Opera Omnia Luigi Einaudi

La teoria politica di Luigi Einaudi

di Alberto Giordano

 

1. Introduzione: Luigi Einaudi e il liberalismo

Luigi Einaudi è uno dei pochi liberali italiani presenti nel Pantheon del pensiero politico europeo. Ma che cos’è, per lui, il liberalismo? Per il momento limitiamoci a una definizione molto generale ma piuttosto significativa, se non altro perché la tenne ferma durante tutta la sua vita: il liberalismo è «la dottrina di chi pone al di sopra di ogni altra meta il perfezionamento, l’elevazione della persona umana…una dottrina morale, indipendente dalle contingenze di tempo e di luogo» (Liberalismo, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 29 luglio 1944, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia 1943-1947, a cura di P. Soddu, Firenze, Olschki, 2001, p. 65). Anche le pure dottrine morali, tuttavia, hanno bisogno di incarnarsi in istituzioni tangibili: così, sotto il profilo politico, «il liberalismo è una dottrina di limiti; e la democrazia diventa liberale solo quando la maggioranza volontariamente si astiene dall’esercitare coazione sugli uomini nei campi che l’ordine morale insegna essere riservati all’individuo, dominio sacro alla persona» (ivi, pp. 65-66).

In ambito economico, pur non rilevando, in linea di principio, un «legame diretto fra liberalismo e struttura economica» (ivi, p. 66), Einaudi era fortemente convinto che una società veramente liberale (e democratica) non avrebbe potuto fare a meno di preservare un’ampia sfera di libertà economica – una sfera riservata, dunque, alla libera azione degli individui nelle vesti di risparmiatori, consumatori e produttori:

«I liberali negano che la libertà dell’uomo derivi dalla libertà economica; che cioè la libertà economica sia la causa e la libertà della persona umana nelle sue manifestazioni morali e spirituali e politiche sia l’effetto. L’uomo moralmente libero, la società composta di uomini i quali sentano profondamente la dignità della persona umana, crea simili a sé le istituzioni economiche. La macchina non domina, non riduce a schiavi, a prolungamenti di se stessa se non quegli uomini i quali consentono di essere ridotti in schiavitù. Esiste un legame tra la libertà economica da un lato e la libertà in genere e la libertà politica in particolare dall’altro canto; ma è legame assai più sottile di quel che sia dichiarato nella comune letteratura propagandistica» (Il nuovo liberalismo, «La Città Libera», I, 1945, n. 1, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp. 119-120).

Approfondimento: Liberalismo, Il nuovo liberalismo

 

2. Le radici del pensiero einaudiano

In ciò Einaudi trasse ispirazione dai grandi classici della tradizione liberale: David Hume e Adam Smith; Alexander Hamilton e James Madison; Carlo Cattaneo e Francesco Ferrara; Benjamin Constant e Alexis de Tocqueville. Tra i contemporanei, Einaudi discusse fruttuosamente con Benedetto Croce e Gaetano Mosca; Vilfredo Pareto e Maffeo Pantaleoni; Lionel Robbins, Wilhelm Röpke e Friedrich von Hayek. A sua volta, Einaudi esercitò una forte influenza su alcuni importanti economisti e pensatori politici del Novecento italiano, quali Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, Piero Gobetti, Costantino Bresciani Turroni e Bruno Leoni.

Ma se le fonti del suo pensiero appaiono numerose e talvolta eterodosse (si pensi all’ammirazione dimostrata da Einaudi nei confronti di pensatori da lui certo distanti quali l’idealista Thomas Carlyle e il socialista Charles Fourier), egli non fece mai mistero di guardare all’Inghilterra quale patria ideale sia sotto il profilo politico che culturale – tanto che, in un saggio giustamente celebre, si era autodefinito «lettore appassionato, quasi monomaniaco, di libri inglesi» (Germanofili ed anglofili, «La Riforma Sociale», XXIII, vol. XXVII, 1916, n. 4, poi in Id., Gli ideali di un economista, Firenze, Edizioni de La Voce, 1921, p. 153).

Fu in particolare Adam Smith ad attirare la sua attenzione. A lui Einaudi dedicò alcuni saggi piuttosto suggestivi, nei quali passava in rassegna, rispettivamente, la fortuna di Smith in Italia e le tesi contenute in alcuni capitoli inediti risalenti alla prima stesura della Ricchezza delle Nazioni, avvenuta nel 1763. Smith rappresentava per Einaudi il prototipo del liberale attento ai presupposti etico-politici del sistema economico, fautore dell’economia di concorrenza, certo, ma anche convinto sostenitore di una seria politica antimonopolistica e per nulla indulgente verso i difetti di quello stesso meccanismo di mercato di cui egli è ancor oggi, nell’immaginario collettivo, il massimo profeta.

Nel lavoro di ricerca Smith adottava un approccio pluralistico: il suo giudizio era «insieme morale, storico ed economico» (Di una prima stesura dellaRicchezza delle Nazionie di alcune tesi di Adamo Smith intorno alle attribuzioni dei frutti del lavoro, «Rivista di storia economica», III, 1938, n. 1, ora in Id., Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1953, p. 101); non ci si doveva dimenticare che egli era l’autore tanto della Ricchezza delle nazioni quanto della Teoria dei sentimenti morali, e come tale – nella duplice veste di filosofo ed economista – era conosciuto già a fine Settecento in tutta Europa, Italia compresa. Questa caratteristica lo rendeva capace di mettere in comunicazione ambiti teorici diversi, tanto che spesso, dopo aver lavorato su «fatti storicamente constatati ed economicamente analizzati», si rivolgeva al «moralista tanto vivo in lui», sollecitando un confronto tra il piano etico e quello economico (ibidem).

Molto in comune Einaudi riteneva di avere anche con John Stuart Mill. E, in effetti, persino a un esame non troppo approfondito, si riscontrano numerose somiglianze: entrambi illustri economisti, attenti osservatori del socialismo e del movimento operaio, uomini politici insigniti di alte cariche istituzionali e autorevoli rappresentanti della tradizione liberale europea. In particolare, come vedremo meglio nel prossimo paragrafo, Einaudi trasse ispirazione dalla concezione antagonistica del progresso e della libertà avanzata da Mill. Così nel 1925, quando Mussolini – con il celebre discorso del 3 gennaio – si era fatto carico della responsabilità del delitto Matteotti e l’Aventino, cui egli non aveva comunque aderito, si stava risolvendo in un nulla di fatto, che Einaudi utilizzò appieno le tesi di Mill, tributandogli un esplicito ed altamente significativo omaggio. Gobetti pubblicò una nuova edizione italiana di On Liberty con una ispiratissima prefazione dello stesso Einaudi, nella quale egli incitava gli italiani a non cedere di fronte alla dittatura incombente:

«Sillabo, conformismo, concordia, leggi regressive degli abusi della stampa sono sinonimi ed indice di decadenza civile. Lotte di parte, critica, non conformismo, libertà di stampa preannunciano le epoche di ascensione dei popoli e degli Stati. Gli anni di forzato consenso da cui stiamo faticosamente uscendo hanno fatto nuovamente apprezzare agli italiani il diritto ed il vantaggio della discordia. Essi sentono che la libertà non è semplice strumento ma fine comune dal cui raggiungimento dipendono gli altri fini civili, politici e spirituali della vita. Ma, forse, questo è ancora più un sentimento che una convinzione profonda. Il saggio del Mill, che i nostri vecchi prediligevano, ritorna dunque dinnanzi agli italiani nel giusto momento dell’ansiosa ricerca del fondamento e dei limiti dell’idea di libertà» (Prefazione a J. S. Mill, La libertà, Torino, Piero Gobetti Editore, 1925, pp. vii-viii).

La prima funzione di uno Stato liberale degno di tal nome consisteva precisamente nella tutela del diritto al dissenso, alla critica, alla messa in discussione di qualsiasi idea e provvedimento; e il fascismo andava combattuto a partire da questa base, per riconsegnare agli italiani «il diritto ed il vantaggio della discordia».

«In ambito prettamente economico, Einaudi si considerava debitore, e in un certo senso continuatore, della scuola italiana di economia pura e di scienza delle finanze. Egli considerava infatti Maffeo Pantaleoni e Antonio De Viti de Marco alla stregua di veri e propri maestri; d’altronde i due «furono i fondatori dell’indirizzo ‘puro’ della finanza in Italia». Ma non è questa l’unica ragione dell’ammirazione di Einaudi. Pantaleoni rappresentava il prototipo dell’economista puro, allo stesso tempo anticipatore e continuatore, con i suoi Principi di economia pura (1889), dell’indirizzo marshalliano. In questo, oltre che nel campo della storia delle dottrine economiche, Einaudi lo preferiva decisamente a Pareto, del quale si atteggiava «convintamente quasi a discepolo suo» pur essendogli «di tanto superiore» (L. Einaudi, Prefazione ad A. De Viti de Marco, Principi di economia finanziaria, Torino, Einaudi, 1934, p. xv). Ancora nel 1950 Einaudi ripeteva il medesimo giudizio:

«Da lui massimamente, e metto lui prima di Pareto, sia perché egli venne prima nell’arringo teorico, sia perché egli, tuttoché si professasse minore e quasi allievo dell’altro grande, era in verità il maestro di tutti, fu dimostrato che le scienza economica altro non è che una logica. Se vi fosse chi sfrondasse i Principii dalla veste utilitaristica, si vedrebbe che essi altro non sono se non un moderno Euclide economico; su cui dovrebbero macerarsi i giovani per imparare a ragionar chiaramente nei fatti della vita quotidiana» (La scienza economica. Reminiscenze [1946], in M. Finoia [a cura di], Il pensiero economico italiano (1850-1950), Bologna, Cappelli, 1980, p. 99).

Non meno avaro di elogi Einaudi fu nei confronti di De Viti de Marco, cui lo legava un amichevole rapporto coltivato in lunghi anni di incontri e di corrispondenza. Einaudi riconosceva a De Viti il merito di aver elaborato il miglior schema allora disponibile per l’analisi della finanza pubblica, avendo avuto l’idea di «trasportare nel campo dell’economia pubblica le due ipotesi della concorrenza e del monopolio che nella economia privata erano servite ad ordinare chiaramente e spiegare tanti fatti». Ciò lo aveva condotto ad elaborare «da un lato l’ipotesi dello stato monopolistico, nel quale imposte e spese pubbliche sono ordinate allo scopo di procacciare il massimo guadagno a pro del capo o gruppo dominante» e «dall’altro, l’ipotesi dello stato cooperativo, nel quale l’ordinamento finanziario mira allo scopo di procacciare, col minimo di sacrificio per i contribuenti, quel risultato che ai cittadini liberamente legiferanti a mezzo dei loro delegati piaccia di deputare vantaggioso» (ivi, p. 105).

Su questa base così ricca, eterogenea e cospicua, Einaudi andò quindi a edificare la propria visione della società, dell’economia e della politica.

Approfondimento: Introduzione a J. S. Mill, La libertà, Di una prima stesura della ‘Ricchezza delle Nazioni’ e di alcune tesi di Adamo Smith intorno alle attribuzioni dei frutti del lavoro, La scienza economica. Reminiscenze

3. La lotta per le libertà

Einaudi partiva da una concezione antagonistica della natura umana e della società. In altri termini, a suo avviso gli individui – cellula base di qualsiasi organizzazione sociale – erano sempre tesi a dare il meglio di sé quando potevano esprimersi liberamente e autonomamente. Da qui, la convinzione che il dibattito, il contrasto, la lotta tra ideali e stili di vita diversi costituissero il motore, o almeno uno dei motori, del progresso e del miglioramento delle condizioni morali e materiali degli uomini. Una visione che, sebbene diffusa all’interno del panorama liberale – Einaudi stesso l’aveva mutuata, come già accennato, soprattutto da Mill – egli declinò però con indubbia originalità.

Già nel 1920, in un saggio dedicato all’esame critico delle tendenze conformistiche insite nel collettivismo, Einaudi dichiarava che «il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà ed il contrasto» e sosteneva, di conseguenza, che la tendenza verso l’uniformità rappresentasse un fattore di decadenza, piuttosto che di progresso:

«L’aspirazione all’unità, all’impero di uno solo è una vana chimera, è l’aspirazione di chi ha un’idea, di chi persegue un ideale di vita e vorrebbe che gli altri, che tutti avessero la stessa idea ed anelassero verso il medesimo ideale. Egli una sola cosa non vede: che la bellezza del suo ideale deriva dal contrasto in cui esso si trova con altri ideali che a lui sembrano più brutti, dalla pertinacia con cui gli altri difendono il proprio ideale e dalla noncuranza con cui molti guardano tutti gli ideali. Se tutti lo accettassero, il suo ideale sarebbe morto. Un’idea, un modo di vita che tutti accolgono, non vale più nulla. […] L’idea nasce dal contrasto. Se nessuno vi dice che avete torto, voi non sapete più di possedere la verità. Il giorno della vittoria dell’unico ideale di vita, la lotta ricomincerebbe, perché è assurdo che gli uomini si contentino del nulla. No. Gridiamolo alto. La vita disordinata, affannosa, antiunitaria, antidisciplinata, che noi conduciamo pare insopportabile a noi che ne soffriamo i duri contraccolpi individuali, economici e morali. Parrà bellissima alle venture generazioni, le quali godranno i frutti delle verità politiche, economiche e morali che i contrasti odierni avranno fatto trionfare» (Verso la città divina, «Rivista di Milano», III, vol. VII, 1920, n. 36, ora in Id., Il Buongoverno. Saggi di economia e politica 1897-1954, a cura di E. Rossi, Roma-Bari, Laterza, 1973, vol. I, pp. 34-35).

In tale filosofia vanno rintracciate le ragioni del famosissimo motto einaudiano «l’impero della legge come condizione dell’anarchia degli spiriti» (ivi, p. 37): una cornice giuridica progettata per consentire agli individui di sviluppare, nel rispetto dell’eguale diritto altrui, convinzioni e stili di vita vari e tra loro contrastanti.

Ragioni analoghe stanno alla base di un saggio giustamente famoso, composto sul finire del 1923 per La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti e successivamente ristampato in veste di prefazione alla celebre raccolta Le lotte del lavoro: si tratta de La bellezza della lotta. Einaudi dichiarava apertamente «la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e, in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere e a perfezionarsi»; in campo economico, ciò veniva testimoniato dall’esempio del «socialismo sentimento…che ha fatto alzare la testa agli operai…e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere» (La bellezza della lotta, «La Rivoluzione Liberale», II, 1923, n. 40, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. II, p. 523). In base a queste premesse, Einaudi delineava inoltre i profili assai differenti del socialismo e del liberalismo:

«Tanti sono socialisti senza saperlo, come tanti che si dissero socialisti o furono a capo di movimenti operai contro gli industriali erano di fatto puri liberali. Un industriale è liberale in quanto crede nel suo spirito di iniziativa e si associa con i suoi colleghi per trattare con gli operai o per comprare o vendere in comune; è puro socialista quando chiede allo stato dazi protettivi. L’operaio crede nella libertà ed è liberale quando si associa ai compagni per creare uno strumento comune di cooperazione o di difesa; è socialista quando invoca dallo stato un privilegio esclusivo a favore della propria organizzazione, o vuole che una legge o una sentenza del magistrato vieti ai crumiri di lavorare. Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato con lo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri; è socialista colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi (ivi, p. 524)».

Come si può agevolmente notare, i toni e le posizioni espresse non sono per nulla distanti da quelle rintracciabili in Verso la città divina, risalente a tre anni prima. E tuttavia Einaudi si stava scagliando contro un nuovo bersaglio polemico: la dottrina corporativista della collaborazione di classe. Essa consisteva semplicemente in «una nuova formulazione, con linguaggio mutato, di teorie le quali si sono di volta in volta sforzate di ritrovare l’unità perduta» tra mondo del capitale e del lavoro, senza riuscire ad evitare l’errore di «negare il diritto all’esistenza dei rivali sconfitti», mentre proprio allora occorreva «negare che l’equilibrio esistesse nel monopolio, nella soppressione di diritto o di fatto degli avversari» (ivi, pp. 526, 528, 529). Se era l’equilibrio la meta ricercata, occorreva che questa ricerca si attenesse a quattro principi basilari; due dei quali, soprattutto, Einaudi considerava fondamentali:

1. «è preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore»;

2. «perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato ad ogni istante di non durare».

Qui Einaudi pare portare alle estreme conseguenze le premesse di partenza. In effetti per l’economista piemontese «l’equilibrio consiste in una successione di continui mai interrotti perfezionamenti, attraverso a oscillazioni, le quali attribuiscono la vittoria ora a questa, ora a quella delle forze contrastanti»; una dialettica delle forze sociali che rappresentava, nella sua visione, l’ordinamento più consono alla natura umana, la quale «è cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita» (ivi, pp. 526, 528, 531).

Approfondimento: La bellezza della lotta, Verso la città divina

 

4. Mercato e concorrenza

Parte del travaglio vitale era senz’altro costituito, per Einaudi, dal misurarsi nella competizione economica. Dalla sua impostazione antagonistica discende infatti una particolare visione del mercato e della concorrenza: il mercato, certo, è uno spazio entro il quale solitamente vengono soddisfatte le preferenze dei consumatori alle condizioni più favorevoli – cosa che Einaudi teneva in grande considerazione; ma il sistema basato sulla libertà di iniziativa consente soprattutto agli individui di accedere il più autonomamente possibile a qualsiasi professione essi desiderino intraprendere come strumento di autodeterminazione economica ed elevazione morale. Il lavoro viene quindi concepito non solo come mezzo di sussistenza o di conquista del benessere, ma come fonte di crescita e di gratificazione personale, una merce assai rara e preziosa, un bene da tutelare.

Ecco dunque i pilastri del suo originale liberalismo economico, nel quale assumeva un ruolo preponderante la difesa del pluralismo, inteso sia nel senso di varietà di stili di vita – e quindi di professioni intraprese secondo le inclinazioni personali – sia nel senso di molteplicità di attori economici presenti sul mercato. Il tutto veniva riassunto in una teoria complessiva nella quale spicca l’interconnessione tra libertà civili, politiche ed economiche:

«La libertà del pensare è dunque connessa necessariamente con una certa dose di liberismo economico…La concezione storica del liberismo economico dice che la libertà non è capace di vivere in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fioritura di vite umane vive per virtù propria, indipendenti le une dalle altre, non serve di un’unica volontà. In altri termini, e per non lasciare aperta alcuna via al rimprovero di fa dipendere la vita dello spirito dall’economia, lo spirito libero crea un’economia a se medesimo consona e non può creare perciò un’economia asservita ad un’idea, qualunque essa sia, imposta da una volontà, per definizione e per ragion di vita, intollerante di qualsiasi volontà diversa. Lo spirito, se è libero, crea un’economia varia, in cui coesistono proprietà privata e proprietà di gruppi, di corpi, di amministrazioni statali, coesistono classi di industriali, di commercianti, di agricoltori, di professionisti, di artisti, le une dalle altre diverse, tutte traenti da sorgenti proprie i mezzi materiali di vita, capaci di vivere, se occorre, in povertà, ma senza dover chiedere l’elemosina del vivere ad un’unica forza, si chiami questa stato, tiranno, classe dominante, sacerdozio intollerante delle fedi diverse da quella ortodossa. Devono, nella società libera, o liberale, l’individuo, la famiglia, la classe, l’aggruppamento, la società commerciale, la fondazione pia, la scuola, la lega artigiana od operaia ricevere bensì la consacrazione della propria vita legale da un organo supremo, detto stato; ma devono sentire e credere di vivere ed effettivamente vivere di vita propria [poiché] senza la coesistenza di molte forze vive di linfa originaria non esiste società libera, non esiste liberalismo» (Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, «La Riforma Sociale», XXXVIII, vol. XLII, 1931, nn. 3-4, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, pp. 228-229).

In questo passo sono presenti pressoché tutte le peculiarità del liberalismo di Einaudi: il rimando alla dimensione morale, la centralità delle scelte operate dagli individui, l’imprescindibilità della concorrenza, l’esigenza del più ampio pluralismo sociale, la predilezione per un sistema politico nel quale l’esercizio del potere venga limitato dai corpi intermedi.

Nello specifico, l’economia di concorrenza appare una fedele proiezione della società liberale – ancora meglio, dei valori liberali. Questa convinzione maturò ben presto in Einaudi, ma giunse ad assumere carattere definitivo solo nel corso di un celebre dibattito che, dal 1928 al 1941, intrattenne con il filosofo Benedetto Croce. In una serie di saggi e interventi risalenti agli anni 1924-1927 Croce aveva delineato la propria concezione del liberalismo sino a giungere, nel 1931, a negare che sussistesse alcun legame tra libertà politica e libertà economica:

«Come oramai dovrebbe essere pacifico, il liberalismo non coincide con il cosiddetto liberismo economico, con il quale ha avuto bensì concomitanze e forse ne ha ancora, ma sempre in guisa provvisoria e contingente, senza attribuire alla massima del lasciar fare e lasciar passare altro valore che empirico, come valida in certe circostanze e non valida in circostanze diverse. Perciò né esso può rifiutare in principio la socializzazione…né l’ha poi sempre rifiutata nel fatto…e solamente esso la riprova e la contrasta in casi e dati particolari, quando è da ritenere che arresti o deprima la produzione della ricchezza e giunga al contrario effetto, non di un eguale miglioramento economico dei componenti di una società, ma di un impoverimento complessivo, che spesso non è neppure eguale; non di un accrescimento di libertà nel mondo, ma di una diminuzione e di un’oppressione che è imbarbarimento o decadenza: giacché solo nella capacità o meno di promuovere libertà e vita è il criterio di giudizio per qualsiasi riforma» (Storia d’Europa nel secolo decimonono (1932), a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 1993, pp. 48-49).

Ad esempio se, come voleva il comunismo ottocentesco, abolendo la proprietà privata dei mezzi di produzione si fosse assistito a un aumento della produzione – e quindi della ricchezza – e soprattutto ad un’ulteriore espansione della libertà, «il liberalismo non potrebbe se non approvare e invocare per conto suo quella abolizione» (ivi, p. 50).

A conclusioni così discutibili Einaudi rispose con alcune riflessioni che andavano nella direzione di istituire un legame indissolubile tra liberalismo e liberismo. si poteva davvero ottenere, anche solo a livello teorico, una maggiore libertà individuale impiegando mezzi propri del collettivismo? O meglio, nelle parole di Einaudi, «un liberalismo il quale accettasse l’abolizione della proprietà privata e l’instaurazione del comunismo», potrebbe ancora chiamarsi liberalismo? La risposta era negativa, in virtù delle caratteristiche specifiche del regime collettivistico:

«Una sola deve essere la volontà la quale dirige e fissa la produzione e la distribuzione dei beni economici. […] Essenziale alla vita del sistema è che gli strumenti d’azione non abbiano una volontà propria, diversa ed indipendente da quella dello stato e del gruppo politico in cui lo stato si impersona. […] Se la volontà è unica e la società collettivistica è perfetta, non può non esistere se non una sola ideologia, un solo credo spirituale. Non sono tollerabili ideologie concorrenti, eresie le quali sono altrettante forze indipendenti, le quali intendono necessariamente a distruggere ed a sostituire la ideologia dominante; forze assai più efficaci di quelle materiali o formali perché aventi radice nello spirito. Il comunismo non può dunque tollerare la libertà di pensiero, che lo trasformerebbe e minerebbe a breve andare» (Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, cit., pp. 226-227).

Cosa significava tutto ciò? Che tra libertà economica e libertà spirituale esistevano legami più stretti di quanto avesse pensato Croce. La conclusione era che il liberalismo non avrebbe potuto «assistere concettualmente all’avvento di un assetto economico comunistico, come pare ammetta il Croce», poiché comunismo e libertà individuale erano tout court incompatibili.

Lo erano anche perché nei regimi comunisti sarebbe mancata una caratteristica peculiare delle società libere e prospere: una forte propensione al risparmio. Per Einaudi la necessità del risparmio corrispondeva addirittura a un particolare tipo antropologico, caratteristico dell’uomo ‘civilizzato’:

«Il cosiddetto incivilimento è caratterizzato, dal punto di vista economico, dal prevalere del senso della previdenza, della preoccupazione dell’avvenire, dei calcoli per il futuro lontano, dell’egoismo di specie sul senso del presente, del godimento immediato, dell’egoismo individuale. Vi è una distanza straordinaria fra l’uomo selvaggio e l’uomo civile, fra chi non concepisce l’idea del domani e chi subordina il presente all’avvenire. Si può asserire che a mano a mano che il senso della previdenza si diffonderà tra gli uomini e diventerà quasi universale, riducendo ad una proporzione decrescente e piccola il numero degli imprevidenti, degli scialacquatori, nella stessa misura il saggio dell’interesse tenderà a scemare e ad avvicinarsi a zero» (Il socialismo e il risparmio, «Energie Nove», II, 1919, n. 4, ora in Id., Le lotte del lavoro, a cura di P. Spriano, Torino, Einaudi, 1972, pp. 101-102).

Il risparmio veniva dunque visto non solo come virtù economica, quanto come scelta morale. Quella stessa scelta che portava gli individui a lottare per vedere affermato il valore assoluto della libertà, che si incarna sia nel «bisogno di libertà del contadino, del mercante, dell’artigiano, dell’industriale, del professionista, dell’artista», sia «nel bisogno del pensatore di meditare liberamente…del religioso di predicare il proprio verbo…dell’uomo in genere di possedere la uguaglianza giuridica con ogni altro uomo». Tutte queste espressioni di libertà, per Einaudi, «sono l’una all’altra legate» e rimandano all’essenza più intima della natura umana:

«La mia tesi torna, dunque, sempre al medesimo punto: l’idea della libertà vive, sì, indipendente da quella norma pratica, contingente, che si chiamò liberismo economico; ma non si attua, non informa di sé la vita dei molti e dei più se non quando gli uomini, per la stessa ragione per cui vollero essere moralmente liberi, siano riusciti a creare tipi di organizzazione economica adatti a quella vita libera» (Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico, «Rivista di storia economica», II, 1937, n. 2, ora in B. Croce – L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di G. Malagodi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988, pp. 147, 150).

Approfondimento: Dei diversi significati del concetto di liberismo economico e dei suoi rapporti con quello di liberalismo, Tema per gli storici dell’economia: dell’anacoretismo economico, Intorno al contenuto dei concetti di liberismo, comunismo, interventismo e simili

 

5. I confini della libertà economica

Ciò non significa, tuttavia, che l’economia di mercato potesse considerarsi un microcosmo autosufficiente. Al contrario, Einaudi riteneva che solo in presenza di determinati presupposti extra-economici il mercato avrebbe potuto produrre output positivi per l’intera società. Occorreva, insomma, costruire una cornice etico-giuridica capace di creare l’humus adatto allo sviluppo della libera iniziativa e, al medesimo tempo, di contenerne le spinte maggiormente distruttive:

«Nel regime liberistico la legge pone i vincoli all’operare degli uomini; ed i vincoli possono essere numerosissimi e sono destinati a diventare tanto più numerosi quanto più complicata diventa la struttura economica. La legge, ossia non il governo o potere amministrativo, bensì la norma discussa apertamente, largamente, in seguito a pubbliche inchieste, con interrogatori pubblici di tutti gli interessati e di tutti coloro i quali reputino di aver qualcosa da dire in argomento; la legge fatta osservare da magistrati ordinari, indipendenti dal governo, e posti al di fuori e al disopra dei favori di governo. E questa non è, evidentemente, una via regia o dritta o rapida o sicura verso il benessere, verso la felicità, verso il bene. Anzi, tutto il contrario. E’ via lunga, ad andate e ritorni, piena di trabocchetti e di imboscate, faticosa ed incerta. E’ tale perché non può essere diversa; perché gli uomini debbono fare esperimenti a proprio rischio, debbono peccare e far penitenza per rendersi degni del paradiso; perché essi non si educano quando qualcuno si incarica per decidere per loro conto e per loro nome quel che debbono fare e non fare; ma debbono educarsi da sé e rendersi moralmente capaci di prendere decisioni sotto la propria responsabilità» (Intorno al contenuto dei concetti di liberismo, comunismo, interventismo e simili, «Argomenti», I, 1941, n. 9, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, pp. 289-290).

La costruzione di un sistema così complesso, nel quale determinati valori avrebbero costituito la base del tessuto economico e politico, comportava una certa revisione degli stessi ideali liberali, a partire dalla rivisitazione dei rapporti tra morale ed economia. Einaudi aveva intrapreso questo cammino sin dalla metà degli anni trenta, ma lo accelerò notevolmente una volta stabiliti i contatti con l’economista tedesco Wilhelm Röpke (1899-1966). Questi aveva elaborato una proposta organica di riforma della dottrina liberale – da lui etichettata come ‘terza via’ – in grado di superare «l’infeconda alternativa tra il laissez-faire e il collettivismo» (La crisi sociale del nostro tempo (1942), trad. it. di E. Bassan, Roma, Einaudi, 1946, p. 32). Röpke immaginava una sintesi neo-liberale lontana tanto dall’intessere un’apologia del capitalismo monopolistico, come a suo avviso si era ridotto a fare il liberalismo ufficiale, quanto dal rispondere al richiamo delle sirene socialiste e stataliste in genere. L’interesse di Einaudi per il suo lavoro era talmente forte che non solo recensì il capolavoro del collega, Die Gesellschaftskrisis den Gegenwart (La crisi sociale del nostro tempo) pubblicato nel 1942, ma nel 1946 ne fece addirittura realizzare una traduzione italiana pubblicata dalla casa editrice di suo figlio Giulio.

Einaudi trovò particolarmente attraente la prospettiva rȏpkiana anche perché egli stesso ne aveva ampiamente anticipato alcuni punti essenziali. Temi quali il ritorno alla terra e alla natura, l’esaltazione delle libere professioni e delle piccole unità produttive, la diffusione capillare della proprietà ricorrono molto spesso nella sterminata produzione scientifica e pubblicistica einaudiana. D’altra parte, è anche vero che solo in questo frangente egli decise di intraprendere uno studio minuzioso della ratio dei sistemi economici, accompagnandolo a un attento esame della psicologia degli attori sociali. Sebbene vi fossero certamente ragioni economiche e sociologiche per ritenere necessaria una limitazione dell’ambito della concorrenza, assai più importanti per Einaudi erano quelle morali. Egli pareva condividere la condanna promulgata da Röpke nei confronti del ‘capitalismo storico’, ritenendo che troppo spesso si fosse data per scontata l’autosufficienza del mercato. La realtà, tuttavia, si era dimostrata ben diversa e di questo non si erano accorti in tempo utile i protagonisti della vita istituzionale, pur deputati a realizzare adeguate restrizioni di carattere normativo e amministrativo all’attività economica:

«Gli uomini del secolo passato supposero che bastasse lasciar agire gli interessi opposti perché dal loro contrasto nascesse il vantaggio comune. No, non basta. Se si lascia libero gioco al laissez-faire laissez-passer, passano soprattutto gli accordi e le sopraffazioni dei pochi contro i molti, dei ricchi contro i poveri, dei forti contro i deboli, degli astuti contro gli ingenui. Ma questa, che è critica distruttiva del liberalismo storico, impone soltanto un ritorno alle origini pure del sistema di concorrenza. Questo implica altrettanto e forse maggior intervento di qualunque altro sistema economico; intervento destinato a serbare intatta l’azione della concorrenza, unica vera forza che dal contrasto degli interessi fa sprigionare l’osservanza dell’interesse comune» (Economia di concorrenza e capitalismo storico. La terza via fra i secoli XVIII e XIX, «Rivista di storia economica», VII, 1942, n. 2, p. 64).

Questa non era l’unica ragione per mettere mano alla regolazione del processo economico. Se si voleva salvaguardare la possibilità degli individui di godere della libertà economica, e quindi di accedere liberamente al mercato, occorreva porre degli argini al mercato stesso poiché, come scriveva a un suo celebre corrispondente, «se non si creano delle oasi franche dalla concorrenza, uccidiamo quella stessa concorrenza che è desiderabile come norma generale» (Luigi Einaudi a Ernesto Rossi, 10 luglio 1942, in Idd., Carteggio 1925-1961, a cura di G. Busino e S. Martinotti Dorigo, Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1986, p. 104).

Che di queste oasi franche vi fosse bisogno ci si poteva rendere conto semplicemente osservando il disagio manifestato da molti uomini, sintomo di una lacerazione così profonda da minacciare di distruggere le basi stesse della comunità:

«Gli uomini non vogliono durare tutta la vita nell’incessante fatica della emulazione; gli uomini non vogliono, per vivere, fare appello ogni giorno al bullettino di voto del consumatore. Od almeno, molti uomini hanno altri ideali di vita. […] Non tutti gli uomini hanno l’anima del soldato o del capitano disposti ad ubbidire od a lottare ogni giorno quant’è lunga la vita. Molti, moltissimi, forse tutti in un certo momento della vita o in dati momenti di ogni giorno della vita sentono il bisogno di riposo, di difesa, di rifugio. Vogliono avere un’oasi dove riposare, vogliono sentirsi per un momento difesi da una trincea contro l’assillo continuo della concorrenza, dell’emulazione, della gara. […] L’economia di concorrenza vive e dura, data l’indole umana, solo se essa non è universale; solo se gli uomini possono, per ampia parte della propria attività, trovare un rifugio, una trincea contro la necessità continua della lotta emulativa, in che consiste la concorrenza. Il paradosso della concorrenza sta in ciò, che essa non sopravvive alla sua esclusiva dominazione. Guai al giorno in cui essa domina incontrastata in tutti i momenti e in tutti gli aspetti della vita. La corda troppo tesa si rompe» (Economia di concorrenza e capitalismo storico, cit., pp. 66-67).

Certo siamo piuttosto distanti, almeno apparentemente, dall’Einaudi cantore della lotta e fautore di un liberalismo antagonistico ispirato a Humboldt e Mill. Tali riflessioni vanno tuttavia contestualizzate, poiché a prima vista potrebbe sembrare che contraddicessero quanto egli aveva sostenuto nel corso del lungo dibattito con Croce. Einaudi aveva giustificato la necessità della libertà economica, e quindi dell’economia di mercato che ne incarnava l’applicazione concreta, in base ad un principio morale, ossia la possibilità di elevazione materiale e spirituale dell’individuo. Gli individui non sarebbero stati in grado di sviluppare le proprie personalità senza la possibilità di disporre liberamente di sé anche nel campo economico. Per crescere in maniera sana, la società necessitava che ai membri di essa fosse concesso di dar vita alla maggior varietà possibile di comportamenti, naturalmente sempre nei limiti del rispetto della eguale libertà altrui. L’economia di mercato rappresentava uno dei mezzi ideali per conseguire tale fine. Ma proprio per le medesime ragioni occorreva porre dei limiti al processo economico tutte le volte in cui esso minacciava di vanificare lo scopo per il quale era stato prescelto, promuovendo modi di produzione incompatibili con le fondamenta morali della società e portatori di povertà e conformismo. Per un fautore del liberalismo, dunque, invocare l’adozione di limiti alla concorrenza si rivelava perfettamente legittimo, dal momento che gli effetti del trionfo generalizzato della concorrenza avrebbero frantumato lo stesso sistema liberale.

Einaudi ribadì queste profonde convinzioni anche quando, a partire dalla metà del 1944, in compagnia di tanti altri antifascisti stava iniziando a pensare alla ricostruzione dell’economia italiana, una volta terminata la guerra e sconfitta la dittatura fascista. Nel programma dei liberali avrebbe dovuto trovar posto «la lotta contro la plutocrazia e il latifondo», concetto che però andava correttamente inteso: «non la lotta contro l’industriale che tenta nuove vie, che organizza meglio l’impresa, che accresce la produzione in modo remunerativo in libera competizione con tutti i concorrenti», bensì «la lotta a fondo contro tutti coloro che hanno chiesto i mezzi del successo ai privilegi, ai monopoli naturali ed artificiali, alla protezione doganale, ai divieti» –misure mirate principalmente «ad innalzare le masse e di renderle degne e capaci di prendere parte al governo economico della società» accanto a un ceto medio nuovamente rinvigorito (Lineamenti di una politica economica liberale, Roma, Movimento Liberale Italiano, 1943, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp. 8-11). Per attuare questo programma i liberali non avrebbero dovuto che fare appello al proprio patrimonio concettuale, senza alcuna necessità di concedere alcunché ai socialisti e agli statalisti in genere. Lo Stato liberale, infatti, aveva il dovere di garantire a tutti i cittadini la più ampia uguaglianza nei punti di partenza, al fine di ridurre le ineguaglianze ereditate dal passato e di permettere a coloro i cui «genitori non riescono a consentire ad essi di partecipare alla gara della vita senza troppo grave soma iniziale» di ottenere «quel minimo che sia indispensabile affinché essi non siano costretti ad accettare subito quelle qualsivoglia più basse occasioni di lavoro che ad essi si presentano e possano attendere a fare la scelta di lavoro considerata meglio conforme alle loro attitudini» (Lezioni di politica sociale, a cura di F. Caffè, Torino, Einaudi, 1977, p. 250). Il modello di mercato che sarebbe risultato da questo lavorio avrebbe assolto al meglio il compito di permettere l’elevazione e l’autodeterminazione della maggior parte degli individui e delle famiglie.

Ma c’è di più: l’economia di concorrenza costituiva anche un efficacissimo contropotere in grado di limitare la volontà di maggioranze intolleranti o di tiranni ben poco disposti a concedere autonomia alla società civile. Questo punto rimandava direttamente alla concezione einaudiana dello Stato liberale, che da lungo tempo stava coerentemente sviluppando.

Approfondimento: Lineamenti di una politica economica liberale, Il governo democratico del lavoro e la gioia di lavorare, La terza via fra i secoli XVIII e XIX, La terza via sta nei piani?

 

6. Lo Stato liberale

In compagnia di molti altri, liberali e non, Einaudi nutriva un certo scetticismo nei confronti della democrazia di massa, originata dal suffragio universale e dal ruolo sempre più cruciale ricoperto dai partiti politici. Ecco perché riteneva essenziale che la struttura istituzionale incorporasse una nutrita serie di contropoteri e garanzie, necessarie per salvaguardare le libertà dei cittadini mediante una attenta limitazione del potere politico – e dell’impatto della sfera pubblica sulla società civile.

Già di fronte al fascismo imperante Einaudi aveva rivendicato la validità assoluta dei principi fondamentali del costituzionalismo liberale classico:

«Lo stato demo-liberale, il quale affida i poteri legislativo ed esecutivo ai designati della maggioranza di un parlamento scelto da un suffragio, universale o larghissimo, di uomini votanti nella loro indistinta qualità di cittadini, crea la propria classe politica col seguente congegno:

– libertà illimitata di discussione per cui ogni uomo può colla parola e collo scritto cercare di dimostrare l’errore o l’insufficienza delle idee e dei propositi di ogni altro uomo, il quale aspiri a partecipare alla vita pubblica;

– assenza di qualunque posizione acquisita personale; per cui ognuno, il quale sia giunto ad alta posizione politica sia sempre soggetto ad essere scalzato da un qualunque nuovo venuto, il quale sappia meglio cattivarsi il favor popolare;

– assenza di qualunque posizione acquisita da parte dei grandi gruppi di interessati. Se gli industriali, se gli agricoltori, se gli intellettuali, se i contadini o gli operai vogliono far sentire la loro voce, debbono agire per mezzo dello strumento discussione. Debbono, cioè, organizzarsi, parlare, agitarsi per attrarre a sé gli elettori; per dimostrare che i loro interessi meritano attenzione o tutela» (Stato liberale e stato organico fascista, «Corriere della Sera», 16 agosto 1924, ora in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. VII, Torino, Einaudi, 1965, pp. 794-795).

Una funzione centrale non veniva attribuita solo alla classe politica – e vedremo nel prossimo paragrafo quanto la formazione di tale classe fosse fondamentale per Einaudi – ma anche e soprattutto al rispetto delle procedure e dei limiti posti dall’eguale libertà dei contendenti alla conquista del potere. Nondimeno, anche quando fossero state rispettate tutte le procedure prescritte a garanzia delle libertà di ognuno, uno Stato liberale degno di questo nome non avrebbe dovuto intromettersi troppo nelle scelte dei cittadini. Einaudi delineava infatti un modello statuale nel quale il pluralismo sociale ed economico avrebbe dovuto garantire gli indispensabili spazi di libertà pubblica e privata. Un concetto che venne ulteriormente ribadito in un lungo brano risalente al 1925, che sembra utile riportare per esteso:

«Lo stato liberale non è agnostico, né in materia di fede, né in materia economica o morale. Esso ha una dottrina e in base a questa dottrina agisce. Quando lo stato si astiene dall’intervenire nelle controversie religiose e non vuole sancire la supremazia di una chiesa sulle altre, ciò fa perché sua dottrina è che al senso del divino possa elevarsi solo la coscienza individuale. Perché, così opinando, dovrebbe forzare la coscienza individuale ad una fede? o non invece, come fa, mettere le coscienze individuali in grado di scegliersi e di crearsi quella fede in cui meglio esse si adagiano? Perché dovrebbe, passando all’economia, lo stato sostituirsi all’individuo, creare un’organizzazione paternalistica o comunistica della produzione o degli scambi, quando invece è opinione, è principio dello stato liberale che l’individuo possa meglio raggiungere il massimo vantaggio nella produzione e negli scambi agendo liberamente? Quando così opera, lo stato liberale non è agnostico; ma conseguente al suo principio, ma logico nella sua attuazione. Epperciò anche, se si persuade che l’individuo libero di agire sopraffà altrui e va contro all’interesse collettivo, lo stato liberale non indugia a porre limiti alla libertà assoluta degli individui. […] Sempre lo stato liberale agisce partendo dalla premessa, la quale è sua fede e sua ragion d’essere, che l’individuo debba essere messo nelle migliori condizioni di sviluppare la pienezza della sua personalità, per arricchire di nuovi beni, morali e materiali, se medesimo e la collettività, per concorrere e collaborare, singolarmente ed associatamente, nelle forme più svariate ed adatte ai singoli fini, con gli altri individui appartenenti alla medesima collettività. Col perfezionarsi e col complicarsi della vita collettiva, crescono i limiti ed i vincoli all’azione individuale; ma il loro crescere ha sempre per scopo di promuovere lo sviluppo intimo, spontaneo della personalità umana. Il liberalismo si diversifica dal socialismo da una parte e dall’autoritarismo dall’altro, perché queste due dottrine, sebbene opposte, concordano per ciò che fanno dipendere il progresso umano da un impulso venuto dal di fuori, dall’organizzazione, dal governo, dalla legge, impulso che preme sull’individuo e lo spinge ad innalzarsi; laddove la dottrina liberale nega che l’impulso esterno sia efficace, e se consente allo stato, alla forza esterna la capacità di fare qualcosa, questo qualcosa sta nel togliere gli impedimenti e nel creare le condizioni, nel segnare le vie, nel marcare i passi entro cui ed attraverso a cui l’individuo deve da sé trovare, col proprio intimo perfezionamento, collo sforzo faticoso, coll’esperienza vissuta, attraverso a contrasti e ad insuccessi, in contrasto e in collaborazione con altri individui, separati od associati, la via della salvezza. Negare la virtù del paternalismo, affermare la fecondità della auto-educazione, vuol forse dire non avere una fede, una dottrina? Mai no. Vuol dire anzi avere una fede virile, una dottrina maschia. Vuol dire credere ed agire affinché l’uomo si innalzi, in società con altri uomini, ognora più in alto, verso un ideale divino» (La dottrina liberale, «Corriere della Sera, 6 settembre 1925, ora in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. VIII, Torino, Einaudi, 1965, pp. 461-462).

Lo Stato liberale nasceva con un innegabile fondamento individualistico; ma non si trattava dell’individualismo atomistico evocato dai nemici del liberalismo, poiché descriveva un individuo ben inserito nel tessuto sociale. Se, ancora una volta, il fine della concezione liberale risiedeva nella garanzia del più ampio sviluppo delle capacità individuali, la struttura istituzionale – al pari di quella economica – era a questo fine assoggettata e da esso complessivamente plasmata. Per Einaudi, d’altronde, non esiste progresso senza lotta, senza che gli individui possano creare stili di vita tra loro diversissimi e contrastanti. Ecco il principio che caratterizzava lo Stato liberale; quello stesso principio che la dittatura fascista avrebbe di lì a poco liquidato in maniera definitiva.

Non diversamente, quando si trattò di ricostruire la democrazia italiana dopo il ventennio, Einaudi mise in guardia rispetto all’opportunità di adottare un modello improntato alla democrazia “pura” di stampo franco-tedesco. Ma se una delle principali funzioni attribuite allo Stato liberale era la tutela del diritto al dissenso, alla critica, alla messa in discussione di qualsiasi idea e provvedimento, come attuare concretamente un simile ordinamento? Tentando di rispondere a questa domanda, Einaudi elaborò una singolare declinazione dei principi del costituzionalismo liberale, incentrato sulla divisione dei poteri – tanto orizzontale (legislativo-esecutivo-giudiziario) che verticale (centro-periferia) – e sulla necessità di rendere inviolabili, e intoccabili dal legislatore ordinario, i diritti di libertà. Il suo progetto di organizzazione dei poteri è ben sintetizzato in questo brano:

«La fonte del potere politico è una sola: la volontà del popolo liberamente manifestata, nel segreto dell’urna, per mezzo della scheda elettorale. […] Accanto al depositario della volontà popolare, vi deve essere colui che la interpreta. Re ereditario o presidente eletto, egli non ha il compito di governare, ma di accettare la designazione che gli elettori hanno implicitamente fatto di colui il quale dovrà costituire il governo. […] Quando la volontà sia chiara, il primo ministro sceglie i suoi colleghi. Naturalmente gli sceglie in guisa che essi rappresentino le varie correnti della maggioranza, od, in caso di coalizioni, necessarie nelle ore gravi, sovrattutto di guerra, le diverse opinioni esistenti in seno al parlamento. Ma la scelta è fatta a suo giudizio insindacabile, perché i ministri da lui scelti costituiscono un gabinetto che deve governare solidarmente ed unitamente. […] Rimane fermo il punto capitale: che la volontà popolare, attraverso alle elezioni od a spontanee formazioni, designa l’uomo il quale riscuota la fiducia dei parlamenti…ma il governo o gabinetto non può essere l’emanazione delle parti politiche singole o associate. Un governo diretto di parlamenti o di gruppi politici è sinonimo di tirannia. Parlamenti e gruppi politici designano e giudicano; non possono né devono governare» (Prime impressioni, «Risorgimento liberale», 13 dicembre 1944, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp. 88-90).

Un ruolo preponderante, comunque, avrebbe dovuto essere giocato dalle autonomie locali: per Einaudi una delle priorità risiedeva nell’abolizione del prefetto, «questo simbolo della macchina amministrativa accentrata, la quale ha fatto sì in passato e farà mai sempre in avvenire, sinché durerà, che liberalismo e democrazia siano una turpe menzogna» (Gerarchia nel programma, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 1 luglio 1944, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., p. 55). L’istituto prefettizio, una «lue…inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone», avrebbe vanificato qualsiasi velleità di autogoverno – poiché «democrazia e prefetto repugnano profondamente l’una all’altro» – così da rendere «elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, ministri responsabili…una lugubre farsa» (Via il prefetto!, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 17 luglio 1944, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, pp. 55-56). La centralizzazione avrebbe peraltro impedito la formazione di una classe politica capace e responsabile, effetto indesiderato e, per Einaudi, addirittura intollerabile:

«Nei paesi dove la democrazia non è una vana parola, la gente sbriga da sé la proprie faccende locali…senza attendere il là o il permesso dal governo centrale. Così si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. […] La classe politica non si forma da sé, né è creata dal fiat di una elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega la amministrazione delle cose locali piccole; e poi via via quella delle cose nazionali od inter-statali più grosse. La classe politica non si forma, tuttavia, se l’eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l’opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l’eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, ad intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia?» (ivi, pp. 56-57)

Il federalismo di Einaudi, che si inserisce a buon diritto nella tradizione liberale classica, si arricchisce però di un ulteriore motivo. Egli ripeteva spesso che, per conservare un regime realmente liberale, sarebbe risultata cruciale l’esistenza di numerosi centri di potere autonomi; ma aggiungeva a questo ammonimento un’ulteriore considerazione, ossia che gli enti locali e le associazioni dei cittadini non costituivano solo un efficace contropotere, ma anche luoghi di crescita e di sviluppo della persona:

«Perché vi sia governo libero occorre che gli uomini sentano di essere qualcosa di diverso dagli altri uomini; che essi abbiano l’orgoglio di appartenere ad un comune, ad una comunità o collegio di comuni, ad una regione…Importa che accanto agli enti territoriali vi siano ordini professionali, associazioni artigiane, od operaie o contadine, camere di industriali, di commercianti, di agricoltori. Importa che vi siano corpi di insegnanti, dai maestri elementari ai professori di università… Fa d’uopo che esista un ordine giudiziario legato con la fonte del potere…soltanto da un originario atto di nomina; ma in verità quell’ordine deve reclutarsi per costume infrangibile anch’esso da sé…Se al tremendo pericolo della tirannia sempre imminente nelle società industriali moderne, previsto e temuto più di un secolo fa dai grandi pensatori politici che si chiamavano Alexis de Tocqueville e Jacob Burckhardt, vogliamo fuggire, importa fare ogni sforzo per conservare e ricostruire e rafforzare le forze sociali e politiche indipendenti dello stato leviathano: dar forza e vigoria alla persona umana, agli aggregati umani di cui l’uomo fa veramente parte, la famiglia, la vicinanza, il comune, la comunità, la regione, l’associazione di mestiere, di fabbrica, l’ordine o il corpo professionale, la chiesa. Gli uomini hanno bisogno di non sentirsi isolati, atomo fra atomo, numero fra numero, tutti uguali, tutti ugualmente sovrani e perciò tutti servi» (Letteratura politica, «Idea», II, 1946, n. 3, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp. 195-196).

In questa convinzione è possibile intravedere, tra l’altro, l’influenza del cattolicesimo liberale, tradizione cui Einaudi prestò particolare attenzione dialogando con eminenti esponenti di essa, in primo luogo il già citato Röpke. A differenza di molti pensatori cattolici, tuttavia, respingeva con decisione l’impiego di un sistema elettorale proporzionale, colpevole di frammentare la rappresentanza parlamentare e di non fornire maggioranze stabili ai governi. Tanto che in quei paesi «nei quali il regime democratico si era meglio affermato…l’opinione pubblica era rimasta nella sua grandissima maggioranza praticamente insensibile» ai tentativi di introdurre lo scrutinio su base proporzionale, restando fedele al sistema del «piccolo collegio uninominale» (Contro la proporzionale, «Idea», I, 1945, n. 3, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., p. 127), sistema che, pur non rispettando le aspirazioni ad una giusta ed equa rappresentatività delle forze in campo, avrebbe garantito una maggiore elasticità e soprattutto un miglior esercizio dell’attività parlamentare. I partiti, dopotutto, non erano che mezzi grazie ai quali i cittadini partecipavano alla gestione della cosa pubblica, e non rappresentavano gli esclusivi depositari «delle loro idee e dei loro interessi» (ivi, p. 129).

La proporzionale, inoltre, avrebbe grandemente accresciuto il potere dei partiti, o meglio «dei comitati elettorali», e avrebbe privato l’elettorato di «ogni effettiva libertà di scelta dei propri rappresentanti». Cosa che invece non sarebbe avvenuta, per lo meno non con la stessa intensità, nel caso in cui si fosse adottato il sistema maggioritario uninominale, sistema non certo privo di difetti, ma che avrebbe garantito maggior coesione e minore dipendenza dai comitati centrali dei partiti, favorendo anche l’elezione di candidati indipendenti. L’autonomia e l’indipendenza individuali, ancora una volta, venivano considerati da Einaudi valori imprescindibili, tanto più in politica.

Approfondimento: Via il prefetto!, Stato liberale e stato organico fascista, La dottrina liberale, Prime impressioni, Contro la proporzionale

 

7. Classe politica e classe eletta

Abbiamo notato quanto il costituzionalismo einaudiano sia caratterizzato dalla ricerca di un convincente equilibrio tra le ragioni della libertà e del buongoverno, con particolare enfasi sulle garanzie giuridiche dei diritti e sugli istituti atti ad impedire concentrazioni indebite di potere. Ma, come accennato in precedenza, la qualità della vita pubblica sarebbe dipesa in gran parte dalla qualità del personale politico, la cui selezione costituiva dunque la chiave di un ordinamento realmente liberal-democratico.

In ciò Einaudi risulta, e lui stesso lo ammise più d’una volta, discepolo di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto. A Mosca, in particolare, lo avvicinava una comune sensibilità nei confronti delle basi socio-economiche dei sistemi rappresentativi e la convinzione che, in ultima analisi, i ceti dirigenti caratterizzassero la vita dello Stato tanto quanto la struttura istituzionale. Einaudi riteneva peraltro che a Mosca spettasse il merito di merito di aver ‘scoperto’ due princìpi che avrebbero dovuto costituire la base di qualsiasi analisi scientifica della politica:

«Primo: il governo del paese non è e non può mai essere retto dalla maggioranza del popolo e neppure da una genuina rappresentanza della maggior parte dei cittadini. Questa è una utopia pericolosa e distruggitrice della convivenza sociale. Il governo politico deve essere in mano di una minoranza organizzata…Dalla buona scelta della classe politica dipende la fortuna di un paese. […] Secondo: il predominio, necessario e utile, della classe politica, ha bisogno, per conservarsi, di una ideologia, a cui il Mosca dà il nome di ‘formula politica’: e questa può essere la forza, la eredità, il diritto divino, la sovranità popolare. Presso a poco, tutte queste formule si equivalgono, essendo esse puramente la manifestazione esteriore verbale delle vere ragioni per le quali la classe politica afferma la sua capacità a governare le moltitudini» (Parlamenti e classe politica, «Corriere della Sera», 2 giugno 1923, ora in Id., Cronache economiche e politiche di un trentennio, vol. VII, cit., pp. 264-265).

Ma Mosca aveva pronunciato, allo stesso tempo, un elogio del regime rappresentativo, l’unico sistema politico ad assicurare una condizione di libertà per i cittadini. Inoltre, come per il collega, anche per Einaudi, era indispensabile la presenza di forze sociali indipendenti, tra le quali spiccavano i ceti medi, «poiché dalla maniera in cui questi strati intermedi sono formati e funzionano dipende principalmente il tipo al quale un organismo politico appartiene e l’efficacia della sua azione» (Elementi di scienza politica, a cura di G. Sola, Torino, UTET, 1982, parte II, cap. 1, p. 940). Nelle parole di Einaudi, solo la diversità sociale avrebbe potuto garantire l’esistenza di un governo libero:

«Lo stato rappresentativo è…fondato sull’esistenza di forze indipendenti e distinte dallo stato medesimo: resti di aristocrazia terriera, classi medie che traggono la loro propria vita dall’esercizio di industrie, di commerci e di professioni liberali, rappresentanti di operai organizzati di industrie non viventi di mendicità statale. Se queste condizioni sono soddisfatte, noi abbiamo un governo veramente libero; in cui i funzionari non sono l’unica classe politica esistente, ma una delle tante forze, dal cui contrasto e dalla cui cooperazione sorge la possibilità di un’azione veramente utile al tutto» (Parlamenti e classe politica, cit., p. 267).

Pluralismo sociale come condizione, necessaria ma non sufficiente, per la formazione di una classe politica variegata, colta e sana. Tuttavia, per quanto gradualmente, crebbe l’insoddisfazione einaudiana per questo modello teorico: la classe politica machiavellica e spregiudicata descritta da Mosca e Pareto era davvero l’unica possibile? La sua guida poteva garantire alla società buongoverno, pace e benessere? O non si trattava piuttosto di indagare più in profondità le ragioni che portavano le classi dirigenti a determinare, talvolta tragicamente, il destino delle comunità da esse stesse rette, con l’intento di proporre un modello alternativo? Davanti all’esempio dei ceti politici europei che avevano favorito l’ascesa dei totalitarismi, Einaudi si rivolse quindi all’opera dell’economista e storico francese Frédéric Le Play, nel quale poteva ritrovare un’analisi di quelle «forze potenti, talora misteriose le quali spiegano la grandezza e la decadenza, la permanenza ed il disfacimento delle società», da lui poi identificate col ruolo giocato dalla classe eletta, ossia dall’insieme di quelle «autorità naturali [che] ricevono forza dalla virtù morale e dal costume» (Il peccato originale e la teoria della classe eletta in Federico Le Play, «Rivista di storia economica», I, 1936, n. 2, ora in Id., Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, cit., pp. 315, 317.). Questa aristocrazia dello spirito non coincideva che raramente con la classe politica, «ma in quelle rare occasioni in cui le due classi diventano una sola si pongono per secoli le fondamenta della grandezza duratura di un paese» (ivi, p. 319). Questo perché il vero Stato abbisognava della guida di una classe dirigente che condividesse i fini dei cittadini, in quanto essa stessa formata da cittadini, da uomini liberi:

«La concezione della classe politica come quella la quale consiste in quei gruppi di uomini che aspirano alla conquista del potere, o riescono a conquistarlo ed a conservarlo per un tempo più o meno lungo, concezione dominante nei libri classici di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto, non è la sola possibile. Accanto ad essa, esiste non di rado un’altra classe, di uomini che non aspirano al potere, e che non di rado sono perseguitati da coloro che detengono il potere. Sono i cristiani dei primi due secoli, i grandi filosofi, i saggi ed i virtuosi di ogni tempo. Hanno essi il potere morale e talvolta sono assai più potenti di coloro che detengono il potere politico. Costoro compongono la classe eletta. Assai di rado accade che la classe eletta sia chiamata a governare gli stati od abbia parte preponderante e decisiva nel governo. Nascono in quei rarissimi casi gli stati prosperi, pacifici e stabili; ed in questi stati tende ad essere osservata la legge morale, le relazioni tra le classi sociali non sono turbate da discordia e da invidia, le condizioni economiche della nazione progrediscono, intendendosi per progresso quella situazione della quale gli uomini sono malcontenti solo perché anelano tuttavia ad innalzare se stessi, e la finanza pubblica è congegnata in modo da riposare sul consenso universale» (Ipotesi astratte ed ipotesi storiche e dei giudizi di valore nelle scienze economiche, «Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino», vol. 78, 1942-1943, tomo II, ora in Id., Scritti economici, storici e civili, a cura di R. Romano, Milano, Mondadori, 1973, p. 406).

Il problema si riproponeva anche nelle nuove democrazie sorte dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Di certo non si poteva fare a meno del principio democratico, unico fondamento possibile di un governo libero, soprattutto in quel determinato momento storico. Ma ciò non significava che si dovesse rinunciare a ricercare e a far emergere la classe eletta. Nei nuovi regimi liberal-democratici questo compito sarebbe stato assegnato al popolo:

«Alla major pars l’istinto spontaneo dell’uomo vivente nella società politica contrappone la sanior pars degli scolastici, la classe politica di Gaetano Mosca, la élite di Vilfredo Pareto. Ma già Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto avevano chiarito che né le classi politiche né i ceti scelti (le élites) si identificano con i meliores…La classe politica può essere moralmente od intellettualmente inferiore alla media degli uomini componenti la società dalla quale è tratta. Il problema fondamentale politico non sta nel costituire veramente un governo di maggioranza. Qualunque sia la struttura formale dello stato, il potere spetta sempre ad una piccola minoranza. Se noi chiamiamo società democratica quella nella quale il governo sia intento a procacciare il bene morale e materiale massimo e possibile degli uomini componenti oggi e domani la collettività nazionale, noi diremo che il fine della società democratica ha tanto maggiori probabilità di essere raggiunto quanto meglio la ‘maggioranza’, alla quale necessariamente spetta la scelta del piccolo gruppo governante, riesce ad identificare gli eletti con la sanior pars del ceto politico» (Major et sanior pars, «La Città Libera», I, 1945, n. 3, ora in Id., Il Buongoverno,cit.,vol.I, p. 98).

Fermo restando che il potere, anche in una democrazia liberale, sarebbe stato esercitato da una minoranza organizzata, spettava agli elettori designare la classe eletta. Tuttavia l’ascesa dei regimi totalitari aveva dimostrato che gli stessi vincoli costituzionali potevano venire spazzati via dall’esercizio della volontà popolare. La scelta dei governanti spettava ai governati, certo; ma come essere sicuri che il popolo avrebbe scelto la classe politica migliore? E come evitare, nel malaugurato caso di vittoria elettorale di una minoranza illiberale, che si realizzassero fatali violazioni dei diritti di libertà? La risposta, per Einaudi, risiedeva nell’introduzione, a livello costituzionale, di vincoli giuridici molto rigidi, in modo tale da impedire, o per lo meno da rendere estremamente improbabili, gli abusi di potere:

«Ove non esistano freni al prepotere dei ceti politici, è probabile che il suffragio della maggioranza sia guadagnato dai demagoghi intesi a procacciare potenza, onori e ricchezze a sé, con danno nel tempo stesso della maggioranza e della minoranza. I freni hanno per iscopo di limitare la libertà di legiferare e di operare dei ceti politici governanti scelti dalla maggioranza degli elettori. In apparenza è violato il principio democratico il quale dà il potere alla maggioranza; in realtà, limitandone i poteri, i freni tutelano la maggioranza contro la tirannia di chi altrimenti agirebbe in suo nome e, così facendo, implicitamente tutelano la minoranza. […] I freni sono il prolungamento della volontà degli uomini morti, i quali dicono agli uomini vivi: tu non potrai operare a tuo piacimento…tu devi, sotto pena di violare giuramenti e carte costituzionali solenni, osservare talune norme che a noi parvero essenziali alla conservazione dello stato che noi fondammo. Se tu vorrai mutare codeste norme, dovrai prima riflettere a lungo, dovrai ottenere il consenso di gran parte dei tuoi pari, dovrai tollerare che taluni gruppi di essi, la minor parte di essi, ostinatamente rifiutino il consenso alla mutazione voluta dai più» (ivi, pp. 99, 101-102).

Approfondimento: Maior et sanior pars, Parlamenti e classe politica, Il peccato originale e la teoria della classe eletta in Federico Le Play

 

8. Il governo dell’opinione pubblica

Si tornava, dunque, al medesimo punto: l’imprescindibilità di contropoteri capaci di annullare, o almeno di limitare, l’abuso di potere esercitato sia da oligarchie di professionisti della politica che da maggioranze riottose e intolleranti. A fianco dei congegni dell’ingegneria costituzionale e dei corpi intermedi, Einaudi identificava uno dei più efficaci – se non il più efficace – contropotere nell’opinione pubblica nazionale, composta da tutti gli individui che stimavano opportuno “conoscere per deliberare” (celebre e fortunato motto einaudiano) e agivano per portare le proprie opinioni ed esperienze a conoscenza delle classi dirigenti.

Il parlamento stesso, d’altronde, per Einaudi avrebbe acquisito e rafforzato il proprio ruolo concorrendo, assieme alla pubblica opinione, al dibattimento e quindi all’approvazione di provvedimenti legislativi lungamente meditati e costruiti con l’apporto di tutti:

«Il parlamento vale qualcosa solo perché è l’eco della gente che non si sa come si chiami, che non conta nulla; ma fa arrivare la sua voce ammonitrice nel breve o lungo intervallo che passa dal momento in cui un disegno di legge viene depositato sul banco della presidenza della camera o del senato e quello in cui diventa legge. La vera garanzia della vita e della libertà e degli averi dei cittadini sta in quell’intervallo di pubblicità. Qui è la principale virtù dei parlamenti; e questa virtù non possiamo ucciderla. […] Un governo forte ama la luce ed il dibattito. Può avere in non cale la voce dei parlamentari; non può ignorare la voce di colui che aveva una osservazione giusta da fare;…sinora l’unico metodo…è stato il dar libertà a tutti di parlare e di scrivere. Il rischio di un governo che, per fare, chiede il segreto e l’assoluzione dei pubblici dibattiti è un rischio troppo forte» (Il contributo del primo che passa, «Corriere della Sera», 15 novembre 1922, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, p. 51).

La lotta delle idee e delle opinioni, come abbiamo già visto, rappresentava per Einaudi una importantissima fonte di progresso. Ecco perché egli, che fu per decenni influente editorialista di parecchi grandi quotidiani come La Stampa e il Corriere della Sera, attribuiva alla carta stampata la missione – tale la considerava – di diffondere tra gli individui e le associazioni la passione per il confronto e il dibattito, basato sempre sulla maggiore conoscenza possibile di tutte le sfumature del tema affrontato così come delle tesi portate avanti dai propri antagonisti. «L’idea nuova – scriveva nel 1945 – non si difende e non si fa trionfare nei parlamenti. Essa nasce nei libri e nelle riviste, si propaga nei giornali, dà origine ad associazioni, a gruppi di propaganda, conquista l’opinione pubblica, e cioè l’opinione media, quella di coloro che non sono già gli adepti di un credo» (Contro la proporzionale, cit., p. 139). Nel nostro paese, peraltro, «prima del 1922 e anche fino al 4 gennaio 1925, [si] ebbe una grande stampa indipendente», ed anche nel nuovo scenario del secondo dopoguerra «i quotidiani seguiteranno ad essere quasi l’unica via attraverso la quale gli elettori possono essere guidati a formare un forte governo democratico veramente rappresentativo della volontà popolare» (Il problema dei giornali, «Nuova Antologia», vol. 434, 1945, n. 1735, ora in Id., Riflessioni di un liberale sulla democrazia, cit., pp. 167, 170).

Lo sguardo di Einaudi non era comunque rivolto solo al passato o alla stretta contingenza, bensì al futuro e in questo senso non poteva fare a meno di notare che «senza una stampa veramente libera che rappresenti tutte le sfumature dell’opinione pubblica, le elezioni generali che dovranno essere indette in seguito rassomiglieranno molto di più a un plebiscito napoleonico, mussoliniano o hitleriano che non a una selezione razionale degli uomini migliori da porre al timone dello stato». Aggiungeva inoltre che, pur non mancando di riconoscere il ruolo talvolta anche altamente positivo della stampa di partito e delle parti sociali, indispensabile si sarebbe rivelata la stampa indipendente: se infatti «solo l’uomo, la persona, il cervello pensante è capace di creare il nuovo, di non inchinarsi agli andazzi, di pronunciare le verità spiacevoli ai più», ne consegue che «solo il giornale indipendente espone l’idea nata nel cervello di chi la mette sulla carta e non quella che è riuscita già ad affermarsi nei consessi o nei consigli dei partiti e dei gruppi sociali». Mansione cruciale, poiché qualsiasi società «lentamente muore se vive solo di idee vecchie» (ivi, pp. 167, 176).

Ma certo la stampa, da sola, non era sufficiente a creare un’opinione pubblica vigile e autonoma. Di qui l’attenzione con la quale Einaudi trattò più volte dei problemi dell’istruzione, dalla scuola primaria all’università. In un saggio particolarmente celebre ed ispirato, Einaudi ribadiva la necessità di stimolare la concorrenza anche nell’ambito delle «scuole medie ed universitarie», per creare uno spazio più ampio «alle battaglie di idee». Il sistema italiano era ancora improntato al modello napoleonico, secondo il quale «allo Stato spetta il diritto e il dovere di provvedere all’insegnamento» (Scuola e libertà [1956], ora in appendice a G. Limiti, Il Presidente professore, Milano-Trento, Luni, 2001, pp. 188, 190), con l’inevitabile e dannosissimo corollario del riconoscimento del valore legale dei titoli di studio. Tale sistema, che imponeva una «regolamentazione uniforme dei programmi nelle scuole secondarie e…dell’ordine degli studi nelle facoltà e scuole universitarie», per Einaudi si rivelava però inferiore rispetto a quello d’ispirazione anglosassone che, grazie alla maggiore elasticità e alla presenza di numerose istituzioni in competizione, avrebbe consentito una reale possibilità di dibattito e inoltre, effetto non secondario, una crescita qualitativa nell’offerta di istruzione. Non si trattava di una differenza di poco conto, bensì della differenza che intercorreva «fra il totalitarismo e la libertà», visto che «il totalitarismo vive col monopolio, [mentre] la libertà vive perché vuole la discussione fra la libertà e l’errore» (ivi, pp. 222, 233). La verità, dipinta ancora una volta quale valore-limite, necessitava una ricerca priva di condizionamenti e caratterizzata dalla più ampia libertà di confronto tra idee contrastanti.

La medesima libertà avrebbe dovuto caratterizzare, a maggior ragione, gli studi universitari. Einaudi, docente dell’ateneo torinese per più di mezzo secolo, auspicava addirittura che gli scienziati radunati nelle Università riuscissero ad «inculcare…tra i politici massimamente, la lezione di umiltà» consistente nell’ammettere «di non sapere…la verità», assumendosi l’impegno di ricercarla consentendo un dibattito il più ampio e libero possibile:

«L’università non ha per ufficio di proclamare la superiorità dell’economia di mercato su quella regolata: di una organizzazione liberale della società su una organizzazione socialistica. Il nostro compito è quello di ammonire: nessuno pretenda farsi guida ai popoli; nessuno affermi di essere in grado di conoscere quella volontà generale, che i cittadini non sono chiamati a ricercare ma solo a riconoscere e, riconosciutala ad opera degli dèi-guide, ad attuare. L’autocritica rivolta a dichiarare l’errore delle proprie deviazioni nell’ambito della verità dichiarata dall’uomo-guida, dal collegio-guida, dal partito-guida; la critica chiusa entro confini stabiliti dall’uomo e dagli uomini che da sé si sono definiti sapienti, non è critica, è abietta sottomissione alla guida-tiranno. L’università dei docenti e dei discendi respinge questo tipo di critica. Il suo verbo è sempre e soltanto: la verità si conquista riconoscendo che ogni verità antica, che ogni principio accettato può essere l’errore. La verità vive soltanto perché essa può essere negata. Essendo liberi di negarla ad ogni istante, noi affermiamo, ogni volta, l’impero della verità» (Jean Jacques Rousseau, les théories de la volonté générale e du parti-guide et les tâches des universitaires, «Kyklos», X, 1956, pp. 289-295, trad. it. Gian Giacomo Rousseau, le teorie della volontà generale e del partito guida e il compito degli universitari, in Id., Prediche inutili, Torino,, Einaudi, 1962, pp. 200, 201, 202).

Nel garantire, e possibilmente nell’ampliare, tutti questi spazi di confronto consisteva uno dei fini della società liberale; e qualsiasi liberalismo che non avesse fatta propria tale esigenza, si sarebbe condannato allo smarrimento della propria ragion d’essere.

Approfondimento: Il problema dei giornali, Scuola e libertà, Il contributo del primo che passa

 

9. Epilogo: il passato e il futuro della libertà

Non è facile tirare le somme a proposito del liberalismo di Einaudi. Molti giudizi sono stati espressi, di volta in volta, da studiosi pronti a dipingerlo o come apologeta acritico della borghesia o, al contrario, come liberal-socialista. Entrambe le descrizioni, anche alla luce di quanto abbiamo visto sinora, appaiono ugualmente insoddisfacenti.

E’ necessario stabilire un punto fermo: al di là delle molteplici interpretazioni possibili, il pensiero politico di Einaudi si ispira all’insegnamento dei padri della teoria liberale classica; meglio ancora, il suo liberalismo risulta visibilmente di matrice anglosassone. Einaudi fu sempre consapevole di riallacciarsi a una lunga tradizione teorica, che affondava le radici nel diciottesimo secolo di David Hume e Adam Smith. E d’altra parte il suo pensiero politico è caratterizzato dal riconoscimento dell’indissolubile vincolo che lega tutte le libertà – politiche, economiche e civili. In questo senso, nonostante la scarsa fortuna di cui ha goduto, almeno a confronto della popolarità riscossa dalla filosofia di Benedetto Croce, la teoria politica ed economica di Einaudi rappresenta probabilmente il miglior contributo fornito dal liberalismo italiano alla cultura liberale europea e nordamericana.

Ma c’è un ultimo aspetto che sembra opportuno sottolineare: l’apertura di Einaudi al futuro delle libertà, a tutti i tentativi di allargare le sfere di libera azione degli individui. Una tensione modernizzatrice che era tale anche perché prendeva le mosse da un’esperienza fallimentare nella quale lo stesso Einaudi aveva giocato un qualche ruolo: l’ascesa del regime fascista. Di fronte ai disordini e alle richieste di riforme sociali avanzate nel primo dopoguerra, «i ceti politici, i quali erano stati capaci di condurre l’Italia alla vittoria, i quali avevano saputo organizzare le forze vive del paese per la resistenza contro l’invasore nemico, non furono pari all’impresa sociale» (La via breve, «L’Italia e il secondo Risorgimento», 2 dicembre 1944, ora in Id., Il Buongoverno, cit., vol. I, p. 81). In molti, compreso lo stesso Einaudi, di fronte alla non facile situazione avevano anelato al ristabilimento della calma e della pace sociale, dimenticando però che «l’ansia e l’incertezza sono le compagne inseparabili della vita, e che sicurezza assoluta e vita tranquilla sono sempre desiderati, ma non mai raggiunti né raggiungibili se non attraverso una lotta di tutti i giorni, una fatica sempre rinnovata». Si era invece scelta la “via breve” della dittatura fascista, ma «quella via significava la rinuncia degli italiani alla dura lotta, al diuturno sforzo, al rischio continuo in favore della chimera della sicurezza, della pace, della tranquillità, della prosperità assicurata e promessa da altri»; una via che «doveva necessariamente, fatalmente condurre sull’orlo dell’abisso» (ivi, pp. 83, 88-89).

Rimediare allo sbaglio non si poteva. Ma certo era immaginabile lavorare per far sì che gli italiani non fossero più costretti a giungere dinnanzi a un simile bivio – o almeno, per scongiurare la possibilità di una scelta tragicamente sbagliata. Il primo, e principale, strumento da utilizzare in tal senso – lo dichiarò nel breve discorso davanti al parlamento da neo-eletto presidente della Repubblica – era la nuova costituzione democratica, sebbene contenesse diverse disposizioni che egli, da liberale, non condivideva pienamente. Tuttavia essa rispondeva pienamente allo spirito che, secondo Einaudi, dovrebbe caratterizzare l’ossatura di tutte le società libere e prospere, ossia la volontà di «conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore eguaglianza possibile nei punti di partenza» (Messaggio dopo il giuramento, ora in Id., Lo scrittoio del Presidente 1948-1955, Torino, Einaudi, 1956, p. 5).

La nuova costituzione rappresentava inoltre un banco di prova per la democrazia, «che se è qualcosa, è discussione, è lotta, anche viva, anche tenace tra opinioni diverse ed opposte; ed è, alla fine, vittoria di un’opinione, chiaritasi dominante, sulle altre» (ivi, pp.3-4). Ma soprattutto, nonostante lo scetticismo di molti, e che in parte lui stesso condivideva, l’ordinamento repubblicano – alla pari degli altri sistemi democratici dei paesi europei ed extra-europei – lanciava una sfida sul futuro della società globale, con tutta l’intenzione di vincerla:

«Tra le due date, del 1848 e del 1948…è nato un problema nuovissimo, che nel secolo scorso grandi pensatori politici avevano dichiarato insolubile: quello di far durare sistemi democratici quando a votare ed a deliberare sono chiamate non più ristrette minoranze di privilegiati ma decine di milioni di cittadini tutti uguali dinnanzi alla legge. Il suffragio universale parve ed ancor pare a molti incompatibile con la libertà e con la democrazia. La costituzione che l’Italia si è ora data è una sfida a questa visione pessimistica dell’avvenire» (ivi, p. 4).»

Fiducia nella libertà e negli sforzi degli esseri umani, pur senza trascurare le avversità che necessariamente intralciano il loro cammino: è forse questo il messaggio più attuale della lunga e feconda riflessione di Luigi Einaudi.

Approfondimento: Messaggio dopo il giuramento, La via breve

Torna su