Opera Omnia Luigi Einaudi

L’unificazione europea

di Umberto Morelli

 

1. Introduzione

La fama di Luigi Einaudi è legata agli studi di economia, al giornalismo, all’attività politica. Meno noto è il fatto che Einaudi è stato un convinto europeista e uno dei maestri del pensiero federalista del Novecento, autore di una serie di saggi originali sulla pace, sulla crisi dello Stato nazionale, sull’unificazione dell’Europa. Come riconosciuto dallo stesso Altiero Spinelli, furono gli scritti di Einaudi, in particolare le Lettere politiche di Junius ristampate da Laterza nel 1920, a influenzare alla fine degli anni trenta le riflessioni degli autori del Manifesto di Ventotene, assurto poi a testo fondamentale del federalismo contemporaneo.Gli scritti einaudiani sull’unità europea coprono oltre mezzo secolo, dal 1897 al 1956, con una interruzione fra il 1925, quando Einaudi sospese la collaborazione al Corriere della sera in segno di solidarietà con il direttore Luigi Albertini dimessosi a seguito della fascistizzazione della testata, e il 1940, quando riprese ad affrontare il problema della pace e dell’unificazione europea. Sono più frequenti negli anni 1915-1925 e 1943-1954, cioè nei momenti critici della storia del Novecento che videro le guerre mondiali, la crisi del dopoguerra, la fondazione della Società delle Nazioni, la ricostruzione e l’avvio dell’integrazione europea. Tali scritti sono sparsi, occasionali, brevi, rigorosi ma non accademici, pubblicati per lo più su quotidiani con lo scopo di educare l’opinione pubblica e spingerla a vedere oltre l’apparenza delle cose. In tutto compongono alcune centinaia di pagine. Particolarmente rilevanti sono i contributi einaudiani alla definizione del concetto di crisi dello Stato sovrano, alla distinzione tra federazione e confederazione, alla critica della Società delle Nazioni e dell’ONU, all’individuazione delle ragioni che portarono ai conflitti mondiali, all’analisi delle cause della guerra e dei mezzi per garantire la pace, alla dottrina dello Stato federale, alla critica del funzionalismo.

 

2. Contro il mito dello Stato sovrano

Il concetto di crisi dello Stato sovrano rappresenta per il federalismo, oltre che un fatto empirico, la categoria storiografica fondamentale di valore euristico per comprendere la storia del Novecento, l’origine delle due guerre mondiali e del fascismo, la ragione principale del processo di integrazione europea e, in prospettiva, mondiale. Tale concetto è alla base della riflessione einaudiana. Einaudi denuncia il dogma della sovranità assoluta, contrapponendo la necessità della cooperazione imposta dalla crescente interdipendenza. La sua riflessione prende le mosse dall’analisi dello sviluppo economico generato dalla rivoluzione industriale. La sovranità assoluta, cioè il non dipendere da altri, richiede l’autosufficienza economica, quindi la possibilità di disporre di uno spazio vitale. La teoria degli spazi vitali come rimedio alla mancanza di materie prime e all’eccesso di produzione presuppone una condizione che di fatto non esiste: l’autosufficienza economica di ognuno degli spazi vitali. Nell’epoca dell’interdipendenza, lo spazio vitale è il mondo intero, in quanto nessun aggregato economico, per quanto grande, possiede tutte le materie prime necessarie al suo sviluppo; anche nello spazio ampliato mancherà sempre qualche bene rintracciabile in paesi più lontani. La pretesa di conseguire la sovranità assoluta e la conquista dello spazio vitale presuppongono così il dominio del mondo, quindi la guerra.

La rivoluzione industriale e la conseguente evoluzione socioeconomica e scientifica avevano dato avvio al processo di interdipendenza globale, favorito l’affermazione di Stati di grandi dimensioni (Einaudi cita, all’inizio del Novecento, gli Stati Uniti, la Russia, l’impero britannico), condannato i paesi europei, ridotti a pigmei, all’emarginazione e all’impotenza. Le dimensioni di questi ultimi erano ormai insignificanti, il loro territorio troppo piccolo, il mercato interno troppo ristretto per permettere una vera divisione del lavoro e alle imprese di raggiungere una dimensione ottimale. La conclusione di Einaudi è categorica: «Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta. La verità è il vincolo, non la sovranità degli Stati. La verità è l’interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta» (cfr. Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni e Per una nuova Europa. La federazione di popoli contro il mito dello Stato sovrano).(cfr. Il dogma della sovranità e l’idea della Società delle Nazioni e Per una nuova Europa. La federazione di popoli contro il mito dello Stato sovrano).

Dalla demolizione del dogma dello Stato sovrano Einaudi ricava quattro conseguenze: l’affermazione del diritto d’ingerenza; l’individuazione della causa ultima della guerra; la critica della Società delle Nazioni e dell’ONU; la necessità della federazione europea.

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3. Il diritto d’ingerenza

Come conseguenza della critica del mito della sovranità assoluta, discende il diritto, addirittura l’obbligo secondo Einaudi, all’ingerenza negli affari interni di un altro paese. La dottrina del non intervento deriva dalla proclamazione della sovranità assoluta dello Stato. La crescente interdipendenza mondiale ha reso labile la divisione fra relazioni esterne e relazioni interne. Einaudi si pone la domanda se le società moderne debbano ancora organizzarsi in Stati sovrani o se ogni paese non debba accettare l’intervento degli altri nei propri affari interni. La risposta è scontata: se lo Stato non è più sovrano, in quanto l’interdipendenza ha vanificato tale pretesa, è evidente che cade anche la dottrina del non intervento. Chi resta fedele a tale teoria non ha imparato la lezione delle due guerre mondiali, combattute contro la dottrina del non intervento. Gli alleati, afferma Einaudi, lottarono per affermare l’obbligo, (l’obbligo, ribadisce con chiarezza, non solo il diritto), di intervenire negli affari interni di uno Stato il cui regime rappresentava una minaccia costante alla loro esistenza e per proclamare l’intollerabilità in ogni angolo del mondo di regimi tirannici. L’esistenza di una dittatura, infatti, coinvolge non solo i cittadini che la subiscono, ma ogni paese, perché è un germe d’infezione per tutto il mondo. È una evidente anticipazione del diritto d’ingerenza, dell’obbligo per l’ONU di intervenire per tutelare la pace e la democrazia(cfr. La teoria del non intervento).

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4. La causa ultima della guerra

Il pacifismo di Einaudi s’inserisce nel filone del pacifismo giuridico risalente a Kant, cui si ricollega la tradizione federalista d’ispirazione hamiltoniana. Secondo questa, la causa ultima della guerra non risiede né nella forma interna degli Stati, né nelle ragioni politiche o economiche che possono sì spiegare uno specifico conflitto, ma non perché la guerra è possibile. Secondo Einaudi, la causa vera sta nella sovranità assoluta dello Stato, nell’assenza di un governo superiore, quindi nella conseguente anarchia internazionale in cui senza un giudice superiore e imparziale è impossibile risolvere pacificamente le controversie. Solo la federazione, cioè la costruzione di un potere statale superiore, può garantire la pace (cfr. La teoria del non intervento). Su questo tema Einaudi interviene nuovamente nel 1948, prendendo spunto da due temi all’epoca di grande attualità, con due articoli pubblicati sul Corriere della sera, Chi vuole la bomba atomica? e Chi vuole la pace?. Il dissidio non sorge contro l’uso della bomba atomica, su cui regna l’accordo, ma sui mezzi per impedirne l’uso. Fautori e avversari della nuova arma non possono essere distinti solo dal rifiuto o dall’accettazione di sottoscrivere una convenzione internazionale di messa al bando della bomba atomica. Colui che sottoscrive il bando negando i mezzi per fare osservare il divieto, diventa il più efficace sostenitore della bomba atomica. Bisogna indicare i mezzi sufficienti a fare osservare tale divieto. L’unico criterio per giudicare se alle parole corrispondano i fatti è chiedersi se il divieto debba agire entro l’ambito della piena sovranità degli Stati o presupporre la rinuncia alla sovranità medesima. Nel primo caso, la proclamazione solenne del divieto dell’uso della bomba atomica è pura utopia, come dimostra l’esperienza storica. I divieti, infatti, non hanno impedito alla Germania di riarmare dopo la prima guerra mondiale e non ci sono controlli internazionali che possano impedire a uno Stato sovrano di perseguire i propri interessi. Einaudi propone il trasferimento della proprietà e dell’impiego di tutto ciò che serve alla fabbricazione della bomba atomica a un ente internazionale, una sorta di superstato, limitato nei suoi scopi al tema specifico, che detenga il possesso di tutte le materie prime e dei giacimenti di minerali indispensabili alla fabbricazione dell’arma atomica.

Circa la pace, Einaudi scrive che non basta gridare nelle piazze «vogliamo la pace», occorre chiedersi come attuare tale proposito. Paragona la società internazionale alla società interna; dentro gli Stati, per difendersi da ladri e assassini, gli uomini hanno creato i giudici e i poliziotti, rinunciando a difendersi da sé e ricorrendo al superiore potere della legge e al monopolio statale dell’uso della forza. Così nella società internazionale solo una forza superiore alle singole nazioni può impedire di scatenare la guerra. Chi vuole la pace deve volere la federazione, cioè la creazione di un potere superiore ai singoli Stati sovrani.

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5. I limiti della Società delle Nazioni e dell’ONU

La critica della sovranità assoluta offre a Einaudi gli strumenti per sottolineare le insufficienze e prevedere il fallimento della Società delle Nazioni e dell’ONU. A tale scopo impiega la distinzione tra federazione (intesa come limitazione della sovranità degli Stati che si federano e costruzione di un nuovo Stato cui sono trasferiti parte dei poteri di quelli federati) e confederazione (concepita come cooperazione intergovernativa fra paesi che rimangono sovrani e non delegano poteri agli organi comuni). La Società delle Nazioni è intesa come alleanza di Stati sovrani e indipendenti al fine di mantenere la concordia fra gli associati e difenderli dalle aggressioni esterne. Nessuno pensa che per conseguire tali obiettivi si debba costituire un superstato fornito di sovranità diretta sui cittadini e del diritto di stabilire imposte proprie, di mantenere un esercito sovrannazionale, di avere una propria amministrazione. Si vuole una Società delle Nazioni, ma ogni Stato deve rimanere indipendente. Fra lo stupore e la riprovazione generale (sarà aspramente criticato per questa presa di posizione), Einaudi pubblica un articolo all’inizio del 1918 in cui definisce la Società delle Nazioni un puro nome, il nulla, capace addirittura di aumentare le ragioni di guerra. Alla debole e incapace Società ginevrina contrappone una vera federazione, dotata di poteri limitati ma reali (cfr. La Società delle Nazioni è un ideale possibile?).

Dopo la nascita dell’ONU, Einaudi riprende le argomentazioni del 1918 per criticare la nuova organizzazione e dimostrarne l’inefficacia nel perseguire lo scopo di garantire la pace. Il suo valore morale è indiscusso, scrive; forse non si può fare di più, forse la guerra sarà resa meno frequente, ma annota sconsolatamente che il meccanismo giuridico atto a sopprimere i conflitti non è stato creato neppure questa volta. Il patto di San Francisco soffre dello stesso vizio di quello di Versailles: manca la limitazione della sovranità assoluta; la nuova organizzazione non ha il potere di impedire lo scoppio dei conflitti. Einaudi sottolinea che i compilatori della carta hanno iniziato bene scrivendo nel preambolo dello statuto, come coloro che avevano redatto nel 1787 la costituzione americana, «Noi, popoli delle Nazioni Unite». La carta doveva essere un patto fra popoli, non fra governi, emanante direttamente dai cittadini. Dopo la promettente premessa e l’elencazione dei nobili scopi di pace, di progresso e di civiltà che le Nazioni Unite s’impegnano a perseguire, ecco la conclusione del preambolo: «Perciò i nostri rispettivi governi…». Il patto non è fra popoli, ma fra Stati sovrani, basato sul principio dell’eguaglianza sovrana di tutti i suoi membri. Einaudi conclude le sue riflessioni sulla nascita dell’ONU con queste amare parole: «Siamo al limite del problema della pace. La soluzione non è venuta».

Einaudi conferma la natura giuridica, e non morale, del suo pacifismo. Assicurare la pace non è un problema di buona volontà, di palingenesi sociale, di rinnovamento religioso, ma significa creare il «meccanismo giuridico» atto a sopprimere le guerre, cioè la federazione (cfr. Il problema della pace).

Dalla critica dello Stato sovrano e dall’impostazione giuridica del problema della pace deriva per Einaudi la necessità storica dell’unificazione europea, condizione per il progresso del continente e per impedire altri conflitti. A questo proposito sviluppa la sua interpretazione delle guerre mondiali.

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6. L’interpretazione delle guerre mondiali

Secondo Einaudi, le guerre mondiali sono una manifestazione della necessità storica dell’unificazione europea, uno sforzo cruento verso la creazione di unità statali superiori innescato dalle spinte all’integrazione generate dall’evoluzione del processo produttivo e dall’aumento degli scambi. L’interdipendenza economica è in contraddizione con l’esistenza di Stati chiusi e protezionistici. Ad alcuni paesi non rimaneva dunque che conquistare lo spazio vitale, logica e fatale conseguenza del principio dello Stato sovrano, con la forza. I conflitti mondiali risultano così il tentativo di unificare l’Europa con la violenza, la risposta aberrante alla crisi degli Stati nazionali e all’esigenza di integrare i mercati. Guglielmo II e Hitler sono il frutto di una necessità storica, l’unificazione dell’Europa, e hanno posto un problema reale che va risolto scartando soluzioni confederali, del tipo societario, perché consacrano l’idea dello Stato sovrano e non eliminano la guerra. Ricorrendo a un’immagine biblica, Einaudi afferma che il problema europeo non può essere risolto che in due maniere: o con la spada di Satana (quella impugnata da Hitler, cioè l’egemonia) o con la spada di Dio (cioè la federazione realizzata con il consenso dei popoli). Se non si realizzerà la federazione, l’Europa sarà sconvolta da altre guerre finché non sarà compiuta la necessità storica della sua integrazione. Terminata la seconda la guerra mondiale, per Einaudi non si trattava di ristabilire, come dopo i precedenti conflitti, un precario equilibrio, ma di rispondere alla crisi degli Stati sovrani, di adeguare l’organizzazione politica dell’Europa allo sviluppo socioeconomico del continente realizzando consensualmente la federazione europea. All’unione imposta con le armi andava contrapposta l’unione concordemente accettata di paesi liberi (cfr. l’intervento all’Assemblea costituente del 29 luglio 1947 sulla ratifica del trattato di pace stampato con il titolo La guerra e l’unità europea).

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7. L’organizzazione dello Stato federale

Einaudi ritorna sull’argomento della federazione europea verso la fine del 1943 e prende in considerazione per la prima volta la struttura istituzionale dello Stato federale. La federazione, scrive, ha un fondamento prevalentemente economico, conseguenza delle moderne condizioni di vita che hanno unificato economicamente il mondo e trasformato i mercati nazionali in spazi troppo stretti. Alla filosofia della scarsità, propria dello Stato piccolo, bisogna contrapporre la filosofia dell’abbondanza, propria dello Stato grande. Nella federazione i danni di un’eventuale politica protezionistica, comunque sbagliata perché il mercato deve ormai coincidere con il mondo intero, sono attenuati dalla maggiore ampiezza, rispetto a quello nazionale, dello spazio economico, i beni e i servizi circolano liberamente, la concorrenza è meglio garantita e gli accordi monopolistici risultano più difficili. Einaudi elenca le competenze minime che gli Stati devono delegare alla federazione: il commercio interno; i trasporti (per abolire ogni discriminazione per viaggiatori e merci); le migrazioni interne (per garantire la libertà di movimento e di residenza); le poste, i telefoni, il telegrafo (per assicurare l’illimitata facilità di comunicazione); infine la competenza più significativa e limitativa della sovranità degli Stati, la moneta, con la fissazione di rapporti legali stabili tra le varie divise nazionali e la creazione di una banca centrale di emissione (per regolare la spesa pubblica, limitare l’inflazione ed evitare le misure protezionistiche). In sintesi, la federazione deve essere competente su moneta, libertà di circolazione, dogane, sicurezza.

Per realizzare i suoi obiettivi, l’amministrazione federale dovrà essere dotata di strumenti adeguati. Innanzitutto l’esercito comune, composto non da contingenti degli Stati membri, ma reclutato individualmente; ai singoli paesi rimarrebbe il controllo della polizia. Senza una forza propria la federazione sarebbe un puro nome, una dannosa società delle nazioni. Il diritto di dichiarare la guerra verrebbe così sottratto alle singole nazioni e trasferito alla federazione; con esso gli Stati sarebbero amputati dell’espressione più significativa della sovranità. Poiché la federazione ha competenze sulla difesa e sul commercio estero, le spetta anche la rappresentanza diplomatica per quanto riguarda le materie federali, mentre continuerebbero a sussistere le rappresentanze diplomatiche e consolari degli Stati federati per i restanti settori. La federazione dovrà disporre di una magistratura federale, di una corte suprema e di una polizia federale per far rispettare le leggi. Gli organi legislativi devono prevedere un parlamento bicamerale, composto da un consiglio degli Stati, in cui ogni paese è rappresentato da un uguale numero di rappresentanti, e da un consiglio legislativo, eletto direttamente dai cittadini in proporzione alla popolazione. Le camere esercitano la potestà legislativa e le leggi devono essere approvate da entrambe. Il potere esecutivo spetta al consiglio federale (la terminologia è chiaramente mutuata dall’esperienza elvetica), eletto dal parlamento in seduta comune.

Fissati i compiti e gli strumenti della federazione, Einaudi si preoccupa di precisarne i mezzi finanziari. Secondo una sua radicata convinzione, maturata dall’esperienza americana (amava citare la frase di Hamilton secondo cui il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche era un puro nome), qualsiasi organismo, per risultare vitale, deve vivere con risorse proprie, non dipendere dal contributo di altri. Le dogane sono la più ovvia entrata finanziaria da attribuirsi esclusivamente alla federazione. Spettano inoltre allo Stato federale le imposte di fabbricazione e le entrate derivanti dai servizi gestiti direttamente. Se l’insieme di queste risorse non risultasse sufficiente, si potrebbe imporre un’eventuale imposta sul reddito dei cittadini. Viene delineato così un vero Stato federale, garante dell’unicità del mercato e della pace interna, con un unico territorio doganale, un esercito comune, una finanza propria, un’autorità legislativa, esecutiva e giudiziaria (cfr. Per una federazione economica europea e I problemi economici della federazione europea).

Nel 1950 con il memorandum Monnet si avvia effettivamente l’unificazione europea secondo l’impostazione funzionalistica. Il 9 maggio la dichiarazione Schuman dà avvio alla prima Comunità, quella del carbone e dell’acciaio. Il 27 giugno Einaudi detta una nota sul piano Schuman, in cui raccomanda, come condizione di buon funzionamento dell’organizzazione, che si adotti il principio del voto a maggioranza e che l’Alta Autorità possa dare ordini direttamente ai soggetti economici, in qualsiasi territorio nazionale siano situati, senza attendere ratifiche di sorta da parte dei singoli Stati. Unanimità significa, ammonisce Einaudi, Società delle Nazioni, ONU, Consiglio d’Europa, cioè enti privi di poteri effettivi (cfr. Sul piano Schuman).

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8. La critica al funzionalismo

Chiarita la necessità dell’unificazione e il modello di Stato federale, Einaudi si chiede come realizzarlo. All’epoca della prima guerra mondiale mostra interesse verso il metodo funzionalistico. Ammette che il sentimento di nazionalità, il rispetto delle tradizioni, le diversità nazionali sono talmente radicati da rendere improponibile per il momento la federazione europea. Giudica impensabile richiedere a nazioni, che hanno conquistato l’indipendenza con la guerra appena terminata come quelle dell’Europa centro-orientale, di rinunciare alla sovranità da poco conseguita. Che fare, dunque? Einaudi cerca una via pragmatica nell’approccio funzionalistico alla Società delle Nazioni. Non si deve creare subito una costruzione giuridica astratta, difficile da imporre a nazioni diverse, ma trasferire gradualmente dei poteri circoscritti a organi comuni per il governo delle cose. Nel saggio La società delle Nazioni e il governo delle cose del 1919 distingue tra governare uomini, che riguarda scelte politiche che toccano interessi contrastanti di individui e di regioni, e amministrare cose, che riguarda problemi tecnici, come imbrigliare acque o recapitare lettere. Il modello è l’unione postale universale, che ha continuato a funzionare anche durante la guerra, vera Società delle Nazioni in atto, scrive Einaudi, cui gli Stati hanno delegato parte della loro sovranità. L’organizzazione societaria proposta da Wilson avrebbe maggiori probabilità di successo se, anziché proporsi lo scopo, difficilissimo a raggiungersi, di prevenire le guerre, si limitasse ad affrontare i problemi interstatali «delle cose» e ad amministrare fiumi, laghi, stretti, canali, spedire lettere, reprimere la diffusione di malattie ecc. Amministrando cose, gradualmente arriverebbe a governare uomini, trasformandosi in un superstato vivo e forte, garante della pace; mentre una Società delle Nazioni atta a sentenziare fra Stati sovrani e a impedire guerre si rivelerebbe una chimera.

Il modello funzionalistico, che Monnet adotterà per la creazione delle comunità europee, viene così delineato: delega di sovranità in specifici settori tecnici a enti sovrannazionali per l’organizzazione della gestione dei problemi comuni. Con il tempo tali unioni, inizialmente deputate al «governo delle cose», si sarebbero rafforzate e avrebbero allargato le loro competenze fino alla formazione del superstato e al «governo degli uomini».

Pur ponendosi nella prospettiva funzionalistica, Einaudi tiene fermo il principio che la Società delle Nazioni, anche solo per governare cose, dovrebbe disporre di entrate proprie. Qualunque siano i suoi compiti, la lega andrebbe incontro a delle spese; quindi bisogna prevedere delle entrate. Quali? Due sono i sistemi adottabili: i contributi degli Stati membri o le entrate proprie. Con il primo risultano contribuenti i singoli paesi; con il secondo i cittadini degli Stati. Il primo è ossequiente all’idea della sovranità statale, il secondo presuppone che i cittadini si considerino al tempo stesso sudditi del proprio paese e della Società delle Nazioni. Il metodo dei contributi degli Stati sembra più agevole perché non turba l’assetto vigente, non urta la sovranità statale e il senso di indipendenza nazionale, non richiede un apparato tributario superstatale, i contribuenti non hanno la sensazione di dover pagare una nuova imposta. Tuttavia, proprio in quanto non limita la sovranità statale, è meno efficace. Il difetto di tale metodo sta, oltre che nella mancanza di volontà da parte degli Stati di privarsi della sovranità e di fornire i mezzi di sostentamento alla lega, anche nella perpetua gelosia di un paese contro l’altro, che rende difficile e contrastata la ripartizione dei contributi. Qualsiasi criterio venga adottato per la ripartizione (superficie, popolazione, reddito nazionale ecc.), troverebbe degli scontenti, che cercherebbero di rimetterlo in discussione, di non pagare o di ritardare i pagamenti. Gli effetti permanenti del sistema dei contributi sono controversie velenose, malanimo fra gli associati, pagamenti in ritardo o mai effettuati. Al contrario, l’ostacolo delle risorse proprie è solo iniziale: la rinuncia una volta per sempre a una data entrata (per esempio i dazi doganali) a favore della Società delle Nazioni. Dopo la rinuncia iniziale, peraltro compensata dalle minori spese in quei settori che passerebbero alla competenza della lega, il meccanismo fiscale funzionerebbe da sé, indipendentemente dagli Stati. La lega non deve lottare con i paesi morosi, né vi sarebbero liti sulla quota spettante a ogni paese.

Il problema di come realizzare la federazione europea è ripreso da Einaudi dopo la seconda guerra mondiale; ora critica l’approccio funzionalistico e sottolinea le incongruenze cui sarebbero andate incontro le Comunità europee di tipo funzionale. Da tempo esistono unioni internazionali amministrate da tecnici che limitano la sovranità degli Stati (la Croce rossa, l’unione postale, l’unione per la tutela della proprietà industriale, dei marchi di fabbrica, della proprietà letteraria ecc.). Dati i buoni risultati conseguiti da tali unioni tecniche, si pensò di estenderne il principio ad altre materie, creando così il Fondo monetario internazionale, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, la Comunità europea di difesa. Tutti questi sono tentativi che dimostrano buona volontà, a patto che non siano fini a se stessi, ma implichino a breve scadenza il passaggio alla federazione politica. Einaudi non crede all’evoluzione spontanea dall’integrazione tecnica e settoriale all’unificazione politica. Il gradualismo può risultare utile, ma deve prevedere chiaramente le tappe verso l’unione politica, collocata non in un imprecisato futuro, ma posta fin dall’inizio come meta ultima, da conseguire attraverso stadi intermedi altrettanto chiaramente prefissati. L’oggetto delle vecchie unioni internazionali era tecnico e limitato; l’oggetto di quelle nuove coinvolge gli interessi vitali dei paesi membri. Sia la CECA sia la CED, se vorranno funzionare, dovranno ingerirsi nella vita economica e sociale degli Stati; quindi dovranno disporre di un vero governo e di un vero parlamento.

Einaudi cerca di immaginare le conseguenze concrete cui condurrà il funzionalismo. Se le nuove unioni si limitassero a sopprimere gli ostacoli al libero commercio, forse potrebbero anche funzionare; ma se vogliono prendere decisioni di natura politica, che toccano interessi contrastanti di ceti diversi, andrebbero incontro al fallimento. Se lo Stato nero del carbone vorrà non solo liberalizzare il commercio, ma anche fissare il prezzo del carbone e dell’acciaio, distribuire le imprese produttrici sul territorio, regolare il commercio, le sue decisioni si scontrerebbero con gli interessi dello Stato verde degli agricoltori, danneggiato dai prezzi fissati da quello nero per il combustibile e per i macchinari agricoli. Entrambi poi litigherebbero con lo Stato funzionale più importante, quello della difesa, il cui bilancio sarebbe gravato dalle pretese degli altri due circa il costo delle vettovaglie e dei cannoni. Gli Stati a pezzettini, conclude Einaudi, non funzionano; meglio un’alleanza tradizionale, che si sa che dura finché gli alleati hanno interesse a rimanere uniti. L’idea della federazione funzionale è frutto di confusione mentale. Chi accetta l’idea dell’esercito comune deve andare fino in fondo e accettare l’idea della federazione politica. Le unioni parziali, quali la CECA, il pool verde, la CED sono accettabili solo provvisoriamente, come tappa intermedia sulla via della più vasta federazione politica. L’unione doganale senza quella monetaria è un non senso e l’unione monetaria non si realizza senza la rinuncia alla stampa dei biglietti e a una parte notevole di sovranità politica: «È un grossolano errore dire che si comincia dal più facile aspetto economico per passare poi al più difficile risultato politico. È vero il contrario. Bisogna cominciare dal politico, se si vuole l’economico». Einaudi avverte che la realizzazione della CED è fondamentale; l’esercito comune è la condizione necessaria della federazione, in quanto non ci si può più difendere da soli. L’angoscia in cui vivono gli europei è l’angoscia di Machiavelli per l’impotenza degli Stati italiani di fronte a Francia e Spagna; è l’angoscia odierna di italiani, francesi, tedeschi per la loro impotenza di fronte ai colossi mondiali dell’Est e dell’Ovest. L’esercito comune diventa così la garanzia dell’indipendenza dell’Europa, condannata, se permane la divisione, a una condizione di vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica (cfr. Tipi e connotati della federazione).

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9. Conclusioni

Il contributo di Einaudi all’unificazione europea fu essenzialmente teorico. Predicò con profonda dottrina la necessità dell’integrazione, apportando contributi originali al pensiero federalista, ma operò poco, rispetto, per esempio, al suo impegno nella politica interna italiana. A differenza di Rossi e di Spinelli, mancò a Einaudi la volontà di tradurre in azione la sua riflessione teorica. Invocò l’unità dell’Europa dal 1897, ne dimostrò la necessità, ma non si impegnò per realizzarla. Qui sta il paradosso di Einaudi: scrisse, suggerì, propagandò l’idea dell’unità europea, aderì, finanziò e fece finanziare il Movimento Federalista Europeo, ma non vi è traccia di un suo impegno concreto, né è ricordato nelle autobiografie di altri illustri politici europeisti suoi contemporanei come un artefice dell’integrazione europea.

Einaudi fu un teorico, più che un politico dell’integrazione europea. Pur arrecando contributi significativi all’elaborazione del pensiero federalista, non riconobbe nel federalismo una ideologia autonoma, dotata di propri valori e di nuove categorie concettuali, in grado di produrre originali riflessioni sulla società e sul potere, capace di alimentare un movimento politico indipendente dai partiti e teso a un fine esclusivo e prioritario rispetto alla realizzazione nella politica interna dei tradizionali ideali liberali o socialisti, cioè alla federazione europea. Il suo orizzonte culturale circa l’organizzazione politica ed economica della società rimase quello liberale; il federalismo diventava accessorio rispetto al liberalismo, garantendo il pieno realizzarsi degli ideali liberali attraverso le strutture dello Stato federale, l’abolizione delle barriere doganali e l’unificazione dei mercati, una più sana gestione monetaria, la stabilità dei cambi, l’assicurazione della pace.

Einaudi va comunque annoverato tra i maestri del pensiero federalista del Novecento. La rilevanza delle sue riflessioni spicca soprattutto se paragonata all’incapacità della cultura italiana coeva (Gobetti, Gramsci, Croce) di cogliere il significato degli avvenimenti che stavano accadendo, di accorgersi della crisi dello Stato nazionale, di cercare nuove categorie interpretative del fascismo e della storia del Novecento. Alla maggior parte degli intellettuali italiani sfuggì la connessione fra i problemi interni e il contesto internazionale in cui maturavano e la percezione che l’effettiva soluzione a tali problemi andava cercata al di là dei confini nazionali, superando la forma di Stato uscita dalla rivoluzione francese. Mentre per la maggior parte della cultura italiana lo Stato nazionale continuava a essere la forma indiscussa di organizzazione politica, Einaudi seppe emanciparsi da questa prospettiva nazionale e leggere la storia da un punto di vista sovrannazionale. Ebbe la capacità di vedere con chiarezza il problema storico fondamentale del Novecento: il superamento dello Stato nazionale sovrano verso l’unificazione europea e mondiale.

Ebbe forte il senso dell’autonomia europea rispetto alle superpotenze e non accettò la riduzione del continente a una condizione di vassallaggio, scongiurabile proprio con la realizzazione della federazione europea. L’unione, non la protezione americana, poteva garantire ai cittadini europei ciò che gli Stati nazionali non erano più in grado di assicurare: sicurezza e benessere. E i tempi per realizzare l’unione non erano infiniti, come ricordò il 1° marzo 1954, all’epoca della ratifica della CED, nell’ultimo scritto europeista, Sul tempo della ratifica della CED, in cui definì gli Stati nazionali «polvere senza sostanza».

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