Opera Omnia Luigi Einaudi

Il bilancio dello stato, la potenzialità finanziaria italiana e il peso della guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1917

Il bilancio dello stato, la potenzialità finanziaria italiana e il peso della guerra

Venne il dì nostro e vincere bisogna!, Milano, Credito italiano, Tip. Bertieri e Vanzetti, 1917, pp. 23-30

 

 

 

I timidi ed i paurosi, i quali guardano con spavento ai bilanci del dopo guerra e mormorano: «come sarà possibile allo Stato Italiano fronteggiare l’onere delle pensioni militari e degli interessi dei colossali prestiti contratti per la durata della guerra?» farebbero bene a ricordare quanto seppero fare i nostri padri in un’ora assai più dura delle più dure ore oggi trascorse: nel decennio che volse dal 1862 al 1870. Erano gli anni in cui i bilanci dello Stato si chiudevano con disavanzi annuali oscillanti fra i 300 e gli 800 milioni.

 

 

Erano gli anni in cui il direttore generale del Tesoro non sapeva al mattino come avrebbe potuto provvedere alle spese della giornata e doveva arrabattarsi per collocare, con grande stento, buoni del Tesoro al 10 per cento. Ma in quegli anni altresì Quintino Sella fieramente rispondeva a chi gli offriva denaro a mutuo a buone condizioni purché ai capitalisti fossero date in garanzia le dogane, che l’Italia era povera bensì, ma a qualunque sacrificio avrebbero sottostato pure di non rinunciare alla minima parte della sua sovranità.

 

 

Così fu: il bilancio dello Stato riacquistava verso il 1880 l’equilibrio suo; e, mentre nel decennio 1860-70 con forse 6 a 7 miliardi di reddito nazionale gli italiani stentavano a pagare da 500 a 900 milioni di imposte e tasse, alla vigilia della guerra europea, con un reddito nazionale cresciuto a 12-14 miliardi di lire, pagavano assai più facilmente 2500 milioni di lire.

 

 

Il segreto per cui in passato gli italiani poteron far fronte al pagamento degli oneri grandiosi della costituzione dello Stato fu questo: che il bilancio attingeva nuove entrate da un reddito nazionale il quale aumentava più rapidamente di quanto non aumentassero le imposte e le tasse. Aumentavano nel cinquantennio queste da 30 a 70 lire all’anno per testa di abitante; ma poiché il reddito medio per abitante cresceva da 230 a 370 lire all’anno, il residuo libero era maggiore e non minore di prima.

 

 

Che oggi, mentre infuria la guerra, il bilancio italiano riposi solidamente sul granitico fondamento della capacità di produrre e di lavorare degli italiani, è manifesto nella ferma volontà con cui il paese ha risposto all’appello dello Stato a nuovi sacrifici. Gli aumenti di imposte aventi carattere permanente finora consentiti allo Stato sono, in confronto con lo stato di fatto ante bellico, i seguenti:

 

 

 

1913-1914

Aumenti

Milioni

%

Entrate patrimoniali

44,8

Imposte sui redditi

540,7

258,2

48

Imposte sulle successioni e sullo scambio di ricchezza

338,3

148,7

44

Imposte sui consumi

625,3

218,4

34

Privative fiscali

547,1

101,6

18

Servizi pubblici

214,6

25,4

12

Entrate minori

213,0

6,5

3

 

2,523,8

758,8

30

 

 

Sebbene io non abbia tenuto conto delle entrate provenienti dall’imposta sui profitti di guerra, dalla tassa per le concessioni di esportazioni e da altre minori entrate aventi carattere transitorio, pure il quadro dei risultati ottenuti è confortante, quasi direi meraviglioso. Grazie anche al metodo seguito di chiedere molto sovratutto ai redditi ed alla ricchezza e poco ai consumi, le imposte cresciute del 30% sono pagate quasi più facilmente delle antiche. Nessuno Stato, salvo l’Inghilterra, ha dato prova di tanta elasticità nel gettito delle imposte. Noi soli, insieme con l’Inghilterra, siamo riusciti a far gittare, senza che i contribuenti abbiano avuto una sensazione di stanchezza, di mese in mese alle imposte la somma occorrente al servizio dei debiti che si andavano via via incontrando. Al 31 dicembre 1916 i miliardi di debito nuovo che l’Italia ha assunto dopo lo scoppio della guerra europea, debiti esteri compresi (4,3 miliardi circa) ed incluso altresì il debito, per ora non oneroso di interessi passivi, contratto sotto forma di maggiori emissioni di biglietti (3,2 miliardi), giungevano a circa 16 miliardi di lire. Orbene le entrate occorrenti a pagare gli interessi di quei 16 miliardi sono già assicurate con i 760 milioni di nuove imposte permanenti già decretate. I contribuenti già le stanno pagando; ed a parte qualche riforma, la quale ne aumenterà però il gettito, nessuna lagnanza si è fatta sentire.

 

 

È certo che i 760 milioni già decretati non basteranno. Poiché è necessario fare un’ipotesi, supponiamo che la guerra duri ancora fino al 31 dicembre 1917. In tal caso tuttora non coperti si distinguono in due categorie: 1) il costo della guerra durante il 1917 che possiamo calcolare in 12-15 miliardi di lire, ossia 1, 1 e un quarto miliardi al mese. Finora la guerra costò di meno; ma è prudente supporre per l’avvenire un aumento; 2) il costo delle pensioni ai militari feriti, malati e mutilati ed alle famiglie dei morti in difesa della Patria; e le spese straordinarie di assestamento e di liquidazione le quali indubbiamente dovranno essere sopportate nel periodo di trapasso dalla guerra alla pace.

 

 

Per questa seconda categoria sarebbe finanza inutilmente severa provvedere ora imposte nuove. Basterà frenare l’aumento delle spese ordinarie, continuare nell’opera lodevole di limitazione delle spese superflue e prorogabili, per ottenere un margine sufficiente. Nei primi quattordici anni del secolo le entrate effettive dello Stato crescevano di 60 milioni all’anno in media; incremento spontaneo, ottenuto senza inasprimento di imposte. Anche se l’aumento dovesse ridursi a 40 od a 30 milioni, è quanto basta per garantire, con opportune operazioni finanziarie, il servizio delle pensioni di guerra e delle spese del passaggio al regime di pace.

 

 

Resta la prima categoria di nuovi oneri: ossia i 600-800 milioni all’anno di interessi sui 12-15 miliardi di debito ulteriore da contrarre per fronteggiare il costo della guerra nel 1917.

 

 

Impresa non lieve; ma non certo al disopra delle forze nostre.

 

 

Potremmo discutere sui mezzi; ma nessuno oserebbe contestare in massima la possibilità che le imposte sui consumi, sotto la forma di imposte di fabbricazione o di privative di taluni generi di consumo non necessario, siano capaci di gittare 200-300 milioni. E chiunque abbia meditato sulla maniera imperfetta con cui sono accertati i redditi ed i patrimoni soggetti alle imposte sui redditi e sulle successioni, non può non rimanere convinto che, se si poté far rendere le imposte sui redditi ben 260 milioni di lire di più con semplici inasprimenti di aliquote, è possibile, quando fermamente si voglia, far loro gittare altrettanto di più, con un migliore accertamento dei redditi. Siamo, tenendo conto delle imposte sulle successioni e sui trasferimenti della ricchezza, ai 600 milioni. Aggiungere, inoltre, alle imposte esistenti il coronamento di un’imposta complementare sui redditi e sui patrimoni è ormai un postulato accolto pacificamente da tutti. Se noi supponiamo di chiedere alla complementare 200 milioni di lire all’anno, che è ipotesi anch’essa ragionevole, ecco l’equilibrio finanziario raggiunto.

 

 

Se la guerra si chiuderà al 31 dicembre 1917, gli italiani dovranno fornire allo Stato da 4 a 4,5 miliardi di lire, di imposte e tasse all’anno, invece di 2,5 miliardi, a cui erano abituati prima. Perché essi possano sottostare al sacrificio basterà che essi aumentino da un sesto a un settimo la loro produzione annua. Dopo aver visto la terra italiana coltivata e produttiva nel 1916 non meno bene che negli anni di pace, malgrado il richiamo alle armi di milioni di contadini, dopo aver visto di quali miracoli sia capace una più intensa organizzazione produttiva nelle industrie, chi può dubitare che gli italiani non siano capaci di produrre di più e che essi già abbiano dimostrato di sapere produrre di più?

 

 

Anche in Inghilterra, durante le lunghe guerre contro la rivoluzione e contro Napoleone, vi era chi prevedeva la rovina del paese e la bancarotta dell’erario. Come potrà lo Stato, mormoravasi, pagare gli enormi interessi dei debiti di guerra se si pensa che nel 1791, alla vigilia della rivoluzione, le entrate del bilancio inglese giungevano appena a 450 milioni di lire italiane, di cui 240 assorbiti dal servizio del piccolo debito pubblico di allora, lasciando disponibili appena 210 milioni per tutte le altre spese, le quali salivano invece a 250 milioni di lire? Se vi era un disavanzo in pace, a quanto non sarebbe il disavanzo salito dopo la guerra? La realtà rispose trionfalmente ai pessimisti inglesi di allora, come rispondeva poscia ai tiepidi italiani del 1860-1870. Nel 1818, chiuse le guerre napoleoniche, gli interessi del debito pubblico erano saliti invero ad 800 milioni di lire; ma le entrate dello Stato erano salite ancor esse a 1440 milioni; ed il bilancio aveva ritrovato l’equilibrio. Gli statistici, a spiegare il miracolo, notavano che il reddito nazionale di tutti gli inglesi, quel reddito da cui si traggono imposte e tasse, era, nonostante la guerra, aumentato da 5 a 11-12 miliardi di lire.

 

 

Questa è sempre stata la storia dei popoli forti. Mossi dal desiderio di toccare una nobile meta, i popoli raddoppiano i loro sforzi di lavoro e di iniziativa; e riescono così a pagare le imposte maggiori e ad innalzarsi tuttavia verso un più alto grado di vita materiale e spirituale.

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