Opera Omnia Luigi Einaudi

7 maggio1946 – Progetto di statuto della Regione Sicilia

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 07/05/1946

7 maggio1946 – Progetto di statuto della Regione Sicilia

Consulta Nazionale – Resoconti

Interventi e Relazioni parlamentari, a cura di Stefania Martinotti Dorigo, Vol. II, Dalla Consulta nazionale al Senato della Repubblica (1945-1958), Fondazione Luigi Einaudi, Torino, 1982, pp. 221-246

 

 

 

È all’esame delle Commissioni riunite Affari politici e amministrativi, Giustizia e Finanze e Tesoro lo schema di provvedimento legislativo Progetto di statuto della Regione siciliana (n. 158). La seduta ha inizio sotto la presidenza del consultore Sforza. Interviene per primo il relatore Gilardoni e illustra il provvedimento a nome della Giunta appositamente nominata dalla Consulta; avverte che il senatore Einaudi dissente dalle conclusioni a cui è pervenuta la Giunta di studio e che «questo suo concetto è tradotto in una relazione che non fu allegata al documento come relazione di minoranza, perché la prassi adottata al riguardo è che una relazione di una sola persona, deputato o consultore nella specie, non possa costituire relazione di minoranza. Perciò fu detto al senatore Einaudi che in seguito, col suo intervento personale nella discussione e con la possibilità di allegare al verbale di questa seduta tutte le osservazioni che egli avesse voluto formulare, il suo pensiero e le sue proposte avrebbero senza dubbio avuto in questa sede il dovuto riconoscimento».

 

 

Prendono quindi la parola Fuschini, Molinelli, Berlinguer, Guarino Amella, Gilardoni e Ricci; Fuschini «chiede che si dia lettura del documento contenente le obiezioni del consultore Einaudi, in modo che possa essere inserito nel resoconto della seduta odierna, perché può essere un documento molto utile per i lavori della Consulta» e Ricci si associa alla richiesta. A questo punto il presidente «fa dar lettura delle seguenti osservazioni formulate dal consultore senatore Einaudi»:

 

 

  • 1.- Al principio informatore del progetto di Statuto della Regione siciliana il sottoscritto non solo aderisce pienamente, ma aderisce con pienezza di consenso, convinto come egli è che il riconoscimento di ampie autonomie alle singole regioni italiane sia condizione necessaria per risaldare l’unità nazionale. Le critiche che egli ha il dovere di muovere al progetto medesimo, sono mosse esclusivamente dalla persuasione che l’autonomia potrà avere vita salda e duratura nel nostro paese soltanto se vi si dia un inizio razionale rispondente ai fini che tutti vogliamo raggiungere. Condizione essenziale per il successo della nuova esperienza che si impone nel nostro paese è la definizione precisa dei limiti posti da un lato all’attività dello stato e dall’altra parte all’attività della regione. Importa che il sistema funzioni senza attriti tra il governo centrale e il governo regionale.

 

 

Nel nostro paese noi dobbiamo fare il cammino inverso a quello che ha condotto alla formazione degli stati federali moderni; e si ricordano ad esempio le federazioni più antiche e più solide quali la Confederazione Svizzera e gli Stati Uniti d’America. In questi si è partiti dai cantoni o stati singoli e si è giunti alla federazione. Fu storicamente logico perciò che gli stati si spogliassero di alcune delle loro funzioni attribuendole alla Federazione; la quale rimane così investita di quelle sole funzioni che siano espressamente indicate nell’atto fondamentale federale, tutti gli altri compiti spettando ai cantoni o stati singoli.

 

 

Nuovi compiti sono stati poscia attribuiti alla Federazione, ma sempre per emendamenti deliberati di volta in volta nelle forme statutarie all’atto fondamentale.

 

 

In Italia il processo deve essere inverso. Noi dobbiamo partire da uno stato centralizzato per arrivare ad uno stato più sciolto, con funzioni attribuite alle singole regioni. Il principio informatore della legislazione regionale è dunque che allo stato centrale rimangono attribuite tutte quelle funzioni che esplicitamente non siano state assegnate alle regioni nell’atto in cui queste sono costituite. Compiuta questa distribuzione, stato e regione devono risultare sovrani nell’ambito delle proprie competenze.

 

 

  • 2. – A queste esigenze non contraddicono in massima i titoli primo e secondo del disegno di provvedimento legislativo; né vi contraddice l’ultimo titolo di carattere formale.

 

 

Si potrebbero bensì muovere osservazioni particolari intorno alle singole funzioni devolute alla regione e alla formulazione particolare di taluni articoli. Ad esempio all’articolo 4, lettera d), la inclusione generica dell’industria e del commercio nelle materie di esclusiva pertinenza della regione dimentica le interferenze necessarie tra una regione ed un’altra e dimentica soprattutto la necessità di conservare la unità economica del territorio nazionale. Alla lettera i) del medesimo articolo sorge il dubbio intorno alla convenienza per la regione di regolare con esclusività la materia delle acque pubbliche le quali, se devono essere governate bene, soprattutto nell’interesse regionale, devono essere regolate unitariamente per tutto il territorio nazionale.

 

 

Altri dubbi sorgono intorno all’incertezza derivante dall’attribuzione alla regione della disciplina del credito, dell’assicurazione e del risparmio.

 

 

Trattasi però di osservazioni di indole particolare le quali dovrebbero formare oggetto di attento esame. Qui si vuol richiamare l’attenzione delle Commissioni riunite soltanto sui principi fondamentali.

 

 

  • 3. – le prime gravi obiezioni sorgono a proposito della sezione seconda del titolo secondo; dove si stabiliscono le funzioni del presidente della regione e della Giunta regionale.

 

 

Si badi: il presidente e gli assessori regionali esercitano, oltre alle funzioni proprie, anche quelle delegate dal governo dello stato, secondo le direttive date da questo (articolo 20). Si crea così una figura ibrida di presidente del governo regionale e di delegato del governo centrale, il quale nelle materie appartenenti allo stato deve ubbidire agli ordini di Roma. Non si abolisce cioè il prefetto, ma si delegano le sue funzioni al capo del governo regionale. In tal modo si toglie da un lato vigore all’azione statale, e nel tempo stesso si abbassa dall’altro lato la figura del presidente regionale al livello di un funzionario dello stato. Il governo centrale può manifestare il suo malcontento contro l’operato del presidente – prefetto, inviando temporaneamente propri commissari per la esplicazione di singole funzioni statali (articolo 21).

 

 

Si creano così attriti fatali fra governo centrale e governo regionale e si contraddice, nel modo più aperto, agli insegnamenti che si traggono dalla pratica seguita in tutti i paesi ad ordinamento federale. Male distinte le funzioni dei due enti, esse sono contemporaneamente affidate alle autorità, elette le une dalla regione e inviate le altre dal governo centrale.

 

 

L’impossibilità del funzionamento del sistema si manifesta in modo particolare per ciò che riguarda il mantenimento dell’ordine pubblico. Si attribuisce invero la funzione della pubblica sicurezza al presidente regionale, il quale però la esercita a mezzo della polizia dello stato, a sua volta dipendente disciplinarmente per l’impiego e la utilizzazione dal governo regionale. Il presidente regionale può bensì richiedere l’impiego delle Forze armate dello stato; ma il governo dello stato, quando sia persuaso che il governo regionale non adempie al suo ufficio fondamentale, può assumere la direzione del servizio di pubblica sicurezza sia da solo, sia congiuntamente al governo regionale. Peggio ancora: il presidente regionale ha diritto di proporre la rimozione e il trasferimento fuori dell’isola dei funzionari di polizia.

 

 

Il sistema così creato equivale alla creazione del disordine. Esso contraddice quella che è la evoluzione verificatasi in tutti gli altri stati, dove governi centrali e governi regionali esistono gli uni accanto agli altri. Da per tutto, senza eccezione, la polizia cominciò ad essere un compito degli enti locali, sia che si chiamassero cantoni nella Svizzera, ovvero stati nella Confederazione americana. Da per tutto si finì per constatare che il sistema era disadatto, anzi completamente impotente nella lotta contro la delinquenza e la malavita, e per l’assicurazione dell’ordine pubblico. La delegazione dell’esercizio delle funzioni di polizia agli enti locali crea infatti la possibilità di conflitto fra le polizie delle diverse regioni e la impunità dei trasgressori alla legge penale e civile.

 

 

L’esperienza costrinse da per tutto a creare, accanto alla polizia locale, una polizia federale dipendente direttamente ed esclusivamente dal governo centrale. Rinunciare agli insegnamenti di questa esperienza sicura condurrà ai peggiori risultati rispetto a quella che è una delle funzioni essenziali dello stato e cioè la pubblica sicurezza.

 

 

  • 4. – La creazione di attriti e la impossibilità di funzionamento della macchina amministrativa sembra sia altresì il proposito voluto dalla maggior parte dei provvedimenti concernenti le materie economiche e finanziarie.

 

 

Se vi è tendenza certa e corrispondente alle necessità dell’epoca presente è quella della sfera sempre più larga della gestione delle comunicazioni ferroviarie, marittime ed aeree. L’unificazione delle tariffe, la formazione di tariffe differenziali per i trasporti a lunga distanza, la regolazione non solo nazionale, ma internazionale, di tutto ciò che si attiene alle comunicazioni, è una delle caratteristiche più evidenti del mondo moderno. Se in tutte le regioni italiane si applicasse la norma, esposta del resto con un linguaggio indeterminato e vago, dell’articolo 22, ed ogni regione avesse il diritto, non di farsi sentire per interrogatori di periti o per critiche aperte nella Assemblea regionale, ma di partecipare alla formazione delle tariffe, sarebbe impossibile formare tariffe di comunicazioni ispirate a criteri di interesse generale. Si spezzerebbe il territorio nazionale in piccole unità, ognuna delle quali tenderebbe ad affermare certi suoi interessi a corta veduta, forse produttivi di qualche piccolo vantaggio immediato, ma contrastanti a quelli che sono gli interessi fondamentali nel tempo stesso dello stato e della regione. L’articolo 22 non si oppone in apparenza alla formazione di tariffe nazionali, ma insinua in una materia, la quale deve essere, per la indole sua propria, nazionale, un elemento di discordia o di do ut des che non può non essere fecondo di pessimi risultati anche per la Sicilia.

 

 

  • 5. – Altrettanto indeterminato è il sistema che l’articolo 39 costituisce per la dogana. La norma secondo la quale le tariffe doganali devono essere stabilite, per quanto interessa la regione e relativamente ai loro limiti massimi, solo previa consultazione col governo regionale, se ha un significato sembra sia quello che la regione possa mettere un veto contro dazi doganali troppo alti contro le merci straniere. La illazione pare legittimata anche dalla esenzione da ogni dazio doganale per le macchine e gli arnesi di lavoro agricoli, nonché per il macchinario attinente alla produzione industriale dei prodotti agricoli della regione. Se questa disposizione volesse dire che la Regione siciliana intende che le macchine e gli arnesi agricoli, nonché il macchinario sopraindicato sono esenti da ogni dazio doganale all’entrata in tutto lo stato italiano, si potrebbe essere – ed io sarei – senz’altro d’accordo: ma è evidente che in questa maniera il disegno di legge sulla Sicilia intende legiferare per tutto lo stato italiano e imporre un dato regime doganale a tutto lo stato. Se così fosse, la disposizione sarebbe plausibile e logica; ma così non può essere, perché il disegno di legge per la Sicilia non può evidentemente porre norme di carattere nazionale. Or dunque l’articolo 39 necessariamente implica la istituzione di una linea doganale tra la Sicilia e il Continente. Lo stato italiano essendo libero di stabilire dazi sulle merci le quali dovrebbero essere invece esentate all’entrata in Sicilia, o potendo istituire per l’entrata nelle altre regioni italiane dazi più alti di quelli che potranno essere stabiliti per la entrata nel territorio siciliano, è evidente che quelle determinate merci, le quali saranno esentate all’entrata in Sicilia, non potrebbero essere da questa riesportate nel Continente senza assolvere il dazio intiero o il dazio differenziale non pagato prima. Se questo risultato possa essere ottenuto senza la istituzione di una vera e propria linea doganale, è assai dubbio. Là dove si sono costituiti porti o punti franchi, fu necessario trasportare la linea doganale al limite della zona franca. L’illazione logica di pericolo di stato autarchico chiuso che si trae dal testo dell’articolo 39 è confermata dalla mancanza di quella disposizione la quale si trova in tutte le costituzioni federali vigenti, e cioè dalla mancanza del divieto assoluto di istituire linee doganali o di porre altri impedimenti di qualunque sorta al movimento di merci e di persone tra i diversi stati e le diverse regioni componenti una federazione.

 

 

Senza questa norma essenziale non dico uno stato unitario, come continuerebbe ad essere il nostro, sia pure con larghe autonomie regionali, ma non esiste nessuna federazione. Esiste unicamente una sciolta Società delle Nazioni, od un insieme di nazioni o di regioni prive di unità, economicamente sovrane, discordi e disposte alla guerra fratricida.

 

 

  • 6. – La illazione tratta dal tenore dell’articolo 39 è rafforzata dal contenuto dell’articolo 40. Le disposizioni vigenti nel mondo contemporaneo sul controllo valutario sono certamente responsabili di gran parte degli impedimenti che si riscontrano oggi al commercio internazionale con danno gravissimo dell’economia di tutti gli stati.

 

 

La sola giustificazione che si può addurre a favore del controllo valutario è la necessità derivante dallo stato di guerra e la impossibilità di passare immediatamente da una economia di guerra a una economia di pace. Ma i danni indiscutibili che il controllo valutario procaccia alla nostra economia italiana, come alle economie dei paesi stranieri, sarebbero di gran lunga aggravati se fosse adottato il concetto di istituire, come vorrebbe l’articolo 40, presso il Banco di Sicilia una camera di compensazione allo scopo di destinare ai bisogni della regione le valute estere provenienti dall’esportazione siciliana, dalle rimesse degli emigranti, dal turismo e dal ricavo di nolo di navi iscritte nei compartimenti siciliani. Notisi, innanzitutto, che il sistema equivale alla istituzione di un sistema peculiare di compensazione esteso alle importazioni ed alle esportazioni siciliane. Gli esportatori siciliani potrebbero conservare tutto il ricavo in valuta delle esportazioni; ma non per sé, sibbene a pro’ degli importatori siciliani. Essi avrebbero per le loro valute un mercato non più nazionale, ma ristretto alla Sicilia. Timeo Danaos et dona ferentes. L’esportatore siciliano dovrebbe riflettere a lungo prima di accettare un dono, il quale significa che egli non può vendere a chi crede, come può fare oggi nel caso di compensazione privata per il 100 per cento, e come può fare per le altre per il 50 per cento: ma dovrebbe vendere ad un gruppo particolare di acquirenti, suoi compaesani bensì, ma non per ciò disposti a pagargli il prezzo migliore ottenibile su un mercato più ampio. Sarebbe un protezionismo creato inconsapevolmente a vantaggio degli industriali locali a danno sovrattutto degli agricoltori e dei più progrediti tra gli agricoltori siciliani.

 

 

Si aggiunga che l’autonomia che qui si auspica per la Sicilia non potrebbe essere attuata qualora non fosse istituito il controllo doganale su tutte le esportazioni e le importazioni siciliane. Quando si affermi il principio che le disponibilità valutarie costituite con esportazioni di beni e servizi siciliani siano destinate a far fronte esclusivamente al pagamento di importazioni di beni e servizi a favore della Sicilia, ne discende logicamente che non dovrebbe essere lecito importare in Sicilia dalle altre provincie italiane, merci importate da parte di quest’ultime con pagamento in valuta. Se infatti non si impedisse la esportazione dal Continente verso la Sicilia di merci che il Continente ha importato dall’estero, ne seguirebbe che le disponibilità valutarie della Sicilia sarebbero incrementate dalla facoltà di comprare, con lire, merci che altre regioni italiane hanno comprato con valuta. Sia consentito a chi per dovere di ufficio deve occuparsi ogni giorno di problemi relativi al controllo valutario, affermare che nessun dono più funesto potrebbe essere fatto alla Sicilia di questa autonomia valutaria. Gli articoli 39 e 40 insieme congiunti renderebbero necessario separare la Sicilia con una cintura doganale e valutaria dalle restanti regioni italiane. Si determinerebbe necessariamente in Sicilia un livello di prezzi diverso da quello vigente nelle restanti regioni d’Italia. E cioè si creerebbe una lira siciliana con potere di acquisto diverso dalla lira continentale e di conseguenza sorgerebbe un cambio tra la lira siciliana e quella continentale. Già oggi l’ostacolo forse maggiore che si incontra per lo stabilimento di un livello di cambio corrispondente alla realtà tra l’Italia e i paesi stranieri consiste nel fatto appunto che coesistono infinite lire, una diversa dall’altra. Nessuno sa quale sia il potere di acquisto della lira italiana per confrontarlo con il potere di acquisto del dollaro o della sterlina, o del franco svizzero, o di un’altra moneta qualunque, perché di lire ne esistono troppe nel nostro paese; lire libere di acquistare merci in generale, lire di chi compra a prezzo di calmiere e di chi compra sul mercato nero, lire di chi paga fitti vincolati o di chi è costretto a vivere in camere mobiliate a prezzi liberi e via dicendo senza fine. Tuttavia la molteplicità delle lire esistenti è una molteplicità di fatto alla quale si può sperare di porre rimedio e termine in avvenire. Ma la norma contenuta nell’articolo 40 istituirebbe legalmente una lira siciliana diversa dalle lire continentali. Se questa norma fosse accolta, noi segneremmo un regresso gravissimo sulla via della ricostruzione economica. Tutto il cammino della civiltà consiste nell’abolire le barriere doganali e le barriere valutarie e noi invece creeremmo nuove barriere doganali e nuove barriere valutarie per separare territori congiunti dal vincolo della comune appartenenza alla medesima nazione ed al medesimo stato.

 

 

  • 7. – Incertissime e quindi produttive di attriti sono altresì tutte le norme le quali si riferiscono alle materie tributarie.

 

 

Allo stato, da quello che si può dedurre dall’articolo 36, sarebbero riservate unicamente le imposte di produzione e le entrate dei monopoli dei tabacchi e del lotto. Che cosa accadrebbe di tutto il resto del sistema tributario? A chi apparterrebbero le imposte sui redditi reali e personali, le imposte patrimoniali, le imposte successorie e sui trasferimenti (registro e bollo)? E a chi il provento dei dazi doganali? A tutti questi problemi il disegno di legge non dà risposta. Qualche lume si trae dall’articolo 37, dal quale risulta che il provento dell’imposta di ricchezza mobile delle categorie B per le imprese industriali e commerciali, le quali hanno sede centrale fuori del territorio della regione, ma che in essa hanno stabilimenti ed impianti, spetta alla regione per il reddito separato di tratti della Sicilia. A fortiori spetta alla regione altresì il provento di ricchezza mobile categoria B per le imprese commerciali e industriali con sede in Sicilia, ad eccezione forse del reddito ricavato dagli stabilimenti posti in altre regioni italiane. Se così è, risulta evidente che lo stato italiano rimane per questa categoria, che è la principalissima dell’imposta di ricchezza mobile, privo della capacità di istituire tributi nella Sicilia. Se è privo della capacità di imporre per la categoria B, perché non dovrebbe esserlo parimenti per le altre categorie della medesima imposta? E perché non lo sarebbe altresì per le imposte sui terreni e sui fabbricati? Il proposito evidente dell’estensione del disegno di legge è che tutte le imposte attualmente riscosse dallo stato in Sicilia, ad eccezione delle imposte di produzione e dell’entrate dei monopoli del tabacco e del lotto, debbano spettare alla regione; ma lo stato sul provento di questa minor parte dell’entrata tributaria a lui riservata dovrebbe prelevare a norma dell’articolo 38, una somma da impiegarsi a favore della regione a titolo di solidarietà nazionale, in base ad un piano economico nella esecuzione di lavori pubblici.

 

 

Si domanda: se il sistema ideato in Sicilia dovesse essere applicato a tutte le regioni italiane, quali mezzi rimarrebbero allo stato per far fronte alle sue spese? E poiché in tutti i paesi del mondo le spese spettanti allo stato sono di gran lunga superiori alle spese spettanti alle unità locali minori, l’adozione del sistema non vorrebbe dire l’annientamento dello stato per la impossibilità di far fronte ai propri compiti? Basta porre queste domande formidabili per dimostrare che il disegno di legge, forse inconsapevolmente, ha per scopo e risultato essenziale quello di distruggere non solo l’unità nazionale, ma benanco la esistenza medesima dello stato italiano.

 

 

  • 8. – Fa d’uopo accennare da ultimo allo spezzamento della unità nazionale che sarebbe la conseguenza dell’adozione degli articoli da 23 a 30 relativi agli organi giurisdizionali. Non si può soprattutto non rilevare la gravità estrema del principio affermato dall’articolo 24 e seguenti relativi all’istituzione di una Alta corte sulla costituzionalità delle leggi emanate dall’Assemblea regionale e di quelle emanate dallo stato rispetto allo Statuto regionale ed i regolamenti relativi.

 

 

Questa è materia gravissima la quale dovrà essere ampiamente discussa dalla Costituente nazionale. Il disegno di legge odierno ha scelto senz’altro, fra i tanti tipi che si possono immaginare di giudizio sulla costituzionalità delle leggi, quello che ha carattere più spiccatamente politico. I membri dell’Alta corte sarebbero invero scelti dalle Assemblee legislative dello stato e della regione. Si dice in verità che i membri della Corte dovrebbero essere scelti fra persone di speciale competenza in materia giuridica; ma quale probabilità vi è mai che assemblee politiche giudichino secondo criteri di competenza e non invece secondo criteri politici? Il sistema scelto affida in sostanza il giudizio sulla costituzionalità delle leggi ad una assemblea che, per essere composta soltanto di otto membri, non sarebbe meno una assemblea di carattere politico giudicante secondo gli interessi e i principi propri della parte politica dominante in ogni successivo momento nelle assemblee legislative statali e regionali. Giudizio siffatto non è un giudizio giuridico, ma giudizio di parte e non assicura la osservanza della legge e degli statuti fondamentali. Esso conduce necessariamente alla sopraffazione di una parte politica sulle altre. È inutile cercare precedenti di corti per la difesa della costituzione negli stati dove il giudizio di legittimità costituzionale non ha mai funzio – o ha dato luogo a lacrimevoli insuccessi.

 

 

Il solo precedente noto di un paese dove il giudizio di costituzionalità delle leggi funzioni efficacemente da centocinquantasei anni in qua si trova negli Stati Uniti e testimonia nettamente contro il sistema proposto nel disegno di legge. In quel paese non esiste nessuna corte di giudizio sulla costituzionalità delle leggi, non esiste nessun magistrato speciale per la materia costituzionale. Esistono solamente ordinarie corti inferiori e una Corte superiore, le quali pronunciano sentenze su tutte le materie e quindi anche sulle questioni di costituzionalità. Quelle corti inferiori e supreme sono composte di giudici nominati a vita, indi pendenti, di magistrati in senso proprio e non di giudici politici incaricati di dare entro breve termine, così come prescriverebbe l’articolo 29, giudizi passionali sulla costituzionalità delle leggi. Negli Stati Uniti il giudizio costituzionale della legge ha luogo così come qualunque altro giudizio, ad istanza di parte in qualunque momento, anche lungo tempo dopo la promulgazione delle leggi impugnate e la sentenza dei magistrati ha valore per il caso specifico deciso e, come per ogni altra controversia, la sentenza data oggi può essere revocata domani dalla medesima corte la quale abbia mutato opinione.

 

 

Questo è il solo sistema il quale abbia efficacemente operato per lungo periodo di tempo in difesa dei cittadini contro la incostituzionalità delle leggi. Non si vede la ragione per la quale con una improvvisazione frettolosa, e prima che se ne sia discusso ampiamente nella futura Costituente, si debba, in Italia, pregiudicare la soluzione più opportuna del problema gravissimo, adottando una soluzione diversa dall’unica la quale subì la prova del tempo, e conforme invece alle escogitazioni compiute qua e là dopo l’altra guerra da dottrinari privi di esperienza politica, escogitazioni delle quali non si fece mai alcuna applicazione probante.

 

 

  • 9. – Altre osservazioni particolari potrebbero essere aggiunte; ma esse non farebbero che rafforzare la conclusione; l’approvazione del disegno di legge sottoposto al nostro esame sarebbe la sconfitta maggiore che potesse toccare agli ideali, che furono sempre quelli di chi vi parla, agli ideali di autonomia locale, di riduzione dei compiti del governo centrale. È una disgrazia per gli ideali di autonomia affidare alle regioni, alle comunità e alle provincie compiti che non siano nettamente definiti e non siano loro proprii. Agli ideali di autonomia locale nessuna peggiore sciagura può accadere dell’approvazione di un sistema necessariamente fecondo di discordie, di impoverimento, ed alla fine di lotta aperta tra le diverse parti componenti la nazione italiana. Dio salvi la Sicilia dal dono infausto che oggi le si vorrebbe fare!

 

 

Interviene a questo punto il consultore Ziino e «osserva che i rilievi del consultore Einaudi si svolgono su un piano logico assolutamente ineccepibile. Premette il senatore Einaudi di essere favorevole a che alla Sicilia venga concessa l’autonomia regionale; soltanto dissente dal modo come è compilato lo Statuto e ne denuncia vari errori. Altri componenti di questa Assemblea sono di diverso parere. Tutto ciò conferma… che preliminarmente si debba prendere il esame il quesito se si deve o no concedere l’autonomia alla Sicilia. Solo se su questo quesito l’Assemblea si pronuncia favorevolmente, si giustifica l’ulteriore discussione dello Statuto regionale; che se, invece, l’Assemblea dovesse pronunciarsi negativamente, respingendo cioè la proposta che il governo ha fatta propria di concedere l’autonomia alla Sicilia, evidentemente sarebbe un fuor d’opera discutere le osservazioni del senatore Einaudi. Insiste perciò nella sua proposta che la discussione sia fatta anzitutto sulla questione preliminare».

 

 

La seduta viene quindi sospesa, poi la discussione si riapre con un intervento del consultore Guarino Amella, che «… Circa l’opportunità di non scendere al dettaglio delle eccezioni e delle osservazioni fatte dal senatore Einaudi, ritiene che, dal momento che esse sono state avanzate, non sia possibile ignorarle, tanto più che la Consulta si limita ad esprimere un parere, rimanendo la decisione al governo. Questo ha sentito la voce del professor Einaudi; ma è bene che senta anche quella della Consulta. Premette che, essendo stato il progetto in esame oggetto di discussioni animatissime, talvolta anche drammatiche da parte della Consulta siciliana, sarebbe stato bene che il governo lo avesse trasmesso non sic et simpliciter, ma con tutto il corredo dei verbali delle discussioni, o almeno con una relazione in cui si desse ragione delle varie norme in esso contenute, si che di tali documenti oggi potesse essere tenuto il debito conto; e passa ad esaminare le osservazioni del senatore Einaudi.

 

 

Questi non concorda sul punto dell’articolo 14 lettera d), che deferisce alla Assemblea regionale la legislazione esclusiva in materia di industria e commercio, osservando che con tale norma si spezza l’unità economica del territorio nazionale. Non crede che si tratti di questo, perché in materia di industria non riconosce necessaria l’unità legislativa per tutta l’Italia, con la quale si vengono a soffocare le regioni. Cita a questo riguardo l’esempio della legge fascista, tuttora in vigore, sulla preventiva autorizzazione per nuovi impianti industriali, legge che sarà sostituita da un decreto con il quale si fa tuttora obbligo di comunicare i progetti di nuovi lavori per ampliamenti industriali o per nuovi stabilimenti al Ministero dell’Industria e del commercio, il quale può porvi il suo veto.

 

 

In questa fase esecutiva il veto non è più un atto di governo; è l’atto di un ministro, e purtroppo l’esperienza della Sicilia in questo campo è molto dolorosa. Quando il governo fascista emanò una legge per la creazione della zona industriale di Palermo, furono inviate al ministero competente un centinaio di domande per nuovi stabilimenti industriali, ma nessuna di esse ebbe esito soddisfacente: le più forti industrie del Nord ottennero la preferenza e le iniziative dell’isola furono soffocate. Così dicasi per il commercio. Vi è un esempio recentissimo: quando dall’Inghilterra è stato offerto ai commercianti siciliani il solfato di rame a venti lire, si è dovuto chiedere il permesso al Ministero dell’Industria e del commercio, il quale lo ha rifiutato, perché ci si deve rifornire del solfato di rame che produce la Montecatini a lire 73. Tutte queste cose si conoscono e sollevano tale un’ondata di sdegno e di risentimento per cui anche le forme esasperate possono avere una certa giustificazione. Si lasci quindi che in fatto di industria e di commercio la Sicilia, liberata dalla camicia di Nesso dei permessi che debbono venire da Roma, si regoli da sé.

 

 

Circa la lettera i) dello stesso articolo 14, relativa alle acque pubbliche afferma che il professore Einaudi, sostenendo che le acque pubbliche devono essere regolate unitariamente per tutto il territorio, dimentica che la Sicilia è un’isola. Si comprende che unica debba essere la disciplina quando si tratta di acque di fiumi che scendono dalle Alpi, e attraversano varie regioni, ma i fiumi siciliani cominciano e finiscono in Sicilia, e possono essere regolati in forma autonoma. A proposito della critica rivolta dal professore Einaudi all’articolo 17 nel suo riferimento alla disciplina del credito, ricorda che fin dal 1860 il Consiglio di stato domandò che il credito venisse regolato da un punto di vista regionale. Nel primo discorso che egli fece quando si insediò la Consulta siciliana ebbe a rilevare di avere letto proprio alcuni giorni prima nella «Gazzetta Ufficiale» decreti con cui, da Roma, venivano sciolte Casse rurali in Sicilia e si nominavano i liquidatori; né vede la ragione per cui la valutazione della opportunità di sciogliere enti di credito della Sicilia debba essere fatta a Roma anziché localmente.

 

 

Concorda, invece, col professor Einaudi là dove lamenta che il presidente regionale e gli assessori regionali siano da un lato delegati del governo regionale e dall’altro anche delegati del governo centrale per alcune funzioni di carattere statale; e ricorda di aver richiamato l’attenzione della Consulta regionale su questo errore, che menoma la dignità stessa del governo siciliano e produce degli inconvenienti, in quanto il presidente verrà ad essere come un qualsiasi prefetto, che sorveglia per conto dello stato l’operato dei sindaci che pure sono eletti dal popolo. Si riprodurrebbe, cioè, la stessa equivoca posizione del sindaco, il quale, benché eletto dal popolo, è anche ufficiale di governo. Riconosce quindi che bisogna eliminare questo contrasto, che suona anche menomazione del prestigio del presidente della Giunta regionale e ricorda che nel progetto che egli elaborò le funzioni statali erano affidate ad un commissario regionale nominato dal governo.

 

 

Un altro argomento sul quale è in gran parte d’accordo col professore Einaudi è quello della pubblica sicurezza. Dopo una lunga discussione si è giunti ad una decisione incongruente che affida la pubblica sicurezza agli agenti dello stato, facendoli però dipendere dal presidente regionale. Non ha ben compreso se la soluzione proposta dal professore Einaudi sia nel senso che il corpo degli agenti di pubblica sicurezza dovrebbe essere statale e sottratto alla competenza o sorveglianza della autorità regionale. Ma questo gli parrebbe erroneo, perché non è possibile che vi sia un corpo di agenti di pubblica sicurezza non dipendenti da chi ha il dominio politico e amministrativo della regione; ed egli propugna la soluzione opposta, per cui la pubblica sicurezza dipenda pienamente, come personale e servizio, dal governo autonomo. Quanto all’osservazione del professore Einaudi secondo cui l’esperienza di altri popoli insegna che, come è accaduto in America e in Svizzera, si è cominciato con un corpo di agenti regionale o cantonale, ma poi si è visto che nascevano frequenti conflitti di competenza territoriale, rileva che ciò può succedere nella Svizzera e negli Stati Uniti, dove vi sono cantoni e stati autonomi, sovrani, e dove i confini tra cantoni e stati sono terrestri e non rigorosamente delimitati; ma il problema non si ripresenta per la Sicilia, per il semplice fatto che questa è un’isola e non diventerebbe uno stato sovrano.

 

 

A proposito dell’articolo 33 su cui il senatore Einaudi osserva che un regolamento regionale dei servizi ferroviari e di comunicazione e delle relative tariffe spezzerebbe quella unità di criteri che deve presiedere a quanto riguarda le comunicazioni, dichiara che la Sicilia non intende interferire in questo campo pretendendo di imporre il punto di vista regionale al governo centrale, ma afferma soltanto l’opportunità che per quanto riguarda le tariffe ferroviarie e le istruzioni di servizio debba essere sentito il governo regionale. Anche questa disposizione è nata dall’esperienza, in quanto troppo spesso si è visto costituire e sopprimere servizi di trasporto in Sicilia senza riguardo agli interessi locali, e più spesso ancora si sono avute tariffe che non tengono conto del fatto che la Sicilia è all’estremo limite dell’Italia; senza parlare delle ferrovie secondarie, a proposito delle quali si potrebbero raccontare cose strabilianti.

 

 

In merito all’articolo 39, concernente il grave problema del regime doganale, afferma inesatto che si tenda ad un diritto di veto da parte del governo regionale, il quale chiede soltanto di essere consultato, ciò che (è) giusto, perché in questa materia la Sicilia non deve essere più oltre trascurata. E, sempre a questo proposito, osserva che non si deve dimenticare che la Sicilia è un’isola e che pertanto l’entrata e l’uscita delle merci sono più facilmente sorvegliabili.

 

 

Sul controllo valutario, circa il quale le osservazioni del senatore Einaudi sono state gravi, premesso che la questione fu discussa superficialmente dalla Consulta regionale, dichiara la propria incompetenza, per la quale si astiene dal fare osservazioni, rimettendosi a quanto potrà dire il consultore Aldisio.

 

 

In materia tributaria, secondo il progetto, sono di competenza dello stato i proventi del monopolio, del lotto, delle dogane, ecc. La domanda del professore Einaudi: a chi saranno devoluti gli altri proventi? l’ha rivolta anche lui alla Consulta regionale, la quale ha fatto comprendere che le rimanenti imposte devono considerarsi a beneficio della regione. Le soluzioni possibili del problema sono tre: o tutte le imposte restano, allo stato, che contribuirà con una somma ai servizi regionali; oppure sono tutte di spettanza della regione, la quale preleverà una parte del reddito delle imposte per versarla allo stato, in compenso dei servizi di carattere generale che gioveranno all’Italia intera e quindi anche alla Sicilia; oppure lo stato riscuote alcune imposte e lascia le altre alla regione.

 

 

Ricorda che nella discussione alla Consulta siciliana si prospettò questa terza soluzione e alcuni sostennero che la divisione dei proventi doveva essere la seguente: allo stato le imposte di carattere personale e alla regione quelle di carattere reale, che sono le più certe e sicure, in modo che la regione abbia un bilancio più tranquillo, più certo. Ma a suo avviso questa soluzione non raggiungerebbe gli scopi che la regione si propone. O la regione si propone di incrementare le industrie per dare una vita nuova alle sue popolazioni, ed allora deve avere una certa libertà di azione circa le imposte che colpiscono l’attività produttiva, in modo da poter giustificare le aspirazioni stesse dell’autonomia; o la regione è una espressione puramente geografica e amministrativa, e allora è giusto che prelevi i suoi cespiti solo dalle imposte dirette immobiliari; ma in tal modo la Sicilia sarà trattata alla stregua degli impiegati, avrà, cioè, un reddito fisso, per cui se è povera resterà povera, e non avrà la possibilità di incrementare le sue risorse per rifiorire. Perciò egli non accetterebbe affatto il concetto che siano devolute alla regione le imposte a reddito fisso, e ritiene invece opportuno che si lascino alla regione tutte le imposte, anche perché il criterio di tassazione è ben diverso da regione a regione. Ad esempio, per la imposta della solidarietà nazionale, determinata a Roma, si è avuta una tassazione uniforme di 70 lire per ogni ettaro di terreno, tanto per l’Emilia quanto per la Sicilia, mentre fra le due regioni vi è una enorme differenza dal punto di vista del rendimento della terra. Non è insomma possibile proseguire con questo criterio della tassazione uniforme, perché le regioni hanno diverse attitudini, diverse possibilità di sviluppo, e quindi è il criterio locale che deve servire di guida nelle tassazioni.

 

 

In fondo è tutta una questione di calcolo e perciò crede che si debba costituire una specie di commissione finanziaria, paritetica fra lo stato e la regione, incaricata di esaminare il gettito delle varie imposte e di regolarne la distribuzione. Il governo sentirà quanto ha scritto il professore Einaudi e quanto è stato discusso a Palermo, e vedrà di risolvere il problema.

 

 

Per quanto riguarda poi l’ordinamento giudiziario, e l’opposizione del senatore Einaudi al frazionamento degli organi giurisdizionali, osserva, che l’unificazione della Corte di cassazione è stata un effetto della smania accentratrice del fascismo, mentre il vantaggio che si riteneva di raggiungere, cioè l’uniformità della giurisprudenza, non è stato raggiunto, perché la giurisprudenza è rimasta diversa nelle diverse sezioni.

 

 

Su un altro argomento trattato dal professor Einaudi, quello dell’Alta corte costituzionale, e precisamente dell’utilità o meno di istituire questa Alta corte, la quale deve servire a garantire lo stato e la regione dalla possibile eccessività in un senso o nell’altro, evitando che si violi l’autonomia della regione o si intacchi il prestigio o l’autorità dello stato, rileva l’affermazione secondo cui l’unico esperimento compiuto al riguardo sarebbe quello degli Stati Uniti, e non avrebbe dato buona prova.

 

 

Senza scendere a dettagli, si richiama ad uno studio del professor Della Torre, che esamina questo problema e lo risolve in senso perfettamente opposto a quello del professore Einaudi. Questi ha giustamente affermato che i membri dell’Alta corte costituzionale dovrebbero essere nominati dalla Camera legislativa di Roma e dal Consiglio regionale di Palermo, cioè da organi politici e che non si può creare un’Alta corte costituzionale nominata con criteri politici; ma la proposta che viene fatta è ben diversa e parte dal presupposto che l’Alta corte dovrebbe essere costituita da persone al di sopra di ogni competizione politica: magistrati della Cassazione, eletti dalla Cassazione; magistrati del Consiglio di stato, eletti dal Consiglio di stato, ecc., tutte persone appartenenti a corpi consultivi o giurisdizionali e che siano veramente all’altezza del mandato che dovrebbero avere. Così essa potrebbe giudicare con serenità e obbiettività, perché sarebbe indipendente dalle fluttuazioni dei singoli partiti.

 

 

Conclude chiedendo che questa Assemblea ed anche il governo tengano conto di queste sue osservazioni».

 

 

L. Einaudi ringrazia l’onorevole Guarino Amella per le espressioni che ha avuto per lui e dichiara che le sue osservazioni, che hanno formato oggetto di un così attento esame, avevano soltanto lo scopo di uno scarico di coscienza.

 

 

Chiamato a far parte della Giunta di studio, e avendo avuto l’impressione che il disegno di legge fosse gravemente dannoso alla causa delle autonomie regionali, ha creduto bene di esporre, non solo le ragioni delle sue titubanze, ma la sua avversione ad una attuazione che gli pare non buona di un concetto che dovrebbe essere molto fecondo per il paese.

 

 

La sua avversione non è stata scossa dalle argomentazioni dell’onorevole Guarino Amella.

 

 

Quello che egli ha detto relativamente alla distribuzione dei compiti tra lo stato e la regione, non è una critica di fondo; è una critica che vuole chiedere soltanto che si esaminino attentamente tutte le singole attribuzioni di compiti allo stato e alla regione. Se si vuole che le regioni funzionino efficacemente, è necessario chiarire in modo preciso quali siano i compiti loro attribuiti. Partendo dal concetto di uno stato unitario, non si può attribuire alla regione tutto ciò che non è espressamente detto, lasciando allo stato solo ciò che sia espressamente ad esso attribuito; si deve procedere, invece, proprio in senso opposto. Vi sono alcune funzioni dello stato che sarebbero meglio adempiute se fossero attribuite alle regioni; ma occorre che siano ben delimitate, e sia detto in modo ben chiaro che cosa la regione può stabilire o meno in materia, per esempio, di industria e di commercio.

 

 

Manca in questo Statuto, a suo avviso, una delle norme fondamentali per stabilire un sistema di autonomia regionale: ed è la proibizione assoluta alla regione di istituire qualsiasi vincolo per il commercio fra essa e il restante territorio nazionale. Non solo negli stati unitari sul tipo francese e italiano, ma anche nelle federazioni si è vista la necessità di stabilire questo divieto assoluto alle regioni di legiferare in materia di commercio interregionale, e questa, che è una delle norme fondamentali di ogni federazione, deve essere a maggior ragione canone fondamentale di uno stato unitario in cui si creino delle autonomie regionali: divieto di ogni impedimento al commercio interregionale; divieto che non riguarda solo i dazi, ma anche l’istituzione di tariffe preferenziali per una regione o per l’altra.

 

 

Ma tutte queste sono questioni che si possono considerare particolari. Ora si tratta di esaminare attentamente gli articoli 14 e 17, nei quali si regola appunto la distribuzione dei compiti tra una regione e l’altra: questioni fondamentali, sulle quali non può essere d’accordo col progetto.

 

 

Questo, a suo avviso, distrugge la finanza statale. Se si accetta questo provvedimento legislativo per la regione siciliana, non si potranno respingere analoghe domande di altre regioni, che non si sa perché debbano avere minore diritto ad avere un sistema doganale e tributario eguale a quello concesso alla Sicilia. Se si approva questo provvedimento legislativo, allo stato rimangono soltanto delle entrate di potenzialità di rendimento limitata, come quelle dell’imposta di produzione e dei monopoli del lotto e del tabacco. Non è nemmeno detto che vengano lasciati allo stato i proventi delle dogane, perché si dice solo che il sistema doganale è di competenza dello stato. Allo stato, insomma, rimangono soltanto entrate insufficienti, le quali vengono ancora diminuite dai contributi per la ricostruzione, ecc. della regione siciliana, e, se tutto il sistema tributario italiano fosse regolato in questa maniera, tanto varrebbe dire che è soppresso lo stato italiano e sono costituite tante regioni indipendenti.

 

 

Si capisce che un sistema di ripartizione delle entrate tra la regione e lo stato debba essere formulato, ma egli non crede che in questa sede si possa, così di sfuggita, dare un giudizio e pronunciare delle sentenze fondamentali sul sistema tributario dello stato e della regione.

 

 

Sarà la futura Costituente che dovrà decidere se tra lo stato e la regione ci debba essere una divisione delle imposte, di cui alcune attribuite allo stato, altre alla regione. Il sistema proposto sarebbe fatale all’uno o all’altra, perché questa divisione di imposte tra i diversi enti ha sempre fatto pessima prova. Non sì può sapere a priori se certe imposte possono essere sufficienti in avvenire ad uno stato di cui non si sa quali compiti potrà avere; né si conosce se certe imposte potranno essere sufficienti alla regione, coi compiti che questa potrà assumere in avvenire. Quindi, ogni distribuzione di imposte che venisse fatta, le une allo stato e le altre alla regione, gli sembra che sarebbe pericolosissima per l’avvenire del paese. L’hanno provato gli stati che l’hanno tentata. In tutti gli stati federali si è cominciato col dire: spettano allo stato le dogane e le imposte di produzione; e poi si è visto che questi stati facevano bancarotta. Tutte le volte che gli stati federali si sono trovati di fronte a spese straordinarie, hanno dovuto attribuirsi delle imposte che prima non erano state ad essi delegate. Negli Stati Uniti e nella Svizzera si sono dovute sostenere lotte vivacissime. Negli Stati Uniti per ben due volte un emendamento che attribuiva alla Confederazione una imposta sul reddito è stato respinto; ma si è dovuto riconoscere che ciò impediva la vita stessa dello stato.

 

 

Non crede che in un progetto presentato soltanto per una regione, si possa di sfuggita risolvere un problema così fondamentale come quello che ha torturato tanti legislatori in tanti paesi. La sua opinione è che non si possa fare una separazione di imposte tra stato e regione; e che si debba attribuire così all’uno come all’altra il diritto più largo di imposizione. Dipenderà dalla legislazione dello stato e dalla legislazione della regione servirsi di quest’arma nell’interesse dei cittadini dello stato e degli appartenenti alla regione; ma non si possono prevedere le conseguenze di una qualunque discriminazione preventiva. Crede che ciò che ha detto rispetto alla necessità di stabilire una norma che vieti alla regione di imporre qualunque vincolo al commercio interregionale basti per dare un’idea della preoccupazione che ha per quanto riguarda le materie doganale e valutaria. Vero è che questa è materia transitoria; ma, appunto per questo, non si possono creare tanti uffici dei cambi esteri speciali per ogni singola regione. Attualmente, purtroppo, per le necessità dell’occupazione straniera, si deve creare un ufficio speciale dei cambi per la zona della Venezia Giulia e non si sa come fare: gli industriali e commercianti della regione si lamentano di non poter avere comunicazioni col resto del territorio nazionale perché, una volta che si è creato un ufficio dei cambi speciale di una certa regione, si è vincolata tutta l’attività economica di quella regione, costringendo gli esportatori di essa a vendere le loro attività a quell’ufficio, cioè solo ai possibili compratori della regione anziché a tutti i possibili compratori dello stato. Pensa che nessun regalo più pericoloso si possa fare agli esportatori siciliani che costituiscono una classe tanto benemerita e che questo sia un pericolo molto grave per la Sicilia e per l’unità nazionale.

 

 

Fra le questioni politiche propriamente dette vi è quella della mancanza di divisione di compiti tra il presidente della regione e i rappresentanti del governo. L’esperienza di tutti i paesi ha provato che è opportuno non creare confusioni e dichiarare che le due funzioni sono separate: il presidente deve sovrintendere all’amministrazione, al governo della regione e lo stato, per le funzioni sue proprie, deve possedere propri organi. Uno degli organi con cui lo stato deve agire è la polizia, e una pubblica sicurezza non si può mantenere in uno stato che sia separato: quelli che l’hanno tentato hanno dovuto fare marcia in dietro ed hanno dovuto istituire sempre una polizia unitaria. I delitti non si perseguono per mezzo di polizie regionali che sono sempre, più o meno, soggette ad influenze.

 

 

Reputa, finalmente, pericoloso il risolvere in questa sede il problema gravissimo della corte di tutela e di difesa della Costituzione. Certamente un istituto di questo genere deve esistere; deve esistere qualche cosa che impedisca al governo di violare la costituzione ed impedisca alle assemblee legislative ordinarie, sia statali che regionali, di violare i principi fondamentali della Costituzione. Ma il dibattito non è su questo punto: è sugli organi ai quali deve essere affidata questa tutela della Costituzione; e deve essere più ampio. Non si può pregiudicare una questione fondamentale, creando una Corte costituzionale che sarà di origine squisitamente politica, in quanto la nomina spetta all’Assemblea legislativa statale ed all’Assemblea legislativa regionale. Se si ritiene che questa sia una buona Corte costituzionale, si può anche approvare questo principio; ma questo punto non deve essere così risoluto soltanto per una regione: il problema è ampio e riflette tutta la vita nazionale. L’esperienza dei paesi in cui questo controllo costituzionale esiste, ed esiste sul serio, dice che il controllo deve essere affidato alla magistratura ordinaria e che non ci deve essere una corte speciale. Devono essere tutte le corti, dal conciliatore fino alla Cassazione, a decidere sulla costituzionalità delle leggi. In Italia è mancato il coraggio di esercitare questo controllo, perché, se questo coraggio non fosse mancato, chi avrebbe potuto opporsi ad una decisione in proposito della Corte di cassazione? Il motivo per cui la Corte suprema degli Stati Uniti è diventata il baluardo della Costituzione non è scritto nella Costituzione; è appunto il coraggio dei magistrati che hanno dichiarato certe norme contrarie ai principi fondamentali dello stato. E quando qualche presidente degli Stati Uniti, qualche Congresso protestava contro le decisioni della Corte suprema, il primo giudice della Corte suprema ha semplicemente risposto che nessuno poteva cassare le sue sentenze. Nessuno le ha potute cassare e quindi la Corte suprema ha continuato ad esercitare la sua funzione di controllo sulla costituzionalità delle leggi.

 

 

Riconosce che questa è un’opinione sua, mentre altre opinioni possono ritenere necessaria una corte politica di tutela della Costituzione. Il problema è però di una gravità così estrema, che egli non si sente di dare il suo voto ad un disegno di legge che pregiudichi questa questione; né si sente di delegarne al governo la soluzione, né di affidarsi alle correzioni che possa fare la Costituente ad uno Statuto. Occorre che ciascuno si assuma la responsabilità di votare soltanto per ciò che ritiene sano e favorevole al conseguimento di quel fine che si vuole raggiungere, cioè una autonomia regionale che rientri nel quadro dell’unità nazionale e sia capace di dare veramente impulso alle attività economiche delle singole regioni.

 

 

L. Einaudi, terminato così il proprio intervento, si allontana dall’Aula.

 

 

La discussione prosegue con interventi dei consultori Molinelli, Li Causi, Della Giusta, Aldisio, Ziino, Oronzo Reale, Ricci, Berlinguer e Gilardoni. I consultori Ricci e Della Giusta presentano due ordini del giorno, che le Commissioni riunite respingono.

 

 

A questo punto il presidente Sforza dichiara chiusa la discussione generale sul provvedimento e ricorda che la Giunta di studio ha proposto un ordine del giorno proprio e lo mette in votazione. L’ordine del giorno viene approvato e il presidente dichiara che lo trasmetterà al governo come espressione del parere delle Commissioni riunite sul progetto esaminato.

 

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