Opera Omnia Luigi Einaudi

Einaudi e l’avvento del regime fascista

di Christine Vodovar

 

1. Il ritorno al liberalismo classico «della marca più autentica e pura»: la politica economica e finanziaria di De Stefani

L’ostilità nei confronti del massimalismo socialista, l’insofferenza di fronte ad una classe politica corrotta e mediocre, la profonda delusione nei confronti della politica dei governi succedutisi dopo la guerra, e in particolare la ripresa di una politica chiaramente protezionista all’inizio del 1921 che avrebbe portato al decreto-legge del 9 giugno 1921 sulla tariffa doganale, spinsero Einaudi a guardare con un interesse sempre maggiore al fascismo e a vederci un movimento in grado di applicare i principi liberali nei quali si riconosceva. Infatti, se si potevano avere dubbi riguardo alle modalità di azione del fascismo, altrettanto non si poteva dire del suo programma economico e finanziario, nel quale egli vedeva un ritorno al liberalismo classico «della marca più autentica e pura».

Alla simpatia iniziale per la politica economica e finanziaria di De Stefani, tuttavia, non corrispose un interesse altrettanto benevolo per i progetti di riforma costituzionale. Nel corso della seconda metà del 1923, cadde progressivamente quell’illusione iniziale che lo aveva spinto a vedere nel movimento fascista la forza politica in grado di realizzare la costruzione di uno stato liberale come da lui ideato. La consapevolezza sempre maggiore della reale natura del fascismo lo spinse, a partire da quel momento ma in modo definitivo in seguito al delitto Matteotti, a concentrare le sue più sentite riflessioni sulla difesa dello Stato liberale.

Alla fine dell’estate del 1922, dunque, la ferma volontà dimostrata dai fascisti di attuare quei principi cari ad Einaudi fece cadere le sue ultime reticenze. Ribadiva che «il programma del fascismo (era) nettamente quello della tradizione liberale classica», auspicandosi una sua pronta attuazione, come annunciato dai fascisti. Dopo la presa di potere da parte di Mussolini, sulla quale Einaudi non intervenne, i propositi del nuovo governo, precisati ora dal neo-ministro delle Finanze De Stefani, andavano nel senso auspicato. Si prevedeva in effetti la restituzione all’esercizio privato di tutte le funzioni economiche assunte dallo stato «per ragioni di urgenza durante la guerra, o di ubbidienza all’imperativo demagogico del dopoguerra». In particolare, ma non solo, si prevedeva l’affidamento dei telefoni a compagnie private; lo sfrondamento dalle ferrovie di tutti i servizi accessori in attesa di vedere se e in quale misura potessero essere anch’esse trasferite, quanto alla gestione, ai privati; la riduzione al minimo dei servizi marittimi sovvenzionati. Forte dell’esperienza dei governi precedenti, ribadì la sua speranza che alle parole seguissero i fatti: «ora che i principi liberali sono tornati al potere, giova sperare che la promessa dell’on. Mussolini di infondere in essi un nuovo spirito di realizzazione sia mantenuta».

Seguirono innumerevoli articoli, spesso tecnici, nei quali Einaudi dette il suo assenso alla politica economica e finanziaria del fascismo, in particolare per quanto riguardava la sua ricerca costante del pareggio di bilancio, attraverso una nuova politica tributaria, la riorganizzazione dell’amministrazione pubblica, la lotta a tutte le forme di protezionismo.

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1.1. La riforma tributaria

La ricerca di una soluzione per il pareggio di bilancio era una preoccupazione costante di Einaudi. Riteneva fondamentale agire soprattutto sul versante della spesa, grazie all’attuazione di economie nei ministeri e negli enti pubblici. Solo dopo, se necessario, si sarebbe potuto completare l’opera con una richiesta ulteriore ai contribuenti.

Questo non voleva dire, tuttavia, che il sistema tributario non andasse riformato. De Stefani, infatti, invece di aumentare le tasse, avrebbe dovuto occuparsi di «un’impresa ben più meritoria», quella della riforma del sistema tributario. Era necessario semplificarlo, sia per quanto riguardava il numero delle imposte che le relative aliquote. Tale semplificazione avrebbe dovuto essere accompagnata da due misure urgenti e necessarie per rendere più giusto ed efficace il sistema e provvedere a ciò che aveva limitato la portata dei progetti dei governi precedenti. La prima misura era l’adeguamento dei valori imponibili alla realtà, cioè l’accertamento del reddito complessivo del contribuente, accertamento necessario per poter ripensare l’intero sistema. La seconda misura era una riduzione delle tariffe «a misura sensata». Spesso le riforme precedenti erano state sinonimo di aumento delle tasse perché lo «spirito demagogico» dei governi spingeva ad arrotondare a livello superiore le aliquote, al fine di finanziare una politica di sussidi e di protezione. Invece, secondo Einaudi, le tasse dovevano essere distribuite in modo da assicurare allo stato il minimo indispensabile, ma senza gravare troppo né sul risparmio, né sul capitale.

Ed in questo senso agiva il governo. Einaudi commentava con entusiasmo le misure previste dal nuovo governo e confessava che «l’impressione (era) di gente volonterosa di fare il bene, che non ha vergogna di dire che per far rendere le imposte bisogna lasciar vivere in primo luogo i produttori e i risparmiatori. Paiono cose semplici, di buon senso, elementari; ma diventano grandi verità quando si pensa agli anni grigi e disperanti in cui demagoghi spregevoli e dottrinari fantastici predicavano la leva sul capitale allo scopo di rimborsare i debiti pubblici, dare incremento alla produzione e lavoro ai disoccupati».

La politica del fascismo, insomma, tendeva ad applicare il «principio produttivistico», caro ad Einaudi, secondo il quale le imposte devono essere distribuite in modo da ridurre al minimo la pressione sui produttori al fine di accrescere al massimo il flusso di reddito da distribuire. E le sue attese furono in gran parte soddisfate con la riforma tributaria del dicembre 1923, che, se pur non perfetta, andava sicuramente nella direzione giusta: «sono dodici anni oramai che scrivo in difesa del nome e della cosa; ed oggi ho la soddisfazione di vedere concretati in una legge il nome e la cosa». Infatti, dopo un lungo lavoro di accertamenti, il governo era riuscito a semplificare il sistema delle imposte riducendole a tre: «terreni, fabbricati e ricchezza mobile, con aliquote ragionevoli ed uniformi per tutti i redditi e, al di sopra di queste tre fondamentali, una solo imposta progressiva sul reddito totale con aliquote dall’1 al 10%». Si intuiva una leggera delusione per il fatto che il ministro aveva preferito «le riforme a spizzico a quelle organiche»; una delusione tuttavia relativa dato che queste riforme erano state pensate e realizzate avendo in mente un quadro generale e, per questo, convergevano verso una meta comune: la ricostruzione di un sistema più armonioso di quello lasciato in eredità dalla guerra. Ancora nel 1925, commentando le dimissioni di De Stefani, egli avrebbe lodato il suo bilancio in materia tributaria, evocando «un periodo di fecondo ritorno del sistema tributario italiano alle sue classiche tradizioni liberali».

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1.2. La riforma dell’amministrazione pubblica

Come accennato precedentemente, il pareggio di bilancio imponeva, prima di ogni altra misura, una riduzione drastica delle spese a carico dello Stato che, insieme a Comuni e Provincie, spendeva una «cifra pazzesca» ovvero circa otto volte la spesa dell’anteguerra. L’aumento della spesa pubblica, infatti, era un fenomeno in gran parte ereditato dalla guerra ma anche dai governi del 1920/1921 i quali, anziché smantellare i numerosi organismi di gestione nati durante la guerra, li avevano mantenuti, se non addirittura potenziati, provocando una burocratizzazione dell’economia. Il proliferarsi della burocrazia non era soltanto una questione di spesa. La moltiplicazione degli enti pubblici autonomi, ad esempio, «una delle più perverse invenzioni del politicantismo elettorale e della burocrazia parassitaria», aveva anche come effetto di moltiplicare le poltrone a scapito di qualsiasi principio di efficienza.

Nel luglio 1922, alla vigilia dell’ascesa di Mussolini al potere, Einaudi aveva costatato che nonostante i pieni poteri in materia, la riforma della burocrazia era per così dire «seppellita» e si compiaceva di vedere nel programma fascista la promessa della soppressione di uffici e ministeri inutili e la restituzione di servizi pubblici deficitari all’industria privata. Una volta formato il nuovo governo, tuttavia, lo metteva in guardia, per quanto riguardava la spesa pubblica, nel mostrare il buon esempio. Era inoltre necessario che, oltre le promesse, una «volontà imperiosa si imponga ai servitori dello stato» i quali, dopo la guerra, avevano teso a rinnegare il proprio compito, quello, appunto, di servire lo stato, per concentrarsi invece nelle rivendicazioni di classe.

Nel gennaio del 1923 si entrava, scriveva Einaudi, «con vigoroso colpo di timone, in piena riforma della burocrazia», in primo luogo di quella ferroviaria dove erano previsti 36.000 licenziamenti. I principi «ottimi» adottati in quei mesi dal governo e da estendere all’intera pubblica amministrazione erano, innanzitutto, la riduzione del personale. Tale riforma consentiva di ridurre i costi eliminando il personale meno laborioso e meno capace; era inoltre necessaria perché un numero eccessivo di personale produceva una serie di effetti perversi, dalla confusione alla creazione di posti inutili, dall’incitamento a tutti a diminuire la propria resa al reclutamento meno selettivo del personale ed all’abbassamento generale del suo livello. Il secondo «ottimo» principio era la riduzione degli stipendi, da effettuarsi non in maniera generale ed uniforme ma selettiva, secondo criteri di merito e adeguandoli alle disponibilità finanziarie degli enti, alle esigenze del servizio, all’importanza delle funzioni e alla giusta corrispondenza con gli impiegati dello Stato. Era necessario, insomma, ed Einaudi insisteva molto su questo punto, «ristabilire la scala dei meriti che fu scandalosamente invertita all’epoca del bolscevismo» quando l’aumento dei redditi non era andato proporzionale per ciascun grado ma a favore dei gradi più bassi. Rendere a ciascun grado il suo valore e, dunque, pagare ognuno per i propri meriti avrebbe consentito di accrescere la resa del lavoro e diminuire le spese.

Einaudi accolse con plauso il sistema delle cosiddette «classi di rango» adottato dal governo per le carriere dei funzionari, sistema da lui invocato da tempo, e che prevedeva la stessa suddivisione per tutti i funzionari, indipendentemente dall’amministrazione di riferimento e dal ruolo ricoperto. Si entrava in carriera ad un rango commisurato al livello di studi (scuola elementare, superiore, università) e poi si cresceva nella gerarchia per classi generali corrispondenti ciascuna ad uno stipendio. La nuova gerarchia dei pubblici funzionari, approvata dal governo con decreto dell’11 novembre 1923, non corrispondeva, tuttavia, del tutto alle aspettative di Einaudi sia per il suo costo eventuale che per il ritorno a 6 gradi anziché 3 o 4. Questa frammentazione, infatti, era inutile e rischiava di portare ad uno sminuzzamento di responsabilità ed a una confusione nella ripartizione dei compiti dei vari uffici e quindi in definitiva all’abbassamento della qualità del servizio. Non escludeva, tuttavia, che potesse essere vantaggiosa nel caso fosse stata nel tempo stesso «stimolatrice ed agile» e cioè se fosse riuscita a «graduare i funzionari, in modo che questi fossero stimolati a progredire per acquistare il titolo e lo stipendio più elevati». Uno dei maggiori pregi della riforma rimaneva tuttavia il suo carattere organico. Infatti, Einaudi aveva sempre combattuto il fatto che ogni singola categoria di funzionari potesse ottenere vantaggi per sé stessa, stimolando le rivendicazioni delle altre categorie e spingendo quindi lo Stato a perpetue trattative parziali, tutte sperperatrici di tempo e di denaro.

Infine, Einaudi sottolineava la necessità, per ridurre la spesa pubblica, di responsabilizzare le amministrazione comunali. Avendo maggiore autonomia e gestendo in parte le proprie risorse, esse avrebbero non solo badato maggiormente alla spesa ma anche reso i servizi più efficaci e «migliori». Prendendo l’esempio della scuola e costatando che le scuole elementari dipendendo direttamente dallo Stato – al contrario di quanto accadeva nei comuni autonomi –, avevano incrementato in modo ingiustificato le proprie spese, criticò quello che egli chiamava, con le virgolette, la «statalizzazione» delle scuole elementari. Suggeriva, invece, di rendere i comuni partecipi della spesa della scuola e di dargli maggiore autonomia nella scelta degli insegnanti. Per le stesse ragioni, si oppose al passaggio del comune di Roma sotto il controllo finanziario dello stato.

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1.3. La lotta contro il protezionismo

Il terzo volano della politica fascista che confortò Einaudi, almeno fino alla fine del 1923, riguardava la lotta a tutte le forme di protezionismo. Per Einaudi, il protezionismo andava combattuto non solo in quanto anti-economico, ma anche – e forse soprattutto – perché la sua eliminazione rappresentava la premessa alla liberazione dell’economia nazionale da quelle che egli chiamava le «imposte private». Anche se si potesse dimostrare che i dazi sono economicamente vantaggiosi per l’economia nazionale, spiegava Einaudi, essi innestano un meccanismo di «inquinamento» della vita pubblica dannoso non solo per lo stato ma anche per le industrie stesse. Infatti, se in teoria i dazi possono essere ripartiti secondo criteri obiettivi, nella pratica siccome la scelta delle poche industrie degne di protezione, in mezzo all’universalità di quelle a cui non si deve concedere alcuna protezione, non è fatta da un areopago di competenti posti in un’atmosfera di purezza incontaminata; ma la scelta e la concessione avvengono in un mondo di uomini, soggetti a tutte le passioni e le infermità umane, ecco che il protezionismo inquina la vita pubblica. Invece di essere lasciati liberi di attendere alle gravi cure dello stato, gli uomini politici sono assillati dalle richieste di coloro che, per fini privati propri, chieggono dazi protettivi contro la concorrenza estera.

Inoltre, anziché lottare, inventare, organizzare, gli industriali «consumano il proprio tempo ed il proprio denaro a premere attraverso un’opinione pubblica falsata, sull’amministrazione, sul governo e sul parlamento» per ottenere un arricchimento «col facile mezzo del dazio doganale». E così, la soppressione dei dazi doganali non farebbe che bene all’economia nazionale in quanto «invece d’imprese barcollanti e bisognose di sussidi, avremmo imprese sane, potenti, viventi di vita propria, gagliardi fattori di una vita nazionale piena, robusta, conquistatrice».

Polemizzando con gli industriali «protezionisti», che invitava a rileggere i classici del liberalismo, egli finiva per equiparare protezionismo e socialismo. Il protezionismo, in effetti, non era semplicemente una pratica opposta ad una teoria ma una vera e propria teoria. Allo Stato che, secondo i liberali, interviene solo laddove i privati non sono in grado di conseguire o conseguirebbero meno efficacemente i risultati delle proprie attività, questa teoria contrapponeva uno Stato «propulsore o direttore dell’attività economica dei singoli», che sostituisce «l’iniziativa collettiva, regolata, statale, burocratica a quella libera degli individui e delle associazioni spontanee». E questo, secondo Einaudi, non è altro che teoria socialista. Il liberalismo economico, invece, riconosce che l’intervento dello Stato, in alcuni sporadici casi, possa essere proficuo come ad esempio per sostenere imprese giovani. Ma i liberali veri si oppongono a che protegga “tutte” le imprese incapaci di vivere con le proprie forze perché così sarebbe uno stato «paterno, distributore e disciplinatore di risparmi privati». Reputano, cioè, che la protezione delle industrie non sia un dovere dello Stato, ma possa essere un’«eccezione rarissima, da giustificare di volta a volta con motivi fondati». Anche in periodi di crisi, ad esempio, lo Stato avrebbe dovuto rimanere da parte, anziché intervenire per salvare banche o imprese. Perciò concordava con De Stefani sul fatto che «i fallimenti, quando ci devono essere, sono una magnifica cosa», perché sono il sintomo del risanamento, dell’eliminazione degli elementi malati dal mercato.

L’appoggio di Einaudi alla politica economica e finanziaria del fascismo culminò con il discorso del ministro delle Finanze alla Scala del 13 maggio 1923. De Stefani, si congratulava Einaudi, aveva parlato «come un vecchio liberale di razza; non di quei pseudo liberali i quali facevano consistere la loro virtù nel secondare le voglie demagogiche delle masse illuse, nel concedere a tutti, nel temere l’impopolarità; ma di quegli altri i quali stabilivano l’autorità dello stato facendolo rientrare nei suoi confini e la fortificavano col consentire libertà di iniziativa alle forze individuali e sociali».

Nel novembre del 1923, tuttavia, Einaudi per la prima volta, affermò il suo disappunto commentando l’opera di De Stefani. Si dichiarò ancora sostenitore dell’azione del ministro per il risanamento del bilancio e sostanzialmente d’accordo con la politica delle entrate, salvo sollevare due critiche: l’abolizione dell’imposta di successione che nessuno chiedeva e, soprattutto, «l’eccessiva timidità nella riduzione dei dazi doganali». Einaudi era contrario ai dazi doganali per tutte le ragioni sopra esposte ma anche perché si trattava di un’imposta pagata dai contribuenti a favore di pochi industriali ed agricoltori, con la quale, dunque, si riduceva l’ammontare imponibile per lo Stato. Sarebbe stato, invece, possibile arrivare all’abolizione definitiva della tariffa doganale del 1921, «quella cosa mostruosa»; abolizione che il ministro non ebbe il coraggio o la forza di attuare. L’articolo in cui Einaudi esponeva queste critiche era emblematico di una vera e propria svolta in quanto egli, che aveva già iniziato a distaccarsi progressivamente dalla politica fascista a partire dalla metà del 1923 criticando in particolare, anche se in modo molto sporadico, i progetti di riforma costituzionali, ora si dissociava dal governo anche per quel che riguardava la materia che maggiormente lo aveva fatto avvicinare al fascismo: la politica economica. De Stefani, nonostante tutto il suo impegno, non era riuscito ad agire proficuamente sul versante della spesa, o meglio, «per esprimersi con parole semplici, si (aveva) l’impressione che mentre il ministro con i suoi controllori corrod(eva) e lima(va) e riduce(va) per uno, forze più potente di lui lo persuad(evano) a rassegnarsi a spese di centinaia di milioni». Infatti, spiegava Einaudi, non poteva non spaventare colui che crede che le economie sono la sola vera opera di salvezza del bilancio, l’incremento delle spese militari, la realizzazione di lavori pubblici inutili o prorogabili, di una politica, mai scomparsa, di sussidi alla marina mercantile, la complessità della burocrazia, lo spreco di denari pubblici dei salvataggi bancari; tutte cose che Einaudi aveva sempre vivacemente combattuto. Peggio ancora erano, da questo punto di vista, i decreti-legge sulle borse di febbraio e marzo 1925, un «errore grave», una «legislazione affrettata, inutilmente interventista» che anziché tutelare il mercato dei cambi lo turbava e anziché esaltare i valori di stato li deprimeva.

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2. La difesa dello Stato liberale

La rottura definitiva di Einaudi con il regime avvenne con il delitto Matteotti. Non a caso, durante l’estate del 1924 i suoi articoli si fecero più frequenti e più sentiti, ed iniziava allora una difesa costante ed insistente dello Stato liberale. Tuttavia, l’inizio del suo distacco risaliva alla metà del 1923 e da allora le critiche al regime, pur sempre in toni molto cauti ed eleganti, si erano fatte più intense.

2.1. Stato liberale e stato fascista

Nel suo famoso commento al discorso di De Stefani del maggio 1923, Einaudi aveva preso le distanze dai propositi fascisti in materia di riforma costituzionale. Dopo aver lodato con grande enfasi l’operato del governo in politica finanziaria, aggiungeva che siamo stati e rimaniamo oppositori di certe tendenze e metodi di politica interna e di qualche pericolosa riforma costituzionale che si dice voluta dall’attuale governo; ma l’opposizione nostra in quel campo è dettata dalle medesime ragioni di principio le quali ci spingono a lodare l’opera riformatrice del governo nel campo della finanza. Noi non possiamo contraddirci; ché nella vita tutto è connesso: politica e finanza, relazioni estere ed economia nazionale. Non è possibile essere liberali in finanza, epperciò approvare ed appoggiare quanto fa il governo agendo secondo principii liberali; ed illiberali in politica, approvando propositi di riforme istituzionali che sostituirebbero il dominio di un solo (o di una casta) al regime di discussione e di controllo voluto dallo Statuto vigente.

Il regime di discussione e di controllo voluto dallo Statuto vigente era sempre stato difeso da Einaudi. Il fatto che egli non si fosse espresso sull’evoluzione del regime dalla fine del 1922 alla metà del 1923 non significava che avesse abbandonato la dottrina liberale. Lo testimoniano alcuni interventi prima e subito dopo la formazione del governo Mussolini. Mentre nell’estate del 1922 correva voce che l’unica via di salvezza per l’Italia fosse la dittatura di fronte allo spettacolo di incapacità del governo e del parlamento, Einaudi rispose fermamente che «l’unica garanzia di salvezza contro l’errore, contro il disastro non è la dittatura; è la discussione. Noi non siamo degli adoratori del regime parlamentare e dei tipi di governo che escono dai parlamenti. Ma diciamo che essi sono il minore dei mali possibili perché consentono la discussione. La verità non è mai sicura di sé stessa, se non in quanto permette al principio opposto di contrastarla e di cercare di dimostrarne il vizio». E nel novembre del 1922, mentre il governo Mussolini chiedeva i pieni poteri in materia fiscale, egli si oppose sottolineando come l’importanza del Parlamento non stia nel rappresentare la volontà popolare o nel prendere delle decisioni ma nel dare pubblicità ai problemi politici, nel consentire di discutere e criticare le proposte dei governanti. Questo non significava che il parlamentarismo non avesse dei difetti, a cominciare da quello dell’inefficienza, ma che la pubblicità che dà dei problemi politici e la discussione che ne scaturisce è «l’unica garanzia della vita e della libertà e degli averi dei cittadini» perché rappresenta un elemento di controllo pubblico e l’unica possibilità per l’uomo della strada di farsi sentire. Si opponeva dunque ai pieni poteri «non per amore del Parlamento ma per tutela della gente ordinaria» e perché l’esperienza della guerra aveva dimostrato che non erano adatti ad un buon esercizio del potere. Ebbe nel 1923 l’occasione di ribadire come il regime rappresentativo fosse ai suoi occhi un male minore – commentando la seconda edizione del libro di Mosca, Elementi di scienza politica – perché «offre forse la combinazione praticamente migliore del sistema dei contrappesi e dei compromessi, per cui il potere supremo non è libero di agire a sua posta, ma esistono parecchi poteri ognuno dei quali controlla e limita gli altri».

Questi principi, Einaudi li avrebbe ribaditi con forza all’indomani del delitto Matteotti, precisando la sua idea di stato liberale. Attraverso una serie di articoli, Einaudi sottolineava come la vera novità dello stato fascista non fosse il voler creare uno stato basato sulle corporazioni, ma stesse nell’assicurare a taluni sindacati o corporazioni il monopolio “legale”, sancito dallo stato, dell’organizzazione politica e nell’imporre dall’alto e con la forza la sua verità. Tale sistema mirava a “cristallizzare” il potere nelle mani di chi fosse riuscito, nel momento della sua formazione, ad impadronirsi delle corporazioni. Infatti, una volta meglio definito il sistema delle corporazioni – cioè il loro numero, il peso relativo di ciascuna, la «classificazione» degli uomini in ognuna di essa ecc. – sarebbe stato molto difficile modificare l’equilibrio di potere iniziale perché i corpi costituiti, gelosissimi dei propri privilegi, avrebbero guardato con sospetto ai nuovi mestieri o nuovi interessi e la vita politica si sarebbe ridotta a patteggiamenti tra le corporazioni più potenti per dividersi il potere diventato «fonte di ricchezza». Tendeva quindi il nuovo stato a creare un sistema «bloccato», immobile, chiuso, incapace di adattarsi alle «mutazioni incessanti dell’organismo sociale». Un sistema che poi, lontano dal creare uno stato forte e moderno, avrebbe portato lo stato e la società stessa alla rovina ed alla decadenza perché «tolta di mezzo l’opinione pubblica, distratte le menti dalla discussione dei grandi problemi nazionali, concentrati gli sforzi degli individui nella difesa dei propri interessi di gruppo contro i gruppi concorrenti al saccheggio dello stato, e contro le minacce dell’insorgere di nuove forze selvagge non classificate, gli uomini via via si avvilirebbero alla condizione di mendicanti».

Al contrario dello stato fascista, lo stato liberale, spiegava Einaudi, «ha una sola fede: che il diritto di governare spetta a chi abbia maggior forza di persuasione, a chi abbia un più alto ideale di vita; a chi, per attuare questo ideale abbia la forza di farne diuturna propaganda, di imporne, colla persuasione, l’accettazione al popolo così da ottenerne il voto e il consenso». Lo stato liberale dunque, grazie alla libertà illimitata di discussione, dà a chiunque la possibilità di convincere con le proprie idee e di dimostrare che chi sta al potere è in errore. Vuole la verità, nella convinzione però che «verità è quella di cui è lecito ad ogni momento dimostrare l’errore». Nessuna posizione «acquisita», dunque, per individui o gruppi d’interesse. Nessun monopolio del potere politico. Non bisogna credere, aggiungeva, che il governo nello stato liberale sia democratico. Per dirla con Mosca, esso è e rimane sempre nelle mani di una «minoranza organizzata». La specificità – e la virtù – dello stato liberale rispetto ad altri tipi di regimi sta nel garantire che tale «minoranza organizzata» un giorno potrà essere sostituita da un’altra, più brava nel convincere e creare consenso attorno alle proprie idee. Offre, cioè, «alle minoranze animate da alti ideali (…) il mezzo migliore per imporsi ad una collettività disorientata e fiacca». Garantisce dunque l’alternanza della classe politica grazie al principio che ne sta alla base: la libera discussione. Lo stato liberale, infine, concorre all’elevazione morale e spirituale degli individui, al loro «perfezionamento» e attraverso di esso, al progresso della società. Agisce, infatti, «partendo dalla premessa (…) che l’individuo debba essere messo nelle migliori condizioni per sviluppare la pienezza della sua personalità, per arricchire di nuovi beni, materiali e morali, se medesimo e la collettività, per concorrere a collaborare, singolarmente o associatamente, nelle forme più svariate e adatte ai singoli fini, con gli altri individui appartenenti alla medesima collettività». E crede nella fecondità, nella maggiore efficacia di un «perfezionamento» che non sia imposto dall’alto ma che «venga dal basso e consista in una elevazione spirituale, intima, profonda dell’individuo, reso capace di vivere una vita collettiva ognora più ricca ed alta. Perciò l’individuo deve creare e continuamente ricreare i propri organi di difesa, di cooperazione, di produzione; deve ogni giorno perfezionarli per non vederli sopraffatti da altri; deve diventare un cittadino sempre migliore, perché padre, produttore, terriero, politico sempre più vigile ed operoso e consapevole». Perciò, lo stato non si deve sostituire all’individuo con un’organizzazione paternalistica ma lasciarlo agire liberamente e intervenire solo quando si è persuaso che «l’individuo libero di agire sopraffà altrui e va contro all’interesse collettivo».

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2.2. La classe politica

Nel confrontare stato liberale e stato fascista, Einaudi partiva dal presupposto che la bontà di un regime sta nella sua capacità di esprimere una classe dirigente «degna di reggere la somma delle cose dello stato». E svolgendo la sua comparazione concludeva che il regime rappresentativo, lo stato liberale, era il più adatto a selezionare una classe politica all’altezza del proprio compito che è, sostanzialmente, quello di «salvare la società dalla decadenza». Una classe politica, cioè, che abbia una certa elevazione morale e culturale e che si dedichi al bene comune. Questo perché solo in quel tipo di regime, essa è costretta a migliorare continuamente se stessa perché «ogni idea, ogni tendenza, ogni interesse, giunto al governo attraverso il regime di pubblica discussione», deve continuamente temere «di essere soppiantato dall’idea avversa, dalla tendenza opposta, dall’interesse contrastante». Perciò «l’idea al governo, per vivere, deve sforzarsi a vivere sempre meglio; deve coll’opera propria dimostrare di essere operosa e viva e più feconda delle idee concorrenti».

Einaudi tuttavia si era convinto da tempo che, benché la democrazia liberale fosse il regime più adatto ad esprimere una classe dirigente di qualità, non sempre ci riusciva. Ed infatti, considerava che il problema principale dell’Italia liberale non era tanto nelle sue istituzioni le quali, per quanto migliorabili, rimanevano un male minore, quanto nella sua classe politica. Si era augurato che la nuova classe politica formatasi durante la guerra avrebbe sostituito quella corrotta ed ignorante che aveva governato l’Italia dopo il 1876, ma era stato nell’immediato deluso. Da qui, in parte, la sua iniziale attrazione per il fascismo. Nel 1922, infatti, condivideva la volontà dei fascisti di creare una nuova classe politica perché «quella attuale, che Mussolini correttamente definisce giolittiana, perché nella sua maggioranza si è formata sotto l’influenza spirituale del vecchio capo piemontese, è stracca, sciupa, vinta (…) Bisogna creare una nuova classe politica, forte, consapevole dei bisogni e delle energie del paese, risoluta a condurre l’Italia di Vittorio Veneto verso i suoi alti destini». Il nuovo governo non avrebbe dovuto dipendere «dall’inchinarsi alle bramosie parlamentari» ma avrebbe tratto la sua forza «dal suo saper comprimerle e purificarle». La classe politica liberale infatti era «caduta in collasso» perché «una falsa nazione di postulanti di ponti (…), di onorificenze, di sussidi, di dazi doganali (…), di salvataggi, aveva dato ad essa l’impressione di una onnipotenza inesistente (…) quando era semplicemente mediocre». Si era scordato il suo dovere principale che è quello di servire lo stato, di creare e gestire pensando ai posteri e non ai viventi ed ha preferito distribuire i beni e i favori creando in questo modo lo stato immorale che è debole e corrotto. E concludeva ammonendo Mussolini di star fermo «nello scopo supremo di ritornare lo stato alla sua vera potenza che è di compire gli uffici suoi proprii».

Tuttavia, fu presto deluso anche dai capi fascisti per la loro mancata attenzione per la formazione di una classe politica di qualità. Recensendo nel giugno 1923 il libro di Mosca, Elementi di scienza politica, annotava come il «vizio fondamentale» dei regimi non rappresentativi o di quelli dove la rappresentanza politica è tratta dalle classi professionali stava nel trarre la propria classe dirigente «da una sola sorgente», nel creare una classe politica «uniforme, burocratica, asservita allo stato che essa è chiamata a reggere e ad amministrare» e la cui fortuna dipendeva dalle ricchezze che riesce a trarre dallo stato medesimo. Al contrario, lo stato rappresentativo, era fondato sull’esistenza di «forze indipendenti e distinte dallo stato medesimo»; la sua essenza stava nella creazione di una classe politica «variegata, colta, economicamente indipendente». Si augurava ancora che la nuova generazione di classi medie, sorta durante la grande guerra e nel serbatoio della quale il fascismo reclutava la maggior parte della sua élite, fosse in grado di dare all’Italia quella classe dirigente colta, indipendente e capace di cui aveva bisogno

Tuttavia quando all’inizio di agosto del 1924, prese la penna per condannare gli industriali per il loro silenzio di fronte al delitto Matteotti, constatò che tale generazione non si era ancora elevata al livello di educazione politica delle generazioni precedenti e si rammaricava che essa avesse potuto pensare che era meglio la dittatura e la violenza alla persuasione per assicurare la pace sociale. Einaudi era infatti convinto che la borghesia fosse la classe sociale destinata naturalmente ad essere classe dirigente «perché essa altro non (era) se non il fiore degli uomini più attivi, più intelligenti, più sani moralmente i quali organizzano, risparmiano e si elevano ogni giorno dalle file del lavoro». Tuttavia, aggiungeva che «di nulla hanno tanto bisogno le classi dirigenti italiane nel momento presente quanto di un forte e ben organizzato partito del lavoro che le sospinga che le punga e le costringa a purificarsi e ad innalzarsi». In altri termini, «una massa lavoratrice indipendente, consapevole ed organizzata è la prima condizione perché le classi dirigenti si mantengano alacri, sane e progressive»

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2.3. I conflitti del lavoro

A partire dalla fine del 1923 Einaudi tornò ad occuparsi di conflitti del lavoro. Che i fascisti volessero trovare un equilibrio perfetto affinché cessassero le lotte tra imprenditori ed operai nell’interesse di tutti era sicuramente lodevole, spiegava Einaudi in un saggio della fine del 1923 scritto per Gobetti, ma lo era meno il fatto che volessero «imporre» tale equilibrio dall’alto. Da questo punto di vista, il fascismo non era altro che una nuova forma di collettivismo in quanto avrebbe voluto assicurare la pace sociale «sotto la guida di qualche interprete autorizzato dell’interesse supremo nazionale». L’equilibrio, invece, secondo Einaudi andava «conquistato», raggiunto attraverso discussioni e lotte. Solo così sarebbe stato meglio accettato da tutti, più stabile e più duraturo. Tuttavia, continuava Einaudi, affinché l’equilibrio durasse, era necessario che fosse costantemente minacciato. Non poteva, quindi, esistere equilibrio «nel monopolio, nella soppressione di diritto o di fatto degli avversari». O meglio, il monopolio di per sé poteva anche esistere se costituito spontaneamente, ma ciò che non era ammissibile era che lo stato lo sancisse «legalmente», vietando ad altri di combatterlo e di distruggerlo. Infatti, finché il monopolio, padronale od operaio è libero, finché è lecito a chiunque di criticarlo e tentare di abbatterlo, può esso recare qualche danno; ma è danno forse non rilevante e transitorio. La condizione necessaria di un equilibrio duraturo, vantaggioso per la collettività, vantaggioso non solo agli industriali ed agli operai organizzati, ma anche a quelli non organizzati, non solo a quelli viventi oggi, ma anche a quelli che vivranno in avvenire, non è l’esistenza effettiva della concorrenza. È la possibilità giuridica della concorrenza. Altro non si deve chiedere allo stato, se non che ponga per tutti le condizioni per farsi valere, che consenta a tutti la possibilità di negare il monopolio altrui.

Se quindi Einaudi era d’accordo sull’obbiettivo dell’equilibro – pur sottolineando quanto incostante esso fosse per natura –, egli invece non condivideva le modalità proposte dal fascismo e, in particolare, il fatto che, col pretesto della pace sociale, esso stava pian piano soffocando le libertà fondamentali, imponendo con la forza unanimità e consenso. Lo faceva malmenando il diritto di associazione col decreto del 24 gennaio 1924 sulla vigilanza sulle associazioni operaie. Se la «vigilanza» fosse stata giuridica, cioè affidata al magistrato in virtù di leggi uguali per tutti, sarebbe stato un’ottima cosa, ma col decreto essa era per definizione politica in quanto si dava al prefetto e al ministro degli interni autorità per ispezionare, revocare, sostituirsi ai consigli di amministrazione, gestire e liquidare il patrimonio delle associazioni operaie, e solo di esse. Il diritto allo sciopero era diventato un vago ricordo perché, come notava Einaudi, se le corporazioni erano – come recitavano i fascisti – uno strumento per risolvere in modo pacifico i conflitti tra imprenditori ed operai, era difficile verificarlo dato che «dall’ottobre 1922 finora è mancata una condizione essenziale di giudizio: la libertà degli operai di associarsi a loro piacimento». Ma quello che maggiormente rammaricò Einaudi fu il vedere gli industriali preferire questa «pace sociale» alla libertà politica. Che essi aspirassero alla tranquillità e al rispetto dei propri beni era assolutamente legittimo, ma questo “diritto” al rispetto del loro lavoro e dei loro beni, loro non avrebbero dovuto «chiederlo alla repressione delle altre forze sociali» bensì «conquistarselo giorno per giorno con una dura fatica di persuasione e di discussione» perché solo «così e non altrimenti si reggono e progrediscono le società civili moderne».

La lotta, insomma, la libera competizione, era fondamentale non solo nel campo economico dove spinge le imprese a migliorarsi costantemente, dove, in altri termini, è fattore di produzione, di crescita e di creazione di ricchezza. Era fondamentale anche, e forse soprattutto, per il progresso delle società e per la crescita morale e spirituale degli individui. Il liberalismo, spiegava, è fede nell’iniziativa individuale, nell’associazione liberamente consentita per creare uno strumento di cooperazione, di difesa degli interessi comuni, «nel perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri». Prefazionando qualche mese dopo il libro di J.S. Mill, La Libertà, «in un momento nel quale il diritto di critica, di non conformismo, le ragioni della lotta contro l’uniformità hanno urgente bisogno di riaffermarsi», egli tornava a riaffermare «la giustificazione logica del diritto al dissenso e la dimostrazione dell’utilità sociale e spirituale della lotta»: «sillabo, conformismo, concordia, leggi regressive degli abusi della stampa sono sinonimi ed indice di decadenza civile. Lotte di parte, critica, non conformismo, libertà di stampa preannunciano le epoche di ascensione dei popoli e degli stati»

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2.4. La riforma dell’Università

Un altro tema sul quale Einaudi espresse le proprie perplessità riguardava la riforma dell’Università. Egli lodava una serie di elementi della riforma in quanto rappresentavano un «aumento della libertà e della indipendenza di cui vive la scienza e senza della qual non si può concepire alcun suo progresso» come, ad esempio, l’autonomia finanziaria delle università, la possibilità per i corpi accademici di organizzare gli studi nel modo più opportuno al progresso degli studi stessi, la libertà di creare nuove università. Sottolineava, tuttavia, come questi provvedimenti fossero accompagnati da una serie di altri «istituti particolari» come il giuramento e il sistema di reclutamento dei professori, nonché l’esame di stato, in contraddizione con quello stesso principio di libertà ed indipendenza.

In primo luogo, dunque, Einaudi notava come il giuramento non solo contrastava col principio, contenuto nella legge, della libertà di insegnamento; principio senza il quale non ci può essere verità e progresso scientifico dato che «l’unica garanzia della verità e del progresso scientifico è la libertà di tutto negare»; ma era anche in contraddizione con gli obiettivi meritocratici che la riforma si proponeva di raggiungere poiché in nessun modo avrebbe consentito di selezionare professori più bravi e meritevoli. In secondo luogo, Einaudi criticava il potere dato al ministro della pubblica istruzione di scegliere direttamente o indirettamente professori, presidi, rettori. Il sistema vigente, per quanto imperfetto, aveva secondo lui dato ottimi risultati. Nessuno – professori, rettori, presidi – poteva entrare senza essere stato scelto dal corpo dei professori, attraverso un sistema di reclutamento basato sulla cooptazione, che aveva assicurato, dopo lunghe battaglie «l’esistenza di un ceto aristocratico, sottratto ai partiti politici, indipendente dal governo e dalla burocrazia», cioè, in definitiva, «l’unica garanzia sostanziale di vera indipendenza». Infine, Einaudi criticava il sistema dell’esame di stato. Che fosse necessario dare un esame “pratico” per poter esercitare una professione, come già esisteva ad esempio per l’avvocatura o con i concorsi pubblici, non era di per sé una cattiva cosa. Dato, cioè, che il valore della laurea è del tutto relativo poiché dipende da chi la rilascia, verificare il livello di preparazione all’ingresso di una professione poteva essere considerato come una garanzia. Anzi, Einaudi considerava – e in questo concordava con il testo della riforma –, che non solo la laurea non poteva avere un valore pratico né conferire nessun diritto esclusivo (neanche per la candidatura a concorsi pubblici) ma che in realtà la laurea doveva avere «esclusivamente» il valore di «qualifica accademica» perché «solo così le lauree diventeranno qualcosa di serio e di alto perché vi aspireranno solo coloro che vorranno sapere». Quello che criticava Einaudi era la connessione che si voleva creare tra la laurea (esame teorico-scientifico) e l’esame di stato (pratico) e più specificamente il fatto che ogni anno sarebbe stata pubblicata una graduatoria delle università virtuose, ovvero una graduatoria delle università che avrebbero fornito il numero più elevato di promossi all’esame di Stato. In questo principio, Einaudi coglieva un grave pericolo per la ricerca scientifica perché avrebbe stimolato la concorrenza tra le università nella preparazione all’esame di Stato. Concorrenza in astratto ottima perché avrebbe spinto le università a preparare al meglio i candidati. Ma «poiché l’esame di stato deve essere professionale, lo scopo professionale sarà il primo, forse l’unico al quale le università saranno costrette a badare», e non quello scientifico. Le università daranno la precedenza all’insegnamento di nozioni pratiche, all’accumulazione delle conoscenze pratiche rispetto al ragionamento. Per dirla con Einaudi, i professori diventerebbero semplici «ripetitori» e «preparatori» di esami si Stato e gli studenti dei «pappagalli». Siccome il compito dell’università è di fabbricare delle teste pensanti, di insegnare a ragionare, di suscitare la ricerca e conseguentemente stimolare le grandi scoperte, essa non può ridursi alla preparazione ad un esame pratico.

Proprio considerando che l’università deve insegnare a ragionare e non ad accumulare conoscenze, Einaudi tornò qualche anno dopo sul tema per criticare alcune modalità di valutazione della ricerca le quali insistono sulla quantità e non sulla qualità. Non si valuta, cioè, un bravo ricercatore sul numero dei suoi scritti, sull’ampiezza del tema da lui trattato: «chi dimostra di vedere in un problema economico, dimostra di essere capace di vedere in tutti i problemi». Ancora di meno si può valutare un bravo ricercatore esaminando il punto di vista dal quale parte la sua analisi. Riferendosi nello specifico ai sostenitori del «corporativismo» come chiave di lettura di qualsiasi fenomeno, Einaudi ribadiva che la migliore soluzione di un problema è quella alla quale si arriva dopo aver escluso le altre possibili soluzioni, discutendo per capire quale sia quella più o meno conforme all’interesse generale. In altri termini, il socialismo, il corporativismo non possono essere punti di partenza o di vista nell’analisi di un problema, ma punti di arrivo dopo aver eliminato altre soluzioni concorrenti.

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3. La politica estera: i debiti interalleati e il problema della pace

 

3.1. Costruire un edificio di “coscienza internazionale”: l’organizzazione della pace

Einaudi seguì con grande interesse i tentativi per “organizzare” la pace a livello internazionale. Era infatti convinto che la resurrezione della Germania e la costruzione di relazioni pacifiche tra i popoli europei dovesse passare attraverso una cooperazione internazionale. Solo la solidarietà e la federazione tra nazioni indipendenti avrebbe assicurato la salvezza dell’Europa. Salutò «il dibattito grandioso nel quale si discute e si decide della vita delle generazioni nascenti, delle sorti della civiltà», invitando i rappresentanti degli ex belligeranti a costruire innanzitutto «un edificio di coscienza internazionale». La migliore soluzione teorica, cioè, per assicurare la pace, era l’arbitrato ovvero l’obbligo per tutti gli stati di sottoporre le proprie controversie a una corte suprema di giustizia. Ma siccome per creare una coscienza morale a livello internazionale ci vuole tempo, si sarebbero dovute prendere nel frattempo misure concrete volte a dare sicurezza ai vari stati. Infatti, spiegava Einaudi, «finché la Società delle nazioni non sia diventata un superstato, con esercito proprio e finché quest’esercito non sia superiore di forze a quelle di qualunque aggruppamento dei singoli stati sovrani – e noi siamo lontanissimi da tale meta, se pure questa è una meta – si porrà il problema: come potrà lo stato debole difendersi dagli assalti di uno forte deciso a passare sopra alle regole internazionali?». La risposta stava secondo Einaudi soprattutto nei trattati «speciali» e pubblici, tali cioè da dissuadere uno stato da aggredire un altro sulla base della consapevolezza che se lo facesse, non uno ma più stati si sarebbero schierati per respingere il suo attacco.

Nonostante il suo ottimismo e il suo entusiasmo nel seguire le varie conferenze internazionali, le difficoltà nel raggiungimento di un’intesa tra i vari popoli non gli sfuggivano: non solo la profondità degli antagonismi ereditati dalla storia e talvolta rianimati da politiche poco opportune (come l’occupazione francese della Ruhr o la questione delle riparazioni/debiti di guerra), ma anche gli egoismi dei singoli stati convinti di avere un interesse maggiore a non farsi coinvolgere in un’intesa internazionale. Perciò, dopo aver guardato con interesse alla Sdn, notò ben presto che l’assenza di alcune delle principali potenze e le riluttanze di altre avrebbero reso molto difficile il suo compito. Se in un primo momento si augurò che l’Italia potesse prendere la leadership del movimento per la pace, dovette poi costatare, alla fine del 1925, la situazione di stallo nella quale la Società era caduta.

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3.2. Il problema dei debiti interalleati

Einaudi dedicò poi non pochi articoli alla questione dei debiti interalleati, i debiti cioè contratti dall’Italia – e dalle altre potenze vincitrici europee – nei confronti di Gran Bretagna e Stati Uniti. Non cessò mai di chiedere la loro cancellazione e di sostenere l’operato del governo in tal senso. Infatti, Einaudi muoveva innanzitutto dalla considerazione secondo la quale i debiti interalleati «non (erano) veri debiti ma (dovevano) essere considerati alla stregua di sacrifici sostenuti solidariamente per una causa comune». In altri termini, non si poteva mettere nella bilancia solo i debiti pecuniari dovuti dai paesi del continente europeo – Belgio, Francia, Italia – nei confronti dei loro alleati anglosassoni, ma andava considerato anche il debito degli anglosassoni nei confronti dei popoli del continente europeo per il loro contributo alla causa comune in termini di sacrifici umani e di distruzioni materiali. Per cui l’Italia doveva difendere le proprie ragioni in sede internazionale muovendo innanzitutto da considerazioni morali.

L’opportunità di cancellare o quanto meno ridurre i debiti risultava anche, tuttavia, da considerazioni sulle capacità economiche dei paesi interessati: il pagamento di tali debiti avrebbe rallentato la ripresa, indebolito le monete e creato instabilità e malumori sui quali sarebbe stato difficile costruire una pace duratura. Infatti, se all’indomani della Grande Guerra, Francia, Italia e Belgio non erano in grado di rimborsare i debiti, per poterlo fare contavano, oltre che su una ripresa generale dell’economia, sul pagamento da parte della Germania delle riparazioni previste dal Trattato di Versailles. Come avrebbe potuto l’Italia, ad esempio, pagare i 22-23 miliardi che doveva agli Stati Uniti ed alla Gran Bretagna se, a sua volta, la Germania non pagava le riparazioni? Ciò avrebbe comportato dire addio al pareggio di bilancio e alla stabilità della moneta. E non solo, sarebbe stato anche ingiusto ed immorale non voler vedere la «logica indissolubile connessione tra riparazioni e debiti interalleati». Era cioè immorale cancellare o ridurre le riparazioni del paese vinto ma pretendere dagli alleati vincitori, che avevano subito distruzioni spesso maggiori della stessa Germania, che pagassero dei «falsi» debiti.

Perciò, pur non approvando l’occupazione francese della Ruhr – sia perché frenava la ripresa del commercio europeo sia perché non perseguiva gli interessi della pace – tuttavia la spiegava sulla base dell’ingiustizia generata dal non voler riconoscere quella connessione. Inoltre, anche se espresse un giudizio cauto ma tutto sommato positivo sul piano Dawes, ribadì però ripetutamente e con fermezza l’«assurda» mancanza di un accordo sui debiti interalleati. Così l’Italia si ritrovava a dover versare a Stati Uniti e Gran Bretagna, per i soli interessi, più o meno l’ammontare complessivo che la Germania avrebbe dovuto pagare in un anno.

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4. Problemi monetari e riflessione sulla crisi

Nel 1925, Einaudi si occupò essenzialmente di problemi monetari. In relazione alla crisi della lira, ribadì con energia l’insensatezza dei debiti interalleati che, ora, mettevano seriamente in difficoltà le monete europee. Fu anche estremamente critico nei confronti del governo – e di De Stefani in particolare – che di lì a poco si sarebbe dimesso. Condivideva la priorità data alla stabilizzazione della lira e alla necessità di ridare fiducia ai mercati. Insisteva tuttavia, qualunque fosse stata la soluzione immaginata, sulla necessità di eliminare le «circostanze perturbatrici». Dal punto di vista economico, bisognava evitare le novità improvvise di decreti e regolamenti, che destavano incertezza e paura e facevano rialzare i cambi. I decreti sulle borse del febbraio e marzo 1925 avevano fatto, da questo punto di vista, un male «indicibile». Perciò «niente decreti, niente regolamenti, niente vincoli, niente monopoli». Dal punto di vista politico poi, bisognava evitare «le minaccie continue al diritto vigente» e «le perturbazioni di ordini costituzionali». Concludeva che se c’era consapevolezza nel fato che «tutto ciò che rende gli animi timorosi dell’avvenire, che mette in forse la libera e pacifica convivenza di tutte le opinioni e di tutti i partiti nello stato sovrano, che divide i cittadini in eletti e reprobi semina incertezza e sfiducia», allora De Stefani avrebbe avuto «l’obbligo di trarre le logiche conseguenze della costatazione».

Si trattava per Einaudi delle ultime battute critiche nei confronti del regime. Nel novembre 1925, si chiudeva la sua collaborazione col Corriere della Sera. Proseguì la sua attività pubblicistica dalle pagine della Riforma sociale da lui diretta ma i suoi commenti sull’attualità si fecero molto rari ed apparsero solo quelli benevoli nei confronti della politica del regime data l’impossibilità di esprimere liberamente la propria opinione pena il divieto di pubblicazione. Tali pareri favorevoli, molto rari, riguardavano la politica monetaria. Espresse infatti un giudizio sostanzialmente positivo sulla riforma monetaria del 1927 attraverso la quale il governo aveva realizzato una rivalutazione della lira (“quota novanta”) e una politica di stabilizzazione. All’inizio degli anni trenta, poi, in una serie di articoli sulla grande crisi, egli dimostrò di apprezzare la politica del direttore della Banca d’Italia che sembrava aver posto fine a quella politica dei «baliatici», e cioè un sistema complesso volto a salvare banche ed imprese in difficoltà con l’effetto di rallentare la risoluzione delle crisi.

Oltre queste riflessioni sulla crisi e sulla politica monetaria, l’osservatore attento del suo tempo lasciò il posto allo studioso di economia e di finanza e poi, quando La Riforma sociale fu vietata nel 1935 all’appassionato di storia sulle pagine della Rivista di storia economica che fondò nel 1936. Durante quelli che il suo biografo Riccardo Faucci ha chiamato gli “anni del raccoglimento”, Einaudi si dedicò essenzialmente a studi teorici, approfondendo in particolare la sua teoria dell’imposta, difendendo le concessioni ortodosse della politica economica attraverso una critica delle teorie di Keynes e di quelle corporatiste, ed avviando un dialogo con Croce sui rapporti tra liberalismo politico e liberismo economico.

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