Opera Omnia Luigi Einaudi

Le difficoltà di quest’ora

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/06/1919

Le difficoltà di quest’ora

«Corriere della Sera» 15 giugno 1919

Prediche, Laterza, Bari, 1920, pp. 155-159

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 212-215[1]

 

 

 

 

L’Italia è di nuovo percorsa da un vasto movimento sociale simile a quello che si ebbe nella primavera scorsa. E non soltanto l’Italia operaia. A Genova protestano e dimostrano negozianti, industriali, uomini d’affari. A Torino ed a Milano le masse operaie, improvvisamente, abbandonano il lavoro, per solidarietà con gli operai tedeschi, per protesta contro l’uccisione della Luxemburg, per motivi inespressi e vaghi. I maestri credono di avvantaggiare la loro causa disertando le aule scolastiche. Gli impiegati si agitano contro il governo che non concede subito i chiesti aumenti di stipendio. I giornali ed i deputati protestano, inquieti, contro il governo che non sa trovare un rimedio alla mania degli scioperi, che non pone un freno all’aumento dei prezzi degli alimenti e delle cose necessarie alla vita. Da più parti si invoca un dittatore; si attende un avvenimento che rischiari la situazione. È una atmosfera singolare che si va creando, l’atmosfera del millennio, in cui si aspetta, si invoca il messia, il miracolo. Alcuni personificano il miracolo nella rivoluzione, altri in un uomo. Ma lo stato di spirito è lo stesso: un senso di inquietudine che fa parere insoffribile il presente, che vuole ricercare in qualcosa al di fuori di noi, nel capitalismo o nel governo, il responsabile dei nostri mali; e che ha fede nel rimedio infallibile atto a cambiare il male in bene. A questo punto è necessario dire una parola franca e netta, che non nasconda le responsabilità di alcuno, ma dica nel tempo stesso tutto il pericolo e tutta la vanità della strana situazione di spirito che si è venuta creando.

 

 

Certo, le responsabilità del governo sono gravi. I ministri che stanno a Parigi non hanno saputo darci ancora la pace che l’Italia meritava; e quelli che son rimasti a Roma non hanno saputo governare. Hanno commesso errori gravissimi nella politica economica, finanziaria, sociale. Non hanno mai saputo dire al paese la parola ferma, che guida, che rassicura, che tiene strette insieme le anime. Non hanno una visione netta di quel che occorre fare nel momento presente. Ma sarebbe ingiusto rimproverare ad essi di non aver saputo compiere il miracolo. Nessun governo, anche l’ottimo, potrebbe creare l’abbondanza dove è la scarsità; nessuno potrebbe d’un tratto moltiplicare le navi, i carri ferroviari, che sono guasti o le scorte che sono ridottissime. Una rivoluzione scompiglierebbe il paese ancor più, farebbe nascondere e scomparire ancor più le merci esistenti ed, interrompendo i traffici con l’estero, darebbe il popolo in balia alla fame, alle stragi intestine ed alle malattie. Un dittatore, il quale dovrebbe essere il genio onnipotente ed onniveggente, che in terra non esiste, aggraverebbe il male, che oggi l’opera indipendente di molti riesce a rendere meno aspro.

 

 

Non esiste alcun rimedio portentoso, alcuna bacchetta magica la quale possa risolvere la situazione aggrovigliata che cinque anni di guerra e di snervante armistizio hanno creato. Coloro i quali fanno credere che un rimedio siffatto esista, che esista una via d’uscita rapida dagli squilibri presenti alla pace sociale od anche semplicemente alla felicità di una classe, della classe più numerosa, si illudono ed illudono. Essi sfruttano la tendenza a credere nel miracolo che esiste nel popolo, che esiste in molti uomini; ed in tal modo lo rendono propenso a sopportare ed a plaudire ai colpi di mano, con cui essi sperano di impadronirsi del potere e di iniziare anche fra noi sperimenti altrove non riusciti di palingenesi sociale.

 

 

Contro i pescatori nel torbido, contro coloro i quali sperano di innalzare la propria fortuna politica ed economica sulla rovina universale, bisogna che reagisca l’opinione pubblica.

 

 

Delle classi alte innanzi tutto. Le agitazioni a cui si abbandonano le classi commerciali della Liguria contro i monopoli hanno preso una forma che noi dobbiamo disapprovare. Noi non siamo favorevoli alla politica dei monopoli, che ci appare improvvisata e condotta con criteri non conformi all’interesse generale. Lamentiamo che il governo non abbia opposto buone ragioni, ma solo comunicati perentori ed assoluti contro le proteste ragionate e le offerte di uguali proventi del commercio. Questo ha ragione di chiedere che la sua collaborazione col governo nella preparazione delle leggi fiscali sia richiesta, gradita, ascoltata. Ma da ciò a chiudere il portofranco, ad interrompere il traffico ci corre. Il commercio non ha solo dei diritti, ma anche dei doveri verso il pubblico. Il porto di Genova è il grande servitore dell’alta Italia; ed esso deve funzionare, ad ogni costo. Ma contro la mania del nuovo, contro l’aspettativa del millennio deve reagire anche l’opinione delle classi popolari. Essa deve riflettere che questo turbinio di agitazioni, queste interruzioni continue del lavoro danneggiano massimamente coloro che non hanno.

 

 

Le masse agricole, le quali nella massima parte d’Italia sono tranquille, che partecipano direttamente, sia come proprietari, sia come cointeressati, ai prodotti della terra, possono fino ad un certo punto assistere tranquillamente ai turbamenti odierni. Esse hanno grano, uova, frutta, verdura, ecc. Le masse cittadine no. Esse vivono sulla continuità del traffico e del lavoro. Continuamente, ogni giorno, bisogna che sbarchino, siano inoltrati, utilizzati o messi in lavorazione carbone, ferro, cotone, lana; ogni giorno bisogna che giunga frumento e sia macinato nei grandi mulini se si vuole che i milioni di abitanti delle città vivano. Le riserve sono state distrutte dalla guerra; e ci vorranno anni per ricostituirle. Ad incrociare le braccia, sospendere il lavoro delle fabbriche, le corse delle tramvie e dei treni, il problema non si risolve. Peggiora. Il governo è incapace a dare l’opera sua, che in ogni caso sarebbe limitatissima, a risolvere il problema del caro-viveri; ma gli scioperi non agevolano la sua azione e solo inaspriscono il problema. È questo un periodo in cui gli industriali si stimerebbero fortunati se potessero far funzionare le loro fabbriche senza perdere; il che vuol dire che per il momento il lavoro assorbe tutto il prodotto netto dell’industria. Per crescere questo prodotto netto, per crescere la parte dell’operaio, per creare a poco a poco quell’abbondanza di prodotti da cui uscirà alla fine il ribasso dei viveri, l’unica soluzione è la tranquillità sociale; è una precisa e serena valutazione dei dati del problema e dei mezzi atti a risolverlo. Ad agitarsi, a muoversi, a protestare per protestare si fa il giuoco solo dei mestatori; si prepara la rovina di quelli che vivono giorno per giorno del proprio lavoro. Il ricco, che ha riserve, può ancora rifugiarsi in campagna od all’estero. Chi vive alla giornata non può . Perciò noi invochiamo sovratutto un rinsavimento delle masse popolari. Il male è in noi; nella nostra aspettativa del nuovo e dell’impossibile. Il giorno in cui invece penseremo che lo stato siamo noi, che il governo lo facciamo noi, che esso ha i nostri vizi e le nostre virtù, che i mali di cui soffriamo li potremo guarire a poco a poco soltanto noi, lavorando a guarirli, con un’opera individuale e coordinata atta a raggiungere lo scopo; il giorno che avremo sostituito alla mentalità dell’inquietudine e dell’agitazione la mentalità della riflessione e del lavoro fecondo, quel giorno saranno superate le difficoltà più grandi del problema. Sovratutto bisogna vedere chiaramente, astenerci dall’imprecare altrui, e deciderci a lavorare noi con passione e con intensità.

 

 



[1] Con il titolo L’aspettazione del millennio. [ndr]

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