Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione – De Viti De Marzo, Principi di economia finanziaria

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1953

Prefazione – De Viti De Marzo, Principi di economia finanziaria

A. De Viti De Marco, Principi di economia finanziaria, Einaudi, Torino, 1953, pp. XV-XXVIII

 

 

 

Il libro che oggi qui si pubblica in edizione definitiva è una delle opere rappresentative della scienza economica italiana contemporanea. Antonio De Viti De Marco non fu soltanto, per oltre quarant’anni e in Roma, insigne professore di scienza delle finanze. Egli fu uno del gruppo di uomini i quali, tra il 1885 ed il 1900, diedero sulle colonne del Giornale degli Economisti contributi così alti alla teoria pura economica da far rivaleggiare il tempo che fu detto della scuola di Losanna, ma doveva dirsi della scuola italiana, con i periodi più splendidi della storia della nostra scienza.

 

 

Dei quattro, che avevano nome Pantaleoni, Pareto, De Viti e Barone, il maggiore per fama è il Pareto; ed è notabile che si atteggiasse convintamente quasi a discepolo suo quel Pantaleoni, il quale di tanto gli era superiore almeno sotto due rispetti: in primo luogo per la cura somma posta nell’osservare la massima del suum cuique tribuere, sicché i suoi Principi sono mirabili anche per avere intitolato gli esposti teoremi, come sempre si usò nella fisica, nella chimica, nelle scienze naturali e in quelle matematiche, ma non si usava quasi affatto e poco ancora si usa in economica, al nome dei loro primi formulatori, laddove il Pareto si ostinò ingiustamente fino all’ultimo a non voler riconoscere al Mosca la priorità non solo nella dichiarazione, che potrebbe essere semplice frutto spontaneo del genio, ma, quel che attribuisce veramente pregio scientifico di scoperta, nella meditata consapevolezza della formulazione delle idee di classe e di formula politica, da lui diversamente chiamate, ma rimaste sostanzialmente invariate; ed in secondo luogo per essere il Pantaleoni uomo che sentiva profondamente i problemi economici concreti, li analizzava nella loro propria intima individuale natura, con l’incontentabilità propria di chi ne vede il fondo e l’intrico; laddove, se si legge e si tornerà sempre a rileggere il Pareto nei capitoli che illuminano la teoria generale dell’equilibrio economico e di riflesso i maggiori problemi del risparmio, della capitalizzazione, dell’impresa, del commercio internazionale, della ripartizione dei redditi, difficilmente si sentirà il bisogno di rivedere quel che egli disse intorno a problemi particolari, per cui troppo facilmente si contentò di prime approssimazioni e cioè di ficcare fatti e fatterelli, non sempre bene appurati e non di rado tratti da incerta fonte di diaristi frettolosi, entro i magnifici schemi creati dalla sua mente e da lui, quando si compiacque di svalutare la vocazione economica, che era la sua, per dirsi sociologo, stranamente qualificati positivi o sperimentali.

 

 

Del Pareto stupiscono il tono antistorico con cui bistrattò non di rado grandi economisti e l’uso frequente della parola «errore» a proposito di scritture classiche, dalle quali egli medesimo partì per giungere a mete più lontane; e dà un qualche fastidio la persuasione in che visse fino all’ultimo, che nessuno o pochissimi suoi discepoli soltanto avessero compreso talune proposizioni, che egli ebbe il merito di enunciare o perfezionare, come quella che al rapporto di effetto a causa dovesse sostituirsi il rapporto di interdipendenza; ma le aveva con tanta forza enunciate da farle elementarissime ed accessibili a tutti coloro, i quali vollero su di esse fermare l’attenzione.

 

 

Il Pantaleoni non poteva avere discepoli, ché, se è imitabile lo schema generale e perciò ebbimo ed abbiamo le orecchie rintronate da interdipendenze, equilibri, elette, derivazioni, miti, non è imitabile l’intuizione propria di chi attorno ad una vicenda singola come la Crisi del Credito mobiliare, ricostruisce, senza metterle in mostra, teorie generali di banca, di crisi e di salvataggi. Pantaleoni patì generosamente non discepoli ma rapinatori; e purtroppo nessuno fermò per tempo sulla carta le idee che nelle conversazioni con amici, con studiosi, con studenti, col primo venuto egli regalava con noncuranza da gran signore, senza adontarsi che l’ascoltatore le facesse sue e neppure sovvenendosi che le idee lette poscia negli scritti altrui fossero farina del suo proprio sacco.

 

 

A causa delle vicissitudini diverse di una vita distratta fra l’esercito, il giornalismo, l’insegnamento ed il cinematografo, e del prepotere, stupefacente e simpaticissimo, di una immaginazione la quale gli faceva scambiare le speranze sognate per un tempo futuro con la realtà immediata presente, il Barone, al quale era grave la paziente fatica della ricerca diretta, diede frutti meno copiosi di quelli che gli estimatori suoi auspicavano. Ma niuno ebbe forma mentale più quadrata di lui, più potenza di rapida assimilazione e rielaborazione, sicché le nebbiose intuizioni altrui o i lampi di Pantaleoni si mutavano sotto la sua mano in parlanti dimostrazioni grafiche euclidee, o dall’ingegno suo limpidissimo erano tradotti in teoremi lapidari.

 

 

Dei quattro, il De Viti è forse il meno subitamente affascinante. Il viso fine, dai tratti puri, il sorriso incoraggiante e nel tempo stesso leggermente ironico, l’eloquio non fluido, che talvolta cerca le parole e le trova alla fine terse e precise, il fare semplice del gran signore rivelano a prima vista l’origine aristocratica. Venuto da una famiglia nobile proprietaria del Mezzogiorno, appartiene alla esigua schiera degli uomini votati alla vita pubblica perché, forniti di indipendenza economica, sentono di poter servire il paese senza preoccupazioni o interessi personali. Ad essi spettava, nei paesi parlamentari, prima della metà del secolo XIX, il potere; ma furono sempre poco numerosi in Italia, dove per lo più le Camere si affollavano di professionisti e di rappresentanti di interessi economici. Quasi ugualmente raro era in Italia il caso di membri dell’aristocrazia, rimasta legata alle terre avite, i quali si dedicassero agli studi.

 

 

Forse all’indole schiva, non altera, ma non incoraggiante per la comune dei giovani, si deve se De Viti non ha costituito quella che si suole chiamare una «scuola» di cultori di scienza finanziaria; ma tutti noi che abbiamo studiato i problemi della finanza da trent’anni in qua reputiamo lui «il» maestro. Ha conquistato questa posizione naturalmente, per spontaneo universale riconoscimento. Non sempre, quando si tormentano intorno ad un problema finanziario, vien fatto agli studiosi di cercare altri libri; ma quasi sempre ad essi viene ovvio di chiedersi: che cosa ne pensa De Viti? Le premesse dei Principi si leggono in un saggio pubblicato fin dal lontano 1888 col titolo Il carattere teorico dell’economia finanziaria. Furono, quelli, anni fecondi per la scienza finanziaria italiana. Se i quattro uomini ora ricordati fecero progredire la scienza economica generale, due di essi, Maffeo Pantaleoni e Antonio De Viti De Marco, esercitarono fin d’allora l’ingegno intorno ai problemi della pubblica finanza.

 

 

Ad essi, in questo particolar campo, si aggiunse Ugo Mazzola. Tutti e tre provarono un senso di insoddisfazione dinanzi a quel miscuglio di precetti pratici, di divagazioni filosofiche e politiche, di commenti di testi di legge, di applicazioni approssimative di definizioni e di leggi economiche che era, ed in gran parte è, la scienza finanziaria. Quando si rianda alle pagine in cui si mischiavano, confondendosi, ragionamenti astratti e considerazioni concrete, schemi teorici ed esempi storici, ragionamenti deduttivi ed esemplificazioni empiriche di casi legislativi del tale o tal altro paese, l’occhio della mente rivede il sorriso ironico del maestro. Questa non è scienza, sentenziava De Viti, riponendo pacatamente il libro. Costui è un asino, condannava brutalmente Pantaleoni; non sa nulla di economia politica, né la imparerà mai. Che cosa avrebbe detto Mazzola non posso dire; ché non lo conobbi personalmente. Era ingegno fino, al paro dei suoi amici. Rapito alla scienza prematuramente, non diede al suo progresso quanto avrebbe potuto.

 

 

Il libro I dati scientifici della finanza pubblica (Roma, 1890), pubblicato poco dopo quello del De Viti, obbedisce anch’esso alla esigenza, sentita prepotentemente da quegli uomini, di dare carattere teorico alla scienza finanziaria. La sua mente era stata eccitata dalla comparsa, avvenuta in quel torno di tempo (1887), della grande opera di Sax, Grundlegung der theoretischen Staatswirthschaft, che era stata nel 1888 stupendamente chiarificata e trasformata nel suo Manuale da Giuseppe Ricca Salerno.

 

 

Ma quel contrapporre individualismo e collettivismo, quel postulare fini collettivi, che si distinguevano con difficoltà e nebbiosamente dai fini individuali, non era metodo accetto alla mente limpida dei nostri. Il Mazzola costruì il suo edificio logico dirittamente: esistono in primo luogo i fini individuali; a raggiungere i quali, però, è necessario conseguire certi altri fini che ne sono la condizione e che non si possono conseguire altrimenti che con la cooperazione politica. L’uomo non si pone il fine ultimo o diretto della difesa nazionale o della sicurezza. Egli vuole conseguire fini suoi materiali di vita, o spirituali, di elevamento morale o intellettuale. Ma questi suoi fini non li può conseguire se non a condizione di vivere in uno Stato sicuro contro i nemici stranieri ed interni e di cooperare con gli altri uomini per il raggiungimento delle mete vietate agli uomini isolati.

 

 

Perciò i fini «pubblici» sono caratterizzati dall’essere «condizionali» alla consecuzione dei fini propri dell’uomo e dall’essere conseguibili solo mediante la cooperazione politica. L’associazione privata volontaria non gioverebbe all’uopo; occorrendo invece la cooperazione politica che è coazione. Definiti i fini pubblici, il Mazzola definisce del pari i «beni» pubblici, come quelli che servono a soddisfare il «bisogno» pubblico, così chiamato perché sorto dalla necessità o dal desiderio di conseguire i «fini» pubblici. Così Mazzola dimostrava che la scienza delle finanze è una scienza autonoma, diversa dalla scienza economica, perché ha un oggetto – fini, bisogni e beni pubblici – diverso e nettamente caratterizzabile come diverso dall’oggetto della scienza economica. Chi ricordi come la scienza delle finanze fosse stata fino allora considerata come un capitolo della scienza economica, studiata separatamente dalla scienza madre solo per ragioni pratiche di divisione del lavoro scientifico, per la impossibilità in cui si trovavano gli economisti di abbracciare insieme con i fenomeni economici generali anche quelli numerosissimi ed importantissimi della vita dello Stato, apprezzerà appieno la importanza teorica del tentativo conseguito da quella animosa schiera di giovani economisti italiani per dare alla scienza finanziaria un contenuto proprio, diverso da quello della scienza economica.

 

 

Cominciò da allora la dissezione e la caratterizzazione del fenomeno finanziario come autonomo e diverso dal fenomeno economico. Maffeo Pantaleoni, dopo avere scritto col titolo Teoria della traslazione di tributi (Roma, 1882) un saggio classico di economia pura, aveva affrontato già nel 1833 il problema finanziario dando alla Rassegna Italiana il celebre Contributo alla teoria del riparto delle spese pubbliche (ripubblicato in Scritti vari di economia, Palermo, 1904, ed ora in Studi di finanza e di statistica, Bologna, 1938). Applicava egli al riparto delle spese pubbliche quei criteri che a Jevons ed a Walras avevano giovato per chiarire le leggi della distribuzione di una data massa di numerario fra i vari beni, presenti e futuri, da parte dell’individuo. «Approvando una spesa qualsiasi, il parlamento non può fare a meno di sentire che, restando immutata la quantità complessiva di mezzi disponibili, molte altre spese, ugualmente possibili prima della approvazione di quelle in corso, restano escluse posteriormente, e che perciò anteriormente all’atto di approvazione occorre un giudizio duplice: primieramente intorno alla utilità intrinseca della spesa, in base al quale essa viene posta nel novero delle spese possibili; poi intorno alla utilità della medesima comparata alla utilità di altre egualmente possibili, in base al quale essa viene ad essere preferita». Ritornava poi il Pantaleoni ad un’indagine di economia pura quando, nel 1887, facevasi a studiare nel saggio intitolato Teoria della pressione tributaria (Roma, e poi in Scritti citati) gli effetti dell’imposta sul lavoro e sul risparmio; ma il germe fecondo, da cui doveva svolgersi tutta una letteratura intorno al giudizio ed alla deliberazione delle spese pubbliche e delle imposte era gittato.

 

 

Coloro che vennero di poi, per lo più dissero che il Pantaleoni e il Mazzola e il De Viti avevano errato mettendo a fondamento della teoria finanziaria un giudizio consapevole ragionato sulla base della falsariga dei giudizi di convenienza dell’homo oeconomicus, laddove quel giudizio è dato da governi e da parlamenti, organi di gruppi e di classi legiferanti nel proprio interesse e spesso contro il giudizio dei più e a lor danno; e sostennero che il giudizio finanziario si distingue dall’economico non perché sia economico applicato a fini collettivi, ma perché è politico. La quale critica se fosse vera, farebbe ricadere la scienza delle finanze nel caos, da cui quei tentativi italiani del decennio 1880-1890 avevano tentato di trarla; poiché giudizio «politico» val quanto dire giudizio «sintetico» fondato su numerosissimi contrastanti interessi individuali, di classe e di partito, su passioni sentimenti pregiudizi, varianti da luogo a luogo e da momento a momento. Se si vuol mettere un pò d’ordine nel caos, bisogna classificare catalogare graduare quelle premesse di giudizio e, per successive approssimazioni, dedurre astraendo verità generalissime e poi via via più concrete ed approssimantisi alla realtà. Il che, in quel saggio fondamentale, aveva fatto il Pantaleoni, con occhio realisticamente volto all’Italia del suo tempo; applicando sul vivo le regole jevonsiane ai bilanci presentati dai contemporanei ministri del tesoro italiani.

 

 

Quel che il De Viti contribuì di suo in quel momento creatore della teoria pura finanziaria, fu la costruzione di due schemi od ipotesi estreme di interpretazione dei fatti. Chi sente la pena dei costi ed il piacere dei beni pubblici? Chi compie il giudizio del prelievo di una data massa di imposte e del suo riparto fra le pubbliche spese? Lo Stato. Ma qual genere di essere senziente è lo Stato? A quale dei noti tipi di individui economici lo possiamo assomigliare? Ecco il De Viti offrire le sue ipotesi, non quali raffigurazioni della realtà effettuale pienamente realizzata in questo o quel tempo e luogo, ma come strumenti di interpretazione atti a gittare luce nella confusa congerie dei fatti finanziari. L’uomo politico giovò in questo punto al pensatore.

 

 

Lo studioso, il quale pensa la scienza finanziaria come politica, non ha più guida nel filosofare, perché attende dai politici la ispirazione e spiega i fatti, che è suo compito classificare e sistemare, con le ragioni varie mutevoli contraddittorie vaghe, le quali inspirano di volta in volta l’azione del politico ed a questi sono recate dall’intuito immediato e sintetico dei sentimenti e dei voleri dei ceti dirigenti e della folla governata. L’uomo politico, che era in De Viti, vide nel groviglio dei fatti e degli interessi di gruppi, di ceti, di classi, nella varietà dei sistemi tributari creati in tempi e luoghi diversi, taluni punti capitali di riferimento. La storia politica del secolo XIX apparve a lui come il passaggio dal tipo del governo di un gruppo privilegiato al tipo del governo di tutti. La storia finanziaria era il riflesso, nel campo delle imposte, delle tasse, delle entrate demaniali, dei debiti pubblici, di siffatta trasformazione. Ma la teoria non si identifica con la storia. Pur essendo più concreta, ossia più approssimata alla realtà, della teoria economica pura, la teoria finanziaria deve astrarre dai «molti» fatti concreti «alcuni» tipi fondamentali, e studiare quale sarebbe il comportamento della pubblica finanza partendo dall’ipotesi che quel «tipo» esistesse nella realtà. Di qui la sua concezione dei due tipi fondamentali, monopolistico e cooperativo, di Stato; ed il suo studio del modo di agire finanziario di essi.

 

 

Non giova obbiettargli che i due tipi non sono in tutto rispondenti a realtà, la quale è più varia e ricca. Egli non ha voluto costrurre una scienza del reale compiuto, che nessuno ha mai saputo e forse non riuscirà mai a costruire. Se egli ha ragionato dirittamente, la sua costruzione logica è valida.

 

 

Se i suoi due tipi astraggono dalla realtà alcuni connotati veri, se essi raffigurano, come indubbiamente è, due aspetti effettivi della realtà storica, la sua costruzione, oltreché logica, non è vana, anzi è feconda. Chi vorrà creare un altro tipo di Stato, costruirà un altro edificio teorico, anch’esso logico e non vano. De Viti ha costruito la teoria finanziaria dello Stato monopolistico (dell’uno o dei pochi) e dello Stato cooperativo (di tutti). Altri costruirà una diversa teoria di un diverso tipo di Stato. Ma finora non è accaduto, perché quale altro ideale può, agli occhi del finanziere, apparire migliore di quello di un sistema rivolto al servizio dell’universalità, presente e futura, della nazione intiera? L’uomo politico, il quale nei libri non cerca le regole minute della vita quotidiana, ma la guida la quale, come faro, lo indirizzi nella scelta della via, che egli percorrerà poi in diversissimi modi a seconda delle contingenze storiche mutevoli, sarà sempre grato a De Viti di avergli offerto due luci dall’una delle quali egli certamente vorrà allontanarsi, perché nessuno vuole governare i popoli per la gratificazione propria o per quella del suo gruppo, mentre l’altra gli fa brillare la speranza dell’arrivo nel porto del vantaggio di tutti, del raggiungimento della meta propria della nazione intiera.

 

 

Ogni scienza è feconda quanto più essa è aliena dalle applicazioni pratiche. De Viti non volle dar nessun consiglio ai governanti; ma logicamente indagò quali sarebbero le azioni, e le conseguenze di esse, di governanti supposti intesi ad avvantaggiare se medesimi ovvero la nazione intiera. Appunto perché egli volle mantenersi nel campo astratto della scienza, il suo libro è guida preziosa all’uomo pratico. Quali sono dunque le due ipotesi, i due strumenti di interpretazione della realtà storica da lui offerti agli studiosi della finanza? Vi è, ad un estremo della realtà storica, uno Stato monopolista, caratterizzato dalla circostanza che il giudizio sulle imposte e sulle spese pubbliche è in mano di una gente straniera vincitrice, di una casta ereditaria, dei gruppi sociali, i quali posseggono il potere e lo esercitano a loro beneficio.

 

 

A grandi linee, rientrano in questo tipo gli Stati feudali e quelli assoluti od oligarchici. In questa ipotesi i produttori di servigi pubblici sono distinti dai consumatori. I primi, i governanti, sono esenti dal pagamento dei pubblici pesi, non essendo concepibile che il produttore paghi a sé l’equivalente della merce, che egli medesimo produce. Poiché il gruppo dominante produttore può vendere i servigi che esso considera pubblici al prezzo da esso fissato e poiché può costringere i consumatori ad acquistare quei servigi nella quantità pure da esso determinata, il gruppo agirà, essendo diverso dai consumatori, rispetto a questi quasi fosse un perfetto monopolista. Il prezzo dei servigi pubblici sarà un prezzo di monopolio, nel quale, oltre il costo di produzione, si comprenderà un massimo profitto per il produttore. Nel fissare il prezzo, lo Stato monopolista non incontra i limiti a cui è soggetto il monopolista privato, il quale, potendo determinare solo il prezzo ovvero la quantità delle merci o dei servigi offerti, deve tener conto della concorrenza dei succedanei, della concorrenza potenziale di altri produttori oggi inesistenti e della restrizione dei consumi. Nel caso dello Stato, i soli limiti sono la ribellione, la emigrazione, ovvero l’assoluta impossibilità dei contribuenti a solvere le chieste imposte, compatibilmente con la esigenza di essere ancora atti a vivere ed a produrre.

 

 

Al lato opposto dell’esperienza storica, vi è lo Stato cooperativo; conquista moderna e contrastata compiuta dopo lotte secolari. In questo tipo, tutti i cittadini partecipano all’amministrazione della cosa pubblica; tutti i produttori di servigi pubblici sono anche consumatori e viceversa; e non esiste più antagonismo fra classe dominante e classe soggetta. Anche in questo tipo di Stato, l’imposta è ripartita coattivamente e il cittadino individualmente non può rifiutare di consumare quella quantità di servigi pubblici che il legislatore ha fissato. La coazione del pagamento e del quantum di pagamento è caratteristica tecnica inseparabile dall’imposta. Ma, pur durando la coazione, non si può più parlare di prezzo di monopolio e di profitti massimi che la classe soggetta pagherebbe alla classe dominante.

 

 

Tutta la nazione è a un tempo produttrice e consumatrice, e la nazione come tale non può pagare profitti a sé stessa. Ne segue che nelle presenti società il popolo, preso nel suo complesso come unica economia collettiva, sopporta lo «stretto costo di produzione» dei servigi pubblici. L’ente collettivo impone a sé medesimo la estensione dei servigi pubblici e l’ammontare del carico nazionale, non che il modo come questo deve essere ripartito fra le singole economie private. Epperò il personale addetto all’amministrazione della cosa pubblica ha prevalentemente la figura di mandatario, con facoltà di carattere esecutivo; e il sistema di coazione, di cui può disporre, non presume, come era nel caso del monopolista, di imporre alla nazione la quantità dei servigi pubblici e quella corrispondente del carico o costo di produzione; ma soltanto di costringere le singole economie recalcitranti all’osservanza del patto sociale, dentro i limiti del mandato e fino a concorrenza della propria rata di partecipazione al carico nazionale.

 

 

Servendosi di questo strumento di ricerca e costruendo logicamente sulla base del concetto dello Stato monopolista e dello Stato cooperatore, il De Viti De Marco costruì un proprio sistema teorico di finanza. Il quale cominciò a correre tra studenti e studiosi prima sotto forma di corsi litografati (di cui la iniziale stesura risale al 1886-1887 quando il De Viti insegnava a Pavia) e poi (nel 1923) di lezioni stampate, tradotte nel 1928 nel volume de I primi principi dell’economia finanziaria, che nel 1932 era integrato da un’appendice sulla Finanza straordinaria. Via via la teoria si arricchisce e si perfeziona; sicché sarebbe interessante studiare le variazioni successive tra una stesura e l’altra, se quelle litografate non fossero ormai irreperibili.

 

 

Ma anche tra la prima stampata del 1923 e quella del 1928, le novità erano parecchie, tra cui primeggia forse l’importanza data nella teoria della traslazione dell’imposta al concetto che l’imposta non deve essere considerata, come fa la dottrina comunemente accettata, come una perdita netta per il produttore colpito, ma anzi deve essere studiata come un mezzo per realizzare un vantaggio per i contribuenti. Concetto non nuovo del tutto e di cui tracce non piccole e forse non prime si possono rintracciare negli scritti fisiocratici; e che, ispirandosi agli schemi pantaleoniani, lo scrivente aveva avuto nel 1919 occasione di illustrare da altri punti di vista. Ma il De Viti, applicando quel concetto alla materia della traslazione delle imposte, ne dimostra la sovrana fecondità innovatrice.

 

 

Oggi, i Principi del De Viti si presentano al pubblico degli studiosi sotto nuova veste. L’autore ha riveduto il testo quasi ad ogni pagina e si compiace nel considerare la presente edizione come definitiva. Noi auguriamo a lui di vivere così a lungo che il tempo gli basti per riandare ancora con fresca mente alle pagine sue, facendo in altre nuove edizioni partecipi i lettori delle sue nuove meditazioni. Ma già oggi il sistema del De Viti si appalesa pienamente chiaro ai lettori; ché il sistema teorico cominciato a costruire nel 1988 appare nei Principi odierni compiuto. Quella parte della realtà la quale è compresa nel suo sistema è significativa, è logica, è perfetta ed è piena di luce. Or questo è il vanto dei libri i quali, suscitando consensi e contrasti, segnano una nuova via all’indagatore.

 

 

A distanza di cinque anni, i Principi del De Viti escono in seconda edizione, che l’autore rivide e perfezionò. Auguro all’autore che nemmeno questa sia l’edizione ultima che egli potrà curare. Che un’opera la quale non si propone di esporre nei particolari mutevoli le norme concrete regolatrici degli ordinamenti tributari, sì invece di ricavare da esse i principi teorici della pubblica finanza, abbia incontrato tanto favorevole accoglimento, è testimonianza sicura del valore perenne dei libri rivolti unicamente all’incremento della scienza.

 

 

L’augurio, che nel marzo del 1939 io facevo che quella seconda edizione, allora pubblicata, non fosse l’ultima alla quale il De Viti potesse attendere, non poté essere adempito. Nato a Lecce il 30 settembre 1858, addottorato in giurisprudenza nell’Università di Roma nel 1881, incaricato e poi professore straordinario ed ordinario nelle Università di Camerino, Macerata e Pavia, nel 1887 fu chiamato a ventinove anni alla cattedra di finanza di Roma, dove rimase sino al 1931, quando, non volendo prestare il giuramento richiesto dal regime fascista, fu collocato a riposo. Direttore del Giornale degli Economisti dal 1890 al 1913 con Maffeo Pantaleoni, deputato al parlamento per il collegio di Gallipoli dal 1908 al 1921, dopo l’avvento del fascismo si ritirò dalla vita politica e, dedito sempre agli studi, attese alacremente al miglioramento delle terre che egli possedeva nelle Puglie. Morì a Roma l’1 dicembre 1943.

 

 

Non credo che, se avesse potuto curare la nuova edizione, egli vi avrebbe apportato notabili mutamenti. La scienza della finanza nel frattempo è venuta perfezionandosi, per nuove elegantissime elaborazioni, nella parte rigorosamente economica del trattato degli effetti delle imposte e della spesa pubblica. Non si può invece affermare che l’estendersi dei compiti dello Stato, soprattutto a cagione di statizzazioni, socializzazioni, ammassi, requisizioni, calmieri, prezzi politici, controlli sui cambi esteri e sul credito interno, ed il conseguente diluvio di leggi, decreti, regolamenti, moduli, censimenti e statistiche, abbiano fatto progredire apprezzabilmente la sistemazione teorica della dottrina finanziaria. A gran voce si vocifera che, essendo morte le vecchie economie e finanze, una nuova scienza unitaria è nata. Frattanto, giova agli studiosi meditare ancora sulle pagine classiche del De Viti.

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