Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione – Storia del Piemonte

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1960

Prefazione – Storia del Piemonte

Storia del Piemonte, promossa dalla Famijapiemonteisa di Roma in occasione delle celebrazioni del 1961, Torino, F. Casanova e C., 1960, pp. XI-XV

 

 

 

Scrivere una prefazione alle dotte pagine nelle quali cultori insigni di cose storiche hanno indagato, con ampiezza di ricerche e severità critica, i vari aspetti delle vicende piemontesi nel passato?

 

 

Sono troppo lontani i giorni delle mie ricerche archivistiche in Torino e della paziente compilazione di grandi tabelle nelle quali erano riassunte le risultanze dei bilanci preventivi e dei conti consuntivi degli stati della monarchia sabauda dal 1700 fino a quando, nel 1798, i Savoia dovettero andare in esilio in Sardegna. Di anno in anno la contabilità era tenuta con rigore e precisione; e forse, a dar l’ultimo tocco ai conti, mi fanno difetto alcuni pochi riscontri; ché, se rivivesse, Carlo Emanuele IV potrebbe dimostrare che i conti della casa e dello stato da Vittorio Amedeo II a lui per un secolo tornano giusti sino all’ultimo soldo e denaro.

 

 

Questi sono ricordi del passato, che si raccomandano a grandi fogli fitti di numeri, chiusi in un armadio del mio studio. Oggi, mi devo contentare di guardare a quella parte delpaesaggio piemontese che posso contemplare dall’ampia finestra posta accanto allo scrittoio dove lavoro. Nelle giornate serene, in mezzo alla catena delle Alpi, vedo ergersi il Monviso e sotto Saluzzo; più in là Pinerolo, con le vallate valdesi. Quanta storia della lenta formazione dell’unità d’Italia mi fa ricordare il panorama della mia finestra!

 

 

La casa medesima in cui vivo era un tempo territorio di Francia, distaccato dal grosso del marchesato di Saluzzo, che nel 1540 era stato dal re cristianissimo ereditato e ricevuto dall’ultimo erede dei marchesi di Saluzzo. Il nostro era un breve tratto di pochi comuni; ma quanto ampio il grosso del marchesato! Le valli che digradano dal Monviso e dalle montagne vicine erano francesi ed i soldati di Francia potevano giungere sino a pochi chilometri da Torino, ché il borgo di Carmagnola spettava a Saluzzo. Carlo Emanuele I, il duca battagliero ed amico delle arti, guerreggia tutta la vita contro Francia e Spagna, porta i suoi soldati nel Delfinato e in Provenza; e nel 1601, col trattato di Lione, ottiene la cessione del marchesato di Saluzzo. Cede, è vero, la Bresse e il Bugey, due tra le più belle provincie di Savoia, inaugurando la politica la quale ebbe un secolo fa il suo coronamento colla cessione alla Francia di Nizza e Savoia. Ma egli si era tolto così una spina, la più grossa, dal fianco.

 

 

Il dolore subito si rinnovò. Il suo successore, Vittorio Amedeo I, in seguito alle schermaglie della guerra di successione di Mantova (1627-1631), si rassegnò a cedere, col trattato di Cherasco del marzo 1631, Pinerolo e le valli di Perosa alla Francia, per ottenere in cambio Alba, Trino, Nizza (detta allora della paglia) ed altre 74 terre del Monferrato, tolte, ché il Monferrato faceva parte del mantovano, ai Gonzaga ed ai Nevers, vassallo, quest’ultimo, di Francia. Il cambio era vantaggioso, ché Alba e parte del Monferrato in mano ai francesi, volevano dire diritto di passo delle soldatesche francesi attraverso il cuore del Piemonte. Ma quale nuova dolorosa spina è la cessione a Francia di Pinerolo e delle valli di Perosa! Subito il re cristianissimo trasforma Pinerolo in una formidabile fortezza, dalla quale i suoi soldati dominavano Torino e ne tenevano in soggezione i reggitori. Se gli storici ed i romanzieri ricordano Pinerolo ad occasione del mistero della maschera di ferro, i piemontesi la ricordano per la vicinanza, quasi a tiro di cannone, di quella fortezza alla cittadella di Torino.

 

 

Per 65 anni i Savoia dovettero mordere il freno ed era freno durissimo. Anticipando i metodi di Napoleone che, a Tilsitt, imponeva alla Prussia di non tenere in armi più di 40.000 uomini, Luigi XIV ordinava nel 1688 a Vittorio Amedeo II di non tenere sotto le armi più di 2.000 uomini. Ma il duca di Savoia anticipa lo spediente poi attuato dai prussiani e, rinnovando ogni quattro mesi le truppe, riesce a disporre di un esercito di 6.000 uomini, dei quali 4.000 costantemente in congedo. Esempio illustre, che gli storici di rado ricordano, mentre notissimo è quello prussiano.

 

 

Pinerolo e la val Perosa non si riebbero per ragion di cambio, ma di guerra, forse la più cruenta e sfortunata guerra combattuta dai Savoia contro Francia. Vittorio Amedeo II, il maggior sovrano della vecchia dinastia, si fece alleato dei sovrani aderenti alla lega di Augusta, dovuta alla ostinazione di Guglielmo d’Orange. Dal 1690 al 1696 fu un seguito di battaglie gloriose e di sconfitte. Sconfitto a Staffarda nel 1690 e poi di nuovo alla Marsaglia nel 1693, il duca non cede. Contro Louvois il quale ordina al Catinat: brélez, brélezbienleurpays, Vittorio Amedeo fa scrivere sulla bandiera di un reggimento valdese il motto:patientialaesafit furor ed ai contadini laceri ed affamati, i quali combattevano con lui la guerra di partigiani, distribuisce a pezzi il collare dell’Annunziata. Alla fine, il re sole, sopraffatto dai nemici, cede al duca, col trattato di Torino del 29 agosto 1697, Pinerolo e le valli di Perosa.

 

 

Era l’ultima grossa spina nel fianco del Piemonte e cioè dei confini occidentali d’Italia. Rimanevano parecchie altre minori spine a causa di tre teste di valle, mai appartenute né al marchesato di Saluzzo, né al pinerolese. Esisteva, a cavallo delle Alpi una regione, il Delfinato, dapprima stato sovrano, poi riunito alla Francia, al cui principe ereditario dava da secoli il titolo di delfino. Una parte di quello stato era dettoil Dauphin‚ auxeauxpendantesvers l’Italie. Di parlata francese, i suoi abitanti non avevano mai appartenuto all’Italia. Ma da quelle teste di valle, la Francia poteva fare agevolmente irruzione nella pianura padana. A venti chilometri sopra Pinerolo, nella valle del Chisone, al punto in cui la valle si chiude in una selvaggia gola, dominata dal BecDauphin, cominciavano le terre di Francia: Meana, Mentoulles, Fénestrelles, Pragelato, sino al colle di Sestrières. Perduta Pinerolo, i francesi fortificano Fénestrelles, minacciando di lì uno degli sbocchi principali delle Alpi verso la pianura torinese.

 

 

Al di là del colle di Sestrières si apre la vallata della Dora Riparia; e tutta la testa di valle, con Cesana, Bardonecchia, Oulx, Exilles, Salbertrand e Chaumont, apparteneva altresì al Delfinato volto verso l’Italia. A pochi chilometri sopra Susa, Francia aveva fortificato Exilles e poteva di qui volgersi tranquillamente verso la pianura piemontese. Un ultimo saliente francese era quello della testa di val Varaita, con i quattro comuni detti di Casteldelfino, sant’Eusebio, Ponte Chianale, Chianale e Bellino. La Val Varaita sbocca direttamente su Saluzzo.

 

 

La campagna fortunosa della guerra di successione spagnola, durata dal 1701 al 1713, gloriosa per l’assedio di Torino e per l’eroismo di Pietro Micca, dà finalmente all’Italia i suoi confini naturali, col trattato di Utrecht dell’11 aprile 1713. Vittorio Amedeo II aveva ceduto, a tal uopo, la valle di Barcellonetta, che la sua casa possedeva al di là delle Alpi; sicché, colla rinuncia a terreno geograficamente francese, «ebbe il merito», osserva Luigi Cibrario, «di non lasciar più alla Francia un palmo di terreno in Italia, né un facil passo ad invaderla».

 

 

Savoia e Francia nominano commissari incaricati di apporre sul terreno le pietre destinate a segnare con precisione i confini concordati attraverso tante guerre e tanti trattati. Il processo verbale definitivo detto appunto deslimitesfu firmato il 15 aprile 1761; ed i confini così stabiliti furono osservati per quasi due secoli, sinché le vicende della sciagurata guerra fascistica non costrinsero l’Italia a cedere alla Francia, oltreché l’ultimo brandello del nizzardo, alcuni minimi tratti di territorio alpino le cui acque scendono verso l’Italia. Che fu il risultato della insipienza dello stato maggiore francese, il quale rinunciava, per motivi tattici, ora resi futili dalle nuovissime armi atomiche, alla politica sapiente dei reggitori francesi e piemontesi, i quali avevano fatto esclamare ai firmatari del trattato dei confini del 1761 essersi abolito per sempre ogni motivo territoriale di contesa fra i due paesi confinanti!

 

 

Alla conquista dei confini naturali faceva seguito la conquista ideale. In tutte le testate di valle prima appartenenti al Delfinato e nelle valli valdesi, la parlata comune era quella francese. Rispettosi del principio comune alle dedizioni ed annessioni antiche, i Savoia rispettano gli usi e le consuetudini, fra cui principalissima quella del rispetto alla lingua materna delle popolazioni nuovamente annesse. Non solo nell’uso quotidiano, ma anche nei documenti pubblici, la lingua francese rimane, sinché i valligiani vogliono, quella ufficiale. Come l’uso del francese, un tempo invalso sino alle porte di Ivrea, a poco a poco vien meno sino a Pont Saint Martin, all’imbocco della Valle d’Aosta e si conserva tuttora volontariamente, insieme a quello dell’italiano, nelle valli valdesi; così esso è ancora vivo nell’ottocento nei borghi un tempo appartenenti al Delfinato. È commovente seguire nei volumi del Lameire, il quale, per studiare la pratica del diritto di guerra sotto l’antico regime, aveva percorso a piedi tutte le località dove nel sei e settecento si era guerreggiato tra Francia e Piemonte, le vicende dei verbali dei consigli comunali del Delfinato italiano, i quali ad uno ad uno abbandonano, tacitamente o deliberatamente, l’uso della lingua forestiera a favore di quella italiana (IrénéeLameire, Théorie et pratique de la conquêtedans l’ancien droit, Paris, Rousseau, Introd. e 4 vols., 1902-1908, particolarmente nei volumi primo e secondo).

 

 

Ultimo il consiglio comunale di Fénestrelles delibera, non per comando del governo centrale, ma per spontaneo volere di popolo, nella seduta del 21 marzo 1871 di venir meno alla consuetudine di adottare, come lingua ufficiale, il francese; e di sostituirla con la lingua italiana «qui est la langue de notre patrie». Alle conquiste territoriali ottenute mercé il valore delle armi ed il lungo sacrificio, il rispetto della libertà aggiungeva così la conquista spirituale, che non è solo del parlare e dello scrivere italiano, ma è anche quella del sentirsi parte viva della nostra grande famiglia.

 

 

Questa la storia di una parte della formazione dell’unità italiana che viene alla mente quando contemplo la catena delle Alpi, sormontata dal Monviso. I lettori mi diano venia se, invece di una prefazione, ho offerto un ricordo.

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