Opera Omnia Luigi Einaudi

La controversia doganale in Inghilterra

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 15/10/1903

La controversia doganale in Inghilterra

«La Riforma Sociale» 15 ottobre 1903

Studi di economia e finanza, Società tipografico editrice nazionale, Torino-Roma, 1907, pp. 65-93

 

 

 

 

A proposito dell’opuscolo Balfour, di un articolo del Bowley nell’«Economic Journal» e del rapporto del Board of Trade.

 

 

 

La grandiosa battaglia che si combatte in Inghilterra in questo momento intorno alle proposte di riforma doganale in senso protezionista presentate dallo Chamberlain, è un avvenimento di così notevole interesse scientifico e pratico da meritare di essere attentamente seguito. In pochi mesi però, la letteratura pro e contro le tariffe preferenziali l’imperialismo doganale ed il libero scambio è diventata una vera valanga: volumi, opuscoli, foglietti volanti a migliaia ed a milioni di copie si sono sparsi sull’Inghilterra e di giorno in giorno diventano più numerosi, sicché riesce impossibile tenervi dietro in guisa anche solamente approssimativa. Ma due fra le più recenti pubblicazioni non possono essere dimenticate: l’opuscolo del primo ministro Balfour ed il volume di inchieste statistiche pubblicato dal Board of Trade. Il primo espone la teoria di quello che il Balfour chiama il vero ed il nuovo libero scambio e che in sostanza invece è il vecchio protezionismo; ed il secondo mette insieme i dati di fatto opportuni a suffragare le novissime teorie Balfouriane e le misteriose ed ogni giorno mutevoli affermazioni dell’ex ministro delle colonie.

 

 

Il breve opuscolo del Balfour,[1] se presenta il vantaggio di contenere una serie ordinata di affermazioni, a differenza delle epistole dello Chamberlain, che ogni giorno presentano un aspetto nuovo del sistema delle tariffe differenziali, è però scritto con una oscurità artificiosa di linguaggio che rende spesso difficile di comprendere il pensiero dell’autore.

 

 

Egli parte da un punto di vista libero scambista, ed ha «il desiderio di promuovere la libertà di commercio per quanto le circostanze contemporanee lo vorranno permettere». Oramai l’antica distinzione fra protezionisti e libero scambisti dell’epoca di Cobden non ha più valore e novi problemi sono sorti. È diventato sempre più accentuata l’antagonismo tra alcune forze potenti della vita sociale e l’ideale del puro libero scambio. Imperando quest’ultimo, il lavoro ed il capitale dovrebbero essere perfettamente fluidi e correrebbero dove potessero impiegarsi col maggior profitto, producendo così un equilibrio simile a quello dell’Oceano sotto l’influenza della forza di gravità. Ma in pratica né il lavoro, né il capitale, sono fluidi. Se fossero tali, ogni vita nazionale sarebbe impossibile. Essa è tenuta insieme dall’attrito di varie forze, come l’amore della casa, la forza dell’abitudine, la difficoltà ed il costo dell’emigrazione, che impediscono al lavoro di essere fluido nel significato richiesto del puro libero commercio. Il capitale, quantunque entro certi limiti più fluido, è altresì «viscoso» per simiglianti cagioni naturali.

 

 

«Le nazioni», seguita il Balfour, «sono perciò economicamente possibili solo perché, per varie ragioni, l’umanità è nello stesso tempo incapace e contraria ad usufruire il più economicamente possibile le risorse naturali del mondo».

 

 

Le nazioni sono in realtà «una violazione permanente del libero scambio Mondiale»; e «nei loro sforzi di preservazione non si sono sentite costrette a considerare solo gli argomenti tratti dalla scienza economica cosmopolita… Esse hanno riconosciuto che lo Stato è qualcosa di più degli individui componenti e che non solo è irrazionale supporre che ciò che è buono per la potenzialità produttiva del mondo sia necessariamente buono per ogni Stato particolare; ma si sono convinte del contrario».

 

 

Ne segue che siccome «non vi è un’armonia prestabilita fra gli interessi economici mondiali ed il benessere nazionale, noi dobbiamo abbandonare la posizione di laisser faire come un dogma assoluto ed accettare provvisoriamente il concetto che il carattere della nostra politica doganale dovrebbe variare secondo le variabili circostanze, né abbiamo alcun diritto di riguardare un qualsiasi sistema come perfetto semplicemente perché è semplice, non artificiale e sovratutto famigliare».

 

 

Questi i fondamenti teorici dell’opuscolo Balfouriano. Letti i quali, sembra a me perfettamente inutile seguitare l’esame delle teorie del primo ministro inglese. Poiché egli non ha fatto altro in sostanza che scoprire per la ennesima volta alcuni fatti elementari che tutti gli economisti conoscono e mettono a fondamento dei loro trattati del commercio internazionale.

 

 

Nessuno, infatti, vorrà pretendere che il paragone dei flutti dell’Oceano che trovano il loro equilibrio, che la enumerazione degli ostacoli che si frappongono alla mobilità assoluta del capitale e del lavoro, siano delle novità nuove di zecca. Forse mi ricorderò male; ma ai tempi in cui leggevo i primi trattati di economia politica, mi era accaduto il vedere considerate le nazioni diverse – allo scopo dello studio in prima approssimazione del commercio internazionale – come altrettanti mercati chiusi fra cui esisteva solo la concorrenza commerciale e non la concorrenza industriale, ossia mancava la mobilità del lavoro e del capitale, precisamente come scopre ora il Balfour.

 

 

Però quei vecchi economisti non ricavavano da questa scoperta le considerazioni di filosofia mondiale dette più sopra, e neppure ne traevano argomento per cambiare le regole aritmetiche dell’addizione; ma si contentavano di insegnare che l’esistenza di due mercati chiusi, quando vi fosse una differenza nei costi comparati, era appunto la condizione per gli scambi reciproci. Insegnavano ancora che affine di rendere gli scambi proficui al massimo per i due paesi, era necessario lasciarli liberi.

 

 

Ora, da quando è divenuto di moda per i ministri ed i presidenti del Consiglio di non studiare più l’economia politica, le cose sono mutate. Ma è legittima la conclusione, che prima di asserire, come fanno i conservatori inglesi, che l’opuscolo del Balfour segna un’epoca nuova nella scienza e rinnova dall’imo fondo la teoria del commercio internazionale, dovrebbero i conservatori ed il Balfour degnarsi di leggere e di capire quanto sugli stessi argomenti hanno scritto i loro connazionali che il mondo venera come fondatori della scienza economica. Dopo, riparleremo della opportunità di distruggere la vecchia teoria e far posto ad una nuova. Per ora la nuova teoria ci sembra incomprensibile ed è tempo perso interpretare le cose che non si capiscono.

 

 

E passiamo all’inchiesta del Board of Trade.[2] Racchiusa in un enorme volume di 495 pagine in folio e 30 grandi carte diagrammi, contiene una massa di informazioni realmente preziose, e raccolte con quella precisione e limpidità di cui danno sempre prova le pubblicazioni statistiche inglesi e specialmente quelle del Board of Trade. L’unico – e purtroppo gravissimo – inconveniente di una così ricca pubblicazione si è che, essendo di viva attualità, i giornali e gli uomini politici hanno già cominciato a servirsene per i loro scopi partigiani ed a rinfacciarsi le cifre che ivi sono contenute, gli uni per provare che l’Inghilterra va diritta alla rovina, e gli altri per dimostrare che essa progredisce sempre in ricchezza e potenza economica.

 

 

Gli ufficiali del Board of Trade, a cui era stato commesso di preparare delle risposte statistiche a certe domande determinate, non potevano adempiere meglio al loro incarico e non era compito loro di avvertire quale fosse il reale significato dei dati che essi mettevano alla luce. Così accade che, siccome novantanove persone su cento di quelle che vogliono illuminare l’opinione pubblica ignorano i primi elementi del metodo statistico, ben di rado le statistiche siano adoperate con quelle cautele e con quelle riserve che sono indispensabili per non ingenerare nella mente dei lettori impressioni false ed ingannatrici. Ben pochi in Inghilterra, prima di percorrere il ponderoso volume del Board of Trade, si saranno curati di leggere un mirabile articolo che A. L. Bowley,[3] il noto insigne statistico inglese, ha pubblicato nell’ultimo fascicolo dell’«Economic Journal» intorno alle cautele che si devono adoperare nell’interpretazione delle statistiche doganali. Vale la pena di riassumere alcune fra le considerazioni dell’autore. Le quali si riferiscono a sei casi principali:

 

 

  1. Le mutazioni che avvengono in una serie fluttuante. Non si possono ricavare deduzioni certe dalla serie delle cifre del commercio internazionale anno per anno. Troppi fattori vengono a perturbare il calcolo ed a rendere assolutamente erronea qualsiasi conclusione.

 

 

Solo la «tendenza generale» rappresentata da una curva la quale faccia astrazione dalle oscillazioni minori, ha importanza. Dato ciò, l’unica cosa che si può dire del commercio inglese di esportazione, è che esso ha tendenza a crescere sino al 1872, e dopo d’allora rimane stazionario. Ma il perché la statistica non può dirlo, troppe cause interdipendenti essendo in gioco, fra cui basti ricordare la tendenza al ribasso dei prezzi. Così pure la statistica non può fornire alcun lume sugli effetti del dazio di uno scellino sul prezzo del grano. Bisognerebbe che nessun’altra causa fosse intervenuta a mutare i prezzi. Invece da un anno all’altro, dal 1890 al 1900, i prezzi del grano in scellini per quarter variano così: +5 s.; –6 s. 9 d.; –3 s. 11 d.; –3 s. 6 d.: +3 d.; +3 s. 1 d.; +4 s.; + 3 s. 10 d.; –8 s. 4d.; +1 s. 3 d.; –2 d. Nemmeno di un dazio di 5 scellini si sarebbero, potuti discernere gli effetti.

 

  1. Addizione di quantità dissimili. Un errore di questo genere, si fa quando si somma il valore delle importazioni e delle esportazioni e lo si divide per il numero degli abitanti di un paese, reputando di avere con ciò costruito un indice della prosperità del paese medesimo. Ora i valori delle importazioni e delle esportazioni non sono quantità omogenee. Gran parte delle importazioni (materie prime), si deve propriamente sottrarre dalle esportazioni (manufatti contenenti le materie gregge). Le merci pronte per il consumo e quelle che devono ancora essere lavorate, il macchinario, i manufatti esteri concorrenti, le materie prime hanno tutte una speciale significazione in ordine alle diverse classi di persone interessate. Le esportazioni variano grandemente per le proporzioni di materie gregge (interne ed estere), di lavoro e di servizi di capitale che esse rappresentano. Pure suddividendo le merci nei loro gruppi, non siamo autorizzati a dividere le cifre dei vari gruppi per la popolazione. Il consumo delle merci le più semplici, grano e carne, varia per classe, occupazione età e sesso.

 

 

Servirsi delle cifre del commercio internazionale, del consumo del carbone ed altrettali indici per misurare il progresso di un paese, conduce ad equivoci, data la eterogeneità degli elementi primi.

 

  1. Valore e quantità. Spesso il considerare solo il valore delle merci inganna; ed è utile studiarne insieme le quantità. Ad esempio, in Inghilterra le merci per esportazione crebbero di valore dal 1886 al 1902; quello che si vendeva 964, ora si vende 1000. Invece le merci di importazione diminuirono di valore: ciò che si comprava per 1088, ora si compra per 1000. Questo interessante risultato non si sarebbe ottenuto studiando solo i prezzi o solo le quantità. Occorre combinare insieme le due cose.

 

  1. La precisione delle valutazioni. Errori ne accadono sempre nelle statistiche. L’importante si è di valutarne la grandezza, cosa sempre difficile. Si sa, ad esempio, che le cifre del commercio fra la Germania e l’Inghilterra sono imperfette a causa del transito nei porti belgi ed olandesi. Ma ciononostante si fa un uso quotidiano di statistiche riconosciute erronee; e tali che non possono essere adoperate né in un senso né nell’altro, sinché non si sia misurata la grandezza dell’errore. Così si dica del commercio in grano fra l’Inghilterra da una parte e gli Stati Uniti ed il Canadà dall’altra. Quanta parte del grano provenga dal Canadà e quanta dagli Stati Uniti, noi non sappiamo, quantunque ciò abbia molto peso nell’attuale controversia doganale.

 

  1. Misure incomplete. La somma delle esportazioni è trattata spesso come un indice della prosperità generale del paese. Ora questo è un grossolano errore. Le esportazioni formano solo una piccola proporzione del prodotto totale del lavoro britannico e possono crescere e diminuire senza che l’intiero prodotto ne rimanga influenzato. Può darsi benissimo che una diminuzione di esportazioni sia dovuta ad un aumento di fabbricazione per il mercato interno. È perciò futile trattare le esportazioni per sé medesime; e gli «errori» inevitabili nella stima del prodotto totale sono così enormi che date le nostre presenti informazioni è meglio lasciare irresoluto il problema. Così pure l’importazione di merci per il consumo è solo una frazione del consumo totale, e quest’ultimo difficilmente può essere definito.

 

 

L’unico criterio applicabile per misurare la prosperità del paese è ancora quello dell’entrata totale del paese. A tale scopo esistono in Inghilterra i rapporti dell’income tax, il censimento dei salari del 1886 ed i rapporti sui cambiamenti dei salari dopo quell’epoca. È qualcosa; ma non è tutto, mancando ogni notizia sui redditi non pagati in salari e non registrati nell’ufficio delle imposte. Supponendo pure che questo vuoto si colmasse, noi ignoriamo quasi del tutto i prezzi al minuto e non possiamo trasformare il reddito nominale in reddito reale. La stima sarebbe poi incompleta non conoscendosi il numero delle persone appartenenti ad ogni classe e le mutazioni relative.

 

 

Attualmente è speranza vana di poter fare una stima completa della prosperità del paese. Tutt’al più si può ricorrere ad indici parziali, fra cui sarebbero preferibili i seguenti: il numero indice del prezzo di tutte quelle merci (vicine il più possibile allo stadio di consumo), che si prestano all’impiego del metodo statistico; il numero indice delle merci consumate; il numero indice dei salari; la stima delle entrate che pagano imposte; la stima della disoccupazione.

 

 

Se la tendenza è verso il miglioramento (entrata media e salari in rialzo, prezzi al minuto in ribasso, consumo medio accresciuto, disoccupazione diminuita), v’è una grande probabilità che il paese diventi più prospero; e viceversa nel caso contrario.

 

 

A questi indici se ne possono aggiungere altri; badando però ad escludere rigorosamente quelli che si riferiscono solo ad una piccola frazione del tutto (ad esempio, importazioni od esportazioni di manufatti), o sono del tutto eterogenei (come il commercio totale coll’estero ed il numero delle lettere spedite dalla posta), o sono mere ipotesi (come le merci buttate il disotto del costo sul mercato inglese).

 

 

Se si facesse un altro censimento sui salari comparabile a quello del 1886, se le cifre delle imposte sul reddito (income tax) fossero rivedute da periti; se si impiantasse un sistema di registrazione dei prezzi al minuto; se si rendessero più complete le statistiche della produzione interna, e se si cercassero notizie sulle entrate e sui salari al disotto del limite della esenzione dalle imposte, forse fra una decina d’anni noi potremmo abbordare il problema della stima statistica della prosperità nazionale con qualche speranza di risolverlo.

 

 

I signori Balfour e Chamberlain non hanno voluto aspettare i dieci anni che la prudenza del Bowley assegna come limite minimo, prima del quale sembra impossibile ad un così esperto maneggiatore di cifre ottenere delle informazioni attendibili, ed hanno commesso agli abilissimi ufficiali del Board of Trade la compilazione del volume che sopra è già stato meritamente lodato per la massa enorme di informazioni che contiene. Alcune di queste informazioni conviene ora mettere sotto agli occhi dei lettori, dopo averli avvertiti con le parole del Bowley che scarso sarà il frutto che legittimamente è possibile di ricavarne in ordine alla controversia doganale esistente. Che significato invero può avere la tabella seguente che ho ricavata da una serie di altre bellissime tabelle,[4] nelle quali si vede per parecchi mesi l’aumento rispettivo delle importazioni e delle esportazioni di articoli manufatti. (Valore del 1901=100)?

 

 

Anni

Gran Bretagna

Germania

Francia

Stati Uniti

 

Importazione

 

 

Esportazione

 

Importazione

 

Esportazione

 

Importazione

 

Esportazione

 

Importazione

 

Esportazione

1854

18.1

40.1

6.8

1860

20.5

56.5

66.1

9.8

1865

30.5

69.3

14.4

1870

39.9

82.5

68.2

16.6

1875

50.9

91.0

75.7

80.2

22.5

1880

58.3

89.7

73.5

57.7

77.7

81.8

83.1

25.0

1885

58.4

85.1

78.9

62.2

79.0

72.4

82.3

35.9

1890

68.8

103.3

92.1

74.2

84.1

88.9

107.3

36.8

1895

75.5

88.2

87.0

75.4

75.4

84.9

98.2

44.6

1900

101.8

101.7

112.8

103.1

109.1

100.2

97.5

105.6

1901

100.0

100.0

100.0

100.0

100.0

100.0

100.0

100.0

1902

104.3

103.0

 

 

Diranno i protezionisti che in nessun paese, come in Inghilterra, sono aumentate tanto le importazioni e sono cresciute meno le esportazioni di manufatti; donde impoverimento da un lato e minor arricchimento dall’altro lato. Ma sono cifre il cui significato deve perlomeno essere considerato incerto, tenendo conto delle seguenti circostanze: a) i paesi di cui si tratta si trovano ad un grado diverso del loro sviluppo e non sono quindi comparabili. Come si fa a paragonare paesi nuovi o quasi come gli Stati Uniti e la Germania con paesi vecchi come l’Inghilterra? Bisognava paragonare la Gran Bretagna di 50 anni fa con gli Stati Uniti d’adesso; b) si capisce che negli Stati Uniti l’aumento nelle esportazioni sia da 6.8 a 100 quando si pensi che il punto di partenza era di 5 milioni ed 800 mila lire sterline nel 1854. Invece in Inghilterra il punto di partenza era 88 milioni e 700 mila L. st.; e tutti comprendono come riesca più agevole decuplicare una cifra di 6 milioni che non raddoppiarne una di 88; c) come è lecito rammaricarsi delle cresciute importazioni di manufatti nell’Inghilterra, quando si pensa che esse sono pagate, e lo vedremo presto e del resto è cosa nota, coi guadagni della marina mercantile e cogli interessi dei capitali investiti all’estero? d) si ricordi la fallacia messa in chiaro dal Bowley nel ragionamento che dalle diminuite esportazioni dei manufatti vorrebbe dedurre la decadenza di un paese. Le esportazioni di manufatti sono una parte sola del lavoro di un paese. Il rapporto citato si affatica a ricercare che importanza relativa abbiano i salari guadagnati dagli operai inglesi in tutte le industrie esportatrici di fronte ai salari totali; e trova che il costo in salari delle merci esportate si aggira intorno ai 130 milioni di lire sterline; circa un quinto od un sesto dei salari totali che sarebbero di 700-750 milioni di lire sterline.[5]

 

 

Non potrebbe darsi che la stazionarietà della somma guadagnata in salari nelle industrie esportatrici fosse compensata ad usura dall’aumento dei salari guadagnati nelle industrie lavoranti per il consumo interno, e non ci potrebbero autorizzare a questa conclusione gli aumenti meravigliosi constatati nei redditi colpiti dall’income tax? Dall’altra parte non potrebbe darsi che il rapido aumento nelle esportazioni, ad esempio, della Germania, fosse neutralizzato da un meno rapido incremento dei guadagni netti della produzione per il mercato interno? E non ci potrebbero autorizzare a questa conclusione i metodi seguiti dai trusts tedeschi ed americani di forzare l’esportazione all’estero con prezzi al disotto del costo, rialzando i prezzi all’interno e così riducendo la potenza d’acquisto dei salari operai e frenando l’espansione del consumo nazionale?[6]

 

 

Ma noi non vogliamo arrischiare delle conclusioni che potrebbero sembrare tanto infondate come lo sono quelle dei protezionisti. Diciamo soltanto che da quella tabella non si può ricavare alcuna conclusione certa.

 

 

Conclusioni certissime ricavarono invece i protezionisti da un’altra serie di tabelle contenute nel rapporto, le quali vogliono mettere in luce i dannosi effetti dei dazi stranieri sulla esportazione inglese. Veramente non c’era bisogno di molte statistiche per convincersi che è più difficile esportare in un paese a dazi protettivi alti che in un paese a dazi miti od addirittura senza dazi.

 

 

Ad ogni modo a dimostrazione di questa verità istruitiva, il Rapporto espone una serie formidabile di prove. Ecco innanzitutto una stima approssimativa dell’altezza percentuale dei dazi di importazione percepiti dai paesi sottoindicati per ogni 100 lire delle principali merci esportate dall’Inghilterra.

 

 

Russia ………………………………………..

%

131

Stati Uniti …………………………………….

%

73

Austria – Ungheria ………………………..

%

35

Francia ……………………………………….

%

34

Italia ……………………………………………

%

27

Germania ……………………………………

%

25

Canadà ……………………………………….

%

16

Belgio …………………………………………

%

13

Nuova Zelanda …………………………….

%

9

Unione australiana ……………………….

%

6

Unione doganale sud africana ……….

%

6

 

 

Il record del proibizionismo spetta alla Russia ed agli Stati Uniti, ma non bisogna credere che i dazi protettivi degli altri paesi siano miti. Un dazio protettivo infatti del 25 per cento in Germania, dato i progressi compiuti dall’industria tedesca, può infatti essere più efficace a tener lontani i prodotti inglesi che non un dazio del 131 per cento in Russia, dove parecchie industrie sono ancora in una condizione straordinariamente arretrata.

 

 

Che questi dazi così alti abbiano fatto un grave danno alla esportazione dei manufatti dall’Inghilterra non c’è dubbio. Basta dare una occhiata alla seguente tabella la quale ci dice quale sia la percentuale dei manufatti importati in diversi paesi dall’Inghilterra rispetto alla quantità totale dei manufatti importati:

 

 

 

Germania

Francia

Russia

Italia

Stati Uniti

 

1890

47.1

38.8

23.3

40.3

48.4

1895

46.5

39.9

22.8

29.5

44.5

1900

 

40.3

29.7

19.9

22.8

42.2

1901

34.4

28.5

17.6

36.5

 

 

L’Inghilterra provvede sempre meno questi paesi di manufatti; e deve necessariamente cercare di scaricare la sua produzione nei paesi non protetti. Nel rapporto vi è a questo proposito una tabella molto istruttiva in cui le esportazioni inglesi (prima complessive e poi dei soli manufatti), sono distinte a seconda che sono destinate alle principali nazioni estere e colonie inglesi protezioniste (Russia, Germania, Francia, Belgio, Olanda,[7] Spagna, Portogallo, Italia, Austria-Ungheria, Stati Uniti, Canadà, Victoria), ovvero a tutte le altre nazioni estere e colonie che costituiscono ancora un campo relativamente aperto per la esportazione inglese.

 

 

 

Principale nazioni estere e colonie inglesi e protezioniste

 

 

Tutte le altre nazioni e colonie

 

Totale

 

Esportazione totale inglese

1850

% 56

% 44

% 100

1860

% 51

% 49

% 100

1870

% 53

% 47

% 100

1880

% 49

% 51

% 100

1890

% 46

% 54

% 100

1900

% 45

% 55

% 100

1902

% 42

% 58

% 100

Esportazione di manufatti e semi-manufatti inglesi

1850

% 57

% 43

% 100

1860

% 50

% 50

% 100

1870

% 50

% 50

% 100

1880

% 47

% 53

% 100

1890

% 44

% 56

% 100

1900

% 42

% 58

% 100

1902

% 38

% 62

% 100

 

 

Diminuì la esportazione totale verso i paesi protezionisti; ma diminuì ancor più la esportazione di manufatti, sicché unico scampo per l’Inghilterra rimasero le colonie non protezioniste ed i pochi paesi che non si cinsero ancora di barriere daziarie, fra cui preziosissimi sovratutto la Turchia e la Cina.

 

 

Mentre l’Inghilterra viene così a poco a poco respinta dai paesi europei, il suo territorio medesimo viene ognora più invaso (adoperiamo per un momento la fraseologia protezionista), dai prodotti manufatti di paesi con cui essa si trova in concorrenza. Veggasi la percentuale che delle esportazioni totali di manufatti dei paesi sottonotati va in Inghilterra:

 

 

 

 

Germania

Francia

Russia

Italia

Stati Uniti

 

1890

10.9

26.3

2.7

9.9

1895

11.2

30.2

4.0

6.7

30.5

1900

 

11.8

29.5

3.2

7.5

22.4

1901

13.4

30.8

6.6

24.8

 

 

Non è un fenomeno molto accentuato; ma è quanto basta per far gridare ai protezionisti che l’Inghilterra è divenuta il dumping ground, il territorio di scarico dove si buttano a basso prezzo i rifiuti delle industrie protette dall’estero.

 

 

L’esempio più doloroso per l’Inghilterra dell’influenza di dazi esteri è certo quello dell’industria delle lastre di stagno (tinplate industry). Procedeva dessa nel 1887-90, quando il dazio americano era solo di lire sterline 4.60 per tonnellata, ben 399.329 tonnellate di cui 304.695, ossia il 26 per cento, andava negli Stati Uniti. La tariffa Mackinley eleva il dazio a lire sterline 10.10; e la tariffa Dingley lo conserva a 6.90. Gli industriali inglesi malgrado ribassino i prezzi fuori dazio da 14.01 L. st. nel 1887-90 a 11.43 nel 1895-96, non possono reggere alla concorrenza americana che può dare la tonnellata a 16.62 compreso il dazio di 6.90; e così l’industria loro soffre terribili colpi.

 

 

Nel 1898-1901 la produzione si è ridotta a 262.881 tonnellate di cui solo più 65.687 vanno negli Stati Uniti, ossia il 25%.

 

 

Nel 1902 la produzione cresce a 311.869; ma negli Stati Uniti vanno solo 65.142 tonnellate, e queste perché il dazio viene rimborsato all’atto dell’importazione sotto forma di manufatti finiti. Frattanto la produzione delle lastre di stagno, che nel 1887-90 era nulla negli Stati Uniti, è diventata già superiore a quella dell’Inghilterra medesima: nel 1892-3 siamo a 36.993 tonnellate; nel 1895-6 a 137.014; nel 1898-1901 a 347.437: nel 1902 a 366.000 tonnellate.

 

 

Tutto questo sarà verissimo; ma non si vede quali suffragio ne possa ricavare la tesi protezionista. Il Balfour nel suo opuscolo ha scritto che siccome i paesi esteri arrecavano cotanto danno alle esportazioni inglesi coi loro dazi, era mestieri non rimanere disarmati nelle trattative doganali. L’Inghilterra, egli ha osservato, è il solo paese che non possa costringere i suoi rivali a miti consigli. Essa, attaccata al feticcio del libero scambio, non si può minacciare i paesi stranieri di elevare i suoi dazi quando essi aumentino eccessivamente i loro. I negoziatori stranieri sanno che l’Inghilterra terrà sempre le porte aperte e quindi non tengono conto alcuno delle sue platoniche esortazioni alla libertà degli scambi. Urge, dice il Balfour, abbandonare questa politica del porgere la guancia a chi vi schiaffeggia. Minacciamo anche noi i paesi straniere di dazi di ritorsione e li vedremo ribassare i dazi contro di noi.

 

 

Nemmeno in questa scoperta dei mirabili effetti della politica dei dazi di rappresaglia può sperare il Balfour di aver detto delle novità; né l’esperienza passata prova che le sue speranze siano fondate. La storia prova che i sistemi protezionisti hanno tutti avuto inizio così: dai dazi di rappresaglia che doveano durare pochissimo tempo, i mesi necessari a ridurre alla ragione l’avversario recalcitrante. Nel frattempo degli interessi sorgono all’ombra dei dazi, ed il momento di abolirli non si trova più. Cosicché il paese che avea messo i dazi di rappresaglia per poter vendere bene all’estero, non solo non ottiene il suo scopo; ma aggiunge agli altri il danno di dover comprar caro dall’estero a causa dei suoi dazi. Forse il Balfour desidera appunto inaugurare, d’accordo collo Chamberlain, il protezionismo a favore delle industrie nazionali; ma, non osando dirlo, cominciò col mettere innanzi il pretesto dei dazi di rappresaglia. Il giuoco è abile; e data l’ignoranza delle masse e la facilità di ingannarle, può anche darsi che riesca.

 

 

Meno facile riesce di giudicare, coi materiali offerti dal rapporto del Board of Trade, i probabili effetti di una unione doganale fra tutte le colonie britanniche e la madre patria. Come è noto, secondo il progetto dello Chamberlain, la madre patria dovrebbe continuare ad ammettere in franchigia i prodotti delle colonie e tassare invece con un dazio i prodotti dei paesi stranieri. Le colonie poi dovrebbero dare una preferenza, ossia far pagare un dazio minore ai prodotti della madre patria che a quelli delle colonie. Ogni giudizio è difficile su questo progetto, perché lo Chamberlain prima diceva che si dovea – lasciando esenti quei delle colonie – mettere un dazio sui prodotti alimentari esteri; ma visto il clamore minaccioso delle classi lavoratrici contro il pane caro, ritirò subito la proposta, sostituendovi dei dazi sui manufatti, che le colonie non esportano, e su altri generi mal definiti. Ora poi, nel discorso di Glasgow tornano in campo i dazi sui cereali e sulla carne, insieme ad un diritto del 5% sui manufatti. Comunque sia di ciò sarebbe interessante rispondere a questa domanda: Quanta parte del commercio con le colonie ora compiuto dai paesi esteri potrebbe essere accaparrato dalla madre patria?

 

 

Il rapporto tenta di fornire qualche dato per illuminare il problema. Nel 1900 per 113 milioni di lire sterline di merci importate nelle colonie autonome 55 venivano dall’Inghilterra, 47 da paesi esteri ed 11 da altri possedimenti britannici (commercio intercoloniale). Dei 47 milioni di merci estere, 9 milioni e 3/4 sono di una specie di merci che l’Inghilterra non produce ed 8 e 3/4 di merci che l’Inghilterra, pur potendole produrre, non potrà mai sperare di esportare in concorrenza con i paesi esteri. Rimangono 28 1/2 di merci che potrebbero essere esportati dall’Inghilterra, a cui aggiungendo 3 e 3/4 milioni di merci straniere, ora esportate per mezzo dell’Inghilterra e che questa potrebbe produrre direttamente, giungiamo ad un totale di 32 e 1/4 di milioni di lire sterline di merci che forse, grazie all’Unione doganale, l’Inghilterra potrebbe sperare di esportare nelle sue colonie invece dei paesi stranieri che attualmente godono di quel traffico.[8] Sembra una cifra grossa; ma occorre notare: a) che le nazioni estere ben difficilmente si lascierebbero strappare dalle mani tutto quel traffico, e farebbero ogni tentativo per conservarne almeno una parte; b) le nazioni straniere cercherebbero di rispondere all’Inghilterra con dei dazi di rappresaglia, cosicché questa perderebbe nelle proprie esportazioni verso l’estero forse meno e forse più di quanto guadagnerebbe nelle esportazioni verso le colonie. Adesso (1902) le esportazioni inglesi verso le nazioni estere salgono a 169.848 mila lire sterline; ed è un traffico crescente, benché in proporzioni minori del traffico colle colonie. Basterebbe che l’Inghilterra perdesse da un quinto ad un sesto di questo traffico per non ricavare più nessun vantaggio dall’Unione doganale con le colonie; c) si aggiunga che il problematico guadagno sarebbe ad usura controbilanciato dai danni inerenti ad una così colossale trasformazione di capitali (distruzione di una parte dei capitali importati nelle industrie esportatrici verso l’estero, capitali che nella loro forma attuale non sempre potrebbero destinarsi a produrre merci per le colonie); e dal rincaro della vita derivante dai dazi differenziali che l’Inghilterra dovrebbe mettere sulle importazioni all’estero.

 

 

La conclusione a cui sono venuto esaminando i dati del Board of Trade è quella stessa a cui per altra via è giunto il Root in un suo libro recente, che è forse il migliore contributo attuale allo studio delle relazioni commerciali nell’interno dell’impero inglese.[9] «Nel complesso, – egli conchiude dopo un lungo esame di fatti compiuto senza alcuno di quelli che si dicono preconcetti teorici, – è difficile scorgere quale azione determinata sia praticabile su una scala considerevole dai parlamenti imperiali o coloniali allo scopo di promuovere delle relazioni commerciali più strette fra le varie parti dell’impero». Se il filatore vuole cotone americano, non gli si può offrire del cotone egiziano solo per favorire un protettorato inglese; e neppure si può obbligare il mugnaio abituato al grano della California o dell’Illinois a prendere il grano del Canadà. Sono mutazioni che possono sembrare indifferenti ai politicanti; ma non agli uomini del mestiere. Probabilmente industriali ed operai insorgerebbero in massa contro i pretesi benefici che loro si vorrebbero accordare; a somiglianza di quell’operaio del Lancashire, che, all’epoca della fame del cotone, elevava al cielo frequenti preghiere perché l’Inghilterra fosse abbondantemente provveduta di cotone greggio, non scordandosi però mai di aggiungere: «Ma, o Signore, non mandateci cotone Surats!» Meglio pagare un po’ più caro cotone buono ed adatto, che non avere cotone cattivo a buon mercato.

 

 

La politica a cui lo Chamberlain invita l’Inghilterra è un vero salto nel buio; e ben a ragione la si può definire con Lord Goschen un vero gioco e, per giunta, un gioco in cui la posta è l’alimentazione del popolo.

 

 

Il salto nel buio è tanto più grave in quanto che quello che si conosce degli effetti del regime coloniale nel passato e dei dazi differenziali attualmente vigenti in Francia, in Germania, nell’Olanda ed in altri paesi, non dimostra che le madri patrie ne abbiano ritratto eccezionali vantaggi.

 

 

È vero che nelle colonie francesi della Riunione, Majotte, Indo Cina, Nuova Caledonia, San Pierre, Guadalupa, Martinica e Guiana le importazioni dalla Francia (quasi esenti da dazio), sono salite, nel periodo 1892-1901, da 65.957 a 154.282 mila franchi; che nel Madagascar si passò da 9.583 a 35.582 franchi, che nel Senagal, Guinea, Costa d’Avorio, Dahomey, Congo francese, possedimenti indiani e Taiti si passò da 16.956 a 52.103 mila franchi, che nell’Algeria si progredì da 189.639 a 258.977 mila franchi, a Tunisi da 21.774 a 34.264; e che nel complesso la proporzione delle importazioni di queste colonie dalla Francia in confronto alle importazioni totali salì dal 61 al 65% dal 1892-94 al 1899-1901; ma bisogna notare che – eccettuata l’Algeria, divenuta quasi parte della Francia – gran parte di queste importazioni francesi sono per conto del governo e rappresentano un costo, e non un beneficio, per la madre patria. Né si può dimenticare che l’Inghilterra, senza bisogno di dazi preferenziali, accrebbe le proprie esportazioni verso le colonie da 19.429 mila lire sterline nel 1850 ad 87.370 mila nel 1890 ed a 107.704 mila nel 1902.[10] Perché ciò che si ottenne nel passato, non si potrà conservare ed accrescere nell’avvenire? Forse che l’Inghilterra è divenuta meno abile nel ridurre i costi di produzione e sopportare la lotta coi produttori stranieri? In questo caso, essa dovrebbe accusare sé medesima e non gli altri del suo triste fato.

 

 

Né si può onestamente asserire che si può correre a cuor leggero l’alea, perché l’alimentazione del popolo non sarà mai in pericolo a causa dei dazi differenziali, non potendo il dazio ripercotersi sui prezzi delle merci. È un’indagine molto sottile questa, la quale qui non può essere esaurita di passata. Ma non posso trattenermi dall’inserire alcune cifre tratte dal rapporto, le quali provano quanto grande sia stata l’influenza dei dazi sul grano esistenti nella Francia e nella Germania sui prezzi del grano medesimo. Pur tenendo conto delle cautele accennate dal Bowley, e ricordate più sopra, la tabella seguente ha una significazione troppo chiara per essere trascurata. È un quadro del ribasso dei prezzi del grano dal 1871 in poi in varie nazioni:

 

 

 

Inghilterra

 

Germania

Francia

Stati Uniti

Anno tipo 1871…………………

100

100

100

100

Media 1872-81……………..

88.1

94.8

87.7

88.9

     »    1882-91………………..

61.6

77.8

71.4

63.0

     »    1897-1901…………..

48.0

67.8

62.6

50.3

Anno 1902…………………….

49.6

70.1

63.7

52.4

 

 

 

La differenza marcatissima fra l’Inghilterra liberista e gli Stati Uniti – dove il dazio sul grano, trattandosi di una nazione esportatrice è puramente nominale – da una parte, e la Germania e la Francia dall’altra parte è tale da far conchiudere, anche attesa l’unità mondiale dei prezzi, che il minor ribasso dei prezzi in Germania ed in Francia è stato dovuto all’unica loro circostanza differenziale, ossia all’esistenza di forti dazi in questi due paesi.

 

 

In Germania, dove l’importazione del grano crebbe costantemente dalle 20 alle 40 libbre per abitante nel decennio 1883-92 a 80-90, negli ultimi anni 1901-1902 il prezzo del grano rimase in media più alto di 6 scellini ed 11 pence nel periodo 1893-1901 del corrispondente prezzo inglese. Il dazio tedesco sul grano importato dall’estero era di 7 scellini e 7 pence e mezzo; cosicché il dazio in realtà fece aumentare il prezzo del grano nell’interno di quasi tutto il suo ammontare.

 

 

In Francia le cose sono meno chiare. Nel periodo 1883-1902 bisogna innanzitutto escludere gli anni 1885, 1887, 1891, 1892, 1894 e 1902, nei quali avvennero mutazioni nel dazio sul grano, sia in Inghilterra che in Francia, a causa delle quali ogni confronto riesce impossibile. Gli altri 14 anni devono essere divisi in due gruppi: a) di minima importazione (1895 con 29 libbre per abitante, 1896 con 10 libbre 1899, 1900 e 1901 con 10 libbre). Siccome il consumo medio è di circa 470 libbre per abitante, in questi anni si può dire che l’importazione sia stata quasi nulla e la Francia abbia bastato a sé medesima. Per l’abbondanza del raccolto interno il dazio non si poteva far sentire in tutta la sua intensità; e così accadde che mentre il dazio era di 12 scellini e mezzo per quarter, il prezzo francese fosse maggiore del prezzo inglese di soli 8 scellini e 3 pence; b) di massima importazione (tutti gli altri anni, con una importazione che andò nel 1891 sino a 120 libbre per abitante). In questi anni, per la scarsità del raccolto interno fu d’uopo ricorrere largamente al grano estero; ed il dazio ottenne il suo pieno effetto; ed anzi di più; perché mentre il dazio fu in media di 7 scellini e 5,5 pence per quarter, il prezzo francese fu maggiore del prezzo inglese di ben 9 scellini ed 11 pence.[11]

 

 

La conclusione interessantissima che si ricava da queste statistiche si è che il dazio sul grano non solo si repercote sui prezzi, ma si ripercote tanto più vivamente quanto più il raccolto è scarso. Conclusione questa la quale per sé forse sarebbe insufficiente, ma acquista valore probatorio in quanto viene a confermare le deduzioni teoriche che parecchi economisti aveano già raggiunto e fra gli altri il Dietzel nel suo scritto: Die Kornzoll und die sozialreform (Berlin, Simion). Vogliono gli inglesi, istituendo dazi differenziali sulle derrate alimentari, andar incontro a questo rischio?

 

 

È da sperare, se non da confidare, di no, tanto più che non sembra provato che essi stiano tanto male da aver il bisogno urgente di tentare nuovissime vie per far fortuna, specie quando queste vie sono sparse di precipizi e di abissi profondissimi e pericolosi.

 

 

L’argomento medesimo, di cui più si servono i protezionisti inglesi per dimostrare che l’Inghilterra corre alla rovina, ossia l’eccesso delle importazioni sulle esportazioni, è una fulgidissima riprova della sua potenza economica. Quell’eccesso variò dal 1903 al 1902 da un minimo di 132 ad un massimo di 184 milioni di lire sterline, con una media di 161 milioni all’anno. L’Inghilterra vive sul suo capitale, esclamano al contemplare queste cifre enormi i protezionisti. Non è possibile che essa compri tutti gli anni 160 milioni di lire sterline (4 miliardi di lire nostre), più di quanto non venda, senza spogliarsi a poco a poco del proprio capitale. Sono i valori esteri, le azioni delle ferrovie americane, i consolidati di governi stranieri che se ne vanno per comprare le importazioni eccedenti. Dopo, quando non ci saranno più titoli da vendere, sarà la rovina.

 

 

Ora il Rapporto del Board of Trade viene a smentire queste affermazioni. Pur lasciando da parte tutte le partite minori che concorrono a formare il saldo della bilancia monetaria, il Rapporto si ferma su due soli punti: i guadagni della marina mercantile inglese ed i profitti dei capitali presi all’estero; e con una serie di minute analisi e di ipotesi plausibili conclude che i primi non possono essere minori di 90 milioni di lire sterline all’anno ed i secondi di 62,5 milioni all’anno al minimo. Queste due cifre da sole quasi bastano a controbilanciare l’eccedenza dei 160 milioni; e forse la superano, se si tiene conto che una parte ragguardevole, se bene non precisabile dei redditi di valori stranieri, sfugge alle indagini degli agenti del fisco.[12] Non bisogna dimenticare che la cifra degli interessi e dividendi di nazioni straniere percepiti da inglesi non è né stazionaria, né decrescente: erano 31.890.423 lire sterline nel 1883-85, diventarono 55.488.832 nel 1890-91 e 62.559.429 nel 1901-2, le quali si dividono in 8.880.908 lire sterline provenienti da consolidati e prestiti ferroviari del governo indiano; 19.245.888 da titoli di governi coloniali ed esteri; 9.367.766 da titoli di imprese coloniali ed estere; 10.454.343 da dividendi di imprese straniere; e 14.610.574 da titoli ferroviari fuori dell’Inghilterra.

 

 

Né questa ha cessato di essere un grande mercato di borsa, dove si emettono fortissime quantità di titoli di prestiti esteri, di imprese straniere e coloniali; queste emissioni raggiunsero nell’ultimo decennio le seguenti somme:

 

 

1892…………..

milioni di lire sterline

49.9

1893…………..

»

29.0

1894…………..

»

52.2

1895…………

»

55.1

1896………….

»

56.1

1897………….

»

47.4

1898………….

»

59.8

1899………….

»

48.2

1900………….

»

24.2

1901………….

»

32.6

1902………….

»

57.7

 

 

La maggiore o minore ampiezza delle emissioni corrisponde ad anni di prestiti più o meno forte da parte dei governi e dal rinvigorirsi o rallentarsi delle speculazioni ferroviarie e minerarie. Nell’ultimo anno (1902) la cifra di 57.7 milioni di titoli assorbiti dal mercato inglese andò distinta così:[13]

 

 

Prestiti a governi stranieri ……………………………..

13.9

Prestiti a governi coloniali ……………………………..

19.4

Altri corpi pubblici stranieri e coloniali ……………..

1.8

Ferrovie straniere e coloniali …………………………

12.4

Compagnie minerarie …………………………………..

10.2

 

 

Anche la marina mercantile inglese non ha cessato di progredire sotto il regime del libero scambio; mentre lo stesso non si può asserire per alcune nazioni protezioniste, come la Francia e gli Stati Uniti (flotta oceanica).

 

 

Ecco un quadro dei progressi della marina mercantile a vela ed a vapore, in migliaia di tonnellate nette, dal 1840 al 1902.

 

 

 

1840

1860

1880

1900

1902

Regno Unito ………………………….

2768

4658

6574

9304

10054

Possedimenti britannici …………..

543

1052

1872

1447

1511

Totale Impero britannico ……….

3311

5710

8447

10751

11566

 

Russia ………………………………….

467

633

Finlandia ……………………………….

288

340

Norvegia ……………………………….

276

558

1518

1508

1467 (1901)

Svezia ………………………………….

542

613

640 (1901)

Danimarca ……………..…………..

249

408

416 (1901)

Olanda …………………………………

433

328

346

407

Impero Germanico …………………

1181

1941

2093 (1901)

Belgio …………………………………..

22

33

75

113

106

Francia …………………………………

662

996

919

1037

1110 (1901)

Spagna …………………………………

560

774

Italia …………………………………….

999

945

999 (1901)

Austria ………………………………….

223

198

232 (1901)

Ungheria…………………………..

51 (1890)

66

71 (1901)

Stati Uniti:

Navigazione marittima …………….

899

2546

1352

826

882

Totale compresa la navigazione su fiumi e laghi ………………………

1240

2752

2715

4338

4915

Giappone ……………………………..

863

917 (1901)

 

 

Anche per le costruzioni navali. L’Inghilterra conserva una posizione predominante (in migliaia di tonnellate).[14]

 

 

 

1858

1878

1902

 

Inghilterra: navi a vela ………………………….

156

148

81

       »          »    »  vapore …………………………

80

322

869

Totale ………

236

470

950

Germania ………………………………………………

32

101 (1901)

Francia ………………………………………………….

21

105 (1901)

Stati Uniti: sulla riva del mare …………………..

177

155

290

       »        sul Mississippi e suoi tributari ……

35

68

9

       »        sui grandi laghi ……………………….

31

11

168

Totale ………

244

235

468

 

 

Altri indici vi sono del progresso dell’Inghilterra. In una serie di appendici statistiche al rapporto ora citato si leggono delle tabelle relative al progresso dell’Inghilterra dal 1854 al 1902. Ne cito alcune scelte a caso.[15]

 

 

L’aumento della popolazione in Inghilterra e Galles da 18.6 a 33 milioni e nella Scozia da 3 a 45 – malgrado che l’Irlanda siasi ridotta, per le note sue traversie – da 6.1 a 4.4, porta la popolazione totale del Regno Unito da 27.7 a 41.9. L’emigrazione che era dello 0.97% del numero degli abitanti nel 1854, e che dallo 0.48 nel 1855-59 era salita gradatamente allo 0.75 nel 1880-84, ora è gradatamente discesa allo 0.39%. Risultato a cui ha contribuito in parte la minore natalità, ma in parte altresì il benessere maggiore delle classi operaie, le quali tendono meno ad abbandonare la patria.

 

 

Il tonnellaggio entrato nell’Inghilterra che era di 10 milioni nel 1855-59, di cui il 59,3 per cento appartenenti a navi inglesi, nel 1895-99 era salito a 44 milioni, di cui il 70.5 con bandiere inglesi. Le partenze erano passate contemporaneamente da 11 a 45 milioni di tonnellate; è da una proporzione del 58.3 ad una del 71.1% di navi battenti bandiera inglese.

 

 

La produzione di diverse merci era aumentata nelle seguenti proporzioni:

 

 

 

1855-59

1885-89

 

Carbone (milioni tonnellate)…

66

202

Ferro (pig.)   »             » ……..

 

3.5

8,6

Cotone greggio importato al netto delle riesportazioni (in milioni di cents) ……………….

7.9

14.1

Lana greggia importata al netto delle riesportazioni (in milioni di libbre) ………………

89.1

378.8

 

 

Il traffico ferroviario si è ampliato in relazione all’aumento enorme delle materie prime importate ed esportate e dei prodotti finiti circolanti nell’interno del paese. Il numero dei passeggeri trasportati salì da 135 a 1022 milioni (sempre confrontando le medie 1855-9 a 1895-9), il peso dei minerali trasportati da 46 (nel 1856-9) a 265 milioni di tonnellate; il peso delle altre merci in genere da 25.5 a 106 milioni di tonnellate. Le compagnie ritraevano un provento lordo di 11.6 milioni di lire sterline dal traffico dei passeggeri; ed ora ne ritraggono 40.5 milioni. Le merci rendono 47.9 milioni invece di 12.1. Le entrate totali delle ferrovie per abitante crebbero così:

 

 

1855-6

lire sterline 0

16 scellini

10 pence

1860-4

  »        »   1

0         »

8         »

1865-9

  »        »   1

5         »

6         »

1870-4

  »        »   1

11       »

11       »

1875-9

  »        »   1

15       »

9         »

1880-4

  »        »   1

17       »

5         »

1885-9

  »        »   1

17       »

8         »

1890-4

  »        »   2

0         »

11       »

1895-9

  »        »   2

4         »

2         »

 

 

Il guadagno netto delle Compagnie da 15.661.168 L. st. nel 1860-4 salì a 40.098.870 L. st. nel 1895-9.

 

 

Le somme compensate nella Clearing House di Londra ebbero un notevole incremento:

 

 

1870-4 ……………………… milioni di lire sterline

5.333

1875-9 ………………………

»

5.114

1880-4 ………………………

»

6.020

1885-9 ………………………

»

6.410

1890-4 ………………………

»

6.789

1895-9 ………………………

»

7.981

 

 

Le Casse di risparmio postali che nel 1862 aveano 178.495 depositanti e un milione e 700 mila lire sterline di depositi, nel 1902 aveano 9.133.161 depositanti e 144 milioni di depositi senza calcolare 16 milioni di titoli di Debito Pubblico comprati e custoditi per conto dei depositanti. Le Casse di risparmio ordinarie che nel 1854 aveano 1.277.873 depositanti e 33.7 milioni di depositi, ancora nel 1902, malgrado la concorrenza formidabile delle Casse postali, che distribuiscono un interesse artificiosamente alto a carico del Governo, contavano 1.670.394 depositanti e 52.5 milioni di depositi. In totale adesso i depositanti a risparmio salgono alla enorme cifra (che in media ogni anno cresce di più di 400 mila persone), di 10.803.555 con una somma depositata di 197.1 milioni di lire sterline, circa 5 miliardi di lire nostre.

 

 

Si comprende come, in codeste condizioni, il reddito delle classi medie ed alte abbia dovuto gradatamente espandersi. Per valutarne l’incremento nessun indice migliore dei dati forniti dai resoconti dell’imposta sui redditi (income tax). I rapporti dei Commissioners of the Inland Revenue forniscono ancora uno degli indici migliori (come nota anche il Bowley) dell’incremento della prosperità nazionale. Orbene, quei rapporti ci forniscono i seguenti dati rispetto al reddito lordo degli inglesi valutato agli effetti dell’income tax e distinto nelle cinque categorie A (redditi dominicali delle terre e case): B (redditi dei fittabili e coltivatori agricoli); C (interessi, annualità pagate dai Governi, nazionali ed esteri e da Enti pubblici); D (profitti industriali e commerciali, stipendi e salari non classificati nelle altre categorie), E (stipendi di pubblici funzionari).

 

 

 

A

B

C

D

E

Totale

   

 

(in milioni di lire sterline)

 

 

1855-9

131

51

28

90

17

317

1860-4

147

53

30

101

20

351

1865-9

151

57

33

155

24

420

1870-4

154

59

39

210

28

490

1875-9

172

68

40

263

32

575

1880-4

190

68

40

268

35

601

1885-9

196

62

44

292

40

634

1890-4

202

58

40

354

49

703

1895-9

214

55

39

379

57

744

1900

229

53

39

436

70

827

1901

233

53

41

466

75

868

1902

238

53

41

488

79

902

 

 

 

 

Questa tabella va completata con un’altra la quale specifica alcuni redditi più importanti delle categorie A e D:

 

 

 

                        A

 

                   D

 

Terre

Case

Miniere

Cave

Ferriere

Gazometri

 

1865-9

63.1

73.8

5.3

0.6

2.0

2.0

1870-4

65.4

87.6

7.1

0.8

4.0

2.6

1875-9

68.4

102.5

13.2

1.1

3.6

3.4

1880-4

67.8

121.0

6.9

0.9

2.6

4.6

1885-9

62.2

133.0

7.4

0.8

1.6

4.9

1890-4

57.3

143.4

10.3

1.0

2.3

4.9

1895-9

54.6

159.4

10.7

1.3

2.2

5.6

1900

52.8

174.4

9.5

1.6

3.2

6.1

1901

52.6

179.0

12.0

1.7

5.4

6.4

1902

52.5

184.6

17.6

1.6

6.6

5.9

 

 

Le due tabelle combinate insieme ci dicono: 1) che il reddito delle terre e delle imprese agricole è scemato a causa della crisi agraria; ma non è del resto scomparso come alcuni pretendono. È soltanto disceso al disotto delle cifre eccessive dei tempi di prezzi alti, e ciò con grande vantaggio delle masse; 2) il reddito dei titoli di Debito Pubblico tende a rimanere stazionario. È un bene perché vuol dire diminuzione del saggio dell’interesse e stimolo ad impiegare i capitali nelle industrie e nei commerci; 3) il reddito delle case cresce rapidamente, cosa poco lieta in quanto significhi aumento della rendita dei suoli edilizi, ma lietissima in quanto indichi un incremento grande nella capacità di consumo e nel comfort delle classi operaie; 4) la categoria di reddito che cresce di più è la D, ossia quella che comprende precisamente i redditi industriali e commerciale che i neoprotezionisti pretendono siano sulla via di volatilizzarsi e ridursi al nulla. Non solo non si volatilizzano ma crescono con una rapidità di cui non sia ha esempio altrove. Persino le miniere, le cave e le ferriere che, come tutti sanno, sono industrie aleatorie ed a profitti variabilissimi, si mantengono salde ed offrono dei bilanci soddisfacenti.

 

 

Queste per le classi capitaliste. Per le classi operaie il rapporto del Board of Trade ci offre una massa di dati così grande da produrre un vero imbarazzo nella scelta. Ricorderò i principali. Il pauperismo, la terribile piaga dell’Inghilterra nella seconda metà del secolo XVIII e nella prima metà del XIX è assai diminuito.

 

 

 

Poveri adulti capaci di lavorare

Altri poveri

TOTALE

Rapporto del numero dei poveri alla popolazione

%

Somme spese in soccorso ai poveri

 

Ammontare assoluto L. st

Per ogni povero L. s.d.

Per ogni abitante L. s.d.

   

Migliaia

   

Migliaia

 

   
1855-9

146

748

894

4.7

5.846

6.10.8

0.6.1

60-4

168

779

948

4.7

6.052

6.7.8

0.5.11

65-9

158

803

962

4.5

6.967

7.4.10

0.6.6

70-4

147

804

951

4.2

7.779

8.3.6

0.6.9

75-9

98

654

752

3.1

7.548

10.0.6

0.6.2

80-4

103

683

787

3

8.221

10.8.11

0.6.4

85-9

99

688

788

2.9

8.354

10.11.11

0.6.1

90-4

96

669

765

2.6

8.963

11.14.3

0.6.2

95-9

103

710

814

2.6

10.526

12.18.5

0.6.9

1900

93

698

792

11.567

1901

91

690

781

12.119

1902

94

706

801

11.548

 

 

Il numero dei poveri subisce delle oscillazioni cicliche; ma attraverso ad esso lo si può veder diminuire in cifra assoluta ed ancor più in cifra relativa; cosicché nonostante i poveri, trattati meglio, adesso costino più di prima, ogni abitante inglese finisce di essere in media gravato di una somma non diversa per il mantenimento dei poveri da quella che pagava quarant’anni fa.

 

 

I non poveri, d’altro conto, non possono certo lamentarsi di fronte ai loro compagni delle altre nazioni.

 

 

Ecco i salari di alcuni operai abili (skilled) impiegati nelle capitali dei seguenti Stati:[16]

 

 

 

Inghilterra

 

Stati Uniti

Germania

Francia

Numero dei casi ai quali si riferiscono le medie seguenti

470

141

184

248

 

Salari medi settimanali (in scellini e pence) per 15 industrie skilled:

 

a) Città capitali …………………..

42 s. O d.

75 s. O d.

24 s. O d.

36 s. O d.

 

b) Altre città ………………………

36 s. O d.

69 s. 4 d.

22 s. 6 d.

22 s. 10 d.

 

Percentuale dei salari rispetto ai salari inglesi considerati uguali a 100:

 

a) Città capitali …………………

100

179

57

86

 

b) Altre città …………………….

100

193

63

63

 

 

Se si eccettuano gli Stati Uniti, dove vigono condizioni speciali e dove è notoria l’altezza eccezionale dei salari, i salari inglesi si conservano superiori a quelli del continente europeo; e ciò malgrado che l’industria tedesca ottenga trionfi colossali e minacci di distruggere a breve scadenza, secondo quanto dicono i protezionisti, le prosperità dell’Inghilterra.

 

 

La superiorità dei salari inglesi è dinamica oltreché storica, perché nell’ultimo ventennio crebbero più che in ogni altro luogo. Se si assumono come uguali a 100 i salari inglesi del 1900, ecco a quanto ammontavano i salari di certe classi di operai in alcuni paesi (medie e valutazioni approssimative):

 

 

 

Inghilterra

Stati Uniti

Germania

Francia

Italia

1881

83.1

88.1

85.0

86

1885

81.9

90.6

87.5

91

1886

81.1

90.7

81.4

92

1890

90.1

95.5

84.4

98

1895

88.2

94.6

85.9

98

1896

89.2

94.7

88.6

96.6

98

1898

92.6

95.6

94.4

99

1899

95.1

98.2

96.8

100

1900

100.0

100.0

100.0

100.0

 

 

Se si parte dal 1886, anno in cui si hanno i dati, anche per la Germania, si vede che l’Inghilterra è il paese dove i salari sono partiti dal punto più basso per arrivare nel 1900 al 100; il che vuol dire che nel quindicennio i loro progressi furono massimi.[17]

 

 

Non solo gli operai inglesi sono pagati meglio, ma vivono anche a più buon mercato. È difficile avere statistiche esatte a questo proposito, ed il rapporto del Board of Trade, dopo una lunga disamina, è indotto a concludere che «le differenze di bisogni e di gusti fra popolo e popolo sono tali che il benessere comparativo delle classi lavoratrici in varii paesi, nel più largo senso della parola, non può essere determinato con qualsiasi metodo statistico».[18] Malgrado questo, ecco alcune cifre sui prezzi al minuto di alcune derrate di consumo popolare:

 

 

 

Londra

Parigi

Roma

Berlino

New York

Mosca

Budapest

 

Pane di frumento per 4 libbre (in pence) 1903

4 ½ 5

6 ½

5 ¾

5 ¼

(di segala)

0.10

5 ¾

4

Carne di bue per libbra:

Prussia

Pennsylvania

1901

nazionale

estera

 

9.0

9.5

7.4

6.4

Carne di montone:

1901

nazionale

estera

 

7.9

5.2

6.6

Burro 1901

13.6

12.3

13.4

Zucchero 1901

2

3.5

3.0

     »         1902

1.5

2.8

 

 

Il pane e lo zucchero, le due derrate che sono più minacciate dal neo protezionismo, sono anche fra quelle che si trovano più a buon mercato in Inghilterra. Pure la carne di montone estera, largamente consumata dagli operai, è poco cara. Il burro suppergiù ha lo stesso prezzo, è solo la carne di bue è più cara.

 

 

Ma veggasi il seguente interessante confronto fra la Germania e l’Inghilterra rispetto alle variazioni del costo dei cibi comperati in media da una famiglia operaia:[19]

 

 

 

Germania

 

Inghilterra

1877-81 …………………………….

112

140

1882-86 …………………………….

101

125

1887-91 …………………………….

103

106

1892-96 …………………………….

99

98

1897-1901 …………………………

100

100

 

 

Il che vuol dire che l’operaio tedesco nell’ultimo quinquennio con 100 marchi ha potuto comperare quella medesima quantità di cibo che venti anni prima gli costava 112 marchi. È un bel progresso, ma più rilevante fu il miglioramento dell’operaio inglese, che oggi compera con 100 ciò che prima gli costava 140.

 

 

Contro questi fatti si spuntano le lamentele dei neo protezionisti inglesi. Il regime libero scambista, durante il quale (io non voglio dire a causa del quale, per non ricorrere nel sofisma del post hoc propter hoc, così caro ai protezionisti passati e presenti), avvennero progressi così notevoli e persistenti nella ricchezza pubblica e nel benessere delle masse, può essere abbandonato senz’altro prima che sia dimostrato a luce meridiana che esso è la causa di mali più grandi dei benefici che la teoria insegna e l’esperienza conferma essere stati da lui prodotti? A me sembra di no; ed è certo che – a parte ogni inclinazione di scuola – non spetta a noi liberisti di provare che il sistema liberale deve essere mantenuto. L’onere della prova contraria spetta ai protezionisti. Sino a questo momento costoro non l’hanno fornita.

 



[1] Economic Notes on Insular Free Trade. By the Right Hon. Arthur James Balfour M. P. Longmans. 1 s. net.

[2] Memoranda, statistical tables and charts prepared in the Board of Trade with reference to various matters bearing on British and Foreign Trade and Industrial Conditions. London, 1903. Eyre and Spottiswoode. (Cd. 1761). Prezzo 3 s. 6 d.

[3] A.L. Bowley, «Statistical Methods and the Fiscal Controversy» in the «Economic Journal». September 1903.

[4] Rapporto cit., I, pag. 3 e seg.

[5] Rapporto cit., XXIII, pag. 360

[6] Leggere a questo proposito le notizie contenute nel n. XXII del Rapporto citato, The Export Policy of Trusts in certain Foreign Countries, pagg. 295-359 che è una vera e propria monografia sull’argomento dovuto al noto economista Mr. Schloss.

[7] Il Belgio e l’Olanda sarebbero per sé paesi liberisti, ma siccome gran parte del loro commercio è in realtà commercio con la Germania per Rotterdam ed Anversa, così è d’uopo includerli nella lista dei paesi protetti.

[8] Cfr. il calcolo il Rapporto cit., pag. 381.

[9] I.W. Root, The Trade Relation of the British Empire. Liverpool, Commerce Chambers, 1903, pagg. 431, Prezzo 10 s. 6 d. net.

[10] Cfr. Rapporto cit., pagg. 138 e segg., e 17 e segg.

[11] Cfr. Rapporto cit., pagg. 119 e segg.

[12] Cfr. Rapporto cit., pagg. 99 a segg.

[13] Cfr. Rapporto cit., pag. 104.

[14] Cfr. Rapporto cit., pag. 379.

[15] Cfr. le tabelle da pag. 397 a pag. 496 del Rapporto cit.

[16] Cfr. Rapp. cit., pag. 289.

[17] Cfr. Rapp. cit., pag. 275.

[18] Cfr. Rapp. cit., pag. 229.

[19] Cfr. Rapp. cit., pag. 226.

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