Opera Omnia Luigi Einaudi

Il mito della giustizia tributaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1937

Il mito della giustizia tributaria

Problemi di finanza fascista. Saggi in onore di Federico Flora, Bologna, Zanichelli, 1937, pp. 91-101

 

 

 

1. – Giustizia, in materia di imposta, è fatta dai più, se non da tutti, sinonima a verità. Fa d’uopo conoscere il vero, per potere assidere l’imposta secondo giustizia.

 

 

Quid est veritas? interrogava Pilato (Joannes 18, 38). Chiediamo anche noi: che cosa è la verità rispetto all’imposta? e rispondiamo umilmente: nescio.

 

 

2. – Non sempre l’ignoranza nostra è invincibile. Pesare e noverare quintali di caffè che entrano nello stato, numero di sigari o pacchetti di sigarette vendute al fumatore, quintali di zucchero immessi dalle fabbriche nel consumo sono operazioni tecniche le quali vertono su quantità fisiche, composte di unità ben definite e sommabili. È più difficile stimare il prezzo delle cose mobili od immobili, dei titoli o valori i quali cadono in un contratto od in una donazione o successione; ma non è impresa assurda. Trattasi di fatti riferiti ad un momento certo nel tempo, accaduti indipendentemente dal giudizio dello stimatore e che questi deve limitarsi ad accertare nella misura del loro accadimento. Quella casa, posta nel tal luogo, venduta in quel giorno, fu negoziata per tale somma. Astrazion fatta dall’uso che della conoscenza della verità si voglia fare, le difficoltà le quali si frappongono a quella conoscenza sono empiriche, di fatto, sormontabili con la consueta approssimazione ritenuta bastevole nelle umane cose.

 

 

3. – La conoscenza della verità empirica, della verità di fatto non interessa tuttavia gran fatto i sacerdoti della giustizia tributaria. Le imposte sui consumi e quelle sugli affari ossia sugli scambi dei beni economici sono «tollerate» dagli amatori della giustizia, come dolorose necessità fiscali, a cui giova rassegnarsi a cagione dei bisogni crescenti degli stati moderni. Al più, esse offrono argomento per dichiarare che, poiché le esigenze pubbliche impongono la conservazione di imponenti gruppi di imposte, le quali, per la medesima natura del loro oggetto, non possono essere ripartite equamente e colpiscono, checché si faccia e si rimedi, proporzionatamente più i poveri che i ricchi, fa d’uopo con somma cura osservare che le altre imposte giuste, le solamente giuste, le imposte sui redditi sui patrimoni sulle successioni, siano fondate sull’accertamento della verità vera, della verità piena ed assoluta.

 

 

È universale, non propria ad alcun paese, la lagnanza: se tutti dichiarassero il vero, quanto più miti potrebbero essere le imposte e quanto più largo il provento per l’erario! Nessuno eleva siffatta lagnanza rispetto ai dazi di dogana, alle imposte sulla fabbricazione dello zucchero dello spirito del gas luce, a quelle sulle carni e sul vino. Il contrabbando o la frode sono qui meri fatti empirici, che il perfezionamento della tecnica di investigazione gradatamente tende a ridurre al minimo. La lagnanza diventa alta quando non verte sui fatti, ma sulle idee, non su quel che è, ma su quel che dovrebbe essere.

 

 

Ha scarsa importanza agli occhi di costoro conoscere di un podere la composizione agrologica, la divisione in seminativo vigneto oliveto, il grado tenuto dalle diverse particelle nella gerarchia della produzione; tutte nozioni le quali consentono di valutare egregiamente la attitudine comparativa del podere a pagar tributo. Quel che monta è conoscere il reddito «vero», il reddito «effettivo» ottenuto da questo o quell’agricoltore. L’imposta può essere fondata solo sulla conoscenza della assoluta verità. Non monta conoscere, di una fabbrica, tutti gli indici della produttività: forza motrice, area dei saloni di lavoro e dei magazzini, numero e qualifiche degli operai e degli impiegati, quantità dei combustibili e delle materie gregge. Tutto ciò è nulla, se manca la conoscenza precisa del reddito netto, realmente ottenuto in quella unità di tempo, da quell’imprenditore.

 

 

Quel che si vede, quel che si manifesta agli occhi, quel che gli uomini dimostrano apertamente di possedere o di godere perché lo consumano o ne fanno oggetto di contrattazione, non è la verità vera, sostanziale, quella che gli amatori della giustizia tributaria vogliono conoscere. Al di là dei segni esteriori, essi cercano la realtà. L’anima di un sistema tributario «giusto» non sta nelle imposte sui segni consumi od atti, che son legato di epoche barbare; sta nelle imposte sul reddito e sul patrimonio con le quali si mira a far contribuire il cittadino alle spese pubbliche in proporzione alla sua sostanziale capacità a pagare. Finché non si sia conosciuto il reddito, tutto il reddito, finché non si siano accertati e tassati i redditi occulti, come dei titoli al portatore, o incerti, come quelli professionali o commerciali, o saltuari, come quelli speculativi, finché, oltre i redditi, non siano accertati e colpiti i guadagni dovuti al caso alla fortuna alle circostanze sociali, gli incrementi patrimoniali i quali maturano in virtù del mero passare del tempo, noi non avremo conosciuto la verità e non avremo instaurato il regno della giustizia nella imposta. Al di là degli espedienti dei segni delle approssimazioni importa perseguire la verità, la conoscenza della quale soltanto consente di attuare la giustizia.

 

 

4. – Quid est veritas? Purtroppo, l’ideale che i seguitatori dell’imposta giusta perseguono è un fantasma un mito procreato da una assai rozza varietà della ragion ragionante, quella contabilistica. Il contabile redige inventari riferiti a dati momenti nel tempo e compila conti di profitti e perdite negli intervalli i quali corrono fra quei momenti. Se l’intervallo è l’anno e se l’anno economico, al pari di quello solare, è chiuso fra il primo gennaio e il 31 dicembre, queste sono le date dei due inventari di principio e di fine d’anno ed i dodici mesi dall’1 gennaio al 31 dicembre sono l’intervallo durante il quale accadono le variazioni registrate nel conto profitti e perdite. Riducendo i fatti all’essenziale, potremmo riassumere così, ai fini dell’indagine tributaria, i tre documenti fondamentali:

 

 

INVENTARIO ALL’1 GENNAIO

A fornitori

10.000.000

Immobili

10.000.000

A creditori

10.000.000

Macchinario, per obbligazioni utensili, ecc.

20.000.000

Scorte di materie prime, combustibili e merci in lavorazione

10.000.000

Totale dovuto a terzi

20.000.000

Merci finite

5.000.000

Azionisti

25.000.000

Depositi in banca

Riserva

5.000.000

titoli

5.000.000

 

 

CONTO DELL’ANNO

Incassi per merci vendute Quota deperimento

29.700.000

immobili 3%

300.000

Lucro realizzo immobili

300.000

Quota deperimento macchinario, utensili, ecc.

30.000.000

Perdite per fallimenti ed inesigibili

600.000

Imposta allo stato 20% dell’utile

1.000.000

Materie prime, combustibili, ecc.

8.000.000

Ad azionisti 10% del capitale versato

2.500.000

Salari, stipendi ed altre spese di lavorazione

13.000.000

Ad amministratori, dirigenti, fondi di Spese generali

1.100.000

previdenza impiegati ed operai

500.000

A fondo di riserva

1.000.000

Saldo utili

5.000.000

INVENTARIO AL 31 DICEMBRE

A fornitori

12.000.000

Immobili

10.000.000

A creditori per Quota obbligazioni emesse

10.000.000

deperimento

300.000

patrimonio proprio utensili, ecc.

20.000.000

Quota deperimento

2.000.000

Azionisti

25.000.000

Riserva

6.000.000

Utili ripartibili

4.000.000

Scorta di materie prime, combustibili e merci in lavorazione

12.000.000

Merci finite in magazzino, in viaggio e crediti

6.000.000

Depositi in banca e titoli

8.800.000

 

 

Il contabile è fermamente convinto che nei tre documenti si riassuma la vita dell’impresa durante l’anno considerato e che la cifra di saldo utili, che egli ritrova uguale in 5 milioni di lire in due dei suoi tre conti parificati, gli raffiguri il dato incontrovertibile in base al quale è possibile calcolare il debito d’imposta dell’impresa o dei suoi azionisti. Perciò egli, volendo mettere in chiaro il quantum su cui cade il debito d’imposta, e vivendo in uno stato nel quale, in conformità alle regole della giustizia fondata sulla conoscenza della realtà vera, l’imposta viene prelevata a fine anno sui risultati precisi dell’esercizio chiuso, non ha incluso le imposte nelle spese generali. Il saldo utili dovrà essere diviso fra gli aventi diritto, secondo il comando della legge e le deliberazioni dell’assemblea degli azionisti.

 

 

5. – Tutte le operazioni di stima sono state compiute correttamente secondo scienza e prudenza. I valori d’inventario all’1 gennaio erano quali risultavano dalla contabilità per le partite certe (debiti a fornitori, obbligazioni, azionisti, riserva, depositi in banca e titoli) e da stime prudenziali per le partite opinabili (immobili, macchinario, scorte, magazzino). Nel conto profitti e perdite gli incassi per merci vendute, le perdite per fallimenti, le erogazioni per materie prime, lavorazioni e spese generali risultano dalla registrazione di fatti accaduti. Le quote di deperimento degli immobili e del macchinario sono quelle che l’esperienza di lunghi anni consigliò ad amministratori avveduti. Potrebbe dubitarsi se sia corretto iscrivere nei profitti la somma di lire 300.000 per aumento realizzato del valore immobili; ma l’iscrizione fu consigliata dalla circostanza che una parte degli immobili fu venduta con vantaggio persino superiore alle 300.000 lire e il guadagno fu tale da far parere legittima la valutazione in invariate lire 10.000.000 degli immobili residui, detraendo solo le 300.000 lire di quota normale di deperimento.

 

 

Nell’inventario a fine anno le valutazioni delle attività tengono conto delle quote di deperimento, dei nuovi investimenti e della consistenza reale delle scorte e del magazzino valutate con la necessaria prudente oculatezza. Nessun azionista o funzionario delle imposte, sia pur di occhio linceo, riuscirebbe a scovrire il più piccolo neo nei documenti, esemplati al millesimo sui libri sociali, registranti in modo inappuntabile la verità conosciuta da uomini nel tempo stesso ossequenti al dovere verso lo stato gli azionisti i collaboratori e l’avvenire dell’impresa.

 

 

6. – Eppure, quella cifra di 5.000.000 di lire di saldo utili è un fantasma contabile irreale.

 

 

7. – Si passi sopra alla difficoltà di valutare con esattezza le quote di deperimento degli immobili e del macchinario, le scorte e le merci finite in magazzino. Logorio tecnico od anche economico? Prezzi di costo o prezzi del giorno della chiusura dell’esercizio o di previsto realizzo? La sostituzione dell’un criterio all’altro muta notevolmente la cifra del saldo utili. Trattasi però di difficoltà concrete, non di negazione del principio medesimo su cui è fondato il calcolo.

 

 

8. – Il principio è negato sotto due aspetti. In primo luogo la divisione del tempo in intervalli finiti. L’anno, assunto dall’1 gennaio al 31 dicembre, è un artificio. Necessario, ma artificio. Supporre che la vita di una impresa possa essere spezzata in esercizi finiti annui è supporre l’assurdo. Non si può sapere se una impresa ha fornito ai suoi proprietari profitti ovvero perdite se non quando essa è morta e tutte le sue attività sono state liquidate. Paragonando allora gli incassi e le spese, ridotti a valori attuali ad un dato momento, potremo giudicare dell’esito dell’impresa. Finché essa rimane in vita ed opera, il giudizio è provvisorio. Andrà ingoiata la riserva da perdite future? Basterà a fronteggiarla?

 

 

Non si vuole dire che i contabili abbiano torto nel dividere il tempo in intervalli annui e nel redigere conti riferiti ad ognuno di quelli intervalli distintamente. Essi obbediscono alla necessità di orientarsi, di avere una norma per l’avvenire, di sapere se il successo arride o non all’impresa, di non sentir, nell’atto di prelevare fondi a fini di spesa privata, rimorso di aver recato nocumento alla vita di essa. Se anche, per ipotesi inverosimile, il possessore dell’impresa potesse astenersi da prelievi sino alla liquidazione finale, non potrebbe astenersene lo stato, le cui spese sono continue nel tempo e debbono essere continuamente fronteggiate da entrate ugualmente distinte nel tempo.

 

 

Ma dalla necessità in cui gli uomini sono di dividere il tempo in intervalli finiti non discende la razionalità della frantumazione e dei calcoli che su questa si istituiscono. Trattasi di espedienti necessari; che i contabili non debbono però presumere di trasformare in regole di ragione, le quali si impongano come le sole le quali consentano di attuare la giustizia tributaria. Se l’un espediente sia da preferirsi all’altro è materia opinabile, da discutersi secondo opportunità. Non esiste «il» criterio che solo possa dichiararsi razionale, solo atto a servir di metro alla giustizia. Degnasi taluno di guardare con sopportazione ad altri criteri, diversi da quello contabile, di determinazione di reddito, come ad esempio il criterio dell’indice della spesa, o del reddito normale od ordinario, quasiché soltanto questi fossero spedienti, appena tollerabili in confronto a quello contabile. Se gli uni sono frutto di qualche artificio logico, altrettanto deve dirsi dell’altro; e forse più.

 

 

9. – Il criterio contabile, infatti, non patisce soltanto per il vizio della divisione del tempo continuo in intervalli finiti artificiosi, ma più per il paragone che esso istituisce fra quantità eterogenee per giungere al risultato finale detto «saldo utile». Anche qui, non si nega la necessità dell’artificio; ma si chiede la confessione dell’essere quello un artificio ed artificio del quale è ignoto il significato.

 

 

Il contabile, il quale, redigendo, a distanza di un anno l’uno dall’altro, due inventari, constata che il patrimonio netto sociale, il quale era al gennaio di 30 milioni di lire, al 31 dicembre è diventato di 35 milioni di lire (25 capitale versato, 6 riserva, 4 utili ripartibili ad azionisti, stato e collaboratori diversi), è tratto a concludere: il reddito dell’anno fu di 5 milioni di lire. Conclusione rafforzata da quella identica del conto profitti e perdite.

 

 

Si obliteri quest’ultimo conto, il quale registra fatti accaduti nell’anno, dai quali risulta una differenza, detta saldo utili, fra incassi ed erogazioni. Che la differenza sia davvero un saldo utili, risulta, nell’opinione dei contabili, esclusivamente dalla circostanza che tale è anche la differenza fra l’attivo netto all’1 gennaio in 30 e l’attivo netto al 31 dicembre in 35 milioni di lire. Se la differenza attiva fra i due inventari non esistesse, mancherebbe il fondamento di chiamare «utile» il cosidetto saldo attivo del conto profitti e perdite. Che 5 sia la differenza aritmetica fra 30 e 35 è certo; ma è certissimo altresì che quella operazione di sottrazione non ha senso, perché i termini di essa sono eterogenei. I 30 milioni sono una quantità numerica di lire riferita all’1 gennaio; laddove i 35 sono un’altra quantità numerica di lire riferita al 31 dicembre. Le unità componenti quelle due masse sono eterogenee perché riferite a tempi diversi. Non si può dire che l’una quantità sia maggiore dell’altra, sì come è impossibile dire che un cavallo sia maggiore di un cammello. Sono due cose diverse, le quali non possono essere sommate o sottratte o moltiplicate o divise l’una all’ o dall’ o per l’altra.

 

 

L’operazione non avrebbe senso; e privo di senso ne sarebbe il significato.

 

 

10. – Per paragonare i 30 ed i 35 milioni riferiti a momenti diversi separati dall’intervallo di un anno gli uomini ricorrono all’espediente del riporto dal principio alla fine, o dello sconto dalla fine al principio dell’anno, dei 30 o dei 35 milioni mercé l’applicazione di un saggio di interesse o di sconto. Se 30 e 35 non sono quantità paragonabili, lo sono (30 più 1,5) e 35, dove 1,5 è l’interesse di un anno al saggio del 5% su 30; ovvero 30 e (35 – 1,666), dove 1,666 è lo sconto di un anno al saggio del 4,762%, uguale ad un saggio di interesse del 5%. Noi ci troviamo di fronte a tre proposizioni:

 

 

  1. 35 (al 31 dicembre) – 30 (all’1 gennaio) = 5

 

  1. 35 (al 31 dicembre) – 31,50 (30 dell’1 gennaio riportato al 31 dicembre) = 3,50 al 31 dicembre

 

  1. 33,33 (35 del 31 dicembre riportato all’1 gennaio) – 30 (all’1 gennaio) = 3,33 all’1 gennaio.

 

 

Intorno alle quali tre proposizioni si può soltanto affermare quanto segue:

 

 

Sulla (1): che la differenza 5 è una cifra di ignoto significato, perché risultante dal confronto fra due quantità esistenti in tempi diversi;

 

 

Sulla (2): che la differenza 3,50 è quella che è valida per la data del 31 dicembre supponendo che le due quantità dal cui confronto essa risulta siano state amendue riportate a quella data;

 

 

Sulla (3): che la differenza 3,33 è quella valida alla data dell’1 gennaio supponendo che le due quantità dal cui confronto essa risulta siano state amendue riportate a quella data.

 

 

La differenza 3,50 al 31 dicembre della (2) è uguale alla differenza 3,33 all’1 gennaio della (3), perché essa risulta altresì dal riporto di 3,33 dall’1 gennaio al 31 dicembre mercé l’applicazione di un saggio di interesse del 5 per cento.

 

 

A che cosa sia invece uguale la differenza 5 nessuno sa, per la mancanza assoluta di significato suo. Nessuno sa se quella quantità sia valida per il momento iniziale o per quello terminale dell’intervallo, ché i due termini si riferiscono l’uno al primo e l’altro al secondo momento. D’altra parte chi può comprendere che cosa sia una quantità che sarebbe tale se riferita non ad un momento dato ma ad un intervallo fra due momenti?

 

 

11. – Eppure i contabili chiamati a scegliere fra le tre differenze dichiarate colle tre proposizioni hanno assunto precisamente come vera la differenza 5 (proposizione prima) della quale non si conosce e forse appunto perché non si conosce il significato.

 

 

Anche questa, come tante altre stravaganze logiche proprie degli uomini, è tollerabile a condizione che, con la sua accettazione provvisoria a guisa di spediente comodo, non sia implicitamente ammesso che uno spediente di significato logico ignoto sia l’unico fondamento della giustizia tributaria.

 

 

Il ragionamento:

 

 

a)    L’imposta deve essere distribuita secondo giustizia;

 

b)    La ripartizione secondo giustizia significa proporzionalità al reddito dei contribuenti;

 

c)    Reddito è la differenza fra gli attivi netti iniziale e terminale del contribuente nel periodo considerato;

 

d)    La giustizia vuole dunque che l’imposta sia proporzionale alla differenza così definita si compone di un assioma (a), evidente solo perché nessuno a priori si dichiara contrario alla giustizia, anche quando non si conosce in che questa consista, di una deduzione (d), valida entro i limiti della validità delle proposizioni precedenti e di due «misteri» (b) e (c). Perché la giustizia voglia la proporzionalità al reddito dei contribuenti, è il primo mistero, del quale, a somiglianza di altri misteri, i quali hanno parimenti a proprio favore il consenso dei popoli, varie sono le faccie: sono tutti o alcuni i contribuenti quelli di cui il reddito deve essere considerato? la proporzionalità è costante, crescente o decrescente? Ma il mistero vero e maggiore è il (c), come fu dimostrato sopra. Come accadde che una quantità logicamente priva di significato sia diventata il segnacolo in vessillo della verità in argomento di definizione del reddito; e che tutti gli altri espedienti che con ostinazione degna di miglior successo i legislatori la consuetudine l’uso immemorabile hanno messo innanzi: la quantità dei beni consumati, gli indici del godimento, il tenor di vita, il flusso normale di frutti derivanti dalle cose materiali e immateriali posseduti, siano stati guardati con degnazione dai sacerdoti della giustizia, pesati con sospetto e rigettati perché calanti in cospetto dell’archetipo assunto dal contabile ad immagine dell’unica verità?

 

 

12. – L’interrogativo non ha affatto per iscopo di affermare che il criterio del tenor di vita, del reddito normale, dei beni goduti, del reddito calcolato per differenza fra quantità omogenee al 31 dicembre (proposizione seconda del par. 10) od all’1 gennaio (proposizione terza) siano preferibili al criterio del reddito «contabile» (proposizione seconda) universalmente adottato dai legislatori. No. Dico soltanto che la boria del reddito «contabile» è di cattivo gusto; e che esso se non vale di meno delle altre definizioni del reddito, non vale certamente di più. Se gli altri criteri peccano, pecca anch’esso. Se gli altri sono arbitrari, esso è irrazionale. A preferire l’uno all’altro criterio non si commette alcun errore evidente inescusabile. A proprio favore il criterio del reddito «contabile» vanta sovra tutti la propria invincibile irrazionalità. Se esso fosse stato razionale, non gli sarebbe stato decretato il trionfo. Trionfò perché era il mistero.

 

 

13. – Una spiegazione razionale del mistero non esiste. È il mito. Durante il secolo decimonono e in questo primo terzo del secolo ventesimo gli uomini hanno adorato il mito, hanno combattuto per esso, hanno sperimentato e costrutto. Hanno anche condannato al rogo i contravventori. Anche nell’umile campo delle imposte non la ragione, ma il mito guida gli uomini.

 

 

I miti, creati dagli eroi che guidano i popoli lungo la via del destino, persuadono gli uomini ad agire perché tratti dal profondo dell’animo umano. Fanno appello al sentimento alla fede al dovere all’eroismo all’amore al mistero. Ma che gli uomini siano mossi ad agire da un mito contabile, da un numero astratto privo di base logica avrebbe dell’incredibile se quel mito non fosse lo strumento di un sentimento profondamente radicato nell’uomo: l’invidia. «Chi sta sopra di me non paga il dovuto» è la reazione spontanea dell’uomo all’imposta. Nessuno confessa di non voler pagare. Tutti dichiarano di voler pagare se altri paghi il dovuto. Homines, esclamava già Tommaso Hobbes, non tantum onus ipsum, quam inaequalitatem graviter ferre solent. Maxima enim ambitione de immunitate certatur, et in eo certamine minus felices magis felicibus tanquam victi invident. Pagare o frodare non giova, se taluno paga di meno o froda di più. Se l’imposta è però sull’atto singolo di consumo o di scambio l’invidia non può operare.

 

 

Manca il termine di confronto fra uomo e uomo. Il confronto è fra cose: chilogrammo e chilogrammo di zucchero o spirito, sigaro o sigaretta, caffè o cicoria. Manca la materia sentimentale del discutere del pretendersi gravato in confronto agli altri. Tutti i contratti di compravendita di case sono simiglianti l’uno all’altro; e non v’ha modo di attaccarsi all’essere la casa piccola in confronto all’altra vasta per pretendere di pagare imposta minore per ogni 100 lire di valore. La casa è morta, non parla; le pietre ed i mattoni e la calce di cui è composta non reagiscono contro l’imposta più alta. La casa diventa viva e reattiva solo se la si vede attraverso l’uomo che la possiede. Il campo uguale all’altro campo non reagisce se è tassato in ugual misura; reagisce invece quando l’uno essendo posseduto dal ricco e l’altro dal povero, al povero balena l’idea che il suo campo, tuttoché ugualmente produttivo, debba sopportare minor imposta di quello del vicino ricco, che egli invidia e i cui beni vorrebbe fare suoi.

 

 

In quel momento il contadino si muta istintivamente in un filosofo utilitarista ammantato in un paludamento contabile. L’invidia, che non può far muovere le cose, muove gli uomini che posseggono le cose, inventa il sistema personale di distribuzione delle imposte e crea il mito contabile del reddito, anima della finanza moderna. Forse non è dimostrabile la razionalità del tassare il campo il tabacco il vino la vettura il palco a teatro; ma è certamente irrazionale, perché priva di significato la tassazione del reddito contabile. Naturalmente, siccome a pro’ della tassazione delle cose mute esiste il beneficio del dubbio laddove è certa la irrazionalità della tassazione del reddito, gli uomini proclamano sola razionale quest’ultima. Ed anche questa è proprietà caratteristica del mito.

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