Opera Omnia Luigi Einaudi

Luigi Einaudi economista

di Valeria De Bonis

1. Introduzione

Luigi Einaudi è autore di una miriade di scritti che attraversano una varietà di temi dell’economia teorica e applicata e un periodo compreso tra la fine del diciannovesimo secolo e la nascita della Comunità Europea, realizzazione di un progetto che egli aveva sempre sostenuto.
Fondamenti teorici e fili conduttori di questa immensa opera sono la teoria del libero commercio e quella del capitale come motore dello sviluppo economico, così come elaborate dagli economisti classici britannici a partire da Adam Smith:

«Abolire senz’altro e subito e senza pretesa di compensi (…) ogni specie di dazi protettivi, di vincoli al commercio estero e interno (L. Einaudi, 1944, La società liberale, Torino), scriveva nel 1944, riassumendo la lotta al protezionismo, non solo doganale, ma in tutte le forme di restrizione monopolistica, come espresso nei vari interventi su libera iniziativa, federalismo, globalizzazione».

«Per accrescere il benessere delle classi lavoratrici non v’è altro mezzo se non accrescere la quantità di ricchezza prodotta nel nostro paese» (L. Einaudi, “Il programma economico del partito liberale”, La Stampa, 12 ottobre 1899):

il capitale è il risultato del risparmio; questa affermazione del 1899 spiega l’interesse di Einaudi per il risparmio, argomento principe dei suoi scritti su temi di teoria finanziaria, teoria monetaria e politica sociale.

Altro elemento unificante, nel contempo caratteristico del lavoro einaudiano e tipico della tradizione del pensiero economico italiano, è il metodo, o meglio, il senso del concreto, dall’autore stesso definito come la pazienza di criticare i fatti singoli, analizzati nelle interconnessioni della realtà sociale e nel loro divenire storico:

«Quanto più la rappresentazione che noi facciamo della realtà passa dal tipo della istantanea fotografica a quello della cinematografia estesa nel tempo, dalla statica alla dinamica, tanto meglio scelte fatte, scelte future e previste, conseguenze delle scelte fatte e motivi delle scelte future si innestano e si compenetrano le une negli altri, sì da rendere monca e spesso illogica la trattazione separata di ognuno degli aspetti di un unico problema» (L. Einaudi, 1943, Ipotesi astratte ed ipotesi storiche, e dei giudizi di valore nelle scienze economiche, in L. Einaudi, 1973, Scritti economici storici e civili, a cura di R. Romano, Milano, Mondadori, p. 404).

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2. Libertà e concorrenza: società liberale ed economia liberale

Libero commercio e sviluppo economico si inseriscono nella concezione einaudiana del liberalismo e delle conseguenze della stessa per l’economia privata e pubblica, innanzitutto l’affermazione del principio della concorrenza quale garanzia della liberta di intraprendere e lavorare.

«Il produttore, se è costretto dalla concorrenza a rendere servigio altrui col ribasso dei prezzi o col miglioramento della qualità o in ambedue i modi, per se stesso vi ripugna. Se potesse faticare poco o nulla, vendere ad alto prezzo e guadagnare molto lo farebbe volentieri. Non perché sia un produttore e i produttori siano peggiori degli altri uomini. Lavorare meno che si può e tirare la paga egualmente è una tendenza connaturata all’uomo od almeno, alla grande maggioranza degli uomini» (L. Einaudi, 1944, I problemi economici della federazione europea, Lugano, riedito in L. Einaudi, 1986, La guerra e l’unità europea, a cura di G. Vigo, Bologna, Il Mulino, p. 114).

Analogamente, per Einaudi è necessario garantire

«Ad operai e contadini la piena assoluta libertà sindacale, che è scuola di responsabilità e strumento di elevazione morale e materiale, ma reprimere nel tempo stesso con energia ogni tentativo delle leghe operaie stesse ed insieme e in primo luogo delle leghe padronali, dei consorzi, cartelli e trusts di ogni specie a creare monopoli sul mercato delle merci e del lavoro a danno della collettività» (L. Einaudi, 1944, La società liberale, Torino).

Il principio della concorrenza non vale solo per lo svolgimento dell’attività economica privata tipicamente di mercato, ma anche per quella in senso lato pubblica, in particolare la fornitura dei servizi pubblici agli uomini viventi in società, che secondo Einaudi spetta a «tutte le specie di enti pubblici: (…) più che a quella dello stato, all’opera delle regioni, dei collegi, dei comuni, delle istituzioni di pubblica beneficenza, degli enti morali e delle fondazioni private» (L. Einaudi, 1944, La società liberale, Torino, p. 7-8), in un’ottica di sussidiarietà. A questo proposito, va ricordato il favore verso le autonomie locali, contemperato dal timore per l’irresponsabilità finanziaria: «Cantoni, regioni, comuni, enti territoriali, quale sia il nome ad essi attribuito, non vivono vita sana e feconda se non hanno entrate proprie, autonome nate e volute e partite dai contribuenti locali in aggiunta e non in sostituzione delle imposte statali; né debbono vivere di elemosine elargite dallo stato, di partecipazioni ad imposte statali» (L. Einaudi, 1962, Prediche inutili – “Che cosa rimarrebbe allo stato”, Torino, G. Einaudi, p. 364).

Va notato che per Einaudi il principio di concorrenza come esplicazione di quello di libertà abbia una matrice etica che lo rende necessario anche nell’ambito politico-sociale, oltre che in quello economico:

«In materie economiche, il comandamento primo è quello stesso che si impone nelle materie spirituali. (…) [l’uomo libero] non può riconoscere alcun privilegio economico a danno della eguale libertà per tutti di lavorare, di intraprendere, di risparmiare» (L. Einaudi, 1962, Prediche inutili – “Concludendo”, Torino, G. Einaudi) e:

«la garanzia della libertà dei cittadini sta nell’esistenza di poteri diversi, di forze di attrazione svariate: grazie a cui l’uomo ordinario non deve necessariamente dipendere, per ottenere il pane necessario alla vita, da una forza sola» (L. Einaudi, 1962, “Politici ed economisti”, in Il Politico, XXVII, n. 2, p. 249).

Conseguentemente, in polemica con Benedetto Croce, Einaudi sostiene la necessità di un’economia di mercato di concorrenza per l’esistenza stessa di una società liberale:

«La libertà di pensiero è dunque connessa necessariamente con una certa dose di liberismo economico (…). La concezione storica del liberismo economico dice che la libertà non è capace di vivere in una società economica nella quale non esista una varia e ricca fortuna di vita umana. Vive per virtù proprie, indipendenti le une dalle altre, non serve di un’unica volontà» (L. Einaudi e B. Croce, 1988, Carteggio (1902-1953), a cura di L. Firpo, Torino, Fondazione L. Einaudi, parte II, IV).

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3. Stato e mercato

L’affermazione del principio di concorrenza si accompagna in Einaudi alla consapevolezza dei limiti che il mercato trova nel proprio funzionamento e al riconoscimento dell’importanza dell’intervento pubblico: risultato dell’approccio concreto ai problemi economici [collegamento a sezione 1], per cui ciò che interessa non è delimitare astrattamente gli spazi del mercato e dello stato, ma garantisce che entrambi operino per l’affermazione della libertà e dello sviluppo economico e sociale.

In particolare, Einaudi ritiene impossibile considerare razionali le scelte compiute dai consumatori per abitudine, o con informazioni inadeguate, o dettate dalla moda, o indotte dalla pubblicità; e contesta di conseguenza la contrapposizione tra la razionalità delle scelte individuali e l’irrazionalità di quelle pubbliche:

«Non è probabile che le azioni illogiche siano di gran lunga più numerose e più imponenti nel campo della vita privata, e le spese da esse determinate assorbano una porzione di gran lunga maggiore del reddito di quanto facciano le conclamate azioni illogiche di carattere pubblico?» (L. Einaudi, 1941, Saggi sul risparmio e l’imposta, ed. 1958, Torino, G. Einaudi, p. 194).

Altro limite del mercato evidenziato da Einaudi è quello degli effetti negativi della produzione sull’ambiente, ovvero le diseconomie esterne di produzione, in particolare fumi e polveri di acciaierie e cementifici, che alterano il sistema di formazione dei prezzi a danno dei consumatori e a vantaggio dei produttori, «perché nel calcolo del costo (…) non si tiene conto del costo di rimangiarsi il fumo e le polveri prodotti dalle ciminiere» (L. Einaudi, 1961, “La predica della domenica”, Corriere della Sera, 30 luglio).

Il funzionamento del mercato viene altresì alterato dal crearsi di posizioni monopolistiche, risultato di azioni mosse da pregiudizio ideologico e interessi di gruppo. Esistono inoltre servizi che solo lo stato può fornire – o fornire a un costo inferiore ai privati: difesa, ordine, istruzione, infrastrutture pubbliche. Lo stato è dunque per Einaudi un fattore della produzione e i tributi hanno come funzione essenziale quella di remunerare lo stato per il suo contributo alla produzione e quindi all’aumento della ricchezza. E allo stato spetta anche combattere monopolio e cartelli – anche se a volte essi sono frutto proprio dell’intervento pubblico.

Accanto alla libertà individuale, dunque, Einaudi riconosce la dipendenza reciproca di persone che vivono in società: il suo liberalismo economico non è liberismo:

«liberalismo (…) non vuol dire assenza di vincoli statali, di norme coattive. Dovrebbe oramai essere inutile ripetere ancora una volta che il “liberismo economico”, così come è comunemente ossia volgarmente ripetuto, è un buffo fantoccio, che nessun economista (…) di quelli che hanno anche soltanto una certa intuizione del contenuto e dei limiti della disciplina da essi coltivata ha mai fatto proprio. Il liberismo economico è una invenzione sfacciata dei socialisti, dei dirigisti, degli interventisti, e il comandamento del laissez faire, laissez passer ha un contenuto limitato proprio di alcuni circoscritti campi dell’operare umano» (L. Einaudi, 1962, Prediche inutili – “Concludendo”, Torino, G. Einaudi).

Il senso del concreto impone così a Einaudi la ribellione contro l’etichettatura ideologica:

«Come (…) si concilia (…) la professione di liberista, notoriamente attribuita alla fama pubblica dell’autore, con l’esaltazione dell’opera dello stato, da lui reputata benefica anche se giunta a lasciare ai contribuenti solo gli occhi per piangere? Neppure gli interventisti, neppure i dirigisti, i pianificatori giungono a tanta pazzia; e costui pretende di essere preso sul serio! Sul qual punto (…) sono oramai rassegnato a reputare persa la partita, essendo chiaro come coloro i quali giudicano gli uomini dopo aver ad essi appiccicato un nomignolo (liberista, socialista, interventista, pianificatore e simili) sono incapaci a dar giudizi economici; che sono probanti solo se si dimostra che una data scelta è quella relativamente più conveniente o meno dannosa di quell’altra immaginabile; e ben può darsi che il pessimo stato tirannico o straniero sia preferibile al disordine e all’anarchia (…). Le scelte si fanno con il ragionamento, non con le etichette. Ma i politici non amano ragionare e prediligono le etichette» (L. Einaudi, 1950, Saggi sul risparmio e l’imposta, Prefazione, p. XVII).

Ma resta ben netta in Einaudi la differenza di impostazione tra dirigisti, da un lato, e, dall’altro, liberali, per i quali

«Lo Stato interviene per fissare le norme di cornice entro le quali le azioni degli uomini possono liberamente muoversi; non ordina come gli uomini debbono comportarsi nella loro condotta quotidiana» (L. Einaudi, 1962, Prediche inutili – “Concludendo”, Torino, G. Einaudi, p. 399).

E continua facendo riferimento alla necessità di un controllo sul funzionamento dei mercati, in particolare attraverso l’imposizione di obblighi di trasparenza agli operatori dei mercati finanziari, rilevando come l’applicazione delle norme antitrust negli USA sia garantita anche dalla possibilità di condurre indagini e processi

«sul fondamento delle notizie che le società ed enti debbono approntare e comunicare in virtù di leggi federali e statali, di regolamenti di borsa e di istruzioni delle commissioni sul commercio interstatale e del consiglio della riserva federale» (L. Einaudi, 1962, Prediche inutili – “Concludendo”, Torino, G. Einaudi, p. 399).

Il superamento del laissez faire nell’affermazione del principio di libertà di iniziativa e della concorrenza avvicina la concezione di Einaudi alla teoria degli interventi conformi dell’economista e sociologo Wilhelm Roepke, che Einaudi generalizza definendo interventi conformi

«tutti i piani o quelle politiche economiche le quali sono compatibili con l’esistenza di un mercato, sul quale gli uomini consumatori si recano, muniti dei mezzi per essi disponibili, allo scopo di comprare beni atti a soddisfare i loro desideri e sul quale gli stessi uomini, in veste di produttori, si recano per acquistare i fattori produttivi e vendere i beni prodotti» (L. Einaudi, 1937, “Sulle origini economiche della grande guerra, della crisi e delle diverse specie di piani”, Rivista di Storia economica, II, n. 3).

Tali interventi includono ogni misura volta a garantire il meccanismo della concorrenza, anche modificando la distribuzione delle risorse, ma senza distorcere il funzionamento del sistema dei prezzi.

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4. Mercato e istituzioni delle politiche socio-economiche

La concezione di un’economia liberale in cui sono necessari anche vincoli statali, norme coattive spiega l’interesse di Einaudi per lo studio delle istituzioni, nella prospettiva di un modello di economia di mercato supportato da interventi conformi. Oltre all’analisi delle istituzioni fiscali, Einaudi si sofferma sulle istituzioni dell’economia agraria, quelle delle politiche sociali e del lavoro e quelle dell’economia industriale.

Le tematiche economico-istituzionali della terra e dell’agricoltura sono oggetto dell’attenzione di Einaudi a partire dagli scritti giovanili “La distribuzione della proprietà fondiaria in Dogliani” del 1893 e “L’azione del Partito Socialista nei paesi di piccola proprietà terriera” del 1894, nei quali argomenta che la concentrazione della proprietà terriera non costituisce un risultato necessario dello sviluppo dell’agricoltura e auspica interventi a favore della proprietà agricola, quali la diffusione delle Casse di credito rurale e delle cooperative di trasformazione e commercializzazione dei prodotti.

Il mondo dell’agricoltura costituisce per Einaudi il modello ispiratore della sua concezione dell’economia. In esso esisteva ancora l’imprenditore individuale, uomo libero, operoso e risparmiatore. Avversando la proposta di riduzione della quota disponibile di eredità a favore di quella di legittima per i figli (il futuro art. 537 del codice civile), argomenta che essa avrebbe impedito al capofamiglia di scegliere il successore più capace e così

«l’opera tacita che la terra da sé compie, rifiutando i suoi frutti a chi non li merita, espellendo i proprietari incapaci od ignari e attirando, colla promessa di frutti più larghi, i volenterosi e i laboriosi» (L. Einaudi, 1938, “L’unità del potere e la storia catastale delle famiglie”, Rivista di storia economica, dicembre).

Non a caso dall’esempio della terra traggono spunto le argomentazioni sui benefici dell’apertura dei mercati e sul principio della tassazione del reddito normale quale fondamento del sistema tributario.

E l’importanza del merito individuale è il fondamento del criterio di giustizia che opera nel mercato, in cui ciascuno è retribuito in base al contributo dato alla produzione. Affinché tale principio possa operare, Einaudi ritiene necessario un intervento di politica sociale ispirato alla riduzione della disuguaglianza nei punti di partenza.

Infatti, per garantire che il meccanismo del mercato risulti in una distribuzione giusta secondo il principio del merito, occorre che la competizione tra gli individui sia equa. Ciò comporta, in particolare, che tutti abbiano la stessa probabilità di accedere all’istruzione per formare e accrescere il proprio capitale umano; che venga garantito a tutti un reddito minimo; che vengano eliminati i vincoli all’entrata nelle professioni e nelle attività economiche; che venga contrastato l’insorgere di posizioni di monopolio.

La formazione del capitale umano assolve il duplice compito di contribuire allo sviluppo economico generale mediante quello individuale e di assicurare l’uguaglianza di base. Einaudi è a favore della concorrenza tra scuola pubblica e scuola privata, garanzia di varietà nei programmi educativi e stimolo a un continuo miglioramento; tale coesistenza sarebbe favorita dall’abolizione del valore legale dei titoli di studio.

Il finanziamento dell’istruzione deve però essere a carico dello stato:

«l’ente pubblico dovrà, fra l’altro, gradualmente provvedere a fornire ai ragazzi istruzione elementare, refezione scolastica, vestiti e calzature convenienti, libri e quaderni ed ai giovani volenterosi, i quali diano prova di una bastevole attitudine allo studio, la possibilità di frequentare scuole medie ed università a loro scelta senza spesa» (L. Einaudi, 1958, Lezioni di politica sociale, Torino, Boringhieri, par. 124).

Nella prospettiva dell’uguaglianza di base, il reddito minimo è per Einaudi un punto di partenza, giustificato con argomentazioni etiche prima ancora che economiche:

«l’idea nostra dovrebbe essere un’altra ossia che il minimo di esistenza non sia un punto di arrivo, ma di partenza; una assicurazione data a tutti gli uomini perché tutti possano sviluppare le loro attitudini» (L. Einaudi, 1958, Lezioni di politica sociale, Torino, Boringhieri, par. 35).

Anche la pensione di vecchiaia viene concepita da Einaudi nella stessa ottica:

«Fondamento della pensione della vecchiaia è il vantaggio morale, dal quale deriva il vantaggio economico. Soltanto l’uomo fiducioso in sé stesso e nel suo avvenire risparmia e si eleva. Colui il quale non è sicuro rispetto al futuro (…), non tenta neppure di provvedere con le sue forze all’avvenire (…). Ove invece egli sappia che un minimo di vita gli è assicurato nella vecchiaia, non solo è spinto a lavorare con tranquillità durante gli anni migliori, ma è incoraggiato ad aggiungere qualcosa a quel che è già suo» (L. Einaudi, 1958, Lezioni di politica sociale, Torino, Boringhieri, par. 40).

Nella stessa direzione opera il principio del taglio delle punte, espressione dell’avversione di Einaudi verso le grandi ricchezze, inteso come riduzione delle posizioni privilegiate, potenziali fonti di abusi monopolistici.

Istituzioni fondamentali allo sviluppo economico-sociale sono poi, secondo Einaudi, i sindacati operai, i quali devono operare sullo stesso piano dei sindacati dei datori di lavoro. Ma queste istituzioni non possono svolgere adeguatamente il proprio ruolo se concorrono alla formazione di posizioni monopolistiche:

«Instaurino pure, se ci riescono, operai e imprenditori, il monopolio del lavoro e dell’impresa. Ciò che unicamente si nega è che lo stato sanzioni legalmente il monopolio medesimo (…). Il punto fermo è questo, non quello della convenienza del monopolio» (L. Einaudi, 1973, Scritti economici, storici e civili – “La bellezza della lotta”, a cura di R. Romano, Milano, Mondadori, pp. 837).

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5. Il monopolio

L’avversione alle restrizioni della concorrenza viene definita in particolare negli interventi relativi alle istituzioni dell’economia industriale, in particolare le regole antimonopolistiche nei mercati dei beni e dei servizi.

Punto di partenza è il contrasto alle tariffe doganali e a ogni norma che introduca monopoli:

«La prima e più sicura legislazione antimonopolistica è quella che si astenga dal creare monopoli (…). Orbene una delle specie di legislazione più sicuramente colpevole di promuovere monopoli è appunto la tariffa doganale» (L. Einaudi, “Intorno alla tariffa doganale. Nota redatta ad occasione della lettura del “materiale di studio” per la nuova tariffa doganale e delle istruzioni alla delegazione italiana alla conferenza di Annecy”, in L Einaudi, 1956, Lo scrittoio del Presidente (1948-1955), Torino, G. Einaudi, p. 118).

Il dazio, infatti, indebolendo la concorrenza internazionale, permette o a una grande impresa interna di ingrandirsi ulteriormente o a più imprese interne di formare un cartello per la fissazione del prezzo di vendita; tutto ciò a scapito dell’efficienza nella produzione e del benessere dei consumatori.

Per motivi analoghi, Einaudi è a favore dei diritti sulla proprietà intellettuale delle imprese, ovvero i brevetti, purché si tratti di un diritto limitato nel tempo.

Dall’analisi svolta da Einaudi emerge come libertà economica e concorrenza vengano collegate ai diritti di chi non ancora opera nel mercato, ma potrà entrarvi in futuro. Lo stesso tema si trova negli interventi relativi a licenze commerciali e contratti agrari, nella forma dell’affermazione dei diritti dei non nati su quelli dei viventi:

«per “viventi” si intendono da un lato i commercianti, i quali sono forniti oggi di licenze e dall’altro lato, per i contratti agrari, i mezzadri e i fittaioli i quali hanno in corso un contratto; per “non ancora nati” si intendono non soltanto coloro i quali non sono nel momento presente fisicamente nati, ma anche coloro i quali potrebbero aspirare ad esercitare un commercio od a coltivare poderi con contratti di mezzadria o di affitto» (L. Einaudi, 1956, Lo scrittoio del Presidente, libro VII, “I vivi e i non nati”).

La libertà del commercio va di pari passo con l’ampliamento dell’area del mercato, secondo fattore fondamentale di contrasto al monopolio. Citando l’esempio degli USA, Einaudi sostiene che in essi il numero di monopoli effettivamente pericolosi per il buon funzionamento del mercato sia scarso

«perché le dimensioni del mercato sono siffattamente ampie che i monopolisti non riescono, nonostante i dazi, a sopprimere del tutto la concorrenza; né i margini di lucro monopolistico possono essere allargati troppo, senza provocare l’entrata nel mercato di nuovi concorrenti» (L. Einaudi, 1962, Prediche inutili – “Concludendo”, Torino, G. Einaudi).

Ultimo rimedio contro il monopolio prospettato da Einaudi è l’intervento pubblico diretto con l’esercizio dell’attività economica da parte di imprese pubbliche, in particolare nei casi di imprese tendenti alla strada (trasporto urbano e ferroviario, elettricità, gas, acqua) e di divergenza tra l’utile individuale e l’utile collettivo, come nel caso delle poste, che devono garantire servizi di base anche in località dove l’offerta del servizio appare antieconomica affinché la stessa sia garantita a tutti gli utenti.

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6. La teoria generale dell’imposta e la questione dell’ammortamento

Einaudi sostiene la necessità di un intervento pubblico rilevante per sostenere lo sviluppo economico e, conseguentemente, di un elevato livello di tassazione per il suo finanziamento. Ma la tassazione deve, come tutte le forme di intervento pubblico, essere conforme al mercato, ovvero non distorcere il processo concorrenziale nel produrre gettito che remuneri lo stato per i servizi offerti alla collettività. L’imposta che soddisfi questi requisiti è secondo Einaudi l’ottima imposta, che si realizza quando

«con essa si ottiene il minimo di attrito, e con la maggiore immediatezza possibile, il provento tributario necessario per rendere massima la potenza economica della società, compresa quella dello Stato» (L. Einaudi, 1941 e 1958, Saggi sul risparmio e l’imposta, Torino, Einaudi, – Saggio quarto “Contributo alla ricerca dell’ottima imposta”, Sezione quarta “Connotati dell’imposta equa e stabile”, par. 32).

Da questa teoria derivano i contributi alla scienza delle finanze che portarono a Einaudi fama internazionale di economista: quelli sulla capitalizzazione dell’imposta, sulla doppia tassazione del risparmio e sull’imposta sul reddito normale, tematiche che si svolgono e intrecciano per un quarantennio nell’analisi di Einaudi.

La capitalizzazione o ammortamento dell’imposta consiste nella diminuzione del valore capitale di un cespite patrimoniale quando il reddito che esso produce viene tassato. La teoria tradizionale era giunta alla conclusione che ciò avvenisse nel caso di imposta speciale, che colpisce solo alcuni tipi di reddito da capitale, e non in quello di imposta generale, che colpisce il redito di tutti gli impieghi del risparmio.

Si consideri un cespite patrimoniale che produce un reddito annuale, costante nel tempo e perpetuo, di 50. A un tasso di interesse di mercato del 5%, il valore di mercato del capitale sarà 1.000. Se viene introdotta un’imposta speciale con aliquota del 20% su questo reddito, in termini netti esso si riduce a 40. Al tasso di interesse del 5%, il cespite vale ora solo 800, in quanto gli individui non saranno disposti ad acquistarlo se il suo rendimento è inferiore a quello degli altri cespiti, i cui redditi non sono stati colpiti dall’imposta speciale. In questo modo, l’onere dell’imposta ricade sul possessore del cespite al momento dell’introduzione della stessa, attraverso la riduzione del valore capitale di un ammontare pari al valore attuale dei prelievi futuri, mentre i successivi acquirenti, pagando 800 un cespite che rende 40, sono solo formalmente colpiti dall’imposta.

Questo risultato iniquo non si verifica se l’imposta è generale, ovvero colpisce tutti i redditi da capitale. In questo caso, infatti, tutti i redditi si riducono del 20% e il rendimento che gli individui possono ottenere dal capitale è del 4% in tutti gli impieghi. Quindi il reddito netto di 40 viene capitalizzato al 4% e il valore capitale è 1.000 come prima dell’introduzione dell’imposta. Invece dell’ammortamento, si ha una riduzione del tasso di interesse, con l’effetto negativo, questa volta in termini di efficienza, di un disincentivo al risparmio.

Einaudi critica la tesi tradizionale, attaccando la distinzione tra imposta generale e speciale, sia con l’argomentazione dell’impossibilità di realizzare un’imposta veramente generale e uniforme, sia precisando che l’imposta non può ridurre il tasso di interesse, che è un mero rapporto; semmai, la diminuzione dei redditi da capitale conduce a una diminuzione della quantità di risparmio offerta e quindi a un aumento del tasso di interesse netto proporzionalmente minore della diminuzione del reddito, cosicché anche l’imposta cosiddetta generale provocherebbe ammortamento.

Ma Einaudi va oltre queste considerazioni tecniche osservando come la teoria tradizionale si applichi, anche con le precisazioni esposte sopra, a un’imposta considerata solo nell’aspetto negativo del prelievo, ovvero a un’imposta che egli definisce grandine, in quanto come questa

«senza costo e senza compenso per gli uomini, porta via i frutti della terra [e così distrugge] un tanto per cento del reddito del campo e non restituisce niente» (L. Einaudi, Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento dell’imposta e teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta, riedito in L. Einaudi, 1941, Saggi sul risparmio e l’imposta, Torino, G. Einaudi, p. 183).

Ma se si sostituisce al termine imposta l’espressione compenso dato allo stato in cambio dei servizi pubblici da questo forniti ai cittadini, il prelievo va considerato congiuntamente agli effetti positivi che ne derivano. Se l’imposta finanzia servizi che accrescono la produttività dei fattori esistenti, ovvero se essa è economica, conforme al mercato, allora il reddito del cespite tenderà ad aumentare e con esso il valore capitale; il valore dei beni presenti rispetto a quelli futuri diminuisce e con esso il tasso di interesse, che misura la variazione psicologica di apprezzamento che l’uomo dà allo stesso oggetto nei due tempi diversi, quello della decisione di astenersi dal consumo risparmiando e quello della decisione finale di consumare.

Questo vale sia nel caso di imposta generale, sia in quello di imposta speciale, con la differenza che, nel primo caso, l’aumento di reddito sarà di tutti i cespiti patrimoniali al netto dell’imposta, mentre nel secondo solo alcuni redditi verranno decurtati dall’imposta.

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7. La doppia tassazione del risparmio e l’imposizione del reddito ordinario

Dalla teoria dell’imposta conforme al mercato discende la tesi della doppia imposizione del risparmio. Il punto di partenza è, come per l’analisi dell’ammortamento dell’imposta, l’equivalenza tra valore capitale di un cespite e reddito che esso produce, in quanto il primo è il valore attuale del flusso di reddito stesso.

«Le due cose, capitale e reddito, non sono soltanto l’una funzione dell’altra, ma sono due facce della stessa cosa, sono la medesima cosa guardata da due punti di vista diversi. Se badiamo alle 40 lire annue future noi diciamo di vedere “reddito”, se accorciamo quelle visioni del futuro e le concentriamo, per così dire, nel momento presente, noi diciamo di vedere “capitale”. Ma vediamo sempre la stessa cosa» (L. Einaudi, 1938, Miti e paradossi della giustizia tributaria, riedito in L. Einaudi, 1959, Opere di Luigi Einaudi, Torino, G. Einaudi., cap. II, p. 55).

Di conseguenza, non possono essere tassati insieme il capitale e il reddito che esso genera, in quanto due facce della stessa medaglia.

Da una prospettiva parallela, non possono essere tassate allo stesso modo la parte di reddito guadagnato o prodotto destinata al consumo e quella destinata al risparmio, che è capitale che genera reddito; altrimenti il risparmio verrebbe colpito una prima volta come reddito prodotto e risparmiato, ovvero capitale, e una seconda volta come frutto del risparmio stesso, ovvero reddito, altra faccia del capitale.

Per evitare quello che Einaudi definisce il doppio di imposta bisognerebbe esonerare o i redditi da capitale o il risparmio da cui sono originati. Ma la prima soluzione è inattuabile, in particolare per i redditi di impresa, che sono redditi misti di capitale e lavoro. La seconda è attuabile solo ricorrendo a presunzioni sull’uso del reddito. Einaudi propone di tassare con aliquota minore i redditi guadagnati dagli individui per i quali si presume esistere un maggior bisogno di risparmio: i percettori di redditi da lavoro, di redditi incerti e fluttuanti, di redditi minimi.

Più in generale, ritenendo che il bisogno di risparmiare decresca al crescere del reddito, Einaudi conclude che l’imposta sul reddito prodotto dovrebbe essere progressiva, così esentando il risparmio presunto.

Questa giustificazione della progressività non discende da quella tradizionale del principio del sacrificio, secondo cui il prelievo di un’unità di reddito determina una perdita di utilità, ovvero un sacrificio, minore, quanto più elevato è il reddito dell’individuo, in quanto l’utilità di unità aggiuntive di reddito è via via minore.

E’ invece una giustificazione tecnica, che rispecchia l’atteggiamento concreto di Einaudi verso i problemi economici.

Ma nella pratica l’esenzione del risparmio può ottenersi, secondo Einaudi, attraverso la scelta del reddito normale quale base imponibile:

«la tassazione del reddito normale è la approssimazione più ampia e probabilmente più perfetta che si riconosca al principio dell’esclusione del risparmio dalla materia imponibile» (L. Einaudi, 1929, “Della fonte del risparmio e della tassazione del reddito normale come approssimazione alla esclusione del risparmio dalla materia imponibile”, in “Contributo alla ricerca della ottima imposta, in Saggi sul risparmio e l’imposta, 1958, Torino, G. Einaudi, p. 465).

In La terra e l’imposta, del 1924, Einaudi ripercorre la tradizione del reddito ordinario nella letteratura economica e nella politica tributaria italiane, a partire dall’introduzione del catasto lombardo nel 1718; fondato sulla stima del valore di ogni proprietà terriera, il sistema mandava esenti dall’imposta futuri incrementi di valore dovuti all’industria del proprietario; la ragione era incentivare al miglioramento per favorire lo sviluppo dell’agricoltura. Il metodo di accertamento catastale del reddito dei terreni fu poi esteso a tutta l’Italia nel 1886.

Einaudi nota come questo sistema tragga spunto dal problema di distinguere tra reddito fondiario (rendita del proprietario) e reddito agrario (profitto dell’imprenditore agricolo), congiunto alla esistenza di regimi produttivi diversi. Ciò suggerisce di prescindere, ai fini dell’imposizione, dalla figura che produce il reddito e dal tipo di impresa, passando a una tassazione categoria per categoria, basata non sul reddito effettivamente prodotto, ma sul reddito ordinario, ovvero il reddito normalmente ricavato da terreni della stessa fertilità per una certa coltura, a prescindere da circostanze eccezionali. L’eccedenza di reddito effettivamente prodotto rispetto all’ammontare tipico è esente da imposta.

Einaudi propone in La scienza italiana e l’imposta ottima del 1940 l’estensione dell’ambito di applicazione di questo metodo: la terra ha fornito il modello sui cui fondare un intero sistema di tassazione.

In generale, il primo argomento a sostegno della tesi per cui l’imposta ottima va commisurata al reddito normale di categoria e non a quello individuale effettivamente prodotto, così come esposto in Miti e paradossi della giustizia tributaria del 1938, è la difficoltà di definire esattamente il reddito effettivo, per la diversità tra periodo d’imposta e durata effettiva del processo produttivo, inesattezze nel calcolo del costo di produzione del reddito, ecc.

Tutto ciò fa sì che il reddito effettivo individuale al quale l’imposta viene commisurata sia, in realtà, un reddito individuale medio. Allora, se invece di questo si prendesse come base imponibile il reddito che normalmente l’individuo potrebbe produrre con le risorse a sua disposizione e nelle sue condizioni, si eviterebbe l’incertezza dell’accertamento e, soprattutto, si premierebbe chi fa meglio della norma e penalizzerebbe chi fa peggio.

Questo tipo di imposta sarebbe ottima, conforme al mercato, in particolare risultando in un incentivo alla produzione, al risparmio e all’accumulazione del capitale.

Infatti, come, nel caso particolare dell’agricoltura, raddoppiare la fertilità di un terreno attraverso il lavoro e l’investimento diventa più vantaggioso che possedere due appezzamenti poco produttivi, così, in generale, il contribuente sotto la norma corrisponde a chi intacca il capitale consumando il risparmio precedentemente accumulato, mentre quello con un reddito sopra la norma corrisponde al risparmiatore. L’imposta sul reddito normale è un’ottima approssimazione dell’imposta ideale che esenta il risparmio.

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8. Moneta, stabilizzazione, sviluppo

Nel dopoguerra, Einaudi fu protagonista, come ministro del Bilancio e Governatore della Banca d’Italia, di un’efficace azione contro l’inflazione attraverso una manovra di stabilizzazione monetaria.

Nei primi mesi del 1947 i prezzi all’ingrosso erano saliti del 50%. Einaudi temeva l’aumento del tasso di inflazione per le conseguenze sulla distribuzione e produzione delle risorse, in particolare quelle derivanti dalla certezza dell’incertezza per la difficoltà di fare calcoli corretti. Decise così di arrestarla restringendo la liquidità delle banche e aumentando il tasso di sconto dal 4% al 5,5%.

L’intervento ebbe successo: nei sei anni successivi l’indice dei prezzi aumentò complessivamente del 12%.

Fondamento teorico della manovra fu l’equazione degli scambi. Einaudi non credeva nella teoria quantitativa della moneta, secondo cui, dato il PIL reale, sussiste una relazione costante fra quantità di moneta in circolazione e livello dei prezzi. Ovvero, dato il reddito reale, R, il livello dei prezzi, P, è direttamente proporzionale alla quantità di moneta, M: P = M/R. Einaudi credeva invece che fosse corretta l’equazione degli scambi, secondo cui la relazione tra quantità di moneta in circolazione, livello dei prezzi e reddito dipende anche dalla velocità di circolazione della moneta, V, che indica quante volte questa passi di mano in mano tra i vari agenti economici nell’unità di tempo: P = (MV)/R.

La velocità di circolazione può cambiare, a causa di fattori tecnologici, o in relazione alle regole stabilite dalla banca centrale, ad es. sulla relazione tra depositi e prestiti delle banche, o ancora della variazione della quantità di depositi liquidi detenuti dagli operatori del mercato.Ad esempio, in situazioni di inflazione, la velocità di circolazione aumenta perché gli operatori evitano di detenere depositi liquidi, il potere d’acquisto dei quali è destinato a diminuire. Dati R e M, se V diminuisce, diminuisce anche il livello dei prezzi, P.

La manovra di Einaudi operò proprio in questa direzione, imponendo alle banche un vincolo di riserva obbligatoria più stringente rispetto a quello precedentemente in vigore.

Se l’inflazione cessò, la restrizione monetaria fu inizialmente seguita da una stagnazione nella produzione industriale. E’ però indubbio che la stabilità monetaria favorì lo sviluppo di lungo periodo, con il PIL italiano caratterizzato da un elevato tasso di crescita per diversi anni. Si sarebbero potute impiegare misure contro la stagnazione, volte a favorire l’utilizzo di capacità produttiva esistente, così accelerando lo sviluppo economico anche negli anni immediatamente successivi alla manovra?

La questione introduce al rapporto tra l’insegnamento einaudiano e la teoria keynesiana. L’identificazione tra risparmio e investimento operata da Einaudi lo differenzia dalla rivoluzione introdotta da John M. Keynes proprio con l’affermazione della discrepanza tra queste due grandezze e la conseguente analisi degli equilibri di sottoccupazione. Einaudi sa che la teoria keynesiana del moltiplicatore si applica a situazioni in cui esiste una capacità produttiva globalmente inutilizzata, non a quelle in cui mancano risorse per produrre. A differenza di Keynes, però, ritiene che negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale l’economia italiana fosse nella seconda situazione, o, quanto meno, in una situazione di distorsione settoriale:

«Se esistono fattori disoccupati; se essi possono essere combinati economicamente; se manca solo all’uopo la spinta del credito, ben venga anche la creazione del credito (…). Esistono oggi in Italia questi fattori produttivi disoccupati, in attesa di combinazione economica? La risposta è grandissimamente dubbia. La sola affermazione che si può fare con sicurezza è che esistono innumerevoli cul di sacco» (bottlenecks), da cui i fattori disoccupati non possono uscire per combinarsi con quelli che non possono alla loro volta uscire da altri corrispondenti cul di sacco (L. Einaudi, 1965, Lo Scrittoio del Presidente (1948-1955) – Capitolo XIV “Risparmio e investimento”).

L’elevata e prolungata crescita del PIL che seguì i primi anni di stagnazione dà ragione a Einaudi. La stabilizzazione monetaria favorì il risparmio e l’accumulazione di capitale, quindi lo sviluppo di lungo periodo, anche perché combinata a un aumento della spesa pubblica per investimenti. Inoltre, accelerò la ristrutturazione della produzione secondo le pressioni della concorrenza e così l’apertura dell’Italia al commercio internazionale e all’integrazione europea.

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9. Apertura internazionale e confederazione europea

Il ruolo riconosciuto all’accumulazione del capitale nell’aumentare l’area del mercato e la lotta a favore del libero commercio fanno di Einaudi un tenace sostenitore dell’apertura dell’economia e dell’idea di una federazione europea.

Quest’ultima fu proposta da Einaudi già nel 1987 e ribadita dal 1920 fino alla sua realizzazione con il Trattato di Roma nel 1957.

Einaudi ritiene che l’innovazione tecnologica spinga ineluttabilmente verso l’unificazione economica del mondo: lo sviluppo e l’ampliamento del mercato favoriscono la divisione del lavoro e il funzionamento della concorrenza. Ciò è illustrato con un esempio tratto, ancora una volta, dal mondo dell’agricoltura, quello della produzione di frutta mediante il fattore di produzione albero da frutta, collocato inizialmente

«dove il buon Dio aveva fato cadere e fecondare il seme (…) il contadino lo lasciava venir su alla ventura (…) e quel che non marciva caduto per terra o non si metteva in serbo per l’inverno per uso familiare, si portava (…) al mercato (…). Il ricavo della frutta non contava nel bilancio dell’agricoltore…»

«ma a un certo punto tutto cambia. Il mercato si ingrandisce e intervengono commercianti specializzati; la frutta ora va nelle grandi città dell’alta Italia, della Germania, dell’Inghilterra, in Scandinavia (…). Ma l’esistenza di uno smercio sufficiente di prodotti fini, rendendone comune la conoscenza, divulgando i metodi di produrli, finisce alla lunga per diminuire i costi medesimi. Quello che prima era merce offerta ai pochi, deve essere offerta, se vuole essere venduta, ai molti nella quantità crescente che arriva sul mercato, a prezzi ribassati, i quali tuttavia compensano i costi. La concorrenza, che con un mercato ampio è assai più arduo sopprimere o limitare che su un mercato ristretto, agisce e costringe i produttori a ridurre i prezzi sino al livello del costo marginale» (L. Einaudi, 1944, I problemi economici della federazione europea, Lugano, riedito in L. Einaudi, 1986, La guerra e l’unità europea, a cura di G. Vigo, Bologna, Il Mulino, pp. 112-113).

La spinta all’ampliamento dei mercati, unitamente allo scontro ideologico tra totalitarismo e democrazia, è all’origine, secondo Einaudi, della Seconda Guerra mondiale. La soluzione è il superamento dello stato nazionale verso lo stato federale sovranazionale:

«La pretesa della sovranità assoluta non può attuarsi entro i limiti dello Stato sedicente sovrano. Gli uomini, nella vita moderna signoreggiata dalla divisione del lavoro, dalle grandi officine meccanizzate, dalle rapide comunicazioni internazionali, dalla tendenza ad un elevato tenore di vita, non possono vivere, se la loro vita è ridotta ai limiti dello stato. Autarchia vuol dire miseria: e necessariamente spinge gli uomini alla conquista» (L. Einaudi, 1945, Il mito dello stato sovrano, in L. Einaudi, 1986, La guerra e l’unità europea, a cura di G. Vigo, Bologna, Il Mulino, p. 40).

Dal punto di vista economico, l’ottimo sarebbe costituito da un governo mondiale per l’economia globale, ma la massima dimensione politica possibile è più limitata. Einaudi propone quindi una confederazione europea, di dimensioni simili a quelle degli USA, con un unico esercito e un unico confine doganale.

Einaudi è consapevole del fatto che l’ampliamento del mercato può comportare, in regime di costi di produzione decrescenti, un vantaggio competitivo per le grandi imprese, ma ritiene predominante gli effetti positivi sulla concorrenza, non ultimo quello derivante dal fatto che, in una federazione di stati, gli interessi nazionali divergono tra loro, rendendo più difficile che lo stato federale ceda a pressioni protezionistiche di segno opposto:

«Sarà assai più difficile mettere d’accordo gli agricoltori della Danimarca con quelli della Sicilia per chiedere protezione contro i cereali russi o canadesi o argentini, perché se alcuni cerealicoltori siciliani, quelli grossi e grossissimi (…) chiederanno di essere protetti, gli agricoltori danesi protesteranno, perché interessati a ottenere a buon mercato cereali di qualità per se stessi e cereali inferiori per il bestiame lattifero» (L. Einaudi, 1944, I problemi economici della federazione europea, Lugano, riedito in L. Einaudi, 1986, La guerra e l’unità europea, a cura di G. Vigo, Bologna, Il Mulino, p. 117).

Ciò non toglie che Einaudi attribuisca alla federazione il compito di combattere i monopoli, nella logica degli interventi conformi.

Einaudi sostiene l’importanza dell’unificazione monetaria e dell’istituzione di una banca centrale europea, fattori di stabilità monetaria grazie al contrasto di interessi tra, da un lato, gli stati membri che vorranno emettere debito pubblico e saranno a favore della monetizzazione dello stesso e, dall’altro, l’opinione pubblica e gli altri stati che vi si opporranno.

La moneta unica non ridurrà le possibilità di sviluppo delle regioni meno ricche se a una minore produttività saranno associati salari più bassi:

«Il basso salario del pastore abruzzese non può fare concorrenza all’alto salario del casaro danese; perché a raggiungere l’intento della concorrenza, quel salario, rimasto invariato, dovrebbe incastrarsi in una organizzazione simile a quella danese (…). Né i salari alti della Danimarca fanno concorrenza a quelli più bassi abruzzesi (…). Alla lunga, l’esempio delle imprese meglio organizzate reagisce su quelle antiquate; ma il processo non è rapido e lascia tempo agli adattamenti necessari per spingere in alto la produttività e i salari nei luoghi più arretrati» (L. Einaudi, 1944, I problemi economici della federazione europea, Lugano, riedito in L. Einaudi, 1986, La guerra e l’unità europea, a cura di G. Vigo, Bologna, Il Mulino, pp. 156-157)

anche perché«se grazie alla unificazione della moneta e della circolazione monetaria, l’Istituto centrale federale eserciterà una influenza notevole sulla distribuzione del credito in una Europa unificata sarà altresì ovvio e razionale che le correnti di credito siano da esso dirette dagli stati e dai centri dove si accumula, per la maggiore ricchezza, la maggior parte del risparmio possibile, e dove è meno probabile trovare nuove vie all’investimento dei capitali, verso gli stati più poveri, dove esistono ancora possibilità d investimenti per il grado più basso a cui è giunto il livello della vita economica (…). La federazione facilitando al massimo i rapporti finanziari tra stato e stato, accrescendo la sicurezza degli investimenti, garantendo l’osservanza delle leggi con un imparziale tribunale federale non potrà non giovare grandemente a un tale processo di trasfusione di capitali degli stati più ricchi a quelli più poveri» (L. Einaudi, 1944, I problemi economici della federazione europea, Lugano, riedito in L. Einaudi, 1986, La guerra e l’unità europea, a cura di G. Vigo, Bologna, Il Mulino, pp. 132-133).

I frutti teorici e politici della battaglia di Einaudi a favore della libertà e apertura dell’economia rappresentano forse il suo maggior contributo allo sviluppo dell’Italia e dell’Europa

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