Opera Omnia Luigi Einaudi

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Cavour 1861-1961

Cavour 1861-1961. Ciclo di conferenze di Einaudi, Grosso, Peyron, Jemolo, Pella, Torino, Bottega d’Erasmo, 1962, pp. 7-12

Il mio intento era soltanto quello di presentare questa imponente collezione di carteggi cavouriani; ma, dalla contemplazione e dalla lettura di questi volumi, salta fuori una caratteristica cavouriana, sulla quale non so se, nelle commemorazioni che sono state tenute e si terranno in questa occasione, sia stata richiamata abbastanza l’attenzione: e cioè quella della preparazione, della preparazione veramente grande, che ha preceduto l’entrata di Cavour nell’arengo politico europeo e mondiale. Non si ebbe allora la manifestazione improvvisa di un genio; ma il genio si era preparato da anni, da lunghi anni, all’ufficio che doveva esercitare. E quando noi lo vediamo, presidente del Consiglio, ministro delle Finanze, ministro dell’Agricoltura, interessarsi poi anche di tutti i dicasteri ai quali non presiedeva e guidare tutti i suoi collaboratori ad una meta, noi dobbiamo dire che questo risultato non era dovuto a un improvviso lampo di genio, ma era anche il frutto, oltre che del genio suo, di una lunga, lunga preparazione: nella quale aveva avuto dei collaboratori, dei predecessori. Egli era membro dell’aristocrazia piemontese; ma nell’aristocrazia piemontese c’erano i predecessori suoi – Prospero Balbo, Galeani Napione –, i contemporanei suoi – Petitti di Roreto – che si occupavano di argomenti economici e finanziari e sociali… Era membro, insomma, di una famiglia grande, nella quale questi argomenti non erano ignoti. E lui stesso, da giovane, non ha con diligenza riassunto, non i libri qualunque, di qualche giorno, che son pubblicati e poi passano, ma quelli che contano, che restano? Nei suoi quaderni noi vediamo infatti il riassunto dei grandi classici dell’economia politica: noi vediamo il riassunto di Bastiat, noi vediamo il riassunto di Adamo Smith e di tutti quelli che hanno lasciato un’orma nella scienza.

Egli si era preparato profondamente a quelli che dovevano poi diventare i suoi compiti. E non dimentichiamo che all’età di 25 anni, nel 1835, egli pubblicava in Piemonte un riassunto della grande inchiesta che era stata condotta l’anno precedente in Inghilterra sui poveri. Questo opuscolo, non ripubblicato mai se non in piccolissimi caratteri, quasi invisibili, nel carteggio di Chiala – ma mi è stato detto che la Società Cartiere Burgo intende riprodurlo quest’anno, e farà cosa ottima –testimonia che il giovane Cavour, informato circa gli studiosi più eminenti in materia, diventato intimo amico e in corrispondenza con William Nassau Senior, che era uno dei maggiori economisti dell’epoca, vide subito che quello era il rapporto più importante che fosse stato pubblicato in Inghilterra nel secolo scorso. Averlo visto a 25 anni, nell’anno stesso della pubblicazione, è testimonianza di studio e di qualità geniali. Dopo, quel rapporto è stato pubblicato ripetutamente: in tutti i libri i quali si occupano di storia sociale dell’Inghilterra e dell’Europa nel secolo scorso, quel rapporto è menzionato. Ma che Camillo Cavour avesse visto – fin dall’anno stesso in cui fu pubblicato – che quello era il documento fondamentale, principale della storia sociale dell’Europa nel secolo scorso, è testimonianza di una preparazione all’ufficio che assunse più tardi.

Qualche volta gli storici e i biografi di Cavour (anche Francesco Ruffini) si sentono quasi in obbligo di scusarlo per i suoi “trascorsi giovanili”, ossia certe speculazioni in materia finanziaria che egli avrebbe compiuto a Parigi e che si chiusero con perdite, così da costringerlo a ricorrere all’aiuto del padre. Confesso di non partecipare affatto a questi scrupoli e lamentazioni: tale esperienza è stata una delle tante utili, anzi necessarie, che gli giovarono per gli uffici politici che ebbe a ricoprire in seguito. Io distinguo i politici in due categorie. Gli uni sono sepolcri imbiancati: conoscono questa materia, vi hanno partecipato, e invece di dirlo apertamente ne hanno vergogna e rifiutano di dirlo apertamente. Gli altri, e sono la maggioranza, sono degli innocenti, ma in quanto tali non sono da lodare, bensì da biasimare, perché gli uomini politici hanno il dovere di conoscere anche questa materia, in cui devono legiferare. Io quindi lodo Cavour, perché fin dagli anni giovanili ha conosciuto questa materia, si è impadronito anche di questo argomento. Non a caso Cavour fu il primo fondatore dell’Istituto di emissione italiano: prima di ascendere al governo, infatti, Cavour fondò il Banco di Torino, che si fuse poi col Banco di Genova, dando vita alla Banca nazionale di Sardegna, che doveva quindi diventare la Banca nazionale del Regno d’Italia che, fusasi successivamente con le due banche toscane, diventava infine la Banca d’Italia. Perciò Cavour conosceva anche profondamente questa materia: quando al governo venivano trattati i problemi di emissione, essi non erano affatto ignoti a lui.

E l’agricoltura? Tutti conosciamo Leri. Cavour fu un agricoltore espertissimo. Quando era ministro dell’Agricoltura, ad uno degli agricoltori che si erano recati da lui in commissione per lamentarsi perché il prezzo di 5 lire per “emina” di riso non bastava, secondo loro, per coprire le spese, egli rispose in piemontese: «T’ses ‘n burich (sei un asino). Io, a Leri, con 5 lire per emina, ci guadagno». E non fu solo agricoltore, ma s’improvvisò anche, con vantaggio suo, commerciante in materia agricola. Avendo saputo le virtù del guano del Perù, noleggiò una nave e mandò a caricarlo, dopodiché se ne servì per i suoi poderi e ne cedette anche con vantaggio ad altri agricoltori: «Non c’è niente di male ad avvantaggiarsi facendo avvantaggiare gli altri».

Cavour fu inoltre direttore e amministratore della Rivista dei comizi agricoli del Piemonte, dimostrando cognizioni tecniche e capacità di divulgarle. Non occorre ricordare che Cavour è stato giornalista, fondatore e direttore del Risorgimento. In tale veste, egli non mancava di adempiere anche le funzioni più modeste: assisteva, per esempio alle lezioni di Francesco Ferrara, pigliava appunti e ne dava poi rendiconto nel suo giornale. La conclusione è questa: che noi, avendo veduto nel ’52 Cavour assurgere d’un tratto alla posizione più alta nel governo del suo paese, non dobbiamo dire che lì c’è stato un miracolo: miracolo sì, dovuto alla sua persona, ma miracolo meritato in seguito ad una lunga preparazione di studio, e di contatti umani con italiani e con stranieri, in Italia e in Svizzera – dove aveva molti parenti – in Francia e in Inghilterra. Meritata assunzione, dunque, dopo una preparazione di cui i risultati scritti si vedono nei quindici volumi dei carteggi, che noi, modestamente, abbiamo ritenuto di rendere utilizzabili con la presentazione di questo volume di indici.

Scienza economica. Reminiscenze

Scienza economica. Reminiscenze[1]

Cinquant’anni di vita intellettuale italiana (1896-1946). Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo compleanno, a cura di Carlo Antoni e Raffaele Mattioli Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1950, vol. II, pp. 293-316[2]

In estratto: Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1950

Per una federazione economica europea

Movimento Liberale Italiano, Roma, 1943

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1
Le false teorie dell’eccesso di produzione degli spazi vitali

Si suol dire che le due grandi guerre ultime hanno avuto una causa economica; e si suol precisare questa causa nella lotta delle grandi industrie per la conquista dei mercati forestieri sui quali smaltire l’eccesso della produzione oltre la capacità limitata dell’assorbimento dei mercati interni. I progressi della tecnica sono stati causati da siffatto colossale aumento nella produzione dei beni di massa, che né Inghilterra né Stati Uniti né Germania, per ricordare solo tre dei grandi paesi industriali moderni, possono sperare di vendere all’interno tutta la produzione; ed è giocoforza cercare sbocchi crescenti all’estero. D’altro canto per utilizzare gli impianti enormi esistenti, fan d’uopo materie prime, per lo più inesistenti in tutto od in parte all’ interno; sicché occorre assicurarsele all’estero. Di qui la rivalità tra i grandi stati industriali, ognuno dei quali si sforza di creare attorno a sé uno spazio vitale di paesi fornitori di materie prime e consumatori di prodotti finiti, spazio riservato allo stato industriale egemonico e sottratto possibilmente alla concorrenza attiva e passiva degli altri grandi aggregati politici.

Si sono così, a volta, a volta, a seconda del gruppo politico egemonico, disegnati aggregati statali o spazi vitali euro-africano (con alla testa la Germania), asiatico (diretto dal Giappone), americano (governato dagli Stati Uniti), britannico (sparpagliato nelle altre parti del mondo non pertinenti agli altri spazi vitali), russo (nel già sterminato territorio russo ed in quelli gravitanti attorno ad esso).

L’analisi è errata sia per quanto ha tratto alla causa delle guerre quanto al loro rimedio.

La teoria dell’eccesso di produzione il quale non trova sbocco all’interno dei grandi paesi industriali e cerca armata mano un mercato nello spazio vitale non è evidentemente spiegazione adeguata di un fenomeno come la guerra, il quale fu proprio di tempi storici nei quali non esistevano né macchine, né tecnica, né grande industria, né eccessi di produzione. L’eccesso di produzione è del resto un risultato di errori i quali non son nient’affatto necessari, da parte degli uomini dirigenti l’industria. Nessuna necessità costringe gli imprenditori a investire capitali in impianti produttivi al di là di quanto occorre per soddisfare la domanda di merci da parte del mercato interno e dei mercati esteri conosciuti e disponibili. Il ribasso di prezzi, conseguente agli sbagli commessi in più, li corregge automaticamente, eliminando a poco a poco gli impianti eccessivi col mutarne destinazione e col non sostituirli se logori. Se la teoria fosse temporaneamente vera, al limite manifesterebbe tuttavia la sua falsità. Esaurito il mercato interno e alla lunga quello dello spazio vitale, e più alla lunga quello del mercato mondiale, se un fato ineluttabile spingesse la grande industria ad eccedere la capacità di consumo, contro chi andrebbe in guerra il globo terracqueo per trovare uno sbocco al cosìdetto eccesso? La verità è che nessun fato spinge a nessun eccesso permanente; che la produzione tende ad equilibrarsi colla domanda; che, esaurita la capacità di assorbimento dei beni primari e poi di quelli secondari, la produzione può rivolgersi a soddisfare la domanda di beni di ordine superiore, ché nessun limite necessario si intravvede alla molteplicità dei beni domandati all’ interno ed all’estero dagli uomini e che anzi il limite si sposta continuamente all’insù a mano a mano che gli uomini diventano più abili, più istruiti, più operosi, meglio disposti dalla pace a allargare e variare le loro aspirazioni.

La concezione degli spazi vitali come rimedio all’eccesso di produzione; ha avuto dal canto suo una certa fortuna letteraria solo fuori del mondo degli studiosi di economia, sempre rimasti profondamente scettici al riguardo. Essa suppone invero una condizione la quale di fatto non esiste: la autosufficienza economica di ognuno degli spazi vitali. Se si potessero utilizzare i dati statistici opportuni, sarebbe agevole dimostrare che, comunque si vogliano combinare gli spazi vitali:

— nessuno degli spazi vitali possiede in misura bastevole le materie prime necessarie all’esercizio delle industrie che si dovrebbero impiantare per rendere ogni spazio indipendente dagli altri spazi vitali;

— il grado di interdipendenza di ognuno dei grandi aggregati economici tra di loro non si attenuerebbe ma invece si intensificherebbe in funzione dell’ampliarsi dello spazio medesimo. Se nel mondo esistono 50 stati politicamente indipendenti, sarà sempre possibile ad ognuno dei 50 di trovare in qualcuno degli altri le materie prime a lui necessarie, giovandosi della rivalità fra parecchi stati produttori della medesima materia; laddove se gli spazi vitali politicamente riuniti si riducono ad esempio ai cinque detti di sopra, è ben possibile anzi probabile che qualcuno di essi sia il detentore della totalità o della massima parte della produzione di taluna delle materie prime necessarie all’esercizio di qualche industria chiave; sicché, gli altri quattro aggregati dipenderebbero da quello per la propria esistenza economica e sovratutto politico-militare.

Il principio del grande spazio vitale non è dunque tale da dare stabilita all’ordinamento politico del mondo; ed è invece fecondo di sforzi da parte di ognuno dei gruppi per assoggettare a se stesso gli altri. Non la pace, ma la guerra è la conseguenza fatale necessaria di quel principio; né la spinta verso la guerra verrebbe meno se non quando un unico mostruoso stato egemonico assoggettasse a se stesso tutta la terra. Ma neppur questa sarebbe una situazione di equilibrio; non essendo pensabile che popoli profondamente diversi per costumi, lingue, istituzioni, razze possano vivere a lungo contenti in uno stato mondiale fondato sull’idea puramente materiale di assicurare forniture e smercio ad impianti industriali che la tecnica moderna ingigantisce ogni giorno più; e che non sarebbero neppure, come si dimostrò sopra, il frutto di una politica economica razionale, sì invece il risultato di errori commessi da grandi industriali deliberati a produrre, in condizioni di privilegio grazie a pressioni sull’autorità politica, merci in quantità non richiesta dai consumatori ed a cui si vorrebbe trovare uno sbocco artificioso con assoggettamento forzato di sempre nuovi consumatori in spazi vitali sempre più vasti, divenuti riserve di caccia a pro di monopolisti plutocrati appartenenti allo stato dominante. L’uomo non sopporterebbe una siffatta dominazione innaturale della macchina. L’uomo non deve organizzare la propria vita al servizio della macchina e subordinare tutti i fini della vita al trionfo della tecnica. All’incubo allucinante spaventoso si contrappone e su di esso deve prevalere l’ideale della subordinazione della tecnica, della macchina, della natura alla consecuzione dei fini spirituali, morali, religiosi, politici voluti dall’uomo.

 

2
Il falso principio della subordinazione della economia alla politica

Insieme a quella dello spazio vitale ebbe fortuna negli ultimi tempi l’idea della subordinazione della economia alla politica. Si afferrò cioè che laddove nel secolo XIX prevalse l’idea che i singoli consumatori dovessero decidere essi se e quali beni consumare ed i produttori se e quali beni produrre, e gli scambi dovessero aver luogo per decisione degli interessati, nel secolo XX dovesse prevalere l’idea opposta che la produzione dovesse essere indirizzata alla consecuzione dei fini voluti dallo stato, tutore dell’interesse pubblico, ed i consumatori conservassero quella limitata facoltà di scelta che fosse compatibile con l’interesse pubblico così definito dallo stato.

La libertà di scelta e di iniziativa propria del secolo XIX fu definita subordinazione della politica alla economia, affermandosi che quella libertà aveva assicurato il trionfo della grande industria, della banca, della borsa e che questi giganteschi interessi alla lor volta colla potenza del denaro avevano asservito la politica ai propri fini economici. Nel secolo XX, invece, si vuole che il politico, inteso alla grandezza dello stato subordini a sé gli interessi economici e li costringa a lavorare nell’interesse dello stato.

Anche questa volta l’ironia della storia palesa la sua logica virtù. Come l’idea dello spazio vitale, sorta per dare indipendenza, stabilità e pace a taluni configurati grandi aggregati statali è feconda invece di instabilità, di guerra e di sopraffazione di uno stato egemone sul resto del mondo, con conseguenti rivolte incessanti, così l’idea della subordinazione della economia alla politica partorisce invece l’asservimento della politica ai grandi interessi economici.

Nel tanto vilipeso secolo XIX, e specialmente nei tempi nei quali i governi meglio si astennero o si sforzarono di astenersi dal governare le decisioni dei singoli produttori e consumatori, che cosa accadeva? Che in materia economica le frontiere degli stati tendevano a poco a poco ad obliterarsi. Gli italiani e non il governo italiano, i tedeschi e non il governo tedesco, gli inglesi e non il governo inglese, ed in generale i cittadini di ogni paese del mondo e non il rispettivo governo determinavano che cosa e dove si doveva produrre ed a chi e a qual prezzo si doveva vendere. La proprietà e la utilizzazione dei mezzi di produzione spettavano ai singoli cittadini e si tendeva anzi a rendere la proprietà, il lavoro, l’industria ed il commercio indipendenti dalla cittadinanza. Il negoziante genovese di carbone acquistava carbone a Cardiff od in Vestfalia od altrove, dove egli trovava il suo tornaconto e non occorrevano a ciò permessi di governo e trattative diplomatiche. Salvo rarissime eccezioni, le transazioni commerciali, finanziarie e bancarie avevano luogo senza interferenze ed all’insaputa dei governi. La indipendenza della economia dalla politica significava al tempo stesso indipendenza della politica dalla economia. Naturalmente qui si parla di mete ultime alle quali si tendeva, attraverso svariati ostacoli. Chi può dubitare che la relativa tranquillità internazionale e la limitatezza degli scopi e della durata delle guerre condotte tra il 1815 ed il 1914 siano anche state la conseguenza della idea allora dominante della indipendenza della economia dalla politica? La grande guerra di secessione nord-americana ebbe un alto fine di emancipazione umana. Con quel fine coincisero le ragioni economiche di preferenza del lavoro libero sul lavoro schiavistico; coincisero perché ogni volta che l’umanità si sforza di raggiungere un ideale di vita più alto, si raggiungono altresì vantaggi economici. Ma per toccare la meta, l’ideale umano dovette e riuscì a sottomettere a sé gli interessi economici prevalenti ed organizzati, che erano quelli schiavistici. Nell’Europa, le guerre del secolo XIX furono guerre di nazionalità; guerre determinate non da interessi economici, bensì da fini di indipendenza e di libertà nazionali. Conseguendo i quali fini, si ottennero altresì vantaggi materiali. Ma poiché l’economia tendeva a svolgersi indipendentemente dalla politica, i bruti interessi economici non ebbero un’ influenza determinante nelle decisioni che i grandi politici dovettero prendere e che condussero alla formazione dell’unità italiana e di quella germanica, alla indipendenza della Grecia ed alla liberazione dell’Europa dal Turco.

La formula della dipendenza dell’economia dalla politica a quali risultati di fatto conduce? In luogo di migliaia, anzi di milioni di decisioni prese, indipendentemente le une dalle altre, da centinaia di migliaia anzi di milioni di produttori, negozianti, banchieri, armatori dei più diversi paesi per produrre e scambiare beni di ogni genere, all’infuori e senza l’intervento dei governi, degli stati ai quali appartengono produttori e scambisti, ogni affare economico diventa un affare di stato. Non più l’agricoltore italiano decide se allevare bachi da seta o produrre bozzoli; non più il filatore, il torcitore e il tessitore se lavorare bozzoli, e sino a qual punto di elaborazione; non più la casa da seta se e dove venderla, a Lione, in Svizzera o negli Stati Uniti; tutti atti compiuti in vista del migliore tornaconto, senza preoccupazioni di politica internazionale. Ma invece il governo italiano, a mezzo dei suoi ministeri ed enti pubblici, decide quale prezzo pagare per i bozzoli tra quali filatori distribuirli; come venderli, se tratti semplici ritorti o ridotti a tessuti; e dove venderli per ottenere questa o quella valuta detta pregiata. Entrano in campo esperti governativi, negoziatori detti abilissimi, i quali trattano con altri espertissimi negoziatori inviati da altri governi e tra di loro combinano convenzioni in cui il do ut des: è pesato sottilissimamente. Il mondo, che era già saturo di piati diplomatici politici ora vi deve aggiungere piati economici senza numero per ogni più svariata merce immaginabile; e laddove in regime di indipendenza della economia dalla politica, in pochi minuti si conchiudevano arbitraggi in seta fra Lione, Milano, New York e Yokohama per somme di milioni, oggi, attorno ai tavoli verdi diplomatici coorti di esperti discutono di interessi nazionali, di fini pubblici e di altrettali entità mal definite per giungere dopo gran tempo a definire un qualunque prezzo di un qualunque organzino.

La politica si libera almeno dalla potenza degli interessi economici? Ahimè! no. Anzi il contrario. Laddove prima il singolo agricoltore portava i suoi bozzoli al mercato e li vendeva al miglior offerente, senza che gli cadesse in mente di invocare la longa manus dello stato a suo favore, oggi che la seta è divenuta un affare di stato, egli si organizza coi suoi colleghi ed attraverso enti, sindacati, rappresentanti politici cerca di strappare allo stato il più bel prezzo possibile; e si querela come per ingiustizia insopportabile se il prezzo largitogli non è il doppio o il triplo di quello corrente i mercati internazionali ancora liberi. E così fanno filatori, torcitori, tessitori e negozianti. Chi prevale in questo arrembaggio al tesoro dello stato, in questa lotta per la definizione diplomatica dei prezzi degli acquisti e delle vendite? Non certo i piccoli ed i mediocri produttori; ma i più grossi, i più astuti, i meglio organizzati. La vittoria economica non spetta ai migliori produttori, ma ai più abili nel procacciarsi influenze sul governo e sugli enti ed organi, nazionali forestieri, incaricati di decidere intorno a quei novissimi affari di stato che si chiamano prezzi dell’organzino corso del dollaro-seta. Lo stato che voleva dominare l’economia è, miserabile risultato!, fatto servo dei peggiori tra gli uomini che governano i singoli rami economici, peggiori perché non scelti in ragione della loro abilità tecnica o commerciale, ma in quella della loro capacità di intrigo nell’influire sulle decisioni dei governanti e dei loro cosidetti esperti e dei disgraziati diplomatici, a giusta ragione noiati di dover dedicare tanta parte del loro tempo a faccende commerciali. La dipendenza dell’economia dalla politica significa invece di fatto asservimento dello stato ai gruppi industriali e finanziari plutocratici, monopolisti, decisi ad ottenere protezioni e favori a vantaggio proprio ed a danno dell’interesse generale.

La teoria della dipendenza della economia dalla politica è la logica derivazione di quei tipi di governo i quali sono fondati non sulla libera designazione dei popoli ma sullo spirito di dominazione e di potenza. I governi i quali vogliono essere la emanazione della volontà popolare; i quali non aspirano a fare del proprio paese uno stato egemone dominatore su altri popoli asserviti, ma desiderano l’affermarsi di una vita internazionale pacifica e concorde, prosperano in un mondo nel quale l’economia sia indipendente dalla politica. Rapporti commerciali liberi fra paese e paese vogliono dire anche rapporti pacifici fra stato e stato. Spazio vitale, pretesa dipendenza dell’economa dalla politica significano al contrario preponderanza all’interno dei gruppi economici sfruttatori delle masse operaie e consumatrici, desiderosi di costituirsi monopoli e privilegi entro il mercato chiuso nazionale e bisognosi di fomentare gelosie fra stato e stato per impedire la concorrenza altrui. Libertà di scambi economici internazionali vuol dire pace; spazio vitale e dipendenza della economia dalla politica vogliono dire contrasti internazionali e pretesti di guerra.

 

3
La riaffermazione spirituale delle piccole patrie

L’errore del principio dello spazio vitale ci deve far concludere alla convenienza dei numerosi piccoli mercati chiusi determinati dalla coesistenza dei tanti stati indipendenti che nel 1914 e peggio nel 1939 vantavano diritto alla assoluta sovranità politica ed economica?

No. Dobbiamo invece riconoscere l’esistenza di un conflitto reciso tra lo spirito e la materia, fra la politica e l’economia. Nel mondo dello spirito, nel governo politico dei paesi vediamo rifiorire sentimenti che l’idea dello stato grande e potente sembrava aver se non spento almeno attenuato. Dovunque i popoli sono stati liberi di manifestare la loro volontà fuori della compressione statale, assistiamo all’ansia di ricostituire i piccoli paesi, di riaffermare la indipendenza di essi, di far rivivere, la regione; la piccola patria, la religione della lingua e dei costumi nativi. Quante di queste risurrezioni abbiamo veduto! La separazione pacifica della Norvegia dalla Svezia, la ricuperata indipendenza della Finlandia, la tenacia con la quale i cechi vollero ricostituire il millenario regno boemo, la lotta secolare dell’Irlanda per ricuperare la propria compiuta autonomia, le lotte, sotto tanti rispetti deprecabili ed inestricabili, fra ungheresi, romeni, greci, montenegrini, albanesi, croati, serbi, bulgari per ricostituire le tante perdute unità nazionali; la resistenza dei ruteni e degli ucraini all’assorbimento da parte dei polacchi e dei russi; l’attaccamento dei lituani, dei lettoni e degli estoni alla propria autonomia, la affermazione della volontà dell’Islanda di rompere gli ultimi tenuissimi vincoli personali con la Danimarca, la decisa volontà di indipendenza dei belgi e degli olandesi rendono testimonianza piena della vivacità dei sentimenti con cui i popoli guardano alla propria autonomia nazionale. Anche nei grandi stati unificati, dai più antichi come la Francia e la Spagna ai più recenti come la Germania e l’Italia, l’aspirazione ad una più libera vita regionale, sciolta da troppo opprimenti vincoli accentratori ha vivaci manifestazioni, non di separatismo antiunitario, ma della aspirazione a sentirsi diversi nella patria una. La stabilità politica e sociale mirabile propria della Svizzera non prova forse come ivi si sia raggiunto il perfetto equilibrio fra la libera vita cantonale e la unità federale? Tedeschi, francesi ed italiani rimangono fedelissimi alla patria comune appunto perché questa garantisce il pieno rispetto e il libero promovimento delle rispettive diverse autonome culture.

 

4
L’anacronismo assurdo della sovranità economica degli stati moderni

Accanto alla tenacia con cui i popoli, piccoli e grandi, anelano a conservare ed a perfezionare la propria autonomia spirituale culturale e politica, ecco le opposte tendenze dell’economia verso l’unità non tanto dei grandi spazi quanto del mondo intiero. Non solo i piccoli stati, ma persino i grandi sono economicamente divenuti anacronistici ed assurdi. Gli stati moderni; quelli del 1914 e del 1939, sono oggi altrettanto assurdi come verso la fine del ’300 lo erano le tante repubbliche cittadine dell’Italia settentrionale e centrale, come verso la fine del ’400 lo erano i piccoli principati italiani, come nel 1859 lo erano gli staterelli nei quali era frantumata l’Italia. Le strade, la polvere da sparo, la scoperta dell’America, le cresciute comunicazioni letterarie ed epistolari avevano reso in passato palese la incongruenza dei confini chiusi fra città e città, fra principato e principato, fra stato e stato. Gli uomini anelavano a muoversi liberamente, a contrattare e commerciare senza impacci, e non poterono più restar serrati entro i vecchi troppo minuti confini. Non fu trovata la formula mediatrice fra le piccole patrie e il grande spazio e le piccole patrie furono sommerse. Ciasca ha potuto in un grosso volume intorno al programma dell’unità italiana raccogliere migliaia di testimonianze del fervore col quale tra il 1800 ed il 1859 erano esposti e discussi e propugnati i bisogni che spingevano alla unificazione italiana. Chi avesse voglia e pazienza potrebbe oggi raccogliere analoghe testimonianze intorno alle cause le quali oggi spingono verso l’unificazione economica del mondo. Ricordiamone, in rapido elenco, le principali:

– la scoperta delle ferrovie e della navigazione senza vele, che ha annullate le distanze e messo tra di loro in rapporto paesi e popoli lontanissimi;

– la diffusione dei trasporti automobilistici, la quale ha annullato il legame esistente fra costosi e limitati impianti fissi ed i rapidi trasporti ed ha resi possibili questi ovunque esistesse una strada od una pista;

– la scoperta della telegrafia e del telefono, resa oggi in parte indipendente dalla materialità dei fili e dei cavi;

– la scoperta della radio, la quale fa sì che uomini e popoli si mettano istantaneamente a contatto al di sopra di ogni vincolo di confine e di divieti politici.

Se i governi degli stati dotati di sovranità assoluta non si fossero industriati ad annullare con dazi doganali, con divieti di importazione e di esportazione, con contingenti, con monopoli dei cambi, con istituti bilaterali statali di compensazione i vantaggi di basso costo nei trasporti terrestri e marittimi; se i governi, dopo aver costruito ponti e ferrovie, dopo aver forato le Alpi a costo di miliardi non si sforzassero quotidianamente con vincoli di ogni specie ad inutilizzare porti e ferrovie e gallerie montane; se i governi, dopo aver consentito e promosso gli scambi postali, telefonici e telegrafici non facessero del loro meglio con il geloso controllo degli stessi e con difficoltà fastidiose di passaporti e di visti ad impedire agli uomini di giovarsi di quei mezzi di comunicazione che l’ingegno umano seppe inventare; se i governi con limitazioni e proibizioni di immigrazione e di emigrazione non vietassero agli uomini di muoversi così come la convenienza li consiglierebbe; il mondo sarebbe divenuto oggi un unico mercato e uomini e merci passerebbero da un punto all’altro del globo, facendo godere a tutti, nei luoghi meglio indicati dalla convenienza economica, le migliori opportunità di lavoro e di produzione esistenti sulla terra.

 

5
La tragica scelta: guerra distruggitrice ovvero unificazione economica del mondo

Nel conflitto fra la tecnica, la quale unifica economicamente il mondo e gli artifici con cui i governi tentano di spezzare questa unità, a chi spetterà la vittoria? Alla verità ed alla realtà, che è data dalla tecnica, che annulla le montagne, varca i mari, accorcia le distanze, o all’artificio governativo, il quale si oppone al progresso economico?

La risposta non par dubbia. La vittoria spetterà alla tecnica e non all’artificio. Se gli uomini di stato non troveranno la formula mediatrice fra le piccole patrie spirituali e l’unità del mondo economico, le prime e non la seconda, saranno distrutte.

Nel 1914 e nel 1939 Guglielmo II e Hitler sono stati lo strumento di una necessità storica. Il mondo economico va verso l’unificazione; e se i vincoli artificiosi ritardatari frapposti dai governi dei piccoli stati moderni — tutti gli stati, anche quelli estesissimi, sono piccoli dinnanzi alle forze tecniche ed economiche che in un attimo fanno comunicare gli uomini da Roma a Tokio, da Washington a Londra, da Sidney a San Francisco, da Città del Capo a Stoccolma — non saranno tolti di mezzo con volontari accordi, essi saranno aboliti attraverso fiumi di sangue a profitto di quel popolo il quale inventerà e saprà usare i mezzi per assoggettare a sé gli altri. Le guerre del 1914-18 e del 1939-1945 sono state la tragica manifestazione della necessità storica della unificazione economica del mondo.

Il tentativo non riuscito nel 1914, non pare abbia probabilità di riuscire questa volta. Le esigenze spirituali, le quali vogliono che siano serbate in vita le piccole patrie ed esaltate le più varie specie di civiltà, di religione, di lingua, di letteratura, di costumi hanno tenacemente resistito alle forze materiali le quali vorrebbero riunire sotto un unico comando l’Europa e poi, per logica necessità, il mondo intiero. Le piccole patrie usciranno intatte dalla grandiosa lotta odierna; ma attraverso a quale distruzione di valori materiali, a quale spargimento di sangue!

Né illudiamoci che il tentativo non debba essere rinnovato. Finché il dissidio non sia composto, esso incomberà tremendo sul mondo e renderà vana la aspirazione degli uomini ad una più alta vita spirituale e materiale. Guglielmo II e Hitler hanno posto un problema il quale dovrà essere risoluto. È fatale che qualcuno debba fra venti o trent’anni, non appena gli orrori della guerra presente siano divenuti un ricordo, non vissuto dalle nuove generazioni le quali allora avranno dai venti ai quarant’anni, ritentare la prova. Non riuscirà il tentativo, pur attraverso la morte di decine di milioni di uomini e la distruzione di gloriose città storiche anzi di intieri continenti? Ed esso sarà ripetuto, con lo sterminio della civiltà moderna, quante volte faccia d’uopo sinché si giunga alla unificazione del mondo sotto il tallone di un popolo egemone. Chi discorre oggi del pericolo bolscevico, come ieri del pericolo giallo, chiude gli occhi dinnanzi a questo che non è un pericolo ipotetico, ma una conseguenza necessaria di cause manifeste.

 

6
La via di uscita: non società di nazioni, ma federazione economica

Né speriamo di salvare il mondo soltanto con parole, con accordi, con nuove società delle nazioni. Chi ha combattuto e negato la vitalità della società delle nazioni fin dal 1918, argomentava dall’esperienza storica, e cioè dall’insuccesso di tutte le società di nazioni tentate in passato, dalla Lega anfizionica ellenica al Sacro Romano Impero, dalla federazione americana del 1796 alla Santa Alleanza. Le società di nazioni caddero sempre miseramente:

— perché non avevano entrate proprie, ma dipendevano dai contributi finanziari degli stati associati;

¬– perché non avevano un esercito proprio, ma dipendevano dai contingenti armati volontariamente inviati dagli stessi alleati contro lo stato aggressore;

— perché non avevano un proprio corpo deliberante e una propria autorità esecutiva; ma dipendevano dal voto unanime degli stati associati.

Un ente politico, il quale nasce impotente, non può vivere ed è causa di dissidi e fomite di guerre. La volontà comune è facilmente schernita dal forte facinoroso il quale sa che gli altri non sapranno mai accordarsi per metterlo a segno. L’impotenza della volontà comune incoraggia all’offesa ed alla guerra. Questa è meglio impedita, in assenza di larve di unioni impotenti, da accordi imparziali dei pochi che, sentendosi minacciati, si stringano insieme per opporre forza a forza, minaccia a minaccia. Assai meglio il vecchio equilibrio europeo fra Triplice alleanza e Triplice intesa che non l’unione resa impotente dal liberum veto di ciascuno.

Se vogliamo toglierci di dosso l’incubo dello sterminio totale dell’umanità e della rovina della civiltà, uopo è dunque tentare altra via. Bisogna, per salvare i valori spirituali delle piccole patrie nazionali, risolutamente riconoscere che i piccoli mercati economici chiusi entro i confini politici dei singoli stati sono un anacronismo e debbono essere aboliti. Per salvare lo spirito, noi dobbiamo rinunciare alla gelosia della materia. Dico alla gelosia e non alla materia medesima; la quale anzi dalla rinuncia riuscirà accresciuta e perfezionata. Qual male soffriremo se si riuscirà a creare un’organizzazione la quale assicuri gli uomini:

— che le gallerie montane e le ferrovie ed i porti e le navi ed i canali marittimi servano sul serio a trasportare illimitata quantità di merci e di uomini al minimo costo possibile?

— che le poste, i telegrafi ed i telefoni giovino a mettere rapidamente ed istantaneamente gli uomini in rapporto tra di loro senza frastornamento di polizie e di censure?

— che la radio diventi strumento di libera diffusione di verità, e di principi concorrenti a vantaggio di tutti e non di imbottimento di cervelli ad esaltazione propria e vilipendio altrui?

— che si riesca ad attuare quell’unificazione dei sistemi di pesi e misure, di monete, di proprietà industriale e letteraria, la quale dovrà facilitare lo scambio dei beni e delle idee ed invenzioni nuove?

Non male, ma gran bene, deriverà alla ricchezza ed alla potenza economica dei singoli stati dalla rinuncia agli egoismi gretti ed alle gelosie particolaristiche materiali.

 

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Il contenuto, gli strumenti ed i mezzi della federazione

Lo schema della federazione economica si sviluppa attorno ai seguenti punti:

1) Le materie delegate dagli stati sovrani alla federazione:

a) in primo luogo il regolamento degli scambi commerciali tra i paesi aderenti alla federazione. Entro i confini della federazione gli scambi di qualunque merce o derrata sono liberi, franchi da dazi e diritti di qualunque specie. Nessuna discriminazione di qualsiasi genere e sotto qualunque pretesto di imposte interne può essere concessa a favore delle merci prodotte o perfezionate nell’interno di un singolo stato. Un periodo transitorio di un numero definito di anni, al massimo dieci, potrà essere stabilito allo scopo di facilitare il passaggio dal regime attuale di protezione e di restrizione al regime futuro di libertà di scambi.

b) il regolamento dei trasporti ferroviari, marittimi ed aerei. Tutti i trasporti i quali superino i confini dei singoli stati nazionali sono sottoposti alla giurisdizione federale. Il principio informatore sarà quello stesso già detto per gli scambi di merci: nessuna discriminazione di tariffe e di altre condizioni di trasporto tra merci e viaggiatori appartenenti agli stati aderenti.

c) il regolamento delle migrazioni interne entro i confini della federazione. Se in via temporanea dovessero essere conservate restrizioni al libero movimento ed alla fissazione della residenza delle persone, l’interpretazione delle norme relative dovrà essere di spettanza della autorità federale. Trascorso il periodo transitorio, ad ogni cittadino degli stati aderenti sarà garantita libertà di movimento e facoltà di residenza in ogni altro stato aderente.

d) il regolamento della moneta. Se potranno essere conservati, trattandosi di esteriorità innocua, i nomi delle monete nazionali, dovranno essere fissati i rapporti legali fra di esse. Possibilmente, e ciò potrà aver luogo con facilità, dato lo stato fluido odierno dei cambi esteri, si stabiliranno, allo scopo di facilitare i calcoli, rapporti non frazionari fra le unità nazionali; ad esempio 8 lire non 7,95 od 8,15 uguali ad un marco. In sostanza, ciò equivale alla instaurazione di una sola unità monetaria entro i confini della federazione. Ma, non potendo ciò essere una pura dichiarazione formale, senza contenuto, l’unità monetaria implica necessariamente rinuncia dei singoli stati alla emissione di carta moneta e di qualunque segno il quale possa funzionare come moneta. I progetti di monete internazionali i quali consentano la contemporanea circolazione di indipendenti monete nazionali, non si capisce a che possano giovare, non potendo garantire una qualunque stabilità dei cambi tra paese e paese. La rinuncia al diritto di emissione di carta moneta, fiduciaria od a corso forzoso, non implica alcun diritto di controllo della federazione sulle finanze dei singoli stati. Semplicemente implica la rinuncia degli stati singoli a valersi del torchio dei biglietti per far fronte alle spese pubbliche. Ciò potrebbe essere una rinuncia seria se gli stati conservassero il diritto di guerra, che è l’unica occasione in cui gli stati possono essere costretti a ricorrere allo spediente infausto della stampa di biglietti per ragioni extra-economiche. Ma poiché il diritto di guerra sarà tolto ai singoli stati e trasferito alla federazione, la rinuncia non importa alcun sacrificio.

e) il regolamento delle poste, telegrafi e telefoni. Data l’unificazione monetaria, di cui sopra, l’amministrazione P.T.T. diventa senza alcun inconveniente propria della federazione. Del resto già essa è materia di unioni internazionali; e una amministrazione federale risponde alla esigenza di assicurare illimitata facilità di comunicazioni fra tutti i paesi aderenti.

f) il regolamento della proprietà letteraria ed industriale (brevetti), dei pesi e misure, delle norme relative alla protezione contro le malattie contagiose, contro le malattie delle piante e degli animali. La inclusione di queste materie è imposta dalla necessità, già riconosciuta da convenzioni internazionali, di sottoporre a regolamenti uniformi materie le quali sono strettamente connesse coi principi della libertà di movimento delle cose e degli uomini. Importa vietare che legislazioni statali restrittive, con pretesti igienici o di privilegi ad inventori e simili, riducano l’efficacia del principio dell’unicità del campo aperto alla libera attività degli uomini. Particolarmente nel campo dei brevetti, la unità legislativa renderà più facile la lotta contro i privilegi ed i monopoli che avranno trovato terreno fecondo nei regimi attuali di proprietà industriale, di fatto divenuti oggi strumento di repressione delle invenzioni industriali e del loro uso.

Il compilatore del presente memoriale ha cercato di elencare le materie essenziali da trasferire all’autorità federale. Ma non si esclude che altre materie, pur esse economiche, possano essere similmente trasferite. Si insiste però sul concetto che l’elenco debba essere tassativo. Tutte le materie non specificatamente trasferite debbono rimanere di competenza degli stati. Nello stato presente dell’opinione pubblica, una diversa concezione sarebbe, senza forse, ostacolo insormontabile alla nascita della federazione. Col tempo, nata una coscienza politica federale, se altre materie si dimostreranno proprie dell’ente federale, sarà possibile provvedere ad allargare, con le rigide norme poste dallo statuto federale e quindi col consenso dei singoli stati, a mano a mano il campo di competenza comune.

Per la immaturità dei problemi relativi, non pare che si possano per ora includere in questo campo, il regolamento delle questioni del lavoro, quello delle assicurazioni sociali e simili. Esistono ancora troppe differenze tra paese e paese perché si possa delegare ad una autorità federale la facoltà di legiferare in materia. Si può sin d’ora studiare tuttavia se l’autorità federale non possa legiferare, non sugli ordinamenti accolti nei singoli stati, ma sui metodi di garantire ai cittadini di ogni stato la trasferibilità dei diritti già da lui conseguiti nel paese d’origine al paese di nuova residenza. Trattasi qui di un semplice regolamento di conti, di una stanza di compensazione simile a quella che già esiste per le poste. Parimenti non pare possibile dare all’autorità federale il diritto di legiferare sulle imposte non esplicitamente trasferite alla federazione. Tutte le altre rimanendo agli stati, questi debbono godere di sovranità assoluta nel regolarle. Tuttavia può essere fin dall’inizio sancito il diritto dell’autorità federale di stabilire regole relative alla comunicazione da parte di ogni singolo stato ad ogni altro dei dati fiscali conosciuti dal primo ed utili al secondo per l’applicazione delle imposte nazionali.

2) Gli strumenti dell’amministrazione federale:

a) l’esercito comune. La federazione sarebbe un nome vano, si ridurrebbe ad una inutile e dannosa società delle nazioni se non disponesse di una forza propria, atta a difendere il territorio federale contro le aggressioni esterne e ad impedire le guerre fra gli stati aderenti. Questo è certamente il punto più delicato della mutazione che si propone nell’ordinamento degli stati. Ma tutto il resto sarebbe vano se non si riconoscesse la necessità di una netta divisione di compito fra Stato e federazione. Per dirla con parole il cui significato è noto agli italiani, allo stato spetterebbero i carabinieri ed i gendarmi per il mantenimento dell’ordine pubblico interno, alla federazione l’esercito, la marina da guerra e l’aviazione militare. Senza questa netta distinzione, qualunque cosa si facesse, sarebbe chiacchiera vana. Le forze armate federali non dovrebbero mai essere composte di contingenti statali, ma sarebbero reclutate individualmente, così come oggi accade per le forze armate nazionali. Non esisterebbero soldati italiani tedeschi francesi e relativi comandi; ma soltanto soldati e quadri federali. Il tempo e la pratica risolverebbero questioni che paiono oggi gravissime, come quella della lingua di comando. La soluzione dei tanti problemi connessi con la formazione dell’esercito federale sarebbe facilitata del resto dalla circostanza che un unico esercito non sarebbe la somma degli eserciti statali odierni, ma si comporrebbe normalmente di un numero di soldati grandemente più piccolo. Laddove, in pace, 10 stati indipendenti, si tengono sotto le armi 10 volte 1 milione di uomini, nella federazione basterebbe tenere in armi un esercito di 2 milioni di uomini, ossia un quinto di quel che in totale sarebbe ritenuto necessario per il complesso degli stati aderenti.

b) la magistratura federale. La competenza di questa sarebbe ristretta ovviamente alle sole materie attribuite alla federazione. Una corte suprema scelta con garanzie particolari e nella cui scelta dovrebbero aver voce gli stati aderenti, deciderebbe della nullità delle leggi emanate e degli atti compiuti dall’autorità federale, i quali eccedessero le facoltà a questa esplicitamente attribuite.

c) la polizia federale. Sotto il qual titolo si comprendono tutti gli organi esecutivi rivolti all’applicazione dei regolamenti di materie federali; tutte le restanti branche di amministrazione rimanendo proprie degli stati.

d) la rappresentanza diplomatica. Per logica conseguenza del trasferimento del diritto di pace e di guerra e del regolamento dei rapporti commerciali, ferroviari, marittimi, postali ecc. alla federazione, questa dovrebbe mantenere una sua rappresentanza diplomatica presso gli stati non aderenti. La rappresentanza dovrebbe riguardare le sole materie trasferite e non implicherebbe la abolizione delle rappresentanze diplomatiche e consolari dei singoli stati per tutti gli altri fini. Il tempo risolverebbe a poco a poco i problemi nascenti dalla doppia natura dei rapporti internazionali così posti in essere. La saggezza nei casi dubbi consiste nella rinuncia a risolvere sin dal principio tutti i problemi che la logica pone. Lasciamo che a ciò provveda l’esperienza.

e) gli organi legislativi e governativi federali. Nessuno può prevedere che cosa diverranno questi organi fra mezzo secolo od un secolo. Essi avranno quel prestigio che con l’opera loro avranno saputo conquistarsi Oggi importa che il prestigio formale resti agli organi statali. Una conveniente divisione di lavoro tra il personale politico dirigente della federazione e degli stati si opererebbe da sé, riflettendo che alla federazione spetterebbero compiti definiti, di carattere economico, servizi consolidati scarsamente suscettivi di riforme; laddove agli stati continuerebbero ad essere attribuite tutte le altre funzioni pubbliche e perciò quelle meglio soggette a mutazioni e capaci di attirare a sé gli uomini dotati di temperamento politico combattivo.

Fatta la quale premessa, si osservi che l’esperienza storica dimostra che gli organi, di cui si discorre, debbono essere, ove si voglia che sorgano vitali, composti suppergiù così:

— un consiglio di stati, nel quale ogni stato aderente dovrebbe avere un ugual numero, uno o due, di rappresentanti;

– un consiglio legislativo, nel quale i cittadini degli stati aderenti dovrebbero inviare i proprii deputati, uno per ogni milione o mezzo milione od altro numero conveniente di abitanti.

I due consigli eserciterebbero la potestà legislativa federale; e la legge si intenderebbe tale solo se approvata dai due consigli.

Il diritto di iniziativa delle proposte di legge ed il compito dell’amministrazione federale spetterebbe ad un consiglio federale (ministri) nominato dal consiglio degli stati e dal consiglio legislativo riuniti in assemblea comune. Fra i consiglieri, a turno sarebbe designato il presidente, il quale perciò difetterebbe, esigenza necessaria, del prestigio derivante ai capi di stato dalla elezione popolare o dalla successione ereditaria.

L’esistenza contemporanea dei due consigli: di stato e legislativo, si impone da un lato per assicurare gli stati aderenti minori contro la eventuale prevalenza degli interessi degli stati più grandi, dall’altro per dar modo alla volontà dei cittadini in genere, non del gruppo italiano o francese o tedesco, di farsi valere. L’uomo attraverso la facoltà di farsi valere direttamente a mezzo dei suoi deputati al Consiglio legislativo, acquisterebbe a poco a poco una coscienza della cittadinanza comune federale, perfettamente compatibile, dati i fini diversi, con la conservazione gelosa della cittadinanza nazionale.

3) I mezzi dell’amministrazione federale:

a) le dogane. Questa è la più ovvia naturale entrata finanziaria da attribuirsi esclusivamente alla federazione. Poiché questa deve, sola, regolare il regime doganale; poiché i dazi tra stato e stato nell’interno della federazione debbono essere aboliti e trasportati ai confini federali, è logico che anche i dazi doganali diventino di spettanza esclusiva della federazione. All’origine di tutte le federazioni esistenti si osserva il medesimo fatto. È augurabile, come si dirà poi, che la federazione sia strumento di accordi economici con gli altri grandi aggregati politici esistenti; e si dovrà fare ogni sforzo perché così sia. In ogni caso, o che rimangano residui più o meno imponenti di dazi protettivi o che i dazi si riducano a quelli fiscali, l’entrata derivante dalle dogane alla federazione darà un contributo assai notevole alla finanza federale.

b) le imposte di fabbricazione od accise. Queste imposte sono indispensabili separatamente dalle dogane. Se esistono dazi doganali sui vini, sui liquori, sulla birra, sugli spiriti provenienti dall’estero — e qui l’estero sarebbero i paesi posti fuori dalla federazione — non possono non esistere imposte sulla produzione interna degli stessi vini, liquori, birra e spiriti. Così è per lo zucchero, per il caffè ed i surrogati di caffè, per il tè e simili. L’amministrazione delle imposte interne non può essere separata dall’amministrazione delle dogane estere, se non si vuol correre il rischio di grosse perdite nel loro rendimento.

c) i monopoli fiscali. Anche questi sembrano materia propria federale. Innanzitutto quel che è monopolio in Italia o in Francia, per es., i tabacchi, è oggetto di accisa od imposta di fabbricazione altrove: Svizzera, Inghilterra ecc. on si potrebbe quindi creare una precisa linea di distinzione fra monopoli ed imposte. In secondo luogo sembra che, essendo due grandi branche di imposte sui consumi attribuite alla federazione, anche l’altra, dei monopoli, debba essere sua, attuandosi così una netta divisione di imposte, sui consumi alla federazione, sui redditi e sui capitali agli stati. Finalmente è bene che gli stati non dispongano di imposte, come quelle sui consumi, atte a ricreare quelle discriminazioni o diversità di trattamento fra merci di uno stato e merci di un altro, che È uno dei compiti principali della federazione di eliminare.

d) le entrate ferroviarie, marittime, postali, telegrafiche e telefoniche e tutte le altre in genere dipendenti dai servizi direttamente esercitati o controllati dalla federazione. Sulla quale esigenza, essendo essa ovvia, non occorre dilungarsi.

È probabile che l’insieme di queste entrate ecceda il fabbisogno finanziario della federazione. Ciononostante, sembra opportuna una netta distinzione — e quella sopra delineata sembra logica — di entrate fra la federazione e gli stati, allo scopo di evitare attriti e sovrapposizioni. Ed è opportuno prevedere un progressivo ampliamento dei compiti federali, per volontà degli stati singoli e dei relativi popoli. Un certo margine iniziale di entrate gioverà a permettere l’ampliarsi dei compiti. Ad impedire tuttavia il verificarsi di artificiosi gonfiamenti burocratici federali, è necessario siano stabilite norme per la restituzione delle eccedenze ai singoli stati, restituzione da attuarsi in conformità a criteri prefissati, di cui il precipuo sembra essere quello della proporzionalità al numero degli abitanti dei singoli stati aderenti.

 

8
Di alcuni effetti della federazione economica

La organizzazione federale delle cose economiche relative ai rapporti interstatali avrebbe risultati dei quali si elencano solo i principali. Le ragioni delle guerre non verrebbero a mancare, non essendo probabile che tutti gli stati del mondo si decidano subito a far parte della federazione; ma sarebbe evidentemente già un risultato notevolissimo l’averne trasportato la possibilità su un piano più alto e più vasto. È più probabile che una guerra di conquista o di rivalità scoppi quando i focolai di incendio sono cinquanta che non quando essi sono ridotti a dieci od a cinque. Ed è chiaro anche che le prospettive di vittoria appaiono più grandi allo stato aggressore quando esso si trova dinnanzi ad uno stato relativamente piccolo, isolato e disarmato che non quando esso debba combattere contro aggregati politici di dimensioni imponenti. Né una federazione di popoli di lingue e razze e tradizioni differenti è dotata di spirito aggressivo così vivace come uno stato unitario agevolmente ubbidiente ad un unico impulso.

Problemi di nazionalità irti di difficoltà inestricabili perdono molto della loro asprezza in una federazione avente anche solo scopi economici. Qualunque soluzione voglia darsi alla distribuzione politica dei popoli diversi della ex-monarchia austro-ungarica e della penisola balcanica, essa è destinata a lasciare residui imponenti di minoranze incluse dentro i confini di stati a maggioranze di nazionalità diversa. Se non si voglia ricorrere al rimedio degli scambi forzosi di minoranze, il quale turba tradizioni affetti interessi tanto profondamente radicati, importa di ridurre al minimo gli attriti derivanti dal fatto irrimediabile. Ed il modo più ovvio di ottenere ciò è di togliere importanza al fatto frontiera. Quando i cittadini di uno stato si possano trasferire in un altro stato senza passaporti, senza visti, senza limitazione alcuna: quando essi godano in qualunque stato aderente gli stessi diritti dei nazionali d’origine; quando essi possano inviare e ricevere merci senza alcun ostacolo di dazi o di contingenti; quando i trasporti di merci e persone avvengano, senza alcuna discriminazione, la frontiera politica conserverà ancora tutto il suo valore storico e sentimentale, ma avrà perso ogni importanza economica. La divisione fra cantone e cantone serba in Svizzera valore morale; ma nessun ticinese grigione o vodese o zurighese sente di essere da quei confini menomamente danneggiato o disturbato. L’appartenente ad una minoranza etnica che sa di godere degli stessi diritti dei membri della maggioranza, e sa di potersi trasferire senza ostacoli nello stato dove il suo gruppo etnico è maggioranza, si sente meno offeso di quel che è vivendo in uno stato dotato di sovranità assoluta illimitata. Il problema non è risoluto del tutto; ma, attutite le punte di esso, è avviato alla soluzione piena che si avrà a poco a poco col formarsi di una coscienza della cittadinanza federale e col radicarsi di una opinione pubblica contraria non solo alle discriminazioni economiche, ma anche a quelle politiche e culturali.

L’allargarsi del territorio economico, aperto senza limiti allo scambio di cose e di persone è fatto tale che di per sé attenua i risultati dannosi delle protezioni, dei privilegi, dei monopoli, degli esclusivismi che pur continuassero ad esistere nei confronti degli stati stranieri. Perché il protezionismo è meno dannoso negli Stati Uniti che in Germania, meno in Germania che in Italia e meno nell’Italia che nell’Austria decapitata del 1919? In un territorio vasto come gli Stati Uniti e come sarebbe la auspicata federazione i climi, le produzioni, le attitudini, le possibilità di materie prime sono così varie che la più ampia concorrenza fra produttori può instaurarsi a vantaggio dei consumatori. Se anche un dazio di 10 colpisce all’entrata nel territorio federale una merce che fuori dazio sul mercato internazionale vale 10, è improbabile che il prezzo cresca a 10+10=20. I produttori interni sono tanti, la concorrenza tra di essi è così viva che il prezzo interno tende a ribassare verso il costo di produzione marginale; e se questo è 12, il prezzo è 12, sicché il dazio protettivo funziona non per tutto il suo ammontare 10, ma per un quinto solo di esso. Se invece il territorio protetto, come quello dell’Austria del 1919 o del Portogallo o della Grecia è piccolo, se non esistono entro esso variazioni notevoli di clima e di produzioni è probabile che i produttori della merce protetta con 10 siano pochi, che il loro costo marginale sia alto e si approssimi a 20; che essi, essendo pochi, si possano facilmente e permanentemente mettere d’accordo, che più facilmente possano premere sul governo per far vietare nuovi impianti, specie se ad opera di stranieri. Ed allora il dazio protettivo 10 funziona in pieno; ed il prezzo sale a 20. Questa è esperienza antica ed universale.

Perciò può affermarsi senza tema di esagerare che la federazione sarà l’arma; più potente che di fatto si possa usare per combattere? quella che si chiama plutocrazia, per lottare contro gli arricchimenti eccezionali ed illeciti, contro la sopraffazione dei monopolisti. Tutto ciò che allarga il campo della concorrenza tende a ridurre i profitti di monopolio ed a far ribassate il prezzo al livello del costo di produzione marginale. In queste condizioni l’industria acquista un carattere sano; rende servizi col compenso del semplice costo. Che cosa si vuole di più? e quale risultato maggiore si propongono coloro che hanno ideali socialisti o comunisti? Invece quanto più il mercato è ristretto, tanto più fioriscono, all’ombra della protezione vicinissima i monopolisti ed i privilegiati e tanto più il popolo dei consumatori è taglieggiato dai plutocrati, i quali nascondono la loro merce avariata con appelli al patriottismo, alla indipendenza nazionale, alla autarchia. Nel mondo intiero, l’autarchia non ha senso, perché prevarrebbero le merci migliori e meno costose e nessuno sognerebbe di produrre merci con materie artificiali costose che si dovrebbero vendere al prezzo delle buone. Invece l’autarchia, ossia la produzione della roba cattiva e cara trionfa dove il territorio è ristretto e non si producono materie prime genuine e l’entrata di queste è vietata da dazi o da contingentamenti.

La rinuncia degli stati singoli federati al diritto di emissione sarebbe per essi garanzia efficace di buona finanza. Quando uno stato non può ricorrere, sotto nessun pretesto, al facile mezzo di procacciarsi entrate col torchio dei biglietti, esso è costretto a fare una buona finanza. Imposte e prestiti rimangono le sole maniere di entrata a sua disposizione; ed ai prestiti lo stato non può ricorrere se non entro i limiti nei quali sappia procacciarsi la fiducia dei risparmiatori, ossia se non quando faccia una buona sana finanza. Non è possibile il malgoverno della circolazione entro i limiti dei singoli stati; ed è tolta così di mezzo una causa potente di inflazione, con le conseguenze antisociali che ne derivano e furono la causa più importante degli sconvolgimenti politici sociali europei dopo il 1914.

La possibilità di malgoverno della circolazione e conseguente inflazione è trasportata dal piano dei singoli stati a quello della federazione, con effetti che paiono vantaggiosi. L’esperienza sembra dimostrare che in un grande aggregato politico sono meno probabili inflazioni estreme che nei piccoli. Per quanto gli Stati Uniti non si siano sottratti dal 1787 ad oggi ai pericoli di svalutazione (coi greenbacks della guerra di secessione e con la svalutazione del 41% del dollaro), il grado della svalutazione fu assai meno sensibile di quel che non accadesse nelle vecchie 13 colonie fornite, ognuna di esse, di sovranità assoluta monetaria, quando l’unità monetaria spesso cadde a zero, con turbamenti continui dell’economia. È probabile che in una vasta federazione, con compiti limitati economici, il governo della circolazione ubbidisca a norme puramente economiche ed abbia scopi come quelli della stabilità dei cambi o della stabilità dei prezzi che, sebbene discutibili, sono oggetto di discussione tecnica e non politica.

Moneta sana, finanza statale ordinata, libertà di scambio di cose e di persone entro l’ambito della federazione, uguaglianza di trattamento per i cittadini dei singoli stati, uguaglianza nelle condizioni di trasporto e di comunicazioni epistolari telegrafiche e telefoniche, abolizioni di passaporti e di visti, possibilità di usufruire nei luoghi più appropriati delle svariate attitudini produttive dell’ampio territorio federale, trasporto ai confini lontani federali delle dogane, abolizione delle guerre interstatali e riduzione delle occasioni di guerre internazionali, lotta contro i monopoli, contro i privilegi, contro i guadagni artificiali, sono risultati che sembrano tali da far ritenere che lai federazione economica sia un ideale degno di essere voluto e tenacemente perseguito.

 

9
Gli ostacoli ed i limiti alla federazione

Gli ostacoli da sormontare non sono certamente piccoli. Ad attenuarli giova non proporsi la consecuzione di un ideale di perfezione.

L’ideale sarebbe certamente che la federazione abbracciasse il mondo intero. Ma i dubbi sono ovvii e le difficoltà praticamente oggi sono insuperabili.

Vorrà la Russia aderire ad un sistema, il quale, colla parità di trattamento delle cose e delle persone e colla libertà degli scambi interstatali parrà contrastante col monopolio degli scambi esteri e colla rigida negazione della intercomunicabilità di cose e persone propria di uno stato comunistico in genere e certamente di quello stato comunistico in ispecie? Non è opportuno che l’esperienza dimostri la possibilità di compromessi e ne indichi i metodi?

Vorranno, a tacere della Cina e del Giappone, così lontani e diversi dall’Europa, gli Stati Uniti rinunciare alla loro sovranità assoluta, che include quella economica, di cui è così geloso tutore il Senato americano? Sebbene le tendenze antiisolazioniste prevalgano in quel paese, sebbene il candidato Wendell Wilkie, del partito repubblicano, sempre in passato tenace assertore dell’autonomia economica, si sia fatto l’apostolo dell’antiisolazionismo, sarebbe prematuro attendersi da parte di quel paese una pronta rinuncia alla propria autonomia economica. Si può sperare una attenuazione dello spirito protezionistico ed esclusivistico a tratti dominante negli Stati Uniti; e con larghissime offerte di reciprocità gioverà rafforzare le tendenze liberali commerciali che trovano oggi fautori nei ceti più illuminati di quel paese, ed hanno nemici i ceti plutocratici che tanto furono favoriti dal protezionismo e dell’isolazionismo. Se l’Europa aiuterà le tendenze liberali antiisolazioniste attraverso una federazione, tanto più sarà agevolata la loro vittoria contro i gruppi privilegiati e spianata la via ad intese economiche future ognora più feconde ed ampie.

Vorranno gli Stati dell’America latina aderire? Essi che gravitano nell’orbita politica degli Stati Uniti, sebbene i loro mercati siano prevalentemente europei?

Vorranno, sovratutto, gli stati indipendenti della Comunità britannica delle nazioni rinunciare alla loro invincibile ripugnanza per i patti scritti, rigidi, vincolanti, essi la cui unità è un’unità di fatto, non scritta in nessuna legge, riaffermata di volta in volta, frutto di tacite intese derivanti da comunità di sentimenti, di costumi, di lingua e di tradizioni? Anche qui l’esperienza ha dimostrato i danni dell’esclusivismo, culminati nei patti di Ottawa. Anche qui importerà rafforzare i vincoli di solidarietà con gli altri grandi aggregati politici e favorire, con la massima larghezza verso le cose e le persone britanniche, la concessione di uguali larghezze verso le cose e le persone federali.

Tutto sommato, sembra ragionevole concludere che il centro della federazione economica debba essere l’Europa. Né possiamo aspirare ad includervi senz’altro tutta l’Europa. Qui occorre essere chiari. In un primo momento la federazione dovrà essere la conclusione ed il frutto della guerra odierna. Se gli uomini di stato, i quali decideranno, alla fine della guerra presente, sui destini europei, non avranno la forza di volontà di imporre la federazione a popoli stanchi della guerra e desiderosi di pace vera, segno è che essi sono rassegnati, come si disse sopra, ad una nuova od a parecchie nuove guerre, più colossali e micidiali della presente, Se così sarà, non rimarrà agli europei se non fuggire in massa da questa dannata terra. Sinché questa fatalità non appaia ineluttabile, importa che l’opinione pubblica, illuminata all’uopo, secondi e promuova lo sforzo degli uomini di stato verso la fine delle guerre.

Non fu forse dichiarata una carta atlantica, in massima ispirata a concetti di accordi e di uguaglianza?

Non si parla chiaramente di una rinnovellata società delle nazioni e non la si vuole più salda e più operante di quella scomparsa?

Non furono esposte recentemente in Germania teorie di collegamenti fra i popoli europei, in cui nessuno fosse dominante e nessuno soggetto, congegnati in maniera da elevare al massimo la produzione dei beni economici?

Se così è, non è logico che il nuovo organismo di garanzia della pace sia costrutto in modo che corrisponda veramente ai suoi fini?

E come potrebbe la nuova lega essere duratura ed efficace senza esercito, senza dogane ed entrate proprie, senza unificazione economica dei paesi aderenti?

O la nuova società delle nazioni sarà una farsa, un nome vano senza contenuto, od essa dovrà essere modellata sul tipo sopra delineato di una federazione economica. Unico territorio doganale, finanza propria, esercito proprio ed autorità legislativa ed esecutiva propria, questi sono i caposaldi essenziali e necessari dell’edificio che i costruttori della nuova Europa dovranno innalzare. Se essi vorranno, se essi sapranno assumere le responsabilità veramente decisive che loro incombono, se essi vorranno stabilire la pace su fondamenta meno labili di frontiere fatalmente artificiose, se essi comprenderanno l’urgenza ed il vantaggio di togliere alle future frontiere politiche il veleno economico che le corrode, se essi sapranno ridurle ad innocue ideali linee di natura storica culturale, come quelle che oggi dividono comune da comune, provincia da provincia, l’articolo fondamentale del futuro trattato di pace sarà l’abolizione degli eserciti statali e delle frontiere economiche. Che per lungo tempo non si debba parlare di eserciti statali è una delle ovvie esigenze dei vincitori verso i vinti. Importa che quella che oggi sarebbe una transitoria garanzia di parte diventi fattore permanente di pace e di affratellamento fra vincitori e vinti, sicché nessun strascico di rancori avveleni l’animo dei popoli finalmente associati in un’opera comune.

Temono alcuni che al proposito facciano ostacolo le aspirazioni di egemonia e di sopraffazione degli anglosassoni. Temono che anche questa volta la pace debba essere una pace dettata nell’interesse esclusivo di una parte, sì da ridurre le nazioni estranee al gruppo a soci di secondo ordine di una falsa società delle nazioni, a mercati di sfruttamento dei gruppi capitalistici più potenti degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.

Non vi è dubbio che nei paesi anglosassoni vi sono gruppi potenti di interessi i quali trarrebbero profitto particolare da una politica di egemonia su mercati stranieri asserviti e su colonie di sfruttamento. Ve ne sono, di cotali gruppi, anche in Germania ed in Italia. È incerto, molto incerto in quale delle due costellazioni politiche essi abbiano un peso relativo maggiore.

Poiché quelle forze sociali esistono, altro non v’è da fare se non mettere in chiaro l’insanabile contrasto esistente fra esse e l’interesse nazionale.

È interesse nazionale preminente sia degli anglosassoni e loro alleati come degli italiani, dei tedeschi e loro alleati, che i mercati di consumo siano ricchi e operosi al massimo, per potere assorbire la massima quantità di merci prodotte nei paesi di produzione; ed è un fatto certo che oggi e per gran tempo ancora i mercati di gran lunga più importanti per ambi i gruppi non sono né le colonie, né l’Asia, né l’Africa, ma quelli dell’Europa medesima, della Gran Bretagna e degli Stati Uniti.

È verità ugualmente evidente che nessun mercato metropolitano o coloniale è capace di largo assorbimento di merci ove le sue attitudini produttive siano artificiosamente coartate a sedicente vantaggio di un qualunque paese egemone.

Dalle quali verità segue che gli interessi della grandissima maggioranza dei lavoratori, dei risparmiatori, degli industriali, degli agricoltori di ogni paese coincidono con quelli della stessa grandissima maggioranza degli altri paesi nella convenienza di togliere di mezzo i vincoli e le restrizioni che alla libera attività degli uomini oppongono i piccoli gruppi che traggono ricchezza da monopoli e privilegi.

L’identità di interesse non ha valore soltanto entro i territori delle madrepatrie, ma si estende, ripetesi, anche a quello delle colonie. Invidie, gelosie, sopraffazioni per la conquista delle colonie sono destinate a perdere gran parte della loro virtù rabbiosa, quando la pace nuova riaffermi e renda veramente attivo per tutti i territori coloniali il principio della porta aperta e della uguaglianza di trattamento che la pace di Versailles aveva affermato per i territori di mandato. Che importanza avranno i colori con cui sulle carte geografiche saranno indicati i territori delle varie colonie, quando per tutte valga rigorosamente il principio che merci e persone di tutti gli stati aderenti al trattato di pace abbiano diritto ad ugual trattamento rispetto a dazi, ad imposte, a concessioni governative, a diritti di proprietà e di commercio?

In ogni paese gli interessi economici di privilegio e di sopraffazione tentano di influenzare l’opinione pubblica col denunciare le intenzioni sopraffattrici degli analoghi interessi esistenti negli altri paesi. L’unica via per opporsi a queste che, prima di essere minacce straniere, sono sovratutto minacce interne, provenienti da sopraffattori e monopolisti nazionali, è la denuncia aperta della manovra, è la proclamazione della piena solidarietà degli interessi sani italiani e tedeschi con i corrispondenti sani interessi americani e britannici. Alle forze del privilegio e della sopraffazione bisogna opporre la forza solidale del lavoro, del risparmio, degli industriali e degli agricoltori che non vivono all’ombra di privilegi. Le forze sane sono ben più potenti delle forze malsane, quando esse abbiano coscienza di sé e della bontà della propria causa. Guerre e rivalità commerciali non sono state in passato il risultato di ragionamenti plausibili rivolti a procacciare il bene comune. Furono invece sempre il frutto dell’ignoranza messa al servizio di interessi egoistici camuffati da interessi nazionali attraverso campagne di stampa artificiose e malvage. Non lasciarsi impressionare nuovamente da queste e procedere innanzi per la via che si sa essere la giusta: ecco il dovere di tutti coloro i quali vogliono il bene della patria.

Anche se la federazione economica comprenderà inizialmente solo parte dell’Europa, anche se essa lascierà da parte i paesi che durante tutta la guerra presente rimasero neutrali sul serio e cioè la Svizzera, il Portogallo, la Svezia e la Turchia Europea; anche se le relazioni fra la lega europea, gli Stati Uniti, la Comunità britannica delle nazioni rimarranno affidate più che alla lettera dei trattati alla comunanza degli interessi e delle aspirazioni; anche se i rapporti fra questi grandi gruppi e le rispettive colonie saranno complicati da un certo contrasto fra appartenenza politica e porta aperta per tutti; anche se nessuna delle costellazioni economiche così create non risponderà all’ideale dimostrato sopra assurdo di un perfetto autonomo spazio vitale, non perciò i frutti della soluzione qui auspicata alla guerra dovranno essere considerati pochi e piccoli.

Talune delle caratteristiche sopra indicate quanto più appariranno illogiche a chi volesse ragionare partendo dal dogma della sovranità assoluta degli stati, tanto più saranno in sostanza benefiche. Tutto ciò che scrolli quel dogma deve essere dichiarato un bene. Il dogma della sovranità assoluta degli stati: ecco il nemico primo e massimo della umanità e della pace. Da quel dogma funesto provengono gli esclusivismi nazionali, gli errori autarchici, la pretesa dei ceti governanti di ogni paese a disporre illimitatamente della vita e dei beni dei cittadini, divenuti sudditi traillables et corvéables à merci. Quanti più vincoli porremo ai governanti di ogni paese alla libera disposizione della vita e degli averi dei cittadini, quanto più l’uomo dipenderà simultaneamente dallo stato nazionale, dalla federazione, dai trattati non denunciabili con altri stati e raggruppamenti di stati, quante più garanzie daremo agli stranieri di parità di trattamento sul nostro territorio e quante più garanzie otterremo di ugual trattamento sul territorio altrui; tanto più gli uomini di ogni paese prospereranno sicuri nella propria nazione e potranno perseguire ideali di civiltà, di cultura, di religione al disopra e al di là dei puri interessi economici. Creare una rete inestricabile di vincoli tra paese e paese, dai quali sia impossibile liberarsi, questo è l’ideale che si deve contrapporre al mostro detto sovranità assoluta dello stato nazionale. Per esaltare le nazioni dobbiamo, attraverso i vincoli economici reciproci, ricreare la medievale comunità cristiana mondiale. I governanti degli stati non soggiaceranno più alla paura della scomunica; ma, sanzione oggi più efficace, temeranno di essere esclusi dalla partecipazione alla piena vita internazionale.

Anche se la nuova costruzione federale non sarà logicamente perfetta, anche se i giuristi riterranno che essa sia sotto varii aspetti bizzarramente incongrua, anche se taluni stati saranno collegati ad essa con riserve diverse — fra le quali è da escludere soltanto, perché annullerebbe il valore di tutto il resto, qualunque riserva relativa all’esercito comune —; anche se l’Inghilterra preferirà esservi collegata con quegli espedienti empirici e quei sottintesi taciti che costruiscono l’essenza della sua costituzione; anche se l’edificio costrutto da stati diversamente costituiti a forma di repubblica, di monarchia, di federazioni politiche, grandi e piccoli, apparirà sorprendente agli amatori del semplice e dell’euritmico; anche se dentro il territorio economicamente unificato vi saranno oasi autonome, tornerà tuttavia il conto di costruire. Gli uomini del secolo XIX si sono lasciati ipnotizzare dal tipo di stato creato dalla rivoluzione francese, in cui tutto l’ordinamento politico ed amministrativo è semplice ed uniforme. Ma la Francia, ma la Spagna, ma la Germania, ma l’Inghilterra non sono sorte ordinatamente e semplicemente. Chi pigli in mano uno di quei trattati che prima della rivoluzione francese si dicevano di aritmetica politica ed erano descrizioni politiche geografiche economiche finanziarie degli stati, stupisce nell’osservare la molteplicità e la varietà dei legami che riunivano insieme le diverse parti degli stati di quel tempo e la diversità degli ordinamenti politici ed amministrativi interni di ognuna di quelle parti. Fa d’uopo, se si vuole costruire, cominciare col mettere le fondamenta e rassegnarsi all’inevitabile e cioè all’illogico, al diverso, al contraddittorio. Quando si tenga fermo ai punti essenziali: unico territorio doganale, unico esercito e un duplice corpo legislativo di stati e di popoli, e la macchina cominci a funzionare, i vantaggi appariranno subito tanti e tanto grandi, che quelli che l’avranno costrutta col tempo la perfezioneranno e gli estranei vorranno accedervi.

 

10
E l’Italia?

In questa nuova costruzione, quale il compito dell’Italia? Sarà un compito di prim’ordine se gli italiani vorranno rinunciare a talune opinioni quali, nate prima della grande guerra, furono dal dopo guerra e dal ventennio successivo estese ed afforzate; opinioni le quali si riassumono nel peso dato alla furberia del mercanteggiamento, all’importanza data ai colori della carta geografica, al tirare a sé la coperta del letto comune. L’Italia non si troverà certo alla fine della guerra in una situazione di forza tale da far pesare la sua spada nei consigli delle nazioni. Nulla si conseguirebbe parimenti ove si puntasse diplomaticamente sulla discordia dei vincitori per strappare brandelli di concessioni e di territori. Questa è piccola miserabile politica la quale nel colossale conflitto odierno non è destinata a dare alcun frutto.

Riconosciamo che la forza non è per noi e che noi non abbiamo alcun interesse a ricorrere alle formule che erano proprie del regime scomparso. Gli italiani d’oggi, la classe dirigente dell’Italia nuova deve operare un taglio netto con la classe dirigente di ieri. Gli uomini ai quali dobbiamo richiamarci si chiamano Mazzini e Cavour. Le loro idee debbono ridiventare le nostre. L’Italia deve aspirare alla sua vera indipendenza e libertà non col soggiogare alcuna altra nazione o frammento di nazione, ma col riconoscere l’uguale diritto di tutte le altre nazioni ad uguale indipendenza e libertà. Noi dobbiamo essere pronti a rinunciare al diritto di legiferare e di governare in talune materie economiche, le quali toccano esclusivamente la vita materiale dei cittadini, allo scopo di potere sviluppare in modo più alto tutti gli altri aspetti della nostra vita politica, morale, religiosa, intellettuale.

Affermandosi e facendosi paladini di questi principî, gli italiani non ripeterebbero alcun verbo straniero. Essi si richiamerebbero ai principî del nostro risorgimento nazionale. Troppo dimentichiamo che l’Italia si fece grazie bensì ad una dinastia millenaria, ad un solido ordinamento statale, ad un esercito, ad una classe dirigente, a fattori politici cioè che preesistevano in Piemonte, ma grazie altresì all’audacia con la quale quella dinastia, quello stato, quell’esercito e quella classe dirigente fecero proprii e affermarono altamente dinnanzi ad un’Europa attonita i principî di nazionalità, di libertà e di uguaglianza dei popoli che gli idealisti italiani, Mazzini primo fra tutti, avevano affermato a pro dell’Europa intiera. I vinti di Novara divennero i vincitori del 1859 e del 1860 in virtù delle idee che seppero far trionfare nel mondo.

L’esperienza d’allora può e deve ripetersi oggi. Dalla sventura odierna noi ci risolleveremo solo se sapremo bandire e far trionfare un ideale più alto di quello degli alleati e degli avversari d’oggi, solo se noi sapremo sulla via della libertà, della uguaglianza e della solidarietà fra i popoli andare più innanzi degli altri. Bando ai mercanteggiamenti, alle furberie, alle transazioni meschine. Solo rinunciando in apparenza a molto, ad un molto che, come si tentò di dimostrare sopra, è il niente od è molto solo per piccoli gruppi plutocratici di sfruttatori della grandissima maggioranza dei cittadini, solo rinunciando alla falsa materia, noi conquisteremo la materia più alta, la prosperità duratura a pro dei molti, che è sempre e solo il frutto delle idee giuste e sane.

Né si abbia timore di essere, nella auspicata associazione economica di nazioni, sopraffatti dai più grossi e potenti di noi. Questa è la brutta sordida autocalunnia con la quale i privilegiati hanno sinora persuasi i molti a forgiare le catene della propria miseria e del proprio asservimento. Chi dice che, nelle condizioni di parità di trattamento e di libertà di scambi di cose e di persone che sarebbe garantito dalla federazione economica, gli italiani sarebbero sopraffatti? In quelle condizioni non i privilegiati, ma i capaci, non i già ricchi, ma quelli che hanno le attitudini a lavorare bene trionferebbero. Chi dice che gli italiani abbiano minore capacità di diventare tecnici abili, agricoltori esperti, commercianti sagaci di qualunque altro cittadino della nuova Europa? Certamente, col solo magnificare la propria grandezza storica, non si diventa abili tecnici, esperti agricoltori e sagaci commercianti. Ma gli italiani sono stanchi di retorica autoesaltatrice; e sono decisi a dimostrare ancora una volta al mondo che essi, messi alla prova, posseggono tuttavia la tenacia, la pazienza, la risolutezza nell’imparare e nell’operare che tante volte li fece grandi e nel 1918 li condusse a Vittorio Veneto. Nell’arringo dei popoli essi sono pronti a dimostrare coi fatti e non più con le parole, di essere degni di arrivare alla meta fra i primi.

Prefazione – J.S. Mill, La Libertà

Prefazione – J.S. Mill, La Libertà

John Stuart Mill, La Libertà, Gobetti, 1925, pp. 3-6

In tempi di mortificazione dello spirito, quando, per fiaccare le voci dei ribelli, si assevera dai dominatori l’unanimità del consenso interno, necessaria affinché la patria vigoreggi e sia rispettata dallo straniero, giova rileggere i grandi libri sulla libertà. Apro l’Areopagitica e leggo le seguenti parole che Giovanni Milton scriveva nel 1644:

«Quando una città è assediata e bloccata, quando i suoi fiumi navigabili sono corsi dal nemico e questo fa scorrerie ed assalti, fino quasi sotto le mura e nei sobborghi – il fatto che il popolo sia, più che in altri tempi, preoccupato di riforme, e disputi, ragioni, legga, inventi e discorra di cose sulle quali prima non si soffermava, è la dimostrazione del suo contentamento e della sua fiducia nei governanti ed è cagione che i cittadini dispregino bravamente e giustamente il nemico, quasi come in mezzo ad essi fossero numerosi i forti spiriti, costruiti a somiglianza di colui il quale volle acquistare a pieno prezzo il terreno su cui Annibale era accampato mentre si accingeva ad assediare Roma. Le discordie interne sono il vivo e promettente presagio di felici successi e di vittoria. Come, se in un corpo il sangue è pronto e lo spirito puro e vigoroso non solo per quanto tocca le facoltà vitali, ma anche per quelle razionali, noi possiamo concludere che il corpo medesimo è saldamente costituito e ben disposto; parimenti quando un popolo è così vivacemente acceso da poter non soltanto difendere la propria libertà e sicurezza, ma da gettarsi sui più saldi e sublimi argomenti di controversia, esso non ci appalesa degenerato né rilasciato verso una fatale decadenza, ma capace invece di spogliarsi della vecchia e rugosa spoglia corrotta sì da sopravvivere ai dolori presenti e crescere nuovamente in giovinezza, entrando nelle gloriose vie della verità e della virtù prosperosa».

«Io vedo» – continua il poeta del Paradiso perduto – «nella mia mente una nobile e potente nazione che si drizza come l’animo forte dopo il sonno ristoratore e scuote le chiome invincibili; la vedo come un’aquila la quale rinnovi la sua potente giovinezza ed infiamma i suoi occhi fermi al raggio del sole del meriggio, affinando la stanca vista alla fontana medesima della luce celeste; mentre con vano rumore gli uccelli timidi e quelli i quali amano il crepuscolo, svolazzano attorno a stormi, stupefatti al portamento dell’aquila e nel loro invidioso cicaleccio pronosticano un’era di scismi e di discordie».

Il breve libro sulla Libertà di Giovanni Stuart Mill si ripubblica in veste italiana in un momento nel quale il diritto di critica, di non conformismo, le ragioni della lotta contro l’uniformità hanno urgente bisogno di riaffermarsi. Come osserva l’autore nella sua Autobiografia il saggio sulla libertà lungamente meditato, e quasi in ogni frase scritto e riscritto, col consiglio della moglie, parecchie volte dal 1854 in poi, prima di essere pubblicato nel 1860, è quasi il libro di testo di una verità fondamentale: l’importanza suprema per l’uomo e per la società di una grande varietà di tipi e di caratteri e di una piena libertà data alla natura umana di espandersi in innumerevoli e contrastanti direzioni. «Se una particolare dottrina raccoglie attorno a sé la maggioranza dei cittadini ed organizza le istituzioni sociali e le azioni umane a propria immagine, l’educazione imprime il nuovo credo sopra le nuove generazioni ed a mano a mano acquista la medesima forza di compressione esercitata a lungo dianzi dalle credenze di cui la nuova dottrina ha preso il posto».

Il fascismo, sotto un certo rispetto, è il risultato della stanchezza che nell’animo degli italiani era cresciuta dopo le lunghe e rabbiose lotte intestine del dopo guerra ed è un tentativo di irreggimentazione della nazione sotto a una sola bandiera. Gli animi anelavano alla pace, alla tranquillità, al riposo e si acquetarono alla parola di chi prometteva questi beni.

Guai però se dalla naturale aspirazione a liberarsi dalla bestiale guerra civile in che era degenerata tra il 1919 ed il 1921 la lotta politica in Italia si cadesse senza contrasto nel conformismo assoluto al vangelo nazionalistico imposto dal fascismo! Sarebbe la morte della nazione. Colla abolizione della libertà di stampa, colla compressione della libertà del pensiero, con la negazione della libertà di movimento e di lavoro in virtù dei bandi e del monopolio delle corporazioni, il paese è risospinto verso l’intolleranza e la uniformità. Si vuole imporre con la forza l’unanimità dei consensi e delle idee perché si afferma necessario difendere la verità contro l’errore, il bene contro il male, la nazione contro l’antinazione.

A queste proposizioni mortificatrici, che già Milton reputava funeste, il saggio del Mill oppone la giustificazione logica del diritto al dissenso e la dimostrazione della utilità sociale e spirituale della lotta. È necessario rileggere la dimostrazione che il Mill dà dei seguenti immortali principi: «La verità può diventare norma di azione solo quando ad ognuno sia lasciata amplissima libertà di contraddirla e di confutarla. – È doveroso non costringere un’opinione al silenzio, perché questa opinione potrebbe essere vera. – Le opinioni erronee contengono sovente un germe di verità. – Le verità non contraddette finiscono per essere ricevute dalla comune degli uomini come articoli di fede, senza alcuna comprensione del loro fondamento razionale. – La verità, divenuta dogma, non esercita più efficacia miglioratrice sul carattere e sulla condotta degli uomini». Sillabo, conformismo, concordia, leggi regressive degli abusi della stampa sono sinonimi ed indice di decadenza civile. Lotte di parte, critica, non conformismo, libertà di stampa preannunciano le epoche di ascensione dei popoli e degli Stati.

Gli anni di forzato consenso da cui stiamo faticosamente uscendo hanno fatto nuovamente apprezzare agli italiani il diritto ed il vantaggio della discordia. Essi sentono che la libertà non è semplice strumento ma fine comune dal cui raggiungimento dipendono gli altri fini civili politici e spirituali della vita. Ma, forse, questa è ancora più un sentimento che una convinzione profonda. Il saggio del Mill, che i nostri vecchi prediligevano, ritorna dunque dinnanzi agli italiani nel giusto momento dell’ansiosa ricerca del fondamento e dei limiti dell’idea della libertà.

Relazione letta dal prof. Luigi Einaudi, direttore presidente del Consiglio direttivo, alla LXI Consulta generaledella Società di istruzione, educazione, mutuo soccorso e beneficenza fra gli insegnanti dello statoin tornata antimeridiana del 10 settembre 1910 [sic, ma: 1913] nella sala Vincenzo Troya in Torino

Relazione letta dal prof. Luigi Einaudi, direttore presidente del Consiglio direttivo, alla LXI Consulta generaledella Società di istruzione, educazione, mutuo soccorso e beneficenza fra gli insegnanti dello statoin tornata antimeridiana del 10 settembre 1910 [sic, ma: 1913] nella sala Vincenzo Troya in Torino

Torino,Stab.tip. naz., 1914, pp. 15-32

Prova

Nuova pubblicazione

Consultazione legale sul diritto spettante a Giacomini Remo di conseguire dal governo di S. Marino il risarcimento dei danni derivatigli dalla forzata chiusura della sua distilleria di alcool

Consultazione legale sul diritto spettante a Giacomini Remo di conseguire dal governo di S. Marino il risarcimento dei danni derivatigli dalla forzata chiusura della sua distilleria di alcool

Repubblica di S. Marino, Tribunale commissariale, Rimini, Tip. Capelli già Malvolti, 1912

Appunti per una relazione sugli articoli 6, 7, 8 e 9 (tassa sulle aree fabbricabili) del disegno di legge: «Provvedimenti per la città di Roma» presentati alla “Unione monarchica liberale Umberto I”

Appunti per una relazione sugli articoli 6, 7, 8 e 9 (tassa sulle aree fabbricabili) del disegno di legge: «Provvedimenti per la città di Roma» presentati alla “Unione monarchica liberale Umberto I”

Torino, Tipolitografia S. Bosio, 1907, pp. 34-52

L’insegnamento della economia politica e specialmente della economia commerciale nelle scuole superiori di commercio

L’insegnamento della economia politica e specialmente della economia commerciale nelle scuole superiori di commercio

Relazione presentata alCongresso degli Istituti industriali e commerciali italiani. Sezione commerciale, Torino, Tipografia cug. Baravalle e Falconieri, 1902, pp. 8

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