Opera Omnia Luigi Einaudi

Da esiliato a presidente. Luigi Einaudi nella storia dell’Italia repubblicana

di Vera Capperucci

 

1. Dalla caduta del regime fascista alla fuga oltre le Alpi

L’importanza di volgere lo sguardo al passato per progettare il futuro segna il ritorno di Einaudi all’attività giornalistica dopo il parziale silenzio imposto dal fascismo. Uno dei primi articoli pubblicati dopo la destituzione di Mussolini sulle colonne del Corriere della sera il 22 agosto 1943, si apriva, infatti, con l’efficace allocuzione «Heri dicebamus», orientata a recuperare, attraverso il richiamo al problema dell’inflazione, una ideale continuità tra le idee professate prima della dittatura e quelle da difendere nel nuovo quadro politico e istituzionale apertosi con la transizione. Si trattava, certamente di una fase segnata dalle incertezze sulle scelte da compiere nella quale, tuttavia, Einaudi non mancava di sottolineare l’urgenza di un comune impegno da assumere, come italiani, in vista della riconquista delle libertà individuali e civili di cui il regime li aveva privati, nella convinzione che per la ricostruzione, dopo il disastro del ventennio, non occorresse attendere decenni ma fossero sufficienti alcuni anni. A cominciare dalla libertà di stampa, tema centrale nei primi scritti di questo periodo, passando poi attraverso il recupero delle tematiche economiche dettate dall’esigenza di lasciare liberi gli imprenditori economici di operare senza restrizioni per approdare alla difesa della libertà e del pluralismo sindacali come antidoti contro la subordinazione delle organizzazioni dei lavoratori alle logiche dettate dai partiti.

Le incognite dettate dalla transizione in atto inducevano ad essere cauti nelle previsioni sul futuro, ma fiduciosi e ottimisti sulle capacità degli italiani di chiudere con il ventennio e ricostruire il paese dopo i disastri della guerra. Si trattava, come Einaudi stesso avrebbe sottolineato in un articolo pubblicato sempre sul Corriere della sera l’8 settembre 1943 dedicato al rapporto tra economisti e classe politica, dell’enunciazione di principi generali e astratti che avrebbero dovuto trovare poi una traduzione concreta nelle scelte politiche da compiere ma che recuperava i tratti distintivi di quel particolare riferimento al liberalismo e al liberismo in campo economico che avrebbe contraddistinto il suo pensiero e la sua azione politica negli anni successivi.

Nel corso dei 45 giorni di governo Badoglio, Einaudi avrebbe ripreso e sviluppato in maniera più approfondita una parte di queste tematiche nelle pagine dell’opuscolo Lineamenti di una politica economica liberale, redatto su incarico di Alessandro Casati come bozza di programma liberale di politica economica nell’agosto del 1943 e diffuso dopo l’armistizio dell’8 settembre. Nel testo si ribadivano le condizioni essenziali per concorrere alla ricostruzione postbellica: non soltanto lotta alla plutocrazia, ai vincoli, ai privilegi, al latifondo, ma impegno costante nel favorire l’elevazione delle masse al fine di consentire a tutte le classi sociali di partecipare attivamente al governo economico della società. Libertà, dunque, contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata e, al contempo, garanzia della maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza. Lo scritto dava ad Einaudi l’opportunità di chiarire il complesso, e talvolta ambiguo, rapporto tra liberalismo politico e politica economica liberale. Si tratta di un tema sul quale egli stesso sarebbe tornato più volte negli anni successivi ma che già nella seconda metà del 1943 appariva definito nei suoi contorni principali: il liberalismo, lungi dall’essere una dottrina economica, rimaneva un saldo principio morale che non escludeva interventi di legislazione sociale volti ad «avvicinare i punti di partenza» offrendo opportunità di elevazione economica anche ai più poveri. Respinti gli estremi dell’assoluta eguaglianza e della assoluta disuguaglianza di ricchezza, occorreva creare le condizioni affinché il principio supremo della libertà individuale potesse essere garantito ed esercitato da tutte le classi sociali: la salvezza dei popoli nelle fasi critiche passava attraverso l’indipendenza di pensiero e di carattere.

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2. L’esilio in Svizzera

Il 22 settembre Einaudi, ricercato dai nazisti dopo l’invasione dell’Italia settentrionale, lasciava la città di Dogliani per recarsi in Svizzera dove sarebbe rimasto fino alla fine del 1944. Dell’esperienza come esule, comune a molti esponenti politici che avrebbero avuto un ruolo di primo piano nella storia dell’Italia repubblicana, rimangono importanti annotazioni nelle pagine dei Diari dell’esilio e, parzialmente, in una memoria che lo stesso Einaudi redasse per una rivista tedesca e pubblicata, nel gennaio del 1944, con il titolo Tagebuch einer Flucht aus Italien, Diario di una fuga dall’Italia. Il periodo trascorso in Svizzera gli consentì di entrare in contatto con l’ambiente intellettuale particolarmente vivace dei fuoriusciti e di proseguire con ancora maggiore continuità, nonostante la carenza di materiale di lavoro, la collaborazione con alcune testate giornalistiche, tra le quali il supplemento de La gazzetta ticinese, quotidiano di Lugano, redatto esclusivamente da rifugiati italiani e intitolato l’Italia e il secondo Risorgimento. Sulle pagine del periodico Einaudi avrebbe pubblicato numerosi e significativi articoli siglati all’inizio soltanto con una «e.» e, a partire dal 13 maggio del 1944, con il nome di battaglia di «Junius». Numerosi i temi affrontati negli scritti giornalistici e negli approfondimenti. La distanza dall’Italia, così come la comparazione con un diverso sistema politico, gli consentirono di avviare una riflessione più approfondita sulla possibile evoluzione del quadro politico italiano e di formulare previsioni più mature sulle sorti della transizione italiana. Nella stesura dei Lineamenti di un programma liberale, versione più matura della precedente bozza programmatica e pubblicata sul supplemento del 29 aprile 1944, venivano enunciati i principi informatori della futura azione politica: la difesa dell’indipendenza della stampa, il ritorno a un sistema di cambio aureo, la lotta ai monopoli, il rifiuto di qualsiasi idea di socializzazione, statalizzazione, nazionalizzazione e di qualsiasi condizione capace di ridurre nuovamente gli uomini alla condizione di servi, di schiavi, conformisti. Rispetto al precedente documento veniva inserito poi un riferimento esplicito alla regolamentazione del rapporto tra Stato e Chiesa, auspicando una revisione del Concordato del 1929 al fine di perfezionare il principio di reciproca separazione tra le due sfere di competenza. Si trattava, ancora una volta, di dettare le linee guida di un’azione che sarebbe spettato poi alla classe politica tradurre in scelte programmatiche, rivolgendo all’opinione pubblica un monito capace di risvegliare le coscienze in vista della ricerca del bene comune, al di là di divisioni ideologiche o politiche. Divisioni alle quali avrebbe dedicato un’attenzione specifica nell’articolo Limiti ai partiti che affrontava, per la prima volta in maniera esplicita la questione della presenza e del ruolo dei partiti nella vita politica italiana. In quelle pagine Einaudi recuperava parte delle motivazioni che, già nella prima metà del Novecento, avevano alimentato la diffidenza dei liberali nei confronti della nuova forma di organizzazione della lotta politica. Il netto rifiuto del modello di partito-chiesa, depositario di verità filosofiche, economiche e storiche andava di pari passo con l’altrettanto netta condanna del partito inteso come mera macchina elettorale. La partecipazione dei cittadini alla vita pubblica non poteva, né doveva essere, ridotta alla militanza nei partiti o alla elezione di uomini da essi designati: i partiti dovevano rimanere un mero strumento al fine di garantire una più efficace azione dei singoli individui che restavano i soli soggetti della vita politica. Il dominio dell’organizzazione, con le sue regole, con le sue finalità particolaristiche, con la sua fede, avrebbe finito per ostacolare non soltanto l’indipendenza e la libertà di espressione, ma la ricerca stessa del bene comune: il particolare avrebbe finito per prevalere sull’universale, così come la divisione avrebbe finito per oscurare la salvaguardia di quella unità necessaria a portare l’Italia fuori dalle macerie del fascismo e della guerra. Queste considerazioni lo inducevano a confrontarsi con i meccanismi che avrebbero consentito una eventuale degenerazione del ruolo dei partiti nel sistema politico. In primo luogo la questione della scelta del sistema elettorale. Da diversi punti di vista i mesi trascorsi in Svizzera rappresentarono per Einaudi l’occasione di anticipare, sebbene sotto forma di riflessione, molte delle posizioni che, una volta rientrato in Italia, avrebbe difeso attraverso l’impegno politico e pubblico. Gli esempi delle solide democrazie di matrice anglosassone lo inducevano a sottolineare i pregi del sistema maggioritario uninominale e denunciare i limiti propri del sistema proporzionale. In ossequio ad un ideale di giustizia astratta che riconosce la necessità di rappresentare tutte le voci e tutte le idee, la proporzionale non avrebbe fatto altro che rendere impossibile la formazione di governi forti e l’attuazione di programmi di lungo periodo, riducendo la vita politica ad un costante compromesso tra programmi contraddittori. Nella critica ai partiti e al sistema più congeniale per il riconoscimento della loro centralità, Einaudi riapriva ancora una volta la parentesi su quel modello liberale che la guerra prima, il fascismo poi, avevano distrutto introducendo, al contempo, elementi nuovi di riflessione quali, ad esempio, la rinnovata attenzione per il concetto di profitto sottratto all’equivoco generato dal marxismo classico, l’indipendenza della magistratura e delle università, l’abolizione dei dazi protettivi, l’unità monetaria stabile, la rinuncia all’idea anacronistica della sovranità assoluta dello Stato e il conseguente inserimento dell’Italia all’interno di una federazione europea che fosse al contempo entità politica ed economica. Al tema dello Stato, o più propriamente a quello della fine dell’autoritarismo statale, Einaudi avrebbe dedicato uno degli scritti più celebri, Via il prefetto, pubblicato nel luglio del 1944. La convinzione che la sovranità e la legittimità dell’esercizio del potere spettassero al popolo lo induceva da un lato a denunciare l’assoluta incompatibilità tra la figura del prefetto, simbolo del potere accentrato e imposto, e le regole della democrazia; dall’altro a chiarire il processo di formazione e selezione della classe politica. In un sistema democratico basato sul suffragio universale tutte le espressioni della macchina centralizzata andavano rimosse a favore della costruzione di un sistema basato sulla partecipazione e su una libertà di espressione e di scelta che partissero dal basso. Tornava così un altro tema ricorrente della riflessione di Einaudi: la distruzione dell’idea «funesta» della sovranità assoluta dello Stato a favore della salvaguardia delle autonomie locali nella costruzione di un modello di Stato che non veniva imposto dall’alto, ma si strutturava a partire dalle fondamenta, e di una formazione della classe politica che seguiva lo stesso andamento in vista della effettiva selezione degli uomini migliori.

Nei mesi trascorsi in Svizzera Einaudi poté anche riprendere la sua attività di professore tenendo una serie di lezioni prima presso il campo universitario per i militari italiani di Losanna, poi presso quello di Ginevra. Nel primo caso si sarebbe trattato di interventi di tipo seminariale, per lo più dedicati ai presupposti teorici dell’azione sociale, nel secondo di un vero e proprio corso semestrale di politica economica. Nel campo di Ginevra ebbe l’opportunità di incontrare, tra gli altri, anche Amintore Fanfani. Nonostante le differenze che avrebbero accompagnato i loro percorsi ideologici e politici entrambi sarebbero stati accomunati dal forte scetticismo nei confronti dell’adesione ai nascenti partiti politici italiani: il liberale per Einaudi, la Democrazia cristiana per Fanfani.

I temi svolti nel corso delle lezioni, e poi raccolti nel noto volume curato dallo stesso Einaudi nel 1949, Lezioni di politica sociale, rappresentano il culmine delle sue riflessioni sui rapporti tra economia e Stato e in qualche modo completano le già richiamate annotazioni sul rapporto tra Stato e individuo, nelle sue declinazioni istituzionali, politiche e civili.Pur riconoscendo la centralità del mercato, la prospettiva di analisi era volta a valutare le influenze che su di esso esercitavano le istituzioni. Il punto di partenza è comune alle sue riflessioni sullo Stato democratico: occorre consentire alla maggior parte di cittadini di partecipare al mercato. La “democrazia del mercato”, infatti, si stabilisce attraverso il libero voto di tutti i consumatori sovrani il quale, per essere effettivo, necessita di garanzie che assicurino a tutte le classi sociali di poter esercitare questo diritto. Il mercato, lungi dall’essere un fine, altro non è, infatti, che un mezzo per soddisfazione una domanda che nasce da bisogni liberamente, e non coattivamente, espressi dai consumatori. Da qui da un lato la severa critica nei confronti di qualsiasi tentativo volto a sottomettere il mercato alle logiche del controllo politico o a impedire il naturale dispiegarsi dei suoi meccanismi di equilibrio; dall’altro la costatazione di come il regime della concorrenza non possa realizzarsi nelle sue forme ideali e la conseguente necessità di ricostruirne le dinamiche. Nello scarto che viene a crearsi tra i due modelli, Einaudi inseriva le ragioni e le giustificazioni dell’intervento dello Stato: lotta ai monopoli, ai trust, ai cartelli, e alle forme di pianificazione centralizzata e, al contempo, interventi volti ad abbassare le punte più alte di reddito ed elevare le punte più basse. Poiché, come lo stesso Einaudi avrebbe affermato, il punto di partenza era la disponibilità di risorse di cui ciascun cittadino dispone al momento in cui arriva sul mercato, l’obiettivo da perseguire non era l’affermazione dell’uguaglianza come risultato del livellamento dei redditi e dei patrimoni, ma la creazione di opportunità di risparmio e di elevazione economica per i più poveri. In questo modo gli effetti positivi dell’esercizio della libertà si sarebbero potuti dispiegare anche nell’ambito dell’economia di mercato. Di un mercato, tuttavia, regolato dal dettato della legge. In quest’ottica la declinazione del rapporto tra la sovranità della libertà e la previsione di forme di legislazione sociale chiariva l’essenza del liberalismo einaudiano in campo economico, al di là dei “parecchi liberalismi” e dei “parecchi socialismi”. Un liberismo basato sull’efficienza, della selezione, dell’assunzione del rischio ma all’interno di condizioni legislative di ordine generale in cui anche lo Stato poteva, e doveva, giocare un ruolo propulsivo.

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3. Il rientro in Italia e la nomina a governatore della Banca d’Italia

L’occasione di dare concretezza alle riflessioni maturate nel corso degli anni svizzeri si sarebbe presentata già alla fine del 1944. Nel mutato quadro politico interno e internazionale Einaudi sarebbe stato richiamato in Italia per assumere la guida dell’unico organismo pubblico che aveva continuato a operare unitariamente nonostante la divisione del paese: la Banca d’Italia. A questo incarico sarebbe seguita l’aggregazione al Comitato interministeriale per la ricostruzione.

Nel discorso di insediamento, tenutosi il 15 gennaio del 1945, il nuovo governatore dettava i principi ai quali avrebbe ispirato la sua azione e recuperava gran parte dei temi sviluppati negli anni di esilio: la concezione della Banca come longa manus del Tesoro, la lotta all’inflazione, la cooperazione con gli istituti di credito dei paesi alleati, l’adesione agli accordi internazionali di Bretton Woods, l’esigenza di inserire la ricostruzione italiana nel più ampio contesto di un’economia intergrata europea. Tutte le misure venivano ancora una volta ricondotte a principi che rispondevano alle antiche e gloriose tradizioni italiane del passato ma collocate all’interno di un quadro storico profondamente modificato.

Quadro nel quale Einaudi avrebbe giocato un ruolo determinante. Nei tre anni trascorsi come governatore si sarebbe trovato, infatti, a ricoprire altre alte cariche istituzionali, senza mai abbandonare l’attività giornalistica e letteraria: membro della Consulta nazionale e dell’Assemblea costituente, ministro del Bilancio nel quarto ministero De Gasperi e, infine, presidente della Repubblica. Nelle diverse sedi istituzionali si sarebbe reso portavoce di un disegno politico ed economico coerente ma articolato, dando un impulso determinante alle scelte della ricostruzione postbellica tanto sul piano economico, quanto su quello politico. Da questo punto di vista l’impegno profuso nella guida della Banca d’Italia rappresentava uno degli ambiti di intervento attraverso il quale dettare le condizioni di risanamento e rilancio dell’economia nazionale. Le proposte operative, rese esplicite nelle relazioni annuali della Banca inaugurate dallo stesso Einaudi a partire dall’aprile del 1945, e arricchite dai numerosi articoli pubblicati soprattutto sulle colonne del Risorgimento liberale, ricalcavano in gran parte quelle già anticipate nelle Lezioni di politica sociale. Sul piano teorico, la difesa della libertà individuale consentiva di chiarire ancora una volta come, in campo economico, la vera alternativa della ricostruzione non fosse tra liberismo e interventismo bensì tra monopolio e mercato. Da questo presupposto Einaudi faceva derivare, sul piano concreto, le sue linee di un programma realmente liberale. Nella scelta tra normalizzazione e radicale rinnovamento delle strutture economiche si sarebbe decisamente schierato a favore della prima ipotesi. La guerra, infatti, non aveva prodotto danni gravissimi al sistema industriale e le forze economiche, compresi i detentori di capitale, avrebbero ripreso ad operare al meglio sul mercato in un clima di fiducia e di moderazione, piuttosto che di incertezza e di radicalizzazione. La ricostruzione passava, dunque, attraverso il recupero delle energie sane del paese, evitando forme di giustizia o di epurazione sommaria che potessero nuocere al ripristino delle normali condizioni di vita del paese.

Gli strumenti per traghettare il paese verso questo obiettivo venivano, così, individuati innanzitutto nelle modalità di gestione del governo della moneta e del credito. La direzione da imprimere ad entrambi veniva chiarita anche nelle relazioni annuali della Banca d’Italia.

Nella prima, a carattere prevalentemente riassuntivo, venivano illustrati gli interventi relativi alla composizione dell’istituto, ai servizi generali da esso svolti e alla rendicontazione delle cifre di bilancio, da collocare nel più ampio quadro della situazione monetaria italiana. A partire dalla seconda, tenuta il 29 marzo del 1946, le indicazioni apparivano più incisive e specifiche. Due gli ambiti principali sui quali aprire il confronto con le forze economiche e politiche: il cambio della moneta, che consentiva di inventariare la ricchezza liquida già tesaurizzata in attesa dell’abbassamento del livello dei prezzi, e la previsione di un’imposta straordinaria sul patrimonio da applicarsi contemporaneamente. Sul primo punto Einaudi non avrebbe mancato, in diverse occasioni, di sottolineare il pericolo che la manovra, con le sue implicazioni in termini di violazione del segreto bancario e impreparazione dell’amministrazione, potesse tradursi nell’accentuazione della propensione alla tesaurizzazione piuttosto che in un suo freno. Il rischio, insomma, è che le due misure combinate anziché produrre un effetto benefico sul rilancio finissero per bloccare gli investimenti. Alla patrimoniale avrebbe, invece, dedicato una maggiore attenzione. L’apprezzamento per questa misura, ritenuta da molti quella più democratica, non gli avrebbe impedito di denunciarne i limiti. In primo luogo essa non avrebbe dovuto essere applicata al reddito e, dunque, al capitale; in secondo luogo gli appariva priva di fondamento la previsione secondo la quale la patrimoniale fosse più efficace dell’imposta sul reddito nel colpire le grandi fortune. Infine riteneva illusorio ipotizzare che il contribuente fosse in grado di versare in un anno un’imposta superiore al reddito ricavato dal patrimonio senza ricorrere all’indebitamento o alla vendita di parte del patrimonio stesso. I danni che ne sarebbero derivati potevano, almeno in parte, essere evitati concedendo un lasso maggiore di tempo per provvedere al pagamento. Per essere efficace, dunque, la «straordinaria patrimoniale» avrebbe dovuto compiere il miracolo di modificare le condizioni psicologiche del contribuente. Questo obiettivo poteva essere raggiunto limitando le altre forme di prelievo fiscale, escludendo gli incrementi patrimoniali e bloccando il calcolo dell’imponibile ad una certa data stabilita, creando, in altre parole, le condizioni per incentivare la disponibilità del contribuente a versare l’imposta stessa senza subire ulteriori lapidazioni del reddito.Tanto le considerazioni sul cambio della moneta, quanto quelle sulla patrimoniale mostravano come, al fondo, Einaudi non ritenesse quegli interventi utili in chiave anti inflazionistica e anticongiunturale: l’unico strumento per combattere l’inflazione rimaneva una efficace politica monetaria. Conclusa la fase della circolazione dei capitali del triennio 1940-1943, occorreva creare le condizioni affinché i capitali potessero sostenere il rilancio economico del paese, restituendo fiducia al libero funzionamento dei mercati e alle imprese private. Questo obiettivo rendeva necessario un intervento volto ad ottenere il controllo dell’inflazione al fine di non disincentivare il risparmio e offrire maggiori garanzie sulla stabilità del valore della moneta. In questa direzione la lotta all’inflazione andava condotta attraverso il controllo del deficit statale e, dunque, la netta riduzione del finanziamento indefinito della spesa pubblica mediante emissione di carta moneta.

Si tratta di misure capaci di produrre effetti che lo stesso Einaudi avrebbe chiarito in occasione della terza relazione annuale della Banca d’Italia il 31 marzo del 1947 illustrando due casi concreti di segno positivo e negativo: il primo, gli effetti della libera disponibilità del 50 per cento della valuta ricavata dalle esportazioni, introdotta nel marzo del 1946; il secondo il finanziamento statale dell’ammasso del grano in conseguenza della reintroduzione del prezzo politico del pane, decisa nello stesso anno.

Il primo provvedimento consentiva di valutare l’efficacia del mercato in assenza di forme di controllo dell’economia rispetto alla circolazione dei capitali e l’incremento degli investimenti privati; il secondo appariva, al contrario, come un esempio efficace di misure che, incidendo in misura negativa sul deficit di bilancio statale, avrebbero finito per innescare nuovamente la spinta inflazionistica.

Questa prospettiva giustifica appieno la severa critica nei confronti del cartello bancario, introdotto da Nitti dopo la prima guerra mondiale e ancora non rimosso, l’esigenza di favorire il moltiplicarsi del numero degli sportelli bancari, con la conseguente concorrenza tra piccole e grandi istituti di credito, la fiducia nelle conseguenze di un sistema creditizio lasciato alla spontaneità del mercato.

Le teorie dell’investimento come funzione del livello di attività, dell’inflazione come conseguenza della quantità di moneta in circolazione, dell’incentivo al risparmio e della distribuzione della ricchezza definivano, dunque, le costanti di una politica economica costruita, ancora una volta, intorno alla difesa di una libertà individuale da esercitare in un clima di fiducia nell’avvenire e nelle capacità del popolo italiano.

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4. Al ministero del Bilancio nel IV governo De Gasperi. Il “difficile” 1947

Einaudi aveva centrato la relazione annuale del 1947 sulla convinzione che si stesse raggiungendo il momento critico dell’inflazione, quello, cioè, in cui lo Stato, chiedendo biglietti all’Istituto di emissione per fronteggiare l’aumento della spesa pubblica, non avrebbe ottenuto più alcun vantaggio dall’aumento della spesa stessa. In qualità di governatore della Banca d’Italia, aveva insistito sulla necessità di tagliare le spese pubbliche per contenere l’inflazione, mettendo in discussione gli “ammortizzatori sociali” allora in vigore: prezzi amministrativi, compreso il blocco degli affitti, tariffe e blocco dei licenziamenti. Questa constatazione, e le conseguenti misure da adottare, rivelavano non soltanto l’essenza di un disegno teorico, ma anche economico e politico: la ricostruzione economica doveva far leva sul potenziale di iniziativa e di attivismo dei singoli individui. In questo modo il sistema avrebbe assicurato le premesse psicologiche dell’impresa, cioè la garanzia di un ampio spazio di libertà, l’allontanamento di ipotesi contrarie all’economia di mercato, il rifiuto di politiche finalizzate a difendere la socializzazione e la programmazione pianificata, la stabilizzazione della lira. Si trattava di soluzioni che avrebbero incontrato la decisa ostilità di una parte consistente delle forze politiche che sedevano nei banchi del governo. La presenza di comunisti e socialisti nelle file degli esecutivi guidati da De Gasperi, nonché le posizioni espresse dai gruppi della sinistra democristiana, tendevano infatti a spostare l’asse della politica economica verso un equilibrio distante dal liberalismo einaudiano. Pur non mettendo in discussione la necessità dei provvedimenti sostenuti dal governatore, e difesi dall’allora ministro delle Finanze e del Tesoro, Campilli, e dallo stesso De Gasperi, le sinistre insistevano sull’adozione di misure economiche graduali e sugli effetti positivi che potevano derivare dalla programmazione. Nella difficile congiuntura politica interna e internazionale che avrebbe segnato la storia italiana tra la fine del 1946 e la prima metà del 1947, le controversie sulle scelte economiche finivano per determinare una condizione di stallo che incideva sulle capacità operative del governo. L’aggravarsi delle condizioni di fiducia nel mercato, l’innalzamento della spirale inflazionistica, la fuga di capitali all’estero, la crescente ondata speculatoria avevano generato una crisi dalla quale si poteva uscire solo attraverso il diretto coinvolgimento degli esponenti del cosiddetto “quarto partito”: di quanti, cioè, potevano fornire allo Stato i miliardi e la potenza economica necessaria a sanare la situazione. Questo contesto avrebbe creato le condizioni per una collaborazione diretta tra l’allora presidente del Consiglio e il governatore della Banca d’Italia.

La crisi di governo del maggio del 1947 si sarebbe conclusa con la formazione del IV governo De Gasperi. Einaudi aveva ottenuto la vicepresidenza del Consiglio e gli unificati ministeri del Tesoro e delle Finanze; un decreto del 6 giugno del 1947, tuttavia, istituiva un ministero ad hoc da assegnare al governatore della Banca d’Italia: il Bilancio. Si trattava di un ministero di supervisione, incaricato di filtrare i provvedimenti degli altri ministeri su alcune materie ritenute “sensibili” e che riguardavano le leggi relative alle spese ordinarie e di carattere generale a carico di bilanci di più ministeri, le leggi sulle spese straordinarie di più ministeri superiori al miliardo di lire e le leggi che prevedevano una riduzione delle entrate tributarie. Nell’adempiere al nuovo incarico Einaudi avrebbe inaugurato una prassi che sarebbe rimasta costante anche negli anni trascorsi alla presidenza della Repubblica: la serietà dell’impegno, e le funzioni attribuite al suo ministero, lo avrebbero indotto a vagliare, senza alcun margine di flessibilità, tutti i provvedimenti soggetti alle competenze fissate nel decreto.Pochi giorni prima di entrare nell’esecutivo Einaudi aveva chiarito a De Gasperi la condizione alla quale subordinava la sua collaborazione: agire sulle cause che regolavano il rapporto tra circolazione e prezzi, in particolare i continui bisogni della tesoreria di Stato. Questa premessa avrebbe costruito la piattaforma programmatica del governo in materia di politica economica e consentito la totale comunanza di vedute tra il responsabile del ministero e la presidenza del Consiglio: se De Gasperi aveva giustificato la rottura del maggio del 1947 con esigenze di ordine prettamente economico, le posizioni di Einaudi garantivano una piena convergenza sulla direzione da seguire.

Dai banchi del governo, già in occasione del dibattito parlamentare che precedeva la fiducia, Einaudi chiariva gli obiettivi da perseguire: controllo sulla spesa pubblica, intervento dello Stato nel sistema produttivo come garanzia per l’esercizio della libera iniziativa individuale, rifiuto di economie di piano, stretta di bilancio e creditizia. Veniva, così, impostata una linea di intervento che si sarebbe attuata in due fasi consecutive. I primi provvedimenti, finalizzati prevalentemente al contenimento della spesa, avrebbero riguardato la svalutazione del cambio ufficiale della lira sul dollaro e l’aumento di alcune tariffe dei servizi pubblici. Qualche mese dopo sarebbe stata introdotta anche l’imposta patrimoniale sui soli beni immobiliari. La seconda parte degli interventi investiva, invece, la questione del controllo del volume complessivo del credito. Su questo punto, grazie al lavoro del Comitato interministeriale del credito e del risparmio, istituito il 1° luglio del 1947, veniva approvato un nuovo sistema di riserva obbligatoria. Questo sistema prevedeva che entro il 30 settembre tutti gli istituti di credito versassero alla Banca d’Italia il 15% dei depositi già esistenti; dal 1° ottobre la quota da versare per i nuovi depositi arrivava al 40%, lasciando il 60% a disposizione dell’economia. La misura creditizia consentiva di intervenire direttamente sulla liquidità, provocando un arresto immediato dei processi speculativi connessi all’accumulazione di scorte. Rispetto alle posizioni enunciate dei mesi precedenti, l’analisi di Einaudi sulle cause dell’inflazione, che rappresentava ancora il nemico da sconfiggere, diveniva più articolata: essa, infatti, non andava più imputata al solo eccesso della spesa pubblica finanziata attraverso l’emissione della carta moneta, ma alle scelte compiute dal “mondo degli affari”, in primo luogo dalle banche, proprio attraverso l’emissione e l’investimento del credito. L’obiettivo, dunque, rimaneva lo stesso, ma le soluzioni richiedevano una manovra più complessa. Nel corso dei mesi trascorsi al governo Einaudi avrebbe, più volte, difeso le ragioni della sua politica monetaria. La stabilizzazione dei prezzi interni necessitava, nella situazione contingente, di manovre deflattive e di interventi che mirassero alla stabilità monetaria come generatrice di risparmio volontario a fronte del risparmio forzato indotto dall’inflazione; imposizione di tributi ordinari, piuttosto che straordinari; prezzi economici per i produttori e sussidi al consumo; mobilità rispetto all’impiego della manodopera da tutelare attraverso un sistema di sicurezza sociale.

In questa direzione la linea deflattiva, necessaria per il rilancio dell’economia interna, avrebbe consentito di raggiungere un ulteriore traguardo. Einaudi, come lo stesso De Gasperi, avrebbe sempre avuto chiaro il senso delle debolezze e dei limiti del sistema economico e politico italiano. Il rischio di un eccessivo, e pericoloso, ripiegamento dell’economia nazionale su se stessa, poteva essere sventato grazie all’inserimento del paese nel più ampio quadro dei rapporti internazionali che ne avrebbero garantito l’avvenire attraverso un complesso sistema di vincoli.

L’ammissione dell’Italia al sistema creato dagli accordi di Bretton Woods, l’inserimento come membro effettivo nel Fondo monetario e nella Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, la possibilità di usufruire degli aiuti messi a disposizione dal piano Marshall se da un lato offrivano importanti opportunità per la ripresa della produttività interna, dall’altra aprivano gli spazi per il superamento di una dimensione nazionale dell’economia e vantaggio di una dimensione “globale”, la sola capace di assicurare uno sviluppo economico diffuso e duraturo.

Azione diretta sui redditi, sui risparmi e sui consumi nel quadro di un’economia integrata avrebbero rappresentato gli elementi fondati di un progetto di ricostruzione di cui Einaudi sarebbe stato il regista economico e De Gasperi quello più propriamente politico. Nei fatti quella linea sarebbe rimasta, almeno in parte, disattesa, al punto da indurre lo stesso Einaudi, a manifestare un forte scetticismo nei confronti della capacità del sistema di proseguire sulla strada tracciata.

Al di là della completa attuazione, è innegabile che la presenza di Einaudi alla guida del dicastero del Bilancio avrebbe impresso un ritmo determinante al processo ricostruttivo dell’economia nazionale consentendo che, in un clima tutt’altro che favorevole all’affermazione di istanze liberali, fossero proprio queste ultime a dettare il quadro della nuova politica economica dei governi degasperiani.

Il riferimento al liberalismo, nelle sue diverse interpretazioni, e il ruolo della vecchia classe dirigente liberale nella costruzione del nuovo ordine politico ed economico si sarebbero rivelati, in realtà, più consistenti di quanto una certa lettura ideologica della storia sia stata a lungo disposta a riconoscere: al recupero della stagione prefascista, e alla possibilità di conciliare il passato con le nuove istanze del presente, Einaudi avrebbe ispirato non solo la sua azione ai vertici degli organismi economici, ma la stessa opera svolta nelle sedi più propriamente istituzionali, mostrando una evidente coerenze e continuità di intenti e di ideali. In questa direzione una conferma, forse ancora più emblematica di quanto emerga dalla sua attività ai vertici degli organismi economici, si ricava dal contributo dato ai lavori preparatori della Carta costituzionale e alle riflessioni sull’architettura del nuovo Stato.

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5. Dalla Consulta nazionale al referendum istituzionale

Negli anni trascorsi alla guida della Banca d’Italia, e al fianco di De Gasperi nel suo IV ministero, Einaudi avrebbe partecipato attivamente al dibattito politico anche come membro della Consulta nazionale prima, dell’Assemblea costituente poi.

 

Nel corso delle sedute Einaudi, assegnato alla Commissione finanze e tesoro presieduta da Stefano Siglienti, avrebbe partecipato attivamente al dibattito affrontando questioni che investivano non soltanto problemi di natura economica, ma politica e costituzionale. Sebbene priva di poteri decisionali, infatti, la Consulta offriva l’occasione per porre a confronto le diverse progettualità emerse durante i mesi della lunga transizione seguita alla caduta del fascismo e che investivano, innanzitutto, il tema della continuità o della rottura nella costruzione del nuovo Stato, il rapporto con il fascismo, il ruolo dei nuovi soggetti politici, la futura forma di governo.

Tra le materie affrontate in sede di Commissione, Einaudi prendeva la parola sulla questione della regolazione del commercio con l’estero, e sugli organismi incaricati di seguirne la gestione, sulla definizione dell’assetto tributario nei territori liberati, sulla rivalutazione degli estimi catastali e dei terreni agrari, sulle indennità da assegnare al personale statale operante nelle zone distrutte dalla guerra, sui provvedimenti relativi alle tasse e alle imposte dirette sugli affari, sui profitti di regime, sull’istituzione di un fondo di solidarietà nazionale, sull’avocazione allo Stato dei profitti di guerra.

Gli interventi più rilevanti dal punto di vista politico venivano, tuttavia, pronunciati nel corso delle sedute dell’Assemblea plenaria.

Il 16 gennaio 1946, nel dibattito che si apriva a seguito delle comunicazioni del presidente del Consiglio De Gasperi, Einaudi interveniva sul tema delle colonie. Ricordando la posizione italiana nel passato, e il contenuto dell’ordine del giorno approvato dal Senato a sostegno dell’impresa etiopica il 9 dicembre 1935, affermava di considerare positiva l’esigenza di utilizzare l’amministrazione fiduciaria come l’istituto di cui servirsi a nome e nell’interesse delle popolazioni indigene in un contesto segnato dal superamento degli Stati nazionali e dal consolidamento di istanze federaliste. L’intervento, oltre a evidenziare una posizione decisamente critica nei confronti di ogni forma di sopraffazione e di privilegio, poneva le premesse per affrontare un tema sul quale Einaudi sarebbe tornato più volte non soltanto dai banchi della Consulta, ma dalle stesse pagine dei giornali. La sua attenzione tornava, ancora una volta, sulla corretta configurazione del concetto di sovranità dello Stato. Il rifiuto di qualsiasi forma assolutistica e dittatoriale lo persuadeva che la sovranità assoluta dei singoli Stati fosse ormai da considerarsi un anacronismo economico in un tempo segnato dalla nascita e dal potenziamento delle ferrovie, dei telegrafi, della radio, della navigazione aerea: la realtà consisteva, esclusivamente, nella interdipendenza degli Stati sovrani. Si tratta di una posizione che Einaudi aveva già ottenuto non soltanto all’indomani della prima guerra mondiale e al momento del suo rientro in Italia nei primi mesi del 1945, ma che avrebbe influenzato profondamente la sua lettura del rapporto tra dimensione nazionale e dimensione internazionale.

All’esperienza dei sistemi federali, Einaudi avrebbe ispirato gli interventi dedicati alle relazioni tra Stato centrale e autonomie regionali. L’occasione veniva offerta dalla discussione sull’entrata in vigore dello Statuto della regione siciliana, approvato grazie alla forza e alla consistenza del movimento separatista dell’isola. Oltre a manifestare una forte disapprovazione per le modalità seguite nell’operazione, si diceva convinto che lo Statuto contravvenisse alle regole logiche e giuridiche che avrebbero dovuto regolare i rapporti tra lo Stato centrale e le autonomie locali. Solo apparentemente si trattava della difesa dell’ipotesi centralista. In realtà tutta la relazione appariva volta a definire le competenze specifiche dei reciproci istituti, evitando zone di sovrapposizione e di incertezza che avrebbero minato la stabilità della relazione. Allo Stato dovevano rimanere attribuite tutte le funzioni non esplicitamente assegnate alle regioni nell’atto della loro costituzione. Contrariamente a questo principio generale, il caso siciliano prospettava invece una pericolosa confusione di funzioni tra quelle proprie dello Stato e quelle delegate da esso alle regioni stesse; attribuendo, inoltre, alla regione la riserva della maggior parte delle entrate fiscali, lo Statuto avrebbe privato lo Stato della possibilità di imporre tributi nella regione. La profonda conoscenza della teoria dello Stato si sarebbe, dunque, tradotta da un lato in una esigenza di razionalizzazione nel funzionamento degli apparati istituzionali e amministrativi, dall’altro nella convinzione, peraltro sempre difesa, che nello Stato non si esaurisse tutta la dimensione del vivere sociale, politico e civile: i limiti all’esercizio del suo potere provenivano proprio dalle autonomie e dai vincoli cui, in un sistema di integrazione, esso era soggetto.

La rottura con l’esperienza fascista non poteva essere più netta come, d’altronde, la distanza rispetto a qualsiasi ipotesi di costruire lo Stato su ideologie totalitarie e totalizzanti. Queste premesse trovavano una traduzione concreta nell’altro grande tema che Einaudi avrebbe affrontato nel corso dei lavori della Consulta: la scelta del sistema elettorale da adottare per l’elezione dei membri dell’Assemblea costituente.

Contro la posizione di una parte della classe dirigente liberale, favorevole all’accettazione della proporzionale se inquadrata in un sistema di diretta consultazione popolare, di definizione di circoscrizioni strette e di ripartizione dei resti e sorretta dall’obbligatorietà del voto, Einaudi prendeva la parola per dichiarare «avversione e ripugnanza» nei confronti di quella scelta e per ribadire la propria preferenza per il ritorno al collegio uninominale. Almeno due ragioni inducevano a ritenere il secondo sistema migliore del primo: in primo luogo, l’esigenza di garantire la stabilità degli esecutivi: in un clima segnato dalla frammentazione politica e ideologica, la proporzionale non avrebbe consentito di governare. Einaudi tornava, così, sugli argomenti già sviluppati negli anni precedenti. In un paese in cui i partiti avevano raggiunto un numero superiore alle quattro o cinque unità era impossibile che si formassero maggioranze durature e coese. Era fondamentale, allora, che la scelta del sistema elettorale non ne aggravasse la già intrinseca tendenza alla moltiplicazione: la proporzionale, invece, assicurando una rappresentanza a quanti raggiungevano il quoziente stabilito, favoriva la nascita di raggruppamenti che non rappresentavano né i “grandi interessi” né ideali in grado di indirizzare gli uomini verso il perseguimento del bene comune, a scapito degli interessi particolaristici. Il vizio della proporzionale veniva individuato proprio nell’alterazione dei principi della rappresentanza, favorendo il successo delle minoranze rispetto alle maggioranze. In secondo luogo, poi, la proporzionale avrebbe contribuito ad irrigidire il rapporto tra i partiti: ogni partito, cioè, una volta ottenuti riscontri positivi sul piano elettorale, avrebbe radicalizzato la difesa dei propri interessi e i toni della propria propaganda politica esponendo il sistema al rischio di un eventuale “colpo di mano”.

Einaudi arrivava, così, a negare proprio i presupposti a partire dai quali la proporzionale veniva ritenuta il miglior sistema atto a preservare il paese dalle involuzioni totalitarie: lo Stato liberale prefascista era crollato per l’impossibilità del regime parlamentare di funzionare in un sistema costituito di molti partiti disuguali. L’antidoto rimaneva il ritorno alla rappresentanza individuale che consentiva di mandare in Parlamento uomini, e non macchine, selezionati in virtù dei propri meriti e delle proprie capacità. Contro l’invadenza della macchina partito, o i numeri di una lista, bisognava schierare uomini scelti direttamente dagli elettori, uomini conosciuti e reputati degni di scrivere le norme fondamentali del nuovo Stato. D’altronde, come lui stesso avrebbe affermato, non c’era ragione per ritenere che l’assiste dovesse garantire la rappresentanza di tutte le idee. Era più opportuno lasciare spazio soltanto a quelle fondate su valori morali, o permanenti, e che non fossero semplice espressione di interessi parziali o frazionistici.

Nella polemica contro la proporzionale, sulla quale sarebbe tornato anche in sede di Assemblea costituente, Einaudi apriva nuovamente una finestra sul proprio passato, recuperando le ragioni di quello scetticismo che già prima dell’avvento del fascismo aveva portato i liberali a diffidare dell’utilità dei partiti moderni e a difendere una concezione elitaria e notabilare della politica: una concezione in cui la ricerca del bene comune, e la selezione della classe dirigente, avvenivano attraverso un esercizio personale della leadership non disposta a sottomettere la libertà individuale alle regole e ai vincoli dei partiti politici.

Altrettanto coerente con il recupero del valore del passato, e la capacità di discernere quanto di buono poteva essere salvato della storia italiana, sarebbe risultata la posizione assunta da Einaudi di fronte alla scelta della nuova forma di governo. In base a quanto approvato dalla Consulta nazionale, infatti, il 2 giugno del 1946 si tenevano le prime elezioni a suffragio universale per le elezioni dell’Assemblea costituente. Contestualmente gli italiani erano chiamati, mediante referendum abrogativo, a scegliere tra la monarchia e la repubblica.

Einaudi si sarebbe presentato capolista nella circoscrizione Torino-Novara-Vercelli per l’Unione democratica nazionale, un’aggregazione che comprendeva esponenti liberali, nittiani e demolaburisti. Nel corso della campagna elettorale non avrebbe mancato di intervenire apertamente in difesa della conservazione dell’istituto monarchico. Diverse ragioni lo inducevano a ritenere che quest’ultimo fosse in grado di offrire maggiori garanzie alla ricostruzione dell’architettura istituzionale rispetto ad una repubblica democratica, naturalmente incline a degenerare verso il giacobinismo. In primo luogo, come dimostrava l’esperienza del suo Piemonte sabaudo, la forma monarchica era perfettamente compatibile con il rispetto delle autonomie locali e del pluralismo. In secondo luogo la monarchia appariva la migliore espressione di quella concezione della sovranità non incentrata su un’unica fonte del potere, ma soggetta ad un sistema di pesi e contrappesi. Riflettendo su questo punto, notava come la formula «Per grazia di Dio e volontà della nazione», proprio dei sistemi monarchici, soddisfacesse meglio quelle esigenze di limitazione dell’autoritarismo e dell’assolutismo statale sulle quali si era più volte pronunciato: non nella sola sovranità popolare, ma nel contemporaneo appello al passato, ai valori della tradizione, al peso della memoria, all’autorità dei saggi risiedeva, dunque, la vera legittimità del potere. La vittoria della repubblica non lo avrebbe persuaso a rinunciare alla difesa di quei principi. Nel pieno rispetto delle scelte compiute dagli italiani, e fedele alla nuova forma di governo, avrebbe continuato, anche nel corso dei lavori della Costituente, a difendere il tentativo di tradurre in norme costituzionali proprio il riferimento alla «grazia di Dio».

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6. L’Assemblea costituente e la nuova architettura statale

L’elezione alla Costituente avrebbe offerto ad Einaudi l’opportunità di proseguire l’impegno politico sulla strada già tracciata alla Consulta. Eletto con 24.857 preferenze a Torino e 14.073 a Cuneo, Einaudi avrebbe partecipato tanto ai lavori della Commissione dei 75, quanto a quelli della seconda sottocommissione, incaricata di occuparsi dell’organizzazione costituzionale dello Stato.

La complessità, e la particolare ricchezza, del dibattito che avrebbero accompagnato la stesure della nuova Carta, consentivano a Einaudi di confrontarsi con le nuove questioni dettate dalla progressiva normalizzazione della vita dello Stato e di recuperare gran parte delle riflessioni maturate nei mesi precedenti.

A cominciare dal problema della sovranità dello Stato, destinato a promuovere l’introduzione nella Costituzione del sistema delle autonomie e a definire il ruolo da assegnare alle regioni. Ricollegandosi alle posizioni già espresse in sede di Consulta, Einaudi ribadiva la sua difficoltà a prevedere l’esistenza della provincia nel sistema delle autonomie e invitava a predisporre uno schema che attribuisse alle regioni stesse competenze specifiche. Si trattava, in altre parole, di cercare soluzioni che, pur riconoscendo il ruolo fondamentale delle autonomie, non disconoscessero allo Stato una presenza finalizzata a tutelare la sua unità. L’Italia si trovava a percorrere un cammino inverso rispetto a quello compiuto da paesi forti di una tradizione autonomistica: l’assetto dello Stato italiano doveva rimanere un assetto unitario.

Intervenendo sulle implicazioni finanziarie delle autonomie, Einaudi scartava l’ipotesi di prevedere in via generale la distribuzione delle fonti tributarie tra lo Stato e gli enti minori, ritenendo più efficace un sistema che negasse alla regione il potere di stabilire alcuni tipi di imposta sul cui impiego efficace non esistevano garanzie certe. Al contempo, tuttavia, difendeva la necessità di prevedere, nei casi di imposte insufficienti, integrazioni contributive da parte dello Stato. La discussione sugli Statuti speciali della Sardegna e Valle d’Aosta confermava le sue riserve circa la ripartizione delle entrate tributarie.

La definizione del rapporto tra amministrazione centrale e amministrazione periferica investiva anche la questione dell’elettorato. In linea con quanto avrebbe sostenuto nel corso del dibattito sull’organizzazione costituzionale dello Stato, si sarebbe detto contrario alla previsione di qualsiasi forma di elettorato professionale.

L’avversione nei confronti della tutela di interessi parziali o di categoria avrebbe, in effetti, rappresentato una delle battaglie più importanti combattute da Einaudi in sede di sottocommissione. L’occasione per aprire il confronto veniva offerta dalle discussioni circa la composizione e le funzioni della seconda Camera. Negli interventi pronunciati durante i lavori Einaudi recuperava il tema della sovranità dello Stato, del rapporto tra potere e popolo, il discrimine tra democrazia e giacobinismo. La necessità di non lasciare spazi all’affermazione di un modello di Stato a sovranità piena avrebbe ispirato tutto il suo pensiero sulla configurazione del sistema bicamerale. In questa direzione riteneva che la seconda Camera, il Senato, pur diversa dalla prima, dovesse essere anch’essa espressione delle «forze vive» della nazione, di «quelli che sono vissuti e di quelli che vivranno»: non di forze economiche, dunque, ma di rappresentanti regionali e, in misura inferiore, di rappresentanti professionali eletti da categorie non prestabilite. Al fondo delle riflessioni rimanevano da un lato il rifiuto per il modello proprio del corporativismo medievale, dall’altro il rifiuto della assoluta sovranità popolare. La scelta del sistema bicamerale aveva senso se ispirata al principio di bilanciamento dei poteri. Questo sistema garantiva che il Senato venisse finalmente liberato dal complesso di inferiorità derivato dalla sua costituzione originaria di esclusiva nomina regia e che la sovranità popolare non fosse l’esclusiva fonte di legittimazione del potere.

Questo insieme di garanzie, e la divisione dell’esercizio della sovranità, trovavano una traduzione altrettanto concreta nella difesa del parlamentarismo come forma di governo da preferire. L’analisi di Einaudi su questo punto cruciale della configurazione istituzionale risulta particolarmente articolata. Nei diversi interventi avrebbe passato in rassegna non soltanto i modelli delle altre esperienze costituzionali, ma gli esempi delle Costituzioni «viventi», nella convinzione che nell’esaminare i diversi casi, «quello che importa sostanzialmente […] non è la loro lettera, ma la loro vita». Il confronto tra sistemi presidenziali e sistemi parlamentari rivelava i maggiori limiti del primo. La scarsa comunicazione tra esecutivo e legislativo si traduceva, infatti, nell’assenza di omogeneità tra le forze rappresentate nelle due Camere, aggravata dalla loro diversa durata, e nella concessione quasi assoluta di poteri al Presidente. Il secondo appariva, dunque, preferibile ma solo nel caso in cui si fosse dimostrato capace di garantire l’effettivo esercizio della libera discussione e del libero confronto, nella convinzione che un governo realmente libero «non è libero perché sia presidenziale o parlamentare; un governo è libero se nelle due Camere e nel paese esiste libertà completa ed assoluta di discussione». La centralità di un Parlamento così configurato avrebbe garantito anche la forza e la stabilità dell’esecutivo. Sul rapporto tra i due poteri Einaudi avrebbe sostenuto l’esigenza di introdurre il meccanismo di fiducia e della sfiducia, precisando, tuttavia, avrebbe dovuto investire i programmi e non gli uomini. Intervenendo direttamente sul funzionamento dell’esecutivo si sarebbe detto contrario a norme che sancissero la prevalenza della presidenza del Consiglio sugli altri ministri, e favorevole ad introdurre un meccanismo “elastico” nella designazione del governo. Era importante che la nomina del presidente del Consiglio non avvenisse sulla base di una designazione rigida del Parlamento, ma attraverso un intervento del presidente della Repubblica preceduto da consultazioni e accordi tra personalità e gruppi politici. Fatta salva la centralità del Parlamento, e fissato il principio della fiducia, l’attribuzione ad un potere terzo della facoltà di nomina costituiva da un lato un’ulteriore strumento di bilanciamento nell’esercizio dei poteri, dall’altro in qualche modo poneva il rapporto tra legislativo ed esecutivo su un binario che limitava l’ormai chiaro dominio dei partiti politici. Su questo punto Einaudi rimaneva un liberale “delle origini”.

Meno efficace sul piano delle garanzie gli appariva, invece, la costituzione di una Corte costituzionale sulla cui imparzialità Einaudi avrebbe manifestato un particolare scetticismo.

L’ultima serie significativa di interventi sull’ordinamento dello Stato riguardava l’istituto del referendum abrogativo. Einaudi ne avrebbe sottolineato la perfetta compatibilità con il sistema parlamentare, ribadita anche negli anni seguenti, e ne avrebbe sostenuto l’applicabilità alle norme tributarie, come freno posto alle riforme “audaci” negli ordini finanziari e sociali.

Nel corso dei lavori Einaudi sarebbe poi intervenuto su diverse questioni che investivano i problemi di natura economica e che rappresentano la parte più nota della sua collaborazione alla stesura della carta costituzionale. Anche in questo caso tornava centrale l’esigenze di inserire un sistema di protezione sociale in una strategia volta a tutelare le libertà economiche senza produrre danni alla coesione sociale. A questa logica vanno ricondotte la lotta contro i monopoli dei brevetti, delle società anonime a catena, delle autorizzazioni degli impianti industriali e della protezione doganale, il rifiuto di qualsiasi forma di pianificazione economica da parte dello Stato, il riconoscimento della libertà nella scuola per l’esercizio della libera professione in tutto il territorio nazionale, la trasformazione del latifondo, la collaborazione alla gestione delle aziende, la tutela del risparmio e dell’esercizio del credito.

Molte delle posizioni difese da Einaudi non avrebbero trovato concreto accoglimento nella stesura del testo costituzionale.

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7. Primo Presidente della Repubblica

La conclusione dell’esperienza costituente apriva un breve periodo di allontanamento di Einaudi dalla politica attiva. Il clima politico dei mesi seguenti sarebbe stato, infatti, pesantemente segnato dallo svolgimento della campagna elettorale che precedeva le consultazioni politiche del 18 aprile. Alla crescente conflittualità interna, acuita dai toni dello “scontro di civiltà” che avrebbero visto contrapposti la Democrazia cristiana e il Partito comunista, andava a sommarsi l’irrigidirsi del quadro internazionale, ormai sempre più immobilizzato nelle logiche dello scontro bipolare. Come previsto dallo stesso Einaudi, il potere dei partiti, sostenuto dalla legge elettorale proporzionale scelta per la formazione del Parlamento repubblicano, aveva finito per drammatizzare le dinamiche politiche, impedendo il libero confronto tra le idee e radicalizzando le posizioni delle forze in campo.

A quella campagna elettorale, in base a quanto stabilito dalla III disposizione transitoria della Costituzione, Einaudi non avrebbe potuto partecipare. Questa esclusione lo persuadeva ancora di più della progressiva riduzione degli spazi concessi alla difesa e all’affermazione di idee veramente liberali.

L’esito delle consultazioni, tuttavia, lo avrebbe presto richiamato ai vertici dello Stato. La schiacciante vittoria ottenuta dalla Democrazia cristiana, che conquistava la maggioranza assoluta dei seggi, lasciava a De Gasperi l’iniziativa sulla scelta del nuovo Presidente. Dopo il fallimento della candidatura di Sforza, su proposta di una parte della sinistra democristiana si riuscì ad ottenere la convergenza della maggioranza dei gruppi parlamentari sul nome di Einaudi che veniva eletto l’11 maggio del 1948, al quarto scrutinio, con 518 voti a favore su 871.

Il 12 maggio Einaudi prestava giuramento di fronte alle Camere riunite. Nel discorso di insediamento pronunciato in quell’occasione, il primo Presidente della Repubblica ricordava lo spirito che aveva sempre guidato la sua partecipazione al processo di ricostruzione della Patria. Il riferimento ad un passato personale, e alla propria fede monarchica, non gli aveva impedito di mostrare nei confronti del nuovo regime repubblicano qualcosa che fosse più di una semplice adesione, nella convinzione che il 2 giugno gli italiani avessero dato prova, a se stessi e al mondo, di aver raggiunto una effettiva maturità democratica. La piena fiducia nel sistema parlamentare, e nel libero scambio di idee che esso consentiva, confermava poi con forza la sfida che lo Stato, e la sua classe dirigente, avevano di fronte nell’interpretare lo spirito della Costituzione: conservare della struttura sociale tutto ciò che era garanzia di libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata e garantire a tutti, indipendentemente «dai casi fortuiti della nascita», la maggiore uguaglianza possibile dei punti di partenza. Tornava, dunque, forte l’eco dei temi affrontati sin dagli anni svizzeri e ribaditi nel corso delle battaglie combattute dai banchi della Consulta e della Costituente.

Su molti di questi temi sarebbe tornato più volte nel corso del lungo settennato. La gravosità del nuovo incarico, infatti, non lo avrebbe mai allontanato dagli studi e dall’attività giornalistica che avrebbe seguito in prima persona, rifiutando la nomina di un proprio addetto all’ufficio stampa e occupandosi in diverse occasioni dell’interpretazione delle proprie prerogative costituzionali. Se ne ricava conferma dalla lettura di uno dei primi articoli, comparsi sulle colonne del Corriere della sera pochi giorni dopo l’elezione. Rispondendo al socialdemocratico Calosso, che si augurava che il neo presidente non abbandonasse la collaborazione con il giornale in nome dell’imparzialità della sua carica, ma tornasse ad occuparsi della difesa del liberismo contro i suoi avversari, Einaudi replicava che il liberismo altro non era che un fantoccio terminologico, molto diverso dalla sostanza delle idee difese dai liberali in campo economico. E nella chiusura affermava «La passione professionale mi ha spinto a varcare i limiti del riserbo che la carica mi impone? Spero di no».

Un Presidente-Professore, come molti avrebbero poi scritto, che avrebbe continuato a conciliare il personale interesse per lo studio con il ruolo politico che la storia gli aveva assegnato. Lo dimostrano i numerosi volumi che avrebbe dato alle stampe in quegli anni, nei quali tornavano centrali le riflessioni sulla storia del pensiero economico, sul contributo scientifico degli economisti italiani della prima metà del secolo, sull’importanza della conoscenza come fondamento di scelte efficaci e motivate, sulla distinzione tra liberalismo e socialismo. Lo dimostra, al contempo, l’attenzione per la difesa e la promozione della cultura alla quale si sarebbe dedicato in prima persona provvedendo, ad esempio, all’arricchimento del patrimonio bibliotecario del Quirinale e sostenendo, con la propria indennità personale, le attività dell’Accademia nazionale dei Lincei, di cui era stato vicepresidente.

Con lo stesso rigore dello scienziato Einaudi avrebbe interpretato ed esercitato i poteri che la Costituzione attribuiva alla Presidenza della Repubblica. L’impronta di uno stile assolutamente personale avrebbe definito i contorni della nuova figura istituzionale, contribuendo almeno in parte a meglio delineare i termini del rapporto tra Costituzione formale e Costituzione materiale. Nell’ambito di quanto previsto dalla Carta, infatti, Einaudi si sarebbe trovato, nelle vesti di primo Presidente, a dare concreta attuazione all’esercizio di una funzione codificata nelle norme fondamentali ma ancora mai esercitata concretamente: di questa funzione avrebbe, talvolta dato, una interpretazione più “larga”, talvolta perfettamente corrispondente al dettato costituzionale.

A partire dall’inquadramento della presidenza come potere indipendente e garante dell’equilibrio istituzionale. Nonostante le polemiche seguite alla pubblicazione del citato articolo sul Corriere della sera, Einaudi avrebbe mantenuto rapporti di piena collaborazione e di confronto con tutte le forze politiche e sociali, pur senza rinunciare alla naturale diffidenza nei confronti dell’estremismo, fosse esso di destra, come di sinistra.

Sul piano più strettamente politico la linea seguita sarebbe stata illustrata a posteriori dallo stesso Einaudi in una nota presentata all’Accademia dei Lincei al termine del suo mandato, e pubblicata da Giovanni Spadolini sulla Nuova Antologia con il titolo Di alcune usanze non protocollari attinenti alla presidenza della Repubblica italiana.

Uno dei primi argomenti affrontati riguardava il rapporto tra la Presidenza e il Consiglio dei ministri. Tra le consuetudini vigenti che Einaudi avrebbe modificato, vi era innanzitutto la prevista firma dei decreti in un giorno fisso della settimana come retaggio dell’istituto monarchico. Diverse le ragioni della scelta. In primo luogo l’intensa attività di governo gli appariva inconciliabile con il tempo messo a disposizione per la firma stessa; in secondo luogo appariva inopportuno che la riunione dei ministri con il capo dello Stato attribuisse anche solo informalmente al presidente della Repubblica un ruolo che non gli apparteneva, essendo il governo il responsabile della politica generale del paese, ed essendo prevista dalla Costituzione, la figura del presidente del Consiglio. Infine, quella consuetudine avrebbe finito per attribuire al presidente una funzione meramente formale, impedendogli di esercitare l’obbligo, previsto nella Carta, di esaminare i provvedimenti per assicurarne la conformità alla legge. Quest’ultimo punto avrebbe rappresentato uno degli aspetti più rilevanti del settennato: nel rispetto dei ruoli e delle competenze istituzionali, Einaudi, coadiuvato dai suoi collaboratori, avrebbe sottoposto tutti i provvedimenti del governo ad una attenta analisi giuridica e sostanziale e non avrebbe mancato di instaurare, con i ministeri, un rapporto di confronto e di dialogo costante basato, tra le altre cose, sulla lettura di rapporti periodici che gli stessi ministri avrebbero dovuto far pervenire al capo dello Stato a titolo informativo: rapporti diplomatici, dunque, relazioni sull’ordine pubblico e sulla difesa, relazioni sull’amministrazione della giustizia e rapporti economici. In questa stessa direzione Einaudi avrebbe inaugurato, anche, la consuetudine, accanto alle già previste “visite di cortesia”, delle visite “di rapporto”, che riguardavano gli incontri con il capo della Polizia e il comandante generale dell’Arma dei carabinieri.

Attività informative, dunque, finalizzate ad acquisire la conoscenza necessaria all’adempimento delle sue funzioni e a ribadire, al di là del rispetto assoluto per le competenze dei tecnici e dei “burocrati”, il forte senso di responsabilità che avrebbe dovuto animare la classe politica nella direzione del Paese.

Una responsabilità alla quale egli stesso non si sarebbe sottratto affrontando uno dei nodi più complessi dell’applicazione del dettato costituzionale: quello relativo alla già accennata firma del presidente agli atti governativi da presentare al Parlamento e alla possibilità di manifestare ed esprimere il proprio eventuale disaccordo.

La Costituzione, infatti, prevedeva all’articolo 74, che il Presidente, prima di promulgare una legge, potesse rivolgersi alle Camere con messaggi che ne richiedessero la revisione. Lo avrebbe fatto in sole quattro occasioni nel corso dell’intero settennato: nell’aprile del 1949, intervenendo sulla legge concernente l’aumento dei soprassoldi spettanti al personale militare adibito agli stabilimenti di lavoro e sulla legge relativa ai provvedimenti a favore di coloro che avevano provveduto alla bonifica dei terreni; nel gennaio del 1950, intervenendo sulla legge concernente gli incaricati di funzioni giudiziarie e, infine, nel novembre del 1953, sulla legge di proroga di un anno del termine stabilito per i diritti e i compensi del personale degli uffici dipendenti dai ministeri delle Finanze, del Tesoro e dalla Corte dei conti.

Da quanto emerge da alcune ricostruzioni storiche sembra che, in origine, Einaudi intendesse servirsi dello stesso strumento per esprimere il proprio dissenso anche nei confronti del governo. Si trattava, tuttavia, di una procedura non compatibile con il riferimento costituzionale a quel “concorso di volontà” tra Presidenza ed esecutivo nella presentazione dei disegni di legge. Pur non ricorrendo mai ad esternazioni ufficiali, Einaudi non avrebbe comunque rinunciato a interloquire con il governo attraverso consigli, questioni, esortazioni: ricorrendo, cioè all’applicazione dell’istituto dell’autorizzazione, sancito dall’articolo 87 della Costituzione, che non intendeva il ruolo del Presidente come un atto di pura formalità.

Commentando questa scelta, lo stesso Einaudi avrebbe sottolineato che essa era espressione di un’interpretazione “estensiva” delle prerogative attribuite dalla Costituzione al presidente del Consiglio che, all’articolo 95, veniva indicato come il responsabile della direzione della politica generale del paese. Questa responsabilità, e il diretto rapporto tra esecutivo e legislativo sancito dal meccanismo della fiducia, tuttavia, non avrebbero negato al capo dello Stato il diritto di verificare lo stato della fiducia stessa, arrivando, in casi estremi, a prevedere lo scioglimento delle Camere.

Il rispetto per le funzioni attribuite a ciascun potere dello Stato lo avrebbe indotto, in alcune circostanze, a tutelare con la stessa attenzione le prerogative spettanti alla Presidenza della Repubblica: il diritto, ad esempio, di scegliere i cinque senatori a vita di nomina presidenziale senza dare preventiva informazione o il diritto di nominare il presidente del Consiglio e, su proposta di quest’ultimo, i ministri.

In due casi soltanto Einaudi avrebbe partecipato in prima persona alla lotta politica: in occasione della difficile approvazione della legge elettorale del 1953 e dell’annosa questione di Trieste, l’anno seguente.

Sul primo punto, che investiva la modifica del sistema elettorale introducendo un premio di maggioranza che sottraeva la formazione dei governi alle logiche della proporzionale, il Presidente non avrebbe mancato di manifestare il proprio consenso, sebbene subordinato alla condizione che non venisse previsto un premio troppo alto. Su quella scelta pesavano ancora le ragioni della lotta contro la proporzionale che Einaudi aveva sempre combattuto e la convinzione che un sistema uninominale, o al massimo plurinominale, avrebbe meglio risposto all’esigenza di stabilità dei governi.

Del problema di Trieste, e dello scontro con la Jugoslavia di Tito, Einaudi sarebbe stato, come dimostra uno degli appunti pubblicati ne Lo scrittoio del presidente, uno dei principali testimoni e protagonisti. In una consulenza trasmessa all’ambasciatore Manlio Brosio, avrebbe suggerito la possibilità di costruire, con legge interna e non mediante una convenzione internazionale, una zona franca che avrebbe consentito di conservare alla città il suo naturale ruolo di «intermediazione tra i porti d’oltremare e l’entroterra slavo-tedesco». Nonostante le polemiche che accompagnarono il coinvolgimento diretto del Presidente, il suggerimento avrebbe avuto un peso nella conclusione delle trattative che avrebbero portato all’accordo siglato il 5 ottobre con gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Jugoslavia

In realtà, al di là di quell’episodio specifico, la politica estera non avrebbe mai rappresentato uno dei campi di azione ufficiale preferiti da Einaudi. Il suo interessamento si sarebbe per lo più limitato, appunto, a indicazioni, suggerimenti, consigli per lo più relativi alle questioni che investivano le conseguenze economiche delle scelte internazionali del Paese. In questo senso avrebbe rivolto un particolare interesse, ancora in continuità con gli anni precedenti, ai problemi dell’unificazione europea, sia sul piano politico che economico, ribadendo, in diverse occasioni, la difficoltà di avviare rapporti economici con i paesi del blocco orientale e l’importanza di costruire innanzitutto l’unità su solide basi politiche per poter poi rendere più ordinato il processo di integrazione economica.

Molte delle riflessioni maturate nel corso del settennato sarebbero rimaste disattese sul piano della politica concreta. Qualche anno più tardi lo stesso Einaudi le avrebbe fatte oggetto di una delle sue pubblicazioni più note, Le prediche inutili.

Allo scadere del mandato, nel 1955, Einaudi sarebbe tornato ad occuparsi dei temi con i quali si era da sempre confrontato, arricchito della ormai vasta esperienza acquisita ai vertici delle istituzioni. Dalle file del Partito liberale di Giovanni Malagodi, al quale si era riavvicinato, ma da uomo libero, continuò le sue battaglie “contro”: l’inflazione, i monopoli e le pianificazioni, il mito socialista, l’uniformità, il prevalere delle logiche di partito sul pensiero individuale; e le sue battaglie “a favore”: della libertà in tutte le sue declinazione, dell’uguaglianza dei punti di partenza, della prevalenza del liberalismo sul socialismo oltre le somiglianze e oltre le differenze, della scuola.

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