Opera Omnia Luigi Einaudi

Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1919

Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta

«Memorie della R. Accademia delle scienze di Torino», 1919, pp. 633-713

Saggi sul risparmio e l’imposta, Einaudi, Torino, 1941, pp. 167-249[1]

 

 

 

 

I

 

Appunti per la storia della teoria

 

1. – Nel corso di un’elegante partita d’armi scientifica tra i professori T.S. Adams ed Edwin R. Seligman[2] ambi gli schermidori si accordano sostanzialmente nell’affermare che una imposta può essere ammortizzata solo quando essa sia speciale ovvero superiore al livello medio delle imposte. È la antica pacifica[3] dottrina secondo cui l’imposta generale non dà e l’imposta speciale o differenziale dà luogo all’ammortamento.

 

 

Il prof. Seligman aveva da tempo esposto la teoria così:

 

 

«Quando una imposta speciale è stabilita su una qualunque categoria di beni ad esclusione di tutte le altre, l’imposta, in certe condizioni, cadrà interamente sul proprietario originario del bene – e cioè su colui che lo possedeva prima dello stabilimento dell’imposta – e non sul futuro compratore; perché l’imposta sarà scontata mercé il deprezzamento del valore capitale del bene di una somma uguale al valore capitalizzato dell’imposta. Per esempio, se il rendimento normale degli impieghi di capitale è il 5 per cento e se si stabilisce una imposta dell’uno per cento su tutte le obbligazioni ferroviarie, il prezzo di queste cadrà dalla pari ad ottanta. Il nuovo compratore non sopporterà in realtà il peso dell’imposta; perché sebbene il suo reddito netto su ogni obbligazione del valore [nominale] di 100 dollari sia soltanto di 4 dollari, egli godrà tuttavia il frutto del 5 per cento sul suo investimento. Quattro per cento su 100 e lo stesso del cinque per cento su 80. Nello stesso modo, quando imposte disuguali sono prelevate su differenti specie di beni, l’eccesso dell’imposta sui beni sovratassati al disopra del saggio generale dell’imposta sarà capitalizzato, così da esentare virtualmente i futuri possessori da questo carico differenziale. L’imposta cadrà sul primo possessore, la cui proprietà sarà diminuita in valore per un ammontare equivalente alla capitalizzazione dell’eccesso di imposta».

 

 

Subito dopo, elencando le condizioni alle quali è subordinato questo processo di «ammortamento» dell’imposta, lo Seligman novera come prima «l’ineguaglianza dell’imposta».

 

 

«Se non vi è eccesso, non vi è nulla da capitalizzare. La teoria dell’ammortamento si applica soltanto alle imposte le quali sono esclusive [speciali] o le quali eccedono di un definito ammontare le altre imposte. L’ineguaglianza di tassazione è la pietra angolare della capitalizzazione».[4]

 

 

L’Adams in sostanza su questo punto è in pieno accordo con la teoria dominante; poiché egli nota essere

 

 

«il saggio di capitalizzazione una risultante di tutte le condizioni (opportunities) conosciute di investimento e di tutte le imposte conosciute. Esso registra automaticamente il peso medio dei tributi. Se Tizio compra una ricchezza durevole, egli ne capitalizza il frutto netto o reddito ad un saggio che è minore quando il peso generale delle imposte è alto, e maggiore quando il peso generale delle imposte è basso. Egli paga l’esistente saggio medio di imposta in virtù del saggio di capitalizzazione che è costretto ad adottare nei suoi calcoli. Il nuovo compratore perciò non compra il bene libero da imposta, lo compra libero da ogni eccesso di imposta oltre il corso medio» (art. cit. pag. 278).

 

 

La differenza tra i due autori è formale: lo Seligman preferisce dire che viene capitalizzata la imposta speciale o differenziale; l’Adams afferma che lo stesso risultato si ottiene perché il saggio di interesse è modificato solo dall’imposta generale o media e non da quella speciale o differenziale. Lo Seligman si limita a dire che, se un titolo del valore nominale di 100 e del frutto di 5 è esente da tributo, ove il saggio dell’interesse corrente sia del 5% ha il prezzo di 100; ed ove venga colpito da un tributo di 1, il prezzo del titolo non varia se il tributo è generale, ribassa ad 80 se il tributo è speciale al titolo. Nella affermazione è implicita quest’altra: che il prezzo del titolo non varia nel caso di imposta generale, perché, sebbene il reddito sia diminuito da 5 a 4, è scemato nel tempo stesso il saggio del rendimento netto in tutti gli investimenti dal 5 al 4% e quindi le lire nette, capitalizzandosi oramai al 4%, corrispondono sempre al capitale invariato di 100. Invece il prezzo del titolo ribassa nel caso di imposta speciale o differenziale perché essendo il saggio del rendimento netto in generale rimasto del 5%, le residue 4 lire di reddito netto, capitalizzandosi sempre al 5%, corrispondono ad un capitale di 80.

 

 

L’Adams, con una qualche quasi impalpabile diversità di linguaggio, aggiunge alla tesi dello Seligman precisamente la motivazione mancante: affermare che «il compratore compera il bene libero da ogni eccesso di imposta oltre il carico medio» equivale invero ad affermare che il «carico medio» delle imposte produce una corrispondente diminuzione del saggio del rendimento netto dei beni durevoli e quindi lascia invariato il valore capitale dei beni stessi, mentre l’«ultra carico» non influisce sul saggio del rendimento e quindi provoca una diminuzione nel valore capitale del bene il cui reddito è diminuito. Se una differenza v’ha tra le due formule, panni stia in ciò: che a costituire il «carico medio» delle imposte, – il quale determinerebbe quel ribasso nel saggio dei rendimenti netti da cui dipende l’invariabilità nel valor capitale dei beni pur colpiti dal carico medio tributario – entrano le imposte generali e speciali, uniformi e differenziate. Il carico medio o general tax burden sarebbe una specie di media fra imposte alte e basse che gravano sui diversi investimenti, una di quelle medie che gli statistici chiamano ponderate. Questo «carico medio» farebbe diminuire il saggio medio del rendimento degli investimenti, in base a cui si compie il processo di capitalizzazione; epperciò, se il carico medio è di 1 ed il saggio di rendimento scema da 5 a 4, esso non varia i valori capitali; poiché come prima 5 lire annue di reddito al 5% valevano 100, oggi 4 lire annue al 4% continuano a valere 100. Solo l’eccesso di tassazione oltre il carico medio diminuisce i valori capitali, perché esso lascia invariato il saggio di capitalizzazione al 5% se tale esso era prima e perciò 4 lire di reddito valgono 80 e non più 100. In che cosa i termini «uguaglianza di tassazione» o «imposta inclusiva o generale» preferiti dallo Seligman differiscano dai termini «carico medio» o «carico generale» delle imposte preferiti dall’Adams è questione sottile di interpretazione che il lettore prudente farà bene di lasciare districare ai valorosi combattenti. In realtà sembra che l’imposta «generale» la quale non sarebbe capitalizzata, non debba essere solo quella che il legislatore chiama con questo nome e neppure l’imposta gravante su tutti i redditi. Anche molte imposte «speciali» possono costituire un’imposta «generale» quando esse nel loro insieme finiscano di colpire tutti o pressoché tutti i redditi. E, se vi siano dieci imposte digradanti nelle loro aliquote dal 10 all’1% dei redditi, non pare che debba considerarsi «generale» solo la quota di imposta fino all’1% se anche le quote superiori fino al 2 od al 3% e forse più in su sono applicate abbastanza largamente da potersi chiamare «generali». Epperciò il concetto di imposta «generale» tende a convertirsi in quello di «media», il che è altra prova della indeterminatezza sua.

 

 

Forse, la predilezione dello Seligman per la terminologia dell’«imposta inclusiva od esclusiva» dipende dalla virtù dimostrativa che egli sembra attribuire all’argomento del «campo tassato» e del «campo esente dall’imposta» in materia di ammortamento dell’imposta. È noto invero quale sia l’argomento principe addotto per dimostrare che solo l’imposta parziale od esclusiva può produrre l’effetto di una diminuzione del valore capitale dei beni il cui reddito è soggetto all’imposta.

 

 

Se, dice la teoria dominante, il campo tassato è insignificante in confronto al campo esente dall’imposta, il reddito netto 4 (5 lordo meno 1 imposta) continuerà a capitalizzarsi al saggio del 5 ed equivarrà ad un capitale 80. Ma se il campo tassato è relativamente importante

 

 

«il prezzo del titolo tassato non cadrà ad 80, ma forse solo ad 81; poiché l’imposizione del tributo su una così gran parte del capitale esistente del paese probabilmente eserciterà una influenza, sebbene logora, sul saggio generale dell’interesse, e può ridurlo dal 5% a forse 4 e 7/8 o 4 e 5/16. Se un forte ammontare di capitale è trasferito dai titoli tassati ad altri titoli, la crescente richiesta di questi, che prima si vendevano alla pari, ne aumenterà il prezzo a un po’ più della pari. Siccome però il reddito netto di questi ultimi rimane di 5 dollari, ciò equivale a dire che il saggio di interesse sugli investimenti è un po’ inferiore al 5%. Ma se il saggio generale dell’interesse cade alquanto al disotto del 5%, il valore di mercato dei titoli tassati sarà ora un po’ superiore ad 80».[5]

 

 

Conducendo il ragionamento alla sua logica conclusione, si dovrebbe affermare che, a mano a mano che il campo tassato si amplia e si restringe il campo esente, più forte sarà l’influenza che l’emigrazione dei capitali dal primo al secondo campo eserciterà nel senso di diminuire il saggio dell’interesse, sicché alla fine, quando nulla più rimarrà di esente, il saggio di interesse avrà subito la massima riduzione, che la teoria dominante afferma uguale alla falcidia del reddito operata dall’imposta. Su questa base ragionando, la teoria dominante affermerebbe il seguente teorema: un’imposta sui redditi di capitale tende a cagionare una riduzione tanto più forte nel saggio dell’interesse corrente sul mercato ed una corrispondente falcidia tanto meno rilevante nei valori capitali quanto più il campo di sua applicazione si estende; finché la riduzione nel saggio giunge al massimo, percentualmente uguale all’aliquota dell’imposta e la falcidia nei valori capitali si annulla quando l’imposta diventa generale ed uniforme su tutti i redditi.

 

 

Il processo logico il quale conduce alla proposizione ora enunciata è fallace. La teoria suppone invero che colui il quale vede falcidiato dall’imposta da 5 a 4 il reddito netto del suo titolo abbia interesse a vender questo, per reimpiegarne il ricavo in un titolo esente. Ma ciò non è, perché, nessun fatto nuovo essendo finora intervenuto a modificare il saggio dell’interesse corrente sul mercato, questo rimane al 5%; ed a tal saggio tanto vale serbare in portafoglio, al ridotto prezzo di 80, un titolo che rende 4, quanto reinvestirne il ricavo a 100 in un titolo il quale frutta 5. L’equilibrio tra i due titoli è perfetto ai due prezzi di 80 e 100; ne v’è motivo per un qualsiasi spostamento di capitali dall’uno all’altro impiego. Se lo spostamento si operasse, sarebbe antieconomico; poiché il venditore del titolo tassato, colle sue vendite ne farebbe ribassare il prezzo, ad es., a 79, mentre farebbe crescere il prezzo del titolo esente a 101, ossia realizzerebbe un reddito di 4 lire ad un prezzo (79) che gli darebbe un frutto del 5,06%, per fare un investimento ad un prezzo (101) che gli offrirebbe un reddito di appena il 4,95 per cento. Il che è assurdo. I due prezzi noti essendo in equilibrio tra di loro debbono ritornare ad 80 e 100. Né si può ammettere che lo spostamento avvenga per via dei risparmi nuovi, i quali si volgerebbero piuttosto verso gli impieghi esenti che verso quelli tassati; poiché quale mai maggiore convenienza v’è a comprare un reddito perpetuo di 5 lire a 100 che uno di 4 ad 80?[6]

 

 

Che se trattisi di risparmi nuovi rivolti ad impieghi nuovi, prima di poter concludere che l’imposta ha per effetto di ridurre più o meno, a seconda del campo di sua applicazione, il saggio dell’interesse, bisognerebbe poter dimostrare: 1) che il capitale occorrente a produrre un dato reddito netto è maggiore nei campi tassati che nei campi esenti; 2) che l’imposta non viene trasferita sui consumatori dei capitali; 3) che i produttori di capitale debbono accollarsi l’onere dell’imposta attraverso una riduzione nel saggio dell’interesse, il che val quanto dire del saggio di frutto degli impieghi nuovi. Il punto in discussione è dunque veramente questo: se l’imposta diminuisca la fecondità netta dei risparmi nuovi. Sul qual punto qui non occorre intrattenerci essendo appunto l’oggetto principale della presente memoria. Non mai però la soluzione del problema dovrà trovarsi in una pretesa capacità di spostamento dei risparmi nuovi dai campi di impiego nuovi tassati a quelli esenti; poiché se l’imposta viene trasferita in avanti sui consumatori essa non è capitalizzata; se incide in tutto od in parte sui risparmiatori, ciò non può essere accaduto se non per una contrazione del margine di impiego del risparmio, quindi per una causa generale – minor fecondità degli impieghi nuovi – che riduce la domanda generale dei capitali stessi e ne fa scemare il prezzo netto o saggio dell’interesse. Lo «spostamento» non può essere la causa di un fatto il quale, se esistente, avrebbe le sue radici in una causa più profonda, che è l’isterilimento relativo degli impieghi nuovi dovuto alla imposta.

 

 

Un momento veramente notabile del dibattito è questo: che lo Seligman, mosso dalla sua predilezione per i termini «imposta generale» ed «imposta speciale» e per i correlativi «generalità del campo di applicazione delle imposte», «specialità del campo tassato» e «campo immune da tassazione (taxless fiel)» vivacemente si oppone a tener conto dei vari effetti oscuri, insignificanti, indiretti e del tutto trascurabili delle imposte sul saggio dell’interesse (it is far simpler to ignore the various obscure, insignificant, indirect and wholly negligible effects of taxation upon interest rates,in art. cit. pag. 802). Tanto più notabile appare questo atteggiamento in quanto nella pagina precedente aveva ricordato con vigore che la teoria dell’ammortamento della imposta è nulla più di un’estensione dell’ordinaria teoria del valore e della ricchezza. «Quando un tale compra una certa ricchezza durevole paga per essa una somma uguale alla capitalizzazione del reddito presunto annualmente ricorrente». E ciò, se ha da significar qualcosa vuol dire che egli capitalizza un reddito annuo di 4 o 5 lire in base ad un dato saggio di interesse. Del pari, quando egli assevera che un’imposta generale la quale diminuisce il reddito annuo da 5 a 4 lire lascia il valor capitale invariato a 100, che cos’altro afferma implicitamente fuorché avere l’imposta generale la virtù di ribassare il saggio di interesse dal 5 al 4 per cento, cosicché il risultato del processo di capitalizzazione sia sempre 100? E quando sostiene che l’imposta speciale la quale diminuisce il reddito annuo ugualmente da 5 a 4 lire ha invece per effetto di ridurre il capitale da 100 ad 80, che cosa mette in luce se non che l’imposta speciale lascia invariato il saggio di interesse al 5%, cosicché il nuovo reddito di 4 lire, capitalizzato al vecchio saggio di interesse del 5%, corrisponde ad un capitale di 80? Come si possa «capitalizzare» senza l’uso di un dato saggio di interesse è affatto incomprensibile; ed è ancor più incomprensibile come si possa sostenere che gli effetti della tassazione sul saggio di interesse sono affatto trascurabili (wholly negligible) quando nientemeno a quella causa «imposta generale» di 1 su 100 di capitale o 5 di reddito si è attribuito implicitamente l’effetto di ridurre di 1, dal 5 al 4% il saggio di capitalizzazione dei redditi.

 

 

Lo Seligman è tuttavia così ostile ad accettare le illazioni più ovvie del suo stesso ragionamento che ad un certo punto scrive:

 

 

«[La proposizione dell’Adams, secondo cui il saggio di capitalizzazione registra automaticamente il carico medio tributario] evidentemente significa che le imposte sul capitale sono diffuse fra tutti i possessori di capitale in virtù di una diminuzione nel saggio generale dell’interesse. Questa è in verità una teoria nuova (a new proposition) e sarebbe importante se vera. Ma è dessa vera? La tassazione influisce davvero sul saggio dell’interesse? La tassazione generale di tutte le industrie o la tassazione speciale di una qualsiasi industria riduce i saggi di interesse così da costringere tutti i possessori di capitale a sopportate l’onere delle imposte? La mera affermazione positiva del professore Adams non basta. Trattasi certamente di qualche cosa che non si legge in nessun libro; e il professore Adams aveva verso i suoi lettori l’obbligo di darne la dimostrazione» (art. cit. pag. 799).

 

 

2. – Non ritornerò sulla dimostrazione già data che la «nuova teoria», che «il qualcosa che non si legge in nessun libro» trovavasi implicitamente ammesso nella teoria stessa accettata dallo Seligman: negare l’attitudine dell’imposta generale ad ammortizzarsi equivalendo invero ad affermare che il reddito scemato dall’imposta stessa si capitalizza ad un saggio di interesse diminuito nella medesima proporzione.

 

 

In una lunga nota della memoria Intorno al concetto di reddito imponibile e di un sistema d’imposte sul reddito consumato presentata a questa Accademia nella sua tornata del 23 giugno 1912 lo scrivente aveva appunto discusso esplicitamente il problema della influenza dell’imposta sul saggio dell’interesse. Contrariamente alla dottrina corrente, espressa in modo lapidario dallo Seligman nella frase già ricordata: «l’ineguaglianza di tassazione è la pietra angolare della capitalizzazione», io avevo cercato dimostrare invece vera la tesi che anche l’imposta generale ed uniforme sui redditi delle cose può produrre una corrispondente riduzione del valor capitale delle cose. E, com’era naturale, per dimostrare la tesi partivo dalla ricerca dell’influenza che una siffatta imposta generale ed uniforme sui redditi può avere sul saggio dell’interesse. Riproduco, testualmente, la dimostrazione data sette anni fa, con le stesse parole d’allora: «Perché l’imposta generale ed uniforme del 10% sui redditi netti non si risolvesse in una decapitazione dei valori capitali corrispondenti, bisognerebbe supporre che, dato un saggio dell’interesse corrente, prima dell’imposta, del 5%, questo saggio corrente abbia, in conseguenza di un’imposta generale ed uniforme del 10% sui redditi netti delle cose feconde di frutti, a ridursi al 4,50 per cento. Se questo effetto si verificasse, allora, chiaramente, un’annualità perpetua di reddito di 5 lire, la quale prima dell’imposta aveva un valore attuale capitale di 100 lire, per essere il saggio dell’interesse del 5%, conserverebbe, dopo l’imposta del 10%, la quale la trasforma in una annualità perpetua di lire 4,50, l’antico valore attuale capitale di 100 lire, capitalizzandosi ora al nuovo saggio di interesse del 4,50 per cento. Ma, e qui sta tutto il nodo della questione, nessuno ha mai spiegato con argomenti plausibili, perché una imposta generale ed uniforme del 10% debba avere questo mirabile effetto di ridurre il saggio dell’interesse precisamente dal 5 al 4,50 per cento. Certamente quell’imposta riduce, od almeno si può ritenere riduca in un primissimo momento, i redditi netti del 10%; ma questa è una verità differentissima dall’altra che essa riduca il saggio di interesse; ben potendo i redditi essere decurtati dall’imposta, e tuttavia capitalizzarsi a norma dell’antico saggio di interesse, che i fautori della teoria dell’ammortamento limitato alle imposte speciali o differenziate non hanno affatto dimostrato perché dovesse variare in conseguenza dell’imposta generale ed uniforme».

 

 

La risoluzione del problema dipendeva perciò dalla soluzione data a quest’altro: quali sono gli effetti di un’imposta generale ed uniforme sul saggio di interesse? «È evidente – continuavo – che il problema, ben lungi dall’essere così semplice come immagina la dottrina corrente, deve essere impostato nel quadro complesso degli effetti che l’introduzione di un’imposta nuova produce sull’equilibrio precedente dell’intiero aggregato economico, di cui il saggio d’interesse è uno dei molteplici dati variabili». E qui, dopo aver notato come sarebbe ozioso ed assurdo discorrere dell’introduzione ex-novo di un’imposta generale ed uniforme sui redditi netti in un paese dove prima non esistessero imposte e quindi non esistesse lo stato, ozioso per noi che viviamo in una società a lavoro diviso, ed assurdo, essendochè in siffatta ipotesi non esisterebbero nemmeno contribuenti forniti di reddito capace di sopportare l’imposta, osservavo che il vero problema il quale di fatto deve ognora essere risoluto è quello «degli effetti dei successivi aumenti, che si possono concepire per infinitesime quantità, di una esistente imposta per sopperire agli incrementi successivi dei veri o supposti bisogni pubblici». Gli effetti erano studiati nella nota badando all’uso che gli uomini di governo possono fare dei mezzi finanziari messi a loro disposizione dall’incremento d’imposta:

 

 

a)    l’uso può essere così vantaggioso ai consociati come quello a cui i consociati medesimi avrebbero destinato il numerario loro tolto dall’imposta. «Il che vuol dire che la destinazione ad usi pubblici è parsa migliore della destinazione ad usi privati solo di una infinitesima quantità che si può praticamente trascurare come irrilevante, sebbene decisiva nella bilancia degli usi a cui la ricchezza può essere destinata. In queste condizioni l’incremento dell’imposta non produce alcuna variazione sensibile nella quantità di produzione, in confronto a quella che si sarebbe avuta se l’imposta non fosse esistita; la quantità dei redditi non sarebbe nei due casi diversa; gli uomini non sarebbero propensi a risparmiare più o meno nell’uno o nell’altro caso; sul mercato dei capitali la quantità offerta di nuovo risparmio non sarebbe, per fatto dell’imposta, variata; e quindi non v’è ragione alcuna perché l’incremento dell’imposta possa esercitare un rilevabile effetto sul saggio dell’interesse, il quale rimane perciò al livello a cui si sarebbe provato senza l’imposta».

 

 

b)    L’uso può essere più vantaggioso di quello che si sarebbe fatto dai contribuenti per fini privati. «L’imposta in questo caso agisce come un campo nuovo offerto all’impiego del risparmio. Suppongasi l’occupazione di una colonia fertilissima, alle cui moderate spese debba servire l’incremento d’imposta. In un primo momento la possibilità di potere, mediante l’imposta, ottenere quel fine fecondissimo, rompe l’antica proporzione tra consumi e risparmi. Il saggio di interesse per poco aumenta, per la domanda nuova del governo e per il desiderio di partecipare agli impieghi promettitori di larghi utili futuri; ma poi, a mano a mano che si colgono i frutti sempre più opimi della colonia o di un altro qualsiasi impiego pubblico dell’imposta, i redditi degli uomini crescono, aumentano le quantità di beni presenti e ne diminuisce la valutazione in confronto ai beni futuri. In conseguenza non dell’imposta per sé medesima, ma dell’uso fecondo dell’imposta, gli uomini si fanno più ricchi, e, per l’incapacità a tutto consumare subito, risparmiano maggiormente in un campo d’investimento oramai mietuto. Onde il saggio d’interesse in fine diminuisce. La qual verità già la sapienza antica aveva nettamente veduto, quando diceva che una delle condizioni della riduzione del saggio proprio dell’interesse e non solo della quota di rischio era l’esistenza di un governo buono, quieto, forte; intendendosi con ciò che un governo non dedito ad estorsioni ed a spese inutili giova a promuovere, alla pari della laboriosità, della perizia nelle arti, della previdenza e delle altre virtù umane, l’incremento della ricchezza e quindi, a parità di altre circostanze, a diminuire il saggio dell’interesse».

 

 

c)    L’uso a cui dai governanti è applicato l’incremento d’imposta è meno fecondo di quello che sarebbe preferito dai contribuenti per scopi privati. «L’imposta quindi distrugge ricchezza; e tende a far crescere il saggio d’interesse, sia subito, per la diminuzione del nuovo risparmio, sia permanentemente perché il reddito annuo del paese risulta minore di quello che sarebbe se l’incremento d’imposta avesse potuto rivolgersi a fecondare utili campi d’investimento agricoli ed industriali. Gli uomini sono fatti dall’imposta più poveri, quindi pregiano grandissimamente i beni presenti, di cui vi è così tanta scarsità; ed il saggio d’interesse appare cresciuto».

 

 

Chiudevo dicendo essere compito dell’indagine storica dimostrare quale di queste tre ipotesi fosse più frequentemente realizzata. Era mia impressione allora che il caso tipico fosse il terzo, per la incapacità dei governanti di amministrar bene le funzioni essenziali e fecondissime dello stato, come la giustizia e la pubblica sicurezza e persino, talvolta, la difesa e l’incremento della propria nazionalità e per la loro propensione alle spese stravaganti e popolaresche. Non potendosi però escludere la possibilità anche del secondo caso, proprio dei periodi in che compaiono nel mondo i geni politici i quali hanno la visione delle vie nuove della nazione, per essere imparziali si è supposto normale il caso neutro o primo. «L’accoglimento – dicevasi – dell’ipotesi neutra di immobilità del saggio dell’interesse appare legittimo, essendo questo il caso dell’equilibrio quando si suppongono governanti che siano anche perfetti uomini economici medi e nulla più, i quali curino la distribuzione della ricchezza tra i diversi usi, pubblici o privati, presenti o futuri, in guisa che la fecondità marginale di essa sia la medesima in tutti gli impieghi. Cosicché, rimanendo invariato, in conseguenza dell’imposta, il saggio dell’interesse, si deve concludere che anche l’imposta generale ed uniforme sui redditi netti si traduce in una corrispondente diminuzione del valor capitale attuale della cosa feconda di reddito».

 

 

3. – La teoria svolta nella nota sovra riprodotta avrebbe potuto essere innanzi tutto utilmente integrata tenendo conto dell’influenza diretta che una imposta generale ed uniforme sui redditi può esercitare sul saggio dell’interesse. Qui la teoria classica non manca di rilievi importanti per quanto si riferisce al saggio dei «profitti», che spesso gli autori, quando pensano ai profitti «netti», in sostanza identificano col saggio dell’interesse. Lo stesso Seligman[7] non manca di accennare all’ostacolo che l’imposta porrebbe all’accumulazione se essa (quando sia uniforme su tutto il capitale o su tutti gli interessi) fosse così alta da diminuire il rendimento del capitale al disotto di quello che Mill chiama il «minimo pratico (the practical minimum)». È noto come il Mill[8] ritenesse non trasferibile l’imposta generale ed uguale sui profitti, non potendo il capitalista liberarsene col trasferire il capitale dal campo tassato al campo immune.

 

 

È questo, come si vide sopra, il fondamento tacito anche della teoria della non ammortabilità dell’imposta generale sui redditi: come può ammortizzarsi una imposta che riduce ugualmente tutti i redditi netti nella stessa ragione, sicché tutti debbono continuare a scambiarsi nella stessa ragione? Uguali i redditi, uguali i capitali: prima i redditi perpetui di 5 all’anno si scambiavano tra loro in ragione di 100 all’anno; dopo l’imposta, i redditi, essendo tutti ugualmente ridotti a 4,50, continueranno a scambiarsi in ragione di 100. Nessuno aveva osservato che se è vero che l’imposta riduca tutti i redditi netti da 5 a 4,50 questa – scrivevo nel 1912 – «è una verità differentissima dall’altra che essa riduca il saggio di interesse; ben potendo i redditi essere decurtati dall’imposta e tuttavia capitalizzarsi a norma dell’antico saggio di interesse». Questa osservazione fondamentale non fece lo Stuart Mill; ma egli qualificò largamente la tesi generale della non traslazione e della incidenza dell’imposta generale ed uguale sui percettori dei profitti netti, notando che in realtà essa si applica in circostanze assai difficili a verificarsi; quando cioè, in una società stazionaria, i capitalisti mantengono invariato, senza mai crescerlo con nuovo risparmio, il capitale esistente, sia che a mantenerlo siano indotti dall’abito o dal desiderio di non scemare la propria fortuna. In tali circostanze il saggio netto dei profitti si ridurrebbe, ad es., dal 5 al 4,50%, e l’imposta inciderebbe permanentemente sui percettori dei profitti annui. Ma il Mill reputava maggiormente probabile uno dei due casi seguenti:

 

 

  1. che l’imposta «crescendo la difficoltà di farsi una fortuna o di ottenere un reddito bastevole a vivere coll’impiego del capitale «agisca» come uno stimolo alle invenzioni ed alla loro utilizzazione». In tal caso, i profitti possono rialzare in modo da far ricuperare in tutto od in parte al capitalista la perdita subita per causa dell’imposta;

 

  1. che essendo il saggio del profitto ridotto al minimo pratico, l’imposta possa frenare lo spirito di accumulazione o spingere il capitale all’estero od in speculazioni improduttive, sicché il saggio dei profitti dopo un periodo abbastanza lungo (dieci o venti anni, secondo il Mill) tornerebbe, per la minor abbondanza del capitale, ad essere quello stesso che sarebbe stato senza l’imposta; e questa sarebbe trasferita su altre categorie di persone.

 

 

Già Adamo Smith (Libro V, cap. III, art. II) aveva qualificato la sua affermazione generale che un’imposta sull’interesse del capitale non potrebbe crescere il saggio dell’interesse, nell’ipotesi che la massa del capitale esistente nel paese rimanga invariata dopo l’imposta si, osservando che in realtà la massa medesima varia, potendo il capitale abbandonare il paese in cui esso fosse soggetto ad inquisizioni vessatorie. Da queste ed altre ammissioni di economisti classici e moderni aveva potuto l’Edgeworth trarre la conclusione che, nella misura nella quale l’imposta generale scoraggi lo spirito di accumulazione, «il saggio di interesse tenderebbe corrispondentemente a crescere in un lungo periodo di tempo».[9]

 

 

In grado maggiore o minore, la tesi che l’imposta generale eserciti un’influenza sul saggio dell’interesse ha il consenso di tutti gli studiosi. Citerò tra gli ultimi lo Jarach, il quale in una nota da me presentata a questa Accademia nella tornata del 12 febbraio 1911[10] aveva distinto due casi:

 

 

  1. quello in cui, precedentemente all’imposta, la produttività dei capitali fosse prima molto elevata, «sì da concedere al risparmiatore non solo la nota rendita del risparmiatore, rendita differenziale, ma anche una rendita marginale». Il caso si avvererebbe nei paesi nuovi o nei tempi di grandi rivolgimenti tecnici, quando il capitale è scarso rispetto agli investimenti o tra popoli dotati di scarso spirito di previdenza, presso cui l’aumento di rimunerazione del risparmio non riesce a crescerne la produzione, riducendo l’elevato tenor di vita. In questo caso l’imposta ridurrebbe in un primo momento il saggio del profitto netto, prima assai elevato, ad es., dal 10%, al 9%; né vi sarebbe traslazione successiva, sicché l’imposta inciderebbe definitivamente sui capitalisti;

 

  1. quello più frequente in cui l’imposta, riducendo la produttività del capitale, diminuisce la convenienza del risparmio in rapporto al costo suo di produzione (sacrificio dell’aspettativa) e scema di conseguenza la quantità del risparmio prodotto. E quindi «il saggio netto del profitto» – espressione che dal contesto della nota si rileva essere equivalente all’altra «saggio dell’interesse» – il quale s’era ridotto in un primo momento per virtù dell’imposta dal 5 al 4,50%, tende a risalire verso il 5%, mercé trasferimento dell’imposta in avanti, su consumatori, operai, percettori di rendite.

 

 

Accogliendo la tesi particolare sostenuta nella mia nota alla memoria citata, il prof. Gino Borgatta collocò la trattazione dell’influenza che l’imposta generale ha sul saggio dell’interesse in un ampio quadro dei rapporti dinamici di interdipendenza osservabili fra pressione tributaria, forme e variazioni di organizzazione statale, stadi storici di economia stazionaria o progressiva, vicende politiche, movimenti d’idee.[11] Le conclusioni dell’A., caratterizzate dalla tendenza sua a considerare l’imposta come un punto di un vasto sistema di forze in equilibrio, il quale continuamente si sposta e trasforma, si possono così riassumere con le sue stesse parole:

 

 

«La dinamica parte dunque da un movimento iniziale in cui l’imposta rialza i saggi correnti di interesse attraverso riduzioni delle quantità di redditi attuali scambiati con futuri e quindi della massa degli scambi nel tempo] e si svolge collo svolgersi delle trasformazioni dei suoi proventi, in modo da ridurre in misura non indicabile “in generale” l’iniziale rialzo, non escluso sotto il livello che il saggio d’interesse avrebbe avuto se non fosse intervenuta l’imposta cogli assorbimenti e trasformazioni di redditi privati attuali che determina» (pag. 411.

 

 

E cioè il Borgatta accoglie esplicitamente il punto di vista da me sovra esposto, che gli effetti dell’imposta generale sul saggio d’interesse e quindi sulla capitalizzazione sua siano differenti a seconda che il provento dell’imposta sia impiegato «in modo più, ugualmente o meno utile (economicamente) di quello che avrebbe scelto il mercato economico privato»; e propende a ritenere che non si esclusa la possibilità che per tal guisa il saggio d’interesse si riduca persino al di sotto di quello che senza imposta si sarebbe avuto.

 

 

Una trattazione ampia e feconda di importanti applicazioni della teoria dell’ammortamento delle imposte ha compiuto il prof. Benvenuto Griziotti.[12] Nella memoria dell’A. la teoria dell’ammortamento è riguardata sotto tutti i suoi aspetti, sicché essa merita attenzione anche da punti di vista differenti da quello che qui ci interessa, dei suoi rapporti con la generalità o specialità dell’imposta. Intorno al punto qui discusso, l’A. fa le osservazioni seguenti:

 

 

  1.       I.        «Anche le imposte personali, in quanto si ripercuotono e finiscono per incidere durevolmente ogni e qualunque persona, che gode il reddito di un capitale, danno luogo ad ammortamento». Laddove parrebbe che l’ammortamento accada anche nelle imposte generali a tipo personale, solo quando esse incidono una persona in quanto essa ha il godimento del reddito di un capitale.

 

  1.     II.        Ma la riserva non pare abbia grandissima importanza, se l’A., dopo una fine analisi degli effetti di un’imposta progressiva sul reddito, conclude che l’imposta medesima, per indole sua a tipo generale e non speciale, può provocare un rialzo nel saggio dell’interesse e attraverso a questo rialzo, una riduzione generale ed uniforme di valore di tutti quanti i capitali vincolati, anche se appartenenti a contribuenti esenti dall’imposta.

 

 

Alla proposizione (I) il Griziotti giunge considerando il caso di un’imposta sui salari, con esenzioni di minimi e progressività di aliquota la quale si ripercota, come è possibile, sugli imprenditori e scemi quindi il valor capitale dell’impresa. Alla (II) riflettendo all’influenza che l’imposta progressiva può avere a scemare la quantità dei risparmi prodotti o conservati in paese da parte dei maggiori capitalisti, quantità non compensata dalla produzione, costante, di risparmio da parte dei capitalisti esenti dal tributo; sicché il saggio dell’interesse aumenta sul mercato in funzione dell’elasticità della domanda e dell’offerta dei capitali o della composizione della classe dei possessori di capitali disponibili (pag. 7-10 dell’estratto).

 

 

Ma esplicitamente il Griziotti nel paragrafo 11 (pag. 15-19) espone e combatte

 

 

«la teoria dominante la quale ritiene che il deprezzamento dei beni e l’ammortamento delle imposte avvengano soltanto in misura dell’eccedenza di un’imposta sulla pressione media esercitata dalle altre».

 

 

E la combatte partendo dalla considerazione che

 

 

«se un’imposta generale e uniforme riduce in uguale misura i redditi di tutti i capitali vincolati, mentre rimane la stessa la ragione dell’interesse, si avrà un deprezzamento uniforme rispetto a tutti questi capitali. Se ciò non fosse e un’imposta generale lasciasse inalterato il prezzo dei beni, mentre ne diminuisce il reddito, bisognerebbe credere che un’imposta generale avrebbe costantemente la virtù di diminuire il tasso dell’interesse. Soltanto, infatti, quando scema il lasso di capitalizzazione un bene, di cui è diminuito il reddito, può avere lo stesso valore di prima. Purtroppo il fisco non ha mai avuto la fortuna di potere accrescere le imposte a suo piacere e fare nello stesso tempo mitigare il tasso dell’interesse! Di questa potestà, se l’avesse, certo si varrebbe durante questi anni di guerra, in cui crescono i bisogni dell’erario e sale il tasso dell’interesse!».

 

 

Sebbene qui il Griziotti si limiti ad affermate che l’imposta generale ed uniforme non ha la virtù di diminuire il saggio dell’interesse né affermi esplicitamente che lo lascia costante, si può dal contesto del suo discorso e dagli esempi arrecati dedurre che egli considera normale il caso della costanza del saggio dell’interesse, nonostante l’incidenza dell’imposta generale ed uniforme. Su qual fondamento egli poggi siffatta sua implicita opinione, non è detto in questo paragrafo 12, nel quale il problema è trattato di proposito; sebbene l’A. accenni nel brano or ora citato all’«assurdità» di supporre senz’altro che un fatto come l’imposta abbia, per vie non designate, il miracoloso effetto di produrre un altro fatto, tutto diverso, come il ribasso del saggio dell’interesse. Dalla frase ora citata parrebbe anche potersi dedurre che, nell’opinione dello scrittore, le imposte hanno normalmente e specie «in questi anni di guerra» il risultato contrario, ossia quello di un aumento nel saggio dell’interesse. Ma, non rientrando probabilmente nei propositi dell’A. dilungarsi su tal punto, il problema non è approfondito.

 

 

Tuttavia, benché non abbia posto e risoluto esplicitamente il problema fondamentale: quale è l’influenza che un’imposta generale ed uniforme esercita sul saggio dell’interesse e quindi sull’ammortamento dell’imposta? La memoria del Griziotti colla sua insistente affermazione, quasi si trattasse di un assioma evidente per sé stesso, del canone logico del «fermo restando il saggio dell’interesse» è un altro anello della catena di scritti italiani, anteriori e posteriori alla polemica Adams Seligman, il cui consenso conforta a riprendere in esame la teoria corrente della impossibilità dell’ammortamento di una imposta generale ed uniforme.

 

 

 

 

II

Contributo alla teoria in generale

4. – Il problema non si imposta in maniera univoca, essendo incerto persino in che veramente consista la differenza tra imposta generale e speciale. Occorre considerare la differenza rispetto all’oggetto colpito? – Imposte le quali colpiscono il reddito dei soli terreni o dei fabbricati o di tutti i capitali, dei soli capitali vincolati od anche di quelli disponibili -; ovvero rispetto alle persone fisiche contribuenti? – Tutte colpite con uguale percentuale, ovvero le une esenti e le altre assoggettate ad imposte più o meno gravi a seconda dell’altezza del loro reddito -; ovvero rispetto al territorio d’imposizione? – Imposta mondiale, statale, provinciale o comunale? Né qui han termine i quesiti: considereremo noi generale ed uniforme una imposta la quale colpisca con aliquota uniforme redditi diversamente rischiosi? O quella la quale gravi soltanto sui redditi di capitale, lasciando esenti i capitali senza reddito ed i redditi di capitali personali?

 

 

Domande sottili, a cui le risposte possono essere molte e divergenti e determinate in parte dalla soluzione che sia data al problema medesimo che qui si vuole discutere. Giova perciò, in un primo momento, seguendo un procedimento logico usato in molte scienze per non rimanere immobili al limitare della ricerca o dubitosi intorno al modo migliore di risolvere quesiti che solo la ricerca stessa consentirà di risolvere, fare la convenzione che esista una imposta la quale incida – sia subito sia in seguito ad un processo di traslazione – con uguale peso tutti i redditi uguali. Suppongasi cioè:

 

 

  1. che si abbia un’idea chiara di ciò che si intende per «redditi uguali»;

 

  1. che l’imposta lasci perfettamente liberi gli uomini di produrre questo o quel reddito, di destinarlo a questo o quell’uso di consumo necessario o di comodità o di lusso, di investirlo in questo o quell’impiego, duraturo o temporaneo;

 

  1. che l’imposta non spinga gli uomini a trasportare i loro capitali da uno stato all’altro, da una città o regione all’altra del medesimo stato.

 

  1. che essa non induca gli uomini ad affrettare o posticipare l’epoca di utilizzazione dei loro capitali investiti speculativamente: foreste, aree fabbricabili, azioni di imprese a lunga scadenza, in confronto a quanto accade con i capitali impegnati a breve scadenza;

 

  1. che essa non renda relativamente conveniente produrre uomini istruiti piuttostochè macchine atte ad aiutare gli uomini istruiti;

 

  1. che essa non muti le tendenze comparative delle diverse categorie di contribuenti all’uso del proprio reddito a scopo di consumo o di risparmio.

 

 

Il concetto dell’imposta «generale ed uniforme» si identifica così col concetto dell’imposta «neutra»; la quale incide con ugual peso su redditi aventi valore uguale nell’unità di tempo considerata, sì da lasciare invariato il giudizio di ogni uomo riguardo ad ogni unità di reddito. Se l’imposta non è neutra, non pare possa essere detta generale ed uniforme; non essendo tale quella imposta che pesa più su un’unità che sull’altra del reddito e spinge l’uomo a desiderare di possedere più la seconda della prima o ad usarla in un modo piuttosto che in un altro.

 

 

Perciò il concetto dell’imposta generale ed uniforme intesa nel senso di imposta neutra non coincide col concetto dell’imposta ad aliquota costante – ad es., imposta proporzionale del 10% su tutti i redditi. Questa può essere invece parziale o disuguale se tassa ugualmente redditi diversi per quantità, vistosi o piccoli, o per indole, di lavoro, misti o di capitale, prima della loro riduzione ad un comune denominatore. Invece chiameremo imposta neutra o «generale ed uniforme» l’imposta ad aliquota variabile secondo l’ammontare (progressiva) o secondo la natura del reddito (differenziata) quando la progressività ed il differenziamento siano operazioni necessarie per ridurre i redditi a comune denominazione. La variabilità dell’aliquota può non avere per risultato e per iscopo di far variare il peso dell’imposta gravante su due individui che si trovano in condizioni uguali, ma anzi di renderlo uguale. Far pagare il 10% d’imposta ai redditi di capitale ed il 5% ai redditi di lavoro non è un diversificare l’imposta; ma un’uguagliarla sostanzialmente attraverso una diversificazione formale: e così il far pagare l’1% a chi ha 1.000 lire di reddito ed il 10% a chi ne ha 100.000.

 

 

L’imposta apparentemente «speciale» può essere «generale» anche per un’altra ragione: essa invero può essere parte di un complesso di tributi, il quale, sotto varie denominazioni, tende ad attuare il canone dell’uguaglianza. Così l’imposta successoria può essere necessaria per incidere convenientemente sui redditi in misura proporzionata all’incidenza sui redditi provenienti da capitali in misura proporzionata all’incidenza sui redditi di lavoro; e le imposte di manomorta e di negoziazione per parificare la situazione dei patrimoni degli enti morali e delle società commerciali a quote trasmissibili in confronto ai patrimoni spettanti a persone fisiche od a società con carature non trasmissibili senza il consenso dei soci. Le imposte sui consumi possono essere necessarie per colpire adeguatamente i redditi di coloro che di fatto di diritto sono esenti dalle imposte sui redditi e sui patrimoni ogni sistema tributario concreto un sistema di contrappesi; sicché per lo più soltanto il «sistema» e non ciascuna delle sue parti distinte merita il nome di imposta «neutra» o «generale».

 

 

Nell’attuare così il canone dell’uguaglianza, il legislatore può commettere errori, i quali tolgono in parte all’imposta differenziata il suo carattere neutro ed allora essa cade nel novero delle imposte «speciali» o «parziali», le quali sono quelle che non posseggono i connotati sovra elencati dell’imposta «neutra». Una imposta apparentemente «generale ed uniforme» può in realtà essere «speciale o parziale»; come accade, a cagioni d’esempio, per le imposte le quali colpiscono uniformemente i redditi guadagnati, e quindi tassano la parte destinata a risparmio più di quella destinata a consumo.[13]

 

 

5. – Solitamente, quando si vogliono studiare gli effetti di una imposta, sia di quella neutra o imparziale o generale, sia di quella speciale o parziale, si pone la premessa, frequente nel ragionamento economico, del rebus sic stantibus, ossia si suppongono invariati tutti gli altri dati dell’equilibrio economico, di cui si vogliono studiare le variazioni, in seguito ad una variazione dell’imposta. Già le moderne teorie dell’equilibrio hanno svalutata la premessa, mettendo in luce la interdipendenza di tutti i dati dell’equilibrio non solo economico, ma politico e sociale, sicché variando l’uno variano gli altri e tutti vengono ad assumere una nuova posizione, diversa dall’antica. Nel caso nostro, la premessa potrebbe ancora giovare come schema logico atto a raffigurare che cosa accadrebbe se l’imposta fosse simile alla grandine, la quale, senza costo e senza compenso per gli uomini, porta via i frutti della terra. Se in qualche misteriosa maniera intervenisse una forza estranea agli uomini per impossessarsi, senza lasciar tracce, del 10% dei loro redditi, il risultato sarebbe un aumento degli sforzi necessari ad ottenere una data rimunerazione, un’aggiunta agli ostacoli opposti dalla natura alla utilizzazione dei suoi beni.

 

 

La decurtazione di tutti i redditi nella misura del 10% scema la massa dei beni disponibili nel momento presente e ne accresce il valore in confronto ai beni futuri. Se beni presenti e beni futuri (a un anno data) si scambiarono nella ragione di 100 a 105, ora si cambieranno nella ragione 100 a 105,50. Il saggio dell’interesse aumenta.

 

 

La quale verità si dimostra altresì osservando che dapprima si produceva una quantità M di risparmio, perché la dose marginale del risparmio prodotto godeva sul mercato di una rimunerazione r; e questa, pur dando ai risparmiatori intramarginali una rendita uguale alla differenza fra r ed il costo c del risparmio (sacrificio dell’aspettativa), era precisamente uguale a c per il risparmiatore marginale. Ma, essendo ora la remunerazione del

risparmio ridotta ad r–x, essa è altresì r il risparmiatore marginale minore di c. Quindi il risparmio si contrae ed il suo prezzo r deve mutare. Quale sia per essere il nuovo prezzo r, dipende dalla elasticità delle due curve di offerta e di richiesta di risparmio; ed è chiaro che esso si fisserà ad un punto imprecisato, ma più elevato di r. Il che vuol dire che il saggio dell’interesse i, fatta la premessa del rebus sic stantibus, tende ad aumentare. Perciò l’imposta generale ed uniforme sui redditi, facendo salire il saggio dell’interesse, ad es., dal 5 al 5,50%, opera in duplice maniera a ridurre i valori capitali corrispondenti a quei redditi, prima facendo l’ammontare dei redditi e poi crescendone il saggio di capitalizzazione. Il reddito di 5 si capitalizzava prima, al 5%, in 100 lire; lo scemato reddito di 4,50, capitalizzato al 5,50% vale solo più 81,81 lire.

 

 

6. – Ma l’imposta non è simile alla grandine. Essa è dovuta alla volontà degli uomini ed ha quindi effetti ben diversi in peggio od in meglio di un fatto, imprevedibile ed indeprecabile della natura. Essa può essere simile alla «taglia estorta da lui brigante»,[14] perché esatta da un governo straniero o tirannico e sperperata in malo modo senza vantaggio della collettività. È il caso segnalato nella nota alla memoria del 1912, dato il quale si ha l’effetto di un rialzo nel saggio dell’interesse, maggiore, a parer mio, di quello che si sarebbe avuto nel caso dell’imposta grandine. Infatti, quest’ultima produce l’unico risultato di rendere meno fecondo il lavoro dell’uomo, di una quantità che l’esperienza può misurare in modo esatto. Ma chi può misurare e prevedere le estorsioni di un governo tirannico? Un paese può prosperare nonostante le grandinate; non può sollevarsi dalla miseria più nera quando sia posto sotto l’incubo delle estorsioni imprevedibili di un governo oppressore.

 

 

Appartengono alla categoria delle imposte estorsioni quelle, assai frequenti  in verità, le quali siano congegnate in maniera da tornare vantaggiose alla classe governante più che alla collettività governata, sia per il modo della loro ripartizione sia per l’uso al quale esse sono destinate. Una scuola di finanzieri valorosi tende a considerare quello finanziario come un fatto sovratutto politico ed a dare sommo rilievo alla circostanza che la quantità e la ripartizione delle imposte sono determinate non in seguito ad un calcolo economico da privati individui consapevoli dei fini da raggiungere, sibbene in seguito ad un calcolo politico da corpi politici, i quali vogliono, raggiungere scopi, i quali solo in apparenza si identificano con il vantaggio effettivo della collettività. Citano questi studiosi moltissimi fatti, per cui la teoria di quegli altri scrittori, i quali applicano le norme del calcolo economico di convenienza alla pubblica finanza, sarebbe lontana dal raffigurare la realtà effettuale.

 

 

Secondo questa, che può dirsi la scuola economica od edonistica della pubblica finanza, in un regime di governo democratico, o rappresentativo o cooperativo, i cittadini delegano a proprii deputati il calcolo dei vantaggi dei servizi pubblici e dei modi del loro sopperimento; ed i deputati si decidono ad istituire un servizio nuovo ed al relativo prelievo di imposta se reputino in tal caso maggiore il vantaggio della collettività di quello che s’avrebbe conservando la ricchezza a fini privati. Trattasi di una applicazione del teorema generale della destinazione della ricchezza all’uso più fecondo: se giovi di più prelevare 100 con l’imposta per l’erezione di scuole o per la costruzione di una fortezza, ovvero lasciare le stesse 100 al contribuente per soddisfare ai bisogni privati di cibo o di vestito o di divertimento. Ed il teorema dice che la ricchezza deve essere ripartita in maniera da soddisfare ai bisogni più urgenti e via via a quelli meno sentiti in modo che la soddisfazione marginale ricavata dalle ultime dosi della ricchezza sia per ogni cittadino uguale.

 

 

Ove la ricchezza sia così ripartita, è chiaro che il prelievo dell’imposta deve essere considerato utile per il contribuente, anzi atto a procurargli il massimo di utilità. L’imposta diventa una delle condizioni, l’esistenza delle quali consente ad una collettività di produrre il massimo di ricchezza, di toccare l’ottimo nella ripartizione di essa fra i singoli e la più conveniente distribuzione fra consumo e risparmio. Quindi l’imposta non che provocare un aumento nello sforzo che l’uomo deve fare per procacciarsi il reddito, è la condizione necessaria per ridurre al minimo quello sforzo e per rendere massimo il reddito. Dire, in tali condizioni, che l’imposta del 10% decurta il reddito è enunciare una proposizione formalmente esatta, ma in sostanza lontanissimo dalla verità. Tanto irreale e tanto fantastica, come quella che farebbe un imprenditore, il quale si lagnasse di dover pagare salari agli operai o materie prime ai fornitori e considerasse questi pagamenti come una decurtazione del suo reddito. Ognun sa invece che per l’imprenditore non è un danno sopportare i costi necessari ed utili della sua impresa; ma anzi una condizione per rendere massimo il suo reddito. È un danno pagare salari ad operai fannulloni o comperare una materia prima disadatta; ma è un vantaggio poter remunerare convenientemente operai capaci o acquistare materie prime atte ad ottenere prodotti finiti che egli venderà con profitto. Così è dell’imposta: dannosa se male impiegata, utilissima se usata secondo la regola della più conveniente distribuzione della ricchezza.

 

 

Tra i due casi estremi, dell’imposta taglia e dell’imposta economica, chi scrive era nel 1912 rimasto incerto; e pur propendendo a reputare più frequente di fatto una approssimazione all’imposta taglia per la incapacità dei governanti a provvedere persino ai compiti fondamentali della giustizia e della sicurezza e per la rarità dell’apparizione di «geni politici» capaci ad applicare le norme del calcolo economico al prelievo della imposta ed al suo impiego, aveva scelto una via di mezzo, quella per cui l’imposta sarebbe stata impiegata ad un uso precisamente così vantaggioso come quello a cui i consociati medesimi avrebbero destinato il numerario loro tolto.

 

 

A siffatta conclusione ero stato condotto dal pensare che in siffatta maniera – oltre a restare imparziale tra le estreme opinioni di coloro che ritengono l’imposta generalmente impiegata dai politici in modo meno ovvero più fecondo dei modi privati di impiegare la medesima ricchezza – io seguivo altresì il criterio puro economico, secondo cui gli uomini di governo dovrebbero curare la distribuzione della ricchezza tra i diversi usi pubblici e privati, presenti e futuri, in guisa che la fecondità marginale di essa sia la medesima in tutti gli impieghi.

 

 

Il che è esatto, ma non dà una immagine compiuta della realtà.

 

 

VII

 

4

VI

 

5

4

V

 

6

5

4

IV

 

7

6

5

4

III

 

8

7

6

5

4

II

 

9

8

7

6

5

4

I

 

10

9

8

7

6

5

4


A

 

B

C

D

E

F

G

 

 

Nella nota tabella mengeriana, l’uomo il quale possiede una sola dose di ricchezza, la destina al soddisfacimento della dose prima del bisogno A, perché questa gli dà il massimo di utilità 10; se ne possiede 3 dosi, ne destina due al soddisfacimento della dose prima e seconda di A ed una al soddisfacimento della dose prima del bisogno B. E così via, finché ove possegga 28 unità di ricchezza, le destina a far acquisto di 7 dosi del bisogno A, 6 di B, 5 di C, 4 di D, 3 di E, 2 di F ed 1 di G, in guisa che la utilità marginale delle ultime dosi soddisfatte dei diversi bisogni sia uguale in ogni caso a 4. È elementare che così avvenga la ripartizione della ricchezza e che ogni altra ripartizione sia antieconomica. Ed è del pari evidente che alcuni di questi bisogni possono essere di godimenti immediati privati (cibo, vestito), altri di godimenti immediati pubblici (sicurezza, giustizia, difesa nazionale), altri ancora di godimenti futuri privati (risparmio per vecchiaia o famiglia, o arricchimento) o pubblici (rimboschimento a lunga scadenza). Il bisogno può essere di godimento fisico ed intellettuale o di pregustazione di future ricchezze; e sempre il soddisfacimento dei singoli bisogni deve avvenire secondo la regola della uguaglianza della utilità delle soddisfazioni marginali.

 

 

Ma ciò non vuol dire affatto che per l’uomo sia indifferente la destinazione di una data dose di ricchezza al pagamento dell’imposta (soddisfacimento di un bisogno pubblico) piuttostochè al soddisfacimento di un bisogno privato. La tabella dimostra che se A è un bisogno privato immediato e B un bisogno immediato pubblico, lo spostare anche solo l’ultima dose di ricchezza dall’uno all’altro uso sarebbe dannoso. Dannoso non destinare al cibo (A) la settima dose di ricchezza che recava all’uomo l’utilità 4 per destinarla al pagamento di una settima dose di imposta (B) che darebbe l’utilità 3; ma ugualmente dannoso non pagare la sesta dose di imposta con utilità 4, per avere una ottava dose di cibo, che darebbe una utilità di 3.

 

 

Ecco dunque dimostrato che il destinare ai margini una dose di ricchezza piuttosto al pagamento dell’imposta che alla soddisfazione di bisogni privati è cagione della più conveniente distribuzione della ricchezza e dà luogo al massimo della sua fecondità. Se ciò è vero al margine per le ultime dosi disponibili di ricchezza, è tanto più vero per le dosi precedenti. Al margine può talvolta dubitarsi, trattandosi di differenze infinitesime, quando le unità di misura della ricchezza siano assai piccole, se più convenga l’un impiego che l’altro. Talvolta l’uomo può essere indotto a decidersi più per impulso d’istinto che di ragionamento. Ma al disotto dei margini la scelta non è dubbia. Non pagare l’imposta nella misura di sei dosi equivarrebbe a rinunciare alle utilità 9, 8, 7, 6, 5 e 4 per avere in cambio, ove pure la cosa fosse pensabile e possibile, utilità di 3, 2 ed 1, ossia utilità di gran lunga inferiori.

 

 

Il ragionamento puro economico non porta dunque, come avevo supposto nel 1912, a considerare la destinazione ad imposta ugualmente feconda come la destinazione a qualunque altro uso privato, presente o futuro, ma a collocare la destinazione ad imposta nel suo proprio luogo nel quadro generale della ripartizione della ricchezza ed a concludere che la destinazione di una certa quota di ricchezza ad imposta e di quella quota precisamente la quale risulta dalla osservanza della legge della ripartizione più conveniente della ricchezza è condizione necessaria per tendere massima la fecondità della ricchezza posseduta dall’uomo. Non destinare sei dosi di ricchezza ad imposta destinata ad usi pubblici presenti (B) e tre dosi di ricchezza ad imposta destinata ad usi pubblici futuri (E) vorrebbe dire non solo una diminuzione gravissima nella fecondità di quelle 6+3=9 dosi di ricchezza, ma un isterilimento delle residue 19 dosi destinate ad usi privati immediati (A, C e G) e futuri (D ed F). Nello stesso modo come non è pensabile e possibile, salvochè forse per una prima dose, il soddisfacimento del bisogno del cibo senza quello del bisogno di bere, vestir panni, aver casa, così non è né pensabile né possibile vivere, allevar figli, risparmiare, così come si conviene ad uomo, se lo stato non garantisce le condizioni del vivere civile e non apparecchia migliori condizioni per l’avvenire. Dello schema teorico, la destinazione di una certa dose complessiva di ricchezza ad imposta e la sua conversione in beni pubblici non è, salvo per le quantità infinitesimamente piccole poste ai margini, più o meno feconda della destinazione di quella medesima dose ad impieghi privati. Essa, se il calcolo fu condotto correttamente, è la destinazione la quale dà il massimo risultato pensabile. Destinare ad imposta una quantità maggiore o minore, sarebbe un errore economico.

 

 

7. – La esposizione che si è ora fatta della teoria della imposta come fattore della massima produttività complessiva della ricchezza non è, badisi, la ripetizione del sofisma per cui si usa l’artificio di supporre per un istante scomparso o soppresso o distrutto uno dei fattori della produzione e si conclude: ecco distrutta la produzione intiera ed ecco dimostrato che tutto il prodotto spetta al fattore scomparso, perché senza di esso la produzione si riduce da 100 a zero e, con esso, ritorna a 100. Usò quel sofisma il Marx per il fattore lavoro; e si potrebbe a volta a volta usare per il capitale, per la terra, per lo spirito di organizzazione, per lo stato. Poiché, per tutti, la scomparsa del fattore considerato importa la distruzione della ricchezza totale, ognuno di essi con egual diritto può arrogarsi la paternità dell’intera produzione. Il che, se è vero per ognuno di essi separatamente considerato, è erroneo per tutti insieme presi. Il massimo di produttività è uno solo e questo si raggiunge con una data combinazione dei varii fattori, quella che l’esperienza dimostra la più conveniente. La teoria economica finanziaria afferma che in quella data combinazione entra anche lo stato e che quindi il pagamento di una data imposta, quella dimostrata più conveniente dall’esperienza, è condizione necessaria poiché lo stato intervenga nella misura più opportuna, come fattore di quella combinazione complessa, la quale appunto dà luogo al massimo di produttività. Lo stato non e l’unico, né il primo in grado tra i fattori produttivi; ma alla pari degli altri è un fattore che, dove più dove meno, a seconda dei risultati ambiti, deve intervenire perché si abbia la combinazione più economica.

 

 

Né il discorrere di stato come «fattore produttivo» deve lasciar credere che qui si voglia risuscitare la teoria dell’imposta beneficio, dell’imposta riproduttiva. È verità oramai pacifica che l’imposta non si misura alla stregua del vantaggio o beneficio ricevuto dal singolo contribuente che la paga. L’imposta si paga appunto perché non è assolutamente conoscibile il vantaggio speciale o divisibile che il singolo ricava da certi servizi pubblici, come la giustizia o la difesa, detti perciò indivisibili. Se quel vantaggio particolare fosse conosciuto sarebbe inutile ricorrere all’imposta, bastando lo strumento consueto del prezzo, privato o pubblico. Ma questa verità non contraddice in nulla all’altra che l’imposta, come massa complessiva di mezzi forniti allo stato, dia modo allo stato di agire come fattore della produzione nel modo economico che sopra si è detto. Naturalmente lo stato agisce come fattore produttivo in conformità all’esser suo: non cioè come industriale od organizzatore della produzione, ma come ente politico: soldato, magistrato, educatore, difensore degli interessi generali, esercente quelle imprese che non sarebbero affatto o sarebbero male esercite dai privati imprenditori. In tal guisa esso collabora al raggiungimento della meta che è la massima produzione di beni materiali e spirituali, alla massima elevazione degli uomini. Non sempre l’azione dello stato è intesa all’arricchimento dei singoli; ché anzi può darsi il contrario: che a certuni singoli lo stato tolga assai e poco dia. Non l’eguaglianza fra il dare e l’avere dei singoli è il fine dell’imposta; sibbene l’elevazione massima della collettività.

 

 

8. – La teoria economica dell’imposta, pur così chiarita, resta male accetta ai teorici della finanza come fatto politico. Obbiettano costoro che la destinazione di una certa dose di ricchezza ad imposta non è il risultato di un calcolo economico ma di un calcolo politico. La decisione di pagare 100 o 1000 o altra somma a titolo d’imposta non è una decisione libera, consaputa dell’uomo, il quale paragoni costi e vantaggi, soddisfazioni private e pubbliche presenti e future; è invece una decisione imposta forzosamente all’uomo dai suoi reggitori è vero che i cittadini sono chiamati a pagare sei dosi di ricchezza per l’imposta B e tre dosi per l’imposta E; ma è assolutamente impossibile affermare che ciò accada in quanto essi ritengono che il soddisfacimento di B e di E in quella misura procuri le utilità indicate nella tabella mengeriana, perché:

 

 

  • i cittadini sono incapaci di dare un giudizio intorno alla utilità dei pubblici servizi, sia singolarmente considerati, sia nel loro complesso.[15]

 

  • il giudizio sull’utilità è dato non dagli interessati, ma dai loro delegati;

 

  • il giudizio può essere sbagliato, anche quando i delegati col massimo zelo e con studi penetranti cercano di interpretare la volontà manifesta od inconsapevole dei cittadini;

 

  • il giudizio dei cittadini è non di rado in aperto contrasto con quello dei delegati; reputando i primi inutili e forse anco dannose certe spese pubbliche a cui è destinato il provento delle imposte, e preferendo tener per sé ed usare a fini privati, da essi considerati più urgenti, le somme che pure sono costretti a pagare a titolo d’imposta;

 

  • il giudizio intorno alle pubbliche spese è spesso dato dai delegati senza aver ricevuto alcun mandato dai cittadini, poiché questi si trovano, sovratutto per le spese più importanti, come le guerre, dinanzi al fatto compiuto, al quale non giova ribellarsi;

 

  • anche quando sembra che i cittadini abbiano dato il proprio assenso preventivo alle pubbliche spese, esso è stato carpito con svariatissime e sottili arti, fra cui assai frequente quella di far credere assai minore la spesa di quello che in realtà sia, o pagabile il conto da altre classi, da altre nazioni (indennità di guerra), dalle generazioni venture (debito pubblico);

 

  • sicché è giocoforza concludere che il giudizio intorno alle imposte non è un giudizio economico dato dai cittadini intorno alla più conveniente ripartizione della ricchezza propria; ma un giudizio politico dato dai delegati intorno alla convenienza di servirsi del potere per prelevare imposte a carico dei cittadini a vantaggio proprio e delle classi e dei gruppi sociali che essi più particolarmente rappresentano. Questo è il calcolo vero, fondamentale, compiuto da coloro i quali in realtà votano, le imposte; e farebbe d’uopo supporre che i delegati (sovrani e ministri, autocrati od eletti) non sapessero o non volessero giovarsi della forza che essi posseggono, per immaginare che essi non facessero il calcolo politico della convenienza del prelievo delle imposte in modo confacente ai proprii interessi, curandosi di quelli dei consociati solo entro i limiti della necessità di non eccitarne troppo il malcontento e di non spingerli a cambiamenti di governo, a rivolte ed a rivoluzioni. La teoria dell’imposta prelevata e ripartita a norma della legge della più conveniente distribuzione della ricchezza è una formula politica, come la direbbe il Mosca, un mito come vorrebbe il Sorel, od una derivazione, come la chiamerebbe il Pareto, atta a velare la realtà, che è l’imposta prelevata e ripartita a norma delle convenienze della classe governante. L’ammontare dell’imposta e la sua ripartizione sono la resultante del gioco delle forze politiche; la teoria economica è lo strumento elegante di cui si serve la classe politica dominante per tener contenti i contribuenti; e fa parte di quel ricettario di cui con tanta dottrina il compianto Puviani tessé la storia nella sua Teoria delle illusioni finanziarie.

 

 

Supponiamo che i fatti addotti dai teorici della tesi politica della finanza siano indiscutibili, calzanti e rilevanti. È una concessione provvisoria fatta per chiarire il problema. Io dico che da ciò non sarebbe dimostrata illogica la applicazione dello schema mengeriano alla ripartizione del reddito fra scopi pubblici e scopi privati. Dall’ipotesi che gli uomini non sono individualmente capaci a dare un giudizio ragionato dell’utilità dei pubblici servizi e che il giudizio è dato dai dirigenti per scopi proprii e differenti dal vantaggio dei singoli cittadini non discende affatto la illazione che lo schema mengeriano sia inapplicabile ai fatti finanziari.

 

 

Se così fosse, esso sarebbe inapplicabile anche ai fatti economici privati. Non è vero infatti:

 

 

1)    che gli uomini siano sempre capaci di dare un giudizio intorno alla utilità effettiva dei beni e servigi privati che essi «volontariamente» acquistano. Per lo più, quella utilità è un mito, un frutto di credenze, di immaginazione, di costumi, non un fatto di ragionamento consaputo. Non occorre citare l’esempio dell’alcoolista il quale immagina di trovare un’utilità nel veleno che lo trarrà alla delinquenza, alla miseria ed alla morte anticipata. Ma qual è mai la merce della cui utilità l’uomo medio sia capace a fare una valutazione esatta? Basta riflettere al divario enorme esistente fra le tabelle correnti nei libri di igiene e di medicina pratica intorno al valor nutritivo comparativo degli alimenti e le predilezioni, spesso inverse, dei consumatori per rimanere persuasi quanto poco consapevoli e ragionate siano quasi tutte le azioni degli uomini rivolte al soddisfacimento dei loro bisogni privati, tanto, poco logiche che la scienza medesima in moltissimi casi non è riuscita a scoprirne il fondamento ed a tracciarne le leggi;

 

2)    che il giudizio intorno alla convenienza di soddisfare questi o quei bisogni privati, in questa o quella misura relativa sia dato dagli interessati. È dato per lo più dalla moda, dal costume, dall’esempio altrui. Perché le classi borghesi usano avere in casa una stanza chiamata «salotto»? Perché le donne usano certe foggie di vestito, o si adornano di gioielli? Perché gli uomini fumano? Perché gli operai poco apprezzano la casa ed i contadini vanno spesso scalzi?

 

  • che il giudizio sia frutto di una volontà chiara e mirante ad un fine. L’uomo «politico» plaude ad una guerra, ad una pace, ad un progetto di spesa perché il suo giornale gli fa credere che il fine si otterrà con piccolo sacrificio o con sacrificio altrui e con grandi risultati. L’uomo «privato» compra lo specifico che gli viene segnalato dal giornale, il libro che gli raccomanda il libraio, i numeri del lotto raccomandati dall’infallibile frate della quarta pagina; la donna vana acquista i brillanti od il cappellino perché il mercante non le discorre del prezzo, e la nota è mandata in seguito al marito od all’amante. Quale differenza sostanziale vi è tra i due generi di azione? Non è probabile che le azioni «illogiche» siano di gran lunga più numerose e più imponenti nel campo della vita privata, e le spese da esse determinate assorbano una porzione di gran lunga maggiore del reddito di quanto facciano le conclamate azioni illogiche di carattere pubblico?

 

  • vorrebbesi forse insistere sul carattere «volontario» delle azioni private e su quello «forzoso» delle azioni pubbliche per legittimare una differenza così profonda tra di esse come la possibilità di creare o non creare una scienza «economica» o «finanziaria» fondata sul calcolo utilitario? Ma trattasi di una differenza puramente formale, la quale non ha alcun valore dinanzi al tribunale della scienza. Qui non si vuole affrontare la questione filosofica intorno alla libertà o necessità delle azioni umane; ma è certissimo che il criterio di decisione del problema secolare non sta nell’essere l’una azione «comandata» e l’altra lasciata «libera» dal legislatore. Ambe le specie di azioni, sia quelle legalmente volontarie sia quelle legalmente libere, possono essere considerate frutto di necessità o di libera volontà, a seconda che filosoficamente si imposti il problema. Tra i fattori determinanti le azioni degli uomini, moltissimi pensatori – e la loro opinione parmi la più fondata – noverano la volontà consapevole e chiara dell’uomo il quale vuole raggiungere un fine e conosce ed attua volontariamente i mezzi atti a raggiungerlo. Tra i fini ve ne possono essere di quelli pubblici e il mezzo volontariamente scelto per raggiungerli è il «comando» dello stato. Non si nega l’importanza dell’intervento del legislatore nel far diventare, a titolo di imposta, obbligatorio il pagamento da libero che era, legalmente, quando si trattava di prezzo; ma si deve negare perentoriamente che quell’intervento possa far giudicare libero l’atto del pagare il prezzo per chi sia portato a reputarlo la conseguenza «necessaria» di fattori preesistenti o costrittivo l’atto del pagamento dell’imposta per chi ritenga che anche l’uomo «politico» sia capace di determinarsi ad agire, direttamente o per mezzo di delegati, per un atto libero di volontà.

 

 

Anche il giudizio intorno ai bisogni privati individuali non è dunque un giudizio economico puro; ma è giudizio sociologico complesso, il quale dovrebbe tener conto di numerosissime forze economiche, psicologiche, sociali, famigliari, di costumanze, di imperativi del dovere che tutti confluiscono al risultato verificatosi.

 

 

Ciò non ha impedito agli economisti di tracciare in una prima approssimazione lo schema mengeriano e di trovarlo utile per orizzontarsi in mezzo alla selva selvaggia dei fatti umani. Ciò non deve impedire ai finanzieri di adottare il medesimo schema allo stesso intento di primo orientamento.

 

 

9. – Dico di più, rinunciando a quella provvisoria ammissione dianzi fatta della rilevanza dei fatti addotti dai sociologisti della finanza: quel primo orientamento risponde, forse meglio di quanto non accada nel campo dei bisogni privati, alla necessità di tener conto dei fatti veramente tipici e fondamentali della pubblica finanza.

 

 

Ed invero la teoria sociologica o politica della finanza troppo ha trascurato il nucleo essenziale per attardarsi attorno alle frange eleganti ed interessanti, ma poco rilevanti, del fatto finanziario. Non bisogna dimenticare che gli errori di giudizio, le spese pubbliche inutili, non desiderate dai cittadini e vantaggiose solo ai ceti dirigenti sono la frangia; ma il nucleo sostanzioso sono le spese pubbliche fondamentali, utili alle collettività, necessarie per permettere il funzionamento del meccanismo economico e sociale. Pur nella ipotesi estrema di governo incapace, tirannico, di imposte esorbitanti, sperperate da un piccolo gruppo di dirigenti a proprio beneficio, è tanto grande la necessità di un governo qualsiasi, di un ordine politico qualunque, che la destinazione di una parte del proprio reddito ad imposta è di solito una delle operazioni più convenienti che l’uomo possa compiere. Un governo efficiente, capace è fuor di dubbio migliore di un governo corrotto e inetto, un governo libero in confronto ad un governo tirannico; ma un governo corrotto, inetto e tirannico, un qualsiasi capo banda o comitato terroristico di salute pubblica, è di gran lunga preferibile alla mancanza di governo, all’anarchia.

 

 

Gli uomini possono dimenticare esperienze antiche e recenti, possono abituarsi siffattamente all’idea che un governo esiste da non percepire più la sua necessità ed utilità. La domanda nei pubblici servizi può passare per i singoli nella regione dell’inconscio ed essere compiuta dai dirigenti in modo diverso e lontano dai desideri effettivi e presenti dei cittadini. Tutto ciò non è molto diverso da quanto accade nel campo del soddisfacimento dei bisogni privati, dove molti atti si compiono in modo riflesso senza paragone consapevole fra numerario speso ed utilità del bisogno soddisfatto, per consuetudine, per rispetto umano, per orrore del cambiamento. Tutto ciò è anche pura crosta sottilissima. Rompasi questa per qualche imprevisto accidente, frantumisi per un istante la macchina dello stato e si vedranno gli uomini disperatamente invocare lo stato, uno stato, un governo, un despota pur di essere salvati dalla fame, dalla miseria, dalla rovina, dall’anarchia! Tutti gli uomini sono disposti a dare tutta la propria ricchezza eccedente l’indispensabile per vivere, pur di avere uno stato; perché essi vedono che solo l’esistenza di uno stato consente ad essi di vivere.

 

 

Vedasi perciò come sia fondamentalmente nel vero H. Stanley Jevons, quando nel corso di un suo luminoso scritto sui principii della finanza definisce la capacità contributiva della collettività come il sovrappiù della produzione del paese oltre ciò che è necessario a serbare in vita gli uomini secondo il tenor di vita prevalente nel tempo e nel paese considerato.[16]

 

 

Tutto il prodotto umano sociale, salvo l’indispensabile per la vita degli individui: ecco ciò che lo stato potrebbe prelevare senza danno e col consenso volonteroso degli individui, se questi volessero paragonare il costo dell’imposta col danno della inesistenza dello stato. E poiché nessun governo, come osserva lo stesso autore, spinge le imposte sino ad esaurire tutta la capacità contributiva e per lo più un grande margine è lasciato libero fra le imposte di fatto e quelle che teoricamente si potrebbero stabilire e consentire, giuocoforza è concludere che di fatto e probabilmente nel maggior numero dei casi le valutazioni dei governi sono contenute entro i limiti della prudenza; e che se errori e scarti vi sono, se non si possono negare gli sprechi, questi non eccedono le dimensioni consuete negli atti umani e sono spesso, probabilmente nella massima parte dei casi, sorpassati dagli errori, dagli scarti e dagli sprechi che frequentissimi si osservano nella vita privata.

 

 

Aggiungasi non essere frequente che l’impiego della ricchezza a scopi privati sia capace di dare rendimenti così elevati come quelli che sono talvolta possibili nel caso di giudiziosi impieghi pubblici. Rilievi importanti ha compiuto a questo proposito il citato autore per il gruppo di pubbliche spese indirizzate a migliorare l’ambiente in cui l’uomo vive (pag. 259 e segg.). Vi sono spese, come quelle per l’illuminazione, il piano regolatore, i giardini e gli edifici pubblici che non aumentano direttamente il reddito dei consociati, ma danno luogo ad imposte pagate volentieri, perché i contribuenti sentono essere il vantaggio della spesa pubblica maggiore dei godimenti superflui privati a cui si è dovuto rinunciare. Se la spesa fu fatta per scopi di pubblica igiene e per la costruzione di città giardino, essa produce ben presto un incremento così grande nella capacità fisica e mentale di lavoro, da aumentare nel corso di pochi anni la capacità contributiva del due o trecento per cento di più di quel che sarebbe accaduto se le imposte non si fossero pagate e nulla si fosse fatto. Le spese economicamente riproduttive a distanza di tempo, come la costruzione di ferrovie, magazzini generali, ponti, canali irrigatorii, e quelle socialmente produttive, compiute per l’educazione popolare, per il miglioramento del regime della proprietà o per l’istruzione agricola hanno un effetto caratteristico sul reddito sociale e sulla capacità contributiva.

 

 

«Per i primi anni la spesa, rendendo necessaria una tassazione cresciuta sia per pagare gli interessi e le rate di ammortamento sul suo costo capitale, come nel caso di un’opera pubblica, o per fronteggiare le iniziali ordinarie impostazioni di bilancio, come nel caso dell’educazione, non è controbilanciata da alcun aumento nella capacità contributiva. Questo incremento si produce solo grazie al crescere dei frutti indiretti dell’opera pubblica, od al miglioramento della capacità generale produttiva della popolazione in virtù dell’opera di educazione. Ma l’incremento della capacità contributiva dovuto a questa causa, sebbene cominci lentamente, procede con una velocità continuamente accelerata – ad interesse composto, per così dire – durante un mezzo secolo o più. L’incremento della capacità contributiva ha luogo per via di azioni e reazioni economiche ad un saggio crescente quando numerosi provvedimenti somiglianti sono stati adottati e giungono contemporaneamente a maturazione. Se fosse possibile di accertare separatamente l’incremento di capacità contributiva dovuto ad una qualunque opera pubblica o ad un piano di educazione concepito ed attuato con sapienza e successo normali si vedrebbe quasi certamente che siffatto incremento dopo quaranta o cinquanta anni è uguale ad un’altissima percentuale sul costo capitale iniziale – da 50 a 100 o 200 per cento all’anno. Una ferrovia, un canale d’irrigazione può facilmente, dopo trent’anni, ripagare il suo costo ogni anno sotto forma di incremento nella capacità contributiva [ossia nella eccedenza del reddito sociale oltre il necessario a condurre la vita secondo il tenore usuale di vita]. Naturalmente l’imposta assorbe di solito soltanto una piccola frazione di siffatto incremento della capacità contributiva. Gli uomini possono godere maggior copia degli agi e lussi della vita, i quali a loro volta diventano consumi convenzionalmente necessari; e sono altresì in grado di risparmiare e di investire di più, il che di nuovo accresce il reddito sociale ed ulteriormente aumenta la capacità contributiva. Se noi dovessimo calcolare il futuro rendimento ricavabile, sotto forma di capacità contributiva, dalle spese per l’educazione, assumendo come spesa iniziale il totale della spesa occorsa in un periodo di tre anni – anche senza supporre una educazione del tipo più efficace – noi constateremmo probabilmente che trent’anni più tardi l’incremento della capacità contributiva imputabile – ove fosse possibile di calcolarla a sé – alla spesa per l’educazione sarebbe uguale all’intiera spesa iniziale triennale. Ciò equivale ad un rendimento, dopo lunga attesa, del 300 per cento all’anno, ove si consideri la spesa per l’educazione come fatta in conto capitale» (loco cit., pag. 261-3).

 

 

Questa non è una raffigurazione idealmente rosea della realtà; è lo schema di tendenze le quali sempre più vivacemente influenzano la vita pubblica di tutti i paesi civili. La cresciuta educazione civica, l’interessamento universale alla cosa pubblica rendono oggi più sensibili gli uomini all’utile impiego della ricchezza prelevata con l’imposta. Si avverte dappertutto, anche nei paesi a forme di governo rozze, inerti e non rappresentative, uno sforzo di innalzare il tenore della vita pubblica, di agire favorevolmente sulla produzione economica, di migliorare l’educazione mediante l’accorto impiego, del pubblico denaro. Vi sono ancora e vi saranno sempre deviazioni, errori, anche gravissimi; ma non si può non avvertire al disotto degli errori di giudizio e delle sopraffazioni di classe questa vasta corrente di crescente interessamento alla cosa pubblica, di raffinamento sensibile nella scelta dei fini pubblici da raggiungere e nel loro paragone coi fini privati a cui si deve perciò rinunciare. Il fatto dominante è questo: che la destinazione di una parte della ricchezza a fini pubblici è un’operazione economicamente feconda, pur facendo l’ipotesi di determinazioni individualmente inconsapevoli e di governi corrotti, inetti e tirannici; e che il campo dell’inconscio tende a ristringersi vieppiù a vantaggio delle azioni consapevolmente compiute dagli individui, a mezzo dei loro rappresentanti, per raggiungere il massimo di utilità con un giudizioso impiego delle somme deliberatamente pagate a titolo d’imposta. Quanto più questa tendenza si afferma nella realtà, quanto più gli uomini – non fa d’uopo ricorrere, come supponevo nel 1912, ai geni politici – di ordinaria abilità ed onestà si addestrano al governo della cosa pubblica ed applicano a questo governo le norme ordinarie di amministrazione, tanto più cresce, con velocità accelerata nel tempo, la fecondità degli impieghi pubblici della ricchezza; e tanto più probabile diventa di scoprire, con tentativi numerosi e ripetuti, attraverso insuccessi svariati ed educativi, la ripartizione, variabile di volta in volta e da luogo a luogo, della ricchezza tra fini pubblici e fini privati, la quale è capace di rendere feconda di un risultato massimo la ricchezza totale posseduta dagli individui componenti la collettività.

 

 

La tesi storica della ripartizione della ricchezza non contraddice dunque, anzi conferma, lo schema teorico; e ad una diversa conclusione può venire solo chi si attardi ad ingigantire i nei, a far svolazzare le frange della costituzione politico finanziaria degli stati dei varii tempi e paesi e trascuri di guardare al disotto del fatto transeunte, dell’accidente superficiale il nucleo fondamentale, l’idea dominante che crea gli stati, li fa vivere e li fa prosperare.

 

 

Può sembrare strano che dalla penna di uno studioso, appartenente alla schiera degli economisti detti volgarmente «liberisti» sia uscita una raffigurazione così ottimista dello stato e delle sue funzioni; e chi ripensi alle critiche acerbe che lo scrivente rivolse prima e durante la guerra e continuerà dopo a rivolgere alla burocrazia, all’allargamento delle funzioni dello stato, allo sperpero del denaro pubblico, non mancherà di tacciarlo di contraddizione. A torto, essendo ovvio che l’epiteto di «liberista» applicato agli economisti è privo di significato, ed essendo caratteristica degli economisti dichiarare preferibili certe azioni non perché compiute dagli individui, ma perché più economiche, più feconde, a parità di costo di altre, sia che esse siano compiute dagli individui o dallo stato. Questa è la sola ed aurea norma di condotta economica. Affermare che gli economisti sono contrari allo stato è dir cosa altrettanto insensata come chi dicesse che certi astronomi sono nemici del sole, della luna o delle nuvole.

 

 

Può sembrare anche strano che uno studioso di economia manifesti una così aperta ripugnanza per quelle spiegazioni dei fatti finanziari che hanno un apparente chiarissimo carattere economico, come quella che fa dipendere l’ammontare e la distribuzione delle imposte dall’interesse delle classi dominanti. Ma anche qui sembra a me che tutta la tradizione classica economica repugni a menar per buone quelle spiegazioni dell’economismo storico che erano divenute di moda vent’anni addietro e che oggi risorgono sotto le spoglie del sociologismo integrale. Forse ciò accade perché gli economisti, essendo abituati a veder le linee essenziali dei fatti, difficilmente si persuadono a considerare rilevanti e decisivi gli svariati fatti, fatterelli ed aneddoti che i sociologisti vanno raccattando, su per le gazzette odierne o per le cronache rese venerande dal tempo, a provare che gli uomini non sanno quel che si fanno quando delegano ad altri il governo della cosa pubblica o che i delegati pensano soltanto a far prosperar sé stessi od i loro affiliati. I fatti addotti dai sociologi non sono falsi. Sono però unilaterali e non riescono a dare la teoria compiuta. Accanto all’uomo privato ed all’uomo di governo egoista, curante solo dei proprii interessi e di quelli della propria classe, desideroso di godere dei pubblici servigi e di farne pagare altrui il costo, vi è l’uomo «politico», il quale vede la necessità di far parte dello stato, di «ricrearsi» in esso, di raggiungere fini che senza lo stato sarebbero inconcepibili. L’uomo «politico» sa od intuisce che egli è un «altro» appunto per la sua appartenenza al corpo collettivo; sa od intuisce che la sua fortuna, i suoi redditi, le sue maniere di vita sono condizionate dall’esistenza degli altri uomini e dello stato; sa che, pagando l’imposta, egli non dà cosa creata da lui, ma cosa creata dallo stato o da lui quale parte dello stato.

 

 

Entro certi limiti è arbitrario partire dall’ipotesi dell’uomo «egoista» o da quella dell’uomo «politico» nel costruire la teoria dell’imposta, considerando l’altra ipotesi come un coefficiente di correzione di quella scelta. Sembra tuttavia più corretto preferire in prima approssimazione l’ipotesi dell’uomo «politico» come quella che: primo è propria del concetto di stato; mentre quella dell’uomo «egoista» gli è contrastante; secondo si conforma all’esperienza storica di una sempre maggiore consapevolezza nell’uomo della sua natura politica, dei suoi obblighi verso i consociati e dell’assurdità di concepire se stesso come un’entità a sé stante, mentre il suo essere medesimo è concepibile solo come parte di un tutto, che è il corpo politico.

 

 

Vero è che l’uomo «politico» non cessa di essere egoista; e pur apprezzando i vantaggi della vita collettiva e dell’esistenza prospera dello stato, tenta di goderne accollando altrui l’onere delle imposte occorrenti ai compiti pubblici. Ed è grande perciò l’utilità delle ricerche rivolte a chiarire i calcoli e le azioni con cui gli uomini effettivamente ripartono tra loro i carichi tributari ed i risultati dei tentativi compiuti da ognuno per godere il massimo dei benefici e sopportare il minimo degli oneri statali. Ma queste ricerche utilissime non debbono partire dalla negazione della verità di prima approssimazione, secondo cui l’applicazione della ricchezza al pagamento dell’imposta è un caso particolare della legge generale della ripartizione più conveniente della ricchezza; bensì devono essere rivolte a correggerla e ad integrarla. Se così si opera, si vede che quella legge non soltanto è una verità di prima approssimazione, non è soltanto una verità astratta, la quale concretamente non sembra neppure verificarsi, tanto è deformata dagli egoismi individuali, dalle lotte fra gruppi politici e di classe, ma è una meta verso cui faticosamente gli uomini camminano. Le esperienze successive persuadono sempre più gli uomini della necessità di sottomettersi ad una legge comune; più ancora li persuadono della necessità di dar opera consapevole e volontaria alla creazione di questa legge comune, alla sua esecuzione, al sopperimento dei mezzi atti a renderla attiva e fruttuosa. Se anche questa coscienza politica sia poco diffusa nella generalità, avvertita dai più solo in momenti eccezionali, essa innegabilmente si diffonde, si radica nell’animo umano ed inspira in misura crescente le azioni della eletta dirigente e quelle anche delle moltitudini governate. Da schema astratto, utile per orizzontare gli studiosi ed atta a classificare le azioni umane essa diventa a poco a poco meta da raggiungere, norma consapevolmente voluta ed ubbidita. Essa è la norma permanente storicamente sempre esistita, sebbene solo gradatamente divenuta capace di indirizzare in modo consapevole le azioni umane. Le altre regole di condotta appaiono, in suo confronto, transeunti, variabili da tempo a tempo. Scopo della ricerca scientifica è di tener conto sia della legge permanente, che da astratta ed impalpabile, diventa sempre più concreta e consapevolmente osservata, sia delle leggi particolari di ogni tempo e luogo. Sarebbe certamente erroneo negare queste; ma non è meno grave l’errore di coloro che, per amore del concreto e del vero evidente, negano quelle realtà più vere che sono le idee astratte, le forze fondamentali e semplici le quali son quelle che veramente muovono gli uomini. Per orrore dell’astrattezza cadono essi in astrattezze più grandi, mai neppure immaginate da coloro che alle loro leggi diedero sempre il valore di prime approssimazioni soggette a successive correzioni ed integrazioni.

 

 

10. – Se questa è la verità fondamentale e permanente alla quale necessariamente si è condotti quando si saggi lo schema teorico della ottima ripartizione della ricchezza fra scopi pubblici e privati alla prova della esperienza storica, fa d’uopo logicamente concludere che il pagamento dell’imposta non diminuisce anzi cresce la quantità di reddito posta a disposizione degli uomini. L’imposta aumenta il flusso del reddito presente, perché essa rende massima la fecondità dei risparmi impiegati nella produzione, massima la produttività del lavoro, massimi lo spirito di intrapresa e la capacità inventiva degli uomini.

 

 

Quindi le tre ipotesi della imposta più o meno od ugualmente feconda degli impieghi privati della ricchezza, che io avevo messe innanzi nel 1912 come atte a spiegare le diverse situazioni effettive debbono in prima approssimazione essere sostituite da una sola e diversa ipotesi: che l’attribuzione di una parte del reddito ad imposta dia luogo ad un massimo di fecondità che non sarebbe possibile ottenere con un’altra ripartizione della ricchezza tra beni pubblici e privati. Vi è una ripartizione, vi è una massa d’imposta che è capace di ottenere il massimo risultato. Entro i limiti in cui lo schema si attua nella realtà – e tutto fa credere che esso si attui per il nucleo più rilevante delle spese pubbliche ed in proporzioni assai maggiori di quanto non si creda di più – l’imposta fa sì che il flusso della ricchezza nuovamente creata sia un massimo. Potrà l’imposta in qualche momento contrarre il flusso dei beni presenti, perché essa indirizza il lavoro degli uomini a produrre beni futuri – strade, ponti, ferrovie, scuole -; ma la contrazione è momentanea, e dà luogo ben presto ad una nuova espansione che porta il reddito collettivo ad una altezza maggiore. Alla lunga l’imposta fa aumentare il reddito o dividendo nazionale presente; ed è costretta perciò a svalutare i beni presenti in confronto ai beni futuri. Il saggio di interesse scema a causa dell’imposta. Questa è la conclusione ultima a cui tutta l’indagine compiuta fin qui necessariamente reca.

 

 

Se è vera la conclusione, non può negarsi del pari che l’imposta cresce il valor capitale dei beni fecondi di reddito. Il reddito, che sarebbe stato di 3 se un’ipotesi così irreale come l’«assenza dell’imposta» potesse per un istante concepirsi, diventa di 6, ossia giunge al suo massimo, a causa dell’imposta. Nel tempo stesso il saggio dell’interesse che sarebbe stato del 6% – le cifre e le percentuali sono tutte ipotetiche e meramente esemplificative – diventa, sempre a causa dell’imposta – del 3%. Quindi i valori capitali crescono per doppia guisa: per l’aumento del reddito, da 3 a 6, e per la diminuzione del saggio dell’interesse, dal 6 al 3% e passano, nelle ipotesi fatte, da 50 a 200.[17] Precisamente l’opposto di quanto si suppone normalmente accadere fatta la premessa del rebus sic stantibus (cfr. sopra paragrafo 5). Quale significato hanno, in questa ipotesi che raffigura la condizione normale, i discorsi intorno all’ammortamento dell’imposta? Questi suppongono che l’imposta abbia cagionato una diminuzione di redditi e sono rivolti a sapere, se questa diminuzione a sua volta dia o non dia luogo ad una diminuzione del saggio dell’interesse e ad una proporzionata o più che proporzionata riduzione dei valori capitali corrispondenti al reddito scemato. Caduta la premessa della diminuzione, cadono le illazioni relative.

 

 

11. – È necessario invece ragionare intorno alle illazioni che si possono ricavare delle vere conseguenze dell’imposta. Le quali sono, se ben si guarda, due, diversissime per indole: l’incremento nel flusso dei redditi, ad ipotesi da 3 a 6, e la caduta nel saggio dell’interesse, ad ipotesi dal 6 al 3 per cento. Dico che questi due fatti son diversi per indole; ed invero il saggio dell’interesse cade ugualmente per tutti gli impieghi, mentre il flusso dei redditi, pur crescendo come volume, a così dire, di acque scorrenti, si riparte poi per rivoli variamente modulati a favore dei singoli cittadini. Il saggio dell’interesse è fissato sul mercato, in modo uguale per tutti. Se in uno stato ordinato, tranquillo, progressivo, la massa del risparmio cresce, il saggio dell’interesse tende a scemare a favore di tutti coloro che hanno bisogno di capitali. Il suo calare è una forza la quale spinge all’insù, uniformemente, i valori capitali. Ma il flusso del reddito cresce come volume complessivo di acqua corrente solo fino al momento della sua suddivisione; né v’è ragione di affermare che la medesima rata di incremento si verifichi in tutti i rivoli in cui il fiume si spezza per giungere ai singoli. L’imposta, già fu osservato dianzi, è una delle condizioni del massimo incremento della produzione in generale; ma il suo pagamento da parte del singolo non è bilanciato da un proporzionato incremento del reddito del singolo medesimo. La media del reddito aumenta, per ipotesi, da 3 a 6; ma ben può darsi che il 6 sia la media dei redditi differenti, più o meno cresciuti, talvolta stazionari e persino diminuiti in confronto al loro livello nell’ipotesi irreale dell’assenza di imposta. Con esemplificazione empirica, si potrebbe rappresentare il fatto con le seguenti ipotesi numeriche:

 

 

Redditi

Ammontare

del

reddito

Saggio dell’ interesse %

Valori capitali


Prima dell’imposta:

 

I…………………………….

2

6

33,33

II……………………………

2,5

6

41,66

III ……………………………….

3

6

50

IV ……………………………….

3,5

6

58,33

V ………………………………..

9

6

150

MEDIA ………………………..

4

6

66,66

 

 

Ammontare

del

reddito

Saggio dell’ interesse %
Prima dell’imposta:

Valori capitali


Dopo l’imposta:

 

I…………………………….

5

3

166,66

II……………………………

8

3

266,66

III ……………………………….

6

3

200

IV ……………………………….

8

3

266,66

V ………………………………..

6

3

200

MEDIA ………………………..

6,60

3

220

 

 

                Variazioni in conseguenza dell’imposta:

 

Ammontare
del reddito

Saggio
dell’interesse

Valori
capitali

assolute

relative %

assolute

relative %

assolute

relative %

I ………….

+ 3

+ 150

– 3

– 50

+ 133,33

+ 400

II …………

+ 5,5

+ 220

– 3

– 50

+ 225

+ 540

III …………

+ 3

+ 100

– 3

– 50

+ 150

+ 300

IV ………..

+ 4,5

+ 128

– 3

– 50

+ 208,33

+ 357

V …………

– 3

– 33,33

– 3

– 50

+ 50

+ 33,33

MEDIA .….

+ 2,60

+ 65

– 3

– 50

+ 153,33

+ 230

 

 

Badando al flusso del reddito nel caso mediano (terzo) ed alle sue variazioni di valor capitale, il raddoppiamento nel reddito congiunto al dimezzamento nel saggio dell’interesse doveva produrre l’effetto di un aumento a quattro volte tanto nei valori capitali (+300%). Nella media, essendo il reddito aumentato del 65% ed il saggio dell’interesse diminuito del 50%, i valori capitali aumentarono del 230%. Ma nei casi singoli gli effetti possono essere differentissimi. Vi sono redditi che crescono moltissimo come il secondo, aumentato del 220% perché l’azione dello stato riuscì per lui, più debole fisicamente o più avvantaggiato dalla sicurezza, dalla educazione e dalla viabilità, giovevole in sommo grado.

 

 

Vi sono altri redditi come il quinto, i quali dovettero subire un positivo decremento, a causa, ad es., di una accentuata politica sociale livellatrice dello stato, del 33,33%.[18] Essendo questi redditi variamente cresciuti o scemati, capitalizzati a norma di un dimezzato saggio di interesse, la capitalizzazione da aumenti variabili dal 33,33 al 540%. Non vi è diminuzione di valori capitali; ma questi si sarebbero avuti se, ad ipotesi, nel caso quinto il reddito fosse scemato da 9 a 3; ché, al 6 ed al 3% d’interesse rispettivamente, i valori capitali sarebbero stati di 150 e 100. La diminuzione nel reddito sarebbe stata del 66,66% e nel valore capitale del 33,33%.

 

 

Il risultato descritto nella tabellina esemplificativa è un risultato terminale. Quando l’azione dell’imposta come fattore produttivo si è esaurita, quelli sono i risultati. Ma innanzi che si esaurisca si debbono traversare molte posizioni intermedie. Il fattore «stato» agisce con la regola degli interessi composti; lentissimi dapprima, i suoi effetti si vanno adagio adagio cumulando, sicché alla fine, dopo un certo tempo, di solito lungo, divengono grandiosi. La generazione che venne dopo l’unità d’Italia dal 1860 sin verso il 1898, subì i costi della unificazione, e scarsamente ne godette i frutti, i quali cominciarono a cogliersi dopo il 1900.[19] Nel periodo intermedio della maturazione molto si parla della pressione delle imposte e del loro ammortamento, quale si rileva anche empiricamente dalla diminuzione dei valori capitali (inchiesta agraria, indagini sui prezzi dei terreni, studi preliminari alla nuova catastazione deliberata nel 1886). E questa diminuzione può essere in parte dovuta alla incapacità degli uomini di apprezzare e valutare gli effetti lontani della politica tributaria presente, che pare oppressiva (bilanci di Quintino Sella) ed è invece lungiveggente. Poi, nel periodo di maturazione, è facile scordarsi che tra i fattori dell’incremento dei valori capitali vi sono anche le imposte pazientemente pagate per decenni e concorrenti a creare quella macchina statale, la quale, sebbene imperfetta, è di gran lunga più adatta dei meschini e frazionati meccanismi esistenti prima del 1860 a cooperare al rinnovamento economico del paese.

 

 

12. – Da un altro punto di vista occorre ancora qualificare il risultato sovra descritto. Esso, per necessità di esposizione, si fonda su un confronto assurdo fra ciò che accade in realtà, in regime di imposta assisa secondo il principio economico e ciò che sarebbe accaduto in assenza di imposta. Il confronto è assurdo perché, ripetasi, l’assenza dall’imposta è una ipotesi impossibile a verificarsi. Di fatto, il confronto non si può fare tra l’assenza e l’esistenza dell’imposta, ma tra un più ed un meno di imposta. Esiste una scala di equilibri, i quali sono caratterizzati, dal nostro punto di vista, da una dose maggiore o minore del fattore «imposta» in confronto agli altri fattori «lavoro», «capitale», «organizzazione», ecc. Trattasi, per tentativi successivi, di scoprire quell’equilibrio, in cui la dose di imposta sia la più appropriata. Il tipo di ragionamento adatto a risolvere i problemi degli effetti delle imposte, non è quello che bada al grosso delle imposte esistenti per far fronte ai servizi pubblici pacificamente ammessi; è invece quello che ha riguardo ai margini, alle aggiunte d’imposta che si debbono fare per ottenere un servizio nuovo o una aggiunta ai servizi antichi. Qui nasce la vera discussione; e si disputa se sia più opportuno lasciare ai privati quella data somma di reddito affinché essi possano soddisfare a dati consumi privati, attuali o prospettivi, ovvero assorbirla con l’imposta per soddisfare bisogni pubblici, anch’essi presenti o futuri.

 

 

Qui, ai margini, può innestarsi la teoria, da me svolta nel 1912 e sopra riprodotta nel paragrafo 2, la quale poneva le tre ipotesi dell’uso più, ugualmente o meno fecondo dell’imposta in confronto all’uso che della stessa ricchezza sarebbe stato fatto dai privati. Le soluzioni per i casi di maggiore (a) o di minore (c) fecondità sono quelle già esposte (rispettivamente nei paragrafi 10 e 5). Quella (b) di uguale fecondità è la stessa che nel 1912 erasi assunta come normale (cfr. paragrafo 2). Le cifre numeriche sono arbitrariamente scelte e giovano a risparmiare l’uso di molte parole.

 

 

Sia l’imposta del 20%.
Prima dell’imposta:

α

 

β

γ

1. Ammontare dei redditi

5

5

5

2. Saggio dell’interesse %

5

5

5

3. Valori capitali

100

100

100

Immediatamente dopo l’imposta:

4. Ammontare dell’imposta

1

1

1

5. Ammontare dei redditi ridotti

4

4

4

6. Saggio dell’interesse %

5

5

5

7. Valori capitali

80

80

80

Ad effetti esauriti dell’imposta:

 

8. Ammontare dei redditi nuovi (cifra da confrontare con 1)

8

5

3

9. Ammontare dell’imposta

1.60

1

0.60

10. Ammontare dei redditi netti nuovi

6.40

4

2.40

11. Saggio dell’interesse %

4

5

6

12. Valori capitali

160

80

40

13. Valore capitale ideale dei servigi pubblici ottenuti mercé l’imposta

[40]

[20]

[10]

14. Somma di 12 e 13, da confrontarsi con 3

[200]

[100]

[50]

 

 

 

S’intende che le variazioni nel saggio dell’interesse, sono, come osservai dianzi, uniformi per tutti gli impieghi; mentre le variazioni nei valori capitali indicate nello schema segnano solo una tendenza media, la quale nel caso singolo, applicandosi il saggio d’interesse scemato invariato o cresciuto a redditi diversamente influenzati dall’imposta, può dar luogo a casi concreti variabilissimi. Avendo già fornito una rappresentazione del modo con cui nella realtà il fenomeno variamente si atteggia, rinvio ad essa (sopra paragrafo 11) chi voglia ulteriori sviluppi, che qui sarebbero una superflua esercitazione scolastica.

 

 

Le tre fasi cronologiche del processo indicate nello schema sono la prima puramente ipotetica; la seconda transitoria e la terza stabile. Quella ipotetica raffigura lo stato di fatto che si sarebbe avuto in assenza dell’aggiunta di imposta. Quella provvisoria corrisponde ad una prima fase di adattamento quando la risposta è stata appena prelevata e non ha ancora potuto esercitare alcun effetto, salvo quello della falcidia, sui redditi, rimanendo ancora invariato il saggio dell’interesse. Durante questa fase transitoria si verifica l’ammortamento dell’imposta con riduzione dei valori capitali. La seconda fase dura più o meno a lungo, talvolta decenni, se gli effetti dell’imposta sono lenti e cumulativi nel tempo (cfr. sopra paragrafo 9). La terza fase definitiva, è quella in cui si veggono i vari effetti dell’imposta, che è di fare aumentare notevolmente i redditi netti ed i valori capitali nel caso a, di farli scemare amendue nella stessa proporzione in cui l’imposta subito falcidia i redditi nel caso b e di farli scemare assai di più nel caso c. La capacità più o meno grande degli uomini di prevedere la fase ultima reagisce sulla durata della fase intermedia e sulla importanza delle variazioni dei valori capitali essendo manifesto che, nonostante la temporanea riduzione dei redditi a 4, ove gli uomini prevedessero, nel caso a, il loro successivo aumento a 6,40 ed il rialzo dei valori capitali a 160, mai più i valori capitali cadrebbero ad 80, ma da 100 tenderebbero a spostarsi più o meno rapidamente verso 160. Parimenti nel caso c non si attarderebbero sull’80, ma per la previsione del ribasso dei redditi a 2,40 tenderebbero verso 40. Non fa d’uopo che il mercato sia consapevole del legame fra l’imposta e gli effetti che esso apprezza; basta che veda e preveda gli effetti, affinché il movimento si delinei subito.

 

 

È superfluo avvertire che i casi a, b, c sono casi tipici e che nella realtà si possono dare, come fu già osservato ripetutamente, infinite situazioni intermedie con effetti correlativi. Non è inutile invece avvertire che nel caso b la scelta fra l’uso pubblico e l’uso privato della dose marginale di ricchezza dicesi dubbia perché chi la deve fare è l’uomo «politico» il quale confronta il vantaggio di avere un reddito 5 ed un valore capitale 100 tutto destinato a fini privati con l’altro vantaggio di possedere un reddito 4 ed un capitale 80 destinati a fini privati ed insieme servizi pubblici pel valore annuo 1, privi questi ultimi di valore capitale solo perché non è usanza del mercato capitalizzare i servizi pubblici. Queste due quantità sono equivalenti. A rendere possibile un confronto esatto tra le due situazioni prima e dopo l’imposta (ad effetti esauriti) si sono indicate alcune cifre tra parentesi quadre.

 

 

13. – Pur astenendosi dall’affermare la prevalenza effettuale del caso a su quello b o c e limitando il compito dell’indagine teorica a determinare gli effetti del verificarsi di una qualunque delle tre ipotesi, che lo studioso di finanza assume come dati di fatto ugualmente possibili, è chiaro che la posizione marginale di quei tre casi consente un’ulteriore interessante illazione. Se invero al margine la scelta fra spesa pubblica e spesa privata è dubbia, essendo ambedue ugualmente feconde, non dubbia, per logica necessità, dovette essere la scelta per somme precedentemente devolute ad imposta. L’applicazione del reddito ad imposta è un caso del tipo universale delle applicazioni di ricchezza, le quali sono feconde di rendita sino al margine di convenienza. Se la dose marginale d’imposta dà (caso b) un vantaggio differenziale zero in confronto alla produttività che quella medesima dose avrebbe avuto se altrimenti impiegata – ossia ha una produttività pubblica uguale alla produttività privata – è evidente che la precedente dose d’imposta dava un vantaggio differenziale positivo e quelle ancor precedenti nell’ordine di applicazione un vantaggio differenziale sempre maggiore. Quindi è certo che nel caso b, se la applicazione marginale dell’imposta dovette lasciare invariato il saggio di interesse, le applicazioni precedenti od intramarginali lo dovettero scemare, dando luogo nel complesso con ogni probabilità non solo ad una diminuzione nei valori capitali meno che proporzionale al saggio dell’imposta, ma benanco ad un aumento. A maggior ragione ciò accadde nel caso a, dove già al margine si avvertiva una diminuzione nel saggio dell’interesse; né è escluso che, pur nel caso c, si possa avere una attenuazione fortissima nella tendenza dei valori capitali a ribassare in proporzione maggiore della falcidia fatta subire dall’imposta al reddito, potendosi persino giungere ad un aumento nei valori capitali medesimi.

 

 

Se quest’ultima forse non irrilevante conclusione viene combinata con quella tratta sopra dalla variabilità estrema dei redditi da caso a caso in conseguenza dell’imposta, grandemente si afforza la conclusione finale alla quale ci conducono le precedenti ricerche: esservi una indefinita gamma di effetti prodotti dall’imposta, i quali vanno da abbassamenti notevoli dei valori capitali sino a rialzi probabilmente assai più numerosi e rilevanti. Nelle grandi linee e supponendo un governo anche mediocremente organizzato ed efficace, l’imposta è un fermento che consente la combinazione più produttiva dei fattori economici, gonfia il volume del flusso dei redditi, deprezza i beni presenti in confronto ai beni futuri e fa ribassare il saggio dell’interesse. Essa contribuisce perciò a sollevare il livello generale dei valori capitali, ma questo livello generale è la media di livelli diversi, alcuni dei quali dall’imposta sono spinti assai in su, per il contemporaneo, ribasso generale del saggio dell’interesse e rialzo individuale del reddito al di là del nuovo livello medio dei redditi, mentre altri possono essere spinti in giù, perché il reddito scemò di più, per fatto dell’imposta, di quanto non sia scemato il saggio dell’interesse.

 

 

Su questo mare di valori capitali, continuamente ondulato ed in subbuglio, altre forze agiscono a crescere il tumulto apparente delle onde che portano su e giù i redditi e valori capitali. La mala educazione politica, l’ignoranza, i torbidi sociali rendono imperfetta la macchina di governo; sicché funzionando male e con forti attriti e rilevanti sprechi, alcuni redditi scemano, temporaneamente si contrae il medesimo flusso dei redditi, il saggio dell’interesse aumenta ed i valori capitali si riducono, non in confronto a tempi di assoluta anarchia, ma a quelli di governo ordinato, consapevole, procacciante il vantaggio della collettività. Diventano, in queste epoche di torbidi, più numerosi i casi di deprezzamento di valori capitali e più vasta la distanza tra apprezzamenti e deprezzamenti estremi. Mentre in tempi normali, di reggimento di popolo inteso questo nel senso di ossequio alla legge deliberata dalla maggioranza formatasi in seguito a libera e pubblica discussione sembra debbano diventare rari i casi di deprezzamento dei valori capitali e spesseggiare quelli di apprezzamento dovuti all’imposta. Quale parentela gli apprezzamenti ed i deprezzamenti tributari nei valori capitali ora descritti abbiano colla capitalizzazione della libertà e coll’ammortamento dell’imposta può essere interessante indagare dopoché si sia ben precisato il valore logico delle consuete indagini compiute intorno agli effetti dell’imposta partendo dall’ipotesi del rebus sic stantibus. Sia lecito sperare che lo studio ora condotto intorno gli apprezzamenti e deprezzamenti effettivi non sia parso meno rilevante e meno suscettivo di feconde integrazioni od applicazione di quello corrente intorno ad apprezzamenti o deprezzamenti immaginari.

 

 

 

 

III

 

Problemi particolari

 

14. – Tra i molti problemi particolari, i quali meriterebbero tutti di essere partitamente discussi, alcuni vogliono essere qui rilevati e fra di essi questo appunto del significato del concetto corrente della capitalizzazione della libertà e dell’ammortamento dell’imposta. Il problema è in gran parte di convenzioni che noi possiamo ad arbitrio fare intorno al significato da darsi a certe parole. Se noi, per non cadere in arbitri nuovi, ci teniamo stretti al significato tradizionale, vediamo che le parole «capitalizzazione della libertà dell’imposta» ed «ammortamento dell’imposta» male sì applicano ai fenomeni di variazione nei valori capitali, che abbiamo veduto essere la conseguenza di una imposta «neutra» ovverosia «uniforme e generale sui redditi». Non si può parlare di «capitalizzazione della libertà dell’imposta» poiché il contribuente non fu liberato dall’imposta, ma la pagò; e ciononostante il reddito suo crebbe e, per il scemare del saggio dell’interesse, ancor più crebbero i valori capitali relativi. Né pare conveniente discorrere di «ammortamento dell’imposta» in un campo in cui sono tanto rare le riduzioni di reddito ed ancor più rare le diminuzioni di valori capitali; ed in cui le prime e sovratutto le seconde non sono proporzionate all’ammontare dell’imposta. L’ammortamento dell’imposta parrebbe essere un fatto transitorio del periodo intermedio in cui l’imposta non ha ancora agito sui redditi e sui valori capitali; ma è dubbia la convenienza di adoperare quell’espressione come feci tuttavia, in mancanza di altre parole accettate, nel paragrafo precedente poiché l’ammortamento del periodo intermedio è un fatto destinato a non durare, anzi a non cominciare neppure ad esistere, quando gli uomini chiaramente prevedono la fase terza ed ultima.

 

 

Per non crescere perciò la confusione delle lingue e delle idee in una materia così intricata, io sarei portato a distinguere nettamente, anche nella terminologia usata, fra il caso dell’imposta «neutra» della quale fin qui si parlò ed il caso dell’imposta «particolare» o «speciale» o «parziale» (cfr. sopra paragrafo 4).

 

 

Per chiarezza sarei propenso ad attribuire ai soli effetti della imposta «neutra» la terminologia fin qui usata di «variazioni nei redditi» e di «variazioni nei valori capitali». È una terminologia atta a far risaltare l’idea che gli effetti prodotti dall’imposta neutra sono dello stesso genere di quelli cagionati da un mutamento qualsiasi nell’equilibrio economico precedente e ad escludere l’introdursi in maniera inavvertita dell’idea differentissima che l’aumento dei valori capitali sia dovuto ad una capitalizzazione dell’immunità dell’imposta ed il decremento ad un ammortamento di quel dato ammontare di imposta da cui il contribuente fu colpito.

 

 

Riserverei invece la terminologia tradizionale di «capitalizzazione della Libertà» e di «ammortamento dell’imposta» al caso dell’imposta non neutra o speciale o parziale. E ciò perché di fatto gli effetti dei due tipi d’imposta mi paiono in parte differenti. Dico «in parte» perché non v’è ragione di affermare che l’imposta speciale non produca anche gli effetti medesimi dell’imposta neutra. Anch’essa dà un provento all’erario; e questo provento è impiegato a soddisfare bisogni pubblici alla pari di quello dell’imposta neutra. Perciò tutti gli effetti di «variazioni» nei redditi, nel saggio d’interesse e nei valori capitali derivanti dall’imposta neutra, derivano anche dall’imposta speciale. Con qualche differenza: 1) di misura, essendo probabile che il provento dell’imposta speciale sia meno vistoso di quello dell’imposta generale e quindi meno capace di produrre variazioni sia in un senso sia in un altro; la variazione potendo essere così piccola da riuscire trascurabile; 2) di direzione, essendo probabile che una imposta speciale, neppure rientrante in un sistema di imposte equilibrate tra di loro, abbia carattere di persecuzione contro una classe od un gruppo di contribuenti e si avvicini al tipo dell’imposta – taglia (cfr. sopra paragrafo 6). Quindi è probabile che essa produca effetti del tipo c (diminuzioni di redditi, rialzo nel saggio dell’interesse e diminuzione più che proporzionata dei valori capitali) piuttostochè effetti del tipo a e b (cfr. paragrafo 12).

 

 

Ma oltre questi effetti comuni all’imposta generale o neutra, l’imposta speciale o parziale ne produce di suoi propri. Se noi supponiamo per non complicare la discussione, che gli effetti «generali» dell’imposta speciale – quelli detti sopra – siano nulli, per la trascurabile rilevanza di essa, si può affermare che nulla sia la variazione del valore capitale del reddito colpito dall’imposta in rapporto alla moneta od alle merci in generale. Non si è verificato nessun sollevamento od abbassamento generale dei valori capitali, come sarebbe stato il caso per un’imposta generale. Ma si è verificato uno spostamento del valore capitale del reddito colpito in confronto ai redditi esenti. Se il saggio di interessi era ed è del 5%, se i redditi in generale rimangono fermi a 5 – qui si può fare l’ipotesi del rebus sic stantibus, perché l’imposta di cui si discorre è troppo piccola cosa per esercitare un effetto qualsiasi sul complesso equilibrio economico – ma un solo reddito viene dall’imposta 1 ridotto a 4, questo si capitalizza sempre al 5% e corrisponde ad un valore capitale di 80. Ecco il caso classico dell’ammortamento dell’imposta. Per converso, se tutti i redditi, salvo uno, sono colpiti dall’imposta – sarebbe erroneo aggiungere: se tutti i redditi sono ridotti dall’imposta, potendo invece essere, come vedemmo, rialzati – e se in conseguenza dell’imposta il nuovo saggio di interesse risulta del 4%; e se v’è un solo reddito, di peso irrilevante, il quale sia esente dall’imposta – non giova aggiungere: rimanga invariato, ben potendo darsi ed essendo probabilissimo che anche quel reddito sia, con gli altri, rialzato in conseguenza dell’imposta generalmente pagata questo reddito, che era di 5 prima dell’imposta gravante su altri, e si catalizzava al 5% ossia a 100 ed ora è diventato, grazie all’imposta altrui, di 6 e si capitalizza al 4 per cento, vale attualmente 150. Gli altri redditi che erano di 5, dopo aver pagato 1, sono tornati a 5, per il beneficio diffuso dei servizi pubblici e si capitalizzano al 4 invece che al 5 per cento. Valgono 125 invece di 100. Quest’unico vale 150 invece di 100. La differenza in più di 25 può dirsi raffigurare il caso classico della capitalizzazione della libertà dell’imposta.

 

 

La teoria ora svolta non deve essere interpretata nel senso di un ritorno alla teoria corrente, la quale afferma che solo le imposte speciali e non le generali danno luogo a capitalizzazioni ed ammortamenti. Tutto il discorso fin qui fatto protesterebbe contro siffatta frettolosa interpretazione. L’unica ragione per cui ritengo conveniente di riservare i nomi di «ammortamento dell’imposta» e di «capitalizzazione della libertà dell’imposta» al caso dell’imposta speciale è di chiarificazione terminologica. Amendue i tipi d’imposta, generale e speciale, producono variazioni nei valori capitali. Ma il primo tipo, di imposta generale, produce quegli effetti perché la sua introduzione non lascia invariato l’equilibrio economico generale; e le variazioni nei valori capitali sono conseguenza della premesse del rebus sic non stantibus. Mentre il secondo tipo, dell’imposta speciale, tende a produrre, in grado tanto più rilevante quanto più è accentuata la sua parzialità e quindi irrilevante il suo peso, variazioni nei valori capitali determinate dalla premessa del rebus sic stantibus. Le prime variazioni sono sovratutto nei valori capitali in genere con la moneta o con le merci. Le seconde sono sovratutto variazioni in alcuni valori capitali in confronto ad altri valori capitali di beni fecondi di reddito. I due generi di variazioni sono sufficientemente distinti perché sia giustificato l’uso di due terminologie differenti, quella di «variazioni nei valori capitali» per indicare il primo genere, e quelle classiche di «capitalizzazione della libertà» e di «ammortamento» per indicare il secondo genere. Nulla vieta, a cui non piaccia la terminologia proposta, di invertirla o di proporne addirittura una nuova e tutta diversa. Importa soltanto che siano mantenute distinte le idee, a cui le terminologie proposte si riferiscono.

 

 

15. – Tra i casi estremi di imposta generale e di imposta speciale, vi sono casi numerosi intermedi, in cui la specialità dell’imposta è così poco rilevante da produrre effetti simili a quelli della imposta generale e tali da controbilanciare e perfino da annullare gli effetti che sarebbero dovuti alla sua specialità. Un esempio significante è quello dell’aumento nel saggio dell’imposta di ricchezza mobile dal 13,20 al 20% decretato in Italia nel 1894. Quell’aumento in apparenza fu generale; in realtà, per il congegno della discriminazione sui redditi, colpì in particolarissimo modo i redditi dei portatori di titoli di debito pubblico, a carico di cui soltanto – l’aggiunta dei titoli di debito comunale e provinciale e delle società sussidiate dagli enti pubblici praticamente aveva scarso peso – l’aliquota fu aumentata dal 13,20 al 20%, mentre gli altri redditi di capitale la videro crescere solo dal 13,20 al 15%. Per la differenziale del 5% l’imposta fu dunque «parziale», anzi creata «in odio» dei portatori dei titoli di debito pubblico. Secondo la teoria corrente, interpretata alla lettera ed assunta come forza unica operante sui valori capitali, il corso del consolidato 5% lordo avrebbero dovuto ridursi di una somma capitale corrispondente alla diminuzione nel reddito di L. 0,25 dovuto alla parte speciale dell’aumento d’imposta, capitalizzato al saggio corrente d’interesse che allora in cifra tonda poteva valutarsi al 5%. Poteva dunque pronosticarsi un ribasso nei corsi del consolidato di circa 5 lire. Invece i corsi verificatisi prima e dopo il 1894 furono i seguenti:[20]

 

 


Anno


Corso annuo


Rendita netta

Saggio di frutto e d’interesse

 

1891 ……………..

93,41

4,34

4,65

1892 ……………..

94,42

4,34

4,60

1893 ……………..

94,94

4,34

4,57

1894 ……………..

88,28

4,34

4,92

1895 ……………..

93,18

4

4,29

1896 ……………..

93,20

4

4,29

1897 ……………..

97,37

4

4,11

1898 ……………..

99,49

4

4,02

1899 …………….

100,81

4

3,97

1900 …………….

100,01

4

4

 

 

È chiaro che l’imposta «speciale» non era qui tanto speciale o tanto odiosa quanto sarebbe stato necessario per produrre l’effetto dell’ammortamento. Essa, sebbene ristretta ai soli portatori di titoli di debito pubblico, era però abbastanza feconda di entrata cospicua per il tesoro, da poter esercitate una influenza rilevante sui servizi pubblici e sull’equilibrio finanziario generale dello stato. Essa poteva inoltre essere considerata come un contrappeso ad altre imposte le quali gravavano su altre classi di contribuenti; sicché non senza ragione si potrebbe affermare essere i caratteri di generalità soverchianti su quelli di specialità. Cadde, per di più, in un momento in cui l’opera sua fu singolarmente feconda. Contribuì a ristaurare il pareggio del bilancio. Ristabilì il credito dello stato che era singolarmente scosso. Permise che lo stato non sospendesse alcuni servizi pubblici essenziali alla vita del paese. Fu un fermento eccitatore di sentimenti favorevoli alla solidità politica e finanziaria dello stato. Perciò il saggio d’interesse che prima cresceva e tendeva al 5%, dopo, per quella sorta di impieghi pubblici, cominciò a scemare e gradatamente si ridusse al 4 per cento. Non fu l’imposta la sola cagione del ribasso; ma, per quanto empiricamente se ne possa giudicare, ne fu reputata la principale cagione da molti osservatori sennati. Epperciò, come dice la teoria esposta in questa memoria, l’imposta, avendo provocato un ribasso nel saggio dell’interesse, cagionò non un ribasso di 5 lire, ma un rialzo immediato di altrettanto nel valore capitale del consolidato colpito, rialzo che col tempo e con l’intervenire di altre circostanze, vieppiù crebbe.

 

 

16. – Degno di rilievo è altresì il comportarsi dei valori capitali, a seconda che l’imposta è ad aliquota costante o variabile. Una osservazione rimarchevole fece in questo proposito il Griziotti, quando osservò che l’imposta progressiva sul reddito lascia invariata la spinta al risparmio e alle precedenti condizioni di interesse solo presso i capitalisti, che hanno un reddito inferiore al minimo imponibile. Gli altri possono essere indotti a far emigrare o trattenere i loro capitali all’estero ed i risparmiatori marginali preferiranno di destinare i loro redditi alla soddisfazione di bisogni immediati. Se l’accumulazione dei capitalisti esenti non bilancia la minor produzione od introduzione di risparmio da parte dei colpiti, il saggio dell’interesse renderà a salire. Salirà tanto più, quanto più nel paese il capitale è concentrato nelle mani dei ricchi gravemente colpiti. Sicché, essendo generale l’influenza del nuovo saggio d’interesse, scemano di valore tutti i capitali vincolati, compresi quelli appartenenti ai capitalisti esenti. Scemano nella stessa misura i capitali colpiti e quelli esenti, sebbene soltanto il reddito dei primi sia diminuito.[21] Il qual fatto, si può osservare, deriva da una circostanza degna di nota e finora non messa abbastanza in luce: ed è che i redditi (cresciuti, non toccati o scemati dall’imposta) si capitalizzano al nuovo saggio di interesse (variato dall’imposta, come sopra) ora al netto ed ora al lordo dell’imposta, che formalmente li percuote. L’imposta è ad aliquota costante e colpisce i redditi nella stessa misura aritmetica da chiunque siano goduti? Il mercato non capitalizza 5, ma 5–1 ossia 4. Questo è il succo di verità che si contiene nella teoria dell’universale ammortamento dell’imposta generale; ma è verità formale, perché tanto il reddito lordo di 5 quanto il saggio di interesse possono essere uguali, maggiori o minori di quelli che sarebbero stati senza l’imposta. A parte i veri effetti dell’imposta, che di questa considerazione non sono toccati, sta di fatto che il mercato capitalizza i redditi, qualunque ne sia l’ammontare e comunque questo sia influenzato dall’imposta, al netto nel caso di imposte ad aliquota costante (per lo più imposte reali).

 

 

Se l’imposta è ad aliquota variabile, come sono per lo più le imposte personali, il mercato si comporta in confronto ai beni fecondi di reddito nella stessa maniera come di fronte ad una casa o fondo rustico gravato da ipoteca o canone fondiario passivo. Capitalizza i redditi al lordo. Siano tre fondi:

 

 

Reddito

netto

prima della

imposta

o gravame

Ammontare della imposta o gravame

Reddito netto da ogni peso

Saggio di interesse

Valore capitale di mercato

A, gravato di imposta sui terreni

5.000

1.000

4.000

5%

80.000

B, gravato di interesse ipotecario o canone fondiario

5.000

1.000

4.000

5%

100.000

C, a causa di cui il contribuente è oggetto ad imposta personale

5.000

1.000

4.000

5%

100.000

 

 

Nel caso A, il mercato valuta in 80.000 il valor capitale del fondo, perché il suo reddito oggettivamente, per tutti i possibili venditori ed acquirenti, è ridotto a 4.000 lire. Nel caso B, il mercato applica il saggio di interesse non a 4.000, ma a 5.000 lire di reddito, perché l’onere di 1.000 lire è un accidente, che può esser fatto scomparire dal proprietario, ove il voglia o possa, con il rimborso della somma mutuata od il riscatto del canone. Finché il gravame dura, l’acquirente che ha stipulato il prezzo in L. 100.000, versa però al venditore solo L. 80.000 ove si accolli il gravame. Questa è la consuetudine voluta dal buon senso.

 

 

Nel caso C, il mercato applica il saggio di interesse al reddito di 5.000 lire, perché l’imposta di 1.000 lire non è inerente al bene, né lo segue presso tutti i possessori, ma varia da caso a caso ed è nulla, piccola o rilevante a seconda delle condizioni personali del contribuente. Perciò il mercato capitalizza i redditi lordi.

 

 

Questa, come dissi, è la forma tecnica, con cui si compie sul mercato il processo di capitalizzazione. Naturalmente il mercato assume gli ammontari di reddito, netti o lordi, e i saggi di interesse quali effettivamente esistono. Ed essi hanno già subito le influenze dell’imposta.

 

 

Questa, anche quando è ad aliquota variabile, può essere, già fu osservato, neutra ovvero parziale. È neutra quando la scala delle progressività è congegnata in maniera tale che il peso dell’imposta viene effettivamente ad essere eguagliato tra contribuenti diversamente provveduti; quando, per la esenzione del risparmio, la graduazione non muta la bilancia tra il consumo presente ed il risparmio (cfr. paragrafo 4). Un’imposta di questo genere ha grande probabilità (veggansi le osservazioni svolte nei paragrafi da 6 a 13 che qui si richiamano) di essere feconda di un aumento nel flusso dei redditi e di una diminuzione nel saggio dell’interesse e quindi di provocare, con tutte le riserve già fatte per i casi singoli, un rialzo generale nei valori capitali, sia dei beni colpiti che di quelli esenti. Il contrario effetto si verifica quando la scala della progressività è congegnata in modo da dare all’imposta fisonomia «parziale» od «odiosa»: riduzione dei redditi colpiti, forse anche dei redditi esenti, rialzo del saggio dell’interesse e riduzione di valori capitali. Empiricamente, la teoria ora svolta è un’altra maniera di esprimere il vecchio canone tramandato dalla esperienza dei secoli che le imposte vogliono essere temperate; temperate anche nell’applicazione del criterio della progressività. L’economista non può che dare il suo consenso alla norma di condotta pratica che recentemente l’Edgevorth riassumeva così, approvando i metodi seguiti in Inghilterra:

 

 

«Noi non abbiamo, in verità, coll’astenerci compiutamente dalla progressività, schivata la difficoltà di determinare il giusto mezzo; ma noi siamo stati sensibili ai pericoli che minacciano l’opposto estremo. Noi ci siamo avanzati con cautela e con successivi tentativi sul piano inclinato su cui sarebbe stato fatale precipitarsi».[22]

 

 

Norma generalissima in verità, ma sufficiente per orientare lo statista giudizioso.

 

 

17. – Lo statista sarebbe vieppiù indotto ad osservare la norma della temperanza ove analizzasse gli effetti diversi che una imposta ad aliquote variabili produce allorquando essa è più o meno feconda di risultati utili dell’uso privato della medesima ricchezza; essendo probabile che un’imposta a tipo neutro venga impiegata ad usi pubblici fecondi, ovvero un’imposta a tipo parziale sia dannosamente usata.

 

 

Nel quadro seguente si osservano gli effetti dei due tipi d’imposta facendo l’ipotesi di tre redditi, minimo, medio, e grande, di redditi lordi i quali aumentano o diminuiscono e di saggi di interesse i quali scemano o crescono a seconda si applichi la imposta a tipo neutro dell’1,5 e 10% ovvero quella parziale del 0,10 e 30 per cento. Si parla di «imposta», ma la parola si intende equivalente a «sistema d’imposte» gravanti le tre specie di redditi:

 

 

Redditi e valori capitali prima dell’imposta

 

A B C
Redditi …………………………………. 500 5.000 50.000
Saggio d’interesse % …………… 5 5 5
Valori capitali ……………………. 10.000 100.000 1.000.000

 

 

Redditi e valori capitali dopo l’imposta

 

Imposta neutra miglioratrice

Imposta parziale peggioratrice

A

B

C

A

B

C

Saggio dell’imposta %

1

5

10

0

10

30

Capitali vincolati:

Redditi lordi

600

6.000

60.000

450

4.500

45.000

Saggio d’int. %

4

4

4

6

6

6

Valori capitali

 

(migliaia lire)

15

150

1500

7.5

75

750

Ammontare dell’imposta

6

300

6.000

450

13.500

Redditi netti

594

5.700

54.000

450

4.050

31.500

Saggio di frutto sui valori capitali nuovi effettivi %

3,96

3,80

3,60

6

5,40

4,20

Id. id. sui capitali vecchi potenziali %

5,94

5,70

5,40

4,50

4,05

3,15

Capitali disponibili:

 

 

Valori capitali

(migliaia lire)

10

100

1.000

10

100

1.000

Saggio d’int. %

4

4

4

6

6

6

Redditi lordi

400

4.000

40.000

600

6.000

60.000

Ammontare dell’imposta

4

200

4.000

600

18.000

Redditi netti

396

3.800

36.000

600

5.400

42.000

Saggio di frutto %

3,96

3,80

3,60

6

5,40

4,20

 

 

 

Gli effetti si considerano separatamente per i capitali «vincolati», ossia già impiegati al momento dell’introduzione dell’imposta in terreni, in case, in imprese industriali, in mutui a lunga scadenza, e per i capitali «disponibili», esistenti in moneta contante, in depositi o mutui a vista od a breve scadenza od in riporti di borsa. La distinzione non è sempre nettissima, potendo darsi impieghi a scadenze varie, non brevissime e non lunghe. Soltanto i depositi a vista od i tesori in contanti si sottraggono teoricamente alla capitalizzazione dell’imposta; per gli altri la capitalizzazione avviene entro i limiti di tempo per cui dura il vincolo. Né v’è alcun impiego, il quale possa dirsi davvero vincolato in perpetuo; poiché il trascorrere del tempo consente alla lunga l’ammortamento di ogni capitale, anche il più legato alla gleba e ridà libertà di movimento al suo possessore. Ma i due casi del vincolo perpetuo e della disponibilità assoluta giovano a fissare le idee; ed agevolmente possono essere calcolate le opportune soluzioni per le situazioni intermedie.

 

 

Interessano specialmente i seguenti rilievi allo schema:

 

 

a)    L’imposta neutra cresce la materia imponibile: redditi e valori capitali; L’imposta parziale la scema.

 

b)    L’imposta neutra scema bensì i saggi di frutto sui valori capitali quali sono cresciuti dopo l’imposta, più per i ricchi che per i poveri, ma migliora il saggio di frutto (5,94, 5,70 e 5,60) per tutti i contribuenti in confronto al saggio di frutto (5%) che si sarebbe avuto senza l’imposta, sui valori capitali preesistenti. Il contribuente più ricco ricavò solo il 3,60% di frutto sul capitale di L. 1.500.000 ora da lui posseduto; ma che monta quando quel 3,60% equivale ad un 5,40% sul capitale di 1.000.000 che in assenza dell’imposta avrebbe percepito? La qual verità non è forse da lui nettamente saputa; ma è sentita per conseguenza della sicurezza, della facilità e larghezza degli investimenti e della abbondanza dei redditi netti di cui gode. Il contrario accade nel caso dell’imposta parziale. Il ricco vede dal 5% scemare il suo saggio di frutto al 4,20% in rapporto allo scemato capitale di L. 750.000 da lui ora posseduto ed al 3,15% in rapporto al capitale maggiore di 1 milione di lire che sarebbe da lui stato posseduto senza l’imposta. Sicché egli si scoraggia. Ma non ne trae giovamento il povero; il quale, se in apparenza gode un frutto del 6% netto da imposte sul suo capitale, vede questo ridursi da 10.000 a 7.500 lire ed il saggio di frutto sul capitale potenziale suo al 4,50 per cento. Anche se egli non sa rimontare dagli effetti alla causa, sente la pressione del suo reddito scemato da 500 a 450 lire; e le falcidie gravanti il reddito del ricco gli paiono insufficienti in confronto alla sua miseria. La forza distruttrice dell’imposta parziale cresce col tempo: l’invidia e l’odio essendo passioni le quali via via alimentano se stesse fino alla esasperazione.

 

c)    Ambi i tipi d’imposta tendono a spezzare i patrimoni ed a divulgare le fortune; poiché giova di più avere 100 patrimoni da 15.000 fruttiferi del 3,96% che uno fruttifero del 3,60 percento. Ma, come si osservò dianzi, là dove l’imposta è neutra tutte le classi continuano ad avere interesse crescente a produrre redditi ed a formare capitali; sebbene, una volta formatili, abbiano interesse a spezzarli. Sicché la democratizzazione delle fortune avviene in un ambiente di prosperità crescente. Mentre invece il livellamento operato dall’imposta parziale procede in una società a miseria crescente. Fanno il deserto della miseria e proclamano questa essere democrazia. Le fortune si spezzano nel primo caso; ma, poiché cresce la materia imponibile, bastano e forse avanzano le aliquote antiche dell’1,5 e 10% a fronteggiare il pubblico fabbisogno. Si spezzano altresì col tipo dell’imposta parziale, ma poiché la materia imponibile scema, le aliquote iniziali del 0,10 e 30% più non sono sufficienti ed occorre sovratutto crescere quelle che colpiscono le fortune medie od istituire imposte sulle fortune minori, le sole le quali, per il frazionamento delle grandi fortune, sono fiscalmente produttive. Sicché è vana la speranza dei poveri di sfuggire al tributo, rigettandolo interamente sul ricco.

 

d)    Ma forse gli effetti più rilevanti si riscontrano nel capitolo dei capitali disponibili. Qui, appunto perché si tratta di depositi a vista o di tesori, l’imposta non produce variazioni nei valori capitali in nessun caso. Ma poiché il saggio d’interesse varia dal 5 al 4 od al 6 per cento nei due tipi d’imposta, i redditi lordi e netti scemano sempre e notevolmente nel caso dell’imposta neri tra, e rialzano – salvo per i redditi netti dei maggiori contribuenti – nel caso dell’imposta parziale. Precisamente l’opposto di quel che accade per i capitali vincolati.

 

e)    Il che dimostra che al contribuente conviene vincolare i capitali quando si trova dinnanzi all’imposta neutra e tenerli disponibili se è sotto la minaccia dell’imposta parziale. La prima imposta incoraggia gli investimenti in industrie, in costruzioni, in miglioramenti fecondi; la seconda spinge alla tesaurizzazione ed agli impieghi provvisori, facilmente liquidabili, puramente speculativi. I risparmiatori nel primo caso non hanno paure, si fissano al suolo, si rendono visibili al fisco ed offrono a questo ottima ed ampia materia imponibile. Nel secondo caso rabbrividiscono ad ogni stormir di foglie, si tengono sempre pronti alla fuga, prediligono le forme cambiarie di investimento, si fanno piccoli e prendono il colore, non la sostanza dell’ambiente per nascondersi agli occhi del fisco.[23]

 

 

18. – Ma l’analisi degli effetti dei due tipi d’imposta sul capitale esistente (vincolato o disponibile) è per se stesso di ben scarsa importanza. Il capitale esistente può, fuggire all’estero, può lasciarsi consumare dal tempo senza ricostituirsi; ma deve per lo più soggiacere alla percussione dell’imposta. Il contribuente non ha interesse a distruggere il proprio reddito, solo per non pagarne una parte al fisco. Può invece astenersi dal formare nuovi risparmi, dal crescere il proprio reddito. A questa stregua dell’influenza sul nuovo risparmio, si saggia sovratutto e direi esclusivamente la bontà di un qualunque sistema tributario. Il legislatore può escogitare tormenti e catene per i contribuenti che occultano od esportano i capitali esistenti ed i suoi sforzi possono anche essere fortunati. Ma egli è impotente contro chi rifiuta di diventare o di continuare ad essere risparmiatore. Qui è lo scoglio su cui si infrangono i tentativi dei governi comunistici ed espropriatori. Questa è la rupe contro cui inutilmente cozzano i legislatori che vogliono istituire imposte parziali ed odiose.

 

 

Nello schema seguente si cercò di delineare le conseguenze che avrebbero sul nuovo risparmio i due tipi descritti d’imposta. La ipotesi da cui si partì pare ragionevole: ed è che l’ammontare del risparmio sia una funzione crescente dell’ammontare del reddito. Poiché, senza l’imposta, i redditi sarebbero di 500, 5.000 e 50.000 lire, si suppose che i percipienti avrebbero risparmiato rispettivamente il 5, il 10 ed il 30% del rispettivo ammontare. Crescendo, coll’imposta neutra, i redditi netti a 594, 5.700 e 54.000 lire, si suppone che le quote rispettivamente risparmiate crescano del pari alquanto, al 6, 12 e 35%. Scemando, coll’imposta parziale, i redditi netti a 450, 4.050 e 31.500 lire, fu supposto che le quote risparmiate diminuiscano rispettivamente, con depressione più marcata, per la notevole diminuzione del margine disponibile, al 4, 8 e 20%. Le ipotesi sono empiriche, fatte a scopo esemplificativo; ma si può fondatamente asserire che esse rappresentino, se non la realtà, la tendenza alla realtà e possano servire di fondamento accettabile per le conclusioni di indole generale che se ne ricaveranno.

 

 

Veggansi ora i risparmi fatti annualmente, su questa base, dai tre contribuenti A, B e C, nei due casi tipici d’imposta già esemplificati nella precedente tabella. Nei calcoli, per evitare frazioni troppo piccole, si operò qualche leggero arrotondamento:

 

 

Risparmi annui nuovi, prima dell’imposta:

 

 

A

B

C

Redditi netti

500

5.000

50.000

Proporzione del risparmio %

5

10

30

Ammontare del risparmio

25

500

15.000

 

Risparmi annui nuovi, dopo l’imposta:

 

 

Imposta

neutra miglioratrice

Imposta parziale peggioratrice

 

A

B

C

A

B

C

 

 

Redditi netti

594

5.700

54.000

450

4.050

31.500

Proporzione del risparmio %

6

12

35

4

8

20

Ammontare del risparmio

36

700

19.000

18

325

6.300

Saggio d’int. %

4

4

4

6

6

6

Reddito lordo del risparmio

1,44

28

760

1,08

19,50

378

Saggio della imposta %

1

5

10

10

30

Ammontare della imposta

0,01

1,40

76

1,95

113,40

Reddito netto

1,43

26,60

674

1,08

17,55

264,60

Saggio di frutto sul risparmio effettivo

3,96

3,80

3,60

6

5,40

4,20

Saggio del risparmio potenziale che si sarebbe avuto in assenza d’imposta %

5,70

5,32

4,49

4,32

3,51

1,76

 

 

 

L’imposta neutra, crescendo i redditi netti e il nuovo risparmio: primo fa sì che l’erario alla lunga incassi di più di quanto non ottiene con l’imposta parziale; secondo lascia a tutti i contribuenti redditi netti, dopo, pagata l’imposta, notevolmente maggiori; terzo consente che il saggio di frutto dei risparmi effettivamente fatti sia notevolmente minore che non nel caso della imposta parziale. Il che vuol dire che i contribuenti sono spinti ad una maggiore produzione di risparmio e possono quindi contentarsi, pur godendo redditi molto maggiori, di un saggio di interesse minore – 4 invece che 6% – con vantaggio degli imprenditori costretti a cercare capitali a prestito; quarto e contemporaneamente fa godere ai contribuenti minimi e medi un saggio di frutto superiore a quello che avrebbero avuto senza l’imposta, falcidiando solo il saggio di frutto dei contribuenti massimi, non tuttavia in misura perniciosa. Invece l’imposta parziale riduce il saggio di frutto sul risparmio potenziale per tutti i contribuenti e per tutti riduce lo stimolo alla capitalizzazione. Scarso reddito, scemato risparmio, scarso frutto del risparmio, sono tre anelli di una stessa catena, che spinge la società economica verso l’immiserimento progressivo.

 

 

19. – Una applicazione interessante del principio posto sopra (paragrafo 16) che nelle imposte ad aliquota costante il reddito si capitalizza al netto, mentre nelle imposte ad aliquota variabile il reddito si capitalizza al lordo, si ha nel passaggio dall’un sistema all’altro di aliquota. Giova a questo proposito analizzare gli effetti di uno spediente che fu altra volta adoperato e nuovamente si propone per facilitare il passaggio dal metodo dell’aliquota costante a quello dell’aliquota variabile. Voglio accennare al riscatto obbligatorio o facoltativo delle vecchie imposte reali, riscatto voluto sia per fornire un’entrata straordinaria allo stato, sia per facilitare la istituzione di nuove imposte sul reddito o sul patrimonio a tipo personale.[24]

 

 

Per sfrondare il problema da tutti gli elementi non pertinenti strettamente al punto qui discusso suppongo viva ed operante la clausola del rebus sic stantibus; e facendo astrazione dagli effetti che in vario senso può avere l’uso pubblico del provento dell’imposta, suppongo che questo non vari né l’ammontare dei redditi colpiti né il saggio dell’interesse. L’unica circostanza differenziale da prendere in considerazione sia questa: che nell’un caso l’imposta incide sul contribuente colpito (A) e nell’altro intieramente si trasferisce da questo su altra persona (B).

 

 

L’imposta A può essere quella sui terreni agricoli marginali, ovvero l’altra sui fabbricati in una città non progressiva o nei quartieri edilizi privilegiati di una città progressiva, ovvero ancora quella sugli interessi di mutui o sui redditi di imprese commerciali ed industriali in situazioni in cui il trasferimento non sia possibile.

 

 

L’imposta B può essere la fondiaria sui terreni agricoli marginali, ovvero l’altra sui fabbricati nei quartieri non privilegiati (periferici) di una città progressiva, ovvero anche in diverse situazioni l’imposta mobiliare. Numerose situazioni intermedie si possono dare tra A e B, con soluzioni pure intermedie. L’imposta sia del 20% del reddito, il saggio dell’interesse sia del 5% e questo rimanga invariato, per la clausola del rebus sic stantibus, dopo l’imposta. Lo schema seguente mi pare atto a rappresentare la successione degli avvenimenti.

 

 

A

 

B

1. Redditi prima dell’imposta……………………………………………..

5.000

5.000

2. Saggio dell’interesse %………………………………………………………….

5

5

3. Valori capitali prima dell’imposta………………………………………

100.000

100.000

4. Imposta………………………………………………………………….

1.000

1.000

5. Ammontare di cui diminuisce il reddito in conseguenza dell’imposta…………………………………………………………………

1.000

6. Redditi netti dopo l’imposta……………………………………………

4.000

5.000

7. Valori capitali dopo l’imposta………………………………………….

80.000

100.000

8. Prezzo di riscatto dell’imposta di 1.000 lire pagato dai contribuenti al 5 %……………………………………………………………………………………..

20.000

20.000

9. Redditi netti subito dopo il riscatto……………………………………

5.000

6.000

10. Valori capitali id. id……………………………………………………

100.000

120.000

11. Costo capitale dei fabbricati o delle imprese o dei risparmi nuovi atti a fare concorrenza ai capitali già vincolati al momento del riscatto ………………………………………………………………………. 100.000
12. Reddito di cui si possono contentare i capitali nuovi …………………………………………………………………………………….. 5.000
13. Redditi netti definitivi dopo il riscatto e dopo divenuta attiva la concorrenza dei nuovi risparmi…………………………………………..

5.000

5.000

14. Valori capitali definitivi id. id………………………………………….

100.000

100.000

15. Perdita subita dai contribuenti in conseguenza del riscatto………

20.000

 

 

Se per parafrasare l’argomentazione, noi supponiamo che A sia una casa centrale, in cui il fitto di lire 5.000 sia il massimo che il proprietario può ottenere, con e senza l’imposta, data la sua situazione privilegiata e B sia una casa periferica in cui il fitto è adeguato al costo di produzione di nuove case nelle vicinanze, noi vediamo che l’imposta 1.000 non è trasferita nel caso A, il cui proprietario già otteneva il massimo, sicché il reddito netto scema a 4.000; mentre è intieramente trasferita nel caso B, sicché il fitto cresce da 5.000 a 6.000 e, sotto detrazione di 1.000 lire d’imposta, torna a dar luogo al reddito netto di 5.000. Le due case, dopo l’imposta, si capitalizzano in 80.000 e 100.000 rispettivamente. Il proprietario di A perde 20.000, quello di B non perde nulla. Se ora si fa l’operazione di riscatto, apparentemente lo stato si comporta in modo equo, condonando ad amendue il pagamento dell’imposta annua perpetua di lire 1.000 e chiedendo il prezzo di riscatto di L. 20.000. In un primo momento il reddito netto cresce di 1.000 per amendue, a 5.000 per A ed a 6.000 per B; ed i rispettivi valori capitali a 100.000 e 120.000. Né l’uno né l’altro ha perso alcunché ed amendue si trovano in una situazione rispettivamente invariata.

 

 

Ma il processo non si ferma a questo punto; ché le case nuove, alla periferia, continuano a fabbricarsi all’antico costo di lire 100.000; e poiché il saggio dell’interesse è rimasto al 5 per cento, i costruttori si possono contentare di un reddito netto di lire 5.000. Le nuove imposte, di cui lo stato avrà bisogno per far fronte all’incremento delle spese pubbliche sono a tipo personale, ad aliquota variabile; e la capitalizzazione di esse non si fa sul netto ma sul lordo; e quindi d’or innanzi L. 5.000 di reddito annuo valgono in capitale lire 100.000, anche se il loro percettore dovrà pagare un’imposta parziale variabile a seconda delle sue particolari condizioni. Quindi le case nuove del costo di lire 100.000 che si possono affittare al prezzo annuo di lire 5.000 fanno concorrenza alle analoghe case periferiche (B). Il fitto di queste non può sostenersi a lire 6.000, ma deve cadere a 5.000; ed il valore capitale deve discendere nuovamente a 100.000 lire. Ecco che il proprietario di B, il quale aveva sborsato il prezzo di riscatto di lire 20.000 nella speranza di avere, per il cessato pagamento dell’imposta, un aumento di reddito di lire 1.000, si vede sfumare tra mano l’incremento di reddito e perde il capitale sborsato. Da tal sciagura rimane esente il proprietario di A, il quale non era stato prima in grado di crescere il suo reddito oltre 1.000 quando era stato colpito dall’imposta 1.000, perché già aveva toccato il massimo consentito dalla sua situazione monopolistica; ne v’è ragione che dopo rinunci al fitto di 5.000 lire, il quale continua per lui ad essere il massimo reddito ottenibile e perciò quello effettivamente ottenuto. La perdita in valor capitale per B e l’alterazione nei rapporti tra A e B non si sarebbero verificate se il riscatto non fosse avvenuto e se lo stato avesse seguitato a prelevare sulle case nuove costruende l’imposta reale di 1.000 lire.

 

 

Pare perciò di poter concludere validamente che, fatta l’ipotesi del rebus sic stantibus, l’operazione del riscatto non rende ossequio al canone dell’uguaglianza. Il riscatto produce conseguenze scorrette se applicato a B; e pare applicabile solo ad A. Se noi supponiamo invero abolite le imposte reali per tutti i contribuenti e reso obbligatorio il riscatto solo per i casi del tipo A, noi otteniamo i risultati seguenti (dove si rinvia, per le linee da 1 a 7, allo schema precedente):

 

 

A

 

B

8. Prezzo di riscatto dell’imposta di 1.000 lire pagata dai contribuenti al 5% ……………………………………………………………………….

20.000

9. Redditi subito dopo il riscatto …………………………………………

5.000

6.000

10. Valori capitali ………………………………………………………….

100.000

120.000

11. Costo capitale dei fabbricati nuovi atti a far concorrenza ai fabbricati già costrutti al momento del riscatto ………………….100.000

12. Reddito di cui si possono contentare i fabbricati nuovi…….5.000

13. Redditi netti definitivi dopo il riscatto e dopo divenuta attiva la concorrenza dei nuovi fabbricati ………………………………………..

5.000

5.000

14. Valore capitali definitivi c.s. …………………………………………

100.000

100.000

15. Perdita subita o guadagno ottenuto dai contribuenti in conseguenza del riscatto ………………………………………………..

 

 

Ragione vorrebbe perciò che l’abolizione delle imposte reali vigenti fosse generale e l’obbligo del riscatto fosse limitato ai casi A. Non è compito di questa nota indagare se, entro questi limiti, l’operazione del riscatto sia conveniente per lo stato e possibile praticamente, a causa dell’arbitrio insito nel giudizio di separazione tra i casi A ed i B. Sembra dubbia la possibilità di trovare periti atti a giudicare con sicura coscienza un problema così arduo teoricamente e così intricato in concreto. Ma è interessante rilevare come questa difficoltà, fin qui non avvertita in modo preciso, sia stata forse lo scoglio inconsapevole contro cui si sono infranti i tentativi di riscatto non strettamente limitato ai casi del tipo A o ad essi vicinissimi.

 

 

Quale sia il processo che si verificherebbe quando non si supponesse valida la clausola del rebus sic stantibus, non è agevole dire. Tutte le numerose circostanze che nel decorso della presente nota furono esaminate e si vede essere feconde di risultanze svariate in sensi diversi dovrebbero infatti ad una ad una essere riprese in esame per esaminarne le interferenze con le due ipotesi, A e B, dell’incidenza e traslazione dell’imposta. Campo che si annuncia fecondo di illazioni forse impensate e che gioverebbe perciò esplorare a fondo. Per ora mi basti averlo additato, e mi sia consentito di affermare la necessità di distinguere, anche fatta la premessa del rebus sic non stantibus, attentamente i casi A dai casi B nel giudicare degli effetti dell’operazione di riscatto.

 

 

20. – L’imposta sul reddito può prendere la forma di una imposta repartita in ragione del valore capitale da cui il reddito deriva o che al reddito corrisponde. Non si vuole qui studiare compiutamente il problema dell’ammortamento delle imposte così repartite; ma solo di considerare, in tal proposito, il diverso comportamento dell’imposta a seconda che si assuma, a base di ripartizione, il valore nominale ovvero il valore corrente del capitale tassato.

 

 

Allo scopo di non complicare l’argomentazione, supponiamo: – valida la premessa del rebus sic stantibus – generale l’imposta – percossi i capitali di qualunque specie, fruttiferi ed infruttiferi, vincolati e disponibili, antichi e nuovi. Per brevità si tacciono le correzioni – del resto agevoli a calcolarsi – derivanti dai diversi possibili scostamenti dall’ipotesi fatta.

 

 

Facciasi prima il caso dei redditi fissi. Sia un reddito annuo perpetuo di 5 e sia del 5 per cento il saggio corrente di interesse. Quest’annualità di reddito, ove non fosse decurtata dall’imposta avrebbe un valore capitale di 100.

 

 

Se il valor capitale percosso è quello nominale, la capitalizzazione del reddito avviene in base alla formula:

 

 

[1] C = (r – t) x 100

 

 

dove C è il valor capitale corrente del titolo

 

r è il reddito annuo perpetuo del titolo

 

t è l’imposta annua perpetua gravante sul titolo

 

i è il saggio corrente dell’interesse per ogni 100 lire.

 

 

Se facciamo r = i = 5 (per ogni cento lire), e diamo successivamente a t i valori 0, 1, 2, 3, 4 e 5, abbiamo, applicando, che C assume successivamente i valori 100, 80, 60, 40, 20 e zero. A questo punto, ossia quando il saggio dell’imposta annua perpetua, 5 per ogni 100 lire di valor capitale nominale, è uguale al saggio di frutto, ossia al rapporto fra il reddito 5 ed il valor capitale nominale, il reddito netto viene tutto assorbito dall’imposta, e si riduce a zero. Un reddito zero non ha alcun valor capitale. Converrebbe perciò al proprietario abbandonare il titolo, che gli dà diritto di percepire il reddito di 5, non essendo per lui conveniente aver la noia, pur minima, di amministrarlo, per avere un reddito zero. A fortiori, nessuno amando i redditi negativi, l’abbandono si imporrebbe, ove il saggio dell’imposta fosse maggiore del saggio di frutto.

 

 

Solo se il reddito fosse duraturo, e l’imposta temporanea, converrebbe al possessore del titolo conservare questo anche quando il saggio dell’imposta fosse superiore al saggio di frutto.

 

 

Un’imposta straordinaria, per una volta tanto, sul valor capitale nominale, costringerebbe invece il proprietario all’abbandono del titolo solo quando il suo ammontare superasse il valore attuale risultante dallo sconto, al saggio di interesse corrente, del prezzo di rimborso del titolo e delle intercorrenti annualità di reddito. In pratica, siccome il mercato in qualunque momento apprezza questi valori attuali, l’imposta sul capitale nominale costringe all’abbandono del titolo solo quando il suo ammontare, ridotto a valore attuale, sia uguale al prezzo corrente del titolo, comprensivo dei dietimi trascorsi di interessi. Vi è, dunque, sempre un punto che l’imposta sui valori capitali nominali non può superare, ed è quello che rende il valore attuale dell’imposta uguale al valore attuale o prezzo corrente del titolo. Se quel punto è superato, il contribuente ha interesse all’abbandono del titolo; il che vuol dire appunto che lo stato non può assorbire coll’imposta, in una volta sola od a rate, un valore superiore al valore attuale del titolo.

 

 

Se, invece, il valor capitale percosso dall’imposta è quello corrente, il reddito netto residuo per il proprietario del titolo non può mai ridursi a zero e non è quindi mai conveniente l’abbandono del titolo. Invero, se noi facciamo:

 

 

C = valore capitale corrente del titolo

 

r = reddito annuo perpetuo del titolo

 

i = saggio dell’interesse per ogni 100 lire

 

s = saggio dell’imposta per ogni 100 lire

 

si ha:

 

[2]  C = (r x 100) / (i + s)

 

 

dove s non è più un ammontare fisso, calcolabile direttamente in base al valor capitale nominale e deducibile da r per avere il reddito netto residuo da capitalizzare, come t era in [1], ma è una quantità variabile, il cui saggio è fissato dal legislatore ed il cui ammontare è in funzione del valore di C. L’imposta diventa un’aggiunta al saggio dell’interesse i ed in base alla somma di i e di s bisogna capitalizzare il reddito r del titolo.

 

 

Se facciamo r sempre uguale a 5,  per cento e diamo, successivamente, ad s i valori 0, 1, 2, 3, 4, 5, 10, 100 e 1.000&, C assumerà i seguenti valori:

 

 

 

 

 

 

 

C diventa piccolissimo, ma non si annulla mai. Anche quando il saggio dell’imposta annua diventa del 1.000% del valor capitale corrente e sembra a primo aspetto assurdo che il contribuente la possa sopportare, si ha che la capitalizzazione del reddito di 5 lire annue avviene in base alla somma del saggio corrente dell’interesse 5 per cento e del saggio corrente dell’imposta 1.000 per cento. Il contribuente deve ogni anno, per aver convenienza a tenere il titolo tassato a quella stravagante stregua del 1.000 per cento, lucrare un reddito lordo del 1.005 per cento sul valor capitale corrente, di cui 1.000 trasferisce allo stato e 5 tiene per sé. Ma se 1.005 per cento è il saggio di capitalizzazione del reddito 5, il valor capitale corrente in base alla formula C = (r x 100) / (i + s), risulta di 0,49751. Ed infatti un’imposta del 1.000% su un valore capitale di 0,49751 – questa invero è la base imponibile di un tributo gravante sul valor capitale corrente – è di 4.9751. Poiché il reddito del titolo è di 5, rimane al proprietario, dopo aver pagata l’imposta di 4,9751, un reddito residuo netto di 0,0249 che è precisamente il 5% del capitale di 0,49751. Il titolo, del nominale di 100 lire, vale correntemente solo 49 centesimi circa ed a tal prezzo continua a negoziarsi, perché frutta l’interesse corrente del 5% e cioè di 2 centesimi e mezzo circa. Il nuovo acquirente non è danneggiato dal pagamento di un’imposta del 1.000% più di quanto lo sarebbe da un’imposta dell’1 o dello 0,10%.

 

 

L’imposta può colpire redditi variabili: dividendi di azioni, frutti di terre, case, industrie. Qui è più difficile ragionarne l’aliquota in base al valor capitale nominale, che esiste solo per le azioni; ma non impossibile. Il legislatore può invero fissare arbitrariamente un valor capitale nominale dei beni e far variare l’imposta in base a quel valore arbitrario. È il caso di molte imposte antiche, a carattere catastale, per cui non si fecero da tempo revisioni dei valori imponibili. Di solito però riconoscendosi ben presto che il valore capitale nominale non ha alcun rapporto con la realtà, si preferisce ragionar l’imposta in base al valor capitale corrente, più agevole a determinarsi e spesso il solo conosciuto, contrariamente a quanto accade per i redditi fissi (obbligazioni, cartelle fondiarie, capitali dati a mutuo) per cui il capitale nominale è un valore sempre noto, mentre spesso il capitale corrente è un valore ignoto, specie per i capitali dati a mutuo, le rendite fondiarie perpetue e valori simili, per cui non esiste un mercato con negoziazioni frequenti.

 

 

A parte questa avvertenza, sembra che gli effetti dell’imposta siano, in principio, gli stessi per i redditi variabili che per i redditi fissi. Le divergenze si riducono alle seguenti:

 

 

Se l’imposta è ragionata in base ad un valore capitale nominale qualunque, il calcolo della convenienza dell’abbandono del titolo comporta qualche rischio ignoto per i redditi fissi. Per questi, l’abbandono conviene quando il saggio dell’imposta diventa uguale al saggio di frutto. Se il reddito è 5 e l’imposta è anche 5, il valor capitale del titolo diventa zero. Per i redditi variabili non basta che, essendo 5 il reddito presente, l’imposta sia 5, per consigliare l’abbandono del titolo. Può darsi che il contribuente preveda un rialzo futuro del reddito al disopra di 5; nel qual caso a lui converrà tenere il titolo, sebbene il reddito attuale netto sia zero. Anche un’imposta maggiore del reddito non è sufficiente a consigliare l’abbandono del titolo, quando si prevede un aumento futuro, più che compensatore, del reddito. Conversamente non è consigliabile l’abbandono del titolo ancor prima che l’imposta uguagli il reddito, solo perché si prevede che, rimanendo ferma l’imposta, il reddito si ridurrà al disotto dell’imposta. Conviene infatti al contribuente godere il residuo attivo finché può essere percepito, salvo a fare l’abbandono del titolo, quando le due quantità, r e t siano divenute uguali.

 

 

Se l’imposta è stabilita in base al valore capitale corrente, la complicazione sta tutta nel ridurre i valori futuri annui di r, variabili di anno in anno, ad un valore r costante nel tempo. Di solito, i contraenti fanno questa riduzione in modo empirico, nelle borse e nei mercati dei valori fondiarii. In ogni dato momento, gli uomini, a torto od a ragione, stimano che quell’azione, quella casa, quella terra siano feconde di un reddito avvenire dato e per la sua capitalizzazione applicano un dato tasso d’interesse. La formula usata, in caso di imposta s stabilita sul valore capitale corrente, è sempre la [2]. I valori C sono probabilmente più oscillanti di quanto non accade nel caso di redditi fissi; ma la variabilità è maggiore anche quando non esiste l’imposta.

 

 

Le osservazioni fatte fin qui dimostrano come bene a ragione i legislatori preferiscano le imposte sul valor capitale corrente a quelle sul nominale. A parità di aliquota, la tendenza delle prime a scemare i valori capitali è assai meno accentuata di quella delle seconde. Valga il confronto:

 

 

Il valore capitale corrente per ogni 100 lire di valor nominale (fatto )

 

Se l’imposta è del:

 

nel caso di imposta sul valor capitale nominale è di:

nel caso di imposta sul valor capitale corrente è di:

0%

100

100

1%

80

83,33

2%

60

71,42

3%

40

62,50

4%

20

55,55

5%

0

50

 

 

 

Il momento della convenienza dell’abbandono non giunge mai nel tipo di imposta sui valori correnti ed i contribuenti conservano sempre un certo interesse a mantenere l’impiego. Ciò per i capitali esistenti. Per i capitali nuovi, che si vanno via via formando dopo l’introduzione dell’imposta, anche senza entrare nel vivo del problema, basti osservare genericamente che lo stimolo a risparmiare è più vivo e dura più a lungo col tipo dell’imposta sui valori correnti che con quella sui valori nominali.

 

 

Ragionando della convenienza da parte del contribuente di abbandonare il bene fecondo di reddito, sempre si è supposto che l’abbandono fosse giuridicamente possibile. L’ipotesi è la deduzione logica delle norme contenute in tutte le legislazioni per l’espropriazione dei beni appartenenti ai contribuenti morosi. Se l’imposta ha carattere reale, l’abbandono può farsi per ogni bene singolo. Se personale, deve riferirsi a tutto il patrimonio del contribuente, tutto essendo soggetto all’obbligo tributario.

 


[1] Ristampato parzialmente con il titolo La teoria sociologica della finanza in Il buongoverno. Saggi di economia e politica (1897-1954), Laterza, Bari, 1954, pp. 15-21 [ndr.]

[2] T.S. Adams, Tax Exemption through Tax Capitalization (in «The American Economic Review», June 1916, pagg. 271-287) ed Edwin R.A. Seligman, Tax Exemption through Tax Capitalization: A Reply (id., december 1916, pagg. 790-807).

[3] Salvo le eccezioni che verranno dette in seguito. Sul carattere pacifico della dottrina, cfr. B. Griziotti, Teoria dell’ammortamento delle imposte e sue applicazioni (in «Giornale degli economisti», gennaio, febbraio ed aprile 1918, paragrafo 11).

[4] Cfr. The shifting and incidence of taxation, terza ed., New York, 1910, 221-222 e 223.

[5] Ho voluto riprodurre le parole con cui lo Seligman elegantemente espone questo punto della teoria dominante dell’ammortamento, in The Income Tax, New York, 1911, pagg. 605.

[6] Uno spostamento può verificarsi solo nel periodo di tempo corrente fra la prima previsione dell’imposta futura e la sua deliberazione definitiva. Ma da esso si può qui fare astrazione, perché è un mezzo per non pagare l’imposta. Argomento degno di studio, ma diverso da quello che qui ci occupa degli effetti di una imposta oramai assisa e pagata di fatto in misura uguale a quella voluta dal legislatore.

[7] In Shifting, pag. 328; e nella trad. it. in «Biblioteca dell’Economista», serie V, vol. XVI, pag. 211.

[8] John Stuart Mill, Principles of Political Economy, lib. V, cap. III, paragrafo 3.

[9] F.Y. Edgeworth, The pure theory of taxation, in «Economic Journal», VII (1897), pag. 49; tradotto in «Biblioteca dell’Economista», serie V, vol. XVI, pag. 287.

[10] Cesare Jarach, Gli effetti di una imposta generale ed uniforme sui profitti (in «Atti della R. Accademia delle scienze di Torino», vol. XLVI, pag. 13 e segg. dell’estratto).

[11] Gino Borgatta, L’Economia dinamica. Studio critico su i problemi dinamici nell’economia pura, Torino, U.T.E.T., pag. 374-411, passim. Il volume del Borgatta non è ancora reso di pubblica ragione; ma le pagine da 1 a 358 furono date in visione a me ed a parecchi altri studiosi e presentate a concorsi fin dal dic. 1914; quelle da pag. 359 a 457 dall’estate del 1915.

[12] Benvenuto Griziotti, Teoria dell’ammortamento delle imposte e sue applicazioni. Estratto dal «Giornale degli economisti e rivista di statistica» gennaio, febbraio, aprile 1918, «Athenaeum», Roma, 1918.

[13] Per tutte le questioni relative al canone dell’«uguaglianza» in tema di tributi ed alla doppia tassazione del risparmio mi riferisco, per brevità, alla citata mia memoria, qui sopra ristampata, Intorno al concetto ecc., passim.

[14] L’espressione è di M. Pantaleoni in Scritti varii di economia, Palermo, 1904, pag. 155. Si veggano però sotto (paragrafo 9) osservazioni dimostranti che anche l’imposta taglia produce effetti assai vantaggiosi in confronto all’assenza dell’imposta. Gli effetti considerati nel testo dell’imposta taglia sono quelli che si avrebbero ai margini (cfr. sotto paragrafo 12).

[15] Gino Borgatta, L’Economia dinamica cit., pag. 370 e segg.; passim: «Negli individui cui sono assorbite porzioni di reddito per le spese pubbliche o che godono scientemente e, più spesso inconsapevolmente i servizi resi dagli enti pubblici, non esiste una nozione ed un calcolo complessivo, per quanto poco approssimativo, della utilità, nel rapporto al loro sistema di bisogni, dei servizi rendibili dall’ente pubblico, dei procedimenti da compiere per farli produrre nel modo più economico, né lo svolgimento d’un’attività logica diretta a questa massima soddisfazione attraverso la personale partecipazione al meccanismo politico scelta dei rappresentanti governanti, reazioni, giudizi, influenze sulla loro azione. I servizi e beni pubblici non fanno che per gruppi limitatissimi parte dei sistemi di utilità soggettivamente rappresentate e valutate. Come è impossibile alla stessa scienza, cioè ad uno studio metodico e generale del fenomeno, un calcolo, per quanto grossolano, dell’utilità economica dei servizi ed organizzazione pubblica mantenuta e resa possibile dai proventi fiscali, a tanto maggior ragione è inconcepibile una valutazione individuale dell’utilità nei processi indivisi non valutabili nel loro effetto complessivo… L’immensa maggioranza degli individui ha una nozione affatto vaga, limitata, unilaterale, imprecisa, se non inesistente, dell’organismo politico e della sua azione come organo economico produttore diretto o complementare di servizi utili… I rapporti attivi della maggioranza nella formazione dei pretesi gruppi delegati a capo dell’organizzazione politica non si svolgono che rarissimamente e per zone limitate di rapporti, sulla base di ragionamenti di calcolo dell’utilità economica e dei costi finanziari dei servizi che i gruppi dirigenti produrranno. La partecipazione al fenomeno politico avviene attraverso moventi sentimentali – politici, giuridici, sociali, religiosi – nei quali il problema finanziario entra bensì spesso, ma non come oggetto di un calcolo rigoroso da parte di maggioranze amministrate e gruppi dirigenti, di elettori ed eletti, piuttosto come un elemento atto ad usufruire e partecipare ai moventi sentimentali che dominano l’equilibrio, i rapporti, i movimenti di gruppi politici».

[16] «The taxable capacity of any community may be briefly defined as the surplus produce of the people above what is necessary to maintain existence according to the standard of life prevailing at the time in the country concerned». Principles of Finance, pag. 241. È il saggio quinto di una serie su The Art of Economic Development pubblicata da H. Stanley Jevons nel suo «Indian Journal of Economics», numeri 5 e 6.

[17] Il teorema ora dimostrato può spiegare la ragione per la quale non di rado le previsioni di diminuzione dei redditi e dei valori capitali in seguito a forti inasprimenti di imposta non si sono verificate. In mezzo all’intrecciarsi dei fatti sociali, i quali non permettono per lo più di individuare la causa determinante di un dato movimento economico, non è azzardato notare che forse la mancata verifica derivò dall’essere stata l’imposta destinata all’uso di massima fecondità od almeno ad un uso di rilevante fecondità relativa; sicché sarebbe stato assurdo che i redditi ed i valori capitali scemassero. Dovevano logicamente aumentare. Era sbagliata la previsione, perché derivata da erronee premesse teoriche.

[18] Per la dimostrazione che questo tipo di imposta non contraddice all’ipotesi dell’imposta neutra, vedi paragrafo 5, in fine.

[19] Questa è una delle spiegazioni che possono darsi del lento sviluppo economico italiano fin verso il 1898 e di quello più rapido avvenuto in seguito. Non fa d’uopo ricordare che altre spiegazioni sono anche vere e, insieme con quella, concorrono a spiegare il fatto concreto. Riterrei però scorretto non tener conto del lento accumularsi ed improvviso esplodere degli effetti del fattore «unificazione nazionale» quando si voglia dare un giudizio compiuto della recente storia politica ed economica del nostro paese.

[20] Cito da pag. 55 dello studio di Achille Necco, Il corso dei titoli di borsa in Italia dal 1861 al 1912, Torino, 1915.

[21] Fin qui il Griziotti nella citata Teoria dell’ammortamento, ecc., pag. 9 dell’estratto.

[22] F.Y. EDGEWORTH, A Levy on Capital for the discharge of debt, Oxford, 1919, pag. 24.

[23] Così si ribadiscono le osservazioni che altrove (Memoria citata Intorno al concetto, ecc.; cfr. sopra, a p. 157 e segg. della presente ristampa) avevo fatto per dimostrare la convenienza degli stati a seguire le regole dell’uguaglianza tributaria e a tenersi lontani dalle imposte parziali ed odiose. La fuga dei capitali all’estero presso gli stati cuscinetto fa invero avvertiti dell’errore commesso gli stati trasgressori delle buone norme tributarie e li invita a ripararlo con loro vantaggio definitivo. A torto il Griziotti (in L’imposta sulla ricchezza dopo la guerra in «Giornale degli economisti», febbr. 1919, p. 135) accusa questa teoria quasi d’immoralità. Poiché immorale è ciò che produce il danno del proprio paese, non la norma che ne vuole il vantaggio. È immorale il sistema che, di fronte ad un fabbisogno pubblico di 3 o di 7 o di 10 miliardi all’anno, provoca, per la sua parzialità e disuguaglianza, la materia imponibile alla fuga e quindi immiserisce il paese e lo rende sempre meno capace di far fronte ai suoi impieghi. Ed è morale soltanto il sistema opposto, che per la sua neutralità ed ossequio all’eguaglianza, cresce la materia imponibile e facilita il compito dello statista. Così va impostato il problema e non altrimenti. Ove fosse ufficio della scienza applicata di lodare o biasimar qualcuno, dovrebbero essere biasimati i governanti che deliberano le imposte odiose e confiscatrici. Chi reputi antiscientifiche le parole «lode» o «biasimo» adoperi le altre: «constatare l’esistenza di azioni utili o dannose al paese i cui legislatori stabiliscono imposte neutre o parziali». Ad ogni modo è certo che la teoria degli stati cuscinetto è essenziale per la pubblica finanza; e che nessuna taccia di immoralismo si può attaccare a coloro i quali constatano fatti reali, non controvertibili. Sembra inoltre che possa essere chiamata «idealistica» solo quella teoria la quale dichiara le norme, con cui osservando la giustizia comparativa sia possibile di impedire l’immiserimento del proprio paese. Il che è tanto più necessario oggi, quando l’aumento della produzione e del risparmio è l’unico mezzo con cui si possa far fronte al peso gravissimo di tributi determinato dalla guerra.

[24] Su questo argomento, rinvio alla ottima monografia già citata di Benvenuto Griziotti, Teoria dell’ammortamento delle imposte e sue applicazioni, nella quale l’A. studia largamente gli esempi storici di riscatti effettuati (Pitt, in Inghilterra, 1798), tentati (Gianni, in Toscana, 1788), proposti (Scialoja, in Italia, 1866) e fa proposte sue per il riscatto delle vigenti imposte e sovrimposte italiane sui terreni, sui fabbricati e cat. A1, A2 e B della imposta sui redditi di ricchezza mobile. Sembra a me che le considerazioni esposte in questo paragrafo del testo della presente memoria consiglino a riprendere in esame la proposta di riscatto, così da distinguere gli effetti che essa avrebbe per i tributi o le parti di tributo incidenti sui contribuenti legali da quelli che essa avrebbe per i tributi o le parti di tributo probabilmente trasferiti in tutto od in parte sugli inquilini, o sui consumatori di capitali o di merci vendute dai contribuenti legali. Il Griziotti a pag. 7-8 della sua monografia ha chiaramente ricordato che non sempre le imposte reali hanno per effetto di ridurre il valore del capitale il cui reddito è oggetto di imposizione citando appunto l’esempio dell’imposta sui fabbricati, la quale entro certi limiti ed in certi casi viene trasferita sugli inquilini. A pag. 11 ha ricordato il caso dell’imposta sugli interessi dei mutui. Ma a queste riaffermazioni dei principi correnti della teoria della traslazione tributaria non pare abbia più posto mente nella elaborazione delle sue proposte concrete di riscatto delle imposte italiane; poiché esse si estendono a tutto l’ammontare delle citate imposte, senza alcuna eccezione (cfr. paragrafi 52-53, pag. 91-94). Ripetutamente l’A. ha affermato che l’operazione di riscatto non ha per iscopo di stabilire una nuova imposta, ma solo di commutare un onere annuo ripetuto nel corrispondente pagamento di una somma capitale per una volta tanto: «Poiché i proprietari acquistano e vendono la loro proprietà a prezzo inferiore di quanto varrebbe, se non fosse gravata di imposta, essi possono senza sacrificio pagare il capitale corrispondente al tributo, pur di liberarsi dall’onere annuo relativo» (paragrafo 28, pag. 57)… «Posto che per il proprietario di un terreno la consolidazione della fondiaria è un fatto già avvenuto e che perciò il riscatto, obbligatorio o facoltativo, del tributo non crea un nuovo onere né produce sperequazioni tra contribuenti…» (paragrafo 29, pag. 62) …«Innanzi tutto è da escludersi il carattere di confisca nel riscatto della fondiaria, perché esso non fa che trasformare in una operazione finanziaria uno stato di fatto, che si era prodotto coll’imposta fondiaria (paragrafo 29, pag. 63). Dalle quali dichiarazioni si deduce, come del resto è pacifico, che il riscatto non deve imporre al contribuente un onere nuovo, un sacrificio diverso e maggiore da quello prima subito, ma solo trasformare un onere ripartito in un certo numero di annualità in un onere unico immediato; né esso deve mutare la situazione rispettiva preesistente dei contribuenti, ma conservare invariata la situazione di prima, che, se in origine era sperequata, col tempo ha cessato di esserlo. Il Griziotti, che pure aveva nella prima parte dello studio premesso che l’ammortamento non sempre si verifica, nell’applicare le sue premesse ha senz’altro supposto possibile il riscatto dell’imposta anche nei casi in cui l’ammortamento non può verificarsi. Perciò le sue proposte, contrariamente alle sue espresse intenzioni, creano nuovi oneri e, creandoli solo per taluni contribuenti, producono nuove sperequazioni. Risultato non voluto e tale da doversi evitare.

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