Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione – I libri degli Alberti del Giudice

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1952

Prefazione – I libri degli Alberti del Giudice

I libri degli Alberti del Giudice, a cura di A. Sapori, Milano, Garzanti, 1952, pp. XIII-XVIII

 

 

 

Questo che oggi si presenta al numerato manipolo degli studiosi di storia economica è il terzo volume della collana promossa dalla direzione degli «Studi medievali» e resa possibile dalla munificenza della «Banca d’Italia». Il primo volume fu pubblicato nel 1934 ad illustrare I libri di commercio dei Peruzzi; nel 1946 venne alla luce il secondo dedicato a I libri della ragione bancaria dei Gianfigliazzi; ed oggi il terzo consente lo studio de I libri degli Alberti del Giudice.

 

 

Tutti sono dovuti alle cure di uno fra i più insigni della numeratissima schiera degli studiosi italiani di storia economica; al quale accadde di scegliere, tra le ditte di mercanti e di banchieri fiorentini del duecento e del trecento, quelle che avevano avuto la ventura di celeberrimi ricordi storici e letterari.

 

 

Memorande le pagine nelle quali il Villani narrò le fortune delle compagnie in Inghilterra e dannò la memoria di Edoardo III, il cui mancamento di fede le avrebbe costrette a fallire. Oggi il Sapori – che ha ricostruito compiutamente i nessi tra quei fallimenti e l’insieme delle vicende della politica internazionale e di quella estera e interna di Firenze – ha anche dimostrato che il credito colossale che si potrebbe vantare contro la corona inglese è frutto di immaginazione. Egli stesso, infatti, ha avuto la ventura di rintracciare nei «rolls» del «Record office» la quietanza rilasciata a distanza di molti anni, in via di una, per quei tempi, onorevole transazione, dai Bardi a saldo dei loro crediti; e ha dimostrato, sulla scorta di altri documenti, che quanto avvenne per i Bardi accadde anche per i Peruzzi. Ma il disastro cittadino fu grande ed il ricordo rimase a testimonianza del danno privato e pubblico che è necessariamente amaro frutto della trascuranza delle norme della prudenza bancaria.

 

 

Famosi i Gianfigliazzi per ciò che di uno di essi disse l’Alighieri nella Divina Commedia; per essere stata la loro usura mescolata agli indebitamenti dei La-Tour-du-Pin signori del Delfinato e alla vendita che, anche per ciò, essi furono indotti a fare del loro stato a Filippo VI di Valois; e per il notabile valore linguistico dei loro libri, scritti in un bellissimo volgare italiano frammisto a vocaboli e locuzioni provenzali. La ditta degli Alberti è, pur essa, notissima al di là della cerchia degli studiosi, ché uno della casata, Leon Battista Alberti scrisse quel Trattato della famiglia destinato ad insegnare a tante generazioni di italiani – e dovrebbe continuare ad insegnare in avvenire – le maniere oneste, prudenti e parsimoniose, con le quali le famiglie nella concordia conseguono la fortuna e sovrattutto nella concordia la conservano.

 

 

Armando Sapori cura l’edizione dei libri mercantili degli Alberti nel modo a lui consueto: con una «prefazione» (pp. XIX – L); con la «descrizione dei codici» (pp. LI – LXI); con i «cenni biografici» di ciascuna persona menzionata in un «albero genealogico» della famiglia per il tempo (prima metà del trecento) proprio dei codici (pp. LXXXIII – XCII); con il «testo» dei cinque libri – piccolo dell’asse di Alberto del Giudice e compagni; delle possessioni di Duccio e di Alberto di Lapo; verde segreto dell’assi C.; dell’asse de’ mali debitori; di ricordanze di Bartolomeo di Caroccio – da lui pubblicati dai codici conservati nella Biblioteca nazionale centrale di Firenze (pp. 1 – 309); e con un «indice generale» (pp. 311 – 362).

 

 

Un’appendice sui «libri mercantili medievali italiani e frammenti di libri pubblicati per intero o per estratto» corredata a sua volta da un «elenco dei registri e dei frammenti a stampa» (pp. LXIII – LXXIX) consente al lettore di conoscere quali siano i libri mercantili medievali italiani dati finora alle stampe per intero o per frammenti e di valutare la gran parte che in questa branca delle conoscenze storiche ha il Sapori. I tre volumi sinora pubblicati sono il frutto di un lavoro che dura dal 1930 ed è il lavoro di un uomo solo. Il Sapori non lo dice; ma è chiaro che egli non ha desiderato aiuti: ad eccezione delle due necessarie collaboratrici, la moglie, che devotamente lo assisté finché visse, e la figlia, alla quale il terzo volume è dedicato con parole commosse e riconoscenti. Moglie e figlia sono una cosa sola con il curatore dell’opera; ed il loro concorso non può essere paragonato a quello che vicendevolmente si forniscono i membri delle «équipes» o dei «teams», ovverosia squadre di ricercatori, alle quali si deve tanta parte del lavoro scientifico contemporaneo.

 

 

Può essere che il lavoro collettivo sia necessario. Nel mondo delle scienze morali e storiche mi sia consentito tuttavia di ripetere quello che il Sapori coll’esempio tacitamente afferma: non mi fido. Non basta scrivere personalmente una dotta e sobria e perciò compiuta e penetrante prefazione ai codici; ma importa con i proprii occhi e con le proprie mani descrivere e trascrivere il testo, rileggerlo e riscontrarlo le due e tre e più volte insieme con la figlia; formare con tentativi ripetuti l’albero genealogico della gran famiglia mercantile attraverso le branche variamente crescenti in larghezza ed in altezza; controllare e correggere, sulla scorta delle notazioni sicure dei suoi libri, le notizie biografiche date dal Passerini sugli eroi della contabilità da lui curata; provare una segreta gioia nel potere scrivere: no, a quella data quell’Alberti non era ancora morto; rifare con pazienza certosina i calcoli dei saldi dei bilanci periodici ed appurare che nel secondo bilancio all’1 gennaio 1307 vi è un solo errore e questo è di un soldo su un movimento di lire 63.059 per ciascuna delle due faccie del conto; che nel terzo, all’1 gennaio 1308 vi è un errore in meno nel calcolo dell’utile di 9 lire e 18 soldi, frutto di due errori accuratamente scoperti; che nel quarto bilancio all’1 gennaio 1310 vi è un meno di 7 denari (12 denari fanno un soldo, e 20 soldi fanno la lira), ma il meno non è un errore, essendo stato voluto allo scopo di arrotondare cifre troppo piccole.

 

 

Il lettore vegga nella «descrizione dei codici» il lungo elenco delle differenze riscontrate nei conteggi albertiani. Le differenze, forse, le avrebbe riscontrate anche una squadra di «assistenti» e di un «direttore di squadra» tutti remunerati per la edizione di qualche corpo di codici contabili medievali; ma ripeto: non mi fido delle copie e dei riscontri fatti da un ente provvisto di mezzi, di assistenti e di capi-squadra pagati per compiere un lavoro di storia; e mi fido invece dei quattro occhi di un padre e di una figlia, mossi dall’ambizione di far cosa sulla quale nessun assistente e nessun capo-squadra troverà mai a ridire. E che dire dell’indice: cinquanta pagine su tre colonne, in caratteri tondi e corsivi, con voci principali, secondarie e subordinate? Alla voce Alberti del Giudice si segnalano le compagnie che essi formarono, i saldamenti dei loro bilanci, i fattori e discepoli che impiegarono, i fondaci esercitati in Firenze e fuori di Firenze, i libri di amministrazione ricordati nella contabilità superstite.

 

 

Ma gli Alberti del Giudice ritornano nell’indice con l’elenco di tutti i membri della loro famiglia, con quello delle proprietà possedute in Firenze, e di quelle in campagna nei territori di Greti, di Castelnuovo- Figline, di Casaglia, di Legnaia, di Signa, di Ripoli, di Prato, con le divisioni successive del patrimonio familiare, e con l’elenco dei libri di amministrazione e di ricordi personali di alcuni soci delle compagnie. Chi vorrà scrivere storia economica fiorentina, anzi italiana ed europea non potrà non consultare i tre indici dei tre volumi della collana, sicuro di leggervi importanti notizie per le sue ricerche e di scoprirvi qualcuna di quelle piccole chiavettine che inopinatamente giovano ad interpretare o a dare senso a fatti e persone intorno a cui egli s’era forse arrovellato invano proponendo e riproponendo a sé stesso ipotesi non soddisfacenti. Frattanto la prefazione pianamente dichiara qualcuna delle piccole chiavi utili a capire qualcosa della storia economica passata e di quella futura. Il Sapori non ama, nell’atto di presentare documenti di prima mano lungamente meditati, indulgere nelle visioni «a largo respiro». Curare la edizione di un testo non è scrivere una memoria su di esso. Il curatore lavora non per sé ma per altri.

 

 

Dura è la fatica di offrire altrui l’assoluta sicurezza della trascrizione, affidare allo studioso, pronti gli strumenti del lavoro che sono alberi genealogici, indici analitici, richiami, carte topografiche catastali, riproduzioni di carte significative dei codici, elenchi di testi altrove messi in luce. Il curatore indica a letterati, a giuristi, ad economisti, a politici, a storici, a folcloristi il terreno che essi possono a volta a volta dissodare; e nel raffronto fra l’opera di altri e la sua si esalta, pensando che mentre la ricostruzione altrui – mutando nel tempo le visioni della vita e nuove fonti essendo scoperte – potrà e dovrà essere riveduta e forse rifatta, la paziente opera sua, in apparenza più umile, durerà finché gli uomini ameranno conoscere i tempi passati.

 

 

Alla pari dei due precedenti volumi della raccolta quello d’oggi agevola e annuncia contributi segnalati alla storia. Quale la posizione della famiglia Alberti, di cui gli indici ci fanno conoscere il «curriculum vitae» dei singoli componenti, nelle mutevoli vicende politiche interne di Firenze? Quale l’importanza delle transazioni commerciali degli Alberti per la conoscenza delle mutazioni della politica italiana ed europea della Camera apostolica? Quale l’arricchimento delle conoscenze sui cicli economici medievali che lo studioso potrà trarre dalla ricostruzione dei saldamenti, ora in guadagno ed ora in perdita dei bilanci delle compagnie Alberti? Quali le cause della fortuna della famiglia? Forse la parte presa nel governo della città? Forse l’essere iscritti ad una fazione più che ad un’altra? Mutamenti politici, guerre, rivoluzioni in questo o in quel paese? Ascesa o predominio di questo o quell’altro ceto sociale? Perché mentre i Peruzzi e i Bardi affondavano, gli Alberti resistevano e risalivano la china?… Quanti allettamenti ad interpretazioni storiche «a largo respiro» – politiche, economiche, cittadine ed europee, principesche e pontificie – inesauribile occasione ad esercitazioni, a riserve e a dubbi di tecnici informati dei più recenti avanzamenti della critica storica e impazienti di arrivare alla fine delle 300 pagine di annotazioni di entrata e di uscita di conti pedestri! No. Il Sapori, che ha faticato a lungo a leggere e a controllare i conti, si è deliberatamente fermato sulla soglia della fatica gioiosa della interpretazione: nella quale ha pur dato, in volumi monografici, tali prove di sensibilità e di acume da meritare grande e indiscussa autorità. Tutt’al più se qualche cosa ha detto a proposito della fortuna della casata, a prima vista sembra che questo qualche cosa abbia piuttosto a che vedere con l’etica che con la storia: «Prima di tutte le cause della ripresa albertiana (nel tempo nel quale i Peruzzi cominciavano la discesa che non si sarebbe arrestata fino al crollo), fino al vero consolidamento, fu la volontà dei “compagni” di fare onore alla firma».

 

 

Sembra poco, per vero, ostinarsi a pagare puntualmente i debiti, e, all’uopo, coprire le perdite degli anni fortunosi con il reddito dei terreni di proprietà della famiglia – lire 17.966 proventi del 1315 dei terreni di Greti e di Legnaia, quasi il doppio delle lire 10.000 del capitale sociale della compagnia, e lire 467 delle rendite del 1319 del podere di Samoro -; ma, per essere in grado di adempiere al piccolo dovere di non derubare i creditori, fu necessario non avventurarsi in imprese rischiose, come gli affari di banca od i prestiti a principi, in ogni tempo e luogo, salvo eccezioni rarissime e fuggevoli, mancatori di parola. Fu d’uopo conservarsi onesti nei rapporti privati e pubblici, e perciò non si lasciarono indurre a nascondere il valore del patrimonio sociale e ne trassero frutto di cresciuto credito, laddove scemavano i depositi presso i maggiori rivali artatamente fattisi piccoli per sospetto del fisco. In una parola: pagare i debiti, essere onesti, onorare la virtù della prudenza. Tutto qui? Sì, tutto qui. Ma chi mai osa supporre che ancora oggi le fortune delle famiglie e delle nazioni poggino su così antiquate virtù? Altra cagion di fortuna della famiglia fu, direi, l’idea peculiare che essi avevano fitto in capo di quel che fosse «reddito» od «entrata», quell’entità misteriosa che gli uomini configurano come somma di giorno in giorno spendibile.

 

 

È un’entità la quale muta da uomo ad uomo e l’uomo prudente la vede assai diversa da quella vista da chi ha le mani bucate. Che cosa era l’«entrata» per gli Alberti? Nell’aprile del 1334, Caroccio, Duccio ed Alberto figli di Lapo degli Alberti del Giudice constatano con soddisfazione che, oltre ad avere cresciuto le possessioni lasciate loro dal padre nel 1319 di ben fiorino quattromila d’oro, essi avevano posto nella compagnia un capitale di lire 32.608, soldi 18 e 6 denari a fiorini, delle quali 12.000 «di lascio di nostro padre», e «il sovrappiù sono di guadagno fatto infra i detti termini, cioè dall’anno 1319 a l’anno 1333, cioè da lire 20.000 a fiorini, oltre alle spese che si facevano più che non erano l’entrate».

 

 

Che cosa vogliono dire le parole sottolineate? Che i tre fratelli Alberti provavano un sentimento che era tra il rimorso e l’orgoglio quando riassumevano i risultati dell’opera loro nel quindicennio trascorso dopo la morte del padre: orgoglio di essere riusciti ad aumentare il patrimonio fondiario di 4.000 fiorini d’oro e il capitale della compagnia di lire 20.000 a fiorini; e nel tempo stesso rimorso di avere speso, per le occorrenze familiari, non contenti delle «entrate», una parte del guadagno mercantile della compagnia. Il guadagno tratto dal lavoro proprio del mercatare non era, evidentemente, per i tre fratelli «entrata» vera e propria; entrata sicuramente spendibile essendo solo i proventi delle terre ed i canoni di fitto delle case, ossia i proventi del patrimonio cumulato con i risparmi passati. Mi veniva in mente, leggendo, la regola seguita in passato, per più di un secolo, da certe compagnie di assicurazione sulla vita, forestiere e anche italiane, di mandare, dopo aver provveduto, si intende, agli accantonamenti delle riserve matematiche di spettanza degli assicurati, a riserva patrimoniale «tutti» gli utili commerciali dell’anno, distribuendo a titolo di dividendo solo il reddito delle riserve patrimoniali medesime,

 

 

Dopo un secolo i frutti della prudenza superavano i guadagni del lavoro dell’anno; ed i nazionalizzatori gridarono al latrocinio, laddove si trattava delle regole che si debbono osservare da chi aspira a durare, invece che a rovinare. Analogamente, i contadini dei miei paesi dicono essere reddito soltanto il valsente che essi alla fine dell’anno si ritrovano ad avere avanzato quando i proventi della terra superarono le spese sopportate per la coltivazione e per la vita della famiglia; e quando il procuratore alle imposte somma l’avanzo sopradetto con l’ammontare delle spese familiari e dichiara essere questo il reddito, se ne vanno persuasi di essere vittima di grossolana patente ingiustizia. Così crebbe e durò, con la onestà, col lavoro, colla prudenza la fortuna della casata degli Alberti.

 

 

Leon Battista Alberti ancora tanti anni dopo menava giustamente vanto per ciò che «mai fu nella famiglia nostra Alberta chi ne’ traffichi rompesse la fede et onestà debita»; e ricordava un’altra virtù rarissima che aveva posto in alto la sua famiglia, la concordia nei sentimenti e nel lavoro: «i nostri maggiori niuno dì vacava, che essi non convenissero insieme: conferivano delle cose oneste e delle cose atte al bene della famiglia. Era fra di loro il nome Alberto, pari a una loro repubblica: curavanla e correggevanla con ogni vigilanza e circospezione. L’uscio di qualunque di loro, l’animo, l’onore, ogni cosa era fra loro comune e quasi proprio, sì ad uso, sì a governo e mantenimento. Chi amava uno sentiva sé accetto per questo a tutti gli altri; chi forse offendeva qualunque etiam minimo fra loro, dispiaceva a tutti, massime a chi più sapeva e valeva». Il Sapori ha dimostrato che se le parole dello scrittore furono lo specchio fedele della realtà nei primi decenni del trecento, in seguito si ridussero ad essere quasi la meta ideale alla quale gli Alberti aspiravano e volevano tornare. Ma la gloria del rinascimento italiano sarebbe stata possibile senza il saldo fondamento degli ideali di onestà, di prudenza e di concordia ereditati dal passato?

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