Capitolo VI – Applicazione del concetto del reddito realizzato o consumato
Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 01/01/1914
Capitolo VI – Applicazione del concetto del reddito realizzato o consumato
Corso di scienza delle finanze, Tipografia E. Bono, Torino, 1914, pp. 308-316
Sezione prima.
Delle difficoltà di applicazione del teorema milliano.
282. Facilità teorica di tassare il reddito consumato. – In teoria pura, quando si ammetta che il postulato dell’uguaglianza richiede la tassazione del reddito «consumato» dalla persona fisica, il problema tributario sarebbe senz’altro risoluto, null’altro dovendosi accertare fuorché la quantità di ricchezza consumata dall’uomo per acquistare tutti i servizi da lui reputati utili a procacciargli godimenti, dai servizi del cibo a quelli della casa e del riscaldamento, da quelli del vestito e dell’adornamento alle cure personali, dai divertimenti all’istruzione, dai viaggi allo sfoggio di vane ricchezze. In teoria pura l’«accertamento» della quantità di ricchezza consumata dall’uomo durante un anno finanziario dovrebbe essere considerato facilissimo trattandosi di un dato primo, come si vide sopra, che non richiede alcun calcolo complesso, alcun intervento di ipotesi contabili, come la capitalizzazione ad un dato tasso di interesse, la determinazione di quote di deperimento, di redditi normali che si possono consumare senza intaccare il capitale, ecc., ecc. Basterebbe conoscere i bilanci famigliari dei singoli uomini; e per mezzo di questi bilanci (redatti, ad esempio, sul tipo dei bilanci Le Play) constatare la spesa annua di ogni contribuente.
La quale componendosi di due elementi primi: quantità fisiche di merci comperate o quantità numeriche (in unità di tempo od altra) di servizi personali e prezzo unitario di mercato, non presenta teoricamente difficoltà rilevante.
283. Difficoltà pratiche, ignoranza dei bilanci della spesa degli uomini. – Le cose stanno purtroppo ben diversamente quando si voglia applicare la regola. Accade nella realtà che noi non conosciamo affatto quei tali bilanci famigliari. Forse ne esiste qualcuno; ma esso è libro chiuso con sette suggelli agli occhi indagatori del fisco.
Quelli che sono resi di pubblica ragione, sono di persone morte, ovvero di individui sconosciuti, a cui l’indagatore ha dovuto promettere il segreto; ovvero ancora sono faticosamente ricostrutti dagli studiosi su elementi strappati a gran fatica agli interessati, rielaborati in maniera approssimativa, in guisa che il bilancio non è quello di Tizio, persona fisica vivente nell’anno 1912, ma di una persona media (l’operaio medio, l’impiegato medio) e di un anno medio, non mai esistiti nella realtà. Non esistono bilanci di spese, che possano servire alla ripartizione delle imposte sul reddito: ecco il fatto certissimo, primissimo, che si impone colla forza dell’evidenza e da cui rampollano alcune verità fondamentali.
284. a) Maggiore facilità effettiva di conoscere il reddito guadagnato. Frodi probabilmente grandiose che deriverebbero dall’esenzione del risparmio. – La prima è la seguente: che sebbene il reddito «realizzato» sia il dato primo, ed il reddito «guadagnato» sia il dato derivato; in realtà per l’uomo è assai più agevole conoscere il reddito «guadagnato» del «realizzato». In seconda approssimazione l’ordine delle idee è rovesciato da quello che era in prima approssimazione. Per l’agente delle imposte il dato primo è il «reddito guadagnato», ed il dato derivato è il reddito «realizzato». Noi non conosciamo la spesa in lire e centesimi degli uomini; ma possiamo conoscere approssimativamente il suo reddito «guadagnato». Per far ciò basta – dico basta sebbene si tratti di operazioni complicate e difficili e soggette ad innumeri errori – scomporre il patrimonio di Tizio nelle sue varie parti e di ciascuna di esse conoscere i frutti annui, il deperimento e l’apprezzamento. Si sa che Tizio possiede un fondo rustico che gli frutta 5000 lire all’anno, una casa cittadina che glie ne dà altre 5000 e le sue facoltà personali le quali, impiegate nell’esercizio professionale, gli danno 5000 lire; in tutto 15.000 lire. Se nel calcolare i frutti netti della terra e della casa, si è già tenuto conto del deprezzamento per logorio e se in quell’anno nessun apprezzamento di valore capitale si è verificato, se Tizio non ha debiti, su cui debba pagare interessi, si sa che il reddito «guadagnato» di Tizio è di 15.000 lire l’anno. È una nozione, questa, ripetesi, difficilissima a conoscersi con precisione; poiché i catasti dei terreni sono spesso imperfetti, le revisioni del reddito dei fabbricati rade, l’evasione dei redditi professionali grandissima (parlo dell’Italia, ma sono osservazioni che valgono per molti altri paesi); tuttavia è una nozione che può ritenersi non impossibile a raggiungersi. Per giungere alla constatazione del reddito «consumato» l’agente delle imposte deve fare una operazione di più: togliere dalle 15.000 lire di «reddito guadagnato» annuo le 5000, a cagion d’esempio, risparmiate. Enunciare la possibilità di fare questa operazione, in maniera corretta, è enunciare l’assurdo. Nello stesso modo che nessun uomo va a confessare la sua vera spesa all’agente delle imposte, quando sappia che su quella quantità di spesa sarebbe tassato, anzi tutti confesserebbero una spesa di gran lunga minore del vero; così tutti, quando sapessero di essere esenti sul risparmio annualmente fatto, accorrerebbero a dichiarare risparmi mai più visti. Dilapidatori incorreggibili di patrimoni aviti e degli averi altrui, diventerebbero d’un subito previdentissimi risparmiatori. Le statistiche del risparmio segnalerebbero improvvisi confortanti incrementi; statisti e filantropi gioirebbero pel diffondersi delle abitudini di previdenza e pel diminuire delle spese inutili di vino, acquavite, tabacco. La virtù regnerebbe in ogni paese ed i vizi andrebbero sbanditi. Accadimenti meravigliosi anche per ciò che rimarrebbero notati solo sui registri degli agenti delle imposte. Ciò che in realtà accadrebbe sarebbe il diffondersi di un vizio già fin troppo imperversante: la frode fiscale. Il diritto alla esenzione dei risparmi sarebbe strumento efficacissimo di frode in mano ai furbi, per scaricare il peso dei tributi sulle spalle degli ingenui e degli inabili. In breve volgere di tempo, rimanendo costante il fabbisogno del fisco, e diminuendo, pel crescere apparente del risparmio, la materia imponibile, le aliquote delle imposte dovrebbero giungere ad altezze insopportabili e la ripartizione sarebbe afflitta da stridentissime iniquità.
285. b) Crescita apparente del risparmio in tempi di guerra. – Il risparmio (parlasi sempre, s’intende, del risparmio apparente dichiarato, non del risparmio effettivo, che solo vorrebbesi esentare) crescerebbe specialmente quando s’avesse apprensione o si fosse già verificato un aumento temporaneo di imposte, per far fronte, mettiamo, alle spese di una guerra. L’aliquota, che normalmente è del 10%, debba essere portata per tre anni al 20%. Il contribuente «onesto» che non vuole frodare il fisco se non in maniera legale, accresce, durante i tre anni, il suo risparmio di 3000 lire all’anno; ed ottiene così l’esenzione da un’imposta che giungerebbe a 600 lire all’anno ed in tutto a 1.800 lire. Finita la guerra, l’aliquota viene ridotta al 10%; ed il contribuente consuma allora il suo risparmio temporaneo di 9.000 lire, dedicandolo a spese, come viaggi, compra di mobilio, abbellimenti alla villa, ecc., che potevano benissimo essere prorogate. Onesto come egli è, dichiara al fisco l’avvenuto consumo del risparmio, temporaneamente capitalizzato, e, secondo la regola della tassazione del reddito realizzato, paga su questa spesa l’imposta nel quarto anno. Ma, pagando quando l’aliquota è ridotta nuovamente al 10%, il tributo assolto è di 900 lire. Egli s’è sottratto alle spese della guerra, trasferendo i suoi consumi nel tempo. Non solo, ma durante quei tre anni può aver avuto occasione di comprare buoni del Tesoro emessi dallo Stato per procacciarsi fondi temporanei ed ha quindi, grazie alla frode fiscale, anche fatta un’ottima investita ad un interesse più elevato dell’ordinario. Se tutti agissero ugualmente, come potrebbe lo Stato ottenere i fondi per la guerra? Dovrebbe aumentare l’aliquota non al 20, sibbene al 30 o 40%, provocando nuove simulazioni di risparmio.
286. c) Difficoltà di conoscere il consumo di risparmi precedenti. Impossibilità di compilare gli inventari della fortuna dei contribuenti. – Se l’accertamento del risparmio fatto sui redditi guadagnati dell’anno è difficile, ancor più difficile è l’accertamento della spesa fatta coi risparmi degli anni precedenti, spesa che dovrebbe essere colpita da imposta, secondo la teoria della tassazione del reddito «consumato». Supposi sopra che Tizio confessi spontaneamente nel quarto anno d’aver consumato le 9000 lire da lui risparmiate nei tre anni precedenti. Costui ha voluto «legalmente» evadere un’imposta; ma è onestissimo, poiché v’è ogni probabilità che i suoi compagni di evasione si dimentichino di denunciare l’avvenuto consumo del risparmio precedente. Come potrebbe il fisco opporsi a simiglianti frodi? Si rizzano i capelli in testa pel terrore al solo pensiero della contabilità perfettissima che le agenzie delle imposte dovrebbero tenere per ogni contribuente dalla nascita alla morte. Ognuno dovrebbe avere una partita aperta sul gran libro dell’inventario dei guadagni, dei consumi e dei risparmi. In questa partita ogni avvenimento della sua vita dovrebbe essere registrato; da un lato tutti i flussi di ricchezza: dai guadagni professionali ai frutti patrimoniali, dalle eredità alle donazioni, dalle vincite al giuoco agli incrementi di valore delle azioni e dei beni posseduti; dall’altro tutti gli efflussi di ricchezza: dalle spese fatte coi redditi guadagnati nell’anno a quelle fatte consumando il patrimonio precedentemente accumulato od ereditato. Il saldo attivo risultante sui libri fiscali dovrebbe corrispondere con precisione al valore del patrimonio in quell’istante effettivamente posseduto dal contribuente.
Ogni discrepanza metterebbe in orgasmo i contabili fiscali; così come la mancanza di un centesimo nei saldi di bilancio d’una bene organizzata casa commerciale sovreccita gli impiegati responsabili della contabilità e li costringe a febbrili, affannose ricerche per mesi e mesi per giungere alla scoperta del centesimo smarrito. Poiché se risultasse ad un dato momento che il saldo attivo di Tizio è di 100.000 lire sui libri della contabilità fiscale, mentre è notorio che Tizio, rovinato, va chiedendo l’elemosina dinnanzi alle porte delle chiese, e suona l’organetto nei crocicchi delle vie, manifesto sarebbe che Tizio avrebbe speso le 100.000 lire senza denunciare la spesa ed assolvere il dovuto tributo. Ragionevoli sono le previsioni che non poche sarebbero siffatte sorprese; a togliere le quali il fisco dovrebbe mantenere legioni di spie, specialmente nei luoghi dove si disfrena il lusso, dove al gioco e nei bagordi si perdono i patrimonii dai degeneri figli di padri parsimoniosi, per sorprendere la spesa nell’attimo fuggente in cui avviene ed asserire in quell’istante i diritti supremi del fisco. Con scarso risultato però: e con nocumento gravissimo della dignità dello Stato.
Onde è d’uopo conchiudere che ogni tentativo inteso ad accertare direttamente il reddito “consumato” ed a tassarlo secondo la sua quantità precisa e presso il contribuente di diritto è destinato a fallire. Almeno finché sulla terra non sia sorta una generazione di uomini «puri», che sappiano valutare degnamente l’importanza dei servizi pubblici e dirittamente denuncino i fatti veri. Nel qual caso ogni discorso sarebbe inutile, perché questi uomini «puri» operanti in ossequio alla teoria farebbero volontariamente richiesta di servizi pubblici e di imposte non sarebbe d’uopo parlare, bensì soltanto di «prezzi pubblici» o «tasse».
Sezione seconda
Le due approssimazioni: le imposte cosidette sui consumi e le imposte cosidette sui redditi
287. Le difficoltà narrate consigliano di ricorrere a spedienti di applicazione. – Da queste imperfezioni pratiche non rimane tuttavia minimamente scossa l’eccellenza del principio della tassazione del reddito «consumato»; resta dimostrata soltanto la necessità di ricorrere a spedienti di applicazione, che eliminino, nella misura del possibile, i malanni derivanti dall’indole invincibilmente frodolenta dell’uomo. Gli spedienti fin qui divisati dai legislatori, sono stati principalmente due: la tassazione dei beni materiali e dei servizi personali che l’uomo acquista col reddito che egli vuole effettivamente consumare[1], e la esenzione di una quota presunta di risparmio nella tassazione del reddito guadagnato.
288. Il primo spediente è la tassazione dei beni consumati dall’uomo. – In primo luogo la tassazione dei beni consumati dall’uomo. Si vide sopra come il reddito «consumato» sia un dato primo difficilissimo, anzi impossibile a conoscersi. Ma l’uomo, che serba con così gelosa cura il segreto dei suoi bilanci famigliari, non può sottrarsi alla necessità di «spendere» quella ricchezza che vuol consumare e che si chiama appunto reddito consumato o realizzato. Egli deve recarsi dal padron di casa e pagargli il fitto dell’appartamento da lui occupato; o, se egli stesso è proprietario di casa, può facilmente risapersi quale sia il prezzo che egli pagherebbe se fosse inquilino in casa propria. Egli deve comperare i mobili ed ogni anno pagare il premio d’assicurazione contro l’incendio dei suoi mobili, cosicché è facile conoscere quale ne sia il pregio e quale il vantaggio annuo, in lire, soldi e denari che egli ne ricava. Egli tiene domestici, vetture, cavalli, automobili, cani e si sa quanto spende per procacciarsene i servigi. Egli per cibarsi, per vestirsi, per adornare sé stesso e le donne da lui amate deve comprare beni a un prezzo di mercato. Or dunque lo Stato, il quale ha abbandonato ogni speranza di accertare direttamente la quantità del reddito consumato, la accerta indirettamente, appostandosi al varco in quei passi dove l’uomo necessariamente deve transitare per convertire la moneta, il numerario indistinto, in cui si concreta la ricchezza destinata al consumo, in beni, i cui servizi egli appunto vuol consumare.
Se si potesse immaginare che lo Stato conoscesse ogni via che deve compiere il numerario destinato al consumo per trasformarsi in servizi di beni effettivamente consumati l’imposta ideale sarebbe raggiunta. Nessuna diversità sostanziale esisterebbe tra l’imposta pura sul reddito consumato e questa, che per brevità e per conformarci all’uso universale diremo imposta sui consumi. La differenza, secondariissima, starebbe soltanto nel momento dell’accertamento del reddito: nel primo caso volendosi accertare la quantità del numerario destinata al consumo e nel secondo caso la quantità dei servigi utili acquistata con quel numerario. Non si può disconoscere persino che la palma dell’eccellenza spetterebbe al secondo metodo; perché, se anche si riuscisse, cosa per fermo assurda, ad accertare la quantità di numerario destinata al consumo, non potrebbe evitarsi – per la impossibilità di compiere le indagini a consumi fatti, quando cioè il reddito più non esiste e quindi spesse volte difetterebbero le maniere di esigere coattivamente l’imposta, e per la necessità di fare perciò gli accertamenti prima dell’avvenuto consumo – una non infrequente discrepanza tra la quantità di numerario destinata al consumo e la quantità di numerario di fatto consumata; ben potendo darsi che nel frattempo l’uomo abbia mutato proposito e destinato al risparmio ciò che prima voleva consumare e viceversa. L’imposta sui consumi sfugge a quest’obbiezione; poiché aspetta a colpire il numerario nell’istante medesimo in che l’uomo effettivamente lo trasforma in servigi consumati di beni o di persone. Se il contribuente non paga fitto di casa, neppure paga l’imposta sul valor locativo; se non tiene domestici od automobili, non viene su di essi tassato; e tarda a pagare i tributi sul caffè, lo zucchero, il vino, il pane, finché non li abbia effettivamente acquistati.
Per raggiungere la perfezione che sopra si è detto basterebbe che il fisco sapesse appostare un gabelliere al varco per ogni via percorsa dal numerario per trasformarsi in consumi: e su ogni consumo prelevasse un tributo rigorosamente proporzionale. Supponendo che Tizio consumi 5000 lire all’anno, è chiaramente uguale tassare col 10% direttamente le 5000 lire; ovvero, pure col 10%, le 1000 lire consumate nel fitto di casa, le 2000 lire del cibo, le 500 dei vestiti, le 500 di servizi personali, le 1000 di spese varie per istruzione (libri, tasse scolastiche, giornali), viaggi, divertimenti, ecc. In amendue i casi il fisco percepirebbe 500 lire d’imposta ed in amendue i casi sarebbe tassato tutto e solo il reddito realizzato, in conformità al postulato dell’uguaglianza.
289. Il secondo spediente è la tassazione del reddito guadagnato, con detrazione di una quota presunta di risparmio. – L’altra via prescelta dai legislatori per attuare il postulato dell’uguaglianza è la tassazione del reddito guadagnato, con detrazione di una quota presunta di risparmio.
Poiché si vide non essere impossibile l’accertamento diretto del reddito guadagnato, ma assurdo l’accertamento del risparmio effettivo, il legislatore, dopo avere accertato il reddito guadagnato, ne deduce non il risparmio «effettivo» ma il risparmio «presunto». Fa cioè il legislatore l’analisi psicologica del contribuente e constata che questi, data la natura del suo reddito, la composizione della sua famiglia, l’età, le condizioni di salute, deve, per ogni 100 lire di reddito «guadagnato» ed accertato, risparmiarne 20 ovvero 30 ovvero magari 50; e queste esenta da tributo, tassando solo la parte che si suppone dovere essere consumata. Nel compiere queste presunzioni di risparmio il legislatore sarà mosso da numerosi indizi, tra cui potranno noverarsi pure i risparmi effettivamente compiuti dal contribuente in modo irrevocabile, in modo tale cioè che il risparmio non possa tornare ad essere consumato frodolentemente ma solo nell’istante in cui si verifica l’avvenimento (malattia, infortunio, vecchiaia, morte) per cui il risparmio fu costituito; di qui la detrazione, oltreché di quote presunte di risparmio, dei premi effettivi di assicurazione. Supponendo che le presunzioni del legislatore si conformino alla realtà, anche questo metodo riesce ad esentare i risparmi, ossia ad attuare il postulato dell’uguaglianza.
290. Differenze tra i due tipi d’imposta. – Le differenze che, in questo primo momento, si possono notare tra i due tipi d’imposta, il primo sui servizi consumati dall’uomo (cosidette comunemente imposte sui consumi) e il secondo sul reddito guadagnato con detrazione del risparmio presunto (cosidette imposte sui redditi) sono le seguenti:
- a) le imposte sui consumi rispondono ai fatti reali, le imposte sui redditi ai fatti immaginati dal legislatore. Le imposte sui consumi non possono non esentare il risparmio; le imposte sul reddito lo esentano solo in quanto le presunzioni del legislatore corrispondono alla realtà. E poiché il legislatore non può far presunzioni individuate per ogni contribuente, che sarebbero odiosissime e farebbero rinascere tutte le obbiezioni che già si fecero contro gli accertamenti diretti della spesa e del risparmio, se le indagini fossero compiute sul serio e sarebbero reputate partigiane, se fatte alla lesta: ma deve necessariamente contentarsi di presunzioni fatte per classi di contribuenti, distinguendo tra le classi che possono essere imprevidenti e quelle che debbono essere previdentissime e le altre che possono tenere una condotta intermedia, così è manifesto che sempre le presunzioni del legislatore, corrette per l’uomo medio d’ogni classe saranno scorrettissime per i singoli individui della classe. Laddove per una classe il legislatore avrà supposto un risparmio del 20% vi sarà tra i componenti della classe chi nulla risparmia, e chi risparmia il 5 e il 10%; mentre altri si terranno vicini alla media presunta ed altri andranno al di là, al 30, 40 e magari 50%. Onde le imposte sui redditi, per quanto si faccia, sempre riusciranno disformi dall’ideale, intendendo per «ideale» l’imposta sul reddito consumato.
- b) le imposte sui consumi devono dunque lottare precipuamente contro difficoltà di applicazione; mentre le imposte sui redditi contro difficoltà di principio. Il legislatore può cioè immaginare una imposta sui consumi perfettissima; bastando a ciò decretare che tutti i consumi degli uomini siano percossi da un proporzionale balzello del 10%; e le difficoltà sorgeranno quando i gabellieri dovranno scovrire tutti i varchi, attraverso ai quali il numerario si trasforma in consumi. Mentre il legislatore, anche volendo, non può immaginare una imposta (cosidetta) sui redditi perfetta; perché gli converrebbe determinare delle presunzioni di risparmio conformi ai risparmi effettivi; il che, per le cose discorse sopra, ossia per la necessità assoluta di procedere per classi, gli è perentoriamente vietato.
291. Conclusione della parte seconda. – Epperciò è corretto concludere questo primo raffronto, affermando che le imposte sui consumi meglio si avvicinano teoricamente all’ideale, definito come si disse, che non le imposte sul reddito guadagnato, da cui sia stato dedotto il risparmio presunto (cosidette imposte sui redditi). Vedremo in seguito, per quali ragioni tecniche lo Stato sia obbligato ad attenersi insieme alle une ed alle altre; e, non bastando amendue, a creare altri tipi ancora di balzelli, come le imposte successorie o sui trasferimenti onerosi o sul patrimonio, che sono varianti delle imposte sui redditi. Molta parte della strada che ci deve avvicinare alla meta essendosi ora compiuta, giova conchiudere questa seconda parte, nella quale, dopo aver criticato le dottrine correnti della ripartizione dell’imposta, si posero le fondamenta dell’indagine teorica che dovrà essere eseguita per trovare il principio supremo regolatore dell’imposta stessa; e in cui lo studio dei concetti prevalsi in passato rispetto alla base imponibile ci mostrò di essi i difetti, il perfezionamento graduale e la tendenza alla tassazione del reddito globale della persona. Analizzato questo concetto di reddito, si videro sorgere contrapposte le due teorie del reddito guadagnato e del reddito realizzato o consumato, dimostrandosi per vari modi l’eccellenza del secondo concetto.
Ma una più attenta considerazione ci dimostrò l’inapplicabilità pratica della tassazione pura del reddito realizzato e la necessità di ricorrere ad espedienti di attuazione, di cui si discorsero i principali. Nella terza parte, che tratterà delle imposte in specie, si dirà appunto delle maniere con le quali si attuano, più o meno correttamente, i concetti fondamentali di tassazione che in questa parte seconda furono delineati.
[1] Per conformarci all’uso corrente e senza voler risolvere le questioni sottilissime che a questo punto si connettono intenderemo per «beni materiali» i servizi ovverossia i godimenti che all’uomo dà il consumo dei beni materiali che si consumano in una volta sola (pane, vino, ecc.), e anche il consumo graduale ripetuto dei beni materiali durevoli (casa, vestito, automobile, ecc.); e per «servizi personali» i godimenti che l’uomo ritrae dall’opera di altre persone fisiche (domestici, camerieri di albergo o di caffè, cantanti, attori, ballerine, avvocati, professori, medici, cortigiane, ecc.). I servizi dei beni materiali di consumo immediato o di consumo ripetuto e i servizi delle persone esauriscono, sembra, il campo di acquisto del numerario posseduto dall’individuo.