Opera Omnia Luigi Einaudi

Realtà ed apparenze nel peso del debito pubblico

Tipologia: Paragrafo/Articolo – Data pubblicazione: 24/12/1920

Realtà ed apparenze nel peso del debito pubblico

«Corriere della Sera», 24 dicembre 1920

Cronache economiche e politiche di un trentennio (1893-1925), vol. V, Einaudi, Torino, 1961, pp. 936-939

 

 

 

La esposizione finanziaria dell’on. Meda può essere commentata anche da punti di vista diversi da quello delle previsioni, le quali si possono fare sull’ammontare probabile delle entrate e delle spese dello stato italiano. Un dato importante è, a cagion d’esempio, quello del debito pubblico al 31 ottobre 1920. Ecco come si potrebbe classificare il debito a questa data (in milioni di lire):

 

 

Debito pre-bellico

13.439

Debito di guerra

Prestiti nazionali

35.450

Buoni del tesoro a 3 e 5 anni

4.570

Buoni del tesoro ordinari

10.740

Conto corrente fruttifero colla Cassa depositi e prestiti

572

51.332

Debito fruttifero
Biglietti di stato e di banca per conto dello stato

12.707

 

Debito interno di guerra

64.039

Debiti all’estero

20.594

84.633

Totale debito di guerra

84.633

98.072

Totale debito pubblico

 

 

Farò soltanto alcune delle molte osservazioni che da queste cifre sgorgherebbero. Intanto, sembra improprio seguitare a chiamare debito di guerra quello di 84 miliardi e 633 milioni di lire, creato dopo l’1 agosto 1914. Il vecchio sofisma del post hoc, ergo propter hoc è qui adoperato in grande stile. Notisi in primo luogo che almeno 35 su 85 miliardi del debito cosidetto di guerra furono creati dopo l’armistizio. E notisi che in altri paesi si cessò dal far debiti nuovi almeno a partire dalla fine del 1919. Ciò fa dubitare che una parte e notevolissima parte del debito sia dovuta a cause diverse dalla guerra propriamente detta. La qual convinzione si rafforza riflettendo che dei 13 miliardi di debito nuovo creato dall’1 novembre 1919 al 31 ottobre 1920 una buona metà è dovuta al pane, ossia alla falsa e timida politica del panem et circenses inaugurata durante la guerra, ma divenuta veramente preoccupante solo dopo l’armistizio per ragioni puramente politiche.

 

 

È impossibile scindere gli 84,6 miliardi del nuovo debito nei loro elementi costitutivi; ma si può fondatamente affermare che:

 

 

  • se fin dall’inizio si fossero istituite nuove imposte giustamente ripartite e serie;

 

 

  • se si fosse con ciò posto un freno all’aumento nella circolazione cartacea e quindi si fosse frenato l’aumento dei prezzi e delle spese per forniture, stipendi, caro-viveri, ecc.;

 

 

  • se si fosse riportato due anni fa, quando il distacco era molto meno sensibile, il prezzo del pane gradatamente al livello del costo;

 

 

  • se perciò fosse stato più agevole resistere alle domande, crescenti come valanga, di sussidi, doni, favori d’ogni specie a carico dello stato;

 

 

  • se si fosse resistito all’aumento e alla perpetuazione degli organi di approvvigionamento e di bardatura di guerra, costati, per confessione governativa, circa un miliardo di lire per il solo pane!;

 

 

  • il debito nuovo, invece di 84,6 miliardi non avrebbe forse toccato neppure i 50 miliardi. E, quel che più monta, avrebbe finito di crescere; mentre oggi dobbiamo prevedere nuove aggiunte, forse decrescenti, ma sempre spaventose, per un numero non piccolo di anni.

 

 

Piccolo conforto a tanta jattura: all’aumento del debito pubblico non corrisponde l’aumento nel suo peso effettivo sull’economia nazionale.

 

 

Qui bisogna fare necessariamente due ipotesi:

 

 

  1. che noi non rimborseremo i 20 miliardi e 594 milioni di debito verso i governi inglese e americano; trovando cioè un regolamento di esso che non implichi rimborso. Anche l’on. Meda nutre questa speranza quando scrive essere “lecito attendere che per il debito verso l’estero potrà essere studiata una soluzione od un regolamento che tenga conto della sua natura e delle sue origini”. Il che vuol dire che quei 20 miliardi e 594 milioni non sono un debito vero, ma una cifra di un bilancio complesso di dare e di avere fra combattenti per una causa comune, il quale potrebbe anche chiudersi in pareggio. Se quel debito dovessimo sul serio rimborsare, sarebbero guai; perché il suo peso è di 20 miliardi e 594 milioni di lire-dollari o di lire-sterline, ossia un peso corrispondente forse a 100 miliardi di lire italiane-carta odierne. Evidentemente, gli alleati non hanno voluto creare una cagion permanente di astio fra di essi e l’Italia. Un regolamento si deve trovare e si troverà;

 

 

  1. che la circolazione, escluso ogni futuro aumento, non venga neppure diminuita al disotto di quello che era al 31 ottobre 1920. Sarebbero pericolose le conseguenze che seguirebbero da una diversa politica. Importa arrestarsi ad ogni costo e star fermi. Non salire, per non crescere il disagio delle classi a redditi fissi. Non diminuire, per non produrre fallimenti nelle industrie, disoccupazioni, necessità di ridurre i salari, epperciò malcontenti nuovi e agitazioni perenni. Fermarsi e lasciar operare la vis medicatrix naturae. Il tempo aggiusterà ogni cosa, se gli si lascia modo di agire.

 

 

Fatte queste ipotesi, è evidente che il vero debito di cui si deve tener conto è solo quello interno fruttifero di 51 miliardi e 332 milioni di lire. Il debito estero sarà regolato a parte; e il debito in biglietti non reca fastidio, perché non lo si deve, almeno per lungo tempo, rimborsare e non porta carico di interessi.

 

 

Se così stanno le cose, noi dobbiamo confrontare il debito esistente all’1° agosto 1914 e cioè 14 miliardi e 839 milioni di lire (13 miliardi e 439 milioni indicati nella tabellina sovrastante, più 1 miliardo e 400 milioni di debito vecchio rimborsato e trasfuso nel nuovo) a 64 miliardi e 771 milioni (13 miliardi e 439 milioni di debito vecchio residuo, più 51 miliardi e 332 milioni di nuovo debito interno fruttifero) di lire di debito interno fruttifero esistente in totale al 31 ottobre 1920. In apparenza il debito è cresciuto da 1 a 4,36, ossia si è più che quadruplicato. In realtà il debito vecchio prima della guerra era valutato in lire buone vecchie, che valevano sul serio una lira l’una. Il debito odierno, nuovo e vecchio, è valutato in lirette piccole, che valgono suppergiù un quarto di quelle di prima. I contribuenti sono chiamati a pagare molto più di prima in imposte per il servizio degli interessi del debito; ma in buona sostanza, siccome essi pagano in lirette invece che in lire, non sopportano un sacrificio maggiore di prima. Chi prima pagava 1, ora paga 5 di imposta per il servizio del debito; ma se il suo reddito è cresciuto da 10 a 50, il suo sacrificio non è affatto cresciuto. Quel «se» è in verità formidabile, essendovi chi non ha cresciuto affatto il suo reddito, chi l’ha cresciuto solo a 20, chi a 50 e chi a 100 o 150. Le sperequazioni individuali sono gravi e numerose. Ma la grande maggioranza, se si mette la mano sul cuore e fa un esame di coscienza, deve confessare che, più o meno, i suoi redditi sono cresciuti. In media, si può affermare che il debito interno fruttifero non è oggi più pesante, sebbene espresso in cifre più grosse, del debito totale pre-bellico. Questa constatazione ha un significato complesso; ma importa farla ogni tanto ed insistervi, perché le cifre grosse non esercitino un’azione abbagliante sugli occhi del pubblico. Se si vuole che la constatazione resti vera anche per l’avvenire è necessario che si cessi di stampare nuovi biglietti e non si cominci a estinguerli. Ancora e sempre: rompere il torchio dei biglietti; e si aggiunga: per ora e per un pezzo non fare sulle pubbliche piazze nessun falò di biglietti emessi. Emettere nuovi biglietti sarebbe un delitto contro la pace pubblica; ritirare troppo presto quelli emessi vorrebbe dire provocare il fallimento delle economie private ed insieme dello stato.

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