Opera Omnia Luigi Einaudi

Prefazione – T. Carlyle, Passato e presente

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1905

Prefazione – T. Carlyle, Passato e presente

Thomas Carlyle,Passato e presente, Torino, F.lli Bocca, 1905, pp. V-XIX

 

 

 

Gli Editori Bocca hanno voluto affidare a me l’incarico di presentare al pubblico italiano la leggiadra traduzione che essi pubblicano di Past and Present, una delle opere del Carlyle che nell’Inghilterra ebbe più larga eco. In Italia il grande scrittore è conosciuto quasi soltanto per il suo libro sugli Eroi mentre sono troppo scarsamente lette le altre opere che dal Taine gli valsero nella sua Storia della Letteratura inglese il posto di rappresentante massimo dell’«Idealismo inglese». Idealista è certamente il Carlyle negli Eroi, nel Sartor Resartus nei Saggi, come pure nelle tre opere storiche su Oliviero Cromwell, sulla Rivoluzione francese e su Federico II. Libri strani ed affascinanti nei quali la sua filosofia dell’eroico nella storia si mescola ad una visione profonda, con bagliori improvvisi ed oscurità misteriose, della realtà attuale e della storia passata. Il Carlyle è stato il profeta, il veggente dell’Inghilterra della prima metà del secolo XIX. Egli ha assistito alla grande trasformazione storica dell’Inghilterra terriera, aristocratica, in un’Inghilterra borghese, manifatturiera, bancaria; e superando il momento storico nel quale viveva, ha profetato l’avvento del nuovo imperialismo colonizzatore e della espansione mondiale. Ma nei suoi libri maggiori questa posizione del Carlyle è resa meno chiara dalla natura degli argomenti storici o filosofici da lui trattati: nel Sartor Resartus è eccessivamente ardua la veste allegorica data al pensiero: e le Lettere di Oliviero Cromwell male si potrebbero presentare ad un lettore italiano, perché traggono il loro sapore quasi del tutto dalla forma inglese. I sette volumi della Vita di Federico il Grande spaventano per la loro mole; mentre la Storia della Rivoluzione francese, pure rimanendo insuperata in alcune pittoriche rappresentazioni di momenti supremi, non corrisponde più interamente agli ultimi risultati della critica storica. Per gli stranieri dunque la fama del Carlyle continua ad essere sovratutto raccomandata al libro sugli Eroi ed è questo che oggi si presenta in veste italiana.

 

 

Passato e Presente è, come gli altri, impregnato di filosofia eroica, di idealismo profetico, pieno di luci e di tenebre; ma è anche – cosa sovratutto interessante per noi – un libro che acquista pregio dal momento storico in cui fu pubblicato e nel quale il Carlyle intese diffondere con esso la «buona novella».

 

 

Correva allora l’anno 1843, anno di torbidi religiosi, sociali e politici, tra i quali pareva dovesse andare sommersa la vecchia Inghilterra.

 

 

L’allargamento del suffragio a tutti coloro che pagavano una certa somma di imposte, l’abolizione dei borghi putridi che falsavano la vita parlamentare, avevano scosso profondamente la vita politica. La propaganda di Cobden e della Lega di Manchester entusiasmava la borghesia e l’artigianato scelto contro i dazi sui cereali che affamavano la popolazione per arricchire l’aristocrazia terriera. Le relazioni dei primi ispettori delle fabbriche, le rivelazioni delle Commissioni d’inchiesta svelavano all’opinione pubblica attonita gli abissi di dolore in cui erano piombati nelle fabbriche i ragazzi e le donne dall’ingordigia dei nuovi capitalisti avidi di subiti arricchimenti.

 

 

La classe operaia cominciava ad alzare la testa; e col formidabile movimento cartista, così chiamato dalla carta in cui la democrazia riassumeva i suoi desideri, colle leghe operaie che si estendevano, a guisa di lampo, a milioni di lavoratori della terra e dell’officina, con gli scioperi tumultuosi, con le violenze alla libertà del lavoro, con le dimostrazioni di centinaia di migliaia di persone nelle vie di Londra, terrorizzava la borghesia pacifica e provocava reazioni violente.

 

 

L’Inghilterra d’allora rassomigliava all’Italia dell’ieri e dell’oggi, con le sue giornate di maggio del 1898, con i tribunali militari, con le elezioni socialiste, con la fioritura delle leghe e degli scioperi, con le giornate del settembre 1904. Fu allora che sorse Carlyle, il veggente, a bandire il vangelo che doveva salvare la società minacciante di precipitare nell’anarchia e nella dissoluzione. Anche noi abbiamo oggi in Italia dei profeti e dei veggenti; ma sono scimmiotti che ripetono malamente le formulette di Carlo Marx, sono della gente che vuole educare la «coscienza» del proletariato con la predicazione monotona di pretesi principi scientifici sulle leggi del valore, sullo sfruttamento capitalistico; sono, più in basso, coloro che aspirano ad essere i duci della futura «dittatura del proletariato». In questa gente mediocre non brilla luce di intelligenza ed i loro articoli di giornali ed i loro libri non avranno che la vita effimera del giorno che passa.

 

 

Carlyle ha scritto invece un libro che rimarrà nella letteratura del suo paese, perché egli non aveva nessun piccolo credo, nessuna sedicente formula scientifica da buttare in preda alle masse. Egli era un profeta che predicava la guerra alla falsità, il culto della sincerità, e preannunciava l’avvento di una nuova schiatta di Eroi, più feconda e più nobile degli Eroi antichi. Guardate come egli annuncia il suo verbo, non elencando i diritti della democrazia, ma descrivendo nel secondo libro, – forse il più bello di tutta l’opera e che da solo avrebbe bastato ad assicurarne il successo duraturo – il «Monaco del Passato». Per dire agli uomini dell’oggi il perché dei loro mali, il Carlyle rievoca i monaci del medioevo, «questi bipedi strani coi loro breviari e coi loro rosari, colle loro teste denudate, col loro rude cilicio e i loro voti di povertà». Tra tutti emerge la figura del Monaco Sansone, prima subsacrista poi abate del suo convento, un uomo grande che avea ricevuto da Dio la facoltà di governare gli altri uomini e di guidarli e costringerli al bene. Il secondo libro è tutta una storia dei detti e dei fatti di questo abate Sansone; e non pochi lettori meraviglieranno, leggendo, come si possa ancora oggi sentirsi attratti da questa rappresentazione dell’eroe sacerdote e re. Ma ahimè! oggi più non si sanno scorgere gli eroi; malgrado i sistemi elettorali perfezionati, malgrado l’istruzione diffusa, malgrado l’allargamento del suffragio, il mondo trova maggiori difficoltà a scegliere di tra la folla dei ciarlatani e degli uomini finti gli eroi veri degni di governare i loro simili. Dinnanzi allo spettacolo magnifico delle cattedrali e dei conventi medievali in cui gli uomini, sotto la guida di un santo, combattevano le battaglie contro il male terreno e spirituale, contro la non sincerità, contro l’usura, contro i prepotenti, contro la terra avara, noi abbiamo il quadro terribile di una folla senza capi e senza Dio, di una aristocrazia terriera che cade nel «Dilettantismo» dei piaceri, dell’ozio e delle cacce, di una nuova aristocrazia del denaro, schiava del «Mammonismo», che si ispira solo alle regole del dare e dell’avere, che paga a contanti od a termine e che crede di aver conseguito il suo ufficio producendo molto cotone a basso prezzo per far concorrenza agli stranieri.

 

 

No – grida il Carlyle – questo non è un mondo di veri uomini, ma è un mondo di finzioni che hanno usurpato il posto della realtà e conducono la patria nel nulla! Occorre che tutta la società ridiventi simile ad una Guardia del corpo, magnifica nei suoi vestiti rossi, nella sua forza disciplinata, nel suo slancio guerriero, simile a quella Guardia del corpo che il sergente istruttore ha saputo trarre fuori da «dei ladroni vestiti di stracci, fatti di mille pezzi, da dei manovali che avevano disertato, da tessitori affamati, da servi ladri, da tutta una popolazione sbandata, incamminantesi a grandi passi verso la rotta della disciplina». Oggi tutta la popolazione rassomiglia un po’ a questa orda dispersa; gli operai non hanno alcun legame coll’imprenditore, e l’odio e il disprezzo imperversano fra le diverse classi sociali. Se il mondo continuasse così, ben presto giungerebbe la dissoluzione ultima. Affinché questo non sia, il Carlyle invoca il sorgere di nuovi Monaci Sansoni che sappiano guidare gli altri uomini. Non sarà più un abate signore di un convento, ma saranno i «capitani dell’industria», i direttori delle officine dove gli uomini lottano contro la natura. «I capitani dell’industria sono i veri combattenti: riconosciuti d’ora innanzi come i soli veri combattenti; essi hanno da lottare contro il caos, la necessità, i diavoli e i Jotons; essi hanno da dirigere l’umanità in questa grande ed universale guerra, la sola vera; gli astri, nelle loro corse, combatteranno per essi e i cieli e la terra dichiareranno ad alta voce: “Va bene!”».

 

 

Un nuovo esercito si deve formare, più nobile e più forte delle Guardie del corpo; ma deve essere un esercito saldo, non una folla dispersa. Oggi l’industriale quando ha pagato alla sera l’operaio crede che tutto sia finito ed abbandona i suoi fratelli all’oscurità del male e della miseria. Almeno il Barone feudale alimentava il servo che conduceva nella foresta i suoi porci, ed amendue erano legati insieme per tutta la vita. «Era bello questo, era umano! L’uomo non vive altrimenti, non può vivere diversamente contento, in nessun luogo, in nessuna epoca. L’ isolamento è il risultato finale della miseria umana. Essere separato dalla comunità, lasciato solitario: trovarsi di fronte a un mondo che vi è straniero, che non è il mondo vostro! È quella la peggiore delle stregonerie: è la quintessenza dello spirito del male». L’uomo deve ritornare ad essere il fratello dell’uomo; la «Cavalleria del Lavoro», la «religione pratica del lavoro» dovranno realizzarsi ancora su questa terra. All’erta! o cavalieri del Lavoro. «È a voi che mi appello: perché voi non siete morti, voi siete semi-viventi; esiste in voi una energia sempre vigilante, intrepida, fattore primo d’ogni intrapresa nobile dell’uomo. Onore a voi, quali voi siete. A voi mi appello: voi sapete perfettamente almeno questo: che il mandato di Dio di fronte all’uomo, sua creatura, è: “Lavorare!”. L’epopea futura del mondo non avrà per eroi quelli che sono semi-morti, ma i vivi e coloro che si svegliano alla vita. Guardatevi d’intorno. Le vostre legioni umane sono tutte in ribellione, in confusione, in disordine; alla vigilia di cadere nel fuoco o nella follia. Esse non vogliono continuare a marciare sotto i vostri comandi, con sei pence al giorno e il principio della offerta e della domanda; esse non lo vogliono; e infatti non lo debbono, non lo possono. Voi le condurrete all’ordine, voi cominciate già a condurvele. All’ordine, a una sapiente obbedienza, a una nobile lealtà, in cambio di una nobile direzione. Le loro anime sono pressoché arrivate alla follia: che le vostre siano saggie e lo diventino una volta più. Non è già coll’essere simile a un popolaccio terrificato e terrificante, ma coll’essere simili a una massa resistente di uomini irreggimentati, diretti da veri capitani, che questi individui conquisteranno l’avvenire. Tutti gli interessi umani, tutte le intraprese umane collettive, tutte le singole forme di società di questo mondo, a un certo stadio del loro sviluppo, hanno un bisogno prepotente di organizzarsi; ed è il lavoro, il maggiore degli interessi umani, che ci abbisogna nel momento che corre».

 

 

Nella buona novella del Carlyle non bisogna cercare una regola pratica di azione immediata. Nei periodi rotti, nelle interiezioni continue, nelle metafore e nelle immagini carlyleiane, i tribuni da piazza non verranno certamente a cercare la formula da spiegare e sviluppare nei comizi popolari. Nemmeno bisogna ricercare nel Carlyle un nuovo pensiero scientifico. Egli aveva in orrore la scienza economica ed è sua la famosa definizione «a dismal science» con la quale la scienza di Adamo Smith, e di Ricardo veniva bollata a fuoco. Ma se non vi è in queste critiche alla scienza nulla di scientifico, l’opera sua non ha però nessun carattere comune con la odierna noiosa letteratura socialistica; non v’è in essa nulla che richiami i sofismi del valore coagulazione di valore, nulla che possa fare la piattaforma di un partito, di un oratore da comizio o di un ostruzionismo parlamentare Tutte queste cose per Carlyle sono «non-entità», fantasmi che si dilegueranno. Per lui è una cosa vera e vivente il Monaco Sansone che riedificava le chiese diroccate, fugava gli usurai, resisteva ai potenti della terra, puniva i monaci oziosi e chiacchieroni e voleva attuare in terra l’obbedienza alle regole del lavoro e del sacrificio. Per lui sono cose vere e viventi quelli che oggi lavorano per coprire le schiene nude dei poveri, coloro che colonizzano le terre deserte, quelli che diffondono la luce del vero nelle menti degli ignoranti. Egli irride ai comizi, alle urne elettorali, al Parlamento, ai clubs, agli intriganti che discorrono e chiacchierano sui quadrivi.

 

 

Ed il suo pensiero – pure indeterminato ed incerto, pure nascosto in mezzo alle mille spezzature e ripetizioni di uno stile stranissimo – corrisponde ad alcune grandi correnti del pensiero umano che parmi non sieno meno vivaci oggi del giorno in cui il Carlyle scriveva: la tendenza mistico-idealista e la tendenza verso la formazione di una nuova gerarchia sociale. Carlyle è un mistico che si è foggiata una religione dell’eroismo. L’uomo esiste solo in quanto si avvicini al suo ideale eroico, solo in quanto sia prossimo a diventare Dio. Tutti gli altri uomini sono a mala pena degli «abiti messi attorno a della carne», della «Polvere-Secca». E tutte le religioni, – purché siano sincere, purché il sacerdote sia un’«anima viva» e non un semplice percettore delle rendite di un beneficio ecclesiastico, sono per lui sacre perché avvicinano l’uomo a Dio. Nessuno spettacolo più bello della chiesa che i contadini hanno edificato in ogni villaggio! «Una chiesa, ossia un edificio coperto, coi propri tesori ed i propri campanili; con un altare, un leggio che sostenga dei libri e dei metodi: vale a dire, insomma, la possibilità che un uomo venga là a sedersi e discorrere di cose spirituali. Ed è una cosa bella; a dispetto di tanta oscurità e decadenza, essa rimane fra le più belle, fra le più commoventi che sia dato vedere sulla faccia della terra».

 

 

Orbene, questo misticismo operante del Carlyle viene a collimare con il risveglio moderno delle tendenze spiritualiste ed ideali, con la reazione contro il materialismo grossolano che pareva dovesse trionfare nella seconda metà del secolo decimonono. Il secondo libro sul «Monaco del Passato» è un inno alle feconde virtù di un animo nobile che ha soggiogato il corpo e che appunto perciò ha compiuto opere grandi.

 

 

Carlyle, oltreché un mistico, è un apostolo di un nuovo ordine sociale. Egli non ama la democrazia che la Rivoluzione francese ha diffuso nel mondo. La democrazia per lui è «la disperazione di trovare degli eroi per governarci e la rassegnazione soddisfatta di farne a meno». Quando il suo appello agli eroi del lavoro, ai capitani dell’industria sarà stato ascoltato, la società sarà salvata dal pericolo della dissoluzione, e tutte le classi sociali, unite fra di loro da legami potenti, ritorneranno a combattere la lotta divina contro il male.

 

 

Ora anche in questa concezione del Carlyle pare a me si debba vedere qualcosa di più di un semplice ritorno regressivo verso le forme conventuali, verso i legami feudali tra uomo ed uomo. Pare a me che le predizioni del Carlyle stiano in parte avverandosi nella realtà. In mezzo alla società disorganizzata dei periodi di passaggio dalla vita agricola alla organizzazione manifatturiera, periodi in cui la vecchia aristocrazia si spegne e la nuova non è conscia della propria forza e dei propri doveri, si veggono gli albori di una società nuova, in cui dominerà una nuova aristocrazia, costituita dalla borghesia imprenditrice e dalle classi operaie più evolute ed organizzate. Ed è certo che questa nuova aristocrazia potrà imperare a lungo solo quando dimentichi i chiusi egoismi di classe e si ricordi dei grandi doveri che incombono ai reggitori dei destini dell’umanità.

 

 

È per questa sua doppia coincidenza colle tendenze idealiste e sociali del momento presente che Passato e Presente avrà larga accoglienza fra gli intellettuali d’Italia. Essi dovranno fare un qualche sforzo per adattarsi alle stranezze dello stile carlyleiano, per non allarmarsi dinnanzi ai fantastici nomi dati alle diverse «non-entità» con le quali il Carlyle combatte, per passare sopra alle allusioni puramente inglesi, sulle quali non occorre fermarsi, come su cose niente affatto sostanziali del pensiero dell’Autore. Leggendolo, forse essi dubiteranno di trovarsi dinnanzi ad un opuscolo politico nel proemio, ad un romanzo storico nel secondo libro, ad un poema mistico-sociale in prosa nel terzo e quarto libro. Passato e Presente è un po’ di tutte queste cose insieme: romanzo, poema in prosa e opuscolo politico. Ed è forse appunto per ciò che il suo successo è stato duraturo.

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