Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione – F. Turati, Discorsi parlamentari

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1950

Prefazione – F. Turati, Discorsi parlamentari

Filippo Turati, Discorsi parlamentari, Tip. Della camera dei Deputati, Roma, 1950, pp. XI-XIII

 

 

 

Filippo Turati ebbe i natali a Canzo[1] in quel di Como, il 26 di novembre del 1857, da Pietro Turati, un alto magistrato amministrativo che finì la sua carriera come Prefetto del Regno[2], e da una gentildonna del luogo, Adele De Giovanni. Baciato in fronte dal generale Garibaldi sul sagrato del Duomo di Milano, ancora quattrenne, d’ingegno vivacissimo, laureatosi precocemente in legge; poeta, pubblica un volumetto di Strofe; avvocato, difende nel 1886 il Partito operaio dall’accusa di associazione di malfattori; sociologo, stende un libretto di appunti sulla questione penale: Il delitto e la questione sociale; socialista, formatosi sul Capitale di Marx e su Dall’altra sponda del socialista russo Alessandro Herzen, abbandona ogni altra forma di attività, per darsi alla divulgazione dell’idea socialista e dedicarsi all’apostolato per l’elevazione dei lavoratori italiani, che avrà fine soltanto con la sua morte. Il decennio 1890 – 1900 segna il deciso orientamento del «Partito socialista dei lavoratori italiani» per opera precipua del Turati, fondato nel congresso di Genova nel 1892, sulla via che già aveva indicata Andrea Costa nella lettera agli amici di Romagna, col trapasso dalla fase insurrezionalistica alla fase costruttiva ed educativa in Parlamento e nell’organizzazione, e col viatico sostanziosamente dottrinario e pratico fornito dalla Critica Sociale, in cui il Turati aveva rifuso Cuore e Critica di Arcangelo Ghisleri e che, per trentacinque anni egli diresse colla collaborazione e la ispirazione di Anna Kuliscioff. Quale fosse la caratteristica di quella rivista, ora rinata, e quale il suo influsso, accenna per nostro invito – e gliene siamo oltremodo grati – nelle note che seguono, Luigi Einaudi.

 

 

Non ho sott’occhio la mia collezione della Critica Sociale e debbo perciò scrivere queste poche righe a memoria. La mia prima collaborazione alla rivista di Turati risale a quando, studente in legge, mi ero dedicato furiosamente alla lettura di migliaia di pagine di cose sociali ed economiche. Per fortuna, invece di capitar male, come era facilissimo, un mio compaesano mi aveva regalato le due prime serie della Biblioteca dell’economista a cui potei, – pagandola a rate ad un terribile scocciatore il quale vendeva a provvigione i libri dell’U.T.E.T. di Torino e passeggiava ostinatamente sotto i portici del cortile universitario adocchiando tra gli studenti le sue vittime, – aggiungere la terza serie, dove si leggevano, nei volumi dedicati agli eretici dell’economia, traduzioni delle opere di Proudhon, Marx, Enrico George, più atte di quelle strettamente teoriche, le quali formano la gloria di quella grande collezione, ad attrarre i giovani. Cosicché non mi parve vero di mandar qualcosa di mio alla rivista che si intitolava al socialismo «scientifico» per distinguerlo da quello «utopistico» dei Saint Simon, dei Fourier, degli Owen e di tant’altri che solo più tardi apprezzai come suscitatori delle esperienze socialistiche forse più feconde del secolo scorso.

 

 

Era quello un articoletto in risposta od a parziale correzione di un altro che il Murialdi, divenuto poi nel 1919 sottosegretario di Stato agli approvvigionamenti, aveva scritto, in tono alquanto pessimistico, intorno alla piccola proprietà. Poiché io vivevo in una zona agraria non lontana da quella a cui guardava il Murialdi, scrissi qualcosa in difesa della piccola e media proprietà, che il Turati pubblicò assai cortesemente, pur non quadrando le mie osservazioni colle profezie apocalittiche venute di moda quasi mezzo secolo prima sulla scomparsa ineluttabile delle piccole intraprese ad opera dei grandi grandissimi colossali leviatani dell’industria. La mia collaborazione più vistosa alla Critica Sociale fu data, insieme con Attilio Cabiati, in una serie di articoli sul problema doganale in Italia, raccolti poi in volumetto nella «biblioteca» edita dalla rivista. Turati era persuaso della verità della tesi da noi sostenuta; ed una volta che una sera a Roma ci accadde di entrare a caso in una osteria di Fontanella di Borghese e, veduti Turati e Treves, mi sedetti a cena al loro tavolo, compresi meglio, io che non ero allora membro del parlamento, la ragione della nostra scarsa per non dire nessuna fortuna.

 

 

Avevamo bensì dalla nostra, io il Corriere della Sera, Cabiati la Stampa, ossia i due più diffusi giornali della penisola; e Pantaleoni, De Viti De Marco e Giretti facevano sentire alte voci nella Camera. Ma chi avevamo dietro di noi? Nessuno, osservava quella sera Turati, tra dolente e lievemente ironico. Nessuno, cioè, che fosse organizzato, che votasse secondo il programma di un gruppo o di un partito che si professasse esplicitamente antiprotezionista ed antimonopolista. La gente leggeva e forse ci dava ragione, come, essendo uomo in buona fede, faceva lui; ma tutto finiva là. Se poi gli industriali chiedevano un dazio – allora, buona gente, si contentavano di poco e noi, a causa di aver dato quel poco, vilipendevamo il buono e il bravo, e si vide poi quanto coraggioso, Giulio Alessio, ministro dell’industria nel 1921 – e gli operai facevano eco, come poteva la massa dei deputati, conservatori e socialisti medesimamente, dir di no a chi invocava la tutela dell’industria nazionale?

 

 

Conquistassimo forza politica e poi avremmo avuto ragione come fabbricatori di leggi oltreché di buoni ragionamenti. Così mi rimbrottava cortesemente Turati quella sera e come dargli torto, a lui capo di un partito politico? Insieme, Turati e la signora Kuliscioff, li vidi una volta sola; e fu poco dopo quel tale articoletto sulla piccola proprietà. Entrai in quel famoso sacrario dei portici settentrionali di piazza del Duomo [3] con un certo tremore reverenziale; e debbo aver tentato per tutto il tempo che rimasi lì di abbozzare un viso di adesione alle cose dettemi, se Tonino Graziadei mi ebbe a dire in seguito che la Kuliscioff era rimasta incerta se quello fosse un sorriso di consenso ovvero di compatimento agli spropositi di economia che quei due avevano temuto di avermi snocciolato. In verità non era né l’una cosa né l’altra; ed il sorriso tradiva soltanto l’imbarazzo del giovane il quale si trovava dinnanzi a due personaggi tra i primi del movimento socialistico non solo italiano ma anche europeo.

 

 

Sarebbe d’altra parte stato ingiusto pensare di Turati come fosse ignaro della scienza economica. Allora, come oggi, il criterio sovrano per conoscere l’uomo veramente innocente in punto dei primi principii della nostra scienza era precisamente il contrasto fra un tale che non nominerò e Filippo Turati. Quel tale, che incontravo per la prima volta al solito tavolo d’angolo detto del canton Grigioni, perché frequentato da uomini di mezza età dai capelli brizzolati, della seconda sala del caffè Aragno, cominciò subito a sbraitare che noialtri economisti eravamo gente del mondo della luna, ripetitori di regolette morte e seppellite prima che decotte, teorici senza contatto e conoscenza del mondo reale e via di seguito spropositando.

 

 

Costui non sapeva un’acca né di economia né d’altro ed appunto perché innocente, giudicava e mandava. Da Filippo Turati sentii invece sempre e solo le parole del vero sapiente: «io non so». Voialtri, e parlava sul serio e non per scherzo, che avete studiato che cosa pensate e che cosa proponete su questo problema? Che è atteggiamento di reverenza verso la scienza che anch’egli aveva studiato e di cui conosceva, al par dei cosidetti specialisti, le difficoltà tremende le quali si devono superare per trapassare dalla norma astratta alla applicazione ai casi singoli della vita. Chi sfogli la raccolta della Critica leggerà prove numerose del tormento interiore il quale lo induceva ad analizzare i problemi del suo tempo, a sfaccettarli, ad interrogarli a tutti i possibili punti di vista prima di decidersi all’azione. Se questo tormento di analisi scemò la sua attitudine di statista a cogliere l’attimo fuggente dell’azione, riconosciamo tuttavia che esso è testimonianza di rettitudine intellettuale e morale. Con Turati mi accadde di conchiudere uno dei pochi negozi avventurati nella mia vita di raccoglitore di libri.

 

 

Mi ero abbonato sino dal secondo anno di sua vita alla Critica Sociale e ne conservavo diligentemente la raccolta; ma solo quando ne ebbi fatto legare uniformemente una ventina d’annate cominciai a provare le sofferenze ben note ai bibliofili devoti alla «raccolta completa» quando ad ogni volta ero costretto a constatare la mancanza patente del primo volume prima annata. Quando venne l’occasione di acquistare, insieme con il primo ma inseparabili da esso, al prezzo di 300 lire circa i volumi sino, parmi, al 1913, pensai a chi mi sollevasse d’una parte dell’onere, in lire antiche non piccolo. Offersi gli altri, tenendo per me il primo, a Turati, il quale accettò.

 

 

Dividemmo a giusta metà il costo; e non fu ingiusto che io pagassi un’annata sola quanto egli le altre venti; perché io arricchivo la mia collezione con l’annata più rara ed egli semplicemente dava incremento ad una riserva editoriale. Ricordo minimo questo; che mi fa riandare con la mente agli anni nei quali Turati non solo dirigeva la sua rivista ed assiduamente ne scriveva una parte, ma la amministrava, si teneva in comunicazione epistolare personale con gli abbonati, scriveva talvolta gli indirizzi sulle fascette, ed in siffatta guisa con otto lire all’anno riusciva a dare a tanti giovani materia di attenta lettura e di vivaci discussioni.



[1] A dir vero, in un discorso del 22 dicembre 1920, egli confessava, a proposito di un internato: «È italianissimo, ma è nato a Budapest per combinazione come io sono nato in ferrovia».

[2] Sull’eredità paterna … «io sono figlio di un prefetto», ebbe a dire il 26 di giugno 1920, «e probabilmente un certo lievito burocratico da uomo d’ordine mi è rimasto nel sangue». E ancora notava: «io pure ho quattro soldi venutimi dall’eredità paterna e li abbiamo investiti in titoli di Stato o industriali».

[3] Sulla porta al n. 23 (che adesso non c’è più), sta ora una lapide che dice: «In questa casa – dal 1892 al 1925 – Due vite intrecciate – Filippo Turati e Anna Kuliscioff – Irradiarono sui lavoratori – La luce e il conforto – Della fede nel socialismo».

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