Opera Omnia Luigi Einaudi

La lezione di un monopolio

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 16/12/1899

La lezione di un monopolio

«Critica Sociale», 16 dicembre 1899, pp. 334-336

 

 

 

La storia della formazione del monopolio del diamante, che ho narrata nel precedente numero della Critica Sociale, deve essere completata colla descrizione dell’organismo della Società la quale monopolizza la produzione e lo smercio del diamante in tutti i paesi del mondo.

 

 

Questo organismo monopolistico presenta caratteri curiosi ed interessanti. A capo della Società stanno tre governatori a vita, che sono poi i maggiori proprietari delle azioni. Questi tre oligarchi amministrano un capitale di L. 98.750.000 in azioni, oltre ad un debito di L. 87.500.000 in obbligazioni ammortizzabili 5%, di 7.544.000 in obbligazioni 4 1/2 per cento. Per ammortizzare velocemente il debito e per dare la più alta rimunerazione possibile al capitale, i tre direttori adottarono un programma che si può riassumere in tre capisaldi: restringere la produzione ad un limite fisso; organizzare fortemente lo smercio dei diamanti; e costituire una forte riserva.

 

 

La restrizione della produzione si ottenne chiudendo tutte le miniere appartenenti alla Società, ad eccezione delle due più ricche, la De Beer’s e la Kimberley. Le miniere chiuse costituiscono una preziosa risorsa per l’avvenire. Alte furono la lagnanze dei bottegai e delle classi operaie, a cui veniva a mancare l’unica fonte di guadagno possibile nelle pieghe deserte dove si trovano i diamanti; ma la Società monopolista tenne fermo e

le miniere rimasero chiuse.

 

 

Delle miniere coltivate non si traggono più di 200.000 carati al mese, quantunque la potenzialità produttiva sia di gran lunga più elevata.

 

 

Ridotta la produzione, importava smerciare proficuamente. Alla organizzazione unitaria del processo produttivo era necessario aggiungere una organizzazione parallela del commercio diamantifero; affinché la concorrenza fra i mercati non producesse quelle perturbazioni nei prezzi, che si erano volute evitare fondendo in una sola tutte le miniere. Anche questo scopo fu ottenuto. Tutti i diamanti sono venduti per un periodo di tempo determinato, di solito un anno, ad un sindacato, (pool) di cinque grandi commercianti, i quali si obbligano a pagarli ad un prezzo fisso unico per tutte le grossezze e qualità, prezzo che nel 1897 fu di 34-35 lire al carato. I gioiellieri di tutto il mondo sono obbligati a rivolgersi, per ottenere i diamanti greggi, al sindacato dei cinque commercianti, i quali a turno ricevono la produzione della De Beer’s. Una fitta maglia stringe così i rivenditori alla potente Compagnia dell’Africa del Sud ed imprime un carattere monopolistico fino alle più lontane ramificazioni del commercio diamantifero.

 

 

Terzo e non ultimo fattore della potenza della De Beer’s è la riserva. La Società possiede infatti una riserva in consolidati inglesi di 28 milioni di lire. Può sembrare strano che un’impresa, la quale ha quasi cento milioni di lire di debito, per cui paga un interesse del 5%, tenga una riserva in consolidati che fruttano a mala pena il 2,40 per cento. Il fenomeno si spiega agevolmente appena si ricordi la natura specialissima della domanda di diamanti. Le piccole società preesistenti dovevano consentire a ribassi intermittenti di prezzi, perché erano costrette a vendere i diamanti anche nei tempi di crisi di economica e politica nell’Europa e tempi di crisi economica e politica nell’Europa e nell’America, quando le classi ricche cessavano di comprarli. Meglio era venderli che interrompere l’estrazione o fallire in seguito a mancato pagamento degli interessi sui debiti. La riserva di 28 milioni di lire permette alla De Beer’s di continuare le operazioni e di pagare puntualmente gli interessi dei debiti, i canoni delle miniere affittate e le altre spese fisse per nove mesi senza vendere un solo diamante. La riserva è l’arma con cui il monopolista si difende contro la sospensione nella domanda, sia che questa sospensione avvenga per cause naturali, sia che abbia la sua origine nella irritazione dei compratori obbligati a pagare troppo cari i diamanti. Ma il monopolista sa evitare molto bene questa seconda causa di interruzione nella domanda di diamanti.

 

 

Egli non ignora infatti che la sua prosperità dipende dalla moda; se questa abbandonasse i diamanti, sarebbe suonata la fine dei suoi enormi profitti. Egli per conseguenza non spinge molto in alto i prezzi, ma si limita a tenerli ad un livello costante. Prima della fusione, nel periodo 1882-89, i prezzi erano oscillati fra 37,15 e 24.32 lire al carato. Dopo, i punti estremi furono 36,90 e 30,55.

 

 

La media non fu gran fatto accresciuta; ma si evitarono le brusche variazioni.

 

 

All’opera accorta non poteva mancare l’adeguato premio. Nel 1888 la De Beer’s distribuiva un beneficio del 5% su un capitale di 31 milioni; poche erano le altre Società che ottenevano benefici; la maggior parte lavorava senza alcun profitto.

 

 

Ora la De Beer’s, su un capitale di 100 milioni, distribuisce dividendi variabili da 40 a 50 milioni di lire, ossia del 40-50 per cento.

 

 

La descrizione del potente organismo monopolistico del diamante è finita. Quali conseguenze generali se ne possono trarre?

 

 

A me pare di sentire già molti lettori socialisti della Critica Sociale osservare: «L’esempio del monopolio diamantifero è la prova migliore della verità della legge della concentrazione capitalistica annunciata dal Marx. Tutte le industrie dovranno seguire in un tempo più o meno breve l’esempio dell’industria dei diamante e delle altre imprese che sono state del pari unificate dai cosidetti sindacati, trusts, kartelli, che si vanno ognora più moltiplicando. Quando questo processo di concentrazione capitalistica sarà compiuto; quando tutte le imprese, od almeno la maggior parte di esse, saranno possedute da gigantesche società come la De Beer’s, sarà facile espropriare gli espropriatori e devolvere a beneficio della società gli enormi profitti di 40-50 milioni ottenuti da ogni impresa».

 

Ma sia permesso, nella qualità di studioso disinteressato di cose economiche, di osservare ai miei ipotetici lettori socialisti che le loro previsioni non mi sembrano giustificate dall’esame delle condizioni reali del problema.

 

 

La questione che si tratta di rivolgere è questa: I casi finora avveratisi di industrie monopolizzate dai sindacati, trusts, kartelli, ecc., bastano a permettere l’illazione che anche le altre industrie debbano in un futuro più o meno lontano concentrarsi in una sola grande impresa ed aprire così la vita ad un regime più o meno socialista?

 

 

Per rispondere alla domanda, basta ricordare che tutti i casi finora noti di sindacati, monopolii, trusts, kartelli, ecc., si possono dividere in due grandi categorie:

 

 

  1. Quelli che dipendono da cause naturali e sono i meno.

 

 

L’esempio forse più tipico è il sindacato del diamante, la cui storia ho narrata a balla posta per esporre nella sua luce più favorevole la tesi del concentramento. Il sindacato del diamante è dovuto esclusivamente a cagioni naturali tecniche. Altri esempi si potrebbero citare soltanto con grande fatica; e forse gli unici sono quelli che si riferiscono alle maniere: petrolio della Pennsylvania e del Caucaso, zinco monopolizzato dalla Società della Vieille Montagne, zolfo della Sicilia, carbone della Vestfalia, potassa dal bacino di Stassfurt, miniere di ferro del Lago Superiore appartenenti alla Società Carnegie. In tutti casi la formazione naturale del monopolio è stata resa possibile dal fatto, rarissimo a verificarsi, che i minerali monopolizzati si trovavano concentrati in un piccolo spazio di territorio, ed era utile e possibile ai proprietari di accordarsi per aumentare i prezzi ed unificare l’impresa. E nemmeno in tutti questi casi si può dire che la formazione del monopolio sia completamente dovuta a cause naturali; al trionfo della Società del petrolio contribuirono privilegi sui trasporti, al Sindacato dello zolfo giovarono i favori dello Stato, ecc. Forse questi monopolii si sarebbero formati egualmente anche senza il sussidio di cause artificiali, ma soltanto attraverso a molte e lunghe difficoltà;

 

 

  1. Quelli che dipendono da cause artificiali e sono i più.

 

 

La causa artificiale che ha maggiore importanza è la protezione governativa a mezzo di dazi doganali sulle merci similari estere.

 

 

Basta pigliare in mano, fra gli altri, il volume del De Rousiers su Les industries monopolisees aux Etats Unis o le pubblicazioni sui sindacati del Verein fur Sozialpolitik per convincerci che in fondo a quasi ogni sindacato sta la protezione che lo Stato ha concesso ai produttori interni di uno Stato contro la concorrenza estera.

 

 

Tutti i sindacati metallurgici, sul ferro sull’acciaio, sulle macchine, sulle locomotive, i sindacati nell’industria della navigazione, il grande sindacato nord americano sullo zucchero e quello sugli spiriti, i sindacati sui vetri ecc. ecc., sono dovuti a questa causa.

 

 

È perfettamente naturale che i pochi produttori interni di una merce protetta si mettano d’accordo per aumentarne il prezzo fino a quel punto massimo che è possibile di raggiungere senza tema di stimolare l’importazione estera.

 

 

Così stando le cose, è egli possibile, dai pochi esempi di sindacati dovuti a causa naturali, trarre illazioni a favore del cosidetto concentramento capitalistico?

 

 

Ho detto appositamente dai pochi esempi di sindacati dovuti a cause naturali, perché i molti casi di sindacati dovuti a cause artificiali non contano nulla. Basta fare scomparire la causa artificiale che ha dato loro origine, perché essi debbano dissolversi, con grande rammarico di quelli che si immaginavano già di trovarvi i germi di una futura organizzazione collettiva della società.

 

 

I pochi casi di monopoli naturali non provano nulla a favore e nello stesso tempo provano troppo contro la tesi della fatale concentrazione delle industrie.

 

 

Non provano nulla a favore di questa tesi, perché non sono certamente i fatti isolati dei diamanti nel Sud Africa, del petrolio nella Pennsylvania, del petrolio pure nel Caucaso, dello zolfo in Sicilia quelli i quali bastino a provare l’esistenza della legge del concentramento. Perché la legge esistesse bisognerebbe provare che in tutte le altre industrie il concentramento non si effettuò per l’intervento di cause perturbatrici, le quali impedirono che la tendenza naturale al concentramento potesse manifestarsi come si manifestò nei pochi casi suddetti. Dare una siffatta dimostrazione è impossibile.

 

 

Provano troppo contro la tesi, perchè i monopolii naturali poterono costituirsi solo per la forza geniale di qualche individuo che seppe giovarsi delle favorevoli condizioni naturali esistenti per monopolizzare un’industria.

 

 

Il monopolio del diamante è dovuto a Cecil Rhodes; il monopolio del petrolio a John D. Rockefeller. Chi può garantirci che i due monopolii si sarebbero formati se il Rhodes ed il Rockefeller non avessero saputo trarre partito dei favori della natura? Troppe sono le cose che non si fanno perché non sorgono gli individui adatti a compierle, per essere autorizzati a ritenere che il monopolio del diamante e quello del petrolio sarebbe sorti ugualmente anche senza l’opera dei loro fondatori.

 

 

Ora che l’organismo economico è costituito, tutti sono capaci di goderne i lauti profitti. Ma quanti fra quelli, che ora invidiano le ricchezze di Rhodes e di Rockefeller, sarebbero stati capaci di fare ciò che essi fecero?

 

 

Finché non si dia risposta a questa domanda, mi sembra inutile discutere sulla giustizia di espropriare i pochi monopolisti che devono la fortuna del loro monopolio a cause naturali.

Torna su