Opera Omnia Luigi Einaudi

Il Risorgimento e l’Italia liberale

di Gerardo Nicolosi

1. Leadership e classe politica

Nato nel 1874, Luigi Einaudi non ha avuto un rapporto diretto con il Risorgimento. Egli appartiene piuttosto a quella generazione che ha vissuto da vicino il processo di consolidamento dell’unità, potendo vagliare quindi anche gli esiti di lungo periodo della “rivoluzione” nazionale. Nonostante ciò, è anche vero che l’ambiente in cui si era formato mostrava ancora nitide le impronte delle vicende risorgimentali. Impossibile guardare al rapporto di Einaudi con la fase fondativa dello stato unitario senza considerare la sua “piemontesità”, vista anche come dimensione intellettuale, un senso di appartenenza alla propria terra di origine che gli derivava da una profonda conoscenza della sua storia e delle sue istituzioni politiche ed economiche.

È fuori dubbio che il Risorgimento, inteso anche come coscienza statuale unitaria, sia impresso nelle vicende della sua famiglia: il nonno Luigi, che aveva partecipato alle guerre napoleoniche, era stato sindaco di San Damiano Macra e in tale veste aveva organizzato le prime elezioni libere per i rappresentanti al Parlamento piemontese dopo l’entrata in vigore dello Statuto albertino. Il padre Lorenzo, che morì quando Luigi aveva soli quattordici anni, era un concessionario del servizio piemontese delle imposte, e non meno rilevante fu l’influenza che in questo senso dovette ricevere da parte di madre, la signora Placida Fracchia, di famiglia di antica origine che annoverava tra gli ascendenti un ufficiale al servizio di Emanuele Filiberto I di Savoia. In particolare, nell’educazione di Luigi ebbe un ruolo lo zio materno Francesco Fracchia, che per lui fu quasi un secondo padre, figura paradigmatica di “notabile” liberale – notaio, consigliere provinciale e comunale di Dogliani – che, come ha notato R. Faucci, inculcò nel giovane la passione per gli studi di storia piemontese. Sull’incidenza di questo ambiente nella formazione giovanile di Einaudi valga questo passo dello scritto Ricordi di vita piemontese, pubblicato sulla “Rivoluzione liberale” di Gobetti nel 1923, in cui emerge tutta la considerazione della propria terra di origine e della sua gente in rapporto al processo unitario: «Queste che io osservavo erano le abitudini universali della borghesia piemontese per gran parte del secolo XIX; […] si comprende come quelle abitudini formassero una classe dirigente che lasciò tracce profonde di onestà, di capacità, di parsimonia, di devozione ai doveri nella vita politica e amministrativa del Piemonte che fece l’Italia».

Non meno incisive saranno in questa stessa direzione le sue esperienze extra famigliari, con riferimento alle prime brillanti vicende scolastiche e soprattutto all’incontro con Salvatore Cognetti de Martiis alla facoltà di Giurisprudenza di Torino. L’organizzatore del Laboratorio di Economia Politica, che ebbe molta positiva influenza nell’appassionare Einaudi agli studi economici, aveva avuto un importante passato di “patriota”, essendo stato con Garibaldi nella campagna del 1866, particolare che Einaudi non omise nel ricordo che ne fece sulla Stampa di Torino in occasione della morte del “maestro”.

Questa passione per la storia piemontese è riscontrabile nelle prime ricerche di Einaudi che hanno dignità di stampa, tra le quali la Monografia economico agraria del Comune di Dogliani, anticipata sulla Gazzetta di Dogliani nel novembre del 1893, uno studio tecnico sulla distribuzione della proprietà del comune del cuneese. L’analisi si sviluppa su dati relativi ai cento anni che vanno dal 1793 al 1893, grazie ai quali Einaudi dimostrava che non c’era stata alcuna concentrazione della proprietà agricola, in un’area al contrario caratterizzata dalla presenza di piccoli e medi proprietari. Tali considerazioni contraddicevano la vulgata marxista che voleva la tendenza alla formazione della grande proprietà come un esito inevitabile delle crisi periodiche del settore agricolo. Le conclusioni cui giunge Einaudi in questo suo studio giovanile sono da citare perché confutano argomentazioni che più tardi saranno alla base di quelle letture del Risorgimento come risultato dell’avvento di una borghesia latifondista, parassitaria e accaparratrice.

Nella copiosa produzione pubblicistica di Einaudi non sono molti gli interventi che hanno per oggetto specifico le vicende risorgimentali. Sono però numerosissimi i riferimenti a quella fase di storia nazionale e se il Piemonte fa quasi sempre da sfondo, le maggiori attenzioni riguardano i caratteri della classe politica ed intellettuale che “fece” l’Italia, nonché la natura della leadership. È anche abbastanza ovvio come Einaudi fosse particolarmente interessato a tutto ciò che riguardasse gli sviluppi delle pensiero economico ed il suo intreccio con il movimento risorgimentale.

La figura di Cavour assume in questo senso una posizione centrale. Nel 1898, Einaudi scriveva che la grandezza dello statista piemontese consisteva proprio nella sua capacità di aver compreso l’importanza dei problemi economici e sociali e di aver tradotto in pratica «quelle idee della cui verità [era convinto]». Cavour costituì un esempio di uomo politico in cui teoria e prassi si bilanciavano alla perfezione, perchè secondo Einaudi «uno scienziato che diventi ministro, rimanendo fedele rigidamente alle sue idee, è sempre più o meno un giacobino». La virtù di Cavour fu invece il gradualismo e l’adattamento delle teorie economiche all’ambiente in cui dovevano essere attuate. Paradigmatico a questo proposito è il suo approccio liberista ai problemi economici, rispetto ai quali fu attento a non procedere ad una attuazione radicale del sistema del libero scambio, sapendo di poter compromettere il risultato finale. Ciò spiega la sua tattica del «fare concessioni agli avversari», il suo ricorso «a smussare gli angoli delle dottrine troppo unilaterali ed acute». Nel mettere in evidenza come la potenza dell’azione di governo di Cavour poggiasse sulla conoscenza della realtà italiana, Einaudi ricordava le sue considerazioni riguardo alla conformazione delle classi sociali e la conseguente convinzione che una rivoluzione democratica non avrebbe potuto prevalere rispetto ad una soluzione costituzionale. Così come venivano ricordate la sua critica ai sistemi socialisti e la consapevolezza, sin dalla metà degli anni Quaranta, dell’urgenza della questione sociale, che egli legava alla questione nazionale. Nel cinquantenario della concessione dello Statuto, in un clima politico-sociale infuocato, Einaudi faceva riferimento ai moti in Sicilia, in Lunigiana, nelle Marche, sottolineando come l’insegnamento cavouriano fosse stato completamente disatteso (Il pensiero economico e sociale in Piemonte, in Le arti, le scienze, la storia, le lettere in Piemonte. Primo cinquantenario dello Statuto italiano, Torino, Libreria Roux 1898).

Questo stesso senso di delusione traspare in un necrologio scritto da Einaudi in morte di Francesco Ferrara, giudicato come «uno dei più grandi uomini del Risorgimento italiano». Questa volta si trattava di un siciliano, ma legato al Piemonte dal fatto di esservi stato illustre esule, docente di Economia politica all’Università di Torino, dove fu maestro di dottrina ed esempio di «libertà di parola e di pensiero», tanto da essere sospeso dall’insegnamento nel 1858 sotto il pretesto di favorire la diffusione di idee sovversive. Anche in questo caso, Einaudi sottolineava con amarezza come fosse stato dimenticato Ferrara, quanto poco lette fossero le sue Prefazioni della Biblioteca dell’Economista (1850-1870), e quanto invece i giovani fossero attratti dalla lettura di Marx. Nonostante l’attenzione che in questa fase della sua vita intellettuale il giovane Einaudi mostra nei confronti del movimento socialista, è importante segnalare come fosse piena la sua fiducia nei principi e negli strumenti dell’economia liberale per la soluzione della questione sociale. Sempre a proposito di Ferrara, affermava infatti come «l’economia politica» non fosse affatto una «scienza borghese», «arida e bottegaia», perchè «l’amore dei miseri e la fede nella libertà e nel benessere di tutti gli umani [aveva] sempre inspirato le concezioni degli economisti» (Questioni del giorno. Francesco Ferrara, in La Riforma Sociale, Torino, VII, vol. X, 1900).

Sempre a proposito di classe politica, Einaudi ritornava su Cavour in una recensione del 1912 del libro di Francesco Ruffini L’educazione politica del Conte di Cavour, in cui grazie a documentazione inedita lo storico e giurista, collega e amico di Einaudi, offriva un ritratto umano del giovane Cavour, non solo dell’intellettuale e già fine politico, ma anche dell’uomo di mondo, del seduttore, del giocatore, tutte manifestazioni della sua personalità che non gli fecero mai perdere di vista la meta ideale di sempre. Tra gli aspetti messi in evidenza da Einaudi, due ci sembrano di particolare interesse. In primo luogo, il forte attaccamento di Cavour alla propria terra di origine, nonostante un percorso educativo “europeo”, con frequenti viaggi in Francia ed in Inghilterra e lunghi soggiorni in Svizzera. Einaudi teneva a precisare come Cavour non fosse affatto un deraciné e avesse sempre nutrito un senso di appartenenza che era anche uno dei motivi della sua dedizione alla cosa pubblica, citando al proposito le seguenti parole del giovane Cavour: «Malheur à celui qui abandonne avec mepris la terre qui l’a vu naitre, qui renie ses freres comme indignes de lui! […] Jamais je ne separerai mon sort de celui des Piemontais. Heureuse or malheureuse, ma patrie aura toute ma vie, je ne lui serai jamais infidele […]» . In secondo luogo, il modello formativo seguito da Cavour permetteva ad Einaudi di individuare le caratteristiche di una classe politica efficiente, tra le quali l’indipendenza economica era forse la più importante. Inoltre, egli segnalava come Cavour avesse proclamato la decadenza irrimediabile della vecchia aristocrazia, ma nello stesso tempo non nutrisse alcuna stima nei confronti della piccola borghesia e della nuova classe politica che si affacciava all’orizzonte, già popolata da «energumeni da comizio». Non mancava in Cavour un giudizio severo nei confronti delle derive demagogiche del radicalismo, così come dei «conservatori trumbleurs». Dalle parole di Einaudi si desume il modello di una nuova aristocrazia funzionale, cioè della nuova élite che aveva fatto l’Italia: Cavour era infatti «indipendente di censo, capo di notabili e notabile egli stesso per intelligenza, studi, e se possibile, per tradizioni famigliari», capace di mettersi a capo «di tutte le riforme ragionevoli, ossia realmente utili al popolo» (recensione a F. Ruffini, L’educazione politica del Conte di Cavour, in «La Riforma sociale» 1912, poi in Gli ideali di un economista, La Voce, Firenze 1921)..

Anche in una recensione ad un libro di Giuseppe Prato del 1920, altro nome di punta del Laboratorio di Economia politica di Torino, il soggetto è Cavour. Lo studio di Prato può essere interpretato in parallelo a quello di Ruffini, o meglio, a completamento di esso, perchè si trattava di un «quadro completo di quel che era il clima intellettuale e sociale in cui maturò la mente di Camillo Cavour». La ricostruzione di Prato del milieu politico-culturale subalpino attorno al 1848, in cui gli studi economici avevano avuto larga fortuna, permetteva ad Einaudi di sottolineare il contributo “piemontese” all’avanzamento delle scienze economiche e sociali. Non solo Prato dimostrava l’importanza di studiosi come Carlo Ignazio Giulio, Ilarione Petitti di Roreto, Prospero Balbo, Luigi Cibrario e altri, ma ricordava anche come l’editore Guillaumin, sotto la cui egida veniva pubblicata la più grande collezione economica e la maggiore delle riviste di economia politica, considerava il Piemonte come il mercato più proficuo di qualsiasi provincia francese. Prato dimostrava insomma come la cultura economica fosse molto diffusa tra le classi dirigenti piemontesi e prova ne erano i 4 mila soci della Associazione agraria subalpina, dove le discussioni di politica economica erano all’ordine del giorno. Ciò permetteva di affermare che «il regno di Carlo Alberto [era stato] la vera premessa dell’opera compiuta dal grande statista piemontese dal 1850 al 1860», che l’opera di Cavour «non fu un atto imperioso di volontà contro un paese repugnante, ma fu invece il coronamento di una lenta trasformazione operatasi negli spiriti attraverso decenni di sforzi perseveranti e diffusa cultura» ed infine che il Piemonte era degno di assumere l’iniziativa dell’unità italiana, non solo perché «possedeva una dinastia antica, un esercito forte, una burocrazia ben organizzata e devota al proprio dovere, ma anche perché nel patrimonio della borghesia esisteva una vera classe dirigente». Un’attenzione nei confronti del problema delle classi dirigenti che, come vedremo, in Einaudi aveva già assunto carattere di urgenza prima della Grande Guerra, e che qui viene analizzato attraverso il filtro delle vicende risorgimentali (recensione a G. Prato, Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848. L’Associazione agraria subalpina e Camillo Cavour, Torino, Bocca 1920, in «Minerva», XXI, Roma, 16 feb. 1921).

Per quanto riguarda invece le influenze provenienti dall’estero sulla classe politica risorgimentale, Einaudi non ha dubbi sulla importanza del periodo francese per la genesi del movimento nazionale, ciò che per un noto anglofilo come Einaudi ci sembra importante segnalare. Ne scriveva il 5 maggio del 1921 sul Corriere della Sera, in ricordo “manzoniano” della morte avvenuta cento anni prima di Napoleone Bonaparte. Egli affermava come fosse stato Napoleone a gettare un “seme fecondo” di libertà, ad insegnare agli italiani a combattere contro la tirannia dei re e ad essere una nazione, ad avere «un’anima comune», dando loro anche «un moncherino di Stato di nome Regno italico». È vero che poi la libertà italiana fu conquistata «all’infuori e contro di lui» e che se Vittorio Emanuele I non fosse rientrato a Torino nel 1814 forse l’Italia unita non ci sarebbe stata. È indubbio però che Napoleone, «comprimendola ed esaltandola a volta a volta per i suoi fini imperiali, risvegliò la coscienza nazionale italiana» e che, ricorda giustamente Einaudi, furono “suoi” soldati che a Torino nel 1821 fecero «il primo sfortunato tentativo per l’indipendenza italiana» (5 maggio 1821. Napoleone, il miraggio dell’impero universale e l’idea della libertà italiana, «Corriere della Sera», 5 maggio 1921).

L’interesse di Einaudi per il Risorgimento diventa più diretto in due saggi pubblicati nel 1936 sulla Rivista di storia economica, che rivestono un’importanza tutta particolare da un punto di vista propriamente politico, perché ad una lettura attenta non è difficile vedere come il discorso sia in questo caso funzionale ad una velata critica al regime fascista. La storiografia prevalente ha archiviato il passaggio di Einaudi attraverso il ventennio come «gli anni del raccoglimento», ma è giusto però ricordare che il suo distacco dal regime, che sarà esplicito anche guardando alla non partecipazione ai lavori del Senato a partire dal 1922, fosse in linea con quell’atteggiamento di resistenza morale al fascismo che sarà comune a molta intellettualità liberale. Questa “resistenza morale” si manifestava in una serie di atteggiamenti non ortodossi, spesso non facilmente percepibili, ma in ogni caso diretti ad offendere il regime ed a minarne il consenso. Per Eianudi fu insomma un periodo di affinamento teorico e di “preparazione” e non è un caso, infatti, se già prima del 25 luglio, egli sarà uno dei punti di riferimento per il ricostituendo Partito liberale.

Un breve saggio che ha per oggetto l’attività di Stefano Jacini in qualità di informatore segreto di Cavour fra il 1857 ed il 1859 è paradigmatico di questo atteggiamento. L’articolo, scritto nel 1936 assieme a Stefano Jacini jr, nipote del suddetto, futuro ministro della guerra nel governo Parri e costituente democristiano, ha per oggetto un promemoria redatto da Jacini sr. nel 1859 sul debito pubblico in Lombardia, dal quale attraverso una raccolta minuziosa di dati, l’intellettuale e uomo politico lombardo dimostrava in maniera inequivocabile la cattiva gestione del debito pubblico e il malgoverno dell’Austria sin dal 1814. A proposito del documento così si legge nel saggio: «gli scritti che fanno paura ai governi tirannici non sono mai le dichiarazioni, pur infiammate che siano, dei retori; ma le requisitorie spassionate, dense e positive», ciò che fa pensare al lavoro sotterraneo svolto da Einaudi stesso con la sua Rivista nel campo della storia e dell’economia. Ma c’è di più: nell’articolo si accenna al fatto che Jacini, poiché era stato autore di alcuni studi commissionati dall’arciduca Massimiliano, era considerato un collaborazionista dai «brillanti patrioti da salotto», come li definiva Einaudi ironicamente, con riferimento all’ambiente vicino alla contessa Maffei. In realtà, Jacini era uno studioso molto apprezzato nei circoli liberali inglesi e si può dire che i suoi scritti, assieme ad altri, contribuirono a «determinare quel profondo rivolgimento dell’opinione pubblica britannica» che fu poi così importante per il sostegno alla nostra rivoluzione nazionale. Cavour, infatti, offrì a Jacini la carica di ministro delle finanze una volta ritornato al potere nel gennaio del 1860 e dopo il suo rifiuto pressò perchè accettasse almeno quella di ministro dei lavori pubblici (Un rapporto segreto di Stefano Jacini al Conte di Cavour sul Monte Lombardo Veneto, in «Rivista di storia economica», 3, settembre 1936 (pp. 205-213).

Dello stesso tenore è un articolo pubblicato qualche mese dopo sul Liberalismo economico dei pubblicisti lombardi del Risorgimento, che è una recensione ad un volume di K. R. Greenfield pubblicato nel 1934. Einaudi ritorna sullo spessore e la qualità della classe dirigente risorgimentale – ricorda infatti il volume di Prato recensito anni addietro di cui abbiamo trattato -, sull’importanza dello studio delle questioni economiche e sociali che si intrecciavano con il problema dell’unità e dell’indipendenza nazionale. Ed al riguardo citava il pullulare di riviste, giornali, opuscoli specializzati in materia economica sui quali Greenfield aveva condotto la sua ricerca, soffermandosi su un aspetto e cioè la “moderazione” del linguaggio. I vari Gioia, Romagnosi, Tommaseo, Sacchi, Cantù, Lambruschini, Cavour, Tenca, Correnti ed altri, scriveva Einaudi, «sapevano che le riviste sarebbero state soppresse ed i redattori mandati allo Spielberg; ed essi non volevano diventar martiri, né farsi esuli, non avendo fiducia nelle cospirazioni e non amando starsene al sicuro all’estero, quando gli amici rimasti in paese sarebbero stati oggetto di sospetti e persecuzioni. Furono sommi nell’arte di costruire l’Italia libera, ignorando lo straniero oppressore». Un elogio del metodo moderato, che poi non è altro che la vera cifra della “resistenza morale” al fascismo. Fiducioso, se lo si considera in riferimento al tempo in cui venne scritto, è il giudizio sulla potenza di quest’azione: «Contro di essi, l’Austria si sentiva impotente. Metternich, ossessionato dalle cospirazioni […] non vide che il nemico più potente era in casa ed agiva alla luce del sole» (Il liberalismo economico dei pubblicisti lombardi del Risorgimento, in «Rivista di storia economica», dic. 1936, pp. 323-327)

La figura di Cavour, quale simbolo di una classe politica responsabile tornò ad essere trattata da Einaudi in uno dei suoi ultimi interventi pubblici, in un discorso pronunciato a Santena in qualità di presidente della Commissione cavouriana. In esso, il giudizio tutto positivo sulla figura del Conte serviva ad Einaudi per ribadire la sua predilezione per una classe politica indipendente, che fosse espressione della società civile, e per affermare ancora quanto fossero importanti per un uomo politico le prove della vita di tutti i giorni, in particolare nell’ambito degli affari, ciò che costituisce un bagaglio imprescindibile di esperienze (Cavour 1861-1961).

Approfondimento:

2. Piemonte, Italia, Europa

Come abbiamo sostenuto sopra, il Piemonte e la sua storia fanno costantemente da sfondo negli interventi di Einaudi che più riguardano il periodo di formazione dello stato unitario. Ciò ovviamente non deve far pensare ad una visione grettamente localistica, ma ad una concezione della patria quale frutto di una costruzione storica e all’importanza della continuità e della tradizione quali fonti di legittimazione delle istituzioni nazionali, in ciò confermandosi ancora molto vicino alla cultura politica inglese. In più, non bisogna mai dimenticare la sensibilità di Einaudi nei confronti dell’idea di una Europa affratellata e cooperante, i cui prodromi teorici egli scorgeva in alcuni nostri “padri della patria” protagonisti del Risorgimento: a partire dal primo dopoguerra le riflessioni sul Piemonte e sull’Italia si accompagnano a quelle sul principio di sovranità nazionale e sull’Europa.

In occasione del cinquantenario dell’Unità, in un articolo scritto per il Corriere della Sera, come al solito ben corredato di una serie impeccabile di dati statistici, Einaudi aveva dimostrato il contributo del Regno di Sardegna alla causa italiana. Egli sottolineava tra l’altro lo sforzo economico dei “sudditi” piemontesi, sostenuto di buon grado «perché si sapeva dove mirava e lo scopo era creduto santo». Negli altri stati era successo tutto il contrario, perché a fini conservatori i governi si erano guardati bene dall’inasprire la propria politica fiscale. Certo, secondo Einaudi, «meglio si sarebbe potuto fare e parecchio si sarebbe potuto evitare», ma il «paragone fra i bilanci del 1862 e del 1911-12 [era] tale da fare inorgoglire gli italiani» (Cinquant’anni di vita dello Stato italiano, «Corriere della Sera», 2 aprile 1911).

Nella fase di transizione dal fascismo alla Repubblica, la memoria del Risorgimento diventava per Einaudi lo sfondo ideale della lotta al nazifascismo, nonché degli sforzi per il ritorno alla normale vita democratica e il reinserimento dell’Italia nel quadro delle relazioni internazionali. Non bisogna dimenticare che Einaudi è a questo punto nel bel mezzo dell’agone politico: esponente del PLI, governatore della Banca d’Italia, membro della Consulta e deputato alla Costituente, poi vicepresidente del consiglio e ministro del bilancio nel IV governo De Gasperi. Un editoriale pubblicato il 1 febbraio 1945 su Risorgimento liberale, l’organo del PLI diretto da Mario Pannunzio, era un vero e proprio appello all’onore militare nel momento dello sforzo finale della lotta al nazifascismo. Einaudi faceva ricorso ad un episodio che collocava alle origini del nostro Risorgimento nazionale, un’altra pagina di storia piemontese, che inizia nel 1793, dopo l’abbandono della Savoia e di Nizza e la campagna per la difesa delle Alpi, e si conclude nel 1796, quando nella battaglia di Montenotte Napoleone Bonaparte travolgeva «la gloriosa resistenza dei Piemontesi». Il parallelismo con la resistenza ai tedeschi condotta da partigiani ed esercito regolare nel nord d’Italia è evidente. Einaudi citava un passo di una lettera che il generale Costa de Beauregard, uno dei vinti che negoziarono l’armistizio di Cherasco, scrisse alla moglie, che vale la pena citare: «fino a quando non ci abbiano strappato la lingua, non potranno vietarci di ripetere ai nostri figli che la nobiltà consiste esclusivamente nel sentimento raffinato del dovere, nel coraggio posto nell’adempierlo e nella fedeltà incrollabile delle tradizioni famigliari» (Pagine di storia, «Risorgimento liberale», 1 febbraio 1945). L’editoriale di Einaudi è emblematico di quella campagna di propaganda e di mobilitazione nazionale messa in atto dal giornale liberale a sostegno della lotta di liberazione in tutte le sue forme, con modalità e toni che ricordavano quelli della Grande Guerra dopo Caporetto.

I sentimenti dei piemontesi dopo “Cherasco” dovevano somigliare molto a quelli di Luigi Einaudi dopo l’8 settembre 1943 e durante tutto il periodo che portò alla firma del trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, ratificato il 31 luglio successivo, che i liberali giudicarono come un diktat imposto dalle potenze vincitrici. Einaudi ebbe un atteggiamento favorevole alla ratifica, in grande sintonia con De Gasperi, ma non mancò di manifestare tutta la sua amarezza per il disconoscimento dell’impegno che l’Italia antifascista aveva profuso negli ultimi due anni di guerra. Il suo discorso in occasione del dibattito per la ratifica fu tutto proiettato al futuro, individuando nell’unità europea la vera possibilità di salvezza per l’Italia: «solo facendoci portatori nel mondo della necessità di sostituire alla spada di Satana la spada di Dio, noi potremo riconquistare il perduto primato» – sosteneva dai banchi della Costituente. Il riferimento era a quelle idee di cooperazione, di fratellanza, di libertà che erano i frutti migliori del nostro Risorgimento, idee che «diffuse dalla predicazione incessante di Giuseppe Mazzini e rese operanti, nei limiti delle possibilità politiche, da Camillo di Cavour, avevano conquistato alla nuova Italia la simpatia, il rispetto e l’aiuto dell’Europa» (Sulla ratifica del Trattato di pace, Discorso alla Costituente, 29 luglio 1947, Interventi e relazioni parlamentari, vol II).

Quando in Italia si celebrò il centenario dell’Unità, Einaudi era alla fine della sua vicenda terrena. In una Predica della domenica, la rubrica che teneva sul Corriere della Sera, egli riproponeva delle immagini di vita piemontese del tempo della sua giovinezza: il ricordo del padre esattore delle tasse che lo portava con sé a Cuneo; di San Damiano Macra, dove il padre era nato, un piccolo villaggio della montagna sopra Dronero, e di Don Alisiardi, un maestro elementare che era stato cappellano militare e che aveva fatto tutte le campagne dell’indipendenza. Poi il ricordo della madre, che prima di sposarsi era stata maestra elementare, e alcune considerazioni sulla struttura sociale del Piemonte del tempo. Non di più, anche se ad un certo punto Einaudi scriveva che «il risorgimento si contemplava in ogni casa sulle stampe di Vittorio Emanuele II, di Cavour, di Garibaldi, di Mazzini» (Predica della domenica, «Corriere della Sera», 2 aprile 1961). Allo stesso modo, nonostante siano pochi gli scritti di Einaudi che trattano in maniera diretta del Risorgimento, si può dire che esso, con i suoi uomini, le sue idee, le sue vicende politiche, economiche e militari, si respiri in ogni sua manifestazione intellettuale. L’articolo, pubblicato in un numero del Corriere che Missiroli decideva di aprire con un editoriale dal roboante titolo Mazzini, colpisce per il profilo sfumato, il tono letterario, l’assenza di accenti retorici, un’atmosfera sobria e “intima”, ciò che a nostro parere è forse la testimonianza più netta di quanto il Risorgimento fosse “parte” della vita stessa di un liberale piemontese che aveva onorato l’Italia.

Approfondimento:

3. Politiche del lavoro e movimento operaio. Ricambio delle élites e borghesia come classe aperta

È noto come nei confronti della questione sociale Einaudi abbia sempre mostrato particolare sensibilità. Ciò d’altronde si deduce anche dalle considerazioni sul processo unitario che abbiamo visto e deriva in buona sostanza da una concezione del liberalismo dalle forti connotazioni morali, inteso anche e soprattutto come perfezionamento ed elevazione della persona umana. Questa sua attitudine lo aveva portato a guardare con attenzione allo sviluppo del movimento operaio organizzato: aveva osservato con interesse, per esempio, gli scioperi del biellese della seconda metà degli anni Novanta, ai quali aveva dedicato il saggio La psicologia di uno sciopero, poi pubblicato nella nota raccolta edita da Gobetti nel 1924 con il titolo le Lotte del lavoro. Aveva inoltre collaborato con alcuni saggi alla Critica Sociale di Turati, guardando piuttosto al ruolo liberale che avrebbe potuto svolgere un partito socialista guidato da un gruppo dirigente riformista.

Con l’inizio del nuovo secolo le attenzioni dell’economista piemontese in questa direzione non scemano, ma testimoniano una progressiva sfiducia nei confronti delle potenzialità liberali del movimento socialista. Con l’avvio del nuovo corso giolittiano, Einaudi sarà impegnato a contrastare i “cedimenti” verso il socialismo organizzato, nella convinzione sempre più ferma che alla questione sociale dovessero darsi risposte autenticamente liberali.

Riguardo al fenomeno delle leghe operaie, l’atteggiamento di Einaudi fu sin dagli esordi molto favorevole, guardando al modello inglese e auspicando uno sviluppo analogo a quello che aveva portato al Trade Unions Act del 1871, poi emendato nel 1876, che egli definiva «la magna charta delle libertà operaie» (Il riconoscimento delle leghe operaie, «Corriere della Sera», 29 luglio 1901). Il problema rimase sotto osservazione da parte di Einaudi per tutto il periodo che precede la Grande Guerra. Nell’estate del 1901, quando la questione della rappresentanza dei lavoratori fu all’ordine del giorno del governo Zanardelli, egli auspicava che si potesse arrivare ad un riconoscimento giuridico delle associazioni di lavoratori e quindi del loro diritto di possesso, di citare e di stare in giudizio. Per quanto riguarda i requisiti per il riconoscimento, oltre alla pubblicità degli statuti e degli atti sociali, in particolare dei bilanci annui, non altri obblighi andavano imposti alle leghe, per non soffocare «il movimento operaio con soverchie restrizioni». Ma il principio fondamentale che andava preservato era che esse risultassero dalla spontanea volontà di associazione dei lavoratori. Pertanto la legge non doveva rendere obbligatoria l’iscrizione, ciò che avrebbe favorito un ritorno alle corporazioni di arti e mestieri e danneggiato la vita economica. Qualche mese dopo, Einaudi aveva modo di ritornare sull’argomento sconsigliando ancora un ricorso ad una eccessiva legiferazione in materia di lavoro, che rischiava di soffocare la libertà di organizzazione «entro le strettoie dei regolamenti». Il riconoscimento della capacità giuridica alle leghe era più che sufficiente e tra di esse, indipendentemente dal colore politico, avrebbero avuto vita durevole soltanto quelle capaci di raggiungere «il bene delle classi operaie senza danno delle industrie e dei commerci». Questo era «l’unico modo liberale ed onesto di lottare con le leghe non costituzionali» (La superstizione delle leggi, «Corriere della Sera», 29 agosto 1901).

Tutto negativo era invece il suo giudizio nei confronti delle derive di quell’associazionismo contadino che aveva assunto un carattere politico. In particolare, Einaudi non era molto tenero con quegli organizzatori, cioè i capi lega, che avevano fatto intravedere «strane speranze di palingenesi sociale nei lavoratori della terra», avevano sbagliato nella richiesta di «patti uniformi» per porzioni di territorio molto vaste e quindi con condizioni molto varie «di fertilità, di posizione, di ampiezza di fondi» (Il momento della sosta, «Corriere della Sera», 22 gennaio 1903). Un particolare non trascurabile, tra l’altro, era che gran parte dei capi lega era estranea alla classe contadina.

Ma l’associazionismo nel mondo del lavoro e il ricorso allo sciopero come arma di rivendicazione avevano prodotto dei risultati effettivi? Un primo momento di riflessione in questo senso viene offerto ad Einaudi dai lavori statistici di Alessandro Schiavi, pubblicati nel 1902 sulla Riforma sociale, giudicati opera meritoria, sebbene la sua analisi si discosti poi da quella dello studioso socialista. Mentre infatti Schiavi mostrava fiducia nei confronti della virtù moderatrice delle Leghe e delle Federazioni, fenomeno al quale ricollegava il fatto che gli scioperi erano andati scemando nel corso del 1902, Einaudi riconosceva sì che l’allargarsi delle Leghe locali in nazionali poteva avere questo benefico effetto, ma nutriva ancora seri dubbi sul fatto che in Italia si fosse sulla stessa strada delle Trade Unions inglesi. Molto diffusi, infatti, erano ancora i pregiudizi tra gli operai, così come la situazione dell’agricoltura mostrava chiaramente come il movimento fosse stato sconfitto, fatta eccezione che in Toscana, Umbria e Puglie (Gli scioperi del 1902. Le statistiche di un socialista, «Corriere della Sera», 22 febbraio 1903).

Einaudi ritornava sullo stesso interrogativo quando viene pubblicato l’Annuario statistico del 1904, un’occasione tra l’altro per omaggiare la scienza statistica, così fondamentale per le sue analisi, e per rimpiangere il periodo in cui essa aveva conosciuto una «meravigliosa attività col Bodio». I dati però non permettevano di stimare i guadagni conseguiti dagli operai con gli scioperi – cosa difficilissima secondo Einaudi e bene aveva fatto la Direzione di statistica «a non imprimere il suggello ufficiale sui famosi 40 o 50 milioni di guadagno annunciati alla Camera dell’on. Giolitti», aggiungeva polemicamente. L’aspetto che risultava evidente, anche in questo caso, era la diminuzione del fenomeno degli scioperi, che però egli non ricollegava alla diffusione della pratica della conciliazione e dell’arbitrato, ma di fatto alla deleteria mediazione della politica (Due anni di sciopero in Italia, «Corriere della Sera», 5 ottobre 1904).

Dalle colonne del Corriere della Sera, Einaudi è testimone critico nei confronti del processo riformistico che si apre in materia di lavoro a partire dai primi anni del secolo. Sul problema dell’arbitrato egli si soffermava lungamente in una serie di interventi in cui criticava quelle procedure che si risolvevano in sterili azioni pacificatrici che il più delle volte producevano solo confusione: «un colpo al cerchio e uno alla botte», per amore del quieto vivere. Notando però come i pregiudizi nei confronti dell’arbitrato, visti come arma per evitare il «flagello dello sciopero», percorressero in profondità il campo socialista, così come in quello liberale c’era chi si opponeva all’arbitrato obbligatorio, soprattutto in mancanza di un riconoscimento giuridico delle rappresentanze operaie (Arbitrato e scioperi obbligatori e reato di crumiraggio, «Corriere della Sera», 13 ottobre, 9 e 27 novembre, 10 dicembre 1904).

La vera degenerazione però secondo Einaudi derivava da una progressiva sostituzione di un sistema di libera concorrenza con un altro di «solidarietà sociale» caratterizzato dall’intervento sempre più frequente dello Stato. Il sintomo evidente di questo scivolamento erano i propositi sul reato di crumiraggio, mostrando tutto il suo scetticismo nei confronti di «un sedicente nuovo diritto operaio», che secondo lui non aveva nulla a che vedere con il favorire i progressi delle classi meno abbienti. Come quando aveva criticato una sentenza del tribunale di Cassino del 30 ottobre 1902, non tanto perché erano stati assolti i componenti di una lega, ma perché essa si profondeva in giudizi sui lucri e i profitti dei proprietari: «La dottrina del sopralavoro e della origine usurpatrice del profitto del capitale di Marx è già passata nelle sentenze dei tribunali», chiosava Einaudi.

È a partire da questi anni che si acuisce la sua polemica antisocialista, soprattutto nei confronti delle derive demagogiche del rivoluzionarismo. Così notava come al «dovere» dello Stato «di pagare puntualmente gli stipendi il giorno di San Ventisette», non corrispondeva quello di «comandarli» o «punirli, se ignavi o protervi nella indisciplina […] e appena si fa cenno di richiamarli alla coscienza dei loro doveri ai pubblici funzionari, subito si grida: Dalli ai capitalisti, ai succhioni, ai borghesi! Così come ai tempi di Robespierre contro ogni avversario personale si gridava: abbasso l’aristocratico!» (La formula di Robespierre, «Corriere della Sera», 11 marzo 1905). Lo stesso pregiudizio che riscontrava in quei giornali socialisti che vedevano nella nascita della lega costituita fra ditte industriali a Torino – una prima esperienza in tal senso si era avuta a Monza – un mezzo per «uccidere la libertà del lavoro, condannare alla fame, ridurre all’esasperazione ed eventualmente al delitto ed alla galera gli operai desiderosi di lavorare» (Le leghe di industriali, «Corriere della Sera», 31 luglio 1906). Einaudi riteneva non solo fondato, ma anche utile il ricorso alla associazione da parte degli imprenditori, che proprio perché in contrapposizione alle associazioni operaie avrebbe contribuito alla pace sociale, ciò che rientra in quella visione liberale del conflitto di cui poi tratterà estesamente nel saggio La bellezza della lotta, in cui appunto si legge, tra le altre enunciazioni cardine, che «è preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore».

Si può dunque affermare che l’insofferenza nei confronti del socialismo organizzato e la critica del giolittismo come prassi di governo siano per Einaudi due facce della stessa medaglia, riconducibili alla sua denuncia nei riguardi di ogni scostamento da un metodo autenticamente liberale. Non bisogna dimenticare anche la sua distanza nei confronti di quella che definiva la “democrazia parolaia”, dei propositi che non hanno una rispondenza nei fatti e soprattutto non fondati su un rigoroso esame delle condizioni generali e particolari del contesto in cui si andava ad operare. In alcuni casi, pur consentendo sulla necessità dell’intervento del governo, se ne criticavano le modalità. Nel 1903, per esempio, aveva criticato il proposito di inserire nelle nuove convenzioni ferroviarie una clausola per consentire al personale una partecipazione ai profitti dell’impresa. Non è che Einaudi fosse contrario al sistema – egli citava quanto geniale si fosse rivelato l’esperimento americano della United States Still Corporation, di cui spiegava il complesso meccanismo di partecipazione – ma notava come in Italia nelle grosse aziende e nel modo proposto dal governo esso avrebbe avuto soltanto effetti negativi, sia per gli operai che per gli imprenditori (Democrazia capitalistica, 22 marzo 1903, «Corriere della Sera», 22 marzo 1903).

In un articolo del 1907, non esitava a sottolineare come in un progetto di legge per la città di Roma sulla espropriazione di aree fabbricabili in realtà si celassero propositi addirittura collettivistici, dimostrando tecnicamente come l’espropriazione potesse avvenire più spesso ad un prezzo «inferiore al suo valore, qualche volta persino senza indennità e financo coll’obbligo di pagamento di una multa da parte del proprietario costretto a lasciarsi gratuitamente espropriare» (Come avvengono le rivoluzioni sociali in Italia, «Corriere della Sera», 28 maggio 1907).

È in uno scritto del 1911 dal titolo Sono nuove le vie del socialismo? che Einaudi coniugava una delle denunce più dirette nei confronti del socialismo come sistema teorico e come movimento politico organizzato alla censura nei confronti di una borghesia pavida e poco consapevole delle proprie forze, di cui il governo Giolitti era espressione, così attento a guardare in direzione di «fantasmi sopravvissuti dei movimenti di mezzo secolo addietro» (Sono nuove le vie del socialismo?, «Corriere della Sera», 29 marzo 1911). Una connivenza deleteria per le sorti di uno stato liberale, di cui statizzazioni, municipalizzazioni, degenerazioni monopolistiche e corporative erano i risultati più nefasti.

Nonostante l’acuirsi del suo giudizio critico nei confronti del movimento socialista, non bisogna credere che Einaudi avesse cambiato idea sulla utilità delle organizzazioni operaie. La condizione dalla quale non si poteva prescindere era appunto che esse riuscissero a tenersi lontano dalla demagogia del partito di riferimento. In occasione del Congresso delle società di resistenza che si apriva a Padova il 24 maggio 1911, il Corriere pubblicava un suo articolo elogiativo di figure come quelle di Rinaldo Rigola e sulla funzione positiva delle organizzazioni del lavoro e dell’imprenditoria, “appesantita” soltanto da alcuni retaggi del passato, come il ricorso della Confederazione al lobbyng su questo o quel deputato nella speranza di strappare qualche concessione in materia di legislazione sul lavoro o la riluttanza degli imprenditori nell’affrontare «arditamente» la questione del protezionismo. In particolare Einaudi mostrava apprezzamento per la proposta di Rigola di elevare la quota individuale di partecipazione degli operai da 50 centesimi a 1 lira, ciò che avrebbe favorito un atteggiamento più responsabile negli scioperi e, poiché si trattava «di sacrificare il presente per l’avvenire», avrebbe fatto apprezzare i vantaggi della previdenza (Il Congresso della resistenza. Organizzati e organizzatori in Italia, «Corriere della Sera», 24 maggio 1911). Ma c’era qualcosa d’altro che ad Einaudi premeva sottolineare e cioè la funzione delle organizzazioni del lavoro di strumenti di elevazione sociale, attraverso le quali l’operaio, che appunto decideva di pagare un prezzo maggiore oggi per un bene da conquistare domani, sviluppava una sensibilità che l’assimilava ad un borghese. In questa visione alternativa a quella delle organizzazioni operaie come strumenti di lotta di classe si scorgono concetti appartenenti alla teoria delle élites, soprattutto di matrice paretiana. Nell’articolo sulle rivoluzioni sociali in Italia che abbiamo citato, Einaudi ricordava come «talvolta, quando le classi inferiori non sanno elevarsi e le classi dirigenti sanno resistere ed acquistano nuova vitalità arricchendosi di vigorosi elementi tratti dai vergini strati popolari, ogni conato di rivoluzione si spunta e il trapasso della proprietà non accade». Ora l’economista piemontese sottolineava le virtù della borghesia come classe “aperta”, giudicandola «universale e nel tempo stesso varia e mobile», perchè «chiama ognora a sé nuove schiere e respinge soltanto i poltroni, gli infingardi, coloro che, essendo giunti ai fastigi della ricchezza, si apprestano a ricadere in questa o in una prossima generazione». Nessuna collaborazione era più feconda di quella risultante «dalla competizione delle classi imprenditrici e lavoratrici»: si può parlare quindi di rifiuto della lotta di classe ma non della organizzazione di classe, che aveva favorito l’emergere di una nuova élite operaia, assimilabile alla borghesia, la quale a sua volta aveva spinto le classi dirigenti tradizionali a rinnovarsi, istruirsi, perfezionare i congegni produttivi.

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4. Lotta al protezionismo, alle nazionalizzazioni, alla burocrazia statalista

La polemica anti-protezionista è per Einaudi tematica tipica del periodo di Giolitti al governo, polemica che viene condotta principalmente sulle pagine della Riforma Sociale, che dirige a partire dal 1908 dandole un nuovo “corso” rispetto al periodo nittiano, e da quelle del Corriere della Sera. Vale la pena ricordare che nella prefazione al volume III delle Cronache economiche e politiche di un trentennio, Einaudi offre una interessante auto-analisi di questa centralità della tematica antiprotezionista, in merito alla quale precisa che «la protezione doganale non era accusata in se stessa», ciò che egli riteneva sarebbe stato ingiusto nei confronti di uomini che avevano voluto dare all’Italia uno strumento necessario per la creazione di una forte industria. Tra l’altro, l’idea della protezione necessaria alle «industrie nuove, nascenti, bambine, bisognose di un po’ di serra, al riparo dai venti inglesi e francesi», aveva a supporto una dottrina quanto mai rispettabile, citando al proposito Friedrich List e John Stuart Mill. Il problema era però che si trattava di una soluzione necessaria ma temporanea: «nell’ultimo quarto del secolo XIX la nuova e cresciuta protezione doganale parve ad una parte rispettabile della classe politica italiana fosse lo strumento adatto a consentire all’industria italiana di superare il punto morto dell’infanzia, bisognosa di aiuto, allo scopo di giungere alla maturità rigogliosa di vita propria e autonoma». Ora, in età giolittiana, quel tempo appariva ad Einaudi già trascorso, quindi poteva essere spiegata la protezione, ma non giustificato il suo perpetuarsi.

Un altro punto di rilievo è il ricordo di come la battaglia anti-protezionista fosse stata condotta dalle colonne di un giornale, il Corriere delle Sera, che era «indiziato di essere asservito agli interessi dei cotonieri», mentre gli articoli di Einaudi dimostravano tutto il contrario. Un gesto di omaggio nei confronti di Luigi Albertini e della sua capacità, scriveva Einaudi, «di condurre il giornale fuor di ogni dipendenza dagli interessi padronali ed operai», ciò che in Italia non è mai stata cosa facile.

In un articolo sull’industria dello zolfo in Sicilia, dove era stato creato un Consorzio obbligatorio per ovviare alla concorrenza americana della Lousiana, Einaudi vedeva l’inizio di un esperimento di monopolio «creato, garantito, sussidiato e sostanzialmente amministrato dallo stato» (Uno sperimento di intervento dello stato, «Corriere della Sera», 8, 9 agosto 1906). L’economista dava particolare importanza a questo evento, perchè a suo parere introduceva una nuova forma di organizzazione industriale, un sindacato obbligatorio di produttori ai quali in sostanza la legge toglieva la facoltà di vendere i prodotti e che lo Stato sottoponeva a vigilanza, anche in qualità di garante dei rischi economici gravi di un’impresa industriale soggetta ad una fortissima concorrenza straniera. Qualcosa di enorme, secondo Einaudi, con i socialisti che, ovviamente, non si erano accorti di nulla. In un altro intervento, dove, come d’abitudine, affrontava anche storicamente le difficoltà dell’industria solfifera siciliana, Einaudi, un anno dopo l’emanazione della legge istitutiva, mostrava tutti i suoi dubbi nei confronti di un «esperimento così audace di collettivismo di stato»(La questione solfifera siciliana. Pericoli e dubbi, «Corriere della Sera», 6 agosto 1907).

Un saggio pubblicato sulla Riforma Sociale nel 1911 che tratta dell’intervento a sostegno dei petrolieri d’Italia, è paradigmatico della polemica anti-protezionista, tanto che il titolo, I trivellatori di stato, alla fine diventa una formula estesa a tutti quegli industriali, in primo luogo i siderurgici, che svolgevano la propria attività al riparo delle sovvenzioni pubbliche. Ma tornando all’accezione originaria, si tratta di un articolo come al solito documentatissimo e corredato da una serie di dati statistici, in cui alcuni passaggi sono da citare, come quello in cui Einaudi “smontava” il fantasma del dumping americano, cioè il presunto ricorso a vendite sottocosto, puntualmente chiamato in causa dagli industriali italiani, ed al contempo censurando la connivenza governativa. È in questo saggio che Einaudi citava Stuart Mill e la sua dottrina sulle industrie giovani. Ma era quello il caso dell’industria petrolifera italiana? Poteva infatti dirsi ”bambina” «un’industria che ha quarant’anni di vita; rallegrata, fino a questi ultimi giorni, da un delizioso tepore di dazi protettivi, quale a molti industriali sarebbe stato follia sperare»? Einaudi ricordava come essa tra il 1871 al 1887 avesse goduto di una protezione crescente dal 20 al 100%, mentre dal 1887 al 1907 era stata protetta con il 200/250 per cento (I trivellatori di stato, «La Riforma sociale», XVIII, vol. XXII, 1911).

Un altro tema che suscitò l’interesse di Einaudi fu quello della nazionalizzazione delle assicurazioni, quando, su iniziativa di Nitti, venne creato nel 1911 l’Istituto nazionale delle assicurazioni sulla vita, introducendo di fatto un monopolio che doveva promuovere il risparmio per la previdenza integrativa e metterlo a disposizione della finanza pubblica. Anche in quel caso si aprì un ampio dibattito, con Einaudi in aperto dissenso su vari aspetti del provvedimento, non ultimo il fatto che l’esproprio delle società private di assicurazione aveva natura retroattiva (Il monopolio delle assicurazioni sulla vita. Calcoli o cabale?, «Corriere della Sera», 13 aprile-11 luglio 1911).

Sempre nel 1911, Einaudi dedicava una serie di articoli al fenomeno della crescita a dismisura della burocrazia, altro fenomeno tipico dell’Italia giolittiana, documentato da studi recenti, ma che aveva già destato l’attenzione di osservatori coevi. Egli notava con rammarico come al 1911 l’impiego pubblico riguardasse quasi due milioni di persone, cioè il 5-6% della popolazione che viveva di «paghe di stato», ed anche in questo caso ravvisava il rischio di creazione inconsapevole di un «regime di organizzazione sociale collettivistica siffattamente coercitivo da spegnere ogni libertà ed iniziativa individuale»(Ruoli chiusi o ruoli aperti? Freno al dilagare della burocrazia?, «Corriere della Sera», 26 aprile-30 maggio 1911). È un fenomeno che Einaudi metteva in relazione con la tendenza inarrestabile a «statizzare» e che desterà ancora preoccupazione all’indomani del primo conflitto mondiale quando avvertirà della necessità di smantellare la complessa architettura statuale costruita a fini emergenziali, che aveva indubbiamente aggravato la situazione. Nei primi mesi del 1919, Einaudi produceva una serie di articoli per il Corriere in cui la critica alla burocrazia ministeriale si intrecciava alla spinta per una effettiva liberalizzazione del sistema. È in questo contesto, di fronte alla inamovibilità dei vertici della burocrazia economica, che sosterrà che «ognuno di noi deve confessarsi ignorante di fronte al più umile produttore, il quale rischia lavoro e risparmio nelle sue intraprese» (Faccia il suo mestiere!, «Corriere della Sera», 15 gennaio-19 aprile 1919). Si tratta di un principio guida ai quali i giovani liberali come Guido Carli guarderanno nell’immediato secondo dopoguerra, anche se, purtroppo, le cose non cambieranno poi molto rispetto ai tempi in cui scriveva Einaudi. Licenziare i padreterni!, Via le ostriche dallo scoglio, Con le ostriche via gli scogli, questi i titoli con i quali egli voleva sottolineare l’urgenza di eliminare tutte le bardature dell’economia di guerra. Consapevole della situazione politica e sociale che stava infiammando l’Europa, con le masse operaie in agitazione, Einaudi sosteneva che solo una politica di liberalizzazioni, di abolizione dei vincoli e delle barriere, che avrebbe permesso di comprare materie prime ai minimi prezzi e vendere su mercati più remunerativi, avrebbe facilitato gli industriali in una politica del lavoro che tenesse conto delle rivendicazioni operaie, in tal modo depotenziando la spinta rivoluzionaria.

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5. Questione meridionale, emigrazione, colonialismo

L’età giolittiana, caratterizzata dal primo grande sviluppo economico conosciuto dall’Italia unita, è nuova occasione di riflessione sulla questione meridionale, nei confronti della quale Einaudi dimostrò di essere sensibile, a partire dai suoi interventi sul volume Nord e Sud di Nitti pubblicati sulla Stampa di Torino nel giugno 1900, il libro in cui l’intellettuale lucano denunciava il saccheggio delle finanze meridionali avvenuto dopo l’Unità. Tra coloro che hanno affrontato con maggiore frequenza la questione meridionale a partire dai primi anni del Novecento, Einaudi si inscrive, quasi superfluo ricordarlo, in quella corrente anti-protezionista che aveva in De Viti De Marco forse il maggiore dei suoi esponenti, il quale vedeva nella protezione delle industrie del Nord e negli alti dazi nei confronti dei prodotti agricoli del meridione d’Italia le cause della profonda crisi economica che gravava sul meridione.

Di particolare interesse sono alcuni interventi di Einaudi del 1905, fase in cui il dibattito riprende quota anche in conseguenza dell’emanazione della legge speciale per Napoli, che è del 1904, preparata proprio da Nitti per il governo Giolitti. È bene precisare tuttavia che anche Nitti era insofferente al protezionismo, al parassitismo ed alla burocrazia di stato, ciò che ereditava da Giustino Fortunato.

Negli articoli di Einaudi c’è una riproposizione delle tematiche anti-protezioniste in favore del Mezzogiorno, ma alcune sue considerazioni vanno messe in evidenza. A proposito del latifondo siciliano, per esempio, si discostava dalla vulgata che vedeva l’unica soluzione in uno «spezzettamento violento» di esso. Il latifondo siciliano infatti non era un risultato delle leggi, della volontà delle classi dominanti, ma dipendeva dalle condizioni di clima e dalla convenienza economica, per cui Einaudi confidava molto di più in interventi “strutturali” quali per esempio una regolamentazione del regime delle acque o la facilitazione della vendita di prodotti agrari più raffinati del grano. Ed a proposito di queste opere, strutturali appunto, non esitava ad invocare l’intervento dello stato, per cui la soluzione stava in una combinazione armoniosa tra pubblico e privato (Problema meridionale, riforme tributarie, opere pubbliche e iniziative private, «Corriere della Sera», 13 novembre 1905).

Ad Einaudi però non sfuggivano le degenerazioni della vita amministrativa locale, sempre meno controllabile da parte dello stato, sulla quale si erano già soffermati osservatori come Colajanni, Nitti e Mosca, che in quei mesi del 1905 pubblicava Uomini e cose di Sicilia, cui Einaudi certamente si riferisce pur non citandolo direttamente. Per rimediare al problema, egli guardava alla possibilità di interventi anche drastici, come l’istituzione di un Commissariato speciale, alla maniera di quanto aveva fatto Di Rudinì con Codronchi, ma che fosse stabile, che potesse contare cioè «su una vita sicura di 10 od almeno di 5 anni». Soltanto in questo modo, «anche la psicologia del partitante siciliano vividamente descritta dal Mosca, finirebbe per modificarsi quando sapesse di non poter più ottenere nulla con le vie tortuose dell’intrigo, se si persuadesse che al di sopra di lui e dei suoi avversari unica dominatrice sia la legge», scriveva Einaudi (Politica e amministrazione del Mezzogiorno, «Corriere della Sera», 10 novembre 1905).

Questa posizione tuttavia non deve far pensare ad un eccesso di statalismo. Egli non era un fautore dell’accentramento amministrativo, tanto è vero che in un articolo del 1907, a proposito di alcuni pubblici elogi del ministro degli esteri francese Hanoteaux circa un presunto equilibrio tra Governo centrale e autonomie locali in Italia, Einaudi sosteneva tutto il contrario. Ricordava infatti quanto i comuni fossero alla mercè dei sorprusi ministeriali e come i mali del Mezzogiorno d’Italia potessero essere ricondotti alla «corruzione nefasta operata dal governo centrale» e alla «solidarietà di interessi che lega tirannicamente grandi elettori, amministrazioni municipali, deputati e Governo» (Le illusioni della grandezza, «Corriere della Sera», 3 aprile 1907).

Anni dopo, nell’ottobre del 1910, nuova occasione di riflessione è la pubblicazione dei lavori dell’Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle provincie meridionali e nella Sicilia, che raccoglieva le analisi e le proposte di importanti scrittori politici del tempo, in merito alla quale Einaudi non poteva fare a meno di citare la lunga relazione di Nitti in cui si profondeva soprattutto sugli effetti positivi dell’emigrazione, fenomeno spontaneo per eccellenza e quindi molto più apprezzato da Einaudi rispetto a qualsiasi intervento di legge (La grande inchiesta sul Mezzogiorno. Diboscamenti, malaria ed emigrazione, «Corriere della Sera», 22 ottobre 1910). In due articoli del 1911, in cui tornava sulla conclusione dell’inchiesta sul Mezzogiorno agricolo, Einaudi metteva invece in evidenza la questione meridionale come questione morale e tutto il dramma del divario nord/sud quando esso diventa contrapposizione, auspicando l’avvento di una nuova borghesia meridionale, cioè di una classe che con determinazione avrebbe dovuto chiedere la fine della elargizione di favori da parte dello stato (Mali secolari ed energie nuove. Le conclusioni dell’inchiesta sul Mezzogiorno agricolo, «Corriere della Sera», 12, 16 agosto 1911).

Attento osservatore dell’Italia giolittiana, Einaudi affrontò anche il tema del colonialismo, sul quale si soffermò “attorno” alla conquista della Libia in due scritti del 1913 che sono indicativi del suo approccio al problema. A proposito del Trattato di Losanna dell’ottobre 1912, con il quale a seguito della vittoria italiana l’Impero ottomano cedeva la Tripolitania e la Cirenaica, Einaudi scriveva di «un capolavoro di arte di governo». Il trattato infatti era fondato sul rispetto degli statuti esistenti in materia religiosa, perchè sanciva la collaborazione con l’elemento indigeno nell’esercizio della sovranità e ad esso riconosceva diritto di rappresentanza. In quella occasione Einaudi, che scriveva anche in risposta a chi accusava il governo italiano di estrema cedevolezza, chiariva di non voler sostenere la tesi che un domani il governo della Tripolitania e della Cirenaica sarebbe stato «in mano degli indigeni», ma riconosceva l’esigenza di creare «tanti statuti politici quante [erano] le sezioni della popolazione (indigeni, israeliti, coloni italiani), in guisa che nessuna di esse [potesse] opprimere l’altra» (Il valore italiano del Trattato di Losanna, «Corriere della Sera», 1 novembre 1912). Prendendo poi spunto dalla costituzione di una commissione agronomica nominata dal ministro Bertolini, egli ribadiva in campo economico lo stesso concetto. Prendeva distanza dai facili entusiasmi sulle potenzialità agricole dei territori appena conquistati e sosteneva il rispetto degli assetti esistenti, in particolare della piccola proprietà coltivatrice delle terre a giardino, auspicando una collaborazione con l’elemento autoctono e sottolineando la necessità di grandi investimenti di capitali italiani (La creazione della terra nella zona di Tripoli, «Corriere della Sera», 2 marzo 1913). Ciò che – bisogna riconoscere – guarda ad un modello opposto a quello di un indiscriminato sfruttamento di tipo imperialistico.

Se si prendono in considerazione gli interventi di Einaudi dell’immediato dopoguerra non si può fare a meno di sottolineare la coerenza della sua concezione sulla questione coloniale. Basti guardare al discorso tenuto alla Consulta nazionale nel gennaio del 1946, quando, in vista del trattato di pace, difese coraggiosamente il diritto dell’Italia non di continuare ad esercitare una sovranità piena su quelle che dovevano essere considerate ormai delle ex colonie, ma di poter a pieno diritto partecipare all’attuazione del programma delle Nazioni Unite attraverso la formula dell’amministrazione fiduciaria e cioè per conto e nell’interesse delle popolazioni indigene. Einaudi procedeva nella sua difesa marcando una differenza tra colonialismo liberale e imperialismo fascista e ricordava una vecchia polemica con l’amico Edoardo Giretti, uno degli elementi di punta dello schieramento liberista italiano, in cui ambedue sottolineavano come in ogni impresa coloniale fossero distinguibili, per così dire, due momenti: il momento della conquista, cioè l’estendere i colori della propria nazione in una più ampia superficie della carta geografica; conquista che porta dietro di sé apertura di nuovi mercati, quindi opportunità e guadagni per il paese e, certamente, anche sfruttamento del lavoro delle popolazioni indigene. E il momento dell’apporto di civiltà, con il soldato che vuole garantire sicurezza ed ordine; il magistrato che vuole rendere giustizia imparzialmente e che quindi permetterà ai deboli di difendersi dai capi tribù; il maestro che porta con sé la civiltà e la cultura e quindi innalza gli indigeni alla dignità di uomini liberi. In occasione di quella polemica, era stata predisposta una sorta di lista di “comandamenti”, di linee guida del colonialismo di marca liberale, non dissimili da quelle che ispiravano gli articoli del 1913 che abbiamo citato. Una di queste era la convinzione che l’opera di colonizzazione avrebbe dovuto essere lenta e costosa, tanto che Einaudi, cifre alla mano, dimostrava i sacrifici sostenuti dall’Italia nell’amministrazione delle sue colonie e gli investimenti effettuati nel campo dell’agricoltura, delle infrastrutture, delle strutture sanitarie e scolastiche. Certo non si trattava di una difesa facile nel clima dell’immediato dopoguerra, ma siamo sicuri che tra le potenze della Conferenza di San Francisco ci fossero realtà esenti da colpe? Affermava Einaudi al proposito: «Colpe ce ne sono state in tutti i paesi colonizzatori e qualche colpa l’abbiamo avuta anche noi; ma quel popolo, il quale sia senza colpa, è il solo il quale possa lanciare la prima pietra. Credo che, in fatto di colonie, non vi sia nessun popolo senza colpa» (Consulta nazionale. Discussione sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio, Ministro degli Affari Esteri Alcide De Gasperi, a proposito delle Colonie, 16 gennaio 1946, in Interventi e relazioni parlamentari, Vol. II).

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6. All’ombra del Risorgimento

Il giudizio di Einaudi su Giolitti è stato, notoriamente, molto critico. Le Lettere politiche di Junius, gli articoli che sotto forma di lettera al direttore, Einaudi andò pubblicando sul Corriere della Sera tra il luglio del 1917 e l’ottobre del 1919, poi editi in raccolta nel 1920, sono testimonianza di un periodo di particolare acredine nei confronti dello statista di Dronero. Sono anni di guerra, e di dopoguerra, quando Einaudi si farà portatore di una severa critica nei confronti della pace di Versailles, ma anche di bilanci sul periodo giolittiano ed in cui ritorna il tema della storia piemontese in rapporto a quella dell’Italia unita. In particolare, è ancora la figura di Cavour a giocare da filtro per un giudizio a dir poco caustico su Giolitti, di cui contestava l’eredità di quella tradizione. Era un’occasione per ritenere fuori luogo, per esempio, guardare al connubio cavouriano come ad un precedente legittimante di quel continuo e progressivo guardare «a sinistra, sempre più verso sinistra» tipico dei circoli giolittiani dell’ «ora nuova» (Intorno ai detti memorabili dello statista erede della tradizione piemontese, in Lettere politiche di Junius, Laterza, Bari 1920, pp. 33-42). Einaudi ammoniva come tutta l’esperienza politica di Cavour non potesse essere ridotta a quell’ «unico ricordo topografico» e ricordava come ai suoi tempi Cavour fosse considerato un aristocratico – «milord Camillo» – un latifondista, un accaparratore, un nemico dei «lavoratori delle città e delle campagne», ai quali ora Giolitti guardava con tanto favore, quasi fossero «i soli componenti l’esercito di terra e di mare dell’Italia». Non meno sferzante è il giudizio su certa demagogia sulla guerra (e sulla pace) che accomunava grandi leaders come Wilson, Briand, Lloyd George, i cui discorsi apocalittici – in particolare un intervento del leader liberale inglese – venivano abilmente sfruttati da Giolitti, al quale Einaudi ricordava che da Tucidide in poi ogni guerra era apparsa ai contemporanei la più grave catastrofe mai occorsa. Soltanto la storia avrebbe potuto giudicare la portata del conflitto in corso, il resto erano giudizi azzardati, «cose buone a dire per accendere l’entusiasmo di popoli immaginosi».

Einaudi cercava di smontare la similitudine Cavour-Giolitti, frutto secondo lui di una vera distorsione – «buffa contraffazione», la definisce – della biografia del primo, a partire da quel vederlo come un «empirico», nel senso di avulso dalla teoria, quando invece il giovane Cavour era stato un attento allievo di Francesco Ferrara all’Università di Torino ed egli stesso autore di un compendio di scienza economica, con una grande preparazione scientifica. Così come contestava che il “gran decennio” giolittiano, in cui era innegabile che ci fossero registrati enormi progressi, fosse in realtà frutto esclusivo dell’opera dello statista e sedicente erede del «temperamento di Cavour». Ricordando come in tutti i paesi del mondo «d’Europa e d’America, d’Asia e d’Oceania, il gran decennio sia stato caratterizzato da alti salari, miliardi di incremento della ricchezza nazionale e prosperità inaudita» (Lasciar fare alla storia, Ibidem, pp. 55-66).

Anche la nascita del Partito liberale italiano al congresso di Bologna del 1922 fu occasione per un giudizio critico sul giolittismo, questa volta più fine e sommesso, ma non meno pregnante. In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Einaudi si produceva in una «analisi psicologica di quello che è il liberalismo piemontese», come egli stesso la definiva, in cui scriveva che in Piemonte il liberalismo, «più che una dottrina, più che un insieme di principii, che il politico dovrà applicare adattandoli alle contingenze dei casi e della vita», era uno stato d’animo. A poco a poco, il rapporto con la dottrina liberale, quella di Cavour, era diventato sempre più tenue; il liberalismo piemontese aborriva la teoria, ciò che contrastava col rigoglio intellettuale che aveva caratterizzato il periodo 1826-1848, gli anni formativi di Cavour, di cui abbiamo già fatto cenno. Liberalismo come “stato d’animo” significava nel caso specifico essere accoglienti nei confronti del buono che c’è anche nelle forze e nelle dottrine politiche avverse: da qui l’idea di «ammansire i partiti estremi, adescandoli, facendoli entrare nell’orbita delle istituzioni», una tattica in cui Einaudi ravvisava «molta sapienza tattica e molto buon senso quotidiano» e di cui riconosceva «duci insuperabili Depretis e Giolitti». Le parole di Einaudi nei confronti della tradizione di governo piemontese sono questa volta di stima, se le sintetizzava con un «amministrare con tatto, con sapienza, con competenza», ma non meno gravi, se ravvisava come a quella tradizione ora mancasse soltanto sapere «perchè si deva governare bene», mancasse cioè «l’idea liberale», ciò di cui aveva bisogno l’Italia «nel momento presente» (Piemonte liberale, «Corriere della Sera», 14 ottobre 1922). Così scriveva Einaudi il 14 ottobre del 1922.

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7. Dopo il fascismo e nella repubblica dei partiti

Nel caso di Einaudi non si può dire che nel secondo dopoguerra ci sia una revisione radicale del giudizio sull’Italia giolittiana. Nelle prefazioni ai volumi II e III delle Cronache economiche e politiche di un trentennio, scritte tra il 1959 ed il 1960, cioè poco prima della sua scomparsa, egli ribadiva che in materia economica e sociale l’azione del governo non era certo stata feconda e ricordava i principali “passaggi” di una politica incerta, a volte rinunciataria, tendente a rinviare le questioni, ciò che se a volte evitava «soluzioni affrettate e dannose», in altri casi provocava danni peggiori. C’è però in queste pagine una maggiore disponibilità a valutare l’opera di Giolitti nel quadro di una situazione generale, tanto che sente di avvertire il lettore di non interpretare i suoi scritti del tempo come portatori di un «giudizio negativo su tutta l’opera economica e politica dell’uomo che resse la somma delle cose nel primo decennio del secolo». D’altronde, spiegava Einaudi, così come un governo non è mai il solo artefice di ciò che succede nel bene, non lo è nemmeno per gli errori e le deficienze. Quello che va messo in evidenza in queste “ultime” pagine dell’economista piemontese è soprattutto il tentativo di comprensione dell’ “uomo” e di cosa significasse per lui «governè bin», come lo stesso Giolitti in dialetto cuneese aveva risposto ad un giovane Einaudi che nella stanza di Luigi Roux gli chiedeva, nel 1898, cosa si dovesse fare per risolvere i problemi del paese. Una essenza positiva del giolittismo veniva ora restituita attraverso l’esposizione di quelle che erano le principali doti dell’uomo di governo: esatta conoscenza e opportuna scelta degli uomini, saperli “dominare” con fermezza e cortesia, conoscenza precisa della pubblica amministrazione, regolarità nel lavoro, assiduità e perizia nei lavori parlamentari, chiarezza e brevità nei discorsi, saper ridurre al nocciolo le questioni più complicate, vita morigerata. Ciò che oggettivamente non sembra essere poco. E poi, avvertiva intelligentemente Einaudi, lo scenario politico di quegli anni offriva forse persona più capace di Giolitti nel governare gli italiani? Questo solo interrogativo induceva anche i critici più ostinati «di quel tempo», concludeva l’economista pensando evidentemente a se stesso, a dover «inchinarsi rispettosamente alla sua memoria» (Cronache economiche e politiche di un trentennio (1895-1925), Prefazione, II, Einaudi, Torino 1959, pp. 37-40).

Einaudi ricordava inoltre come negli anni di Giolitti l’opposizione si facesse sentire alle Camere e i giornali potessero liberamente criticare l’operato del governo. Certo, ricordava anche come ogni qualvolta sembrava che l’opposizione dovesse spuntarla, la maggioranza «silenziosamente votava», nonostante l’efficacia delle argomentazioni contrarie. Una maggioranza giolittiana per la quale Einaudi ricorreva alla efficace immagine di una «palude», caratterizzata da «sudditanza volontaria», ossequio «per favori chiesti», riconoscimento «della capacità del capo di saper governare gli uomini», soddisfazione delle parti avverse. Una situazione che tra il 1910 e il 1914 sembrava al riparo da ogni pericolo. Nessuno cioè avrebbe immaginato che sarebbe arrivato un tempo in cui quella palude avrebbe «tutto sommerso e si sarebbero visti, nell’aula di Palazzo Madama, senatori piegare il ginocchio quando passavano davanti al seggio del duce impassibile». Così come nessuno avrebbe immaginato che dopo il fascismo, di paludi ce ne sarebbero state tre o quattro, con deputati e senatori che «avrebbero disciplinatamente votato […] al cenno venuto da un segretario di partito, estraneo come tale al parlamento», scriveva Einaudi (Cronache economiche e politiche di un trentennio (1895-1925), Prefazione, III, Einaudi, Torino 1960, pp. 11-12). Una riflessione amara sulle logiche prevalenti della “repubblica dei partiti”.

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