Opera Omnia Luigi Einaudi

Intorno all’imposta sui giuochi

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1917

Intorno all’imposta sui giuochi

Scritti vari in onore di Tullio Martello, Bari, Laterza, 1917, pp. 195-211

 

 

 

Una critica del prof. Martello è un onore; tanto più quando essa è cortese, viva, frizzante come quella che ho avuto il piacere di leggere nelle Considerazioni in difesa del giuoco d’azzardo legalmente disciplinato (Padova, Drucker, 1914, pag. 53 e segg. e pag. 147 e segg.) a proposito di un mio articolo del «Corriere della Sera». Quando viene da un maestro della scienza e da un superbo polemista, come Tullio Martello, la critica ci fa per un momento illudere di aver scritto qualcosa degno di essere letto, sia pure perché altri ne metta in luce l’errore, ed induce a riflettere ed a ripensare su ciò che forse affrettatamente si era scritto. Neppure omaggio migliore io ritengo di poter rendere al Martello, – nel momento in cui una legge sciocca e dannosa, come sono tutte quelle dettate dall’invidia e dalla assimilazione dell’insegnamento alle carriere burocratiche, lo costringe a scendere dalla cattedra, da lui per tanti anni grandemente onorata, – di una rielaborazione di quel mio breve studio intorno all’imposta sui giuochi.[1]

 

 

Intorno ad un punto mi sembra di dover accettare quello che è il succo della critica del Martello: le qualifiche di «morale» o di «immorale» non hanno nulla a che fare coll’imposta sul giuoco del lotto. Accadde assai di frequente che, scrivendo pei lettori di un giornale quotidiano od anche parlando ai giovani, si sia tratti ad usare una terminologia, che ben si sa essere scientificamente impropria, ma fa prestamente sorgere nel lettore o nell’ascoltare associazioni d’idee uguali o simili a quelle che si desiderano e che altrimenti bisognerebbe ottenere attraverso ad un lungo giro di premesse e di definizioni, impossibile a farsi in quei momenti.

 

 

Quasi ad ogni volta che prendo la penna in mano per rivolgermi a non professionisti, sono costretto ad adoperare termini e fare ragionamenti non rigorosi. Ma non c’è via d’uscita. Quando non si vogliano scrivere articoli lunghi decine di colonne, che ben a ragione tutti i direttori di giornali consegnerebbero al cestino; quando non si vogliano far dormire in piedi gli studenti, bisogna rassegnarsi all’approssimativo ed all’elittico, ed a sentirsi venir addosso la correzione del saccente specialista, il quale in vita sua non seppe mai scrivere una colonna di roba leggibile, ma si compiace deplorare la facilità con cui i pubblicisti trattano di problemi gravi e complessi. Tullio Martello, il quale possiede una delle più agili penne del giornalismo italiano, certamente consentirà che io gli faccia abbandono di tutto il «moralismo» e l’«immoralismo» della terminologia corrente intorno al gioco del lotto. Che cosa importa, ai fini del giudizio da darsi sull’imposta, che il gioco sia considerato morale od immorale, utile od inutile? Qui non è il nocciolo del problema. Quando io debbo decidere se la oblazione pagata dal fedele al sacerdote per la celebrazione della messa sia da assoggettarsi ovvero no alla imposta di ricchezza mobile, io non mi preoccupo minimamente del carattere sacro del ministero sacerdotale. Il problema è fuori del campo tributario: il carattere sacro o temporale dell’ufficio compiuto dal sacerdote non riguarda la finanza; la quale deve rispondere unicamente alla domanda: l’oblazione pagata dal fedele ha i caratteri del reddito, così come è definito dal legislatore? Può il reddito provenire da una fonte altissima o sacra, come l’esercizio della funzione sovrana o sacerdotale; ma se esso è reddito, deve essere, salvo esenzione espressa, soggetto all’imposta. Può il reddito provenire da una fonte reputata turpe dall’opinione pubblica, come è il guadagno della prostituta o del tenitore di bordello; ma se esso è reddito, e se non vi si oppongono difficoltà pratiche di accertamento, da cui qui possiamo astrarre, il fisco ha lo strettissimo obbligo di tassare con l’imposta di ricchezza mobile i guadagni delle prostitute e dei tenitori di bordello, e non può menomamente incorrere nella taccia di manutengolo e sozio nei guadagni del mercimonio. Reddito, di fronte alla finanza, non è ciò che si ottiene per fini o per cause morali od immorali; ma è una somma di denaro che corrisponda a certi requisiti oggettivi, uguali per tutti: sovrani, sacerdoti, soldati, usurai e tenitori di banco da giuoco. Non è tassabile il compendio del furto; non perché esso sia immorale. Bensì perché esso non è reddito. Esso non esiste agli occhi dell’agente delle imposte, il quale potrebbe accertare il compendio del furto al nome di un contribuente solo quando si conoscesse il ladro; ma in quel momento, se esso è noto ed apprensibile, il compendio del furto non è più guadagno, dovendo essere restituito al suo legittimo proprietario. Mentre la prostituta ha il diritto di tenere per sé il prezzo della sua persona; sicché è indiscutibile che esiste reddito e che questo, ove non si voglia infliggere ingiustizia flagrante agli altri contribuenti, deve essere tassato. Non tassare la prostituta, equivarrebbe a dare un premio all’esercizio del mercimonio; sarebbe un far pagare l’imposta ad essa spettante a coloro che esercitano professioni reputate dall’opinione pubblica più degne. Il che non monta, qui, ricercare se sia morale od immorale; poiché, a condannare siffatto privilegio tributario, basta constatare che esso violerebbe la regola dell’uguaglianza, la quale vuole che tutti i redditi siano tassati ed a parità di reddito vuole uguaglianza di tassazione.

 

 

La sola domanda alla quale faccia d’uopo rispondere è dunque la seguente: la somma vinta al gioco è reddito? Alcuni finanzieri, i quali spesso hanno tempo da perdere e si divertono a questioni di parole, propendono forse a dir di no; perché essi o taluni di essi hanno inventato una definizione del reddito tale che vi rientrino dentro solo quelle quantità che ad essi piaccia di chiamare reddito. Dicono, ad esempio, che èreddito il frutto della terra od il salario del lavoro; perché frutto e salario sono il corrispettivo della prestazione dei servigi della terra e del lavoro. E negano che sia reddito la somma ricevuta in eredità; perché essa è gratuita e non risultato di una prestazione. Ma il mondo si ride di queste definizioni cervellotiche dei trattatisti; e dappertutto le eredità sono tassate coll’imposta di successione. I trattatisti vanno contenti, perché il legislatore ha reso loro omaggio, dando il nome di imposta di successione al tributo, che ad essi dispiaceva di veder chiamato col nome di imposta sul reddito; e contenti essi di così poco, contenti tutti. In verità l’imposta è una sola, ed alle sue parti i legislatori, per ragioni eccezionali e contingenti, buone e cattive, fra cui vi è anche quella di fornire il titolo ad un apposito capitolo dei trattati di scienza della finanza, hanno appiccicato nomi svariatissimi. Ma sempre l’imposta, anche quando la si chiama di successione, o di registro, o sul capitale o sulla negoziazione, è ritenuta «equa» quando colpisce un contribuente, il quale più o meno si sia arricchito; «iniqua» quando colpisce chi non si è arricchito.

 

 

L’arricchimento, ecco l’unico connotato saldo, non verbale del concetto di reddito.

 

 

Se noi assumiamo che oggetto dell’imposta sia il reddito, e connotato del reddito sia l’arricchimento, noi necessariamente facciamo alcune semplicissime operazioni mentali: 1) fissiamo una unità di tempo, ad esempio l’anno solare; 2) constatiamo la ricchezza che il contribuente aveva all’inizio dell’anno; 3) quella che il contribuente avrebbe avuto alla fine dell’anno, se non avesse consumato alcuna frazione; e 4) assumiamo come reddito la differenza fra la quantità iniziale e la quantità finale.

 

 

Non monta nulla che i legislatori ed i trattatisti chiamino «reddito» solo quella parte della differenza che è frutto del capitale e del lavoro; eredità quella parte che si è ottenuta per successione o donazione; «vincita al gioco» quella che si è ottenuta col gioco; ed inventino correlativamente tre generi di imposte: sul reddito, sulle successioni e sui giochi. Se non vogliamo pascerci di parole, dobbiamo riconoscere che noi tassiamo tutte quelle tre diverse quantità di ricchezze perché esse sono un arricchimento, ossia un reddito (guadagnato) del contribuente. Se non fossero arricchimento, sarebbe immaginabile l’imposta? E sarebbe tollerabile l’esenzione dall’imposta – lasciamo ai nominalisti la cura di fissarne il nome – quando è certissimo che in tutti i tre casi vi è arricchimento? Qui il Martello muove una obiezione stringente. «Il reddito» – egli dice – «del giuoco d’azzardo non ha ancora trovato il suo nome, per ciò solo che non è un reddito. L’azzardo dà e toglie al giuocatore; gli prende oggi e gli restituisce dimani; restituisce oggi ciò che gli ha tolto ieri; è un va e vieni, un vieni e va; come il flusso ed il riflusso del mare, che ora lascia la spiaggia asciutta ed ora la copre coll’onda che vi si frange e spumeggia».

 

 

Il Martello ha colpito un punto vivo del problema; ma un punto di seconda, non di prima approssimazione. Altro è decidere se la vincita, quando esista, sia un arricchimento e debba essere tassata; altro è constatare la sua reale esistenza. Non mi sembra possibile il dubbio che, se la vincita esiste, essa è un arricchimento ed è correttamente soggetta ad imposta. In una seconda approssimazione del problema, è legittimo porsi il problema: quando la vincita cominciò ad esistere? Il problema non è peculiare alle vincite al giuoco. Esiste per tutte le specie di redditi. Per tutte il legislatore ha dovuto risolvere il problema fino a qual punto si doveva fare la compensazione fra le perdite ed i guadagni, per ottenere il guadagno netto. La soluzione ideale forse più perfetta sarebbe stata quella di assumere come unità di tempo la vita dell’uomo e come unità di soggetto l’uomo. Solo alla fine della vita dell’uomo si può fare un bilancio esatto delle perdite e dei lucri e tirare le somme. Forse nemmeno basterebbe, perché la vita dell’uomo è la continuazione della vita dei genitori ed è continuata dai figli. Ma, per non esagerare, potremmo fermarci lì. Tuttavia nessun legislatore è giunto a tanto. Un’approssimazione vaga a tale ideale si trova solo nelle imposte di successione. Per la maggior parte delle altre imposte l’unità di tempo è assai più breve ed è determinata da esigenze finanziarie. Nelle imposte sui redditi-frutti si fa la compensazione delle perdite e dei guadagni dell’anno; nelle imposte di successione delle attività e delle passività dell’asse ereditario per ogni singola eredità. Spesso i legislatori non hanno neppure assunto ad unità di soggetto l’uomo, sibbene le cose singole possedute dall’uomo. È il caso delle cosidette imposte reali, per cui a torto si tassa il reddito del fondo rustico od urbano, senza tener conto neppure delle passività ipotecarie gravanti sul fondo stesso.

 

 

Il problema è dunque di applicazione. Quale sarà l’unità di tempo scelta per la tassazione dei redditi di giuoco? Se si scegliesse l’anno, farebbe d’uopo fare la compensazione tra i guadagni e le perdite ottenute da ogni giuocatore durante l’anno. Se la cosa fosse possibile, non vi sarebbero obbiezioni di principio. Suppongo tuttavia che nessuno ritenga la cosa possibile. Le imposte non si mettono per ostentazione. Non devono essere solo scritte sulla carta; devono essere esatte. Come si potrebbe esigere l’imposta, se essa non fosse esatta subito appena verificatasi l’eventualità della vincita? Come garantirsi della solvibilità del contribuente, come impedire il moltiplicarsi delle quote inesigibili?

 

 

L’imposta sul giuoco deve per necessità colpire l’evento singolo della vincita. Quando si verifica, è certo il fatto dell’arricchimento. Non importa nulla che il giuocatore in seguito perda la somma guadagnata. A questa stregua, nessuna imposta si potrebbe istituire sul reddito. Io non affermo che le imposte sul reddito od arricchimento siano perfette;[2] ma, se si vogliono istituite, esse hanno una propria logica alla quale fa d’uopo obbedire. Ogni guadagno può essere riperduto; e normalmente tutti i guadagni sono spesi. Se non si vogliono tassare le vincite al giuoco perché si possono riperdere in seguito le somme guadagnate, ossia perché il giuocatore vuole nuovamente procurarsi l’emozione di spendere l’ammontare della vincita in nuove giuocate, non si dovrebbe tassare alcun reddito perché i redditi si spendono per ottenere cibo, vestiti, divertimenti, donne, viaggi ecc. ecc. Chi non voglia introdurre, come finanziariamente non si deve, alcun criterio morale nella discussione, non può fare alcuna differenza tra i due casi; e deve concludere che bisogna fare astrazione, per giudicare della tassabilità, dall’uso che della vincita o del reddito si farà. L’uso sarà buono o cattivo, a seconda delle opinioni dei moralisti; sarà savio o pazzo. Agli effetti dell’imposta sui guadagni, l’uso del guadagno non monta. Il diritto dello Stato all’imposta sorge quando si accerta l’esistenza del guadagno.

 

 

Vogliamo invece partire dal concetto che l’imposta deve essere stabilita sulla ricchezza consumata dai contribuenti? È la tesi da me sostenuta nella citata memoria Intorno al concetto del reddito imponibile. Non ha avuto quella tesi, sebbene pacifica tra parecchie generazioni di economisti, una buona stampa tra gli studiosi di finanza. Ma ciò non importa ai fini della presente dimostrazione. Chi non accetta la tesi, volti carta, ché egli deve necessariamente accettare il concetto che l’imposta debba colpire i redditi, i guadagni, gli arricchimenti; e di ciò si è detto sopra a bastanza. Quei pochi, i quali sono al pari di me persuasi che oggetto dell’imposta debba essere la spesa compiuta dagli uomini, dagli uomini, devono essere anche persuasi che la tassazione delle giuocate è un elemento integrante del sistema tributario. Il reddito si può spendere in molte maniere, tra cui una è il giuoco. Se si ritiene che debba essere colpita da imposta tutta la spesa, necessariamente deve essere tassata quella parte che è destinata a comprare il piacere di correre l’alea di una vincita. Non v’è alcuna ragione per tassare il vino, il tabacco, il caffè, le automobili e per esentare le giuocate. L’esenzione sarebbe un privilegio. Su questa conclusione chiarissima non occorre spendere altre parole.

 

 

Tassare le vincite (imposta sul reddito od arricchimento in caso di vincita) o le giuocate (imposta sul consumo delle speranze di vincere al giuoco) è praticamente la stessa cosa. Pagare 1 lira la giuocata invece che 50 centesimi, è, in media, la stessa cosa che riscuotere 50 invece che 100 lire a titolo di vincita. Nell’un caso a parità di vincita, si raddoppia il prezzo; nell’altro caso, a parità di prezzo, si dimezza la vincita. È indifferente discorrere nell’un modo o nell’altro; e la scelta può essere lasciata allo studioso, il quale si deciderà a seconda che egli ritenga doversi colpire la spesa ovvero il reddito.

 

 

Rimane un problema da risolvere: la misura dell’imposta. Dovrà questa essere alta o bassa, maggiore o minore di quella gravante sugli altri redditi o consumi, proporzionale o progressiva? Anche qui, non v’è motivo di applicare all’imposta sui giuochi criteri differenti da quelli che valgono per le altre imposte.

 

 

Chi parte dal concetto che oggetto dell’imposta sia il reddito o guadagno od arricchimento od acquisto di ricchezze (sono queste parole tutti sinonimi) durante un dato spazio di tempo, probabilmente distingue nel reddito varie parti a seconda della provenienza del reddito. È il criterio cosidetto della «diversificazione» dei redditi, adottate da moltissimi legislatori, i quali tassano di più il reddito dal capitale, di meno quello proveniente dal lavoro misto a capitale ed ancor di meno quello proveniente da lavoro. Varie sono le motivazioni che possono darsi di questa regola; né qui è luogo adatto per esporle. Possiamo accettarla come una premessa di fatto. Il quesito al quale soltanto qui si deve rispondere è: a quale categoria assimileremo il reddito delle vincite da giuoco? La risposta data dai legislatori, nei casi nei quali le vincite furono assoggettate al regime generale delle imposte, invece che ad una imposta speciale, fu che esse dovessero essere colpite con la aliquota massima. Da noi, a cagion di esempio, le vincite alle «lotterie» sono tassate con l’imposta di ricchezza mobile ai quaranta quarantesimi; ossia appunto con l’aliquota massima. Sembrerebbe difficile, invero, assimilare i redditi delle vincite al giuoco a redditi di lavoro. Sovratutto quando si tratta di giuoco d’azzardo, dei quali in ispecial modo si discorre in tema di imposte, un rapporto logico fra la vincita ed un lavoro, manuale od intellettuale o di qualunque altra specie, compiuto dal giuocatore, non si riesce a vedere. Od almeno la collaborazione del lavoro del giuocatore al capitale (posta) nella produzione del reddito «vincita» è così tenue, che si può praticamente trascurare. Se un rapporto di causalità vi è, trovasi tra la posta e la vincita. Chi compra un biglietto di lotteria od una firma del lotto o punta su un numero ad un altro gioco d’azzardo fa un atto paragonabile a chi acquista un titolo in borsa. Impiega un capitale, da cui spera, invece che un interesse fisso, un guadagno eventuale di vincita. Sembra di essere su terreno fermo quando si conclude che la «vincita» deve essere trattata fiscalmente alla stessa stregua di tutti gli altri redditi di capitale; ossia con la aliquota più alta adottata nelle leggi del paese in conformità al principio della diversificazione dei redditi.

 

 

Ma non basta. Coloro, i quali ammettono che si debba distinguere fra redditi di capitale, misti e di lavoro, procedono oltre nella loro classificazione. Essi distinguono, in ognuna delle tre categorie dette sopra, fra redditi normali e redditi ultranormali; fra redditi semplici ed ultraredditi o rendite. Badisi che io, specie per tutto quanto riguarda la tassazione dei redditi, mi limito a trarre od a riprodurre da altri le conseguenze logiche di un principio, il quale poco mi interessa, data la mia propensione a favore della imposta sulla spesa. Qui discuto il problema da tutti i suoi aspetti; e poiché molti scrittori e legislatori affermano che l’imposta deve colpire i guadagni, occorre vedere quale sia la posizione in cui si trovano quegli speciali guadagni che sono i guadagni di giuoco. Se noi classifichiamo i redditi di puro capitale, a seconda del rapporto percentuale che intercede fra il capitale impiegato ed il provento ottenuto, diremo, ad esempio, che sono normali i redditi che non superano il 6 per cento del capitale; ed ultranormali quelli che superano il 6 per cento. Molti scrittori ed alcuni legislatori sostengono che i redditi ultranormali debbono essere colpiti da una imposta complementare tanto più elevata quanto più il reddito supera il tasso normale. Chi è fautore di questa tesi, non può logicamente non approvare che le vincite al giuoco siano colpite, oltreché dalla imposta normale che colpisce tutti i redditi di capitale puro, da una imposta complementare la quale sia graduata in ragione della «ultra-normalità», diciamo così, delle vincite al giuoco. Poiché le vincite giungono al 1000, 2000, 10,000, 100,000 e più per cento della posta, ossia del capitale impiegato, è logica la tassazione delle vincite con imposte addizionali, le quali duplichino e triplichino la imposta normale sui redditi di capitale puro. Se l’aliquota normale è del 20 per cento, è perfettamente logico che l’addizionale sia del 20, del 40, del 60 per cento e più. Chi approva l’imposta sui sopraprofitti di guerra, deve approvare l’imposta sulle vincite al giuoco.

 

 

Ancora. Molti scrittori e legislatori ritengono che non solo l’origine del reddito o la sua normalità forniscano argomento ad una diversificazione di aliquote; ma anche la massa assoluta del reddito. È la teoria della progressività dell’imposta. Chi accoglie questa dottrina deve approvare che l’imposta sulle vincite al giuoco sia relativamente bassa sulle vincite di determinati e di ambi, in cui la somma vinta, a parità di posta, è piccola; più alta per i terni, e massima per i quaterni, in cui tanto più vistosa è la vincita.

 

 

Sento il prof. Martello obbiettare: falsa la premessa che l’imposta debba variare a seconda dell’origine, della normalità e della grandezza del reddito; false dunque le illazioni relative all’imposta sui giuochi.

 

 

L’obbiezione, se fosse fatta, non sarebbe pertinente. Io non affermo che sia corretto:

 

 

1)    tassare i redditi o guadagni;

 

2)    tassare di più i redditi di capitale che quelli di lavoro;

 

3)    tassare di più i redditi ultranormali che i redditi normali;

 

4)    tassare di più i redditi grossi che i redditi piccoli.

 

 

Alcune di queste proposizioni mi sono antipaticissime; a partire dalla prima, la quale non mi sembra accettabile, se non con molte cautele, che altrove esposi.

 

 

Ma affermo che l’imposta sulle vincite al giuoco non può essere approvata o condannata per motivi suoi proprii. Essa è un individuo di una specie. Cade o sta in piedi con la specie di cui fa parte. Gli argomenti addotti contro l’imposta sulle vincite al giuoco in tanto sono validi in quanto essi siano argomenti buoni contro i tipi generali d’imposta a cui essa si informa. Il prof. Martello è logico quando condanna i tagli progressivi operati nelle vincite teoriche al gioco del lotto, perché egli è avversario irriducibile della imposta progressiva. Ma sarebbe illogico chi in una pagina del trattato approvasse ed esaltasse l’imposta progressiva e, voltando carta, fosse veduto qualificare di furto l’imposta sulle vincite al giuoco. Le caratteristiche logiche dell’imposta sulle giuocate (consumi di speranze di vincite al giuoco) sono altrettanto evidenti per chi ritenga che oggetto dell’imposta deve essere la spesa.

 

 

Partiamo dalla premessa che l’imposta sulla spesa per essere perequata od equa od uguale – parole che sono sinonimi – dovrebbe colpire con uguale proporzione il valore di tutte le merci e di tutti i servizi consumati dagli uomini. Ma di fatto è impossibile costruire una imposta di questo genere; poiché darebbe luogo in molti casi ad un costo altissimo ed in molti altri alla impossibilità assoluta dell’esazione. È giocoforza limitare la tassazione ad alcuni pochi consumi: a quelli i quali potendo essere monopolizzati dallo Stato o colpiti da imposte di fabbricazione e quindi da dazi doganali danno un cospicuo provento, con piccolo dispendio, al fisco.

 

 

Quindi la sperequazione. Le poche imposte possibili sono sperequate rispetto alla spesa totale dei contribuenti.[3] Quindi tutto un gioco di contrappesi, grazie al quale il peso di alcune imposte su talune categorie di contribuenti giova a controbilanciare l’eccessivo peso di altre imposte su altre categorie di contribuenti. In questo gioco di contrappesi, l’imposta sulle giuocate quale compito ha? Uno analogo a quello delle imposte sui tabacchi, sulle automobili, sulle vetture, sui domestici ecc. ecc. Alcune imposte, come quelle sullo zucchero, sul caffè, sugli illuminanti, – a tacere di quelle sul pane e sul sale, le quali in un buon sistema tributario si suppongono inesistenti[4] – premono proporzionatamente assai più sulla spesa delle famiglie laboriose, modeste, degli scapoli, degli oziosi. Le imposte suntuarie sui giuochi, sui tabacchi, sulle automobili, sui domestici, opportunamente congegnate, hanno per iscopo di fornire un contrappeso a quelle prime. È un contrappeso approssimativo, ottenuto per tentativi; ma è quanto di meglio si può ottenere in materia di tributi. Affinché il contrappeso agisca efficacemente, occorre variare l’aliquota, tenendola tanto più alta quanto più il consumo colpito è indice di larghezza di spesa complessiva, di pochezza dei consumi primari, di scarsa importanza data ai consumi di specie, relativi alla istruzione ed alla educazione della figliuolanza. Perciò, indipendentemente da ogni considerazione morale, è alta la percentuale dell’imposta sul prezzo dei tabacchi e delle bevande alcooliche ed è altissima, dal doppio a nove volte tanto, l’imposta sul prezzo delle speranze di vincere al gioco. L’imposta, che sarebbe sperequata in rapporto al singolo consumo, diventa così perequata, nei limiti del possibile, in rapporto alla spesa totale del contribuente.

 

 

Spiegata l’imposta sul gioco e collocata nel quadro generale dei sistemi tributari, le modalità pratiche di applicazione conservano solo una importanza subordinata.

 

 

Un problema, che a molti studiosi pare grosso, quello del monopolio del gioco del lotto, diventa un puro problema tecnico. Dato che si voglia stabilire una imposta sulle giuocate e sulle vincite al giuoco, quale è il mezzo tecnicamente più perfetto per raggiungere l’intento? Una soluzione sola sembra da scartarsi. Dove è temibile il giuoco clandestino, dove si tratta di piccolissime imprese o banchi, probabilmente il monopolio è il metodo tecnico più opportuno per riscuotere l’imposta voluta. Dove il giuoco è connesso con altre imprese economiche – corse di cavalli, luoghi di cura, teatri, – è più consigliabile l’imposta di fabbricazione. Né il monopolio, né l’imposta di fabbricazione vogliono sostanzialmente dire che lo Stato eserciti l’industria del giuoco, o divida a metà i proventi netti coi tenitori di banco. O se così è, lo Stato si comporta di fronte a questi guadagni ed a questi imprenditori precisamente come di fronte ad ogni altro guadagno e ad ogni altro imprenditore. Anche il monopolio dei tabacchi è un metodo tecnico, probabilmente il più perfetto, di riscuotere l’imposta sul consumo dei tabacchi; né l’imposta sulla fabbricazione dello zucchero vuol dire che lo Stato intende partecipare ai lucri dei zuccherieri. Lo Stato non si occupa, od almeno non se ne occupa in qualità di finanziere, della moralità dell’industria esercitata, o della importanza dei guadagni del fabbricante; ma guarda esclusivamente all’oggetto che vuol colpire: ossia alla spesa fatta dal consumatore. E questa raggiunge quando col metodo tecnico del monopolio e quando con quello dell’accisa. Il criterio, unico, di scelta fra i varii metodi è tecnico-economico: quale dei due metodi frutta di più e costa di meno, a parità di tributo pagato dal consumatore?

 

 

Non lieve è l’importanza, sebbene di applicazione, che hanno le modalità con cui l’imposta sul giuoco del lotto è regolata in Italia. Accennerò ad una sola capitalissima circostanza: l’imposta è in Italia congegnata in modo che l’esistenza dell’imposta stessa non è conosciuta dai giocatori. Costoro sanno che nell’estratto semplice la vincita è uguale a 10 e mezzo volte la posta, nell’estratto determinato a 52 e mezzo, nell’ambo a 250, nel terno a 4250 e nel quaterno a 60,000 volte la posta. Poiché altro non è detto, molti scrittori affermano che il giuoco non è equo, perché lo Stato dovrebbe invece pagare, in cifre tonde, 17.50-87.50-420-10,600 e 500,000 volte la posta. Quindi lo Stato è un ladro.

 

 

L’obbiezione, se sono estratte le ragioni con le quali sopra si spiegò l’esistenza dell’imposta, non è valida contro la sostanza di essa. È valida solo contro la sua forma. Ognora quando la cosa sia possibile, è politicamente opportuno dare il nome proprio di imposta a quelle che tali sono realmente. L’illusione tributaria è sempre un danno politico e finanziario. Il governo rappresentativo è fondato sulla presunzione che i cittadini sappiano valutare e bilanciare i vantaggi dei servizi pubblici ed i loro costi (imposte). Or come è possibile una esatta valutazione, quando di talune imposte è nascosta ai più la conoscenza, a causa della forma illusoria assunta dall’imposta? Invece di lamentarsi della eccessiva imposta prelevata dal fisco sulle vincite al giuoco, ci si lamenta contro il governo il quale bara al giuoco. La prima querela può essere ragionevole e feconda; la seconda è priva di significato perché è una battaglia contro un mulino a vento. Non si può discutere contro l’iniquità della vincita troppo piccola in confronto alla posta; perché tale cosiddetta iniquità è un mezzo tecnico voluto dal legislatore per raggiungere il fine vero di colpire con l’imposta le vincite. Le critiche dovrebbero essere rivolte contro l’imposta e non contro il mezzo tecnico usato per prelevarla.

 

 

Tuttavia, poiché l’apparenza delle cose ha gran peso nelle immaginazioni e nelle azioni degli uomini, gioverebbe assai mutare la forma delle imposte così da renderne chiara a tutti l’esistenza. Ecco la variazione nell’ammontare delle vincite per una lira di posta:

 

 

 

 

Forma attuale

 

Forma corretta

 

Vincita reale

Vincita nominale

Imposta sulla  vincita

Vincita reale

Estratto semplice

10.50

17.50

40%

10.-

Estratto determinato

52.50

90.-

45%

40.50

Ambo

250.-

420.-

50%

210.-

Terno

4,250.-

10,000.-

60%

4,000.-

Quaterno

60,000.-

600,000.-

90%

60,000.-

 

 

Le vincite e le percentuali sono arrotondate; e sono qui addotte solo ad esemplificazione del metodo, la cui adozione ritengo opportuna per ragione di sincerità politica e finanziaria. Qualora siffatto metodo fosse adottato, si otterrebbero i seguenti risultati:

 

 

  • tutti i giocatori saprebbero che, ad esempio per il quaterno, la vincita «equa» secondo le ragioni del giuoco, sarebbe di 600,000 lire per ogni lira di posta;

 

  • saprebbero che sulla vincita nominale il fisco preleva una imposta del 90 per cento, riducendo così la vincita netta a 60,000 lire;

 

  • nessuno alzerebbe la sua voce contro lo Stato «baro al giuoco»; poiché lo Stato correttamente annuncerebbe l’ammontare corretto della vincita;

 

  • tutti si eleverebbero eventualmente contro lo Stato «tassatore»; il quale, a parere dei critici, preleverebbe imposte «eccessive» ed «ingiuste»;

 

  • la discussione verrebbe riportata al suo vero punto: ed i critici sarebbero costretti ad addurre buone ragioni contro le ragioni, che a me paiono fondate, sovra addotte a favore delle imposte alte sulle vincite al giuoco o sulle giuocate.

 

 

Gioverebbe ancora, a configgere sempre più, anche con l’apparenza esteriore, nella mente dei giocatori l’idea che il giuocatore paga un’imposta sui redditi o sui consumi della stessa indole delle altre consimili imposte, affidare l’esazione dell’imposta sui giuochi (del lotto ed altre) alle agenzie delle imposte od alle ricevitorie del registro.

 

 

Nessun botteghino del lotto; ed invece uno sportello aperto negli uffici delle imposte ordinarie.

 

 

Sembra che questo stimolo esteriore sia necessario per indurre altresì gli scrittori ad abbandonare la fraseologia dello Stato «ladro» e «baro» per porre il problema nella sua vera posizione, che è esclusivamente quello tributario. Non è possibile costruire la teoria dell’istituto dell’imposta sui giuochi finché l’imposta non sia studiata sotto la sua vera luce, che è tributaria e non morale. Ho cercato perciò nel presente scritto di non indulgere a nessuna deviazione verbale.

 

 

Sarebbe utile che una discussione fosse iniziata in modo corretto intorno all’imposta sui giuochi. Una eventuale condanna di essa sarebbe in tal caso conclusiva, perché fondata su motivi pertinenti alla materia tributaria. Naturalmente la discussione tributaria suppone che le giuocate o le vincite al giuoco esistano. Se per altri motivi, politici o morali, lo Stato reputasse di doverle sopprimere e punire, come oggi punisce il furto, più non esisterebbe la materia tributaria del disputare, perché la posta o la vincita sarebbero confiscate, così come si confiscano i grimaldelli del ladro, la cacciagione proibita e simili. Qui non ha luogo la discussione finanziaria, poiché non si discute intorno all’inesistente. Soltanto partendo dall’ipotesi che il giuoco esista valgono le precedenti brevi riflessioni.

 

 



[1]Di questo argomento mi sono anche occupato nel mio Corso di Scienza delle Finanze, Torino, II ediz., 1914, pag. 367 e segg., e III ediz., 1916, pag. 295 e segg.

[2]Vedi la mia memoria Intorno al concetto del reddito imponibile, in Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino, serie II, vol. XLIII, Torino, 1912.

[3]Per una dimostrazione di tutto ciò cfr. il citato Corso, III edizione, pag. 194 e segg.

[4]Si suppongono inesistenti o si fa astrazione dall’esistenza delle imposte protettive, le quali hanno scopi non tributari. La finanza delle imposte istituite per ottenere intenti morali od economici è importante, ma di essa qui non importa occuparci.

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