Opera Omnia Luigi Einaudi

Il filone misterioso e la necessità di lavorare

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 28/05/1919

Il filone misterioso e la necessità di lavorare

«Corriere della Sera» 28 maggio 1919

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 149-154

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 208-211[1]

 

 

 

 

«Senti che cosa ci dicono: lavorare!» queste le parole che un popolano indirizzava ad un altro su una piazza di una grande città italiana, commentando un manifesto del «fascio popolare di educazione sociale» il quale cominciava appunto con le parole «bisogna lavorare…».

 

 

Nella esclamazione del popolano era riflesso lo stato d’animo di molti dei reduci dalle trincee, dei combattenti della grande guerra. È uno stato d’animo di cui più o meno tutti siamo testimoni, nei campi più diversi della vita. Quattro anni di guerra hanno dato all’uomo la consuetudine col pericolo, lo sprezzo della morte, il coraggio, la disciplina, la virtù dell’aspettare e del silenzio prolungato. Ma non potevano dare ciò che essi non possedevano, ossia l’abitudine al lavoro uguale, sistematico e produttivo. È questa una esperienza universale, che non è italiana soltanto, ma francese, britannica, nordamericana. V’è nel reduce una irrequietudine, un senso di impazienza, un eccitamento che deve trovare il suo sfogo. Solo gradualmente sarà possibile di arrivare all’equilibrio precedente ed alle abitudini antiche di lavoro ordinato. Non solo i lavoratori della terra e delle officine si trovano in questa condizione psicologica; ma anche gli ufficiali. I professori universitari hanno constatato questa medesima difficoltà contro cui anche i migliori fra gli studenti, i più volonterosi e diligenti lottano per ripigliare le antiche abitudini dello studio. Lavoro, studio vogliono dire costanza e regolarità. Ed i reduci non hanno ancora riacquistata la costanza e la regolarità.

 

 

Tutto ciò noi non diciamo per muoverne rimprovero ai reduci. Sarebbe come lamentarsi che dopo il giorno viene la notte. È un fenomeno naturale, che bisogna conoscere, valutare; che bisogna utilizzare per sapersene servire o, meglio, per cercare i metodi con cui eliminare gli ostacoli che la situazione psicologica diffusa offre alla ripresa della vita normale. Il grande rimedio è il tempo. Un po’ per volta l’eccitamento si calmerà, le abitudini della vita libera alla grand’aria aperta andranno cedendo il passo a quelle della vita sedentaria ed ordinata. L’esempio dei genitori, degli amici, dei parenti gioverà a famigliarizzare nuovamente col processo della vita normale.

 

 

Qualcosa possono fare gli industriali, i datori di lavoro. In quanto sia possibile, ai reduci converrebbe affidare, a seconda delle attitudini individuali e del grado sociale e gerarchico, mansioni adatte. Conviene evitare in quanto sia possibile di retrocedere il capitano od il maggiore alle umili mansioni a cui era forse addetto prima della guerra. Il lavoro si presenta naturalmente ripugnante a chi non v’è avvezzo. Una lenta educazione di secoli ha avvezzato i popoli alla fatica metodica e produttiva. Ma basta una interruzione violenta, generale per rompere l’abito che in fondo noi avevamo vestito per opera di artificio, di educazione. Occorre a poco a poco riprendere l’artificio della educazione.

 

 

Bisogna anche tornare a spiegare perché si deve lavorare. Il fascio popolare di educazione sociale, che una così nobile opera sta svolgendo, farà bene a fermarsi su questo punto. La guerra ha sconvolto le idee in proposito. Prima era ovvio dire e sentir dire che se non si lavora non si mangia. Oggi il proverbio non pare così ovvio. Milioni di uomini non hanno lavorato a produrre merci e derrate e servizi economici. Hanno gli uni salvato il paese nelle trincee e nei campi di battaglia; hanno gli altri prodotto congegni di distruzione. Ufficio necessario; ma non produttivo di pane, di vestiti, di case. Eppure hanno vissuto. Molti di essi, quanto a cibo, meglio di prima. Altri con privazioni. Ma hanno vissuto, essi e coloro che a casa attendevano alle opere consuete. C’è la sensazione che si sia scoperto un filone misterioso, da cui sono sgorgati milioni e miliardi a compiere il miracolo della vita senza lavoro. E si dice: perché il miracolo non potrebbe continuare? perché lo stato non potrebbe far zampillare, con la sua bacchetta magica, ancora altri miliardi e farci ancora vivere senza lavorare?

 

 

L’avere occasionato e favorito il diffondersi di queste idee: ecco la grande, la sola responsabilità di coloro che in Europa – in tutta l’Europa – governarono le cose del tesoro e della finanza durante la guerra. Forse non se ne poteva fare a meno: e forse il diffondersi del contagio cartaceo era inevitabile. Non vogliamo riaprire di straforo un processo che darà luogo a dibattiti interminabili.

 

 

Ma importa spiegare e rispiegare che quella del filone misterioso, della sorgente miracolosa di ricchezza era una pura illusione. Gli uomini hanno, durante la guerra, vissuto, come facevano prima, unicamente, esclusivamente dei prodotti che ogni giorno erano ottenuti mercé l’applicazione del capitale e del lavoro alla terra, alle miniere, alle industrie. Nient’altro. Non si mangia carta, neppure sotto forma di biglietti di banca, ma si mangia pane, carne, formaggio, si vestono panni, si abita in case di calce e mattoni. Con la massa fantasmagorica di biglietti da lui stampati lo stato non ha fatto altro che questo: ha comperato dai produttori il pane, la carne, i panni e li ha dati ai combattenti, ai lavoratori delle munizioni, ai cresciuti funzionari pubblici. Invece di comperare con biglietti nuovi di torchio avrebbe potuto ripartire grosse imposte, farsi consegnare dei biglietti vecchi e con quelli comperare ciò che gli bisognava. Sarebbe stato assai meglio, se fosse stato possibile e se si fosse osato. Perché sarebbe stato chiaro che non si poteva dare – ed era doveroso, urgente dare – ai combattenti senza portar via ai lavoratori ed ai produttori. Collo strumento miracoloso dei biglietti, lo stato parve non portasse via, ma comperasse; procedimento più gentile e comodo. In realtà fu un portar via lo stesso, perché tutti si trovarono in mano, non più la roba, ma il doppio, il triplo di moneta di quella che avevano prima. E siccome la moneta, divenuta abbondante, svilì, i non combattenti non ebbero alcun frutto della maggior copia di moneta posseduta – parliamo per medie generali, non potendo per brevità distinguere tra quelli che lucrarono e quelli che perdettero, in modo da fare una media zero -; e rimasero con la roba in meno, che giustamente, sacrosantamente era passata a far vivere i combattenti. Ma è chiaro che il processo non può durare all’infinito. Se i produttori seguitassero a ricevere solo carta in cambio delle merci da essi prodotte, dopo un po’ si rifiuterebbero a produrre ed a vendere. Come fanno oggi i contadini in Russia. Durante la guerra la cessione di merci contro carta andava bene, perché si riceveva in cambio la difesa del paese. Ma, finita la guerra, il cambio su questa

base non può continuare, se non si vuole che anche i produttori di beni economici si stanchino di produrre. E in tal caso di che cosa vivremo? Questa è la ragione per cui bisogna che tutti tornino al lavoro. Perché senza di esso, cessata la fantasmagoria dei biglietti, non si vive. Del resto, ciò che è accaduto durante la guerra apre orizzonti di miglioramenti, di innalzamenti indefiniti. Si pensi: milioni di giovani vigorosi e di uomini nel fiore della produttività, allontanati dal lavoro. Eppure, questi milioni hanno continuato a vivere. Vissero, forse meglio di prima, anche i milioni di lavoratori delle officine belliche. Visse anche la popolazione residua, quella che seguitava a produrre cose necessarie, sebbene con qualche maggior stento.

 

 

Che cosa vuol dire ciò? Evidentemente, indiscutibilmente, che prima della guerra il lavoro era poco produttivo; che esso poteva essere organizzato meglio. Se donne, vecchi, ragazzi, riformati poterono durante gli anni lunghi della guerra far vivere se stessi ed i combattenti e gli addetti alla produzione bellica, quanto meglio, quanto più largamente non si potrà vivere il giorno in cui i combattenti ed i lavoratori delle munizioni torneranno a lavorare, con quell’amore e con quella intensità con cui vecchi, donne e ragazzi lavorarono durante la guerra! «L’Italia dovrebbe diventare un giardino!», diceva un contadino riflettendo al miracolo per cui la terra seguitava a produrre, malgrado la mancanza di braccia valide. Ecco il grande compito che sta dinanzi a noi; e che possiamo tranquillamente affrontare, purché si voglia. La volontà in tutti di lavorare; la volontà nei dirigenti di organizzar bene il lavoro, con il consenso e la partecipazione diretta dei lavoratori alla organizzazione. Non mai come ora fu vero il detto che volere è potere.

 

 



[1] Con il titolo La febbre del vivere e la necessità delle rinunce. Bisogna lavorare?. [ndr]

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