Opera Omnia Luigi Einaudi

Capitolo II – Avanzi, economie, tesori di guerra ed alienazioni patrimoniali

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914

Capitolo II – Avanzi, economie, tesori di guerra ed alienazioni patrimoniali

Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 671-681

 

 

 

569. Utilizzazione del margine di bilancio. – Uno Stato può avere un bilancio normalmente fissato in 2.100 milioni di lire all’entrata e 2.000 milioni all’uscita. Il margine di 100 milioni può essere dedicato altrettanto ammontare di spese straordinarie. Subito si nota che questo ammontare non può essere molto rilevante, poiché non è supponibile che i contribuenti si adattino a pagare ogni anno imposte molto superiori al fabbisogno normale dello Stato solo per pagare all’eventualità di spese straordinarie, la quale non si sa se possa verificare. Ed è dubbia assai la convenienza di un sì fatto margine, essendo risaputa l’influenza nefasta degli avanzi di bilancio, che sono incitamento ai governanti a spendere, ai burocrati a chiedere aumenti di salario, ai parassiti a pretendere nuove elemosine pubbliche (cfr. par. 32). L’avanzo o margine di bilancio non dura alla lunga, ingoiato come è dalle spese che la conoscenza del margine provoca; onde è assai più dannoso del disavanzo, il quale almeno che la virtù di indurre all’emenda i peccatori e di ristabilire l’equilibrio nel bilancio, che è la cosa sovra ogni desiderabile.

 

 

Talché si può concludere che in uno stato ben governato, in cui si cerchi di evitare sprechi e false spese, non devono esistere avanzi di bilancio atti a far fronte a spese veramente straordinarie. Si può riconoscere invece l’opportunità di conservare un margine di bilancio per quelle spese straordinarie che non sono tali se non in apparenza e che per essere ordinarie nel genere e straordinarie nelle specie, taluno ha chiamato straordinarie ricorrenti. Non tutti gli anni avvengono grosse inondazioni nel Veneto; e perciò le spese che per tal causa lo Stato sopporta devonsi considerare nella specie straordinarie. E neppure ogni anno il territorio italiano è funestato da terremoti, o da sommosse popolari o da commovimenti di operai e contadini, che richieggano insolito spiegamento di forza pubblica, come non in ogni anno un paese dominatore di molte colonie deve sopprimere una sollevazione generale delle razze soggette. Ma ogni anno l’una o l’altra di queste spese dovrà compiersi; laonde esse, se sono straordinarie una per una considerate, più non sono tali, ove siano guardate nel complesso. Così non ogni anno si dovranno cambiare contemporaneamente i fucili all’esercito, o trasformare le artiglierie o rinnovare la marina da guerra; ma ogni anno or l’una or l’altra di queste trasformazioni belliche, in tutto od in parte, dovrà essere compiuta.

 

 

Sarebbe assurdo ricorrere ogni anno, per queste spese straordinarie variabili nella specie e costanti nel genere, ed imposte straordinarie od a prestiti. Le prime sarebbero straordinarie di nome ed ordinarie di fatto; i secondi ben presto finirebbero per cumularsi oltremisura è per far scendere in basso il credito pubblico. Talché il bilancio normale deve essere così calcolato da coprire, insieme con le ordinarie, anche queste spese straordinarie ricorrenti. Qui non v’è margine di bilancio, che possa far paventare pericoli di disavanzi futuri, poiché si sa che il cosidetto margine è destinato a priori al soddisfacimento di quei bisogni straordinari ricorrenti, per cui si fa anzi apposito stanziamento.

 

 

Cosicché, supponendo che si compaiono solo le spese che sono realmente ritenute necessarie od utili alla collettività, il tipo del perfetto bilancio dello Stato, è il seguente:

 

 

Entrate Uscite
Entrate normali L. 2.000.000.000 Spese ordinarie

L. 1.700.000.000

  Spese straord. ricorrenti

L: 300.000.000

Totale

L. 2.000.000.000

 

 

Il quale bilancio perfetto non dà avanzi, pericolosi perché stimolatori di spese inutili e promotori di disavanzi; e neppure disavanzi, i quali sono per definire dannosi. Lo spettro del disavanzo è utile sia sempre presente ed imminente, così da persuadere ai governanti la opportuna economia nell’uso del pubblico denaro.

 

 

570. – Utilizzazione degli avanzi di cassa – Il bilancio di cui sopra si è parlato è il bilancio cosidetto di competenza e cioè quello che comprende all’attivo tutte le entrate ad al passivo tutte le spese che fanno carico ad un determinato esercizio.

 

 

Il bilancio sovra descritto in perfetto pareggio vuol dire che si debbono incassare 2 miliardi e si debbono pagare 2 miliardi di lire in un dato esercizio. Può darsi però che, se di fatto si incassano tutti i 2.000 milioni che si ha diritto di incassare, si eroghino di fatto solo 1.800 milioni dei 2.000 che si ha dovere di pagare; cosicché risulta un avanzo di cassa di 200 milioni di lire. Ecco lo schema dei due bilanci di competenza e di cassa:

 

 

Bilancio di competenza

Entrata

L. 2.000.000.000

Uscita

L. 2.000.000.000

Bilancio di cassa

Incassi

L. 2.000.000.000

Pagamenti

L. 1.800.000.000

    Avanzo di cassa

L. 200.000.000

   

Totale

L. 2.000.000.000

 

 

L’avanzo di cassa non è un vero avanzo, poiché risulta solo dal fatto che nell’esercizio 1913/1914 (in Italia l’esercizio finanziario va dall’1 luglio d’ogni anno al 30 giugno dell’anno successivo), ed es., non si sono erogati tutti i 2.000 milioni che si dovevano spendere, bensì solo 1.800; onde rimasero in cassa 200 milioni. Ma poiché quei 200 milioni si dovranno spendere poi, appena si potranno fare i pagamenti delle spese già stanziate, essi non sono vero avanzo disponibile per nuovi fini pubblici, ma una semplice disponibilità momentanea di cassa, che in seguito dovrà però essere consumata per i pagamenti, già stanziati, ma non potuti eseguire nel 1913-1914. Se le spese si potessero abolire col rinviarle, l’erario avrebbe una effettiva disponibilità di 200 milioni. Ma quod differtur non aufertur; la spesa ordinaria dovrà ugualmente farsi, sebbene in ritardo.

 

 

Certo è però che, momentaneamente, lo Stato può disporre di quei 200 milioni di lire per provvedere ad una spesa straordinaria, che insorga nel 1913-1914, salvo poi a cercare dopo i mezzi onde far fronte alla spesa ordinaria posposta. Trattasi di espediente momentaneo, il quale può essere vantaggioso, in quanto evita la necessità di dover fare nel 1913-1914 un prestito oneroso per provvedere alla spesa straordinaria , mentre si hanno disponibili i 200 milioni dell’avanzo di cassa. È vero che al prestito si dovrà ricorrere nel 1914-1915 al momento di pagare la spesa prorogata; ma intanto si sarà certamente risparmiata un’annata di interessi; e potrà anche darsi che la fortuna assista l’erario, quando nel 1914-1915 le entrate si elevino, per circostanze eccezionali – scarsezza del raccolto interno di grano, onde riscossioni cospicue di dazio sul grano estero, gettito notevole dell’imposta di successione e del lotto ecc. ecc. – da 2.000 a 2.200 milioni, in guisa da far fronte alle spese normali di 2.000 milioni del 1914-1915 e più ai 200 milioni di spese prorogate del 1913-1914. Nel qual caso l’aver fatto ricorso all’avanzo di casso coprire la spesa straordinaria del 1913-1914 evitò il pericolo di un avanzo nel 1914-1915, o meglio destinò l’avanzo stesso a coprire il debito della spesa prorogata, sottraendolo alle cupidigie dei parassiti divoratori degli avanzi di bilancio.

 

 

Gli avanzi di cassa possono essere dovuti ad impossibilità di erogare di fatto le somme stanziate in bilancio, come quando non si poté compire ed a fortiori pagare una bonifica, una strada, un rimboschimento, un edificio per cui s’era predisposta la somma occorrente nel bilancio normale. Sono centinaia di milioni di lire di spesa che per tali motivi si prorogano negli Stati moderni, il tempo tecnico effettivo essendo più lungo del previsto, essendo difficile talora approntare il personale tecnicamente capace al compimento dell’opera e prorogandosi i lavori per le lungaggini delle formalità burocratiche. Tal altra volta gli avanzi di bilanci sono voluti appunto per procacciare all’erario il modo di fronteggiare la spesa straordinaria; e si scelgono in tal caso le spese che appaiono meno urgenti in confronto all’urgenza della spesa straordinaria.

 

 

Poiché nei bilanci degli Stati moderni, mostruosi bilanci di 2, 3, 5, 10 miliardi di lire all’anno, si annidano centinaia di milioni di spese inutili, prorogabili senza danno, può darsi che la proroga, dovuta all’urgenza di una spesa straordinaria, preluda alla soppressione della falsa spesa ordinaria. Nel qual caso i contribuenti otterrebbero il vantaggio di non essere tassati da nuove imposte per la copertura della spesa straordinaria, con la semplice rinuncia ad una spesa ordinaria inutile, che prima si faceva non perché i consociati ne sentissero il bisogno, sibbene soltanto perché essa era bisognevole a coloro a cui favore la spesa era fatta.

 

 

571. Economia nelle spese ordinarie. – L’avanzo di cassa nasce quasi sempre dalla impossibilità di compiere in tempo le spese già deliberate; l’economia sorge dalla soppressione o dalla proroga voluta di spese che si sarebbero potute fare; ed è mezzo deliberatamente usato per creare un margine di bilancio che non sarebbe altrimenti esistito. Durante la guerra di successione spagnuola in Piemonte e sovratutto durante il periodo che culminò nell’assedio di Torino, nella tenace difesa di Vittorio Amedeo II, e negli eroismi di Pietro Micca e dei numerosi ignoti suoi compagni, furono ridotte le spese allo stretto necessario. Dai principi del sangue, il cui appannaggio fu ridotto di un quarto, al sovrano, le cui spese personali furono falcidiate, agli alti funzionari ed agli impiegati tutti, i quali rimasero per anni ed anni in credito di cospicui arretrati, ai fornitori della casa reale, agli ufficiali superiori dell’esercito appartenenti alla nobiltà piemontese, tutti si videro falcidiati e prorogati gli stipendi ed i crediti; cosicché si può calcolare che l’erario abbia fatto un risparmio effettivo di circa 4-5 milioni di lire piemontesi, non piccola somma ove sia confrontata ad un costo totale della guerra di 112 milioni, a cui si provvide, oltrecché con 4-5 milioni di economia, con 18 milioni di prestito e con 89 milioni di imposte straordinarie e di sussidi delle potenze alleate[1]. Ma erano tempi eroici; i quali risorsero durante la guerra dell’indipendenza nazionale e di nuovo si videro quando il Giappone combatté la guerra di riscossa dell’Oriente contro la prepotenza moscovita.

 

 

Nei tempi eroici, accade che i servitori dello Stato siano lieti di servirlo con la paga dimezzata, sicché l’erario può trovare nel bilancio ordinario parte dei mezzi per la condotta della guerra.

 

 

Nei paesi civili e nei momenti in cui è affinata la coscienza di classe tra i burocratici ed i fornitori dello Stato, appare difficile impresa ricorrere a queste maniere di economie. Gli impiegati pubblici osservano e non a torto, a stretto rigor di logica, che se un’imposta deve essere istituita per la condotta della guerra, dessa deve gravare su tutti i cittadini, né abbattersi odiosamente sui soli loro stipendi; i cooperativi protestano per la minaccia alla consueta imbandigione di opere pubbliche a prò delle cooperative di lavoro e i fornitori dello Stato s’approfittano delle sue urgenze per estorcere prezzi di monopolio. Ed a rendere la guerra simpatica, i governanti si affannano a dichiarare che essa dovrà essere condotta a termine senza imposte né prestiti e senza interrompere o diminuire, anzi crescendo i consueti stanziamenti di spesa per ognuna delle pubbliche amministrazioni. Sembra perciò difficile che, laddove non sia elevatissimo il sentimento di devozione e di sacrificio in quelle classi che della cosa pubblica vivono, possono gli Stati moderni trarre grande partito dal risparmio sulle spese ordinarie nelle occasioni in cui si impongono le spese straordinarie.

 

 

Forse si può trarre maggior prò da una peculiar forma di economie e cioè da quelle che si possono fare con gli incrementi cosidetti naturali del gettito delle imposte. Nello schema sopra compilato (cfr. par. 563) le entrate vanno crescendo dai 2.000 milioni nel 1913 ai 2.500 milioni nel 1918, con un incremento annuo di 100 milioni di lire. Senza uopo di istituire nuove imposte, pel crescere della popolazione e della ricchezza, il gettito delle imposte cresce ordinaria mentre, salvo nei periodi di intensa depressione economica, da un anno all’altro. Nell’esempio schematico sovra citato, si suppose che l’incremento delle entrate ordinarie fosse assorbito compiutamente dall’incremento delle spese ordinarie. Ed è il caso normale. Troppo pressanti sono le richieste di nuove spese che d’ogni parte si rivolgono allo Stato, perché questo possa sottrarvi l’incremento spontaneo delle entrate. Solitamente anzi l’incremento delle spese sopravanza l’incremento delle entrate. Ma può darsi che, sospinti dalla urgenza di una spesa straordinaria, i governanti riescano a far tacere in parte gli appetiti conclamanti; onde lo schema può così trasformarsi:

 

 

   

Entrate

Spese ordinarie

1913 milioni

2.000

2.000

1914 milioni

2.100 + 100

2.050 + 50

1915 milioni

2.200 + 200

2.100 + 100

1916 milioni

2.300 + 300

2.150 + 150

1917 milioni

2.400 + 400

2.200 + 200

1918 milioni

2.500 + 500

2.250 + 250

  Totale incrementi

1.500

750

 

 

Essendo stati gli incrementi dell’entrata di 1.500 milioni nel sessennio 1913-1918, mentre gli incrementi della spesa giungevano a soli 750 milioni, si ha una disponibilità di 750 milioni che può essere destinata a copertura di parte della spesa straordinaria di 2 miliardi che si dovette compiere nel 1915 e nel 1916; sia che la spesa sia coperta con le economie quando si compie, sia che mercé il risparmio fatto si rimborsino prestiti temporaneamente accesi.

 

 

Ottima fra tutte è questa maniera di coprire spese straordinarie, poiché l’esperienza insegna che le spese straordinarie sono in realtà o sono reputate dalle generalità più urgenti degli incrementi cosidetti fatali delle spese ordinarie, la cui fatalità ed inevitabilità è determinata quasi soltanto dalla scarsissima forza di resistenza dei Parlamenti contro le esigenze di gruppi particolari egoistici. Ma è via ardua da seguire, ed adatta ai governi ed ai parlamenti consapevoli del loro dovere verso chi, secondo la teoria della sovranità popolare, sarebbe il loro mandante. Quali e quanti siano questi governi e parlamentari non è compito della scienza finanziaria di dire.

 

 

572. Tesoro di guerra. – Gli avanzi di bilancio, gli avanzi di cassa e le economie sono mezzi che si riferiscono all’anno in cui si devono sostenere le spese straordinarie od agli anni immediatamente successivi. Ma può darsi che si fossero fatte economie in anni precedenti ed ora si spenda il fondo così accumulato per fronteggiare le straordinarie emergenze. Così:

 

 

 

Entrate

Spese

Avanzo

Disavanzo

1900

1625

1550

75

1901

1650

1575

75

1902

1675

1575

100

1903

1700

1600

100

1904

1725

1625

100

1905

1750

1650

100

1906

1775

1675

100

1907

1800

1700

100

 
1908

1825

1700

125

 
1909

1850

1725

125

 
1910

1875

1750

125

 
1911

1900

1750

150

 
1912

1950

1800

150

 
1913

2000

1825

175

 
1914

2100

1900

200

 
1915

2200

3100

900

 
1916

2300

3200

900

 

Totale

31.700

31.700

1.800

1.800

 

 

 

Dal 1900 al 1914 crescendo naturalmente – ossia per il crescere della popolazione e dei redditi – il gettito dei tributi, crebbero anche le spese, ma in misura più tenue, così da consentire un risparmio annuo che da 75 milioni nel 1900 sale a 200 milioni nel 1914. Così il tesoro accumula un fondo di 1.800 milioni, il quale torna opportunissimo a coprire i 1.800 milioni di disavanzo cagionati dalla spesa straordinaria di una guerra. Nel periodo 1900-1916 entrate e spese si bilanciano esattamente in 31.700 milioni senza lasciare né avanzi né disavanzi; e ciò è dovuto alla previdenza dei reggitori della cosa pubblica, i quali seppero economizzare in tempi di prosperità e di pace per apparecchiare a sé od ai loro successori il nerbo della guerra.

 

 

Narrano le istorie che Atene avesse nel tempo intermedio fra le guerre persiane e quelle peloponnesiache accumulato un tesoro di guerra di 10.000 talenti; che a Roma l’aurum vicesimarum si deponesse nel tempio di Saturno e fosse sacro alle spese di guerra; che Federico II abbia trovato, ascendendo al trono, un tesoro di 8.700.000 talleri accumulato dal padre suo avarissimo; che Vittorio Amedeo II, primo re di Casa Savoia, nel 1725, riparati ai danni delle guerre passate, subito provvedesse ai bisogni delle guerre venture, ponendo 2 milioni di lire piemontesi in serbo in una cassa ferrata ed indorata; e corre fama che Carlo Alberto avesse dovuto far puntellare le volte del palazzo di finanze, incapaci a sostenere il peso dei sacchi d’oro e d’argento, i quali tornarono utilissimi per la condotta della guerra del 1848. Così accadde che i trattati di finanza usassero ed ancora usino indicare tra i mezzi per provvedere alle spese straordinarie il cumulo del cosidetto «tesoro di guerra». Probabilmente però, ove si andasse a fondo degli esempi storici ora citati e di quegli altri numerosi che si potrebbero ricordare si vedrebbe che i «tesori» non furono mai sufficienti a condurre sino alla fine una guerra; ma ebbero sempre il carattere, che oggi ancora conservano, di fondi relativamente limitati, che utilmente si possono usare per le prime spese della guerra.

 

 

573. Ragioni per cui il tesoro di guerra non è usato. – Le ragioni, per le quali il tesoro di guerra fu in passato ed è oggi incapace a compiere l’ufficio a cui dal nome suo parrebbe destinato, sono le seguenti;

 

 

  • a) a condurre le guerre antiche e recenti furono e sono necessarie somme troppe cospicue perché sia sperabile di poter in tempo cumulare all’uopo un tesoro sufficiente. La guerra di successione spagnola costò al tesoro piemontese 112 milioni di lire piemontesi; somma la quale era uguale a 10 volte l’ammontare delle entrate annue della monarchia piemontese del tempo. Cumulare un tesoro di 112 milioni di lire nel primo settecento varrebbe quanto oggi un cumulo di 20-25 miliardi di lire in Italia; cosa per fermo assurda. I costi delle guerre sono di solito così cospicui in rapporto alle entrate ordinarie degli Stati, che è vana speranza gli Stati riescano a fare un risparmio bastevole in antecedenza. La capacità di compiere tali risparmi non era grande neppure in tempi di governo assoluto, perché i principi si dibattevano ognora tra dure strettezze finanziarie; ma poteva darsi che talvolta un principe avaro o previdente compiesse tali atti di risparmio. Pareva a lui di risparmiare a proprio vantaggio o ad incremento della sua casa. Nei tempi odierni di governi parlamentari, i reggitori della cosa pubblica conoscono le facilità dell’indebitarsi, non la virtù del risparmio;
  • b) Ove anche fosse possibile compiere codesta opera di previdente risparmio, sarebbe economicamente conveniente? No, se risparmio vuol dire «tesaurizzazione» ossia non un mettere a frutto le somme risparmiate, ma un semplice riporre dischi o verghe d’oro e d’argento in forzieri o sotterranei per l’ora del bisogno. E questo deve voler dire il «tesoro di guerra»; poiché il tesoro, se deve essere sempre pronto agli usi della guerra, non può in pace essere impiegato in acquisti di titoli di debito pubblico, in obbligazioni comunali od industriali, in imprese industriali, in terre o case. Poiché, allo scoppiare della guerra, converrebbe vendere i titoli, ossia in buona sostanza fare un debito – vendere il patrimonio equivale ad indebitarsi – e porre titoli sul mercato, cosa che si voleva appunto evitare. Dunque il tesoro di guerra è infruttifero; e cagiona la perdita economica degli interessi e di quegli altri guadagni che dall’impiego del capitale si potrebbero ricavare. Avere un tesoro di guerra di 5 miliardi – e per avere un vero tesoro bisogna ragionare di parecchi miliardi – significa perdere ogni anno gli interessi di 5 miliardi; che al 4% sono 200 milioni di lire annui. Significa aver perso, in capo a 15 anni, cogli interessi composti, 5 miliardi giusti. Ed insieme significa che non son sorte le imprese industriali e commerciali, che non si sono compiute le migliorie agrarie, ecc. ecc., le quali con i 5 miliardi si sarebbero potute iniziare e compiere. Onde è smisurata la produzione annua lorda di ricchezza di ben più che 200 milioni di lire all’anno ed è ridotta la occupazione degli operai al di sotto di quello che avrebbe potuto essere. Danni gravissimi, che da soli basterebbero a sconsigliare gli Stati dal far cumulo di cospicui tesori di guerra;
  • c) Aggiungasi che sarebbe impossibile conservare al tesoro la sua forma necessaria: di cumulo di specie d’oro e d’argento, ognora disponibili. Sono numerosi , come le sabbie del mare e le stelle del firmamento, in ogni paese i progettisti, i quali sono persuasi di aver trovato l’araba fenice destinata ad arricchire essi medesimi ed i popoli e si lagnano acerbamente della avarizia dei capitalisti e dei banchieri, ripugnanti ad imprestare loro la scarsa pecunia bastevole a tradurre in atto il loro concepimento geniale. Sono del pari innumerevoli coloro i quali fremano a vedere incolte le maremme e la campagna romana, scarse le case popolari nelle città, privi di terra i contadini nelle campagne, ripugnanti i capitali a colonizzare le vecchie eritree o le nuove libiche. Tutti costoro, progettisti stravaganti e riformatori sociali, già ora accusano le casse di risparmio, le banche, il consorzio nazionale di tenere giacenti ed inutilizzanti miliardi di lire, grottescamente immaginando che quegli enti abbiano cantine ricolme d’oro e d’argento, mentre i miliardi già sono impiegati fruttuosamente. Che cosa direbbero quando si risapesse che sul serio lo Stato possiede, in certe sue fortezze e torri blindate, miliardi di lire in moneta sonante? Chi li tratterebbe dal fare vittoriose campagne giornalistiche ed elettorali per persuadere popoli e governi della follia di tenere così cospicue somme inerti e dell’urgenza di impiegarle in modo da dar lucro allo Stato e lavoro ai poveri? Il tesoro di miliardi non potrebbe sicuramente rimaner «tesoro» e sarebbe investito in imprese economiche e sociali. Né potrebbe, per definizione, essere investito in modo da fruttare l’interesse corrente sul mercato; poiché, se un’intrapresa frutta il reddito normale, è certissimo che l’imprenditore non ha bisogno di ricorrere allo Stato per procacciarsi i capitali occorrenti, essendovi banchieri e capitalisti a iose pronti a soddisfare le sue richieste. Poiché solo i pseudo imprenditori, gli inventori di progetti balordi od i promotori di investimenti che si dicono «sociali», quasiché «sociale» fosse sinonimo di «spropositato», hanno d’uopo di ricorrere allo Stato banchiere, si vide quanto sia grande la probabilità che i miliardi faticosamente accumulati vengano dispersi, investiti in modo erroneo e contrariissimo ad ogni modo all’esigenza della pronta liquidità.

 

 

574. Limite entro cui il tesoro di guerra fu ed è conveniente. – Le ragioni ora addotte sconsigliarono i governanti in passato e li sconsigliano ora dal cumulare e conservare un tesoro sufficiente alla intiera condotta della guerra. Ma le stesse ragioni più non valgono contro un tesoro di guerra di modeste dimensioni, bastevole alle prime spese della guerra. Accade invero che, mentre una guerra scoppia, subito non sia possibile istituire imposte straordinarie ed esigerne l’importo o conchiudere un pubblico prestito.

 

 

Eppure è urgente avere pronta e disponibile la somma di qualche centinaio o di qualche decina di milioni di lire, onde provvedere alle prime spese della mobilitazione, acquistar provviste da bocca anticipar denari alle fabbriche di munizioni, affinché possano lavorare di notte, ecc. Il denaro è il nerbo della guerra; ed averlo subito disponibile può mettere in grado il capo d’un esercito, già bene addestrato e desideroso di battersi, di vincere la prima battaglia, che è forse la battaglia decisiva.

 

 

Per questo motivo la Germania custodisce nella torre di Spandau 120 milioni di machi prelevati sulla indennità di guerra dei 5 miliardi di franchi che la Francia dovette pagarle nel 1871; piccola somma, se guardata in rapporto alle grandissime che farebbero d’uopo in una guerra europea, sufficiente però per sopperire al dispendio dei primissimi giorni. La piccolezza della somma ne rende possibile il cumulo, fa meno lamentare la perdita degli interessi annui e del prodotto lordo non ottenuto e toglie vigore all’urlio petulante dei parassiti pubblici in cerca di preda. Talché il tesoro dei 120 milioni s’è potuto serbare per oramai 40 anni ed or fu deliberato di aumentarlo a 240 milioni di marchi.

 

 

Non sempre è d’uopo che il tesoro si chiami tale, bastando il contenuto e nulla importando la forma. Così vi sono Stati che conservano una abbondante disponibilità di cassa, superiore a quella normalmente occorrente: laddove, ad es., basterebbero 150 milioni per provvedere al giro delle riscossioni e dei pagamenti in un bilancio di 3 miliardi annui, conservano un tondo di cassa di 300 milioni. Che altro sono i 150 milioni non strettamente necessari se non un vero tesoro di guerra? Chiamandoli «fondo di cassa» si persuadono i popoli che essi sono necessari per la buona condotta giornaliera dell’amministrazione e si salvano dalle grinfie dei divoratori.

 

 

Altri o gli stessi Stati che direttamente o per mezzo di banche emettono biglietti fiduciari, rimborsabili a vista ed al portatore, conservano una riserva metallica esuberante; e, dove basterebbero 500 milioni di lire di moneta metallica per assicurare le convertibilità di 1.000 milioni di biglietti, ne conservano 700 milioni. Anche questi 200 milioni in più, sono un vero tesoro di guerra; sebbene saviamente i governanti li confondano colla riserva metallica dei biglietti, affine di persuadere i parassiti che qui 200 milioni sono intangibili, ove non vogliasi recar grave nocumento al credito del paese. È un illusione codesta; poiché, scoppiata la guerra, il governo si impadronisce dei 200 milioni ed i restanti 500 sono bastevoli alle esigenze del cambio a vista dei biglietti fiduciari. Ma illusione forse necessaria a tenere a segno le urlanti mute che muovono all’assalto del pubblico bilancio.

 

 

575. Alienazione dei beni patrimoniali. – Il privato, il quale debba soddisfare ad un dispendio straordinario, può vendere parte dei suoi campi, alcuni dei suoi titoli mobiliari, diminuendo il suo patrimonio netto. Così può operare ugualmente lo Stato, supponendo che possegga beni patrimoniali.

 

 

Già dimostrammo anzi (cfr. par. 18) come la conservazione di questi beni patrimoniali (che sono quelli) conservati coll’unico intento di trarne un reddito pecuniario, come terre, o case, o titoli, e non si devono perciò confondere con i beni tenuti per fini pubblici, come le ferrovie, le strade, le fortezze, i musei, ecc. ecc.) sia un anacronismo storico ed un errore economico. Onde convenientissima se ne appalesa l’alienazione. Non però – anche questa verità già dimostrata (cfr. par. 19 e 20) – l’alienazione in tempo di guerra o di altre gravi emergenze pubbliche, poiché in tempi siffatti il tasso di interesse rialza a quel fondo del reddito di 4.000 lire all’anno, il quale in tempo di pace poteva vendersi per 100.000 lire, perché il tasso dell’interesse era del 4%, ora troverà a stento compratori di 80.000 lire, essendo il tasso dell’interesse rialzato al 5%, a causa della gran richiesta di capitali che fa lo Stato per i suoi cresciuti bisogni pubblici.

 

 

Si conclude perciò non essere conveniente far ricorso all’alienazione dei beni patrimoniali per provvedere alla spese straordinaria dello Stato.

 

 

S’intende nei limiti del possibile; che necessità non vuol legge ed i reggitori di uno Stato possono essere astretti dall’impossibilità od insufficienza di altri spedienti, a ricorrere a questo, che pure è in astratto condannabile.

 

 



[1] Cfr. Luigi Einaudi, La finanza sabauda all’aprirsi del secolo XVIII e durante la guerra di successione spagnuola, in vol. I dei «Documenti finanziari degli Stati della Monarchia Piemontese», Torino S.T.E.N. 1908 pagg. 405 e segg. e Giuseppe Prato, Il costo della guerra di successione spagnuola e le spese pubbliche in Piemonte dal 1700 al 1713 in vol. X di «Le compagne di guerra in Piemonte (1703-708) e l’assedio di Torino (1706)» pubblicate dalla R. Deputazione di Storia Patria. Torino 1910, Bocca, pagg. 374 e segg.

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