Opera Omnia Luigi Einaudi

Introduzione – Cattaneo, Saggi di economia rurale

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1939

Introduzione – Cattaneo, Saggi di economia rurale

Carlo Cattaneo, Saggi di economia rurale, Einaudi, Torino, 1939, pp. 9-46

 

 

 

Carlo Cattaneo (15 giugno 1801 – 6 febbraio 1869) ebbe parte grande nelle cinque giornate milanesi; dopo il lungo esilio nella Svizzera italiana dal 1848 al 1860, ripetutamente eletto, non volle, per serbarsi fedele all’ideale repubblicano federale, por piede nell’aula del parlamento italiano; e morì, rimpianto da pochi fedeli, quasi fosse uno sconfitto della politica.

 

 

Alla quale non era nato e ciò sapeva e diceva. La sua grandezza è negli scritti: dal saggio su Le interdizioni israelitiche, esame serrato dei divieti posti all’attività economica degli ebrei nei secoli scorsi (1836), al capolavoro che è l’introduzione posta al volume di Notizie naturali e civili sulla Lombardia offerto agli scienziati italiani convenuti nel 1844 a Milano. Magnifico quadro antropogeografico della terra lombarda e del modo come essa fu trasformata in millenni di storia dal lavoro dell’uomo, l’introduzione è, in superbo scorcio, uno «spaccato» della storia d’Italia (Croce). Il libretto su L’insurrezione di Milano del 1848, l’Archivio triennale delle cose d’Italia dall’avvenimento di Pio IX all’abbandono di Venezia, sono testimonianze della sua azione e passione politica e del suo scrupolo di studioso raccoglitore di documenti.

 

 

Chi guardi all’indole occasionale degli scritti del Cattaneo, può rimpiangere che egli dall’osservazione critica degli avvenimenti del suo tempo sia stato impedito di darci l’opera di gran lena che si suol attendere dagli uomini di genio. Chi legga gli scritti del Cattaneo, lo ammira filosofo storico politico critico filologo glottologo economista statistico tecnico agronomo, in ogni campo insigne. Con saggi originali recensioni e notizie, diede assidua collaborazione a due riviste non sue: dal 1833 al 1838, per invito del Romagnosi, agli Annali universali di statistica, e dal 1851 al 1859 al Crepuscolo diretto da Carlo Tenca. Sovratutto creò Il Politecnico, grande tra le riviste formatrici dell’Italia del risorgimento, e lo redasse, talvolta quasi per intiero, prima dal 1839 al 1844 e poi di nuovo dal 1860 al 1865.

 

 

Non oso e non voglio dare di lui giudizio nei campi diversi ai quali egli attese, dalla varietà e diversità dei quali taluno può trarre argomento a noverarlo tra i pochi «enciclopedici» italiani del secolo decimonono. La lode par dubbia, quando sia data a chi non abbia saputo approfondire nessun problema, pur di tutti vedendo i legami e le leggi regolatrici generali. Ho ordinato il presente volume per dimostrare invece che nessuno, meglio di Cattaneo, mente universale, scrutò più a fondo un problema particolare: la edificazione della terra coltivata. Cattaneo veniva da famiglia di montanari divenuti fittabili; ma nacque da genitori che s’erano inurbati ed ebbe sempre, vivissimo, l’orgoglio del cittadino. Forse perciò, connettendo la campagna alla città, vide più a fondo dei puri rurali nelle ragioni del prosperare e del decadere della terra. Dire che Cattaneo scrisse sulla terra lombarda pagine classiche per la forma serrata ed il ragionamento vigoroso è dir poco. Voglio aggiungere che i giovani dovrebbero meditare sulle sue pagine come possa miracolosamente darsi il connubio tra lo splendor della forma letteraria e il rigore della scienza.

 

 

Leggiamo insieme i paragrafi con i quali si inizia l’Introduzione alle Notizie naturali e civili sulla Lombardia e nei quali è detto come si sia formata e che cosa sia la Lombardia (1). Le Alpi Retiche, che dividono la nostra valle adriatica da quelle dell’Inn e del Reno versanti a più lontani mari, sono un ammasso di roccie serpentinose e granitiche, le quali emersero squarciando e sollevando con iterate eruzioni il fondo del primiero oceano, in quelle remote età geologiche, che sembrano ancora un sogno dell’immaginazione. Fu quello il primo rudimento della terra d’Italia.

 

 

Gli antichi sedimenti del mare, parte s’inabissarono e confusero in quelle voragini roventi, aggiungendo mole a mole; parte riarsi e trasformati, ma pure serbando traccia delle native stratificazioni, copersero i fianchi e i dorsi delle emersioni consolidate. Il torbido mare accumulò successivamente altri depositi, che si collocavano in giacitura orizzontale presso ai sedimenti anteriori già sollevati e contorti; e mano mano che la vasta opera delle emersioni si andava inoltrando e dilatando, sollevati e raddrizzati anch’essi, si atteggiavano in tutte le discordi inclinazioni, che ci attestano la successiva serie di quei rivolgimenti.

 

 

Nelle masse così deposte dominava, secondo la successiva natura delle acque, ora la sostanza silicea, ora l’argillosa cementata di poca calce, ora la calcare. Così fu costrutta la triplice regione dei nostri monti; nella quale i serpentini verdastri e negreggianti composero insieme ai graniti silicei la gran catena delle Alpi Retiche; le rocce trasformate e le arenarie rosse, rivestite al piede dalle ardesie, formarono, a guisa d’alto antemurale, la catena delle Prealpi Orobie; nelle cui propagini più meridionali i sedimenti calcari e dolomitici costituirono un altro ordine di monti, d’altezza poco meno che alpina.

 

 

A perturbarne e rialzarne le estreme falde, sopravvenne in era meno lontana una seconda serie di moti sotterranei, simili a quelli che avevano sollevato le interne regioni. E produssero quella interrotta zona d’emersioni pirosseniche e porfiriche che, come più fluide e meno silicee, sospinsero a minore altezza le masse delle stratificazioni, fra le quali si apersero il varco. Nel corso dei secoli le acque travolsero per il declivio dei monti alle prossime parti del piano i frammenti delle varie rocce. A poco a poco si colmò il golfo che aveva deposto lo strato cretaceo, e che in margine a quello accumulava i vari conglomerati e le argille e marne subapennine. Le acque si ritrassero dall’altopiano; e lungo il cammino dell’ultimo loro soggiorno, il tardo osservatore raccolse interi scheletri di balene e delfini, e gli ossami degli elefanti che vagavano per le circostanti maremme.

 

 

Le estreme convulsioni della volta terrestre sempre più solida e potente, nel dar leva alle grandi moli dei monti calcari, produssero le profonde squarciature dei laghi; torturarono ed eressero le stratificazioni degli infimi colli; e qua e là sollevarono a mirabili altezze i frammenti erratici, sparsi sulle spalle dei minori monti. Per opera d’altre emersioni sorgevano intanto a levante, a ponente, a mezzodì le terre della Venezia, della Liguria, del Piemonte. Il sublime arco delle Alpi era proteso fra i due golfi, che l’Apennino aveva poscia divisi, sollevando in più tarda età le sue pendici ingombre dai sedimenti cretacei. Allora le onde del Mediterraneo non percossero più le falde delle nostre montagne; e la frapposta regione fu un’ampia valle, aperta all’oriente, e cinta di continui gioghi nelle altre parti.

 

 

Così erano preparati i lontani destini del popolo che doveva abitarla. Le gelide Alpi la dividevano dalle terre boreali e occidentali; l’umile Apennino ligustico appena la dipartiva dalle riviere del Mediterraneo; il corso delle acque confluenti in poderoso fiume la collegava all’Adriatico; e ambo i mari la congiungevano alla bella penisola che tengono in grembo. Anche la nostra patria era Italia. Ma nel seno stesso della valle cisalpina, quella parte che noi descriviamo sortiva forme sue proprie, per le quali si distinse e dalla parte subapennina, e dalla Venezia, e dal Piemonte. La catena delle Alpi, partendo dal monte Stelvio, scorre a occidente fino al Gottardo; e quivi con subito angolo si volge poco meno che a mezzodì fino al monte Rosa.

 

 

Con altro simil angolo si dirama dallo Stelvio un’altra catena, che si spinge ben avanti nella pianura, separando dalla valle dell’Adige i nostri fiumi tributari del Po. Laonde, se a ponente giganteggia il monte Rosa, a levante sorgono a prossima altezza il Cristallo e l’Adamo. Questa Catena Camonia non è alpe: non circonda l’Italia: solo divide l’interno e domestico dominio dei due primieri suoi fiumi: ma nella maggior sua mole è costrutta delle stesse emersioni serpentinose e granitiche; ed è ammantata di larghi ghiacciai, e così eccelsi, che, tranne il monte Bianco e poche altre vette delle Alpi occidentali, ella oltrepassa tutte le altre sommità dell’Europa.

 

 

Per tal modo, dalle Alpi Pennine alle Prealpi Camonie, un ampio semicerchio chiude a settentrione, e separa dal dominio non solo dell’Inn e del Reno, ma della Sesia, del Rodano e dell’Adige, quella parte della regione cisalpina onde il Ticino, l’Adda, l’Ollio e il Mincio discendono al Po. Una zona di grandi e profondi laghi, che forma corda all’arco delle suddescritte montagne, accoglie alle loro falde le piene precipitose, che i disgeli e le piogge chiamano dalle riposte valli; e porge le acque rallentate e chiare ai successivi fiumi; le cui limpide correnti, quasi nulla apportando e sempre togliendo, poterono incavarsi il letto sotto al livello della pianura.

 

 

E il margine estremo di questa, elevandosi alquanto anche su le prossime campagne, è durevole monumento delle alluvioni che quei fiumi diffondevano lungo le loro sponde, allorché, scendendo da valli ancora senza lago, scorrevano torbidi e superficiali, come vediamo i fiumi alpini del Piemonte e i torrenti dell’Appennino, che ingombrano di continue ghiaie il letto del Po. Benché codeste alluvioni fluviali ascendano a enorme congerie, pure da tempo immemorabile il gran fiume non elevò il suo letto, come fu sì comunemente supposto e ripetuto.

 

 

Le torbide fiumane dell’Apennino arrivano in poco d’ora al Po; solo quando esse vanno già declinando, si fanno minacciose le piene delle interne acque del Piemonte; ultimi sopraggiungono il Ticino, il Mincio e gli altri nostri fiumi, rattenuti e riposati nei laghi; e corrodendo con acque più gonfie che torbide le recenti alluvioni, le sospingono a poco a poco per l’alveo del fiume a colmare le sue marine. – La stessa mirabile successione di movimenti che conserva stabile e libero il letto del Po, ne modera eziandio le acque; e anche solo a colmarne il vasto alveo si spendono già parecchi giorni di piena impetuosa.

 

 

La geografia dei fiumi, nascente ancora, si ristringe quasi solo a compararne le lunghezze, e a dir maggiore il fiume le cui fonti sono più lontane dalle foci e più spazioso il bacino, mentre anche per essi, come nei regni umani, la vastità non è misura della potenza. Il corso del Reno è lungo il doppio di quello del Po, ma il volume d’acqua del fiume italico supera quello del Reno, anche dove il fiume germanico, raccolti tutti i suoi tributari e non per anco diviso,

spiega il sommo della sua pompa. – Ora, questo paragone dei fiumi simboleggia in breve formula tutte le circostanze fondamentali d’un paese. Il corso continuo dell’Adda rappresenta uno strato acqueo, il quale coprisse a notevole altezza tutta la superficie del suo bacino; ma le acque che colano annualmente nella Senna, diffuse su tutta la superficie del suo bacino, appena giungerebbero alla settima parte di quell’altezza.

 

 

Che avviene dunque delle piogge che discendono sotto quel cielo tanto men sereno del nostro? – Nel bacino della Senna cade veramente men acqua che fra noi; e cade poi dispersa in minute e frequenti piogge, che anche nell’estate fanno tetro il cielo e fangosa la terra, svaporando largamente prima di giungere al fiume, il quale appena riscuote dalla vasta campagna un terzo della pioggia che vi scende. Nella nostra valle, la stagione più piovosa è l’autunno; men piovosa è la primavera, meno ancora l’estate; anche nella parte più bassa e acquidosa della pianura, il sereno regna la metà dei giorni dell’anno; nella zona media, più della metà: sull’altopiano, più ancora; e il maggior numero di questi limpidi giorni è nell’estate. Le acque scendono dunque in generose piogge; poca parte si sperde in vapori; il più scorre impetuoso ai fiumi; onde il Po riceve la maggior parte delle acque pioventi nel suo bacino, e l’Adda più ancora.

 

 

L’Adda non segue col suo deflusso l’andamento delle piogge, perché queste prendono piuttosto forma di nevi, riservate ad alimentarla solo fra gli ardori della successiva estate; cosicché, povera nelle due stagioni piovose, si gonfia costantemente in giugno e luglio. Il Po, che aggiunge allo stillicidio delle Alpi il tributo meno glaciale degli Apennini, corrisponde all’andamento delle piogge, gonfiandosi in primavera e in autunno, e rallentandosi fra gli ardori dell’agosto. – Ma la Senna serba un tenore affatto inverso a quello dei nostri fiumi, poiché s’ingrossa solo nella stagione invernale; quindi nella Sciampagna e nell’Isola di Francia regna un ordine fondamentale ben diverso da quello che vediamo nelle nostre pianure.

 

 

Colà l’agricoltura è raccomandata alla frequente e parca aspergine delle piogge estive, e poco potrà mai valersi delle acque fluviali, poiché vengono meno a misura che cresce il bisogno delle irrigazioni. Da noi l’estate è costante e arida; e la pianura erratica e silicea potrebbe per sé inaridirsi, come le steppe del Volga, che pur giacciono sotto questa medesima latitudine, se nei recessi della regione montana non avessimo il tesoro dei ghiacci e delle nevi, onde le vene dei fiumi si fanno più larghe col crescere dell’arsura. Ma poi le acque estive sarebbero un dono inutile, se accanto alle loro correnti non giacessero vaste campagne, atteggiate a mite e uniforme declivio, non formate di materie argillose e tenaci, ma sciolte e avide d’irrigazione; e infine sarebbero men preziose ed efficaci, se fossero più frequenti e sparse le piogge, e meno assidua la luce del sole estivo.

 

 

Finalmente i laghi nostri non hanno solamente uno specchio di superficie senza profondità, come il vasto Balaton; ma discendono sino a centinaia di metri sotto il livello del mare; e giacendo appie’ d’alti e continui monti che deviano i venti boreali, e sull’orlo d’un piano che s’inclina alle tepide influenze dell’Adriatico, non gelano mai. L’interna circolazione, promossa d’inverno dalla specifica gravità degli strati più freddi, e rallentata nella stagione estiva dalla comparativa leggerezza degli strati più caldi, modera talmente la loro temperie, che a mediocre profondità si serba perenne e immutabile.

 

 

Queste masse d’acqua, incassate lungo il margine superiore d’una landa uniforme di materie erratiche e incoerenti, non solo si effondono in fiumi, ma sembrano penetrare interne e sotterranee, stendendo fra le alterne ghiaie quegli strati acquei, che le annue nevi e piogge rendono più o meno copiosi, e che per la successiva inclinazione del piano si fanno sempre più prossimi alla superficie. E forse nei primitivi tempi, quando l’arte non li esauriva avidamente a sussidio dell’agricultura, riempievano di limpidi stagni le pianure, non ancora spianate da secolari fatiche. Era questa dunque in origine una larga zona di terre palustri, non per impedimento recato da suolo argilloso o concavo al corso d’acque fluviali, ma per inesausto afflusso d’interne vene, che, sgorgando dalla profonda terra, non risentono i geli del verno, se non dopo lungo soggiorno sulle aperte campagne.

 

 

Per tal modo le alpi eccelse e gli abissi dei laghi, i fiumi incassati e l’uniforme pianura silicea, le correnti sotterranee e le acque tepide nel verno, gli aquiloni intercetti e le influenze marine, le generose piogge e l’estate lucida e serena, erano come le parti d’una vasta macchina agraria, alla quale mancava solo un popolo, che compiendo il voto della natura, ordinasse gli sparsi elementi a un perseverante pensiero.

 

 

Altre mirabili attitudini delle terre, delle acque e del cielo si collegavano a preparare le riviere del Benaco a un popolo di giardinieri, che le abbellisse d’olivi e di cedri; e chiamava un popolo di vignaiuoli a tender di viti le balze su cui pendono i ghiacci della Rezia. Il progresso dell’incivilimento dimostrerà con fatto posteriore, che in ogni regione del globo giaciono così predisposti gli elementi di qualche gran compagine, che attende solo il soffio dell’intelligenza nazionale. Da ben poche generazioni si accorse il popolo britannico di vivere in mezzo ai mari chiamato dalla natura a navigarli vastamente, e d’aver sotto i piedi i sotterranei tesori della forza motrice. – Perloché può forse avvenire che più d’un popolo che largheggia con noi di superbi vaniloqui, non abbia per avventura inteso ancora il verbo dei suoi propri destini.

 

 

I primi uomini che si sparsero per questa terra transpadana, vi si avvennero in due ben dissimili regioni di pari ampiezza, l’una montuosa, l’altra campestre. Le Alpi sublimi, nevose, inaccesse, abbracciavano un labirinto d’altre catene di poco minore altitudine ed asprezza, entro cui stavano alte e recondite valli, fra loro disparate, chiuse al piede da laghi o da passi angusti, che nei tempi primitivi, quando non v’era arte di capitani, opponevano impenetrabile serraglio alle orde vaganti. – La regione campestre, arida e sassosa nella parte superiore, più sotto era piena di scaturigini e di ghiaie acquidose, interrotta da dorsi di bosco, asciutta ed aprica lungo gli alti greti dei maggiori fiumi, ma in preda alle libere inondazioni nelle basse regione e fra le curve dei loro serpeggiamenti.

 

 

Come vediamo tuttavia nelle sparse reliquie della vegetazione virginea, sorgevano nude le vette alpine, ammantati di pascoli naturali i larghi dorsi della regione calcare, irte di selve conifere le somme pendici, più sotto frondose di faggi e di betulle, poi di quercie, d’aceri e d’olmi, che ampiamente scendendo univano i monti ai colli e all’altopiano, vestito d’eriche e sparso di rara selva. La campagna uliginosa e le pingui golene dei fiumi dovevano esser dense di salici e d’alni; lungo le tepide scaturigini delle correnti sotterranee, doveva qua e là verdeggiare, e fors’anche nel verno, qualche spontaneo lembo di prato.

 

 

Ma sui clivi eretti al vivo sole, sulle miti riviere dei laghi ignare quasi di nebbie e di geli, fra le soavità d’una flora naturalmente australe, poteva facilmente mitigarsi anche la fiera vita del selvaggio. – Folte torme di cervi, d’uri e d’alci dovevano pascere la pianura, lungo i placidi stagni ai quali il castoro lasciò il nome di Bevera e Beverara; le generazioni, ora fra noi quasi estinte, de’ daini e de’ camosci dovevano animare il silenzio dei recessi montani. Ma solo l’amor della caccia, o il timore dei nemici, poteva incalzare le prime tribù di rupe in rupe sino a pie’ di quegli orridi precipizi, ove le valanghe e la tormenta e il notturno rintrono de’ ghiacciai atterrivano le menti superstiziose, e dove il forte alpigiano, che ha cuore d’inseguire veloce le pedate dell’orso, anche oggidì non sa, in faccia alla taciturna natura, difendersi da quella tetra e arcana ansietà ch’egli chiama il solengo.

 

 

Basterebbero queste pagine memorande per mettere in luce il filo conduttore il quale dà unità a scritti i quali si dilungano per quasi un quarto di secolo: dal 1833 al 1857: la terra è creazione dell’uomo, o come il Cattaneo si espresse: la terra è edificata dall’uomo. Altri può avere esposto il concetto medesimo. Nessuno meglio di Cattaneo ha composto un quadro altrettanto compiuto dei fattori di quella creazione. Nullo il valore primitivo della terra lombarda. Le qualità medesime che l’uomo volse poi a suo vantaggio la isterilivano. Permeabile e ciottoloso il sottosuolo, con sottilissimo strato di terreno coltivabile; sereno il cielo ed aridissima l’aria per tutta la state, sì da far temere ogni anno di vedere bruciata la vegetazione innanzi al raccolto; inferiore il livello della pianura a quello dei grandi laghi, sicché attraverso il sottosuolo permeabile l’acqua fuoresce in fontanili ed impaluda le terre basse ammorbando l’aria e diffondendo malsania. L’uomo rese, con l’irrigazione, benefici quei caratteri del suolo che erano naturalmente avversi all’agricoltura.

 

 

L’acqua che si accumulava nei laghi profondissimi e, protetta dalla cerchia alpina, mai non ghiacciava neppure durante l’inverno, fu condotta per lunghi canali, insieme con quella dei fontanili ad uno ad uno captati, ad irrigare le terre basse. A queste giovò l’assenza di argille compatte nel sottosuolo, le quali avrebbero troppo trattenuto l’acqua, fecondatrice quando trascorre, micidiale quando ristagna. La serenità del cielo e l’aridità dell’aria, che inaridivano nella state la coltre sottile del terreno coltivabile, accrebbero invece il rigoglio della vegetazione nelle terre fatte irrigue; e l’acqua estiva non fece difetto, poiché i ghiacciai, sciogliendosi ai raggi del sole, fanno gonfi i fiumi nella stagione calda, quando altrove le ghiaie asciutte brillano al sole ed invano il contadino attende la pioggia a salvezza del raccolto. Il terreno fu sistemato e livellato sicché la continuità del suo declivio, invece di favorire gli impaludamenti, consentì il trascorrere lieve di un velo d’acqua sul terreno sì da rendere, nelle marcite, possibile la vegetazione anche nell’inverno.

 

 

Ma l’irrigazione, causa di tanto miracolo, non è essa stessa un miracolo; è frutto di opera millenaria, che mai non resta; che ad ogni generazione si appalesa impari alle nuove esigenze della progredita tecnica agraria e della coltivazione di nuove o rinnovate specie vegetali. I canali, dai massimi ai minimi, debbono continuamente essere ricostruiti e modificati. I nuovi spianamenti dei terreni, le scomposizioni e ricomposizioni dei fondi rustici, la captazione di nuove acque e l’aumento della massa d’acqua condotta nei vecchi canali impongono diversa distribuzione dell’acqua sia nel tempo sia nello spazio attraverso la fitta rete che fa giungere l’acqua dai laghi e dai fiumi sino all’ultimo campo.

 

 

Gli italiani hanno inventato lo strumento giuridico atto a rendere possibile questa opera che perpetuamente si rinnova: il diritto d’acquedotto. L’opera pubblica deliberata dall’autorità, il consorzio volontario degli interessati o quello imposto dalla maggioranza alla minoranza recalcitrante non sarebbero stati capaci, dimostra Cattaneo, di produrre il miracolo della irrigazione lombarda. Questa è invece il frutto dell’istituto peculiarissimo del diritto d’acquedotto, ereditato dal diritto romano e perfezionato dagli statuti comunali, grazie al quale ogni proprietario può condurre l’acqua, sua o da altri a lui concessa in perpetuo od a tempo, attraverso il terreno altrui senza uopo di chiedere il consenso dei proprietari intervenienti. Se cotal consenso facesse d’uopo, esso non sarebbe mai dato, se non a condizioni usuraie. Se si dovesse costituire un consorzio volontario od obbligatorio, ogni iniziativa si trascinerebbe ed, attuata, riuscirebbe quasi impossibile perfezionarla. Se si fosse dovuto attendere l’iniziativa dello stato, saremmo giunti ai giorni nostri prima che qualcosa si fosse potuto intraprendere e la Lombardia non esisterebbe. Il diritto di acquedotto ha creato l’irrigazione e perciò ha creato la terra lombarda.

 

 

Ognuno, pagando indennizzo uguale al valore della terra occupata per il canale, più un quarto, ha diritto di traversare il fondo altrui, contro la volontà del proprietario. Vana essendo dunque l’opposizione, le volontà si accomunarono; i canali furono costrutti e si vanno tuttodì ricostruendo. Da chi? Dopo aver dimostrato quale sia stata l’efficacia potente del diritto di acquedotto a rendere possibile il canale d’irrigazione, il Cattaneo mette in luce come altri istituti ed altri costumi abbiano dovuto rafforzarlo per produrre l’effetto della creazione della terra. Il ceto dei proprietari non poteva fornire da solo i capitali necessari. Chi ha i capitali opportuni all’acquisto della terra non ha spesso la capacità per condurla e colui il quale sa condurla non possiede per lo più i capitali i quali sono richiesti per essere anche proprietario della terra.

 

 

Lentamente, col passar dei secoli, nasce una divisione di compiti fra:

 

 

  • i proprietari della terra, i quali compiono l’opera della trasformazione della terra selvaggia in terra istrutta, ossia fornita di case, di canali, e di piante, livellata ed arginata. Opere pie succedute agli antichi corpi ecclesiastici, nobili ex feudatari, agricoltori arricchiti, cittadini in cerca di investimento sicuro e dignitoso, compongono questo ceto;

 

  • gli affittaiuoli, possessori delle scorte vive e morte e sovratutto della attitudine, ereditata di padre in figlio, a condurre il terreno e ad investire in esso i capitali destinati ad essere restituiti dalla terra in tempo relativamente breve, suppongasi il novennio;

 

  • tra i due, gli ingegneri rurali, i quali elaborano il codice della terra, atto a regolare i rapporti tra proprietari e fittaiuoli ed a consentire le migliorie. Il codice è imperniato su due concetti fondamentali: la lunga durata dell’affitto, la quale consenta al fittaiolo di compiere le migliorie minori, di modificare la rete dei piccoli canali adacquatori, di scegliere la rotazione più conveniente, senza timore di lavorare ed investire a mero vantaggio del proprietario; l’istituto della consegna e della riconsegna, grazie al quale il fondo è descritto nei minuti particolari della sua consistenza in case, piantagioni, canali, argini, livellazione ecc. all’inizio della locazione ed è nuovamente descritto alla fine; sicché, dal confronto delle due descrizioni nasca il diritto del proprietario ad essere rimborsato per i danni e del fittaiolo ad essere compensato per le migliorie arrecate al fondo.

 

 

Il concorso dei due principii vieta la dilapidazione dei fondi, inevitabili sin dal principio, se la locazione abbia breve durata, e negli ultimi anni, se la locazione sia a lunga scadenza; e, per la tema di dovere rimborsare i danni e la certezza di ricuperare il valore delle migliorie non esaurite alla fine del contratto, produce il perpetuo ammegliamento del terreno e consacra la fedeltà reciproca dei proprietari e dei fittaiuoli. L’istituto del lungo fitto e quello delle consegne hanno reso possibile il fiorire della professione del perito od ingegnere agronomo incaricato di compilare le consegne e le riconsegne e di compiere le stime delle migliorie e dei danneggiamenti; ed a sua volta la presenza di uomini appartenenti a quella professione ha fatto sì che i due istituti non fossero mere norme scritte nelle tavole della legge, ma diventassero costumanze vive inseparabili dalla struttura agraria del paese.

 

 

Ma quei ceti non furono il frutto del genio delle classi agricole. Se queste furono in Lombardia operoso fattore di prosperità, laddove in altre contrade si veggono proprietari assenteisti e fittuari meri intermediarii (gabellotti) fra contadini e latifondisti, ambi sfruttati su terra miserabile, il merito è dovuto alla vicinanza della città: la quale dona alla terra due idee: delle quali la prima è la certezza del possesso. All’agricoltore è propria l’idea della perpetuità non quella della certezza. L’agricoltore crea il fondo, il maggiorasco, il bene comune e famigliare, dal quale nasce il dualismo fra il possessore pro tempore e l’ente, famiglia o stirpe o comunità, nel quale la terra deve mantenersi o al quale deve ritornare. Ma il dualismo toglie al possessore pro tempore l’interesse a crescere il valore capitale ed alla lunga distrugge il reddito medesimo. Il capitale, che non cresce, neppure è mantenuto intatto e degrada. Al cittadino, mercante ed industriale, è estranea invece l’idea della perpetuità del fondaco, che è merce oggi prodotta e destinata ad essere subito venduta[1].

 

 

La ricchezza appare a lui sotto la specie di denaro mobile e trasformabile, non di terra stretta dalla mano dell’ente, il quale per l’indole sua indefettibile mortifica quanto afferra. Il cittadino, trasportando nella campagna l’idea della certezza salva la terra. Dà a mutuo denaro al proprietario, se questi gli può offrire garanzia su terra libera, alienabile ed ipotecabile a suo libito. La terra che, vincolata, respinge i capitali, divenuta libera li attrae. Da selvaggia si appresta a diventare culta. L’idea del risparmio è la seconda idea donata dalla città alla terra. Solo i guadagni ottenuti nelle industrie e nei commerci consentono al cittadino i risparmi necessari a trasformar la terra. Da sola la terra non offre margini bastevoli alle grandi trasformazioni agrarie. Abbandonata a sé, la terra è consuetudinaria e retriva. L’avanzamento è consentito dall’afflusso dei capitali cittadini[2].

 

 

La terra abbandonata alle naturali sue forze non basta ai bisogni della umana specie. Una nazione numerosa non può vivere di caccia o di pesca o di radici selvagge. È necessario che l’esperienza dei secoli discopra le arti necessarie alla vita; è necessario che le opere dell’uomo destino la dormente fecondità del suolo. A somministrare le materie a quest’opere e l’alimento agli operai ed alle altre forze vive e morte, bisogna che l’uomo provvido abbia tenuto in serbo una parte delle cose ritratte già dal seno della terra. Queste cose poste in serbo per essere applicate alla fecondazione del suolo vengono sotto il nome generico di capitali.

 

 

Essi si rappresentano variamente sotto forma di sementi, di concimi, di animali, di strumenti, di piantagioni, di fosse, strade, pozzi, ponti, edifici. In parte si consolidano e si fondono nel suolo stesso coll’asciugarsi delle paludi, coll’estirparsi delle selve, col progressivo ammollimento dell’ispida superficie. Parte s’impiegano in usi d’un ordine più eccelso, sicché la recondita utilità non cade facilmente sott’occhio dell’uomo irriflessivo; e giovano a rendere la percezione dei frutti naturali più certa, più tutelata, più copiosa, più giovevole, col procurare i benefici della difesa armata, della giurisdizione, della sanzione religiosa, dei lumi scientifici e della letteraria educazione. Da questa quasi nuzial congiunzione della terra e dei capitali, ossia delle opere umane, proviene la ricchezza agraria delle nazioni; la quale riesce in ragion composta della naturale benignità dei luoghi e dell’abbondanza dei capitali. Ma senza questi, cioè senza lavori e piantagioni, la fertilità ingenita al suolo nulla varrebbe o si esaurirebbe presto.

 

 

Inoltre parte di queste opere, come le arature e le sementi, si fungono nel corso di un anno; cosicché, non rinovandosi l’anno seguente, lascerebbero la terra infeconda. Parte si consumano in breve lasso di tempo, come il concime, gli animali, gli strumenti. Parte finalmente durano molto al di là dei confini di una vita, come le strade e gli edifici, ma richieggono assidua cura e spesa ad essere conservati; la incuria di pochi anni li renderebbe preda degli elementi e della loro naturale corruttibilità. Quindi comunque prodigiosi fossero gli sforzi che gli uomini avessero fatti per diffondere su un territorio i benefici dell’agricultura, dopo certo tempo si vedrebbero languire su un mucchio di ruine in mezzo ad una landa ritornata selvaggia. È questo lo stato di quasi tutte le ubertose regioni dell’Oriente, da che la sfrenatezza del regime rendendo incerto il godimento dei frutti, ha disanimato gli uomini dall’avventurare i loro averi sulla malsicura superficie della patria.

 

 

Questa naturale e progressiva consunzione dei capitali agrari, la quale trae con sé una proporzionata diminuzione di reddito, esige che l’uomo con sempre nuovi capitali soccorra alla possidenza. Il che si fa per due modi. O l’uomo mette in disparte ogni anno una porzione dei frutti della terra per riversarli sul di lei seno e darle alimento. O l’uomo deve cercar lucro, aggiungendo pregio alle materie disutili; il che egli fa sì col lavorarle, sì col trasportarle altrove per farne cambio con qualche oggetto più opportuno a’ suoi casi. Le materie su cui si esercitano queste due operazioni delle arti e del commercio, costituiscono la ricchezza mobile; mentre la terra cogli edifici e le adiacenze consacrate al suo immediato servigio costituiscono la ricchezza prediale.

 

 

Prescindiamo per ora dai capitali forniti dall’industria e dal commercio; supponiamo che la terra venga alimentata soltanto dai capitali di origine agricola, ossia dai risparmi fatti dal proprietario, ossia dalla differenza tra il reddito ed il consumo. Nei modi che abbiamo enumerati, molte forze tendono a decimare il reddito della terra; e molte altre forze spingono l’uomo ad accrescere i consumi e a portare le spese a livello delle rendite ed anche a varcarlo. Quindi se si dovesse alimentare la fecondità del terreno unicamente colla porzione dei frutti che fosse residua al consumo, ne accadrebbe che per difetto d’alimento la fecondità delle terre verrebbe meno, e scemerebbero i redditi stessi[3]. La diminuzione dei redditi restringerebbe sempre più il residuo destinato ad alimentare la terra; quindi la diminuzione dei redditi s’andrebbe sempre più aggravando. Questo è il precario e deplorabile stato dell’agricultura nei paesi meramente agricoli, cioè nei paesi senz’arti e commercio; essi non ponno sollevarsi gran fatto sulla primitiva barbarie. La Francia era in tale stato prima delle guerre d’Italia, e Machiavello chiamando barbari i Francesi di quel secolo, non serviva alla passione; diceva aspramente la verità.

 

 

Le ricchezze mobili, tesoreggiate dalla libera attività delle arti e del commercio, crescono con incredibile rapidità anche in mezzo alle più disastrose condizioni; dissipate, si raccapezzano; oppresse, cangiano paese; ma non cedono se non alla continuata violenza di molte generazioni, o fra il totale esterminio delle nazioni. Questo accrescimento, circondando l’uomo e i suoi figli di tutte le fonti dell’agiatezza e del piacere, ammorza a poco a poco quell’acre concitazione dell’animo avido di lucri e di lucrose fatiche. I rischi della vita industriosa richiedendo continua tensione di pensieri e di opere, e l’attività dovendo crescere oltre misura col dilatarsi delle raccolte ricchezze, mal s’accordano con quella posatezza d’animo che è necessaria al godimento e vien dal godimento inspirata. Allora l’uomo comincia a guardarsi intorno se non vi sia un’esistenza men piena di pericoli e di cure. Allora l’uomo più avverso alla possidenza comincia ad invogliarsene, tanto più che la maggior reverenza resa dal vulgo a quel genere di ricchezze e la maggiore evidenza e splendidezza di dovizie distese ampiamente sulla faccia della terra, lo adescano anche cogli allettamenti della vanità.

 

 

Per lo più, anche senza una decisa voglia di cangiare stato, l’uomo coll’acquisto di una proprietà fondiaria cerca di restringere il malagevole volume dei capitali da lui posti in giro e divenuti soverchi alla sua attività ed a’ suoi avviamenti; o cerca di acquistarsi maggior credito con una apparenza di solidità che appaga gli animi della moltitudine; o è costretto dal corso delle cose a porgere certe sicurtà alle contrattazioni mercantili e alle stipulazioni nuziali. Comunque sia, certo è che le dovizie raccolte fra le incertezze e le cure della vita industriosa tendono a riposarsi nella sicurezza e nella spensieratezza della proprietà fondiaria.

 

 

Questa inclinazione degli industrianti a fissar nella terra le loro ricchezze è l’anima della vita agraria. L’industriante avvezzo a sottilmente speculare sui lucri delle operazioni e a tenere amministrazione solerte e scrupolosa, avvezzo a occupare assiduamente il suo tempo e le sue facoltà, non indurito nelle pratiche cieche e nel pregiudizio, non costretto da una ereditaria vanità a tenersi sollevato sopra le cure vulgari, o abbandonarsi allo scialacquo d’una vita grandiosa, non angustiato da scarsezza di capitali: eleva generosi edifici, affolla le piantagioni, va in cerca d’acque irrigatrici; insomma satolla di spese e di cure la terra, la quale allora soltanto può esternare la innata sua vigoria.

 

 

È a questo modo che le paludi dei Paesi Bassi, le ghiaie del Milanese, i magri monticelli di Lucca e di Firenze e della valle del Reno divennero i paesi più lieti e popolosi e civili del globo. Sono i tesori della industria antica che addensati su un suolo riconoscente lo hanno reso così folto di pingui villaggi e di suntuose città. In ciò consiste tutta la differenza fra i numerosi e magnifici municipi dell’alta Italia e le povere città provinciali dell’Italia bassa e delle isole e di tutto il settentrione e l’oriente d’Europa. Ivi le nazioni indocili alle attrattive delle arti appena hanno di che decorare un’unica capitale, e tutta la superficie del paese presenta una disadorna rusticità.

 

 

In ciò consiste la differenza fra la Spagna lavoratrice e comuniera del medio evo e la Spagna cortigianesca, oziosa e sucida dei secoli seguenti. Il sagace Guicciardini vantavasi che già da più generazioni l’Italia era coltivata fin sul dorso dei monti. Il che era segno di gran potenza pecuniaria diffusa su tutta la popolazione e perciò attestava un’antichissima industria. Nel settentrione invece si videro bensì le città propagarsi sulle pianure, ma i monti rimasero tanto selvaggi, che nella geografia il nome di selva e di monte vi è usato promiscuamente. E monticultura (Bergbau) non significa la coltivazione dei monti ma l’arte delle miniere La terra creata dal connubio fecondo fra il cittadino e l’agricoltore è facilmente distrutta. Principalissimo fra i fattori di distruzione è l’uomo medesimo, se questi vuole o consente che l’arbitrio dell’amministratore si sostituisca alla certezza della legge[4].

 

 

Le grandi calamità che desolarono il nostro paese nella prima metà del secolo XVI erano tutte esterne e materiali; non ferivano il principio della sua vita, perché non troncavano le tradizioni d’industria e d’intelligenza, conservate dagli studi letterari, dalle relazioni mercantili, dalla libera concorrenza, dall’inviolabile diritto consolare, dalla potenza del credito.

 

 

Quindi la ricchezza esausta risurgeva sempre, le menti erano piene di vigore e d’alacrità, le arti belle e gli eleganti costumi fiorivano tra i saccheggi e le pesti. – La decadenza intima e vera cominciò colla seconda metà del secolo, quando, estinta la stirpe sforzesca, si fu rassodato il dominio spagnolo. Il gentiluomo castigliano nella lunga lotta cogli industri mori e coi trafficanti israeliti aveva preso odio e disprezzo ai mestieri e alle mercature, come arti di caste infedeli e impure. La insurrezione dei Comuneros, e più tardi quella dei Paesi Bassi, avevano inimicata ai municipi la corte; e la sua profonda e dissimulata ostilità operò lentamente, arrestando e logorando nelle interne sue rote l’azienda d’uno Stato ch’era altamente industriale. – Già gli Sforza, per assicurarsi un soglio vacillante, avevano restituite alcune esenzioni ecclesiastiche, infrante dalla rigida mano dei Visconti[5], e avevano aggravati di tasse i cittadini.

 

 

Quando il re Luigi XII si trovò signore di Milano, volle conciliare le famiglie potenti, tenute in troppa stretta disciplina dai duchi. E per verità doveva regnare da paese lontano, e aver pure qualche stabile fondamento di dominio; e capo d’un regno per eccellenza feudale, forse non sapeva in qual modo si regnasse altrimenti. Instituì dunque un Senato ch’era, al modo degli antichi parlamenti francesi, un tribunale supremo, con diritto di registrare le leggi, ossia di limitare i decreti del re, difesa lontana del Principe contro l’importunità e l’arbitrio dei favoriti.

 

 

Gli spagnoli, trovata quella istituzione, la promossero, la rassodarono, la resero inamovibile, la posero sopra tutte le leggi (etiam contra statuta et constitutiones), le commisero il giudizio delle cause feudali; e quindi il destino della nobiltà; – l’appello di tutte le cause civili e criminali e l’unica giurisdizione in tutte le cause gravi; e quindi la sicurezza dei cittadini; – il riparto delle imposte; e quindi tutto l’ordine delle sussistenze, dei salari, del tornaconto, dell’industria nazionale; – il sindacato di tutta l’amministrazione; e quindi l’obedienza dei magistrati; – la direzione degli studi; e quindi l’intelligenza e l’opinione. Il Senato invase in breve tutte le minori giurisdizioni. Permise ai trafficanti di deviare dal foro mercantile, e con ciò solo estirpò la fede publica, atterrò la potenza della cambiale e del contratto, tutto l’edificio del credito. Sottopose le arti a tasse ineguali, e coll’estimo del mercimonio insinuò il cavillo fiscale in tutte le vene dell’industria; poi, per temperarlo, ricorse all’uso e all’abuso dei privilegi, e conturbò tutto l’ordine dei guadagni e della speculazione.

 

 

Quando vide sorgere gigante la miseria publica, e assidua la carestia, punì di morte l’esportazione dei grani; avvilì l’agricultura; e fece primo pensiero e arte suprema di governo il fornir di pane estimato e pesato la plebe della città. – Le famiglie, che all’uso antico d’Italia continuavano anche nel colmo delle ricchezze un decoroso e nobile commercio, umiliate al confronto del più squallido capitano spagnolo, impararono a sprezzare la solerzia dei loro antichi, e s’invogliarono di purificare il sangue coll’ozio. Per esser decurione della città; per sedere nel magistrato di provisione a regolare l’annona, le strade e le osterie; per essere appena esente da soprusi e insulti, non bastò più l’antica nobiltà municipale; fu forza ridivenir nobile all’uso castigliano, far voto d’inerzia perpetua. Le fanciulle furono condannate fin dalla nascita a irrevocabili voti, per provvedere all’orgoglio dei primogeniti. Cento chiostri si dilatarono per la città, vuota di famiglie e d’officine. L’ordine degli umiliati, che colle ingenti sue ricchezze continuava le vetuste tradizioni di patronato mercantile, fu estirpato; e i suoi capitali si spesero in costruzioni suntuose, a gloria de’ suoi nemici, e in dotazioni d’ordini nuovi che si credevano più adatti ai nuovi tempi.

 

 

Gli immensi capitali che si giravano a Lione, a Parigi, ad Anversa, a Londra, a Colonia, vennero gradualmente ritirati; e s’investirono in terre titolari, in ostentazioni signorili, in elemosine depravatrici della plebe laboriosa. I poveri artefici, abbandonati dal capitale, perirono nelle pestilenze, nelle carestie, nel diuturno avvilimento; molte arti già famose si obliarono; molte furono trasferite a Zurigo, a Ginevra, a Lione, a Parigi; così le nazioni nuove s’inalzavano a misura del nostro decadimento. Dalla sola Milano si espatriarono ventiquattromila operai; di settanta fabbriche di pannilani, rimasero cinque; il fisco senatorio sentendo mancarsi il terreno, pesava tanto più avidamente sugli avanzi sempre più miserabili dell’industria moribonda. Di duecentomila abitanti di Milano sparirono 140 mila, e in proporzione si spopolarono le altre città; e i superstiti vissero cenciosi, servili, abietti, lenti, pieni di stolti terrori. I più animosi si posero in clientela dei grandi, si fecero ministri di violenze, di vendette, di puntigli insegnati alla novella gioventù dai vuoti e oziosi castigliani.

 

 

Ne scaturirono le genie dei bravi; e servivano alle passioni delle stesse famiglie prepotenti, che nelle leggi e nelle gride minacciavano loro un teatrale esterminio. Bande di scellerati signoreggiavano le campagne; spargevano a luce aperta il sangue nelle stupefatte città; tenevano sacrileghe gozzoviglie nei sacri asili; insultavano nelle chiese alle esequie degli uccisi. Talora la giustizia vergognante e inferocita prorompeva in furori di crudeltà; insanguinava le strade di supplici studiati e crudeli; il patibolo era di tempo in tempo uno spettacolo quotidiano; ma questi sforzi deliri e convulsi non riaprivano le sviate fonti dell’ordine e della giustizia.

 

 

Uomini zelanti avevano voluto, col ministerio delle nuove congregazioni, rigenerare le famiglie al senno e al costume (an. 1545-1566); e il frutto che dopo due generazioni se ne mieteva, è descritto, e forse troppo parcamente descritto, nei Promessi Sposi e nella Colonna Infame. Ben v’erano gli uomini che isolandosi dalla comune corruttela e stoltezza, si collegavano cogli studi al senno antico o al progresso straniero. Ma non potevano rompere il nodo che l’interesse dei pochi aveva stretto coll’ignoranza dei molti. Pur tratto tratto ponevano mano a rappresentanze ed ambascerie; le quali non ebbero quasi altro effetto che di conservare ai posteri qualche documento di buon volere, di senno e di virile eloquenza. Tali furono Fabrizio Bossi e Cesare Visconti (1630).

 

 

Se il ducato di Milano fosse stato l’imperio romano, quello era il principio d’una terza barbarie. Ma l’antico ducato era una mediocre provincia; e aveva già lasciato cader d’ogni parte le antiche sue membra; Venezia teneva Brescia, Bergamo e Crema; i Grigioni, Bormio, la Val-Tellina e Chiavenna; gli Svizzeri esercitavano una venale giurisdizione sopra le valli del Ticino; la Val-Sesia e la Lumellina, e più tardi Alessandria, Tortona, Voghera furono aggregate al Piemonte; Genova non portava più sui mari l’insegna ducale; Pontremoli fu venduta alla Toscana; Parma e Piacenza erano patrimonio dei Farnesi. Ma per quanto una politica acciecata facesse, per chiudere le frontiere, troncare i vicendevoli commerci, ristringere il campo dell’industria e fare del povero Stato un ricovero di miseria, l’Olanda, l’Inghilterra, la Francia e la Germania avevano raccolto la nostra eredità; ci stavano intorno piene e traboccanti di vita e di progresso. – La nostra patria doveva risorgere.

 

 

Dalla decadenza spagnuola la Lombardia risorge nel secolo XVIII a nuova prosperità in virtù di uomini che videro la virtù della certezza. In primo luogo la certezza contro l’arbitrio delle taglie estorte a capriccio di amministratori e non sulla base di legge sicura. Nel brano che segue, il Cattaneo descrive i mirabili effetti del catasto, che egli chiama, come era uso ai suoi tempi, censo o censimento. Mentre troppi dottrinari corrono dietro a false teoriche di cosidetta giustizia tributaria e vorrebbero distruggere le più belle tradizioni finanziarie italiane, fa d’uopo insistere energicamente sulla virtù della imposta ripartita su basi destinate a non mutare per lungo tratto di tempo.

 

 

Questo è il vero significato del catasto: l’imposta sia essa dieci o venti o trenta, quella che il fabbisogno dello stato esige secondo il prudente giudizio degli uomini che reggono la somma delle cose, non deve correre dietro ai guadagni non appena essi, quasi non ancora formati, vengono alla luce. Questa è politica deleteria per la ricchezza nazionale, suicida per lo stato; ché distrugge in germe lo stimolo a lavorare ed a risparmiare. L’imposta deve fondarsi su redditi medi ordinari normali, quelli che sono ottenuti dall’agricoltore buon padre di famiglia, dall’imprenditore normale. Stabilita la base, essa deve rimanere invariata per lungo tempo, suppongasi da cinque a trent’anni a seconda del tipo dell’industria. Se il fabbisogno dello stato cresce, si cresca il totale del tributo; ma questo sia ripartito sempre sull’antica base. A poco a poco, il metodo produce suoi mirabili frutti.

 

 

Agricoltori e industriali sicuri di tener per sé l’eccedenza intiera del frutto sopra il reddito medio assunto a base dell’imposta, moltiplicano lo sforzo, aguzzano l’ingegno, investono il risparmio; sicché forzano il reddito a crescere. I pionieri ardimentosi sono imitati a poco a poco dai prudenti e dai ritardatari. Dopo dieci, dopo venti o trent’anni, ecco il reddito medio, che era cento, salire a centocinquanta a duecento; ed ecco lo stato cogliere il frutto della sapiente sua pazienza. La base media ordinaria della imposizione può essere innalzata anch’essa da cento a centocinquanta ed a duecento. Il gettito dell’imposta cresce; il maggior gettito non ha nociuto all’avanzamento passato ed è arra di progresso avvenire. Ripetutamente Cattaneo ritorna nelle sue scritture agrarie su questa, che egli proclama la maggior scoperta tributaria dei tempi moderni e di cui a ragione attribuisce il merito a grandi italiani, autori di riforme più durature e benefiche di quelle che procacciarono fama a benemeriti stranieri[6].

 

 

Il censo a catasto trasformò l’agricoltura lombarda e dette inizio e stimolo a una mutazione benefica in tutti gli ordini economici[7]: Al principio del secolo XVIII era mirabile il fermento che si vedeva nelle nazioni. La Russia si era desta dal sonno dei secoli; la Prussia era un regno; la stirpe britannica sorgeva a inaspettata potenza, fondava un imperio nelle Indie, e un altro e più glorioso in America. Il ducato di Milano si era finalmente distaccato dal cadavere spagnolo, e ricongiunto all’Europa vivente. I domini austriaci, vari di lingua, e dissociati di civiltà, cominciarono ad essere uno Stato, e possedere un principio d’amministrazione e d’unità.

 

 

Ma se lo spirito del secolo e l’animo della regnante additavano le grandi vie del ben publico e della prosperità, gli esperimenti erano ardui. Nelle provincie germaniche, slave e ungariche rara la popolazione, rare le città, poche traccie o nessuna d’incivilimento più antico, isolata la posizione su le frontiere di nazioni barbare. In Fiandra v’erano città lavoratrici e ubertose campagne, e vicinanza di nazioni progressive; ma lo spirito dei popoli era provinciale, tenace, diffidente. La Lombardia, che già sentiva l’aura del tempo che veniva, e nella sua miseria era pur sempre una terra di promissione, e aveva un popolo di mente aperta e d’animo caldo e sensitivo, parve ai zelatori del bene come uno di quei campi eletti, in cui l’agricultore fa prova di qualche novella semente.

 

 

È un fatto ignoto all’Europa, ma è pur vero: mentre la Francia s’inebriava indarno dei nuovi pensieri, e annunciava all’Europa un’era nuova, che poi non riusciva a compiere se non attraverso al più sanguinoso sovvertimento, l’umile Milano cominciava un quarto stadio di progresso, confidata a un consesso di magistrati, ch’erano al tempo stesso una scuola di pensatori. Pompeo Neri, Rinaldo Carli, Cesare Beccaria, Pietro Verri non sono nomi egualmente noti all’Europa, ma tutti egualmente sacri nella memoria dei cittadini. La filosofia era stata legislatrice nei giureconsulti romani; ma fu quella la prima volta che sedeva amministratrice di finanze e d’annona e d’aziende comunali; e quell’unica volta degnamente corrispose a una nobile fiducia. Tutte quelle riforme che Turgot abbracciava nelle sue visioni di ben publico, e che indarno si affaticò a conseguire fra l’ignoranza dei popoli e l’astuzia dei privilegiati, si trovano registrate nei libri delle nostre leggi, nei decreti dei nostri governanti, nel fatto della publica e privata prosperità. S’intraprese il censo di tutti i beni, dietro un principio che poche nazioni finora hanno compreso.

 

 

Si estimò in una moneta ideale, chiamata scudo, il valor comparativo d’ogni proprietà. Gli ulteriori aumenti di valore che l’industria del proprietario venisse operando, non dovevano più considerarsi nell’imposta; la quale era sempre a ripartirsi sulla cifra invariabile dello scudato. Ora, la famiglia che duplica il frutto de’ suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d’imposte, alleggerisce d’una metà il peso, in paragone alla famiglia inoperosa, che paga lo stesso carico, e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo concesso all’industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti.

 

 

Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmi l’ubertà d’un campo, che posseder due campi, e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece sì che col corso del tempo e coll’assidua cura il piccolo podere pareggiò in frutto il più grande; finché a poco a poco tutto il paese si rese capace d’alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne alimenta una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio, al paragone di quelle barbare tasse che presso culte nazioni si commisurano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò riescono vere multe proporzionali, inflitte all’attività del possessore!

 

 

Il censo eliminò per sua natura tutte quelle immunità, per le quali sotto il regime spagnolo un terzo dei beni, come posseduto dal clero, non partecipava ai publici carichi, e li faceva pesare in misura insopportabile sulle altre proprietà. – Il censo divenne fondamento anche al regime comunale; i comuni nostri divennero tanti piccoli Stati minorenni, che sotto la tutela dei magistrati, decretano opere pubbliche, e ne levano sopra sé medesimi l’imposta. Non si videro più quelle stentate prestazioni d’opere, di bestiami, di materiali, ch’erano spavento dei contadini, e strumento d’oppressione e di corruttela. Si preparò un mirabile sviluppo di strade, con un principio di manutenzione che interessò il costruttore alla massima solidità e semplicità di lavoro.

 

 

Ma non è questo il luogo d’annoverare tutte le riforme che s’introdussero da quei filosofi: il riparto territoriale, il riscatto delle regalie, l’abolizione dei fermieri, la tutela dei beni ecclesiastici, la riforma delle monete. Abbiamo accennato a principio in quale stato la natura desse ai primi nostri progenitori questa terra che abitiamo: al basso, una vicenda d’acque stagnanti e di dorsi arenosi; all’alto, un labirinto di valli intercette da monti inospiti e di laghi. Abbiamo detto quali popoli ci furono maestri, o almeno fratelli di cultura: i Liguri, gli Umbri, i Pelasghi, gli Etruschi, i Romani: e quali ne furono inciampo su la via della civiltà, la quale tre volte s’arrestò e decadde: nell’era celtica, nella bizantina, nell’ispanica.

 

 

Nessuna istoria offre una più frequente alternativa di beni e di mali, e una più manifesta prova di ciò ch’è veramente giovevole, o veramente avverso all’umana felicità. Il nostro incivilimento tre volte tornò uno sfrondato tronco; e ogni volta nel rinverdire apparve più rigoglioso e fiorito. Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani; sicché il botanico si lagna dell’agricultura, che trasfigurò ogni vestigio della vegetazione primitiva.

 

 

Abbiamo preso le acque dagli alvei profondi dei fiumi e dagli avvallamenti palustri, e le abbiamo diffuse sulle aride lande. La metà della nostra pianura, più di quattromila chilometri, è dotata d’irrigazione; e vi si dirama per canali artefatti un volume d’acqua che si valuta a più di trenta milioni di metri cubici ogni giorno. Una parte del piano, per arte ch’è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all’intorno ogni cosa è neve e gelo. Le terre più uliginose sono mutate in risaie; onde, sotto la stessa latitudine della Vandea, della Svizzera, della Tauride, abbiamo stabilito una coltivazione indiana.

 

 

Le acque sotterranee, tratte per arte alla luce del sole, e condotte sui sottoposti piani, poi raccolte di nuovo e diffuse sovra campi più bassi, scorrono a diversi livelli con calcolate velocità, s’incontrano, si sorpassano a ponte-canale, si sottopassano a sifone, s’intrecciano in mille modi. Nello spazio di soli duecento passi, presso Genivolta, la strada da Bergamo a Cremona incontra tredici acquedotti, e li accavalca coi Tredici Ponti. – Alla condotta di queste acque presiede un principio di diritto, tutto proprio del nostro paese, pel quale tutte le terre sono tenute a prestarsi questo vicendevole passaggio, senza intervento di principe, o decreto d’espropriazione. Non è questo un vincolo che infranga il sacro diritto di proprietà; ma un’utile aggiunta al diritto, per rendere più fruttifera ogni proprietà senza eccezione.

 

 

Gli ultimi scoli di tutte codeste acque sono muniti ai loro sbocchi di chiuse, che arrestano il rigorgo dei turgidi fiumi. – Un canale attraversa per mezzo tutta la provincia cremonese dall’Ollio al Po; tutti gli acquedotti che corrono a fecondare la parte inferiore, lo attraversano con ponti di pietra, lasciandovi traboccare le acque che per avventura eccedano la prefissa misura; e se avviene che diuturne piogge rendano superflua l’irrigazione, si chiudono con porte gli acquedotti, e le loro acque precipitate nel sottoposto scavo si deviano tutte nell’Ollio o nel Po. – La provincia mantovana è una terra conquistata sulle paludi; i suoi canali di scolo sommano a 754 mila metri; le stesse acque che accerchiano la città, sono una palude trasformata per arte in lago navigabile.

 

 

Le linee d’interna navigazione, percorse in parte da vaporiere sommano a 1200 chilometri; e ripartite sulla superficie ragguagliano per ogni chilometro 56 metri, mentre il Belgio ne ha solo in ragione di 48, e la Francia di 27, e non tutti d’acque perenni. Un paese al tutto mediterraneo come il nostro s’avvicina per questo aspetto all’Olanda. I nostri canali, navigabili ad un tempo ed irrigatori, sono costrutti sopra un principio speciale; non sono una serie di tronchi orizzontali, come i canali oltramontani di mera navigazione, ma sono veri fiumi, prima inclinati fortemente, poi progressivamente moderati, per accogliere di tronco in tronco le disuguali masse d’acqua, che l’irrigazione vien successivamente emungendo.

 

 

Una volta impresso il moto, quest’ordine di cose si continuò uniforme attraverso alle più varie vicissitudini dei tempi. Ogni anno segnò sempre per noi qualche nuovo grado di prosperità; ogni anno più vasta la rete stradale; ogni anno più folta la piantagione dei gelsi, prima riservata ai colli, poi distesa in veri boschi sui piani dell’Ollio e dell’Adda, e salita fino a mille metri d’altezza nelle valli alpine, produttrice di un’annua raccolta di cento milioni di franchi, in un territorio che corrisponde alla 26ma parte della Francia. Sempre più diffuse, ma più accurate e quindi meno insalubri, le irrigazioni; si mutano in buone case i tuguri dei contadini; penetra in tutte le comuni rurali il principio dell’istruzione; tolta cogli asili dell’infanzia l’abietta ferocia e la rozzezza ai figli della plebe; gli studi delle lettere e delle arti accomunati al sesso gentile; e colle solenni mostre diffuso l’amor delle belle arti nel popolo, e un abito d’eleganza negli utili mestieri. Su la nostra pianura tutti gli abitati si collegano con buone strade, che ragguagliano in circa un chilometro di lunghezza per ogni chilometro di superficie.

 

 

La rete stradale involge ormai tutte le colline, sino all’altitudine d’ottocento metri; trafora con gallerie le rupi verticali che interrompono le riviere dei laghi; s’insinua nelle valli alpine, raggiunge i sommi gioghi; difende contro le valanghe i più alti passi carrozzabili che siano sul globo. La via del Sempione, che fu il modello di tutte, è opera de’ nostri ingegneri, che condussero anche quelle della Spluga e dello Stelvio. Ingegneri nativi di quell’antica parte del nostro territorio che aggregossi alla Svizzera, tracciarono le vie del Gottardo e del Bernardino. I nostri imprenditori sono sparsi per le terre dei Grigioni, dei Tirolesi, degli Illiri, dei Boemi, dei Galiziani, insegnando loro a protendere attraverso ai monti i vincoli d’una crescente civiltà. Le nostre opere stradali portano tratto tratto i segnali d’una magnificenza romana; il ponte che congiunge le due rive del Ticino, a Buffalora, si stende per trecento e più metri con undici arcate di granito. – Le strade ferrate non ci sono ignote; una linea è compiuta da quattro anni; due sono cominciate; altre sono studiate e discusse. L’uomo con tutte queste opere d’acque e di strade ha preso possesso di tutte le terre coltivabili; e ad ogni condizione di terreno adattò un ordine proprio di coltivazione, un più ampio o più minuto riparto nella possidenza, un proprio tenore di contratti.

 

 

È assai malagevole porgere una succinta idea della nostra agricultura nelle diverse provincie, per la strana sua varietà. Mentre in una parte d’un territorio il riso nuota nelle acque, un’altra non può abbeverare il bestiame se non di vecchie acque piovane o colaticce, o tratte a forza di braccia da pozzi profondi fino a cento metri. Un distretto è continuo prato, verde anche nel verno, folto d’armenti, ridondante di latticini; un altro raduna a stento poco latte caprino, coltivando piuttosto a giardini che a campi l’olivo e il limone, la più elegante di tutte le agriculture.

 

 

Nei monti si coltiva la canapa, ed è quasi ignoto il lino; intorno a Crema e Cremona il lino è primaria derrata campestre, e la canapa è negletta. La pianura pavese si allarga in ampie risaie, poco cura il gelso; e la pianura cremonese ne ha le più folte e robuste piantagioni. Il vino è la speranza dell’agricultura in ambo le opposte estremità del paese, nella boreale e alpestre Val Tellina, e nelle australi pianure di Canneto, di Casalmaggiore, e dell’Oltrepò. L’agricultura bresciana solca profondamente a forza di bovi un terreno tenace; la lodigiana sfiora i campi con un lieve aratro tratto da solleciti cavalli, per non sommovere le povere ghiare, sopra le quali il lavoro dei secoli ha disteso uno strato artificiale.

 

 

Le circostanze naturali che vogliono questa varietà nel modo di coltivar le terre, la vogliono anche nel modo di possederle. Nella pianura irrigua un podere che non avesse certa ampiezza non si potrebbe coltivare con profitto, perché richiede complicate rotazioni, culture molteplici, difficili giri d’acque, e una famiglia intelligente che ne governi la complicata azienda; quindi ogni podere forma un considerevole patrimonio. La famiglia che lo possiede è già troppo facoltosa per appagarsi di quella vita rurale e solitaria, in luoghi non ameni; dimora dunque in città; villeggia sugli aprichi colli e sui laghi; e sovente conosce appena per nome il latifondio che la nutre in quell’ozio.

 

 

La coltivazione trapassa alle mani d’un fittuario, il quale per condurre debitamente l’azienda debb’esser pure capitalista; e ve ne ha taluni più ricchi dei proprietari, e talvolta possessori essi d’altre terre, confidate ad altri coltivatori. Vivendo nel mezzo d’ogni abbondanza domestica, circondati di numerosi famigli e cavalli, formano quasi un ordine feudale in mezzo a un popolo di giornalieri, che non conoscono ulteriori padroni. Qui sorge un ordine sociale affatto particolare. Un distretto che abbia una ventina di comuni e misuri un centinaio di chilometri, conta in ogni comune quattro o cinque di queste famiglie, che spesso vivono in casali isolati, a guisa degli antichi Celti.

 

 

Sono sparsi fra mezzo a loro alcuni curati, qualche medico, qualche speziale, il commissario, il pretore che amministra la giustizia e le tutele famigliari. Questa è l’intelligenza del distretto; tutto il rimanente è numero e braccia. Ogni coltivatore vende grani, e compra bestiami, e occupa fabbri e falegnami; ma il commercio e l’industria non vanno oltre; appena qualche bottega serve al rustico apparato del contadino. Si direbbe che questo è l’antico modello su cui si formò l’agricultura britannica. Ecco gli uomini che sotto le mura di Pavia e appiè del castello di Binasco andavano senz’armi ad affrontar Bonaparte vincitore di Montenotte e di Lodi.

 

 

Se dal fondo della pianura saliamo ai monti, troviamo un ordine sociale infinitamente diverso. Le ripide pendici, ridotte in faticose gradinate, sostenute con muri di sasso, su le quali talora il colono porta a spalle la poca terra che basta a fermare il piede d’una vite, appena danno la stretta mercede della manuale fatica. Se il coltivatore dividesse gli scarsi frutti con un padrone, appena potrebbe vivere.

 

 

La terra non ha quasi valore, se non come spazio su cui si esercita l’opera dell’uomo, e officina quasi del coltivatore; e il paesano è quasi sempre padrone della sua gleba, o almeno livellario perpetuo; con altri patti le vigne e gli oliveti ritornerebbero ben presto selva e dirupo. Mentre una parte della famiglia vi suda, e alleva all’amore del suolo nativo la povera prole; un’altra parte scende al piano ad esercitarvi qualche mestiere; o si sparge trafficando oltremonte, e riporta alla famiglia i risparmi, che le danno la forza di continuare la sua lotta colla natura e colla povertà.

 

 

Un distretto di questa fatta conta tante migliaia di proprietari quante sono le famiglie; ma la ricchezza non viene dal suolo, e vi s’investe come frutto delle arti o del traffico. Laonde si vede una singolar mistura di costumi rusticali e d’esperienza mondana, l’amore del lucro e l’ospitale cordialità, la facilità di saper vivere in terra straniera, e l’inestinguibile affetto di paese, che presto o tardi fa pensare al ritorno. – In alcuni monti la possidenza privata è ancora un’eccezione; il comune possiede vastamente i pascoli e le selve e le acque e le miniere; né basta sempre l’esser nato da gente nata in paese; ma bisogna appartenere ai patrizi del comune, agli originari.

 

 

Senza avvedersi, essi conservano ancora una comunanza, la quale rimonta alle genti celtiche; appena ha fatto luogo qua e là al possesso romano; e non mai sofferse vera signoria feudale, ma onorò solo negli antichi conti e capitani il nome del principe e l’autorità delle leggi. Alcune di queste comunanze, pochi anni sono, tenevano ampie valli; la Leventina, lunga più di trenta miglia, era un solo comune, e si suddivise prima in otto e poscia in venti; il distretto di Bormio era un solo comune, e ancora conserva indivisa fra i nuovi comuni molta parte dell’antica proprietà. In molti luoghi il comune piccolo si distingue dal comune grande, o diremo la moderna parrocchia dal primitivo clano. Questo regime appare più puro e assoluto in quelle valli che si aggregarono alle leghe dei Grigioni, e sopratutto nella Mesolcina, perché sfuggirono alle riforme dei governi amministrativi.

 

 

Alcune delle estreme valli sono troppo alpestri per l’agricultura; la neve le ingombra nove mesi dell’anno, ma le trova deserte e silenziose. Chiusi i poveri casolari, il pastore discende per le valli coll’armento; gli uomini appiedi; le donne sui cavalli, cogli infanti nelle ceste come le tribù dell’Oriente. A brevi giornate di cammino la carovana si arresta dove il contadino del piano l’aspetta; le vacche alpine stanziano qualche giorno a brucare gli esausti prati; poi, inseguite dalle brine, passano a più bassi campi, fino ai prati perenni. Quando la natura si riapre, la famiglia ritorna al suo viaggio, rivede fioriti i campi che lasciò bruni e squallidi; risale lungo i tortuosi torrenti, trova i pochi che rimasero nella valle a diradare le selve, e sudare alle fucine; e si sparge sulle alpi, che così chiama ancora quei pascoli dove la primitiva comunanza non conosce altra disegualità che il numero degli armenti.

 

 

Fra questi estremi, sono le belle colline coltivate come il monte, ubertose come il piano. Quivi una contadinanza, la quale non possiede la sua terra, eppure non emigra, può tributare al padrone il frumento, divider seco il vino e i bozzoli, e serbar tanto per sé da vivere colla famigliola, e allevarla nel semplice tenore de’ suoi padri. Quivi un comune è disseminato in venti, in trenta, in quaranta casali di vario nome, che la chiesa, posta sul poggio più ameno, raccoglie in un comune sentimento di luogo.

 

 

Liberi di coltivare la terra a loro talento, purché non si defraudi dal pattuito frutto il proprietario, essi le sono affezionati come se fosse loro proprietà. Se il padrone si muta, il colono subisce la legge del nuovo; e talvolta una famiglia dura da tempo immemorabile sullo stesso terreno. Tutto l’anno è un continuo lavoro; le viti, il gelso, il frumento, il granoturco, i bachi, le vacche, la vangatura e la messe, il bosco e l’orto danno una perenne vicenda di cure, che desta l’intendimento, la previdenza e la frugalità. Lavorando sempre in mezzo alla famiglia, senza comandare né obbedire, il contadino pur si collega al lontano commercio pel prezzo dei suoi bozzoli, e pel lavoro che la seta porge alle sue donne. Nei siti meno lieti e più ripidi, dove il cittadino non ama investire capitali, l’agricultore è spesso il padrone del suo terreno; e rappresenta quello stato sociale ch’era così sparso negli aborigeni, quando furono i secoli della maggior forza d’Italia e del più puro costume.

 

 

Questi aspetti della vita rusticale nel piano, nel monte e nel colle si spiegano talvolta in modo aperto e risoluto; ma trapassano per lo più dall’uno all’altro, con varia tessitura, che il commercio e l’industria rendono più complicata. Questa varietà palesa quanto l’agricultura sia antica fra noi, ed in quanti particolari modi abbia sciolto i singoli problemi che le varietà naturali del paese le avevano proposto.

 

 

Per effetto di tutto ciò, la pianura lombarda è la più popolosa regione d’Europa. Essa conta per ogni chilometro di superficie 176 anime, mentre la pianura belgica ne ragguaglia solo 143. E se si comprende nel computo anche la parte alpina, ancora si hanno 119 abitanti, dove la Francia ne conta solo 64, e nella sua parte meridionale, che è più meridionale della Lombardia, soli 50. La popolazione specifica nelle Isole Britanniche e nell’Olanda giunge solo a due terzi della nostra; nella Germania alla metà; nel Portogallo e nella Danimarca a un terzo; nella Spagna a un quarto; nella Grecia a un ottavo; nella Russia a un decimo. – Il nostro popolo adunque per effetto di principi amministrativi al tutto suoi, come quelli del censo perpetuo, delle sovrimposte comunali, e della servitù vicendevole d’acquedotto, fecondò in tal modo la sua terra, che sovra lo spazio dove la Francia nutre una famiglia, ne nutre all’incirca due, pur pagando a proporzione di superficie la stessa somma d’imposte. – Le nostre comuni rurali hanno maggior numero di scuole; e il traffico e l’industria s’intreccia più intimamente a tutti gli ordini d’agricoltura e di rotazione, sicché non abbiamo turbe d’industrianti, che non tengano qualche ferma radice nel terreno della patria. Il ferro, la seta, il cotone, il lino, le pelli, il zuccaro sono oggetti di grandiosa manifattura. Il lavoro del ferro, in ragione all’ampiezza del paese, porge tra Como, Bergamo e Brescia una cifra non mediocre, otto milioni di franchi; Milano e Como contano più d’ottomila telai di seta, e novantamila fusi di cotone; la sola Olona anima 424 rote motrici.

 

 

Il povero riceve una più generosa parte di soccorsi che altrove. Nel 1840 si contavano 72 ospitali; in un triennio s’aggiunsero altri 6; altri 7 si stanno edificando; e sono aperti a tutti, senza patronato, senza favore, alla sola condizione dell’infermità e del bisogno. Il patrimonio stabile di questi ospitali ha un valore venale di duecento milioni. Il solo ospitale di Milano ricetta nel corso d’un anno 24 mila infermi; Parigi, che ha una popolazione più che quadrupla, ne ricetta ne’ suoi ospitali solo il triplo. Londra ne ricetta quanto Milano; epperò, a proporzione di popolo, là si soccorre un infermo, dove qui se ne soccorrono dieci. Il povero è sovvenuto di medici, di medicine e di chirurghi anche nelle sue case, non solo nella città, ma nelle più remote campagne.

 

 

La metà incirca dei medici e dei chirurghi, e tre quarti delle levatrici, hanno stipendio dai comuni, a sollievo delle famiglie povere. Il numero dei medici è in ragguaglio di uno sopra 13 chilometri quadri di paese, mentre nel Belgio ogni medico ha un doppio campo di vigilanza. Questo esercito sanitario di medici, di chirurghi, di speziali, di veterinari, di levatrici, somma a poco meno di cinquemila persone. In pari misura il paese è provisto d’ingegneri, i quali nella sola città di Milano ammontano a circa 450, mentre il corpo d’acque e strade in tutta la vastità della Francia ne conta solo 568; il che agevola ogni opera di acque e di strade. Il numero grande delle classi istrutte, poste in assiduo contatto colla popolazione, esercita una benefica influenza a rimovere i pregiudizi, e insinuare un retto senso d’utilità.

 

 

Gli abitanti delle città sono quattrocentomila; e molti oppidi e borghi di sei, di otto, di diecimila abitanti, benché non abbiano nome di città, contano numerose famiglie civili; la possidenza è diffusa in tutte le classi; onde, ogni cosa considerata, è forse questo il paese di Europa che offre il maggior numero di famiglie civili in proporzione all’incolta plebe. Il quadro della creazione della terra lombarda è così compiuto: uomini  laboriosi e risparmiatori hanno tratto da suolo originariamente ingrato sabbioso inondato da acque stagnanti una terra agraria che è fra le meraviglie e mantiene una densissima fra le popolazioni del mondo. Inventarono ed usarono all’uopo cinque istituti giuridici: la proprietà piena, il diritto di acquedotto, il fitto lungo. la consegna con rimborso delle migliorie e il catasto stabile. Assicurato da norme sicure dettate da legislatori sapienti, il risparmio cittadino si volse alla campagna. La terra era creata, anzi edificata[8].

 

 

Dacché il destino dell’uomo fu quello di vivere coi sudori della fronte, ogni regione civile si distingue dalle selvaggie in questo, ch’ella è un immenso deposito di fatiche. La fatica costrusse le case, li argini, i canali, le vie. Sono forse tremila anni dacché il popolo curvo sui campi di questa primitiva landa la va disgombrando dalle reliquie dell’asprezza nativa; i colossi della formazione erratica si dileguarono sotto l’assiduo scalpello; l’immensa congerie prese forma di case, di recinti, di selciato.

 

 

Le acque che scendono torbide d’argilla dai colli, o pregne di calce dai monti, benché guidate con altro fine, involsero di limo le grette ghiaie e le mobili arene, stendendo sul piano inosservata spontanea marnatura, che lentamente s’ingrossa e si affonda nella corteccia della terra. Chi potrebbe fare estimazione dei tesori, che vi stanno indivisibilmente incorporati? Se riguardiamo al solo angusto spazio che giace fra Milano, Lodi e Pavia, perlustrando ad una ad una tutte le opere che ne sommossero la giacitura per meglio atteggiarla alle influenze delle acque e del sole, è poco il computare che in sì breve intervallo sia sepolto il valsente di mille milioni. L’attitudine di questo spazio a nutrire un popolo, quella che può dirsi la sua naturale e selvaggia fecondità, ragguaglierebbe forse appena un decimo di siffatto valsente.

 

 

Quella terra adunque per nove decimi non è opera della natura; è opera delle nostre mani; è una patria artificiale. La lingua tedesca chiama con una medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare; il nome dell’agricoltura (Ackerbau) non suona coltivazione, ma costruzione; il colono è un edificatore (Bauer). Quando le ignare tribù germaniche videro all’ombra dell’aquile romane edificarsi i ponti, le vie, le mura, e con poco dissimile fatica tramutarsi in vigneti le vergini riviere del Reno e della Mosella, esse abbracciarono tutte quelle opere con un solo nome. Sì, un popolo deve «edificare» i suoi campi, come le sue città. E in quel modo che in queste una casa è spesso abitata a sovraposti piani da diverse famiglie, così lo strato fecondo dei campi può farsi atto a nutrir quasi gente sopra gente.

 

 

Immaginiamoci che un uomo iniziato nelle più semplici congetture dell’economia pubblica avesse detto trent’anni sono ai nostri contadini, quando più si disperavano delle tradite vendemmie e della minaccevole carestia, dover essi pensare a mettere in disparte altro pane, altre vesti, per nuovo popolo di centomila famiglie che doveva pullular nel mezzo di loro; per ogni cinque famiglie doversi far luogo a una sesta; – né questa nuova progenie dover essere tutta di poveri braccianti, dovervi crescere insieme anche il numero dei doviziosi; – esser mestieri fornirli di palazzi, di cavalli, di cocchi, e assai più belli e fastosi che non per l’addietro. Se alcuno, confidando nei presagi d’una ovvia scienza, avesse così parlato, lo si sarebbe udito piuttosto con incredulità o con terrore che con meraviglia.

 

 

Eppure il prodigio è compiuto. Noi, già sì folti allora, che il nostro numero sembrava una calamità, siamo cresciuti d’altri quattrocentomila viventi. Abbiamo costrutto nuovi piani di casa, e nuovi piani di campo. E forse, fra trent’anni, alla nostra moltitudine si aggiungeranno altri quattrocentomila fratelli. Eppure il suolo della patria li nutrirà. Ma quella che deve nutrirli non è l’ispida landa di Beloveso; ella è la patria artificiale, che sopra si disse; ella è la terra edificata da un’arte a cui dito umano non può preferire il limite estremo della sua potenza.

 

 

La patria artificiale dura e prospera solo grazie ad un congegno mirabile e delicatissimo, soggetto a mille pericoli di guasto. Cattaneo con occhi di veggente segnalò un pericolo che pochi ai suoi dì scorgevano; voglio dire la miseranda situazione del ceto dei contadini nella bassa lombarda. La divisione del lavoro, la quale aveva attribuito ufficio e compenso degno ai tre ceti dei proprietari, dei fittaioli e degli ingegneri agronomi aveva ridotto i lavoratori della terra a condizione propria più di bruti che di uomini. A lungo Cattaneo discorre[9] delle tristi condizioni dei contadini e dei mezzi per innalzarli. Ma la sua era ancora filantropia ed assistenza morale ed educativa, non sforzo di volontà e rivendicazione di dignità umana. Lo sforzo e la rivendicazione vennero tra il 1880 ed il 1900 ed, invece di rovina, come temevano alcuni, recò nuovo avanzamento all’agricoltura lombarda.

 

 

L’edificio della terra lombarda è destinato a durare nei secoli? Lungo i tremila anni della sua storia la fatica della edificazione fu dovuta ripetutamente essere ripresa; e bastarono alcuni decenni a far cadere l’edificio in rovina, ogni qualvolta gli uomini si scordarono delle idee sul cui fondamento esso unicamente riposa, le quali si riassumono in quella della certezza che gli uomini debbono possedere di godere essi i frutti del proprio lavoro.

 

 

Senza questa certezza, il cittadino non reca alla terra il risparmio, il proprietario con la conserva, l’imprenditore non ne suscita le energie, il contadino non la feconda col lavoro manuale; e la terra da giardino si muta nuovamente in landa deserta, vuota di abitatori. Gli istituti della proprietà piena, del diritto d’acquedotto, del fitto lungo, del diritto al compenso per migliorie e del catasto stabile sono mere idee, che agli immemori possono sembrare irrilevanti e persino oppugnabili. La raccolta presente non sarà stata composta invano se essa gioverà a ricordare quanto siano fragili, perché spirituali, le fondamenta su cui riposa quel bellissimo fra gli artifici umani che chiamasi agricoltura lombarda.

 



[1] I paragrafi riprodotti nel testo vanno dal primo al quarto.

[2] Il brano è tratto dalle Interdizioni israelitiche e si legge in Opere (ed. Bertani), IV, 107-115.

[3] Uno scrittore della Edimburgh Review di gennaio 1848, disse all’incirca ciò ch’io qui aveva detto nel 1836: – Improvements are generally made out of capital, not out of income. Owners of entailed estates, for the most part, live up to their means; and when they do not, their savings are seldom sufficient to carry on works of any importance. The Irish crisis, p. 241.

[4] Si riproducono qui le pagine contenute nei paragrafi trentasettesimo e trentottesimo delle Notizie naturali e civili sulla Lombardia.

[5] «Omnia quae contra ecclesiasticam libertatem erant revocavit, diversaque statuit.. plurimumque fisco suo favit». Franc. Crassi, De orig. juris Mediol.

[6] Su questo problema ricordo i seguenti miei scritti: La Terra e l’imposta in Annali di economia dell’Università commerciale Bocconi, vol. I, 1924: Contributo alla ricerca dell’ottima imposta nei medesimi Annali, vol. V, 1929; e Miti e paradossi della giustizia tributaria, Einaudi, Torino, 1938, capitolo decimo. Il documento storico, il quale espone primamente la teoria perfetta del catasto ed è o dovrebbe essere noverato tra i classici della scienza finanziaria e nel tempo stesso della letteratura italiana fu scritto da Pompeo Neri ed ha per titolo Relazione dello stato, in cui si trova l’opera del censimento universale del ducato di Milano nel mese di maggio dell’anno 1750, in 4, Milano, 1750. La relazione non è, a torto, ricordata nei manuali di storia letteraria, neppure in quello, pur non dimentico degli economisti, di D’Ancona e Bacci.

[7] Si riproducono qui le pagine contenute nei paragrafi dal trentanovesimo al quarantottesimo delle Notizie naturali e civili su la Lombardia.

[8] Le pagine riprodotte nel testo si leggono a pp. 267-268 di Alcuni scritti.

[9] Negli articoli del Crepuscolo, qui riprodotti per la prima volta a carte 205 e seguenti.

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