Opera Omnia Luigi Einaudi

Consultazione legale sul diritto spettante a Giacomini Remo di conseguire dal governo di S. Marino il risarcimento dei danni derivatigli dalla forzata chiusura della sua distilleria di alcool

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1912

Consultazione legale sul diritto spettante a Giacomini Remo di conseguire dal governo di S. Marino il risarcimento dei danni derivatigli dalla forzata chiusura della sua distilleria di alcool

Repubblica di S. Marino, Tribunale commissariale, Rimini, Tip. Capelli già Malvolti, 1912

 

 

 

Remo Giacomini, cittadino della Repubblica di S. Marino, vi apriva nel 1882 una distilleria di alcool per uso del proprio caffè e pei bisogni del paese.

 

 

A quel tempo era tuttora in vigore nella Repubblica, in quanto nessuna abrogazione espressa era intervenuta, un decreto 23 maggio 1871, secondo cui quelli che intendevano attivare la fabbricazione di pasta, di birra, di gazose, bevande alcooliche e spiriti dovevano riportare analogo permesso dal Consiglio Principe. Vigeva poi nei riguardi del Governo Italiano la convenzione 22 marzo 1862, in forza di cui il Governo della Repubblica si impegnava a non permettere nel suo territorio la coltivazione del tabacco, ma nella quale non è affatto parola di divieti o vincoli riguardanti le fabbriche di liquori, distillerie ecc.

 

 

Sebbene il decreto del 1871 non fosse mai stato osservato e non si fosse dal Governo di S. Marino fatto osservare, il Giacomini credette bene di rivolgersi nel 1901 al Consiglio Principe per ottenere il permesso voluto dal summenzionato decreto, e tale permesso gli veniva accordato come segue: «Il Consiglio loda il contegno dello instante Giacomini e ne accoglie l’istanza a termini di legge e dell’ultima convenzione col Regno d’Italia». La convenzione col Regno d’Italia, di cui è cenno, avente la data del 28 giugno 1897, stabiliva all’art. 37 «che riguardo alla produzione nel territorio della Repubblica dei generi che nello Stato Italiano sono o potessero essere soggetti a tasse interne di fabbricazione, il Governo di S. Marino si impegna di impedire che detta produzione ecceda la quantità occorrente al consumo della popolazione della Repubblica ed alla esportazione oltre i confini del Regno d’Italia».

 

 

Posteriormente a tale convenzione, che doveva avere la durata di dieci anni, la Repubblica conchiudeva il 14 Giugno 1907 col Governo d’Italia una convenzione addizionale alla precedente, in forza di cui all’art. 6 «si impegna di denunziare al Governo Italiano l’eventuale impianto nel territorio della Repubblica nei limiti della convenzione 28 giugno 1897 di fabbriche per la produzione di generi soggetti in Italia a tasse di fabbricazione. Dal momento dell’impianto di una di queste fabbriche cesserà il diritto del Governo di S. Marino al godimento della quota parte dei redditi della tassa di fabbricazione per il prodotto fabbricato nella Repubblica, che il Governo Italiano corrisponde alla Repubblica stessa a termini dell’art. 5».

 

 

In base a tale convenzione il Governo di S. Marino con decreto 23 febbraio 1909 proibiva in tutto il territorio della Repubblica la distillazione di qualunque qualità di spiriti, ed intimava poi personalmente al Giacomini la chiusura della sua fabbrica.

 

 

Il Giacomini, dopo aver invano replicatamente ricorso al Governo della Repubblica per essere indennizzato dei danni derivatigli dalla forzata chiusura della distilleria, intenderebbe muovere causa al Governo per conseguire il risarcimento di questi danni.

 

 

Nessuna limitazione in ordine alla durata dell’esercizio dell’industria era prefissa dal decreto del 1871. Il medesimo, ispirato evidentemente a preoccupazioni di ordine igienico, stabiliva unicamente l’obbligo della previa autorizzazione. Questa ottenuta, nessun altro vincolo, nessuna altra condizione era imposta al libero esercizio dell’industria.

 

 

Una limitazione a questo libero esercizio, non però in ordine al tempo, ma allo sviluppo a darsi all’industria, venne in seguito imposta dalla convenzione 28 giugno 1897, in cui al già menzionato articolo 37 era pattuito che la produzione di dati generi di consumo non potesse eccedere la quantità occorrente ai bisogni della popolazione della Repubblica ed alla esportazione oltre i confini del Regno d’Italia.

 

 

E si comprende come il Consiglio nel dare al Giacomini l’autorizzazione richiestagli, allo scopo di assicurarsi sempre più che i limiti di produzione stabiliti dall’art. 37 della convenzione non fossero sorpassati, abbia creduto di far cenno della convenzione, aggiungendo le parole «a termini dell’ultima convenzione col Regno d’Italia».

 

 

Ma con ciò il Consiglio non intese certo di specificare che il permesso veniva accordato per la sola durata di anni dieci; poiché se tale fosse stato il suo intendimento, se si fosse voluto sottoporre l’autorizzazione ad un vincolo di carattere così eccezionale, ben altre avrebbero dovuto essere le parole usate nel decreto.

 

 

Anche a supporre che nell’aggiunta «a termini dell’ultima convenzione col Regno d’Italia» fosse implicito il richiamo alla durata decennale della convenzione, non ne conseguirebbe che il permesso fosse limitato alla durata di dieci anni. Il richiamo, superfluo in sé, poiché ogni cittadino deve conoscere la legge ed ha obbligo di osservarla, non potrebbe importare altro se non avvertenza che dopo i dieci anni la convenzione del 1897 aveva fine e che nuove leggi avrebbero potuto essere emanate. Ma non potrebbe significare imposizione preventiva al Giacomini di rinunzia a quelle ragioni, che in base al nuovo stato di fatto e di diritto, che potesse crearsi in seguito, egli avrebbe potuto far valere.

 

 

Numerose sono le industrie che non possono essere esercitate senza preventivo permesso del Governo e tutte vanno soggette, come lo sono del resto tutte le industrie di qualsiasi genere, all’eventualità di disposizioni legislative che modifichino quelle attualmente in vigore. Ma non si può perciò sostenere e pretendere di servire la giustizia, che una volta poste nel nulla le vigenti leggi, perché se ne sono create altre, resti pure revocato ed annullato un permesso che era stato imposto per motivi che nulla avevano a che fare colle menzionate disposizioni di legge. Di fronte alle nuove leggi l’esercente l’industria, in mancanza di speciali provvidenze legislative che glie ne facciano divieto, avrà ragione di far valere nei confronti del Governo quei diritti, che in base ai principi generali gli possono spettare senza che gli si possa legittimamente opporre l’eccezione pregiudiziale che il permesso doveva intendersi limitato alla durata della legge in vigore al tempo del permesso stesso, e che, abrogata la legge, ipso facto l’industriale, continuando ad esercitare l’industria, venga a trovarsi ex lege.

 

 

Suppongasi che, scaduta la convenzione del giugno 1897 col Governo d’Italia, non si fosse addivenuto per volontà di qualsiasi dei contraenti alla proroga della convenzione stessa o ad altra convenzione. Sarebbe egualmente il Giacomini venuto a trovarsi senza permesso e quindi ex lege allo scadere dei dieci anni? La risposta negativa non pare dubbia. E non v’è ragione di sorta perché abbia ad essere diversa pel fatto che una nuova convenzione sia venuta a sostituirsi alla precedente.

 

 

Ritenuto, in base a quanto sopra, che il Giacomini, il quale non pretese mai di volere fabbricare alcool in quantità eccedente i limiti prescritti dalla convenzione del 1897, trovasi nella condizione di chi avesse ottenuto un permesso non sottoposto a vincoli di sorta, egli ha certo diritto di essere indennizzato per la forzata chiusura della sua fabbrica.

 

 

Era in facoltà il Governo di S. Marino per supreme ragioni di bene pubblico di stringere col Governo d’Italia quegli accordi che gli parvero migliori; ma non sarebbe giusto che un cittadino avesse colla perdita del suo patrimonio a sopportare da solo i danni dell’accordo, con grave offesa al principio di eguaglianza.

 

 

La questione è stata ampiamente discussa nelle raccolte giudiziarie del Regno allorquando si venne all’applicazione della legge 29 marzo 1903 sulle municipalizzazioni, legge con cui si concedeva fra altro ai municipi di monopolizzare alcune industrie libere. Indubbiamente agli effetti legali la chiusura delle fabbriche dipendenti da monopolio concesso ai Comuni e quella imposta in osservanza ad una specie di monopolio concesso al Governo Italiano si equivalgono. In ambi i casi è la legge del paese che per ragioni di interesse pubblico vieta ai privati il libero esercizio di una loro facoltà, danneggiando in special modo quelli che di tale facoltà avevano fatto uso, iniziando determinate industrie. Per cui dovendo le autorità giudiziarie di San Marino, in mancanza di disposizioni al riguardo nella legislazione della Repubblica, decidere in base a principii generali di diritto, come fecero la dottrina e la giurisprudenza del Regno, la soluzione a darsi alla questione non dovrebbe esser dubbia.

 

 

Ogni cittadino ha facoltà di esercitare quelle industrie che non sono vietate dalla legge. La facoltà attuata si trasforma in diritto patrimoniale quesito. E poiché non è giusto che i danni della soppressione o limitazione di un diritto patrimoniale privato vengano risentiti da un solo, mentre i vantaggi vanno a profitto di tutti, deve spettare al cittadino danneggiato, ove per eccezione la legge specificatamente non lo vieti, un congruo risarcimento. Ciò è concordemente ammesso dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente, in applicazione anche per ragioni di analogia dell’art. 46 della legge del 1865 sulle espropriazioni per utilità pubblica.

 

 

Quali i diritti quesiti, e conseguentemente i danni risarcibili? Niun dubbio che sia un danno risarcibile il deprezzamento causato al materiale d’impianto adibito dal privato all’esercizio dell’industria. Niun dubbio, per contro, che non siano dovuti i danni causati dalla privazione della facoltà di continuare l’esercizio dell’industria. Il divieto non colpisce soltanto colui che già esercita l’industria, ma tutti i cittadini, alcuni dei quali potevano avere in animo di esercire anch’essi quella stessa industria. Quindi il concedere all’industriale un indennizzo per tali danni equivarrebbe ad attribuirgli un trattamento di favore in confronto degli altri cittadini che nulla ottengono ed a sancire così una sperequazione.

 

 

E fin qui si può dire che giurisprudenza e dottrina prevalente concordano. Il dissenso appare molto vivo quando si viene a discutere della risarcibilità dei danni derivati dalla perdita di valore dell’avviamento. Dicono coloro i quali negano la risarcibilità, che il valore dell’avviamento sussiste in quanto l’industria sia produttiva di utili – che tolta la facoltà di esercire l’industria viene tolta la possibilità di produrre gli utili – che per conseguenza l’accordare all’industriale un risarcimento per la perdita di valore dell’avviamento, sarebbe la stessa cosa che accordare quel compenso per la privazione della facoltà di esercire l’industria, che viceversa si è già detto non spettare ad alcun cittadino e così nemmeno all’industriale che già esercitava l’industria. Ma tale ragionamento non può essere accolto per un duplice ordine di considerazioni.

 

 

a)    In regime di libertà economica ogni cittadino ha il diritto di esercitare quell’industria che più gli talenta. Non importa che altri già la eserciti ed abbia potuto acquistare alla propria azienda un avviamento considerevole. Ognuno può sorgere a fargli concorrenza, poiché avviamento non significa monopolio. Di guisa che, se la facoltà di esercitare l’industria costituisce il presupposto logico dell’avviamento, poiché questa facoltà spetta a tutti i cittadini, non si può dire che essa sia fattore costitutivo del valore dell’avviamento. In altri termini, la facoltà di esercitare l’industria è condizione necessaria al sorgere dell’avviamento; ma poiché questa facoltà spetta a tutti ed è concessa a tutti quelli i quali ottemperino al disposto delle leggi, può ritenersi abbia un valore risarcibile nullo; non concorre cioè a determinare quel valore d’avviamento che è dovuto a ben altre cause, alla abilità, alla intraprendenza di chi ha saputo sfruttare quella condizione aperta a tutti, ma non da tutti ugualmente saputa utilizzare.

 

 

La facoltà di esercitare l’industria è dunque il presupposto, la condizione del valore di avviamento; ma essendo i due concetti nettamente divisi, ben può negarsi il diritto al risarcimento per il divieto della sopradetta facoltà senza che menomamente si neghi il diritto al risarcimento per il perduto valor d’avviamento.

 

 

Ne viene di conseguenza che il possessore di una azienda avviata, che si vegga da una legge precluso l’esercizio di un’industria, subisce, come cittadino, il danno comune a tutti gli altri cittadini di non poter più esplicare la propria attività in quel dato ramo d’industria; ma subisce per di più la perdita del valore di avviamento. Ciò appare ad evidenza non appena si ponga il caso di un industriale che non abbia già creato egli la propria industria, ma abbia acquistato l’azienda pochi giorni prima dell’emanazione della legge che vieta l’esercizio dell’industria stessa ed abbia pagato per l’avviamento una somma. Questa somma rappresenta indubbiamente un danno particolare sopportato da quell’industriale e che è ingiusto sia fatto sopportare senza adeguato compenso.

 

 

b)    In tema di espropriazione per pubblica utilità, l’art. 46 della legge, a cui si riferiscono trattatisti e magistrati per decidere della risarcibilità dei diritti quesiti, stabilisce che sia dovuta l’indennità ai proprietari dei fondi, i quali dall’esecuzione dell’opera di pubblica utilità vengano a soffrire un danno permanente derivante dalla perdita o dalla diminuzione di un diritto. Giurisprudenza e dottrina sono concordi nell’ammettere che per stabilire l’ammontare del danno risarcibile bisogna riportarsi alla condizione di cose esistente al momento in cui la espropriazione è ordinata, quando cioè non ancora si sono sentiti gli effetti della espropriazione. E a quello stesso modo che, per l’art. 42 della stessa legge, l’aumento del valore che dall’esecuzione dell’opera di pubblica utilità sarebbe derivato alla parte del fondo compreso nella espropriazione non può essere tenuta a calcolo per aumentare l’indennità dovuta al proprietario, così deve ritenersi, in base ad un’evidente ragione di reciprocanza, che non si può neppure tener conto della diminuzione di valore che in dipendenza dell’esecuzione dell’opera (cimitero, stabilimenti militari ecc.) ne verrebbe al fondo espropriato.

 

 

Applicando questi principii alla fattispecie, ne viene che per giudicare del valore risarcibile dell’azienda non bisogna riportarsi a dopo l’applicazione della legge emanata, ma al momento della emanazione della legge, e così prima che essa sia applicata. E ne viene che non si possa conseguentemente scontare in antecedenza a danno dell’azienda la diminuzione di valore che è effetto della dichiarazione di espropriazione, ovverossia della emanazione della legge proibitiva.

 

 

Il diritto del Giacomini ad essere indennizzato dei danni subiti appare tanto più evidente quando ancora si consideri per una parte – che egli aveva intrapreso la sua industria fin dal 1882, senza che mai il Consiglio pensasse di richiamare in vigore in di lui confronto od in confronto di altri cittadini esercenti industrie contemplatevi, il decreto del 1871; e che il decreto stesso doveva essere talmente caduto in disuso, se pur era mai stato applicato, che il Consiglio si credette in dovere di tributare uno speciale elogio al Giacomini perché si fosse dimostrato così rispettoso osservante delle leggi da richiedere un’autorizzazione che certamente non si riteneva più necessaria – e per altra parte che la chiusura della fabbrica fu imposta al Giacomini da un articolo di legge inspirato non a ragioni di sicurezza pubblica, di igiene o di altra pubblica necessità, ma esclusivamente a considerazioni d’ordine finanziario, all’unico scopo di locupletamento del pubblico erario. Se perciò non può disconoscersi che in base allo stretto diritto incombe al Governo di S. Marino l’obbligo d’indennizzare il Giacomini, tale obbligo gli spetterebbe a più forte ragione in base ai più ovvii principii dell’equità. Nemo locupletari debet cum alterius jacturasummum jus summa injuria – sono massime che non vanno applicate soltanto nei rapporti fra privati cittadini, ma ancor più fra governanti e governati.

 

 

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