Opera Omnia Luigi Einaudi

Ancora il commento al programma. L’Europa di domani

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 13/05/1944

Ancora il commento al programma. L’Europa di domani

«L’Italia e il secondo Risorgimento», 13 maggio 1944

 

 

 

A proposito dei Lineamenti di un programma liberale e del Commento al programma, pubblichiamo una lettera pervenutaci da uno dei nostri più acuti lettori e una parte della risposta, dell’autore «Junius». La mancanza di spazio ci obbliga a rimandare al prossimo numero la risposta alla seconda delle domande dell’«uomo della strada», quella sull’ordinamento dei partiti.

 

 

Signor Direttore,

 

 

Il programma liberale, così come enunciato nell’ultimo numero del Suo giornale, è indubbiamente di alto interesse generale e di ispirazione organicamente unitaria. È lecito, a «un terzo», però di fare qualche domanda, a titolo di orientamento, non solo personale?

 

 

Se c’è una cosa, in tanta incertezza di prospettive, sicura, mi pare questa: la vita interna particolarmente italiana, sarà, in gran parte, determinata dal trattato di pace.

 

 

Ora, sul problema della pace (pace procedura e pace merito), che sarà il primo a porsi in ordine cronologico, come è l’antecedente necessario nell’ordine logico e politico, nessun rilievo diretto e specifico, nel vostro programma, se si ritenga che il problema della pace sia più vasto e comprensivo di quello dei rapporti internazionali, commerciali ed economici.

 

 

Smuts? Hull? Layton? Koudenovhe Kalergi? Il progetto dei duecento giuristi americani canadesi? Società della Nazioni? Direttorio Europeo o mondiale?

 

 

Vedete che accenno soltanto a direttive generalissime, sulle quali l’opinione pubblica dei vari paesi ha pur detto qualche cosa: sulle quali dicono qualche cosa i programmi di altri partiti italiani: quello del partito democratico cristiano, quello del partito d’azione, per esempio. Non mi pare si possa rispondere che non saranno i partiti italiani a decidere il problema della pace: nessuna opinione pubblica ha, mai, deciso al riguardo.

 

 

Ma è compito dei partiti e dell’opinione di preparare, di indirizzare, le decisioni degli organismi responsabili. In un momento storico e politico nel quale, dopo una guerra imposta dai regimi totalitarii, sarebbe stato lecito supporre che il mondo fosse per avviarsi, anziché al più Stato, al meno Stato; e nel quale, invece, si nota, purtroppo, una corsa ad aprioristiche statizzazioni o socializzazioni, dove è visibile la preoccupazione più di economia elettorale, che di etica politica; preoccupazione assai poco … estetica, è, al contrario, assai apprezzabile il vostro programma risolutamente avverso ad un andazzo, che si risolverà in una nefasta menzogna convenzionale; e in un dumping, vero e proprio.

 

 

Ma la lotta che, nel campo economico, voi vi proponete di condurre contro il vincolismo protezionistico dei varii monopolii, larvati e palesi, capitalisti e proletarii, non la vedo neppure adombrata sul terreno specificamente politico.

 

 

Così altro problema, su cui alto è il silenzio del vostro programma, è il problema, ch’io reputo basilare, per l’effettivo progresso di una democrazia non mentita, ed è il problema dell’ordinamento dei partiti. Finché del nucleo partito – che è cellula di tutto l’ordinamento libero, elettorale e parlamentare – non si sarà fatta una reale e leale democrazia, basata sul contraddittorio, sulla pubblicità, sull’effettività dei consensi, delle adesioni, in un tipo generale di vincolo, che sia altrettanto saldo sulla ragione sociale che rispettoso di onesta indipendenza in tutte le questioni particolari, che non la implicano; in modo che la vita politica vissuta non sia aduggiata dall’impero di equivoci centoni, estesi omnibus rebus et quibusdam aliis, a profitto di dittature interne, se non anche di collocamenti personali e senza alcun valore di legittimità gerarchica e di significazione rappresentativa; sarà vano sperare in una elevazione e rinnovazione del costume politico.

 

 

È questo un problema, che si impone a tutti i partiti: ma specialmente a un partito, il quale, benemerito per aver dato, in passato, la costituzione libera agli Stati, dovrebbe, in modo affatto particolare, preoccuparsi di ottenerla, a quelle forze che, non deviate in simonie, (dove le idee non entrano più), sono insieme l’espressione ed il presupposto dell’autogoverno, ossia della libertà, la quale dovrebbe, qualche po’, interessare il partito … liberale!

 

 

Un uomo della strada

 

Quando le idee sono nell’aria, è naturale che nel tempo stesso, senza che l’uno sappia dell’altro, parecchi riflettano e discutano intorno ai medesimi problemi.

 

 

Mentre l’uomo della strada illustrava la importanza del problema della pace, il supplemento del sabato scorso pubblicava un mio «commento al programma» nel quale implicitamente era data la risposta, od una prima risposta, allo interrogativo: come organizzare la pace, con una federazione o con una società delle nazioni, con una federazione di un tipo o di un altro?

 

 

Nel commento di sabato scorso, a proposito della lotta contro i monopoli o, per parlare chiaro, contro il banditismo economico nazionale, cercavo di chiarire come la lotta presupponga l’abolizione delle dogane protettive e degli altri vincoli al commercio internazionale e la abolizione a sua volta escluda la soluzione di una nuova Società delle nazioni ed imponga quella della Lega doganale. Poiché può non essere evidente a primo tratto la connessione fra il problema della pace e l’istituzione di una lega doganale, sembra utile qui esporre il punto essenziale del problema.

 

 

Le soluzioni concrete possono essere molte e diverse. Perché deve essere esclusa la soluzione di una nuova società della nazioni? Scelta la soluzione federativa, questa si riferirà a tutta l’Europa od ai soli paesi occidentali?

 

 

Quale parte vi potrà avere l’Inghilterra? La Russia vorrà o potrà fare parte di una federazione europea? Se sarà assente, quali saranno le possibilità di una federazione europea? Problemi gravissimi, i quali dovrebbero essere discussi nei rapporti con gli ideali e con gli interessi dell’Italia.

 

 

Frattanto, poiché non si può discutere in un articolo di tutto ed è gran mercé se si riesce a dir qualcosa su un problema solo alla volta, mi limiterò a dire quale sia la ragione essenziale per la quale chi voglia pace sul serio non deve più parlare di società di nazioni ma esclusivamente di federazione. Società delle nazioni vuol dire guerra; e solo la federazione può essere garanzia di pace. Società delle Nazioni vuol dire guerra, è sinonimo di guerra, perché essa consacra l’idea nefasta dello stato sovrano, l’idea dello stato chiuso in se stesso, il quale può far tutto entro i limiti del territorio nazionale; tutto fuorché, come si disse della Camera dei Comuni, mutare l’uomo in donna o viceversa.

 

 

Che l’idea della società delle nazioni consacri l’altra idea dello stato sovrano è manifesto se si pensa che essa è composta delle rappresentanze non degli uomini viventi sul territorio di stati diversi, ma dei rappresentanti degli stati medesimi. Ogni stato che faccia parte di una società delle nazioni conserva la sua sovranità, un esercito proprio. La finanza propria, propria dogana, propria moneta. Sia che alla validità delle deliberazioni della società delle nazioni occorra, come nella defunta società creata col trattato di Versailles, la unanimità degli stati votanti, sia che basti una maggioranza di numero o di peso, della metà più uno o dei due terzi o di altra proporzione, sempre accadrà che lo stato recalcitrante non possa essere coatto ad adempiere ai suoi obblighi se non con la guerra.

 

 

Sempre accadrà che la società debba chiedere agli stati sovrani associati contingenti di denari e di soldati: sempre accadrà che i contingenti siano forniti lentamente, di mala voglia o nient’affatto: e sempre accadrà che lo stato ribelle abbia partita vinta grazie alla maggiore prontezza delle sue decisioni ed alla volontà deliberata di usare le armi ed i mezzi che sono a sua disposizione. Mi si citi un esempio solo delle tante Società delle nazioni esistite nel passato in cui questa non sia la vicenda lacrimevole delle ribellioni degli stati inadempienti ed io dirò che l’idea della società delle nazioni è genitrice di pace. Sino a quel momento dico invece che essa è sinonimo di guerra.

 

 

L’alternativa alla società delle nazioni è la federazione. Ed il contenuto sostanziale di quest’altra idea è la rinuncia degli stati federati ad una parte della propria sovranità assoluta a favore della federazione. Prima di parlare di federazione occorre innanzitutto persuadersi che l’idea dello stato sovrano assoluto è anacronistica e nefasta. Che nell’Europa contemporanea possano esistere una trentina di stati sovrani è altrettanto anacronistico come lo divenne la coesistenza di centinaia di città stato e di principati stato nell’Italia del Quattrocento. Allora le piccole città stato ed i minuscoli principati furono distrutti dalla invenzione dei fucili e dei cannoni.

 

 

Oggi i trenta stati europei sono divenuti incompatibili con le ferrovie, il telegrafo, il telefono, la radio, i piroscafi, i sottomarini, i veicoli. Le invenzioni prodigiose dei cent’anni passati hanno reso l’Italia, la Francia, la Germania altrettanto assurde come lo erano divenute Siena, Pisa, Firenze e Lucca e Urbino e Ferrara, ecc. ecc. nel ‘400. Assurde, intendiamoci, dal punto di vista economico, rimanendo preziosissimo intangibile il patrimonio morale storico, linguistico, affettivo delle singole nazioni.

 

 

Gli stati debbono vivere e prosperare, ciascuno inteso a sviluppare la propria individualità nazionale: ma essi debbono spogliarsi di quegli attributi, i quali sono divenuti un ingombro e un pericolo. La guerra scatenata per due volte dalla Germania in questo secolo fu un’offesa al diritto dei popoli a vivere di vita propria ed indipendente; ma, bisogna riconoscerlo apertamente, fu la conseguenza fatale di uno stato di cose per cui le ragioni della sovranità degli stati indipendenti contrastavano con le ragioni economiche. Queste vogliono la abolizione delle barriere doganali fra stato e stato, la unificazione delle ferrovie e delle linee di navigazione interne e dei telegrafi e dei telefoni e della navigazione aerea.

 

 

Vogliono che i trafori delle Alpi giovino a unificare i popoli e non siano annullati dai dazi. Vogliono che cose e persone possano liberamente muoversi da un paese all’altro senza proibizioni e senza passaporti. Sarebbe augurabile, e il momento verrà in cui l’intiero globo terracqueo sarà economicamente unificato. Ma intanto un passo può e deve compiersi con l’unificazione economica dell’Europa o di una notevole parte di essa.

 

 

L’unificazione, essendo necessaria, si dovrà attuare o col ferro o col fuoco, e non essendo riuscita dopo due guerre, si attuerà con una terza od una quarta guerra, nel deserto di una umanità distrutta nel disperato tentativo: ovvero coll’accordo. Se questa seconda, sola umana e civile, maniera di risolvere il problema storico del mondo moderno non si saprà accogliere oggi, rassegnarci a vedere cancellata l’Europa dalla storia.

 

 

Giova sperare che gli uomini di stato contemporanei veggano il pericolo che incombe sull’umanità e sappiano, togliendo agli stati alcuni attributi divenuti anacronistici, esaltare i loro compiti essenziali, che sono di elevazione degli uomini viventi nella nazione. Gli attributi ai quali gli stati debbono rinunciare sono due: le dogane e gli eserciti. Rinuncia alle dogane è un modo abbreviato per dire che gli Stati federati trasferiscono alla Federazione tutto ciò che riguarda il commercio interstatale – dazi doganali, moneta, trasporti, poste, telegrafi, telefoni, ecc. ecc. – sicché il traffico delle cose e delle persone divenga libero così come è fra provincia e provincia di uno stato.

 

 

Rinuncia agli eserciti significa che agli Stati singoli rimangono solo le forze di polizia carabinieri, guardie metropolitane e civiche e simili -; ma le forze armate sono unificate e fuse, senza che ci sia più distinzione fra soldati ed ufficiali di uno stato e quelli di un altro stato.

 

 

Le due rinunzie – con altre eventuali minori che qui si trascurano per brevità, – implicano la necessità di un governo federale incaricato di provvedere ai due servizi trasferiti.

 

 

Governo, che non può essere composto di delegati degli stati sovrani federati; ché ricadremmo nei vizi della società delle nazioni; ma di una o due assemblee (di solito due) nominate direttamente dai cittadini: la prima, come il consiglio nazionale in Isvizzera o la Camera dei rappresentanti negli Stati Uniti in proporzione al numero degli abitanti, senza riguardo agli stati, e la seconda, come il Consiglio degli Stati in Isvizzera o il Senato negli Stati Uniti, in numero fisso, di solito due, per ogni stato, senza riguardo al numero degli abitanti.

 

 

Accanto alle assemblee legislative, un Consiglio che non dia ombra ai capi degli Stati sovrani federati, composto di semplici amministratori, incaricato di attendere alle faccende tecniche, economiche e militari assegnate alla federazione. Ma queste sono particolarità, sulle quali si può discutere.

 

 

Per ora basti avere affermata la idea essenziale: che per le cose comuni, per le faccende delegate alla federazione e per queste soltanto, deve esistere un governo. Prudenza vuole che lo si intitoli semplicemente «consiglio», quasi si trattasse di un consiglio di amministrazione di una società od ente qualunque. Ma in sostanza deve essere un governo nominato non dagli stati sovrani federati, ma direttamente dai cittadini appartenenti alla federazione, fornito di poteri proprii non delegati dagli stati componenti.

 

 

E questi poteri consistono essenzialmente in quelli necessari a dichiarare guerre ed a stipular paci: guerre e paci economiche, guerre e paci propriamente dette. Privi d’eserciti e di dogane gli stati federati non possono più muoversi guerra l’uno contro l’altro; e se vorranno guerreggiare, potranno farlo, insieme riuniti, soltanto contro altri giganti. La guerra non sarà soppressa del tutto; ma resa grandemente più pericolosa e per ciò stesso, più rara.

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