esistono altre materie imponibili. Quindi necessità tecnica, di fatto, che la regione ricorra alla medesima materia imponibile a cui forzatamente debbono ricorrere lo stato ed i comuni. Si tratterà di trovare metodi di compartecipazione della regione a quest’unica materia imponibile, che è il reddito del contribuente, che siano meglio adatti alla regione medesima, lasciando allo stato e rispettivamente al comune quelle altre parti di reddito che siano meglio adatte l’uno alla natura unitaria dello stato, l’altro alla natura piccola, locale del comune.

Presa questa via che è la sola possibile, quali limiti si possono mettere alla finanza regionale?

Innanzi tutto qualche limite di esclusione. Si devono escludere tutte quelle imposte che, se diventassero imposte regionali, costituirebbero un impedimento alla vita economica unitaria. Le riforme che si vogliono attuare devono tener conto delle necessità economiche del paese. Per limitarci in un primo momento alle imposte sul consumo, si devono escludere dal campo di applicazione delle regioni tutte quelle imposte che sminuirebbero l’unità economica del paese. Non si può dare alle singole regioni il diritto di stabilire un’imposta di fabbricazione sullo zucchero, senza avere per conseguenza che ogni regione diventerebbe un campo chiuso. Se una regione stabilisce un’imposta di fabbricazione di mille lire ed un’altra regione la stabilisce di ottocento, quella che l’ha stabilita di mille deve mettere un dazio contro l’altra regione che l’ha stabilita di ottocento, perché altrimenti rovinerebbe la propria industria. Tutto ciò che costituisce barriera, vincolo, ecc., al commercio fra una regione e un’altra è una materia imponibile che deve essere sottratta alla regione. L’atto fondamentale dovrebbe quindi sancire un principio il quale contempli i casi singoli di esclusione nei quali la regione non può intervenire, perché il suo intervento sarebbe dannoso all’economia del paese. Ma la regione dovrà, come la provincia oggi, avere un suo campo tributario che si rivolga soprattutto alle imposte dirette.

Oggi la provincia ha funzioni sue proprie molto limitate e che si riferiscono ai manicomi, brefotrofi e strade. Queste funzioni danno luogo alle spese obbligatorie e, in relazione a queste spese, ad un sistema tributario. Ma la regione non si potrà contentare di queste funzioni così limitate; dovrà avere funzioni più importanti e più larghe, a cui dovranno corrispondere delle imposte a più larga base. Non sarà possibile accontentarsi dei centesimi tradizionali sulle imposte sui terreni e fabbricati, ma bisognerà dare sotto forma di centesimi addizionali, il diritto di imporre più largamente sulle industrie, sui commerci e sulle professioni. In realtà questa imposta non è altro che una parte della imposta di ricchezza mobile con qualche piccola esclusione per le categorie A, C e D. Siccome è impossibile tecnicamente concedere ai comuni il diritto di sovraimposizione sulla imposta di ricchezza mobile (perché ha un campo di applicazione che va al di là del comune), si è creato il succedaneo della sovrimposta all’imposta di ricchezza mobile, che si chiama imposta sulle industrie, i commerci e le professioni, ma che non è nient’altro che una forma particolare di sovrimposta applicata alle necessità del caso. Forse bisognerà dare qualche cos’altro, ma il nucleo fondamentale della forma che dovrà assumere la finanza regionale sarà quello della sovrimposizione sui redditi che si formano nell’ambito della provincia.

Rimane il quesito se alla regione debba essere dato anche un diritto di sovraimposizione sull’imposta personale che da noi oggi si chiama imposta complementare progressiva sul reddito per lo stato e imposta di famiglia per i comuni. Non si può, a priori, negare alla regione anche il diritto di sovrimporre su questa fonte, nei limiti consentiti dalla sua natura territoriale.

Nello stato si è creata una imposta complementare progressiva sul reddito, perché lo stato non poteva limitare la sua potestà di imposta soltanto a quei redditi che nascevano nel territorio dei singoli comuni, come erano le imposte sui terreni e fabbricati, ma doveva allargare la sua capacità di imposta a tutti i redditi nascenti nello stato, ed anche a quelli nascenti fuori dello stato. La nostra imposta progressiva teoricamente colpisce tutti i redditi che il cittadino, persona fisica, riceve in Italia, sia che i redditi si producano in tutto lo stato italiano od anche all’infuori dello stato italiano, in quanto dei redditi nascenti fuori dello stato italiano si abbia qualche notizia diretta, cioè che questi redditi siano importati e goduti nello stato. È lo stato che ha questa capacità di imposizione a titolo di imposta progressiva, perché è soltanto lo stato che ha i mezzi di accertamento per scoprire il reddito dovunque esso sia sorto.

Né il comune né la provincia o regione hanno la possibilità di conoscere il reddito sorto all’infuori dei loro comuni e si può inoltre fondatamente dubitare se abbiano ragione di colpirlo. Può derivarne una lotta fra i singoli comuni e le singole regioni o provincie. Ogni ente locale deve avere una certa potestà di colpire il reddito personale che sorge ed è attinente, per l’origine e per il consumo, al proprio territorio. Ma perché dovrebbe colpire anche i redditi che nascono fuori del suo territorio, con il pericolo di una doppia tassazione, con la necessità poi di risolvere a posteriori i conflitti che possono sorgere con altri comuni o con altre regioni? È bene quindi che la legislazione ponga a priori dei limiti ai comuni ed alle provincie, per impedire che comuni e provincie colpiscano, come materia di tassazione personale, redditi che hanno avuto origine o in qualche modo si consumano fuori dai limiti del comune e della provincia. In fondo, in maniera imperfetta, empirica, il legislatore italiano aveva tentato di risolvere questi problemi per i comuni con una imposta sul valore locativo e con una imposta di famiglia. Erano certamente degli strumenti, dal punto di vista degli accertamenti, imperfetti; ma non si può dire che l’idea che li informava fosse errata. Si diceva che il comune ha il diritto di imporre sul reddito personale complessivo del contribuente quando tale reddito del contribuente ha una qualche attinenza col comune; di qui l’imposta sul valore locativo. Anche l’imposta di famiglia, così come era stata costruita in origine, aveva tratto al reddito goduto, visibile della famiglia in quella certa località; materia imponibile che non era quella del reddito tassato dall’imposta complementare complessiva sul reddito appartenente allo stato. Lo stato deve abbracciare tutto. Lo stato, se ci riesce, deve abbracciare anche ciò che nasce fuori dai confini dello stato medesimo e che poi, in qualche modo, rientra e viene goduto dentro lo stato. Ma perché la regione dovrebbe violare l’eguale diritto di altri comuni o di altre regioni? Quindi occorre che il reddito, nelle sue varie trasformazioni, abbia acquistato una fisionomia locale, regionale e che il comune e la regione tassino quel reddito in quanto esso abbia questa configurazione comunale o regionale.

Ricorda di avere redatto una relazione alla Consulta sul decreto sull’imposta di lusso, presentato e fatto approvare dal ministro Scoccimarro, relazione favorevole in principio e contraria per le applicazioni, perché quel decreto, sebbene giusto in linea di principio, dal punto di vista della tecnica non era accettabile. In principio quel progetto si informava all’idea di creare una imposta che conglobasse insieme le due vecchie imposte di famiglia e sul valore locativo, tenendo conto anche di tutti gli altri coefficienti visibili del reddito e del consumo. In sostanza tutto il reddito prodotto è, parlando in generale, tassabile dallo stato. Questo reddito, consumato e goduto, deve avere necessariamente delle manifestazioni locali ed in quanto sia goduto e consumato costituisce la materia imponibile dei comuni e dell’ente regione. Certamente, non si tratta di tassare un reddito nuovo: lo si vede soltanto in momenti diversi, i quali sono appropriati alla natura dell’ente che deve imporre l’imposta. La distinzione avrà maggiore o minore successo a seconda dei metodi di applicazione, in quanto che, se si continuasse nella via attuale, qualunque sistema sarà inventato e legiferato produrrà sempre risultati dannosi. Finché si dimenticherà che stato, provincie, regioni e comuni colpiscono sempre la medesima materia imponibile e cioè il reddito, e si guarderà alle singole imposte invece che al loro insieme, i contribuenti saranno sovratassati e continueranno a reagire con la frode; e questa sarà tale solo di nome. È molto difficile sapere oggi quello che paga il contribuente italiano.

Un calcolo fatto dell’onere complessivo che il contribuente italiano dovrebbe sopportare per le tre imposte reali, quella complementare sul reddito e quella ordinaria sul patrimonio, tenendo conto delle sovraimposte locali, dà i seguenti risultati. Partendo dall’ipotesi che si tratti della famiglia media italiana, cioè composta dei genitori e due figli, il proprietario della terra dovrebbe pagare aliquote che vanno dal 49 al 96%. Se si trattasse poi di un celibe, questo dovrebbe pagare come minimo il 42% e come massimo il 108%. Ora, non è possibile pensare ad aliquote di questo genere; il sistema è assurdo e non può essere applicato. Se si tratta di un proprietario di fabbricati, sempre ammogliato con due figli, dovrebbe pagare dal 53,3 al 73,7%; se è un industriale, o commerciante che abbia un’azienda individuale, l’aliquota andrebbe dal 45,6 al 71,9; se è una società, l’aliquota andrebbe dal 44,1 al 71,3. Un professionista che vive del suo lavoro pagherebbe il 15,7 per i redditi minimi e il 63,1 per i redditi massimi.

A questo riguardo oggi non si deve pensare che esistano redditi molto elevati, specialmente per talune categorie; per esempio un professore universitario che aveva nel 1914 un reddito di 10.000 lire corrispondenti almeno ad 1 milione di lire attuali, e paga circa l’8%, ha oggi un reddito di 200.000 lire e dovrebbe pagarne per imposte almeno il 15%.

Quindi, tutte le riforme che si possono escogitare saranno inutili se non si troverà un modo per attribuire una parte al comune e alla regione, ma sempre in maniera che non si eccedano certi limiti nel complesso della tassazione. Notisi che le percentuali dette sopra si riferiscono solo alle imposte dirette. Accanto a queste vi sono le imposte di successione, sugli affari e sui consumi.

Ammesso che le imposte dirette nel sistema fiscale delle provincie e dei comuni diano la percentuale maggiore, poiché l’inverso accade per lo stato, è chiaro che a quelle aliquote occorrerebbe aggiungere almeno altrettanto; sicché il contribuente, per compiere il proprio dovere, dovrebbe soccombere.

Per far sì che ognuno degli enti tassati abbia la sua parte, ma che non ecceda un certo livello, si sono adoperati in Italia mezzi ben noti: il legislatore ha stabilito un limite massimo; ma comuni e provincie dopo averlo raggiunto, hanno dichiarato che non potevano vivere, e allora si è creato un secondo limite a cui sollecitamente tutti i comuni sono arrivati; e, allorché se ne è creato un terzo, questo è stato subito raggiunto dalla totalità dei comuni. È un sistema che non funziona, perché crea negli amministratori dei comuni e delle provincie la tendenza ad ottenere l’autorizzazione ad arrivare fino al limite massimo stabilito; essi finiscono per concepire il raggiungimento dell’ultimo limite di tassazione come una cosa naturale; come un diritto di proprietà. L’amministratore del comune concepisce il diritto di giungere fino ad un certo limite come un dovere di giungervi, tanto più che la spinta a spendere c’è sempre, quando esiste la possibilità di tassare. In tal modo si arriverebbe anche al quarto e al quinto limite se ci fossero.

Si era immaginato di trovare un freno nel senso che l’eccedenza oltre il limite dovesse essere autorizzata con una legge speciale; ma la sola conseguenza di questo è stata la moltiplicazione dei disegni di legge per la fissazione dei limiti. La verità è che un rimedio veramente efficace per tutti i casi non esiste.

In Inghilterra si segue un sistema che sembra funzioni meno male, e che ha già avuto una sua tecnica legislativa: il sistema che le autorizzazioni ad una maggiore imposta siano collegate con speciali esigenze, per cui il comune, la contea, la parrocchia, ecc., chiedono l’autorizzazione ad aumentare le loro imposte in relazione a qualche spesa che deve essere fatta.

È da vedere, però, se questo sistema può essere applicato in Italia.

Certamente, conviene cercar di regolare la materia nel senso che il forte sostenga il debole; che la provincia o la regione ricca sostenga la provincia o la regione povera, attraverso il fondo generale delle imposte statali. Ma è dubbio se lo stato accentratore, quale è esistito finora, sia il più adatto ad adempiere a queste necessità, perché le provincie che hanno un maggiore peso elettorale, cioè quelle più popolose, hanno una forza preponderante e finiscono per soverchiare le provincie più povere, cioè meno popolose. Il sistema delle autonomie rende le regioni meno asservite allo stato e capaci di far sentire meglio la propria voce.

In Svizzera la confederazione interviene a favore dei singoli cantoni e soprattutto a favore dei cantoni alpestri, più poveri, che hanno minore capacità finanziaria e non possono coi propri mezzi adempiere ai servizi richiesti per mettersi alla pari con i cantoni più ricchi, nei quali è accentrata l’industria. Non per questo le regioni povere non hanno diritto ad essere aiutate; questi aiuti si chiamano rivendicazioni. Un cantone povero, il quale ha bisogno di ferrovie, di scuole, ecc., e che si trova al di sotto del minimo necessario per sostenere quelle spese, rivendica dalla confederazione un contributo sancito dalla legge. In Italia il contributo potrebbe essere dato dallo stato, dalla provincia o dalla regione all’ente minore.

In vari modi si può concepire il limite: al comune che non abbia raggiunto il limite dell’imponibile lo stato può imporre anzitutto di raggiungerlo, per aiutarlo, se necessario, quando l’avrà raggiunto. Al comune che abbia superato quel limite potrà imporre di mettersi in regola riducendo le aliquote, salvo a aiutarlo quando si sarà messo in regola, affinché possa adempiere alle sue funzioni che con i suoi mezzi non può adempiere. Non è un sistema che possa funzionare con semplicità; ma la materia tributaria non è semplice, anzi tende a diventare sempre più complicata, per la diversificazione dell’economia e per il fatto che il contribuente può ricavare i propri redditi da fonti di natura diversa e situate in località diverse.

Entro i limiti delle necessità tecniche, si possono fissare dunque per la finanza regionale e locale alcune idee fondamentali.

Circa l’esclusione delle imposte che, se fossero applicate dagli enti locali, creerebbero barriere tra comune e comune, non si tratta di pericoli immaginari. Ricorda un bellissimo articolo in cui Giuseppe Prato denunziò i dazi protettivi creati in Italia all’ombra dei dazi comunali sui consumi. Con i dazi si erano create delle vere e proprie barriere, che non rendevano nulla ai comuni, ma proteggevano l’interesse degli industriali risiedenti nella cerchia murata della città a danno degli altri industriali, i quali esercitavano la loro industria, magari a due passi fuori della cinta daziaria. Si deve impedire che il territorio nazionale diventi una specie di quadro bizzarro di tanti stati, separati economicamente ed operanti contro le esigenze della economia nazionale.

Altre idee fondamentali sono: partecipazione degli enti locali, comuni e regioni, alle imposte reali, in quanto queste abbiano attinenza con le località; partecipazione anche alle imposte personali, in quanto queste assumano la forma dell’imposta sul reddito consumato, perché il reddito consumato necessariamente ha un’attinenza con il luogo dove è consumato; e finalmente collaborazione o aiuto del forte al debole, attraverso lo stato, collaborazione realizzata non per arbitrio, ma sulla base di leggi; cosicché l’ente locale possa rivendicare un suo diritto dimostrando di trovarsi nelle condizioni richieste dalla legge.

Passando ad un punto più generale, osserva che l’onorevole Piccioni, affermando giustamente che è preferibile la regione alla provincia, ha dato di questa sua affermazione una spiegazione dicendo che la provincia è una creazione artificiosa, mentre la regione è una creazione naturale. Pur consentendo nella preferenza, non può condividerne la spiegazione. L’evoluzione storica del Piemonte certamente non la giustifica. Nelle Langhe, una propaggine collinosa del Monferrato, i vecchi contadini, quando vanno a Cuneo dicono che vanno in Piemonte, perché nella loro mente il paese in cui vivono non è Piemonte. E in realtà il Piemonte è una creazione storica recente, nata non prima ma dopo le provincie. Prima della Rivoluzione francese, la denominazione Piemonte era ristretta al piccolo territorio della regione pedemontana. La Val d’Aosta, il Monferrato, le Langhe non erano Piemonte. Il Piemonte è una creazione di Napoleone I che fuse insieme venticinque vecchie provincie nelle quattro tradizionali di Torino, Cuneo, Alessandria e Novara, che per qualche tempo si chiamarono divisioni militari e poi “provincie “. Le vecchie provincie, in parte, diventarono circondari; poi i circondari furono aboliti. Quindi storicamente si va dai piccoli circondari alle quattro divisioni, diventate provincie, e la regione è il punto di arrivo. Appunto per questo la regione può essere una creazione sana; se fosse un punto di partenza, sarebbe una creazione artificiale.

Uno scrittore francese ha affermato che molte istituzioni statali sono al di sopra ed al di là della natura dell’uomo; comunque è certo che vi è un contrasto tra i moderni ordinamenti territoriali e la capacità dell’uomo a dominarli. E quindi impossibile che un amministratore domini tutta la materia di una regione. Il Piemonte, ad esempio, ha tre milioni e mezzo di abitanti e il futuro presidente regionale non potrà conoscere intimamente tutte le esigenze degli abitanti. In molti campi, che si possono chiamare economici e che sono quelli spiritualmente meno interessanti in quanto si tratta di tecnica (strade, ponti, costruzioni in genere) la regione potrà essere uno strumento adatto. Ma vi sono altri campi dell’attività politico-amministrativa in cui è indispensabile il contatto diretto dell’amministratore con gli amministrati; è necessario che l’amministratore si faccia conoscere dai suoi amministrati e sappia apprezzare le esigenze migliori, spirituali dell’uomo. Quindi si può creare la regione, ma non si deve eccedere nel fissarne i compiti. Alcune funzioni affidate ad essa provocherebbero gli stessi inconvenienti cui si va incontro quando sono attribuite allo stato. Richiama a questo proposito il problema della scuola elementare in cui è evidente lo stretto legame fra genitori, alunni e insegnanti. Molti comuni sono troppo piccoli per poter far fronte alle esigenze dell’insegnamento; possono far fronte solo alle prime due classi elementari. Le esigenze odierne richieggono che, oltre alla terza e alla quarta, si dia grande sviluppo alle scuole di avviamento e scuole tecniche. Occorre, quindi, ricercare un quid medium, un consorzio tra comuni o, magari, il “collegio” (meglio che la “comunità”), quella circoscrizione che a un dipresso è la tradizionale del collegio uninominale, in cui l’eletto conosceva i propri elettori e riusciva a farsi conoscere. Il collegio dovrebbe comprendere non più di 80-100.000 abitanti; a capo starà la cittadina od il borgo col suo mercato centrale in cui si riuniscono gli abitanti una volta la settimana; il pretore, l’Ufficio del registro, ecc. Questa unità sarà la più adatta per far fronte a quel decongestionamento delle grandi città che è un’esigenza fondamentale della vita moderna. Questa circoscrizione intermedia fra la regione e il comune, che non è la provincia, non dovrà essere obbligatoria, ma dovrà essere incoraggiata da favori legislativi; si chiamerà collegio, o consorzio o distretto e dovrà fronteggiare le spese che oltrepassano le forze del comune e che da un punto di vista non materiale, superano le forze dell’uomo che governa la regione.

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