Opera Omnia Luigi Einaudi

Democrazia, collettivismo e guerra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/01/1915

Democrazia, collettivismo e guerra

«Minerva», 16 gennaio 1915, pp. 49-52

Gli ideali di un economista, Edizioni «La Voce», Firenze, 1921, pp. 123-134

 

 

 

Uno dei luoghi comuni, che si sentono più comunemente ripetere intorno alla presente guerra, dice che essa è una guerra combattuta tra il progresso e la realizzazione, tra la libertà e la schiavitù, tra le nazioni democratiche, dove al potere sono i radicali e i radicali socialisti, come la Francia e l’Inghilterra, e le nazioni aristocratiche, come la Germania e l’Austria, dominate ancora da classi feudali e dove i partiti d’avanguardia, ossia i socialisti, sono messi al bando dal governo.

 

 

È difficile poter dare un giudizio sicuro su queste affermazioni generiche, sovratutto perché è quasi impossibile definire con precisione che cosa vogliono dire le parole “libertà”, “progresso”, “reazione”, “democrazia”, e simiglianti astrattezze. Ma non è impossibile porsi un problema più concreto, che sarebbe il seguente: supponendo che il progresso sia caratterizzato dal passaggio dalle idee e dai partiti di destra alle idee e ai partiti di sinistra, supponendo cioè che sia esatta la terminologia ordinaria della maggior parte dei giornali italiani e dei loro lettori, i quali considerano un’idea, un programma tanto più “moderno”, “progressivo”, “avanzato”, “illuminato”, quanto più si avvicina alle idee e ai programmi dell’estrema sinistra e particolarmente dei socialisti, i quali formano l’ala più avanzata dell’estrema; supponendo che siano corrispondenti a realtà gli elogi di “audacia” e di “modernità” e di “illuminismo” che si rivolgono dall’opinione pubblica ordinaria agli uomini di governo conservatori, i quali fanno proprio il programma dei socialisti o taluni punti di esso e dimostrano così che il socialismo non è un appannaggio esclusivo dei socialisti, ma quel che c’è di buono in esso, e sarebbe quasi tutto – salvo la violenza, la rivoluzione, la lotta di classe, salvo cioè i mezzi per ottenere il fine – è un ideale comune a tutti i partiti; supponendo tutto questo, che oramai è patrimonio del pensiero democratico più avanzato; quale dei due gruppi combattenti, il blocco austro-tedesco o la triplice intesa, si avvicina maggiormente alla consecuzione dell’ideale sovra menzionato e deve quindi essere reputato come il campione della civiltà e del progresso?

 

 

Naturalmente, col porre il quesito in cotal maniera, non voglio affermare che quella posizione risponda al mio modo di pensare, né che essa sia vera ed esatta, essendo chiara invece l’impossibilità della accettazione di quelle premesse da parte mia. Voglio soltanto porre il problema in un modo qualunque che sia comprensibile, e che, per la sua corrispondenza al modo corrente e comune di pensare e di parlare in Italia, possa farci alla meglio uscire fuori dal complicatissimo imbroglio di definire il “progresso”, la “democrazia”, la “modernità” e altrettanti parole.

 

 

Se poi partiamo da questa premessa, appare subito evidente che almeno una delle potenze appartenenti alla triplice intesa deve essere senz’altro esclusa dal novero dei paesi progressivi e moderni: ed è la Russia. Non perché in Russia si adoperi il knut, o vi sia lo Zar ed accadono dei progroms di israeliti. Tutto ciò può essere variamente giudicato e non può essere considerato come un indizio specifico di reazione, quando in Francia, a cui tutti guardano come all’antesignana della democrazia, sono o erano della guerra in tanto onore i progetti di cacciata e di persecuzione fiscale degli operai stranieri. L’esilio e la esclusione dalla terra e dal fuoco sono sempre stati nella storia metodi simpaticissimi alle democrazie più evolute. La vera ragione per cui non vi è dubbio che la Russia deve essere reputata un paese reazionario sta in ciò, che le classi dominanti sono riuscite astutamente a iniziare ed a condurre innanzi su vasta scala la distruzione di un istituto socialistico per eccellenza: la proprietà collettiva della terra. Fino a pochi anni or sono la terra in Russia, per quella parte che non apparteneva alla nobiltà e allo Stato – e quest’ultima, estesissima, era anch’essa proprietà collettiva – apparteneva quasi interamente ai mir, ossia alla collettività dei contadini del comune, ed era coltivata secondo regole collettivistiche. Attraverso ai secoli, i contadini russi erano riusciti a conservare intatta la fiamma dell’ideale collettivo, ricongiungendo gli ultimi e più moderni postulati della scienza occidentale coi mitici ricordi dell’età dell’oro. Tutto questo magnifico edificio va ora sgretolandosi ad opera delle reazionarie classi dominanti; le quali, giovandosi di vani pretesti, come sarebbe la mala coltivazione dei terreni dei mir, approfittarono del momento in che dalla Duma erano stati espulsi gli spiriti più audaci e rivoluzionari, per decretare l’abolizione del vincolo della proprietà collettiva e per autorizzare ed in varie maniere aiutare e promuovere la divisione della proprietà comune dei mir in proprietà individuali private dei contadini. Questi avidi di terra, abboccarono all’amo teso loro dalle classi conservatrici, vogliose soltanto di creare attorno a sé una guardia del corpo dei piccoli proprietari contro i moti degli operai progressivi e industriali della città. Così si sta oggi commettendo il più grande delitto sociale del nuovo secolo: la distruzione del regime collettivo della proprietà in Russia. Quando i partiti socialisti d’avanguardia prevarranno in quel paese, dovranno durare sforzi colossali per ricostituire quegli istituti che la reazione ha oggi distrutto. Come si può, dopo ciò, sostenere che la Russia sia un paese democratico?

 

 

Tra l’Inghilterra e la Francia da un lato e la Germania e l’Austria dall’altro non vi è possibilità di dubbio nella scelta. Noi non possiamo considerare come antesignani del progresso e delle idee avanzate quei paesi i quali vanno a scuola di progresso e di socialismo; bensì quelli che insegnano agli altri il verbo novello e sono i pionieri delle sue feconde applicazioni.

 

 

Ora è indubitato che non la Francia e l’Inghilterra hanno insegnato alcunché altrui; sibbene esse sono state rimorchiate dalla Germania; ed è certissimo che la iniziatrice delle riforme sociali più moderne, la antesignana del collettivismo è la Germania. Il generale von Bernhardi non è solo quando assevera che, per consenso universale, la Germania occupa il primissimo posto, innanzi a tutte le altre nazioni, nel socialismo scientifico. Veramente il bravo generale attribuisce alla Germania il primo posto nelle scienze economiche. Ma è evidente che si tratta di un lapsus calami dell’illustre scrittore pangermanista. È impossibile che egli potesse considerare degne di nota le analisi dei Gossen, dei Bohm Bawerk, dei von Wieser, ecc., che possono parere finissime solo ai seguaci della economia classica inglese; né è presumibile che egli volesse lodare le dimostrazioni, serrate ed elegantissime bensì, ma troppo intinte di manchesterrianismo, con cui il Dietzel additava i danni della politica doganale tedesca odierna. È chiaro che il Bernhardi voleva alludere a Carlo Marx ed ai suoi interpreti e commentatori Schmoller e Wagner e rispettivi discepoli, saliti agli onori delle cattedre universitarie, grazie a quella intima fusione, purtroppo non abbastanza apprezzata all’estero, che in Germania si nota fra tutte le classi sociali, per cui il vangelo delle classi proletarie è divenuto carne della carne della scienza universitaria. Nella sola Germania è avvenuto che il pensiero economico si sia talmente imbevuto di socialismo, da far quasi del tutto dimenticare l’antica e reazionaria Economia politica, ormai condannata a meritato oblio e sostituita dalla nuova e moderna “scienza economica socialista” o, più brevemente, “socialismo scientifico”. Non l’orgoglio tedesco, ma il consenso universale addita nella Germania l’innovatrice profonda nel campo scientifico economico e l’iniziatrice delle riforme sociali più audaci. Chi, se non Carlo Marx, ha dimostrato che la scienza economica inglese degli Smith, dei Malthus, dei Ricardo, dei Senior era un volgare trucco delle classi capitalistiche e plutocratiche per tenere a bada nella miseria le classi proletarie? Chi, se non Carlo Marx, ha esposto la nuova teoria del valore, dimostrando che esso non é altro che lavoro coagulato e che quindi solo il lavoratore ha diritto all’intiero valore delle merci da lui solo prodotte? Chi, se non lui, ha detto: operai di tutto il mondo, organizzatevi!?

 

 

L’organizzazione, ecco la grande scoperta della Germania moderna, che tutti gli altri paesi vanno a gara ad imitare. Organizzazione, che vuol dire sforzo collettivo e cosciente, organizzato in vista di un fine comune, senza mire particolari, per il raggiungimento del maggior benessere della collettività. Nell’applicare il principio collettivista dell’organizzazione, tutte le classi sociali sono concordi. I socialisti italiani si sono meravigliati della quasi unanimità con cui i socialisti tedeschi hanno appoggiato il governo imperiale in occasione della odierna guerra. Ma chi abbia letto e meditato il volume di Roberto Michels su La Sociologia del partito politico nella democrazia moderna (Torino, U.T.E.T., 1912) non ha provato alcuna meraviglia. Come si voleva che la democrazia sociale tedesca, dopo avere consumato tanti anni, tanti sforzi e tanto denaro per creare una organizzazione di partito, di leghe operaie socialiste, di propaganda, di stampa, tanto minuta e perfetta, dopo aver costituito una gerarchia così bene congegnata, così solidale, così agevolmente manovrabile dai capi supremi, potesse arrischiare di distruggere l’opera propria col permettere l’introduzione in Germania, al seguito degli eserciti francese ed inglese, dello spirito di individualismo, di anarchia, di irrequietudine, proprio degli “agitati” compagni d’oltre Vosgi, o d’oltre Manica? Essi, i socialisti tedeschi, ben sanno che il socialismo di marca francese è tutta spuma e si esaurisce nei discorsi incendiari e nella violenza; mentre in realtà è lo strumento, non si sa se inconsapevole, dell’alta finanza parigina. I socialisti o meglio gli anarchici francesi sono le scolte del capitalismo individualistico e reazionario. Mentre in Germania le cose vanno ben diversamente. Tutto è organizzato: il capitalismo e lo Stato. I capitalisti hanno imparato che era inutile farsi concorrenza, col solo scopo di danneggiare la collettività, sovratutto la collettività dei lavoratori; ed hanno costituito, in ogni ramo industriale, i cartelli o sindacati, mercé i quali la produzione è organizzata in modo scientifico e moderno. In nessun paese del mondo il capitalismo è proceduto tant’oltre sulla via della organizzazione collettivistica; in nessuno la concorrenza, con la unificazione delle imprese, è stata egualmente ridotta al minimo. In nessuno è così breve il passo necessario a farsi affinché i lavoratori organizzati dal partito socialista possano partecipare e alla perfine divenire i dirigenti dell’organizzazione industriale e commerciale. Lo Stato, spinto dalla fervida parola degli Schmoller e dei Wagner e degli altri socialisti della cattedra, ha compiuto anch’esso miracoli sulla via del collettivismo. A non parlare delle foreste, delle ferrovie e delle miniere di ferro e di carbone e di potassa che gli Stati tedeschi esercitano meravigliosamente, lo Stato germanico ha potentemente aiutato – con dazi protettivi, con un’equa distribuzione nelle ordinazioni di rotaie, di materiale mobile ferroviario, di navi da guerra e di quant’altro gli occorre – gli industriali tedeschi a formarsi una coscienza collettiva. Ormai essi sono abituati a seguire un indirizzo comune; non più lavorano soltanto per conseguire un utile e per sfruttare gli operai, come nei paesi dove domina ancora l’individualismo reazionario. No; essi lavorano per la consecuzione di un fine comune, secondo le linee di massima stabilite dal governo, come rappresentante della collettività; e se ottengono spesso utili ingenti, superiori a quelli dei concorrenti inglesi o francesi o italiani, quegli utili sono il meritato compenso dell’azione sviluppata nell’interesse comune; non sono il profitto del capitalista, ma quasi l’onorario di chi conserva ancora del capitalista le parvenze esteriori, ma in realtà è già la crisalide di un futuro ministro o funzionario della produzione in uno Stato collettivista.

 

 

La stessa coscienza degli interessi collettivi la Germania ha cercato di ispirarla nelle masse lavoratrici, mercé la meravigliosa legislazione sociale, di cui essa è indiscutibilmente la maestra del mondo. Poiché si può essere scettici intorno al valore degli altri contributi politico sociali dati dalla Germania all’incivilimento mondiale. Si può considerare la creazione dell’impero tedesco come un fatto di prim’ordine solo dal punto di vita storico e come mediocre il suo valore dal punto di vista del tipo di organizzazione politica. Si può quindi credere che la unità germanica valga moltissimo ma non più dell’unità italiana o francese; e che la forma politica dell’impero sia un adattamento, né migliore né peggiore di un altro, alle esigenze del momento. Ma nessuno può negare che la legislazione sociale tedesca sia quanto di più collettivisticamente complesso, di più tecnicamente perfetto sia mai stato attuato nel mondo: con le sue assicurazioni contro gli infortuni, la malattia, la invalidità e la vecchiaia, con i suoi sanatori, i suoi ospedali, i suoi parchi di convalescenza, i suoi investimenti in case popolari, in opere di pubblica utilità, il sistema assicurativo tedesco forma un tutto armonico, con tutti gli elementi del meccanismo meravigliosamente ingranati uno nell’altro, il quadro migliore di ciò che su scala più vasta sarà in avvenire la società collettivistica organizzata del mondo intiero.

 

 

Le masse operaie ne sono così persuase che esse si rifiutano, per non perdere i benefizi della mutualità e delle assicurazioni sociali, ossia del collettivismo in azione, ad abbandonare il suolo germanico. Da quando in Germania invero si è iniziata l’attuazione del nuovo regime sociale, i tedeschi più non emigrano. Invece delle parecchie centinaia di migliaia di emigranti dell’epoca feudale e capitalista, sono ridotti a poche migliaia gli emigranti dell’epoca nuova collettivista. E quei pochi che emigrano sono i missionari delle nuove forme di civiltà organizzata, che è compito della Germania diffondere nel mondo.

 

 

Di fronte a questi miracoli, Francia e Inghilterra sono degli scolaretti balbettanti. In apparenza il socialismo ha fatto dei grandi progressi in ambedue i paesi: in Francia nel ministero vi sono uomini rappresentativi del partito, e in Inghilterra il signor Lloyd George ha scatenato contro di sé le ire della Camera dei Lordi e di tutti i conservatori. In realtà, se il baccano è stato grande, i fatti sono stati piccolissimi. La Francia è e pare debba rimanere un paese di piccoli proprietari irriducibili agli ideali nuovi, di plutocrati che non hanno nemmeno consentito finora l’applicazione dell’imposta sul reddito, neppure nella forma che in Italia abbiamo da 50 anni; un paese dove le camere votarono, per fare del bluff elettorale, una legge per pensioni di vecchiaia, salvo poi a tollerare che gli operai non pagassero la loro quota di contribuzione e che il tutto si riducesse a un guazzabuglio inestricabile. In Inghilterra le leggi per le assicurazioni sociali sono appena all’inizio della loro applicazione; le famigerate imposte Lloyd georgiane contro la proprietà fondiaria rendono delle somme ridicole, segno che non sono neppure riuscite a scalfire l’epidermide del privilegio; gli operai continuano a votare per i partiti storici della borghesia, la quale, detentrice del potere politico, continua ad avere gli stessi ideali antichi di scimmiottatura della aristocrazia. No; non è verso la Francia e l’Inghilterra che ci dobbiamo volgere per vedere attuati i postulati più audaci del socialismo scientifico; non è ivi che possiamo credere di vedere presto i collettivisti al governo del paese. Tutt’al più ivi vedremo dei “compagni” farsi strada presso le masse elettorali con la predicazione del rivoluzionario più acceso, dell’abbasso le armi!, salvo a diventare, appena saliti al potere, i più fedeli sostenitori della plutocrazia conservatrice e i presidenti – a 100 mila lire l’anno di onorari – delle grandi società capitalistiche viventi dei favori governativi. In Germania invece noi vediamo, affratellate dalla guerra, fondersi insieme le due burocrazie, quella statale e quella socialista, che già prima erano tanto affini di spirito; e la fine della guerra, se vittoriosa per la Germania, vedrà forse il primo Kaiser socialista diventare l’evangelizzatore del mondo a prò dei nuovi ideali della solidarietà organizzata collettivista. Né sarà cosa strana o ripugnante; poiché le teorie del socialismo scientifico sono lo svolgimento razionale e logico dei principi che in germe già si leggevano negli scritti e sovrattutto nelle opere degli organizzatori dello Stato prussiano, dai tempi del Grande Elettore insino agli anni in cui fiorì Carlo Marx.

 

 

V’è bisogno di dire che le cose dette sopra – le quali sono state nello scrivere forse leggermente colorite, ma rispondono sostanzialmente alla verità non come la vedo io, ma come, se fossero logici, la dovrebbero vedere i democratici e i socialisti italiani – non bastano né a farci ritenere utile ed augurabile l’ideale collettivistico germanico e neppure ad indurci a prendere partito per l’una o l’altra delle due parti contendenti, a seconda che i nostri ideali si avvicinino di più agli ideali individualistici inglesi o collettivistici germanici? Ho voluto soltanto – mettendo in bocca un discorso immaginario a un ipotetico demo-socio-moderno evoluto teorico italiano – mettere in chiaro come ragionino falsamente quei democratici italiani i quali vorrebbero che l’Italia scendesse in campo per la difesa degli ideali democratici francesi e inglesi contro la reazione germanica. La verità si è che Francia e Inghilterra stanno – pur troppo a mio parere – attingendo i loro ideali più moderni e più nuovi a purissime fonti tedesche; cosicché, se i democratici fossero logici dovrebbero combattere per la Germania, che oggi è maestra al mondo di democrazia collettivistica. Ma ragionano del pari falsamente quei conservatori più stretti, frequentatori dei clubs del Whist o della Caccia, i quali adorano la Germania perché essa ha il pugno forte ed è il solo Stato capace di domare gli straccioni socialisti. Li doma, assorbendone tutto lo spirito e attuandone, tutti gli ideali. Chi voglia vedere ancor coi suoi occhi le delizie dello Stato collettivista, costui auguri alla Germania la vittoria e quindi l’egemonia mondiale. Burocratismo e socialismo sono due fratelli siamesi e se noi accettiamo con un ideale il collettivismo, dobbiamo inchinarci a quella Germania la quale – come ha detto quell’Ostwald, il quale pare sia illustre tra i chimici – ha il privilegio di possedere lo spirito organizzatore.

 

 

La verità si è che il problema della guerra non si può discutere sulla base di parole di contenuto incertissimo, come “democrazia”, “reazione”, “ideali moderni”; ogni popolo e principalmente noi italiani dobbiamo discuterlo partendo dalle nostre concrete e precise esigenze nazionali. Le quali sono di lingua, di cultura, di razza, di confini militari, di equilibrio di forze. E tra queste necessità principalissima è quella di non lasciarci “organizzare” da nessun altro popolo, fosse pure il sapientissimo tra i popoli della terra, e di non imparare da nessun altro quali siano gli ideali politici, nazionali e sociali a cui vogliamo attingere. Facendo così, noi forse riusciremo a non cadere nel circolo vizioso dei francesi e degli inglesi, che a malincuore combattono la Germania, dopo averla per tanti anni ammirata e adorata, specialmente per ciò che essa ha di meno ammirabile: l’organizzazione, oramai degenerata in un collettivismo mortificatore delle più belle ed originali energie individuali.

 

 

Torna su