Opera Omnia Luigi Einaudi

Parere in causa Rivetti contro Rivetti

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1939

Parere in causa Rivetti contro Rivetti

Torino, S.P.E., s.d. [1939]

 

 

 

I.

 

Sulla interpretazione da dare alla opinione della Corte Suprema intorno alla differenza tra rivalutazione contabile e realizzazione corrispondente di maggior prezzo.

 

 

1.- Che «le plusvalenze risultanti da rivalutazioni di enti patrimoniali per conguaglio monetario non costituiscano reddito tassabile in quanto esse rappresentano soltanto una diversa configurazione numerica delle stesse attività economiche; al contrario, la differenza monetaria in più rispetto al prezzo di costo realizzata in occasione dell’alienazione di un ente patrimoniale costituisca reddito tassabile poiché in virtù del principio del valore nominale della lira si produce un quid novi nel campo economico», è opinione della Corte di Cassazione in sentenza 17 marzo 1938 in causa Banco di Napoli c. Finanze.

 

 

2.- Se ho compreso bene, la Corte Suprema ha voluto dire: se Tizio e Caio[1] posseggono in un dato momento, supponiamo antebellico, due case gemelle acquistate e portate in inventario al prezzo di 100.000 lire;

 

 

se Tizio delibera di tenere la casa, ma nel suo inventario la rivaluta, tenendo conto del coefficiente di svalutazione monetaria, a 620.000 lire, la differenza in più non è reddito, perché mera configurazione contabile non realizzata;

 

 

se invece Caio nello stesso momento odierno rivende la casa, realizzando il prezzo di lire 620.000, la differenza in 520.000 lire realizzata in contanti è un quid novi economico verificatosi in virtù del «principio del valore nominale della lira» ed è perciò reddito.

 

 

3.- So bene che del principio affermato dalla Cassazione si sono giovati i patroni del comm. Giovanni Rivetti per controbattere la pretesa dei loro avversari, i quali vorrebbero considerare tutta o gran parte della differenza risultante dalla licitazione in confronto dell’inventario al 30 giugno 1937 come una «rivalutazione patrimoniale» conseguente al deprezzamento dell’unità monetaria.

 

 

I patroni del comm. Giovanni Rivetti dissero: anche se, per ipotesi da essi negata, quella differenza fosse dovuta a rivalutazione patrimoniale, essa sarebbe differenza realizzata, trasformata in moneta; e quindi sarebbe, secondo l’alta opinione della Corte Suprema, «reddito» e non capitale.

 

 

4.- Mi corre obbligo di affermare nettamente che l’opinione della Corte Suprema non ha alcun significato economico. La stessa affermazione feci già nel quaderno del luglio-agosto 1938 della «Rivista Italiana di Dottrina e Giurisprudenza delle Imposte Dirette» (Torino, S.T.E.N., pag. 345-346); e qui riproduco le cose dette allora.

 

 

Se la Corte avesse ragionato di effetti giuridici dello scambio, rimarrei diffidente; ma tacerei. Essa invece ha voluto esporre una tesi economica; e questa contesto.

 

 

Parrebbe che se Tizio conserva la casa, salita nella sua valutazione e, per consenso dei prezzi fatti per case identiche, in quella del mercato da 100.000 lire antiche a 620.000 lire attuali; e se egli si limita a contabilizzare il cresciuto valore nei suoi libri, parrebbe – dico – che non vi sia reddito. Il plusvalore monetario esiste; ma è latente, in cifre, non realizzato.

 

 

Se Caio invece vende la sua casa, acquistata all’ugual prezzo di 100.000 lire vecchie, al prezzo di lire attuali 620.000, egli realizza la differenza in contanti di lire 520.000. L’atto di scambio crea un quid novi; e questo è reddito.

 

 

Tutto ciò non ha senso economico. Le due persone si trovano nella stessa identica situazione economica. L’atto di scambio, per definizione, non crea nulla di nuovo. Esso, salvo casi (che qui si debbono escludere), di stupidità di una delle parti o di inganno dell’altra, si chiama di scambio perché avviene tra cose equivalenti. Caio, per il fatto di vendere, non ha realizzato nulla di nuovo. La casa da lui posseduta valeva già, prima che egli la alienasse, 620.000 lire attuali. Egli ha semplicemente mutata la forma della sua ricchezza: da casa (calce, mattoni, porte e finestre) a denaro.

 

 

Ma quella ricchezza equivaleva a 620.000 lire, prima come dopo. L’atto di scambio non ne accrebbe di un centesimo il valore. Quell’atto giova ad ambedue le parti, venditore e compratore; se non giovasse, non sarebbe compiuto. Poté però aver luogo solo perché amendue le parti convennero nel reputare che la casa valesse (equivalesse a) 620.000 lire.

 

 

Tizio opinava che la sua casa valesse 620.000 lire; e per tale somma la scrisse nei suoi libri; ma opinò che continuare a tenere la somma investita nella casa fosse per lui il miglior partito: e così la tenne.

 

 

5.- Identici essendo i due casi, della rivalutazione contabile per scrittura sui libri o della realizzazione per vendita contro denaro, non possiamo trarre nessuna illazione da un contrasto che non esiste.

 

 

In ambi i casi, quella differenza di 520.000 lire che cosa è? È sostanza od è apparenza?

 

 

È incremento effettivo di ricchezza od è nome di una ombra?

 

 

Nel primo caso la chiameremmo reddito; nel secondo, capitale (ripristino del capitale, aumentato di nome, nella sua sostanza antica).

 

 

6.- È vero che 6,20 lire attuali siano uguali ad una lira antebellica? Questo è problema che va discusso a parte.

 

 

Supponendolo per un istante risoluto nel senso affermativo, noi possiamo su quella base, per il momento, giungere solo alla conclusione che due ricchezze, uguali per forma fisica, esistenti l’una nell’anteguerra e l’altra oggi, ebbero nei tempi rispettivi due valutazioni differenti: l’una di 100.000 lire antiche e l’altra di 620.000 lire attuali; e che perciò queste due ricchezze sono equivalenti.

 

 

L’equivalenza dei due valori, la possibilità di scrivere

 

 

L. antiche 100.000=L. attuali 620.000

 

 

non ci dice tuttavia ancora nulla intorno alla natura economica dei due valori.

 

 

Se le 100.000 lire antiche «erano capitale», sono rimaste «capitale» le 620.000 lire attuali?

 

 

7.- Si e no. Soltanto l’esame preciso del caso specifico può consentire all’economista di dare una risposta non dico sicura, ma ragionata.

 

 

Purtroppo, o meglio, per fortuna la scienza economica non è una scienza la quale, dopo aver ragionato per definizioni di concetti puri e per posizioni di quantità numeriche astratte, possa logicamente applicare le conclusioni così ricavate alla vita concreta. Esistono libri stupendi di teoria economica pura, monili preziosi creati per la gioia della mente di chi li scrisse e di chi li legge. Il capolavoro ebbe vita anche perché l’autore seppe dire ai lettori: «quanto hai letto vale per un mondo rarefatto di astrazioni utili per orientarsi. Se vuoi andare innanzi a capire quanto sta intorno a te, importa che tu proceda con passo di piombo e tenga conto delle mille e mille circostanze particolari che possono avere influenza sul problema specifico, al quale tu vuoi trovare una soluzione».

 

 

8.- Maffeo Pantaleoni – uno dei tre veramente grandi economisti italiani appartenenti, per nascita e formazione mentale, al secolo decimonono (gli altri due si chiamarono Francesco Ferrara e Vilfredo Pareto) – autore e perché autore di un gioiello teorico di purissima acqua chiamato Principii di economia pura, quando si trovò di fronte a problemi concreti, mise sempre innanzi il secundum quid.

 

 

Scrisse di bilanci di aziende commerciali; e ricordò che, anche per la stessa azienda e nello stesso tempo, può essere necessario redigere due o più bilanci diversi, a seconda degli scopi che si vogliono ottenere. E dimostrò tutti quei bilanci diversi essere veri.

 

 

I fini del bilancio «variano presso la stessa impresa, da una fase della sua vita ad un’altra fase della sua vita, per esempio dal periodo in cui è in pieno esercizio delle sue funzioni lucrative al periodo in cui subisce trasformazioni, ingrandendosi, assorbendo altre imprese o suddividendosi, al periodo in cui è in liquidazione».

 

 

Ad ogni fine e ad ogni situazione occorre un tipo adatto di bilancio. «Un bilancio è una situazione redatta secundum quid. Se la legge o se le convenienze commerciali esigono situazioni redatte secondo una pluralità di fini, questi fini possono non essere realizzabili simultaneamente in un unico bilancio. Occorrono vari bilanci. E ciascuno sarà conforme a una esigenza od a più esigenze compatibili tra di loro. Dal non aver compreso questo nascono centinaia di controversie giudiziarie insolubili così come ne vengono posti i termini». (Alcune osservazioni sulle attribuzioni di valori in Erotemi di Economia, II, 231).

 

 

9.- Se Pantaleoni affermava la possibilità di compilare per la stessa azienda e nel medesimo momento e cogli stessi dati due o più bilanci diversi e tutti veri, lo stesso possiamo dire noi rispetto alla proposizione:

 

 

L. antiche 100.000 = L. attuali 620.000.

 

 

Se la cosa, la quale valeva lire antiche 100.000, spettava ad un Tizio il quale nel quarto di secolo intercorso dormì, nulla facendo per conservare e salvare e migliorare la sua cosa, e si risvegliò proprietario della stessa cosa realizzabile e realizzata sul mercato al valore di lire attuali 620.000, noi possiamo affermare che quelle 100.000 prima e 620.000 poi, erano e sono rimaste capitale.

 

 

Tizio è un puro capitalista; e delle 620.000 lire attuali sue nulla è dovuto, come frutto o reddito, all’opera sua.

 

 

Il capitale inerte rimase lo stesso tipicamente e si gonfiò numericamente. La svalutazione dell’unità monetaria agiva automaticamente, da sé; e faceva crescere il numero delle lire da lui possedute.

 

 

Caio è un industriale, un imprenditore, il quale ha impiegato 25 anni fa 100.000 lire antiche nella sua impresa: terreni, capannoni, macchinario, materie prime, materie in lavorazione, ecc. ecc. Egli lavora, lotta, perde e guadagna. In media chiude i suoi esercizi annui in guadagno ed alla fine realizza per la sua azienda 620.000 lire attuali. Che cosa è la differenza?

 

 

Puro capitale?

 

 

Ma se egli non avesse lavorato, preso decisioni momentose, rischiato, che cosa avrebbe in mano? Cose morte, ferraglie, il valore di liquidazione delle quali non basterebbe a pagare le sue passività.

 

 

Bene egli potrà, e giustamente, sostenere dinnanzi all’ufficiale delle imposte che egli non si è arricchito; ché le 620.000 attuali da lui oggi possedute sono né piùné meno delle 100.000 lire antiche possedute un quarto di secolo fa; e che egli, perciò, non essendosi arricchito, non è passibile di imposta.

 

 

Ma chi oserebbe sostenere che la differenza gli spetti in virtù del mero possesso del capitale originario, quando è vero ed è certissimo il contrario? Che egli è riuscito a conservare quel che prima possedeva esclusivamente perché egli ha lavorato, ha sofferto, ha osato, ha rischiato?

 

 

10.- Io dico che nel mondo, così come è – per rispetto alle opinioni e situazioni altrui non aggiungo, sebbene lo pensi, essere un bene che sia fatto così – non c’è più posto per i capitalisti dormienti. È vero anche qui il monito di Mussolini: vivete pericolosamente.

 

 

Dico che la figura dei Tizi, che conservano il loro capitale e lo vedono crescere o scemare in numero di unità monetarie collo svalutarsi o col rivalutarsi della unità monetaria medesima, è una figura irreale, sulla quale non si può costruire niente.

 

 

11.- La verità è un’altra: sono passati, se pure mai esistettero, i tempi nei quali bastava ai risparmiatori buoni padri di famiglia, investire i propri risparmi in titoli di tutto riposo, in case, in terreni, per conservarli e vederli, eventualmente e lentamente, crescere persino da sé in valore.

 

 

Noi ci siamo lasciati ipnotizzare dall’esperienza, unica nella storia del mondo, del secolo il quale corse dal 1814 al 1914; e vide le unità monetarie rimanere pressoché inalterate. Forse passeranno secoli prima che quella esperienza ritorni.

 

 

Frattanto, possiamo dire che oggi, come in passato, salvo forse e molto parzialmente la eccezione ora menzionata, il capitale non ha da sé alcuna virtù di autoconservazione.

 

 

Abbiamo veduto la mala fine di chi si è illuso in proposito. Dappertutto, non solo in Italia, il capitalista puro, il buon padre di famiglia, il risparmiatore prudente e meritevole ha sbagliato.

 

 

12.- Ha sbagliato quando ha investito in titoli di Stato, in cartelle fondiarie; e si è illuso che le cedolette semestrali di interesse fossero «reddito»; e come tale lo ha consumato.

 

 

Così avevano fatto suo padre e suo nonno; e così fece egli.

 

 

Invece quelle cedolette erano e sono per metà o per tre quarti quote di ammortamento che egli doveva accantonare, se voleva conservare intatto il capitale. Avendole consumate, egli ha conservate le stesse cento lire nominali, ma queste valgono, sì e no, sedici lire antiche.

 

 

Ha sbagliato quando, possedendo terre, ha creduto si potesse fare come facevano i suoi vecchi: darle in affitto o condurle a masserizio, recandosi una o due volte all’anno in campagna a dividere i prodotti. Vennero i giorni, in cui i fitti furono vincolati e rimasero per anni inferiori alle imposte ed alle spese di mantenimento. Ed egli, disperato, vendette il fondo quando, per lo stato di dilapidazione in cui era caduto, meno valeva. Realizzò lire in numero ancora vicino all’antico; e queste in sua mano svanirono. Se il fondo era a masserizio ed egli stava in città attendendo al suo ufficio, il mezzadro gli diede poca soddisfazione: la metà sua dei raccolti rimpiccioliva; la filossera gli mangiava le vigne. Abbia o non venduto, è assai dubbio se il valore di realizzo attuale del fondo, se si tenga conto dei redditi non conseguiti in passato in confronto ai titoli di tutto riposo, sia uguale, in numero di lire, al valore antico.

 

 

Ha sbagliato quando, possedendo case e vedendo dal 1914 al 1922 restare – al più – fissi per il vincolo i fitti e crescere a dismisura le spese e le imposte, vendette.

 

 

Ha sbagliato quando, per salvarsi dalle perdite o compensarle, acquistò dal 1922 al 1926 azioni industriali e bancarie. Non essendo del mestiere, naturalmente acquistò ai prezzi di punta e rivendette, preso dal panico, ai minimi.

 

 

13.- Non è colpa della fortuna se egli ha sbagliato.

 

 

Occorreva l’esperienza degli ultimi 25 anni per dimostrare che il capitale è l’ultima ruota del carro economico e che esso si conserva solo a costo di un duro quotidiano lavoro, forse più duro e più assiduo di quello che fu necessario a formarlo.

 

 

Se un capitalista, che aveva 100 lire antiche nel 1914, possiede oggi 620 lire attuali, possiamo affermare con sicurezza che egli appartiene al tipo dei Caii. Egli deve quella differenza nominale di 520 lire non mai alla virtù intrinseca rivalutativa del capitale originario, ma a sé stesso, tanti rischi egli corse: di comportarsi come si sarebbe comportato l’ottimo fra i risparmiatori della generazione precedente, – di vendere terre e case quando tutti vendevano terre e case, – di comperare azioni quando tutti comperavano azioni, – di fuggirne a precipizio con la folla dei suoi compagni di sventura. Se egli resistè, se egli si salvò, siamo certi che ciò accadde perché egli lavorò, amministrò da sé la sua casa, la trasformò; perché riuscì, stringendo la cintola, a sormontare le annate di perdite secche nelle terre, per vincoli ai fitti, per inerzia di mezzadri, per invasioni filosseriche: perché si convertì in agricoltore e trasformò le sue culture; perché seppe uscire a tempo dagli impieghi azionari. Si salvò cioè, non in quanto capitalista, ma in quanto lavoratore, imprenditore, speculatore.

 

 

14.- Dopo ciò, chi può definire «capitale» le lire 520 di differenza nominale fra 100 e 620?

 

 

Le definizioni sono un arbitrio della nostra mente. Esse sono valide in quanto servono a distinguere, non a confondere cose sostanzialmente diverse. Chiameremo «capitale», diremo «ripresa dell’investimento originario» ciò che è frutto, anno per anno, giorno per giorno, di dura fatica, di continua ansiosa ricerca di migliori metodi di investimento, di rischi continuamente corsi?

 

 

Quella differenza può anche, se così piace, essere definita capitale. Ma allora «capitale» vuol significare «frutto rinnovato e ognora conquistato di nuovo lavoro».

 

 

Non litighiamo sulle parole. Ricordiamo solo che tradizionalmente a quei «frutti» si dà il nome di «reddito».

 

 

II.

 

Se e quali elementi qualificabili sicuramente come reddito si possono accertare nella differenza tra la base (inventario al 30 giugno 1937) e il risultato della licitazione.

 

 

15.- La risposta al quarto quesito posto nel verbale dell’adunanza del 17 marzo del Collegio Arbitrale ha avuto forzatamente carattere generale, senza necessaria immediata connessione col caso specifico della liquidazione Rivetti.

 

 

A rendere più concreta la risposta alla domanda: «La differenza tra il ricavo della liquidazione in seguito alla avvenuta licitazione e la cifra risultante dallo inventario al 30 giugno 1937 deve considerarsi utile o capitale?», si impone un’analisi rivolta ad accertare se in quella «differenza» possono discernersi e valutarsi sia pure approssimativamente importi, la cui natura certamente debba essere considerata reddito e non capitale.

 

 

Con la quale analisi non solo si fornirebbe una risposta al punto 2, sul quale i patroni del comm. Giovanni Rivetti hanno richiamata l’attenzione del Collegio nel memoriale del 23 marzo; ma si accerterebbe altresì se vi siano fattori costituenti reddito, i quali abbiano contribuito alla determinazione del maggior realizzo in confronto ai valori di inventario; che è parte del quesito 5 posto dal Collegio Arbitrale nella seduta del 17 marzo.

 

 

16.- Se dall’analisi così condotta risultasse che la «differenza» – d’ora innanzi per brevità indicherò così la ricordata differenza tra il ricavo risultante dalla licitazione e la base della licitazione stessa o cifra di inventario al 30 giugno 1937 – è in notevole parte composta di elementi certamente definibili come utile, solo sull’eventuale residuo dovrà fermarsi la nostra attenzione per discuterne eventualmente la natura.

 

 

17.- Il primo elemento della «differenza» che ci si presenta innanzi è dato dall’insieme di quei valori economici che prendono nome di avviamento, clientela, nome, ecc.

 

 

Per dichiarazione delle due parti (verbale del Collegio Arbitrale del 17 marzo, che registra l’opinione concorde del Geom. Vaglio e del Rag. Argenziano) nello stabilire la base iniziale della licitazione – base tratta dall’inventario al 30 giugno 1937 – non si tenne conto affatto né dell’avviamento, né del nome della ditta.

 

 

A questi due fattori, che in tutti gli inventari precedenti dall’origine della società, non erano mai stati neppure menzionati, la licitazione diede corpo e valore.

 

 

Li assumerò in blocco, essendo praticamente impossibile di valutarli separatamente.

 

 

18.- Quali criteri possiamo accogliere per una valutazione? Poiché ci muoviamo qui su terreno malfido e sovranamente incerto, corre obbligo di fare ipotesi e ragionamenti estremamente prudenziali, esagerando, ogni volta insorga dubbio, nello sminuire il valore degli indizi assunti.

 

 

All’uopo ho spogliato gli inventari dall’1 gennaio 1892 al 30 giugno 1937, raggruppando gli esercizi successivi in periodi, sia per non addurre troppe cifre, sia per eliminare, facendo la media dei risultati ottenuti nei singoli anni di ogni periodo, le singolarità accidentali di anni particolarmente fortunati o disgraziati, sia finalmente per mettere in evidenza gli influssi delle circostanze economiche generali e dar meglio ragione delle conclusioni raggiunte.

 

 

Ecco i risultati:

 

 

Periodi

Utile medio annuo lire

1892 – 1900

227.595

1901 – 1909

561.004

1910 – 1914

1.101.149

1915 – 1920

18.154.366

1921 – 1926

20.811.330

1927 – 1931

– 5.367.890

1932 – 30 giugno 1937

21.153.807

 

 

Le cifre dei tre periodi 1915-1920, 1921-1926, e 1927-1931 paiono troppo influenzate da fattori estranei per poter essere assunte per sé a fondamento di conclusioni. Se la società Rivetti si fosse liquidata al 31 dicembre 1920, si sarebbe potuto dubitare se il nome e l’avviamento avessero avuto parte notevole nel determinare il salto dalla cifra 1,1 del 1910-1914 a quella di 18,1 milioni del 1915-1920.

 

 

La guerra, si sarebbe potuto dire, non fu essa la generatrice dell’incremento?

 

 

Parimenti, se la ditta si fosse liquidata al 31 dicembre 1926, si sarebbe potuto dubitare se i 20,8 milioni non fossero – in parte imprecisabile – determinati dall’urgenza di soddisfare ai bisogni, reali o immaginari, del dopoguerra; urgenza, la quale convertì tutto il mondo in un immenso affannoso cantiere.

 

 

Ed ancora, il crollo negativo del periodo 1927-1931, considerato da solo, non era la reazione logica alla mai più vista espansione precedente? Se ad una ad una considerate, le risultanze dei tre periodi fan sorgere dubbi, il loro valore diventa positivo se siano assunte in connessione l’una coll’altra e collegate col successivo periodo 1932-1937. La serie delle cifre, e massimamente la pausa negativa del 1927-1931, dimostrano che la impresa Rivetti non fu, come tante altre, il risultato patologico e momentaneo della guerra; bensì un’impresa incardinata nel passato, avente radici vivaci in una organizzazione industriale e commerciale temprata alle avversità e capace di sormontare le bufere delle peggiori crisi.

 

 

19.- Quali sono le manifestazioni economiche del nome della ditta, della buona reputazione che essa si è acquistata? Quali le manifestazioni dell’avviamento dell’impresa, ossia della sua capacità ad allargare le vendite e ad allargarle con profitto?

 

 

Chi voglia acquistare una ditta coi suoi capitali materiali e con quelli immateriali (avviamento, nome):

 

 

1)    constata i profitti recenti da essa ottenuti; e, con la scorta delle variazioni subite nel passato, giudica su quali profitti si possa fare assegnamento per l’avvenire;

 

2)    capitalizza i profitti medesimi ad un saggio di rendimento uguale a quello corrente sul mercato per imprese similari;

 

3)    dall’importo così ottenuto detrae il valore delle cose materiali esistenti nel patrimonio dell’impresa: terreni, fabbricati, macchinari, scorte, ecc.;

 

4)    la differenza è uguale al valore del nome e dello avviamento della ditta.

 

 

20.- Quali i probabili profitti futuri della ditta Rivetti?

 

 

Lo specchietto presentato sopra dimostra che i profitti erano crescenti. Attraverso la peggiore bufera economica (1927-1931), di cui si abbia ricordo nella storia, i profitti crescono.

 

 

Crescono anche nell’ultimo periodo 1 gennaio 1932 – 30 giugno 1937; che è quello su cui gli uomini fissano sempre il loro sguardo. Le valutazioni che si fanno sul mercato non si basano mai su fatti remoti, ma su quelli recenti.

 

 

Gli uomini possono aver torto o ragione nell’operare in questo modo. Qui però non siamo chiamati a mutare ad essi la testa, bensì a constatare i fatti. L’uomo di affari chiamato a valutare l’impresa Rivetti si sarebbe fatto rammostrare i conti degli ultimi anni.

 

 

Che cosa vi avrebbe letto?

 

 

Anno

Utile medio annuo lire

1932

4.597.360

1933

11.003.083

1934

8.016.916

1935

28.034.672

1936 – 30 giugno 1937

43.129.270

 

 

Le due tendenze, quella lunga, che gli economisti usano chiamare «tendenza Secolare», e quella breve, che essi dicono «ciclica», coincidono. I profitti della ditta tendono a crescere.

 

 

21.- Tuttavia io li supporrò costanti. È una enorme esagerazione, iniqua verso gli organizzatori dell’impresa. Ma preferisco rendermi colpevole di iniquità pur di gettare un ponte sicuro sulle acque malfide di valutazioni necessariamente approssimative. Supporrò dunque che i profitti futuri della impresa, su cui un acquirente avrebbe potuto prudenzialmente fare assegnamento per l’avvenire, siano di 21.153.807 lire, uguali alla media dei profitti nell’ultimo periodo 1932-1937, di poco superiori ai profitti dei periodi 1915-1920 e 1921-1926; all’incirca la metà dei profitti ottenuti nell’ultimo anno, durante la gestione pur già turbata dalla imminente liquidazione del 1936-1937.

 

 

22.- Quale parte dei profitti così preveduti è dovuta al capitale e quale ai fattori organizzativi?

 

 

Il capitale investito in media nello stesso periodo 1932-1937, che ci servì di base alla constatazione soprafatta dei profitti in lire 21.153.807, fu di lire 116.566.710.

 

 

Quale il reddito attribuibile al capitale investito nella impresa Rivetti?

 

 

Se dovessimo basarci sul rendimento medio effettivo dei capitali impiegati in analoghe imprese a forma di società per azioni – che sono quelle sole per cui si sa qualcosa – dovremmo purtroppo partire da limiti assai bassi. Gran mercé poter arrivare al 6 per cento. Preferisco basarmi sull’8%, che fu quello scelto come limite durante la guerra per avocare allo Stato tutta la eccedenza oltre tale limite considerata come sopraprofitto di guerra, e di nuovo recentemente per considerare l’eccedenza di dividendo soggetto a particolare imposta (R.D.L. 5 ottobre 1936, n. 1744).

 

 

Calcolato all’8% il reddito industriale prudenzialmente presumibile di un capitale di lire 116.566.710 è di lire 9.325.337.

 

 

Noi perciò avremmo:

 

 

Reddito futuro probabile

L. 21.153.807

Reddito attribuibile al capitale investito

L. 9.325.337

Reddito di avviamento, nome, ecc.

L. 11.828.470

 

 

A scopo di controllo, assumo un’altra base di calcolo.

 

 

Poiché il contratto sociale aveva diviso gli utili in parti definite; e queste aveva attribuito nelle seguenti maniere:

 

 

Al gruppo

Giovanni

Quintino

Ottavio

Totale

Quote uguali

2

2

2

6

Quote speciali

4

1

5

 

6

3

2

11

 

 

suppongo che al capitale come tale spettassero, secondo la volontà degli interessati, . Rifatti i calcoli si ottengono i seguenti risultati:

 

 

Reddito futuro probabile

L. 21.153.807

Reddito attribuibile al capitale investito (6/11 del totale)

L. 11.583.438

Reddito residuo di avviamento, nome, ecc.

L. 9.615.369

 

 

Scelgo quest’ultima cifra:

 

 

in primo luogo perché evita di ricorrere all’ipotesi, che avevo fatto larga, ma era pur sempre arbitraria, intorno al rendimento dei capitali investiti nell’industria;

 

 

in secondo luogo perché evita di assumere una cifra di capitale investito, che potrebbe da taluno affermarsi involgere una petizione di principio; in terzo luogo, perché risponde alla volontà delle parti;

 

 

e finalmente perché è la minore delle due; e perciò evita la taccia di avere esagerato il valore da attribuirsi all’avviamento.

 

 

La scelta faceva pecca – di nuovo – di evidente esagerazione in meno: in primo luogo per aver supposto, contro la evidenza, costante e non crescente il reddito futuro probabile; – ed in secondo luogo per aver gonfiata la quota attribuibile al capitale e ridotta quella dovuta all’abilità degli organizzatori dell’impresa.

 

 

23.- A quale saggio capitalizzeremo il reddito residuo di lire 9.615.369 per ottenere il valore dell’avviamento, del nome, di tutti cioè quei valori imponderabili, i quali non hanno alcuna consistenza materiale che non furono nel caso specifico mai inventariati?

 

 

Anche qui siamo nel campo dell’arbitrario.

 

 

Sopra considerai che i capitali materiali, visibili, concretabili in terreni, fabbricati, macchinari, scorte, ecc., fruttassero l’8% in media. È una esagerazione.

 

 

Le cose morte non hanno tanta capacità di frutto.

 

 

Vedemmo già quale sorte miseranda sia riservata, nel mondo come è, ai disgraziati capitalisti i quali immaginino di trovare un porto sicuro e redditizio ai loro risparmi, senza uopo di diuturna ansia di gestione. Il reddito, qualunque sia, è dovuto in massima parte agli uomini vivi. Non voglio in tanta incertezza offrire una ipotesi mia al Collegio Arbitrale. Scelgano gli insigni suoi componenti tra le varie ipotesi possibili:

 

 

a)    l’aspirante acquisitore dell’impresa intende ricavare il 10% dalla somma impiegata nel comprare avviamento, nome, organizzazione, ecc., valutabili in lire 9.615.369 annue. In tal caso egli sarà disposto a pagare lire 96.153.690;

 

b)    l’aspirante intende ricavare il 20%. Paga lire 48.076.845;

 

c)    l’aspirante intende ricavare il 30%. Paga lire 32.051.230.

 

 

Più in là non andrei, perché a questo punto gli aspiranti all’acquisto dell’impresa diventerebbero legione.

 

 

24.- Che cosa sono questi «32.000.000» di lire?

 

 

Non divertiamoci a camminare sul filo del rasoio ed a spaccare il capello in avviamento, nome, organizzazione, fama, abilità, ecc. ecc.

 

 

Prendiamoli nel loro complesso ed affermiamo che essi sono il minimo prezzo, prudenzialmente calcolato, a cui i proprietari dell’impresa sono disposti a vendere il frutto, mai inventariato, del lavoro di organizzazione industriale e commerciale, di iniziative prudenti ed audaci nel tempo stesso, di buoni servizi resi ad una clientela sempre più affezionata.

 

 

Quei frutti, invece di chiamarsi 32 milioni di lire corte, potrebbero, se non ci fosse stata svalutazione, chiamarsi 5 milioni di lire lunghe.

 

 

Ciò non ha rilievo ai fini della natura loro. Essi non sono un capitale investito in forma monetaria in passato. Sono il frutto, riscosso al momento della liquidazione, dell’opera dell’imprenditore. Come tali, essi vanno divisi secondo la regola contrattuale della divisione degli utili; la quale regola è quella degli undicesimi.

 

 

25.- Secondo fattore della «differenza» è il «ricupero di perdite».

 

 

Nella memoria a stampa del prof. Gino Zappa leggesi (a pagg. 30-31) il quadro delle perdite sopportate negli anni della crisi e principalmente nel 1930 e nel 1931 per svalutazioni cospicue dovute apportare a talune attività sociali.

 

 

Non è contestato che quelle perdite furono sopportate dai soci secondo la regola degli undicesimi.

 

 

Non pare ugualmente contestabile che, se alcune di quelle attività ricuperarono in conseguenza della licitazione una parte dell’antico valore, quel ricupero deve essere considerato come contrapposto alla perdita e diviso con gli stessi criteri.

 

 

Mi limito a tre grossi capitoli di perdite e di successivo recupero:

 

 

 

Prezzo di costo

Prezzo di inventario al 30-VI-1937

Perdita ripartita secondo la regola degli undicesimi

Ricavo di licitazione

Ricupero di perdita precedente

S.A. Textor

8.060.000

1.500.000

6.560.000

2.600.000

1.100.000

S.A. Gruppo finanziario tessile

60.000.000

21.000.000

39.000.000

42.200.000

19.200.000

Filatura di Vigliano

25.804.178

7.000.000

18.804.178

 

 

Per la Filatura di Vigliano non è possibile precisare il ricupero in cifra esatta, perché essa fu compresa nel lotto degli stabili e macchinari di Biella; e contribuì a formare il sovraprezzo ricavato dal gruppo principale.

 

 

Essendo stata la svalutazione cospicua, è grandemente probabile che essa abbia contribuito in misura notevole al sopraprezzo complessivo.

 

 

Se anche volessimo supporre che il recupero sia stato uguale soltanto alla metà della perdita precedentemente contabilizzata, noi giungeremmo ai seguenti risultati:

 

 

ricupero sulla S.A. Textor

L. 1.100.000

ricupero sul Gruppo Finanziario Tessile

L. 19.200.000

ricupero sulla Filatura di Vigliano

L. 9.400.000

Totale valore dei ricuperi

 

L. 29.700.000

 

 

Se il ricupero per la Filatura di Vigliano fosse stato completo, l’importo totale dei ricuperi giungerebbe a 39.100.000 lire.

 

 

Non esiste ragione logica perché i ricuperi debbano ripartirsi con criteri diversi da quelli con cui furono ripartite le corrispondenti perdite; alle quali i ricuperi debbono essere fatti risalire, come effetto a causa determinante e sufficiente.

 

 

26.- Terzo fattore della «differenza» sono le deficienti valutazioni delle materie prime, dei semi-lavorati e dei manufatti esistenti in magazzeno al momento dell’inventario al 30 giugno 1937.

 

 

Scrive il geom. Rubens Vaglio nell’esposto del 25 gennaio 1938, presentato al Collegio Arbitrale (all’intento di contestare i criteri adottati per la liquidazione della ditta), che male si operò dalla maggioranza dei liquidatori quando per la maggior parte si iscrissero in inventario le materie prime al prezzo internazionale, «il quale corrisponde ad un terzo del prezzo del mercato italiano».

 

 

27.- Qui non importa ritornare sul punto allora controverso se sia bene o male operato ad inscrivere in inventario le esistenze di magazzeno al prezzo internazionale.

 

 

Basti constatare le conseguenze del metodo seguito.

 

 

Ho stralciato dall’inventario al 30 giugno 1937 le partite di «esistenze merci» contenenti lana, trascurando, per l’ingente importo di lire 10.962.356, tutte quelle, a comporre le quali entravano altre fibre; e troppo malagevole riusciva a scernere il contributo della lana.

 

 

Anche per le altre fibre si potrebbero compiere constatazioni analoghe a quelle che si faranno per la lana; ma, poiché meno sicure parrebbero le illazioni valutative, preferii addirittura di trascurarle.

 

 

Quanto alle partite composte in tutto o prevalentemente di lana: assunsi per intiero il valore delle lane sudice e lavate;

 

 

applicai, indicandoli, opportuni coefficienti di riduzione per i tops, la lana lavata e la lana tinta per risalire dai valori completi dei prodotti intermedi ai valori originarii della lana greggia;

 

 

dedussi dai valori dei filati il valore delle altre fibre ed applicai alla rimanenza congrui coefficienti di riduzione;

 

 

e così pure feci per l’inventario stoffe.

 

 

Ecco i risultati ottenuti:

 

 

 

Valori di inventario

Deduzioni per materie prime estranee

Valori residui

Coefficienti di riduzione per spese di lavorazione

Valori di inventario residui attribuibili alla lana greggia

Lane sudice e scartate

9.339.035,85

9.339.035,85

Tops greggi

3.230.447,80

7

3.004.316,46

Tops tinti

3.943.424,70

12

3.470.213,74

Lana lavata

7.479.538,30

4

7.180.356,77

Lana tinta

1.100.604,10

8

1.012.539,77

Filati

cardati

2.358.043,65

1.179.021,82

1.179.021,82

20

943.217,46

pettinati

6.711.573,80

711.573,80

6.000.000 —

20

4.800.000 —

presso terzi

2.318.788,25

818.788,25

1.500.000 —

20

1.200.000 –

30.949.680,05

Stoffe in lavorazione e in magazzino

21.030.390 —

di cui

cardate

5.000.000 —

50

2.500.000 —

pettinate 16.030.390 —

30

11.221.273 —

 

Totale valore lana greggia

Lire 44.670.953,05

 

 

Questo è il valore d’inventario della lana greggia esistente, in vari stadi di lavorazione, al 30 giugno 1937, che il Geom. Vaglio afferma corrispondente – per la maggior parte – ad un terzo del prezzo del mercato italiano.

 

 

28.- Importa renderci ragione innanzitutto della affermazione.

 

 

È noto che la lana greggia nazionale è lontanissima dal bastare alle esigenze del consumo nazionale; e che tutta la esportazione all’estero dei manufatti lanieri è alimentata dalla importazione di lana greggia estera. Pure in regime di autarchia è conveniente importare materia prima estera quando – come qui è il caso – si può riesportarla accresciuta di valore sotto forma di prodotti finiti.

 

 

Le pressioni rivolte a ridurre le importazioni del greggio si riferiscono per ciò a quella parte che provvede al consumo interno.

 

 

Qui sono state applicate norme rigorose di contingentazione, in virtù di cui alle diverse ditte furono assegnate licenze di importazione dall’estero determinate sulle importazioni compiute dalle ditte medesime in un periodo di tempo fissato e precedente alle limitazioni odierne.

 

 

È opinione non controversa, risultante dagli atti dei successivi Collegi Arbitrali, che fu merito del Comm. Oreste Rivetti di aver osato importare quando altri dubitava; e di avere così assicurato alla sua ditta una posizione di primo ordine tra quelle le quali sono oggi in grado di procacciarsi la materia prima necessaria ai propri stabilimenti. Il risultato non è dovuto a mera fortuna, né a fattori monetari. La fortuna in queste faccende passa accanto a molti; e solo pochi posseggono le qualità necessarie a coglierla.

 

 

Quel quantitativo di lana che si acquista sui mercati di origine al costo di una sterlina, e che viene per ciò iscritto in inventario al corrispondente corso in lire italiane, versato attraverso l’Istituto cambi, di lire 93, può essere rivenduto, per la quota relativa al consumo nazionale, ad un prezzo che il Geom. Vaglio dice e che effettivamente è stato triplo del prezzo internazionale.

 

 

Il fattore monetario non c’entra.

 

 

La sterlina, nel momento in cui si discorre, vale ed è fornita dagli organi competenti a 93.

 

 

La lana comperata a 93 vale sul mercato nazionale 200, 250, fino 300 lire, perché il quantitativo indigeno è insufficiente e quello importato è contingentato.

 

 

I prodotti finiti, le stoffe vendute in Italia si adeguano non a 93, ma a 200, 250 e fino a 300 lire.

 

 

Questa, sia detto tra parentesi, che non ci interessa, è la ragione per cui taluni, ai quali, per avere importato in passato, fu riconosciuto il diritto a partecipare ai contingenti di importazione, poterono – come è noto – vendere le sterline a 200, 250 e 300 lire. Essi non vendevano in realtà lire sterline; ma avendo ridotto il loro lavoro ed abbisognando di sole mille balle invece delle 2.000 loro assegnate in contingente, vendettero il diritto ad importare dall’estero mille balle di lana e così il diritto a pagar la lana, fino a concorrenza di 1000 balle, al prezzo internazionale, suppongasi 93 lire.

 

 

L’industriale, privo di contingente o con contingente insufficiente (il quale avrebbe, per trovar lana sul mercato interno, incontrato gravi difficoltà e l’avrebbe dovuta pagare fino a 300 lire) trovò conveniente pagare al collega, ben provveduto di permessi di importazione, il diritto ad importar lana sulla base di 200, 250 e fino 300 lire invece di 93.

 

 

29.- Quale influenza può il fatto avere esercitato sui valori delle esistenze lana al 30 giugno 1937 della ditta Rivetti?

 

 

Il totale valore d’inventario della lana greggia a quella data può calcolarsi – come sopra fu dimostrato – a lire 44.670.953.

 

 

Poiché il maggior valore riguarda solo il mercato interno, dobbiamo chiederci: quanta parte dell’importo ora detto è riferibile all’esportazione e quanta al consumo nazionale?

 

 

A dare una risposta plausibile, riproduco la cifra d’affari della ditta nell’esercizio 1937 e nel primo semestre 1938, distintamente per l’estero e per l’interno (in milioni di lire):

 

 

 

Estero

Interno

Totale

1937

31,7

92,9

124,6

primo semestre1938

12,3

66,3

78,6

 

44

158,2

202,2

proporzione percentuale

21,75%

78,25%

100

 

 

Ho scelto il 1937 ed il 1938 perché sono gli esercizi nei quali la percentuale della esportazione fu la massima.

 

 

Nel 1935 e nel 1936 la esportazione all’estero giungeva in media solo al 5,50% della cifra d’affari della ditta.

 

 

Anche qui ho voluto premunirmi contro il rischio di assumere troppo alta la percentuale del consumo interno; ed ho scelto il periodo in cui essa fu minima.

 

 

Dunque il maggior prezzo non inventariato si applica solo al 78,25% dell’esistenza totale lana in lire 44.670.953, ossia a lire 34.955.020.

 

 

È probabilmente – dico «probabilmente», perché non intendo riprodurre il pensiero altrui se non in quello che esso ha di definito – quella «maggior parte»alla quale il Geom. Vaglio si riferiva quando affermava, né gli altri liquidatori contestarono mai la affermazione, che le materie prime figuravano nell’inventario al 30 giugno 1937 ad un terzo del loro valore. Secondo l’egregio Geom. Vaglio, qui esisterebbe dunque una riserva latente di lire 69.910.040.

 

 

Siccome siamo in materia opinabile, supporrò che invece di un terzo, si debba parlare di metà. Anche questa è prudenza eccessiva, perché – purtroppo – per i consumatori italiani le cose si svolsero per l’appunto come il Geom. Vaglio dichiara.

 

 

Anche se si moltiplicasse per due invece che per tre il prezzo internazionale, giungiamo alle lire 34.955.020 di riserva latente lane; riserva certissimamente non monetaria, prudentemente valutata e dovuta all’abilità dell’imprenditore, il quale seppe mettere la sua impresa in grado di avvantaggiarsi di circostanze che ad altri imprenditori meno antiveggenti recarono danno grave.

 

 

30.- Quarto fattore della «differenza» è l’importo inconsueto degli ammortamenti sui costi di costruzione e di acquisto degli impianti e macchinari.

 

 

Già nelle memorie dei patroni ed in quella a stampa del prof. Zappa si accennò alla importanza che nella gestione Rivetti ebbero sempre le alte quote di deperimento: ordinarie del 5% per i terreni e per le case operaie, del 10% per le costruzioni industriali e per i macchinari; straordinarie del 30% all’atto medesimo della iscrizione negli inventari per gli stabili ed i macchinari costruiti ed acquistati a partire da quando nel 1920 parve (come si legge nei libri medesimi di inventario) che i costi fossero divenuti «enormi molto al di sopra del valore realizzabile».

 

 

Il prof. Zappa, il quale ha compilato un elenco dei più notevoli tra siffatti ammortamenti straordinari, giunge per essi soli, dal 1920 al 1934 alla cospicua cifra di lire 4.352.447.

 

 

Certamente qui sta una riserva latente cospicua.

 

 

La ditta Rivetti, colla politica degli ammortamenti di gran lunga eccedenti il necessario, prende posto fra le imprese di grande stile, le quali col sacrificio degli utili presenti si assicurano l’avvenire.

 

 

La riserva medesima, per quella parte la quale esisteva tutta al 30 giugno 1937, venne fuori grazie all’esperimento di licitazione. Ed essa è certamente utile, non contabilizzato e non distribuito prima.

 

 

Tuttavia io inscriverò questa partita solo per memoria.

 

 

A far un calcolo, anche approssimativamente attendibile delle riserve latenti dovute agli ammortamenti ordinari e straordinari, eccedenti la realtà, occorrerebbe un’indagine attenta sui libri della ditta; indagine la quale importerebbe molto tempo e dovrebbe essere fatta sulla base di criteri tecnici ed economici prima assodati.

 

 

Il Collegio Arbitrale potrà eventualmente ordinare che la perizia sia fatta.

 

 

Inoltre, la iscrizione di una qualsiasi cifra sembra prematura sino a quando non sia stato esaminato il contenuto del quesito primo, posto nel verbale dell’adunanza 17 marzo del Collegio Arbitrale.

 

 

È manifesto invece che altro deve essere il rilievo da darsi agli accantonamenti in eccesso del necessario quando si voglia risalire all’origine della società, ed altro quello che appare logico se si riconosca l’esistenza di una rottura economica verificatasi negli anni 1930 e 1931.

 

 

31.- Raccogliendo le fila della dimostrazione sin qui svolta, valori massimi e minimi da attribuirsi alle partite individualizzabili della «differenza» fra l’importo dell’inventario al 30 giugno 1937 ed il ricavo della licitazione sono i seguenti:

 

 

 

Massimo

Minimo

1) Avviamento, nome, ecc.

L. 96.076.845

L. 32.051.230

2) Ricupero di perdite

39.100.000

29.700.000

3) Deficienti valutazioni delle materie prime nell’inventario al 30 giugno, 1937

69.910.040

34.955.020

4) Ammortamenti inconsuetamente in eccesso del necessario

per memoria

per memoria

 

L. 205.086.885

L. 96.706.250

 

 

Ho già dette le ragioni per le quali assumo la minore delle due cifre. E questa ha, ai miei occhi, innanzitutto un valore positivo in quanto dimostra come la «differenza» sia interamente spiegabile grazie a fattori che, oggettivamente considerati, sono fuori d’ogni dubbio frutto di lavoro, del tipico lavoro di imprenditore, il quale organizza la azienda, procaccia clientela, dà fama e credito al nome della ditta, coglie ed utilizza fattori esterni favorevoli, scansa, con la preveggenza e prudenza negli accantonamenti e negli inventari, i pericoli inerenti ai cicli economici, pericoli innanzi ai quali altri, posto nelle medesime condizioni oggettive, soccombe.

 

 

Che la «differenza» sia tutta e forse al di là spiegabile con fattori di gestione dell’imprenditore è risultato che raggiunsi senza preordinarlo, anzi facendo ogni sforzo per assumere basi di ragionamento tali da rendere minimi i valori cercati.

 

 

Quale esso è, il risultato ha valore altresì di riprova della tesi che nella prima sezione della presente memoria ho già posto: essere oggi la conservazione del capitale medesimo frutto esclusivo del lavoro.

 

 

L’affermazione che nella prima sezione aveva valore sia pure concreto, ma non specifico, acquista nella seconda sezione valore specifico applicato alla ditta Rivetti.

 

 

Se i risultati della licitazione lasciarono un margine rilevante oltre i valori assunti a base della licitazione medesima, causa operante e sufficiente non fu una misteriosa ed irreale attitudine delle cose materiali a rivalutarsi.

 

 

Quella causa fu, in questo caso come in tanti altri, unicamente la capacità del fattore immateriale impersonato nei dirigenti dell’azienda ad utilizzare i fattori materiali.

 

 

III.

 

Sul quesito se l’utile dell’impresa possa essere accertato ad anni finiti ovvero al termine della vita dell’Impresa; e se dall’utile ovvero da conferimento di capitale siano stati tratti gli impianti e loro ampliamenti.

 

 

32.- I risultati ottenuti colla analisi fin qui condotta sono, oltreché raggiunti con ogni cautela, verosimili?

 

 

È verosimile che la più volte ricordata «differenza» sia frutto della gestione di intrapresa anziché della rivalutazione dei fattori materiali o capitalistici?

 

 

33.- Giova sgombrare innanzitutto il terreno di una «fictio» astratta contabile, la quale fu gettata tra i piedi del collegio giudicante e secondo la quale ogni esercizio sociale annuo avrebbe vita a sé stante.

 

 

Seguendo quella finzione contabile, gli utili di gestione si accerterebbero alla chiusura di ogni anno, col paragone dell’inventario al 31 dicembre coll’inventario alla fine dell’anno precedente.

 

 

Tutto ciò che non sia risultato così utile dell’anno sarebbe capitale; e come tale dovrebbe essere trattato.

 

 

Perciò, avendo i soci chiusi i conti alla fine dell’esercizio ultimo 1936-30 giugno 1937, tutto ciò che non risultò come utile nell’inventario al 30 giugno 1937 è capitale; e come tale va trattato.

 

 

34.- Della fictio contabile così creata fecero giustizia il prof. Zappa dal punto di vista contabile ed il prof. Vivante dal punto di vista giuridico.

 

 

Sia lecito allo scrivente ricordare quanto, dal punto di vista economico, egli ebbe in proposito a scrivere in un libro (Miti e paradossi della giustizia tributaria, pag. 112 e 209) pubblicato al principio del 1938:

 

 

«Gli uomini sono abituati a dividere il tempo a fette … La mezzanotte avanti all’1 gennaio e la mezzanotte dopo il 31 dicembre sono paraocchi che gli uomini si sono messi per non essere disturbati, nel camminare e nel decidersi, dal ricordo di quel che è successo prima, dalla previsione di quel che succederà dopo; e per poter fare i conti senza troppi dubbi e troppe inquietudini.

 

 

«Gli uomini hanno mille ragioni di mettersi i paraocchi; ogni tanto, se si vuole procedere innanzi, bisogna fermarsi, riflettere al passato, calcolar se le cose sono andate bene o male e per ciò avere un punto di riferimento; un prima e un poi per sapere quel che è successo nel frattempo. Questa abitudine fondata è divenuta siffattamente sangue del sangue degli uomini, che questi, anche se sono economisti o finanzieri illustri, si inquietano quando taluno li tira per la coda della giacca e dice: Bada che l’abitudine, ragionata a certi fini, non è verità di fede; è un semplice strumento di condotta, mero espediente utile ad orizzontarsi nel tempo, che è senza termine né di inizio né di fine» (pag. 112).

 

 

Ed ancora:

 

 

«La divisione del tempo in intervalli finiti, ad esempio, l’anno dall’1 gennaio al 31 dicembre, è un artificio.

 

 

«Necessario, ma artificio.

 

 

«Supporre che la vita di un’impresa possa essere spezzata in esercizi finiti annui è supporre l’assurdo. Non si può sapere se un’impresa ha fornito ai suoi proprietari profitti ossia perdite se non quando essa è morta e tutte le sue attività siano state liquidate.

 

 

«Paragonando allora gli incassi e le spese potremo giudicare dell’esito dell’impresa. Finché essa rimane in vita ed opera, il giudizio è provvisorio. Andrà ingoiata la riserva da perdite future? Basterà a fronteggiarle?

 

 

«Nel dividere il tempo in intervalli annui e nel redigere conti riferiti distintamente ad ognuno di quegli intervalli i contabili obbediscono alla necessità di orientarsi, di avere una norma per l’avvenire, di sapere se il successo arride o no all’impresa; di non sentire, nell’atto di prelevare fondi a fini di spesa privata, rimorso di aver recato nocumento alla vita di essa … Ma dalla necessità in cui gli uomini sono di dividere il tempo in intervalli finiti non discende la razionalità della frantumazione e dei calcoli che su questa si istituiscono.

 

 

«Trattasi di meri espedienti empirici» (pag. 208-209).

 

 

35.- Quando scrivevo questa pagina e quando tanti anni prima leggevo in quello che è il capolavoro di economia pratica di Pantaleoni (come i Principii ne sono il capolavoro teorico) e cioè in La caduta della Società Generale di Credito Mobiliare Italiano(Giornale degli economisti, 1895) le seguenti massime:

 

 

«Quanto più è breve il periodo entro il quale si torna a fare il bilancio, tanto più incerto è il suo risultato e infondata una distribuzione di utili in base al medesimo, ossia più brevemente, la serietà delle valutazioni comprese nel bilancio cresce colla lunghezza dell’esercizio;

 

 

«a rigore non è serio e reale un bilancio, che se è fatto a periodi così lunghi, che entro i medesimi si siano liquidate le operazioni principali che vi sono comprese … Il bilancio di un affare non può farsi che prendendo l’affare al suo nascere ed alla sua fine … Non ha nessuna serietà o credibilità un bilancio di cui non siano posizioni consuntive almeno i nove decimi; che altrimenti un bilancio non è che un puro scandaglio ipotetico, che va preso per tale, inteso come tale, utilizzato come norma agendi in mancanza di meglio, e dotato di fortissime riserve qualora in base ad esso venissero distribuiti degli utili» (riprodotto in Studi Storici di Economia, Bologna, Zanichelli, pagg. 290-292);

 

 

non prevedevo che un giorno mi sarei trovato a svolgere le pagine dei libri degli inventari della Società Giuseppe Rivetti & Figli dal 1892 al 1937; e che qui avrei trovato la applicazione, fatta senza nulla sapere di quanto Pantaleoni aveva scritto ed io avevo ripetuto, guidati soltanto da quel senso economico, che noi abbiamo un po’ la superbia di ritenere una sottospecie del buon senso.

 

 

36.- Ecco un’impresa che all’origine si costituisce con un capitale di 300.000 lire conferito in parti uguali dai tre fratelli Giovanni, Quintino ed Ottavio Rivetti.

 

 

Secondo le risultanze in atti la società si sarebbe costituita con scrittura privata 6 aprile 1894 (reg. a Biella il 9 aprile 1894 n. 2835) in nome collettivo, in prosecuzione di altra già esistente di fatto, con durata sino al 31 dicembre 1909 e col capitale di L. 300.000 conferito in parti uguali tra i soci.

 

 

Se guardo, invece che alle scritture pubbliche, agli inventari, non vedo traccia delle 300.000. Già al 10 gennaio 1892 il «fondo capitale» della ditta Giuseppe Rivetti & Figli, corrente in Biella, era di lire 685.560.

 

 

I tre fratelli Giovanni, Quintino ed Ottavio firmano l’inventario dichiarandolo vero e reale, fatto secondo coscienza negli estimi e desunto dai libri della società.

 

 

Al 10 gennaio 1893 e successivamente al 10 gennaio 1894 e 1895 il «Fondo capitale» è cresciuto rispettivamente ad 832.340 – 999.110 – 1.154.200 lire.

 

 

Nell’inventario al 10 gennaio 1895, nel quale si sarebbe dovuto dare atto dell’esistenza del capitale sociale di lire 300.000, di questo non si fa parola.

 

 

Da tutte le partite, immobiliari e mobiliari, dell’attivo si deducono come al solito le partite passive; ed il risultato registrato è quello detto sopra: un fondo capitale di lire 1.154.200.

 

 

Si vede che nella mente dei tre soci la cifra di lire 300.000 assegnata al capitale aveva un valore puramente contabile, di criterio per la attribuzione della proprietà della ditta in tre parti uguali.

 

 

Si sarebbe potuto scrivere 3 lire o 30 lire; e nulla sarebbe stato cambiato. Se avessi potuto esaminare gli inventari della società di fatto Rivetti anteriori al 1892, avrei con tutta probabilità riscontrato che il capitale iniziale conferito dai soci, suppongasi pure di 300.000 lire, aveva dato luogo ad un fondo investito di anno in anno crescente coll’aumentare degli utili.

 

 

37.- Perché il Collegio Arbitrale abbia sott’occhio la sequenza dei fatti, chiedo venia se riassumo i risultati degli inventari qui di seguito (in migliaia di lire):

 

 

Utili conseguiti nell’anno Capitale investito al 31 controindicato dicembre dello stesso anno

 

 

 

Utili conseguiti nell’anno controindicato

Capitale investito al 31 dicembre dello stesso anno

1891

686

2

147

832

3

166

999

4

155

1.154

5

12

1.166

6

271

1.437

7

316

1.752

8

276

2.028

9

478

2.505

1900

228

2.505

1

266

2.734

2

701

3.000

3

430

3.700

4

384

4.130

5

374

4.514

6

389

4.887

7

694

5.276

8

850

5.730

9

962

6.580

1910

625

6.582

1

835

6.998

2

1.098

7.736

3

1.118

8.689

4

1.831

9.659

5

8.391

11.212

6

16.236

18.132

7

17.007

31.471

8

14.719

45.441

9

16.223

57.539

1920

36.350

66.525

1

– 1.032

86.489

2

20.657

86.063

3

27.645

61.468

4

32.053

76.684

6

19.931

94.305

7

23.550

105.313

8

774

118.296

9

9.055

118.296

1930

4.841

123.794

1

21.758

126.571

2

– 19.750

114.566

3

4.597

103.792

4

11.003

106.437

5

28.035

112.576

1936 e I

semestre

1937

64.694

 

 

38.- Che cosa è in questa impresa, tipica delle imprese prospere, il capitale?

 

 

Se qui non discutessimo di quesiti proposti ad un Collegio arbitrale in una disputa tra antichi soci, si potrebbe trarre dalle cifre ora esposte una magnifica dimostrazione sul non senso che vi è da attribuire al capitale una virtù creativa nelle cose che durano. Che figura fanno quelle 300.000 lire iniziali nella formazione del colosso che oggi abbiamo dinanzi agli occhi, le sole poche migliaia di lire che eventualmente possono essere considerate un apporto estraneo di mezzi materiali alla impresa?

 

 

Però, anche in questa disputa tra soci, conviene inchinarsi alla realtà economica.

 

 

Quelle 300.000, solo capitale conferito dai soci, sono un nulla, evanescente in confronto a ciò che fu creato dopo.

 

 

39.- Come fu creato?

 

 

Anno per anno, assiduamente, i tre soci e poi i loro figli, calcolano gli utili conseguiti sulla base della differenza dei due inventari di inizio e di fine anno; ma non li ritirano. Li riversano non nella cassa, ma nella contabilità sociale. Dico «non nella cassa»perché i Rivetti non hanno mai immaginato potesse essere vera la credenza popolare, la quale configura gli utili come consistenti in denari contanti, i quali un bel giorno, al 31 dicembre dell’anno, si trovino ammucchiati in cassa e possano essere ritirati, per spenderli, dai soci; oppure riversati nella cassa stessa per trasformarsi così in capitale ed essere poi investiti in terreni, fabbricati, macchinari, scorte, ecc.

 

 

Probabilmente i Rivetti non hanno mai pensato di fare della buona teoria economica, quando col fatto hanno respinto cosiffatta infantile concezione dei rapporti fra utili e capitale.

 

 

Essi erano e sono semplicemente dei bravi industriali, i quali sanno che in nessun momento dell’anno esiste in nessuna parte dell’azienda una quantità astratta di numerario chiamata capitale.

 

 

Sanno che al principio dell’anno esistono certi terreni, certi impianti, certi macchinari, certe scorte in merci, e sovratutto esiste una certa organizzazione industriale, commerciale, sociale (i buoni rapporti fra soci, dirigenti, impiegati, capisala ed operai).

 

 

Sanno che tutti questi fattori lavorano continuamente, senza interruzione e continuamente si trasformano e crescono (o diminuiscono).

 

 

Questi fattori materiali valevano all’1 gennaio 1892 lire 686.000; ed alla fine dell’anno stesso valevano 832.000?

 

 

Ciò vuol dire che, grazie alla buona gestione, si sono acquistati terreni, si è ampliato un capannone, si è costruita una sala, si sono accresciute le scorte lana.

 

 

Tutto ciò è accaduto durante l’anno. Tutto ciò seguita ad accadere da un anno all’altro, scavalcando i primi di gennaio di ogni anno, guardando con indifferenza questa data dei giorni di inventario, in cui, secondo la credenza popolare, dovrebbe verificarsi la miracolosa trasmutazione degli utili in capitale e poi di questo in impianti, macchine, merci, ecc.

 

 

Quando il primo di gennaio arriva, la trasformazione in impianti è già avvenuta.

 

 

Di giorno in giorno l’utile, che si sta pure quotidianamente formando, prende la forma di mattoni, calce, telai, lana.

 

 

Non un centesimo di capitale nuovo è stato durante l’anno versato dai soci allo scopo di crescere gli impianti, i macchinari e le scorte.

 

 

Tutto ciò che al 31 dicembre esiste in più in confronto alla chiusura dell’esercizio precedente, è venuto fuori dal lavoro compiuto durante l’anno.

 

 

Quando il salone nuovo si costruisce, quando si acquista la macchina più moderna, quando si incrementano le scorte per alimentare gli impianti ampliati, l’utile non è nemmeno ancora accertato.

 

 

Sta appena formandosi e già si impiega.

 

 

Alla fine dell’anno, quando si fa l’inventario, non avviene nulla di nuovo dal punto di vista economico.

 

 

Si accertano contabilmente i fatti accaduti. Dal confronto dei due inventari risulta un incremento. Di che cosa?

 

 

Non di denaro; ché anzi forse il denaro in cassa è diminuito in confronto dell’inventario precedente.

 

 

L’incremento è nella quantità fisica degli impianti, delle macchine, delle scorte valutate prudenzialmente, con forti diffalchi immediati.

 

 

Questo incremento si chiama utile; e lo si porta integralmente dal 1892 al 1909, per  dal 1910 al 1918, per  dal 1919 in poi, ad incremento delle quote dei soci.

 

 

Ma la registrazione in conto capitale avviene di fatto e necessariamente dopo che esso già, sotto forma di utili in formazione, era stato impiegato.

 

 

40.- Assumiamo ad esempio l’inventario al 31 dicembre 1935:

 

 

PASSIVITÀ

ATTIVITÀ

Debiti verso terzi

L. 90.300,663

Attività diverse

L. 233.784.518

Utili differenziali versati ai gruppi Giovanni e Quintino

11.242.250

 

101.542.913

Fondo capitale esistente all’1 gennaio 1935

115.449.183

Utili iscritti a riserva straordin.

3.000.000

Aumento del fondo capitale

14.792.422

132.241.605

 

L. 233.784.518

 

 

Il punto di partenza nella formazione dell’inventario è la constatazione della cifra di attività che si legge a destra: 233.784.518 lire.

 

 

Esistono 233.8 milioni di lire. Il che vuol dire che per la maggior parte negli anni precedenti ed in parte nell’ultimo anno furono prodotti e furono investiti utili sotto quella forma.

 

 

L’investimento in denaro in cassa è trascurabile: 180.235 lire.

 

 

Le banche sono debitrici per 17.204.038 lire; ma il massimo debitore è l’Istituto Laniero Italiano per 16.949.750 lire, somma presumibilmente impegnata per il giro normale degli affari della ditta.

 

 

Praticamente tutte le attività sono investite.

 

 

Constatato il fatto, si procede alla distribuzione contabile, alla sinistra, nei vari capitoli di passività: 115,4 sono la cifra del fondo preesistente all’1 gennaio. Il resto è differenza in più. La si chiama utile e la si scrive ripartitamente ai vari capitoli: 11,2 milioni a credito dei gruppi Giovanni e Quintino per i 4/11 e 1/11 loro spettanti, 3 milioni sono accantonati a riserva straordinaria e 13,8 milioni sono ripartiti per scrittura tra i tre gruppi e mandati ad aumento del fondo capitale.

 

 

Quando gli utili sono accertati e sono dichiarati distribuiti contabilmente – non manualmente – agli aventi diritto, essi sono già stati investiti. La cifra a destra, quella che rappresenta la realtà valutativa delle attività esistenti, è tutta di cose investite. Da essa si parte, come da fatto già accaduto, per calcolare e ripartire gli utili e mandarli a conto corrente od a capitale.

 

 

La formazione del cosidetto capitale segue e non precede la formazione degli utili e gli investimenti di questi.

 

 

41.- Tra i quesiti proposti dai patroni del comm. Giovanni Rivetti nel memorandum del 23 marzo vedo al n. 6 incluso il seguente:

 

 

«Se non sia vero che nel caso attuale le somme impiegate nella costruzione, nell’ampliamento, nella ricostruzione etc. di immobili e di impianti sono necessariamente investimenti di utili dell’impresa».

 

 

Non solo è vero che così accadde nel caso specifico; ma è anche vero che una impresa è tanto più salda, prospera e progressiva, quanto più segue la regola dell’impiegare utili e non capitale conferito, negli ampliamenti.

 

 

Nelle imprese grandissime, a forma di società anonime per azioni, per il numero notevole degli interessati e la diversità dei loro interessi non sempre è possibile di seguire la regola del lento accrescimento a mezzo utili.

 

 

Tuttavia, anche nel caso delle società anonime, se si vede che una di esse amplia i proprii investimenti esclusivamente con successivi appelli a nuove emissioni di azioni, il meglio che gli azionisti possono fare è vendere le loro azioni e scappare a gambe levate.

 

 

Quella società finirà male. Almeno in parte, anche le società devono autoalimentarsi.

 

 

Che cosa vuol dire mandare utili a riserva, se non averli già impiegati durante l’anno?

 

 

Che finalità ha il R.D.L. 5 ottobre 1936, n. 1744, il quale stabilì una imposta straordinaria progressiva sugli utili distribuiti oltre l’8%, se non quello di indurre gli amministratori delle società anonime ad autoalimentarsi, ossia a reinvestire nell’impresa parte degli utili a mano a mano che essi si producono?

 

 

42.- Quel che il legislatore vuole facciano gli amministratori delle società anonime, i Rivetti fecero sempre dal 1892 in poi in misura imponente. Dopo il 1909, quando furono iscritti a capitale le quote di 3 – 3 – 3 e poi 2 – 2 – 2 undicesimi uniformi per tutti i soci, le eccedenze spettanti ai gruppi Giovanni e Quintino non furono, neppure esse, in tutto sottratte all’impresa.

 

 

Accreditate in conto corrente, esse continuavano ad operare nell’impresa. Ai soci spettava il diritto per le esigenze private, di effettuare prelievi; e taluno si giovò largamente di siffatto diritto.

 

 

I prelievi erano addebitati in contocorrente. Ho segnato con doppio asterisco l’annata 1923, in cui il capitale sociale all’1 gennaio diminuisce a 61,5 milioni dagli 86,1 a cui era arrivato all’1 gennaio precedente, sebbene durante l’anno 1922 si fossero ottenuti utili per 20,2 milioni.

 

 

La diminuzione è dovuta ad un mutamento avvenuto nella registrazione. Il capitale, a causa degli utili conseguiti, avrebbe in verità dovuto essere iscritto per l’importo di 97.467.960. Ma poiché i tre gruppi di soci avevano effettuato contro tale capitale a poco a poco negli anni precedenti prelievi cospicui, i quali andavano sino a 19.315.626 lire, i soci furono d’accordo nell’eliminare questa che era una partita di giro; e, per consentire nuovi prelievi senza che insorgesse la necessità di modificare nuovamente la cifra del capitale sociale, dedussero 36 milioni dai 97,5 milioni mandandoli in parti uguali a credito dei tre gruppi; cosicché il capitale si ridusse a 61,5 milioni.

 

 

Subito dopo, alimentata dagli utili, la cifra del capitale riprende a salire con qualche interruzione, che ho segnato con asterisco semplice.

 

 

Una battuta d’arresto si ebbe nel 1928, perché gli utili dell’esercizio 1927 erano stati irrilevanti e furono mandati a nuovo.

 

 

Tre furono le diminuzioni: nel 1922 a causa della chiusura in perdita, modesta, dell’esercizio 1921; e nel 1931 e 1932 a causa delle enormi perdite verificatesi nel 1930 e 1931.

 

 

Le quattro riduzioni, una per registrazione dei prelievi dei soci e tre per perdite, sono – vorrei dire – preziose ai nostri occhi per comprendere la vera natura delle cifre, le quali di anno in anno erano registrate a credito dei soci come capitale.

 

 

In realtà dall’origine al 30 giugno 1937 tutto ciò che supera le mitiche 300.000, che si affermano conferite dai soci dal di fuori (non avendo, ripeto, veduto i libri anteriori al 1892 non posso affermare nulla in proposito; ma ho grave sospetto che anche le 300.000 fossero utili prodotti dal lavoro che prima i tre soci od il padre loro avevano svolto nell’impresa), e che furono registrate a titolo di capitale, non altro fu in realtà se non una registrazione di utili progressivamente prodotti; e, appena prodotti:

 

 

a)    trasformati per la maggior parte in impianti, macchinari, scorte;

 

b)    ridotti da perdite di quando in quando incontrate;

 

c)    e per la parte residua prelevati dai soci per le loro esigenze private. I tre soci, che non erano obbligati ad usare linguaggio preciso dal punto di vista economico, chiamavano «capitale» i saldi attivi degli inventari di fine d’anno.

 

 

Quei saldi erano invece registrazioni contabili provvisorie, soggette ad alti o bassi, necessarie per orizzontarsi di anno in anno, per sapere a che punto ci si trovava, per decidersi a camminare o marcare il passo od anche arrestarsi, per spiccare nuovo e più ardimentoso balzo in avanti. Ma registrazioni provvisorie, in attesa della resa dei conti finali, la quale venne al 30 giugno 1937.

 

 

43.- Tutto il ricavo della liquidazione, più i 36 milioni prelevati dai soci all’1 gennaio 1923, più gli undicesimi differenziali accreditati di mano in mano ai gruppi Giovanni e Quintino, è utile, ad eccezione della cifra iniziale ipotetica delle 300.000 lire.

 

 

Le registrazioni a posteriori, compiute a fine anno, in conto capitale sono mere finzioni contabili, le quali economicamente non hanno nessun significato.

 

 

Se un’impresa abbia dato utili o perdite, si sa solo al momento della morte dell’impresa.

 

 

Ben poteva darsi che la liquidazione desse luogo ad una perdita. Se l’impresa si fosse liquidata a fine 1931, con ogni probabilità non si sarebbero neppure ricavati i 103,8 milioni che l’inventario all’1 gennaio 1932 registrava come esistenti, dopo avere depennati nei due anni 41,5 milioni di perdite.

 

 

La liquidazione si sarebbe fatta nel clima del 1930-1931, che era clima di nero pessimismo economico.

 

 

All’umor nero non si sarebbero sottratti allora neppure i Rivetti; ché, se anche avessero conservato il vecchio spirito intraprendente, sarebbero in quel tempo mancate le possibilità oggettive di far danaro per disinteressare i recedenti.

 

 

Invece dei 250 milioni e oltre di realizzo di liquidazione forse non si sarebbe giunti ai 70 od 80 milioni. Non possediamo dati sicuri per una conclusione recisa; ma gli indizi, che si possono ricavare dalle quotazioni di azioni di alcune sane imprese azionarie, di cui i titoli sono quotati in borsa, dai prezzi correnti delle aree edilizie e delle case, dalla invendibilità in allora di impianti industriali, fanno sospettare che anche una cifra di realizzo di 70 od 80 milioni costituisse per il 1931 un’ipotesi ottimistica.

 

 

La tormenta della crisi avrebbe spazzato via gli elementi, i quali sette od otto anni dopo dovevano servire a spingere in su il ricavo della liquidazione.

 

 

Invece di ricuperi di perdite, si sarebbero registrate altre perdite rimaste latenti; invece di deficienti valutazioni di materie prime, si sarebbero dovuti riconoscere eccessi di valutazione in confronto a prezzi crollanti; e gli ammortamenti sarebbero apparsi troppo modesti di fronte al ristagno del mercato.

 

 

L’avviamento?

 

 

Per modesto che fosse, sarebbe parso eccessivo persino quello che prima della guerra (nel 1914) o alla vigilia della rinnovazione del contratto sociale (nel 1909) si fosse potuto calcolare.

 

 

L’avviamento del 1914 (valutabile – con i criteri medesimi seguiti sopra – da un massimo di 4 milioni e mezzo ad un minimo di un milione e mezzo) e quello del 1909 (calcolabile da un massimo di due milioni ad un minimo di 650.000 lire, sia pur vecchie) ambedue sarebbero stati travolti, come festuche, dall’uragano.

 

 

44.- Gli anni 1930 e 1931 creano un «hiatus» profondo nella gestione sociale. Le riserve occulte, se c’erano, scomparvero.

 

 

Anche qui bisogna star lontani dalle inavvertite influenze del linguaggio

comune.

 

 

Il quale è propenso a ritenere che riserve siano un fondo in denaro, esistente in cassa o depositato in qualche banca, al quale si può attingere per fronteggiare perdite, pagare imposte straordinarie e simili.

 

 

Niente di simile esiste nella realtà.

 

 

Questa è raffigurata dal bilancio; che, ridotto alla minima espressione visiva, prende la seguente forma generale (le cifre sono ipotetiche):

 

 

PASSIVO

ATTIVO

Capitale e riserva

100

Impianti

20

Debiti verso terzi

50

Macchinari

20

 

150

 

Scorte

40

  Cassa e conti correnti attivi

5

Crediti

50

Titoli

15

 

150

 

 

Capitale e riserva sono una mera cifra scritta al passivo; la quale non ha alcuna esistenza autonoma. Se è vero che le partite attive si possono realmente valutare e realizzare ai valori segnati alla destra del bilancio; se è vero che esse cioè valgono 150, poiché è certo che i debiti verso terzi sono 50, risulta che la cifra del capitale e riserve è 100.

 

 

Ma se le partite attive non si potessero realizzare per 150, poiché la cifra dei debiti verso terzi non muta, altro non resterebbe se non ridurre in corrispondenza la scritturazione relativa al capitale e riserve. Attingere alle riserve non ha senso, perché quelle riserve altro non sono se non utili decorsi i quali hanno preso corpo di impianti, macchinari, scorte, cassa, credito e titoli. Per attingere bisogna realizzare.

 

 

Non si può nemmeno attingere alla cassa, il cui importo è quello che deve essere per far fronte alle esigenze quotidiane dell’impresa.

 

 

Della inscindibilità dei risultati della liquidazione e della loro attribuzione all’impresa.

 

 

45.- La rottura economica prodottasi nel 1930 e 1931 poteva avere effetti duraturi. Per altri li ebbe. Vi furono grossissime aziende – ed i nomi sono sulla bocca di tutti – le quali non poterono risollevarsi se non dopo enormi quasi totali recisioni del capitale antico, ridotto a cifra-ricordo e nuovi apporti estranei di capitali freschi.

 

 

Nell’impresa Rivetti, nulla di simile. Si contraggono le cifre di quella, che sopra ho messo in luce non potersi chiamare capitale conferito, ma mera valutazione provvisoria delle attività sociali nette.

 

 

È mio parere – come dissi sopra – che, se invece di semplici scritturazioni eseguite per illuminazione dei soci, si fosse trattato di vera valutazione a scopo di liquidazione, si sarebbe dovuto andare sotto ai 103,8 milioni inventariati al netto all’1 gennaio 1932.

 

 

Dopo, venne la ripresa.

 

 

A chi dovuta? Non alle cose materiali, terreni, fabbricati, macchine, merci, ecc. Queste valgono in quanto sono manovrate e fatte agire. Quel che vale 100 in mano di Tizio, vale 200 in mano di Caio. Un’impresa industriale del tipo Rivetti non è composta di cose le quali abbiano un valore individuale una per una. Si possono scindere dal complesso talune cose, che hanno vita a sé stante, come si fece per i Beni Fondiari a Milano, per il Gruppo Finanziario Tessile, per la Textor.

 

 

Ma il grosso è un’unità.

 

 

Come in tanti altri campi, qui la somma aritmetica dei valori degli addendi non è uguale al valore del tutto. Se si valutano i terreni ed impianti per 20, i macchinari per 20, le scorte per 40, i crediti per 50, e i titoli per 15, il valore del tutto è necessariamente, anzi non è – se non per caso inverosimile – uguale alla somma degli addendi 150. È meno o più.

 

 

Ognuna delle partite attive ha un valore se assunta a sé, ed un valore diverso se assunta in combinazione con le altre partite e specialmente con il fattore imponderabile della capacità di questo o quell’imprenditore a gerire l’impresa.

 

 

Nel caso specifico, il fattore imponderabile, che si riassume nella parola «impresa», fece sì che il valore delle attività sociali registrato nell’inventario all’1 gennaio 1932 in 103,8 milioni di lire, probabilmente realizzabile per assai meno, se lo si fosse realizzato a quell’epoca, acquistò un prezzo di realizzo nella liquidazione di oltre 250 milioni di lire.

 

 

46.- Non ha alcun significato il tentativo che si volesse fare di individuare nelle lire 150.550.000 (per limitarsi a queste) ricavate dalla licitazione per gli stabilimenti di Biella e Vigliano includente il diritto al nome, i varii coefficienti che lo compongono.

 

 

Non si può attribuire ai terreni piuttosto che ai fabbricati, a questi piuttosto che alle merci, alle merci piuttosto che all’avviamento od al nome, il merito del sovraprezzo raggiunto in confronto al valore di inventario di 105.000.000 lire.

 

 

La dimostrazione, che nella seconda sezione della presente memoria fu data, e cioè essere il sovraprezzo in tutto – anzi ad esuberanza – spiegabile coi fattori

 

 

  • avviamento e nome

 

  • ricupero di perdite

 

  • maggior valore del monte merci

 

  • ammortamenti eccessivi

 

 

siffatta dimostrazione – ripetesi – sta in ogni sua parte.

 

 

Se il sovraprezzo può essere attribuito a certi fattori non può essere invece fatto contemporaneamente e separatamente risalire ad altri.

 

 

Il valore della dimostrazione, da me data nella sua medesima esuberanza, è tuttavia sovratutto un altro: essere logicamente assurdo scindere nei suoi vari elementi i fattori della ripresa dei valori verificatisi dopo il 1931.

 

 

Lessi nelle memorie della parte avversaria che il sovraprezzo è dovuto alla rivalutazione monetaria dei terreni e dei fabbricati. E perché proprio a questo e non ai fattori indicati invece da me?

 

 

Fa parte dei miei almeno un fattore per il quale si potrebbe sostenere che esso sta a sé.

 

 

Il montemerci, al 30 giugno 1937, era un qualcosa di mobile, avente un prezzo noto di mercato, vendibile in grosso anche senza sminuire sensibilmente il valore degli altri fattori. Se lo stabilimento avesse potuto riapprovvigionarsi e continuare, se alla sua testa fossero rimasti uomini di iniziativa e di capacità pari ai gerenti Rivetti, si potrebbe sostenere che qui c’era un fattore autonomo. Ma anche questa è pura astrazione; ché noi sappiamo non essere esistita allora e non esistere oggi invece possibilità di riapprovvigionamento se non agli industriali i quali si trovano a possedere un determinato diritto a contingentamento.

 

 

Se è arduo valutare a sé perfino le merci, mobili per antonomasia, a maggior ragione tutto il resto.

 

 

Chi pretende far valutazioni separate per ognuna delle partite attive e passive, dimentica l’apologo di Menenio Agrippa; e commette errore analogo a quello che era caratteristico dei ragionamenti socialistici.

 

 

Poiché era ed è certo che senza il fattore «lavoro» nulla si produce, si diceva che tutto il prodotto sociale spetta ai lavoratori. Ma era ed è altrettanto certo che senza il fattore «capitale», nulla si produrrebbe.

 

 

Con altrettanta logica si sarebbe dovuto concludere che tutto il prodotto sociale spetta ai capitalisti.

 

 

Ed era ed è forse ancor più certo che senza lo Stato, il quale garantisce sicurezza, giustizia, difesa, tutela, nulla si produrrebbe. Quindi la logica comanderebbe di attribuire allo Stato tutto il prodotto sociale.

 

 

In verità questi sono pseudo-ragionamenti. Lavoratori, capitalisti e Stato debbono ricordare il monito di Menenio Agrippa e riconoscere che tutti i fattori sono gli uni agli altri necessari e tutti collaborano al fine comune.

 

 

Così in materia di valutazione delle cause le quali produssero il risultato finale della liquidazione Rivetti. Qualunque sia stato il contributo dei singoli fattori – e dimostrai quanto imponente sia stato il contributo dei fattori avviamento e nome, ricupero di perdite, maggior valore del montemerci – quel contributo prese corpo dentro e per virtù dell’impresa.

 

 

Esso è un tutto unico, inscindibile nelle sue parti. Ha nome: frutto dell’impresa; ed a questa deve essere attribuito.

 

 

V.

 

Dei lucri da svalutazione monetaria ottenuti dal Dott. Mario Rivetti.

 

 

47.- Prima di passare all’ultimo punto della presente memoria voglio, rispondendo al quesito settimo posto nella memoria del 23 Marzo dai patroni del Comm. Giovanni Rivetti, mettere in chiaro i pericoli insiti nella pretesa dei patroni del Dott. Mario Rivetti di dare figura autonoma e separatamente valutabile al fattore rivalutazione monetaria.

 

 

Dice il quesito:

 

 

«se non sia vero che il Dott. Mario Rivetti ha conseguito ingenti lucri in dipendenza della sua posizione di debitore della società; e ciò per il fatto della svalutazione monetaria».

 

 

48.- Il Dott. Mario Rivetti ha compiuto successivamente importanti prelievi scaglionati nel tempo dal 1923 al 1937. Egli in tal modo si è costituito debitore verso la ditta «Giuseppe Rivetti & Figli» per importi riscossi in lire del 1923, del 1924 ecc. ecc.; che si deve supporre siano da lui rimborsati nel momento nel quale la ditta si è messa in liquidazione, 30 Giugno 1937.

 

 

49.- Allo scopo di calcolare la differenza di pregio fra le lire ricevute e quelle restituite, ho proceduto nella seguente maniera:

 

 

1)    Ho ricavato per gli anni dal 1923 al 1927 il corso ufficiale del cambio sull’oro dal Compendio statistico pubblicato dall’Istituto centrale di statistica del regno (ed. del 1928, pag. 197).

 

 

I corsi per i sucessivi anni sono i seguenti:

 

 

1923 420,40
1924 443,68
1925 484,24
1926 496,30
1927 380,26

 

 

2)    Per gli anni dal 1928 al 1936 ho assunto il corso ufficiale di 366,7 risultante dal tenore del R. Decreto Legge 21 Dicembre 1927.

 

3)    Per il 1937 ho assunto il corso ufficiale di 620,78 risultante dal tenore del R. Decreto Legge 5 Ottobre 1936.

 

4)    Per semplicità e chiarezza ho quindi dato il valore 1 alla lira attuale (del 1937). Il che è ragionevole, poiché la liquidazione e tutti i conteggi si fanno sulla base della lira attuale.

 

 

50.- Il problema è: quanto valevano le lire passate, espresse in termini della lira attuale?

 

 

Assumendo, ad esempio, i prelievi eseguiti nel 1923, noi constatiamo che la lira del 1923, quando il corso del cambio sull’oro era di 420,30, valeva di più di quella del 30 Giugno 1937, quando il corso del cambio è di 620,78.

 

 

Nel 1923 bastavano 4,20 lire carta a comprare 1 lira d’oro, mentre oggi ne occorrono 6,20.

 

 

Il che si può esprimere anche dicendo che nel 1923 la lira carta corrente equivaleva a

 

 

1 lira oro
4,20

 

ossia a 23,8 centesimi di lira oro; mentre nel 1937 la lira carta corrente equivale a

 

 

1 lira oro
6,20

 

 

ossia a 16,1 centesimi di lira oro.

 

 

Il che ancora significa che la lira carta corrente nel 1923 equivaleva a

 

 

23,8
16,1

 

 

della lira carta corrente nel 1937; ossia, ancora, eseguendo la operazione: 1 lira carta corrente del 1923 = 1,48 lire corrente nel 1937. Infatti, siccome la lira corrente nel 1923 era meno svalutata in confronto all’oro di quanto non sia la lira attuale, così è ovvio che essa valga – espressa in lire attuali – lire 1,48.

 

 

51.- Facendo il medesimo calcolo per le lire dal 1923 al 1937 si ottengono le seguenti parità:

 

 

1 Lira del

1923

equivale

a

lire attuali

1,48

»

1924

»

»

»

1,40

»

1925

»

»

»

1,28

»

1926

»

»

»

1,25

»

1927

»

»

»

1,63

»

1928 al 1936

»

»

»

1,69

»

1937

»

»

»

1,–

 

 

Se quindi si vuol sapere quale sia l’equivalente in lire attuali degli importi prelevati dal Dott. Mario Rivetti nei successivi anni basta moltiplicare gli importi medesimi per il coefficiente di moltiplico sopra ottenuto.

 

 

52.- Gli importi furono ricavati per differenza dalla tabellina a pagina 28 della memoria a stampa Zappa.

 

 

  Prelievi in lire correnti nei singoli anni Coefficiente di moltiplico

Equivalente in lire attuali

 

1923

719.721

1,48

1.062.308

4

611.347

1,40

855.274

5

1.234.344

1,28

1.582.429

6

1.339.897

1,25

1.676.211

7

1.457.877

1,63

2.379.254

8

2.129.886

1,69

3.605.897

9

1.392.357

1,69

2.357.260

30

1.315.329

1,69

2.226.852

1

1.281.178

1,69

2.169.034

2

1.144.748

1,69

1.938.058

3

1.095.159

1,69

1.854.104

4

1.819.146

1,69

3.079.214

5

4.627.419

1,69

7.834.218

6

1.574.936

1,69

2.666.366

7

1.930.298

1

1.930.298

Totali

23.673.651

37.217.378

     

23.673.641

     

13.533.737

 

 

Si deve concludere che il Dott. Mario Rivetti avendo ritirato dalla cassa sociale lire pregiate e restituendo al 30 Giugno 1937 lire svalutate, ha ottenuto un vantaggio valutabile in attuali lire 13.533.737.

 

 

VI.

 

Se il fattore monetario sia uno dei tanti elementi dei redditi di impresa.

 

 

53.- La conclusione, alla quale si è giunti, ha per scopo di porre innanzi al Collegio arbitrale un problema di giustizia.

 

 

Se il Collegio avesse ad opinare che nei 45 milioni di sovraprezzo realizzato dalla licitazione dello stabilimento di Biella in confronto alla base di inventario (e così pure nei maggiori ricavi per i lotti minori) si nasconde una quota, piccola o vistosa, valutabile separatamente, dovuta a svalutazione monetaria e definibile come «capitale» o meglio «importo necessario a essi in parti uguali conferiti», ad uguale rimessa in pristino dovrebbero essere chiamati i soci, i quali trassero dalla cassa sociale lire pregiate e restituiscono oggi lire svalutate.

 

 

Primissimo tra i chiamati dovrebbe essere il Dott. Mario Rivetti, indubbiamente contabile di un lucro monetario di lire 13.533.737.

 

 

54.- Ma il Collegio arbitrale non vorrà inoltrarsi su questa via insidiosa infeconda ed assurda.

 

 

Si pensi ai principali risultati ai quali la dimostrazione sin qui condotta ha consentito di giungere:

 

 

1)    Non esiste un utile annuo di gestione;

 

2)    L’utile della impresa Rivetti fu accertabile solo al momento della liquidazione;

 

3)    La produzione degli utili aveva luogo continuamente giorno per giorno e continuamente e contemporaneamente aveva luogo la conversione degli utili in nuovi terreni, impianti, macchinari, in rifacimenti e rinnovamenti di impianti e macchinari vecchi, in incrementi del monte merci greggie, di merci in lavorazione e di manufatti finiti;

 

4)    Alla fine di ogni anno, allo scopo di orientamento per la gestione dell’impresa, si procedeva alla constatazione delle esistenze di inventario di ogni specie e si paragonava l’inventario così compiuto con quello precedente;

 

5)    Gli incrementi e i decrementi così constatati venivano in massa (le eccezioni si riferiscono dopo il 1909 alle quote differenziali di riparto dei gruppi Giovanni e Quintino, accreditate ai rispettivi conti correnti, ed una sola volta, all’1 gennaio 1923, a prelievi in parti uguali per i tre soci) mandati ad aumento o iscritti a diminuzione del cosidetto «fondo capitale»;

 

6)    Ma codesto «fondo capitale» non era la fonte dalla quale si traevano i mezzi per effettuare gli acquisti di terreni, le nuove costruzioni industriali, i rinnovamenti degli impianti e dei macchinari, l’accrescimento del montemerci. Fonte unica erano gli utili della gestione. Quando si compievano gli inventari e si aggiungeva un importo nuovo alla vecchia cifra del fondo capitale, gli investimenti erano già avvenuti a mezzo degli utili via via prodotti;

 

7)    La chiusura dell’inventario a fine anno registrava semplicemente il fatto dell’investimento già avvenuto.

 

 

55.- Che cosa è dunque, se si guarda allo svolgimento cronologico e logico degli avvenimenti, così come essi effettivamente si susseguono, il capitale conferito, che i soci avrebbero ragione di riprendersi intatto, non sminuito dalla svalutazione monetaria?

 

 

Se dovessi rispondere secondo la visione che mi sono formata io della realtà nel caso specifico Rivetti, dovrei dichiarare no, poiché mi sono persuaso che le 300.000 lire di cosidetto capitale conferito, secondo l’atto del 6 Aprile 1894, ebbero la stessa origine di tutto il resto. Anch’essi dovettero essere utili formatisi ed investiti anteriormente al 1892, così come si formò e si investì tutto il resto di quel che si realizzò poi al 30 Giugno 1937.

 

 

Mi vengono sulle labbra i nomi di talune altre grandi aziende italiane, il cui cosidetto capitale non ebbe, finché esse rimasero prospere e progredienti, altra origine. Non il capitale conferito, ma il buon nome, la voglia di lavorare, la fiducia inspirata dalla persona dell’imprenditore furono il fattore esclusivo di imponenti risultati che poi, al momento della liquidazione, parvero «capitale» ed erano nient’altro che utili accumulati.

 

 

Ne ricordo una, che alla liquidazione toccò anch’essa le nove cifre; ed alla origine ed alla rinnovazione della quale non stava neppure un centesimo di vero capitale conferito. Stava unicamente il buon nome e il credito dell’iniziatore e del continuatore.

 

 

Per la fortuna del nostro Paese, auguriamoci che ogni tanto – purtroppo non possiamo osare di sperare che l’esempio si moltiplichi nelle grossissime aziende, sebbene sia dominante nelle piccole e nelle medie – nascano e possano radicarsi e prosperare alcune di queste imprese sorte senza capitale iniziale.

 

 

Quando ce le troviamo innanzi, riconosciamone l’esistenza e ragioniamo in base alla loro reale natura.

 

 

56.- Se tuttavia, sulla nostra via troviamo un pezzo di carta il quale ci dichiara, contrariamente alla realtà, che ci fu un capitale conferito, prendiamone pur atto. E siano 300.000 lire. Su queste sole, eventualmente, i tre soci potranno vantare una certa ragione di rimessa in pristino. Su queste 300.000 lire potremo eseguire, eventualmente, la operazione di moltiplico per un certo tal quale coefficiente di valutazione.

 

 

In mancanza di meglio, ogni altro indice essendo ugualmente fallace – non ripeterò la dimostrazione Zappa -, moltiplicheremo per il coefficiente legale di svalutazione della unità monetaria e cioè 6,20. Ed avremo, se così ci piace, 1.860.000 lire attuali da prelevare dal risultato finale della liquidazione e dividere per tre. Queste sole 300.000 lire hanno il fumus boni juris conveniente all’uopo, perché in un atto scritto di costituzione di società si dichiarò qualcosa che può essere – sebbene non debba necessariamente essere – interpretato nel senso che esse sono venute dal di fuori e sono state un effettivo conferimento dei tre soci.

 

 

57.- Ma il resto? Ohibò! il resto, tutto il resto, noi lo abbiamo – svolgendo le pagine degli inventari – veduto di anno in anno venir fuori dall’azienda. Dall’azienda, perché e in quanto essa era viva ed operante.

 

 

C’erano, lì, dei fusi che giravano, dei telai che battevano, delle materie prime che si trasformavano in filati e in tessuti e si spandevano per l’Italia e per il mondo e ritornavano sotto forma di lire sterline, di dollari, di franchi e di lire italiane; e di nuovo si trasformavano in balle di lana, in fusi, in telai, in saloni che si allungavano e si moltiplicavano; e prendevano nuovamente forma di filati e di tessuti, che correvano nei fondachi ed andavano a vestire soldati e contadini nostri e genti forestiere. Era ed è un giro continuo, a spirale, racchiudente uno spazio ognora più vasto.

 

 

58.- Tagliamo un albero centenario e fissiamo l’occhio sulla sua sezione. Quell’albero, di vecchia noce, vale oggi 1000 lire. Dove è il capitale e dove è il reddito?

 

 

Nel centro c’è un punto piccolissimo, intorno al quale, sempre più ampi, si dispongono – ad anelli – tanti circoli concentrici che gli fanno corona. Ogni circolo è un anno di crescita.

 

 

Sarà capitale investito il punto che sta al centro? No, ché anzi quello è l’ultimo anello dell’anno, appena venuto fuori; che domani si allargherà e diventerà nell’anno venturo visibile. Quello è il nuovissimo reddito. Ma reddito e reddito dell’anno in corso, c’è anche in tutti gli anelli che gli stanno attorno e che tutti si sono di qualcosa ampliati nell’anno. In questi anelli, intermedi fra il punto centrale e la corteccia, tutto è reddito, tutto è incremento legnoso progressivo dell’anno presente e degli anni intermedi, dall’origine ad oggi.

 

 

Sarà capitale investito l’ultimo anello esteriore, quel che ha preso aspetto di corteccia?

 

 

Ma la corteccia che noi oggi vediamo nell’albero centenario non è l’arboscello iniziale che fu piantato dall’agricoltore, dal nonno del proprietario vivente, che oggi ha abbattuto l’albero. Quell’arboscello crebbe dal di dentro. Quel che fu piantato divenne a poco a poco corteccia. E poi cadde. Le stagioni, la pioggia, la grandine, il freddo ed il caldo lo logorarono. Il capitale investito originario fu portato via dal vento. Nessuna traccia oggi ne rimane.

 

 

59.- La vita dell’impresa Rivetti è simile a quella dell’albero centenario. Le bufere minacciarono di schiantarla. I tempi prosperi ne secondarono lo sviluppo. Essa visse e prosperò non perché le cose materiali (in cui furono investite le 300.000 lire iniziali supposte conferite dai soci), e le altre tante cose, che si aggiunsero a poco a poco a quelle originarie grazie agli utili accumulati, avessero una propria qualsiasi virtù creatrice.

 

 

Perché immaginare che quelle cose materiali abbiano avuto da sé la virtù di crescere numericamente per effetto della causa singola detta variazione dell’unità monetaria? Questa fu una sola delle forze esteriori le quali agirono e condizionarono l’ambiente economico e sociale nel quale svolse la sua vita semisecolare l’impresa. Accanto ad essa ed insieme con essa altre forze agirono e si chiamarono:

 

 

  • movimento di innalzamento operaio dal 1898 in poi, che prese aspetti di scioperi, e di commozioni sociali, atte a spaventare imprenditori di cuore non saldo e di mente non aperta a comprendere le giuste rivendicazioni delle classi operaie;

 

  • la guerra mondiale, con le conseguenti difficoltà di procacciarsi materie greggie e facilità, per chi seppe giovarsene, di vendere allo Stato invece che a privati;

 

  • crisi mondiale, la quale travolse giganti in apparenza ben più potenti dei Rivetti;

 

  • svalutazioni monetarie alterate e rivalutazioni, che resero i calcoli dei costi e dei rendimenti sommamente aleatori;

 

  • campagna (etiopica) sanzioni, autarchia e contingentamenti, che spaventarono gli inesperti, e furono invece utilizzati da chi seppe, come i Rivetti, guardare in faccia alla difficoltà; e, scrutatala a fondo, vedere, dove altri disperava, la possibilità di nuove conquiste;

 

  • mutamento di regime politico, il quale impose ai dirigenti di adattarsi – ma non tutti seppero – alle nuove esigenze di produrre e vendere ed avere rapporti con le maestranze e le autorità politiche; alle esigenze cioè proprie del regime corporativo.

 

 

E, badisi, nessuna di queste forze agisce a sé, separatamente dalle altre. Per ricordare solo il fattore «svalutazione monetaria», esso operò nei due sensi; innalzò certi prezzi; ma, per le reazioni che produsse, ne diminuì altri. I bassi lucri del triennio 1927-29 e le perdite del bilancio 1930-31 furono la necessaria fatale conseguenza dei guadagni del quinquennio 1922-

 

 

26. La svalutazione, con le conseguenze di arricchimento di taluni e di impoverimento dei risparmiatori, fu la generatrice del discorso di Pesaro e della battuta di aspetto che si ebbe poi nell’economia italiana. Battuta d’aspetto che volle dire per la Rivetti perdita di 41 milioni di lire nei soli saldi di fine d’anno e perdita ben maggiore, se si pone mente che in quel tempo furono inoltre ingoiati dalla mala ventura chiamata crisi, non solo i redditi dell’anno, ma anche le riserve accumulate negli esercizi precedenti.

 

 

No. Tutte le cose iscritte all’attivo degli inventari crebbero in consistenza fisica e variarono in valore monetario contemporaneamente e interdipendentemente in funzione del fattore, che è il vero agente motore delle imprese industriali: dell’uomo o del gruppo di uomini che ha creato ed ha gerito l’impresa. E l’uomo è colui che noi economisti chiamiamo imprenditore; quegli che sta alla radice dei valori, i quali alla chiusura finale dei conti sono messi in luce dalla liquidazione.

 

 

61.- Sessant’anni fa, Walter Bagehot (forse l’economista che nel secolo scorso osservò con occhio più chiaro le cose che gli stavano attorno e, senza scoprire nuove leggi teoriche, dipinse quadri del suo tempo destinati a rimanere nella letteratura economica) si pose un giorno il problema di chi «creava» il giornale che allora era reputato il primo del mondo: il Times. Val la pena di citare la sua risposta:

 

 

«I compositori non determinano essi ciò che deve essere stampato; i collaboratori ed i redattori non deliberano essi ciò che deve essere scritto. È il direttore del giornale (era, allora, anche il proprietario), il quale fissa ogni cosa. Egli crea i Times di giorno in giorno; sulla sua attitudine a colpire la fantasia del pubblico riposano le prosperità e la potenza del giornale. Ogni cosa dipende dalla sua capacità di offrire al pubblico esattamente ciò che il pubblico desidera di comprare. Tutto il resto dello stabilimento; tutte le macchine a stampa, il fondo intiero dei caratteri tipografici, tutto lo stato maggiore dei redattori, per quanto taluni di essi siano abilissimi, sono meri strumenti che egli fa muovere.

 

 

«Nella stessa maniera in tutte le imprese industriali l’imprenditore è colui che dirige. Egli sceglie le merci che devono essere offerte al pubblico; egli decide come e quando offrirle; e come fare tutto ciò che importa fare … Oggi l’industriale deve conoscere i bisogni del consumatore, di un uomo che egli per lo più non ha mai veduto, di cui non conosce nemmeno il nome, che probabilmente parla un altro linguaggio, vive secondo altri costumi e non ha altri punti di contatto con l’imprenditore fuor di una inclinazione per le cose che questi produce. Se una persona, la quale non vede, deve soddisfare ai desideri di uno che non è veduto, egli deve avere in testa molta conoscenza delle cose del mondo, deve essere perito di bisogni diversissimi dai suoi e dei modi di venire incontro a questi bisogni. Perché il capitale possa prendere le forme, le quali sono più feconde, è necessaria una persona la quale abbia tutte queste conoscenze, perché egli solo può usarle quando arriva il momento; e, se al momento critico la persona adatta non è presente, l’investimento va a male ed il risultato è una perdita invece di un guadagno» (Works, VII, 138-9).

 

 

62.- Se al momento critico la persona adatta non è presente. – Qui in alcune parole lapidarie, va scolpita l’essenza dell’impresa economica. Se l’imprenditore non c’è, o non agisce o non utilizza i fattori del successo, invece del successo abbiamo la rovina.

 

 

Tra tutti i fattori di successo, la variazione monetaria è il più pericoloso. La tragedia economica e sociale del mondo contemporaneo sta nell’esistenza di questo fattore monetario, al quale la più parte degli uomini è impari.

 

 

Nel caso nostro, perché l’uomo fu pari al rischio e lo dominò e lo volse – quel fattore insieme con tanti altri – a profitto della cosa comune, si vorrebbe togliere a lui ogni merito e andar scrutando, irrazionalmente, tra le tante voci dell’attivo sociale, quelle sulle quali il fattore monetario avrebbe dovuto agire, s’intende al rialzo.

 

 

E perché quelle voci e non le altre su cui poté agire al ribasso? E perché scrutare l’effetto su cose singole di un solo fattore? Se l’uomo non fosse stato pari al rischio e non l’avesse potuto dominare, e fosse perciò venuta la rovina, Forseché a lui non sarebbe di questa stata data la colpa?

 

 

63.- Per un momento parve che la rovina potesse venire. Vennero per fermo le perdite; ed enormi perdite. Quella volta (1930-31) si sarebbe potuto non infondatamente presumere che fattore principale tra gli efficienti a condizionare le perdite fosse la tormenta monetaria.

 

 

Nessuno allora dubitò tuttavia che le perdite non dovessero essere sopportate secondo la regola, la quale attribuisce ai gestori dell’impresa una quota differenziale dei profitti e delle perdite. Perché si dubita oggi, solo perché il rischio, per un momento minaccioso, è stato domato e si è chiamati a raccogliere il frutto della lunga fatica?

 

 



[1]La Corte implicitamente, per la natura del caso fiscale che le era sottoposto, suppone che Tizio e Caio siano commercianti. Il che del resto è anche il caso nostro.

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