Opera Omnia Luigi Einaudi

Come i protezionisti si dividono in varie sottospecie e delle loro diverse virtù

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 06/07/1912

Come i protezionisti si dividono in varie sottospecie e delle loro diverse virtù

«La Patria», 6 luglio 1912

 

 

 

I produttori italiani chiedendo protezione contro i produttori francesi, tedeschi, inglesi sono in buona fede. Sono in buona fede anche i produttori torinesi che chiedono protezione contro i fabbricanti di mobili della Brianza, contro i lavoratori in ferro del genovesato, contro i tagliapietre delle valli di Susa. V’è qualche protezionista che non sia in buona fede? Sembra stranissimo a lui ed a molti altri disinteressati spettatori che vi possano essere torinesi così dimentichi dei loro doveri di affetto filiale verso la città natia, italiani così scarsamente animati da spirito patriottico da indursi a preferire i «forestieri» ai concittadini, gli stranieri ai connazionali. Che cosa si direbbe di chi, avendo un fratello calzolaio e bisognoso, andasse da un estraneo a farsi fare le scarpe, di chi, potendo dar lavoro nella sua bottega o nei suoi campi al congiunto laborioso e abile al lavoro, lo respingesse per preferire un vagabondo, senz’arte né parte, piovuto in quel momento non si sa da dove, il cui unico merito sia quello di offerire di allogarsi a servizio a venti centesimi al giorno di meno? Costui sarebbe coperto dal disprezzo universale, come chi morendo con moglie e figli, lascia l’avere disponibile alla druda con cui ha convissuto in spregio delle leggi divine ed umane.

 

 

Così i protezionisti guardano a coloro i quali chiedono la libera entrata nel paese per le merci straniere: con l’occhio meravigliato ed inorridito della persona ben educata la quale contempli sulla pubblica via un atto obbrobrioso, una scena stomachevole, del credente il quale oda una grossolana bestemmia in S. Pietro a Roma, nel maggior tempio eretto dalla cristianità a Dio. Il torinese che si vende per vil mercede ai fabbricanti di mobili di Monza e della Brianza, l’italiano che fornica coi sindacati tedeschi fornitori in perdita di paccottiglia a buon mercato a tutti i paesi del mondo nell’intento di distruggere dappertutto le industrie nazionali e sulla loro rovina erigere il proprio monopolio, con gravissimo danno ultimo dei consumatori italiani, fan figure di donne perdute e di bestemmiatori. Traditori del paese, torbidi congiurati in combutta cogli stranieri, ecco come siamo stimati noi dagli industriali che producono e lavorano in Italia e dai loro patroni. Quando vogliono farci la grazia di guardare con occhio benigno ai nostri detti, ci considerano come ingenui illusi da teorie nebulose ed incomprensibili, come gente fantasiosa, rapita da un ideale di fratellanza universale che non sarà mai, ed incapaci perciò di vedere l’aspra lotta di concorrenza che si combatte oggi tra le diverse nazioni per la conquista dei mercati.

 

 

È o non è cosa meritoria iniziare una industria nuova in Italia? sorreggerne un’altra la quale, pur vantando nobilissime tradizioni, soggiacerebbe all’urto improvviso di un concorrente straniero deliberato a distruggerlo? Non sono forse gli italiani tutta una grande famiglia, la quale deve essere solidale nella lotta contro il nemico, e prestarsi quel vicendevole aiuto che i rapporti di affetto, di lingua, di tradizioni, di unità nazionale rendono doverosi? Sovratutto il governo, come organo supremo moderatore di tutti gli interessi nazionali, non deve forse saperli contemperare insieme, costringendo il forte ad aiutare il debole e impedendo che la compagine nazionale venga distrutta da infiltrazioni eterogenee, da assalti stranieri? I dazi doganali altro non sono che un piccolo sacrificio chiesto a tutti, perché l’industria possa vivere a beneficio di tutti; sacrificio momentaneo per giunta, in quanto ben presto l’industria sarà posta in condizione di produrre a buon mercato onde i consumatori, fatti per forza momentaneamente altruisti dalla virtù dei dazi, otterranno ben presto gli opimi frutti della loro rinuncia; mentre se l’egoismo li avesse indotti a preferire ad ogni costo il ferro e l’acciaio della Germania al ferro ed all’acciaio prodotti in patria col minerale elbano ed in patria ottenuto coi rottami a gran fatica procacciati da ogni paese, i panni inglesi a quelli tessuti a Biella od a Schio, il grano russo al grano nostrano, il vino spagnuolo al vino italiano, ben presto avremmo dovuto ircene mendichi all’estero in cerca di un lavoro che la patria esausta non saprebbe più procurarci e i rimasti, divenuti radi e poveri, sarebbero taglieggiati a sangue dagli stranieri fatti dominatori.

 

 

Perciò si comprende come i protezionisti siano in buona fede; essi nella loro mente immaginano sé stessi come i difensori della grandezza d’Italia una e solidale , come gli assertori dell’industria nazionale contro le basse insidie straniere, come i procacciatori di lavoro a turbe prima povere e oziose per mancanza di occasioni di lavorare ed ora fatte masse ordinate, coscienti, disciplinate.

 

 

La qual convinzione d’essere nel vero e nel giusto viene rafforzata nella mente dei protezionisti dal fatto, riconosciuto ed ammirato anche da noi, che nelle loro fila vissero, per parlare solo dei morti, uomini preclari per ardimento commerciale, per abilità tecnica, per entusiasmo vivo e fecondo di organizzatori di imprese grandi e di lanciatori di nuove idee. Non ricordo se il senatore De Vincenzi che fa il pioniere dei progressi agricoli nel mezzogiorno, se l’on. Pavoncelli che eresse una tra le più grandi cantine del mondo, fossero protezionisti. Probabilmente sì, perché l’ambiente cerealicolo e viticolo tutto a loro intorno era o diventò protezionista. Ciò non toglie che essi abbiano creato una grande opera economica, bella come un’opera d’arte, segnalatrice di potenza intellettuale ed organizzatrice umana forse altrettanto alta. Era certamente un protezionista il senatore Angelo Rossi che creò una città, la nuova Schio, fervente di lavoro e popolosa di uomini, simile in ciò ai fondatori di città nell’America del nord ed ai conduttori di colonie nell’epoca greca. Era un protezionista il senatore De Angeli, che dal nulla creò alla Maddalena di Milano una delle meraviglie dell’industria italiana moderna. Erano costoro entusiasti, nobili e grandi figure di pionieri, e furono protezionisti perché ad essi non parve che in quel momento l’industria potesse fare a meno dei dazi; ma sarebbero stati entusiasti e creatori di cose nuove e belle anche se avessero avuto credenze diverse ed avessero operato in industrie che ad essi non fossero apparse bisognevoli di protezione. Passiamo oltre, ossequenti alla loro memoria.

 

 

Vi sono, accanto a questi, protezionisti che non si sono mai illusi di rappresentare gli interessi nazionali e che non sono degli entusiasti. Gli entusiasti sono pochissimi, gli illusi sono i moltissimi incolti e i consapevoli sono i grossi. È assurdo pensare che i grandi industriali del ferro, i consorziati dello zucchero, i proprietari di tenimenti cerealicoli, gli attuali reggitori dell’industria cotoniera, i trivellatori di premi alla marina mercantile ed ai cantieri navali non sappiano che il sentimentalismo solidario, patriottico e cittadino, non è né solidario, né patriottico, né civico. È impossibile che costoro non vedano che non si tratta di lotta fra italiani e stranieri e che non esiste nessun dovere per gli italiani di schierarsi contro gli stranieri, sotto pena di scomunica e di bando; bensì che la lotta è tra italiani ed italiani, non lotta fratricida, ma emulazione purificatrice. Il consumatore italiano non ha nessun dovere di comprare a caro prezzo la merce dal produttore suo connazionale invece di acquistarla a basso prezzo dal produttore straniero. Anzi ha, se qui si può adoperare per metafora la parola dovere, lo strettissimo dovere di comprare la merce a buon mercato dal produttore straniero, non per avvantaggiare costui, di cui nulla a noi importa: ma per conseguire due essenzialissimi e «patriottici» scopi; 1) in primo luogo di spendere noi italiani, in qualità di compratori, soltanto 10 invece di 15, il che essendo un vantaggio indiscutibile per i singoli italiani, non può non essere un vantaggio altrettanto indiscutibile per la collettività degli italiani. Ognuno di noi crede di essere beneficato, di essere realmente più ricco, anche se nominalmente la sua ricchezza sia immutata, se possedendo 15 può comprare pane e carne invece di pane soltanto. Per qual miracolo misterioso questa verità evidentissima per i singoli, diventerebbe un errore antipatriottico quando si parla dell’insieme degli italiani? È forse più patriottico che gli italiani mangino male e vestano peggio, piuttosto che dar loro modo di essere più ben nutriti e vestiti, più vigorosi e più atti a combattere le battaglie della patria? 2) in secondo luogo di costringere noi stessi, in qualità di produttori, a produrre oggetti ottenibili a buon mercato e non oggetti cari. Protetti dai dazi, i produttori italiani potevano contentarsi di produrre merci che costassero 15, essendo sicuri di poterle vendere a quel prezzo agli italiani medesimi, e cioè in fondo a sé stessi, perché tutti sono produttori e consumatori nel tempo stesso. Senza dazi, gli italiani sotto veste di produttori, dovranno produrre quelle merci che gli stranieri, non obbligati affatto a rivolgersi a noi, ma liberissimi di comprare dovunque al più basso prezzo, avranno convenienza di comprare in Italia. Il che vuol dire ancora che noi dovremo affinare il nostro ingegno, migliorare la nostra abilità per produrre merci a così basso costo che gli stranieri abbiano convenienza ad acquistarle. Il che vuol dire ancora che mentre prima producevamo 1 milione di unità di certe merci a noi bisognevoli e ce le godevamo da noi, ripartendocele al prezzo di 15 lire; dopo noi dovremo produrre 1 milione e 200.000 unità di altre merci utili agli stranieri e dovremo venderle all’estero magari soltanto a 12 lire, incassando dagli stranieri 14.400.000 lire: ma con quei 14 milioni e 400 mila lire noi andremo a comprare dagli stranieri senza alcun scrupolo al più basso prezzo possibile le merci di cui noi abbiamo bisogno e ne compreremo, a seconda delle circostanze, più o meno, però sempre più di un milione di unità. Perché se potessimo comprarne solo tante, preferiremmo fabbricarle da noi. Onde è dimostrato perfino ai ciechi che non si compra dagli stranieri per i loro begli occhi, bensì per fare un piacere a noi stessi, per avere 1 milione e 100 o 300 mila unità di merci da comperare invece di un milione soltanto.

 

 

La qual verità è notissima ai trivellatori grossi, i quali cercano di confondere le menti dei molti, suscitando contro i veri «patrioti» il sentimentalismo che non ragiona e quel lievito di animosità e di odio contro lo straniero che esiste nel cuore di tutti in ogni paese. Sanno benissimo costoro che investendo capitali nelle ferriere e nelle acciaierie non cresce di un centesimo il capitale investito nelle industrie italiane, perché i dazi non si vide mai facessero spuntare dalla terra i napoleoni d’oro; sanno benissimo perciò che non si da lavoro ad un operaio di più, e che si tratta soltanto di portar via qualche decine di milioni di tasca ai compratori italiani, costringendoli a pagare certi beni 15 invece di 10. Sanno bene perciò che i consumatori italiani non avendo più in tasca le 5 lire di differenza, non possono fare altri acquisti che avrebbero in animo; e perciò 50 altre industrie italianissime intristiscono o non si sviluppano. Sanno molto bene gli zuccherieri che, costringendo i consumatori a pagare L. 1,50 quel chilogramma di zucchero che potrebbe altrimenti essere pagato lire 1,25 (ed anche meno perché in tal caso anche il fisco avrebbe interesse a ridurre la sua imposta), i consumatori non avranno più i 25 centesimi, ossia essendo il consumo di 140 milioni di chili, non avranno più i 30 – 35 milioni che potrebbero avere disponibili per altri consumi e per far fiorire altre industrie. Né i 30 – 35 milioni li potranno tenere tutti per sé gli zuccherieri: perché una gran parte andrà dispersa, senza utile veruno per alcuno, in maggiori costi delle barbabietole (non si dice che la barbabietola italiana è meno zuccherina della tedesca?) del macchinario, dell’interesse, delle imposte e via dicendo; e potrà anche darsi che di quei milioni, contentiamoci di una ventina, che loro resteranno, i signori dello zucchero facciano uso meno desiderabile di quel che probabilmente farebbero i 35 milioni di italiani, se loro restassero in tasca quei 25 centesimi.

 

 

Il che essendo ben noto ai trivellatori dello zucchero, del ferro, del petrolio, dei cantieri navali, del cotone (oggi si fa menzione del cotone solo «per memoria» perché il loro numero eccessivo li ha ridotti a così mal punto che debbono vendere a prezzi inferiori a quelli praticati dagli stranieri, con perdita progrediente del loro capitale medesimo!), del grano, si salvano gridando: dalli allo straniero, dalli al liberista, amico e mancipio e scherano prezzolato degli stranieri! così come una volta si gridava: dalli all’untore!

Torna su