Scritti economici storici e civili, Mondadori, Milano, 1983, pp. 779-848
Gli scioperi del biellese
I
Coggiola (Biella), 17
In viaggio da Biella per Valle Mosso, alcuni operai, un muratore, un falegname mi raccontano dello sciopero della Val Sessera: «Da noi tutti son socialisti. Dopo Crispi, dopo la battaglia d’Adua gli operai si sono schierati tutti nel partito socialista. Vogliamo le otto ore; per ora ci accontentiamo di meno; ma è solo un’inezia; finita la lotta sull’orario, si comincia quella sulle paghe. Con due lire al giorno i meglio pagati, con 8 soldi i ragazzi siamo sempre in debiti: polenta e formaggio e vino niente».
In quanto al vino però sarebbe interessante fare una statistica delle numerose cantine.
A Valle Mosso, ieri, 16, una cinquantina di ragazzi e ragazze attaccafili si sono rifiutati ad entrare in fabbrica; volevano i salari cresciuti da 12 a 25 soldi al giorno; hanno percorso il paese in fila serrata, a quattro a quattro, le ragazze in testa, ed i ragazzi dopo, cantando l’inno dei lavoratori, e gridando: «Viva il nostro deputato, viva Rondani!». In una fabbrica si è già venuto ad un accomodamento, in un’altra si è ancora in trattative.
Nella Val Mosso e nella Val Ponzone si lavora: lo sciopero, ad eccezione degli attaccafili di Valle Mosso, è ristretto alla Val Sessera; a cominciare dal ponte provinciale a Pianceri, tutti gli stabilimenti sono chiusi. Un solo stabilimento piccolo, con 15 telai, continua a lavorare per circostanze speciali; negli altri lavorano ancora gli operai giornalieri, i sorveglianti per ultimare la fabbricazione in corso e per le riparazioni alle macchine ed agli edifici.
Gli operai della Val Sessera sono circa 2500; di questi 800 son tessitori e scioperano unanimi e solidali; 1000 sono operai addetti alla filatura, alla tintoria, all’asciugamento, a cui il lavoro è venuto a mancare in causa dello sciopero dei tessitori. Forse 700 lavorano ancora, ma anche di questi il numero va gradatamente scemando per la mancanza progressiva di lavoro. Coggiola è il centro del movimento operaio; ogni giorno vi è adunanza della lega di resistenza; e si scambiano le trattative fra gli operai e la lega degli industriali, ora direttamente ed ora per mezzo del delegato di pubblica sicurezza. Sessanta soldati con un tenente ed un sottotenente vegliano al mantenimento dell’ordine pubblico. Il paese, eccetto in alcuni momenti, sembra però deserto; era molto più animato prima dello sciopero.
Gli operai di sera affollavano i luoghi di ritrovo. Ora cominciano a stringersi i fianchi. L’ultima quindicina è stata pagata pochi giorni fa; cosicché per un po’ di tempo gli operai possono campare sulle risorse del passato. I fondi della lega non devono essere gran cosa. La lega di resistenza fra tessitori e tessitrici del Biellese è stata costituita il 9 maggio di quest’anno. I soci pagano 50 centesimi alla settimana in caso di sciopero in una delle fabbriche per aiutare i compagni di lavoro; in tempo di quiete 50 centesimi al mese. La lega è dunque troppo giovane perché possa vantare una cassa ben fornita. E la cassa è già stata vuotata altre volte negli scioperi parziali dello stabilimento Bozzalla e dello stabilimento Cerino-Zegna, avvenuti alcuni mesi fa.
Ora la tattica antica è stata mutata; non più la lotta contro le fabbriche isolate per questioni singole, durante la quale gli operai lavoranti potevano soccorrere gli operai inattivi; ma la guerra contro tutte le fabbriche insieme. Gli industriali, del resto, hanno parata la tattica degli attacchi parziali, fermando contemporaneamente tutti i telai e stringendosi in lega di resistenza contro gli operai. È un fatto naturale che si ripete con meravigliosa esattezza in tutti i paesi dove la lotta fra capitale e lavoro ha assunto un carattere generale.
Ora l’origine dello sciopero si ha nella domanda di modificazione d’orario. Interrogo alcuni capi operai i quali gentilmente mi danno informazioni: «Prima dello sciopero, scoppiato quindici giorni fa, noi lavoravamo da 12 a 16 ore al giorno; alcuni, che venivano da lontano, per vie difficili di montagna, rimanevano lontano da casa perfino 16, 17 ore. Rimanevano solo più 8 o 9 ore al giorno per riposarci e prendere i nostri pasti. Alla domenica i tessitori fermano i telai ma gli altri giornalieri spesso continuano a lavorare in alcune fabbriche fino a mezzogiorno. Noi abbiamo chiesto un orario di dieci ore di permanenza nella fabbrica e di lavoro: ad esempio nei mesi di settembre e di marzo noi abbiamo chiesto nel nostro memoriale ai capitalisti (non dicono più padroni; il frasario della propaganda socialista è di uso corrente) di lavorare dalle 6,30 alle 12 antimeridiane e dalle 1,15 alle 5,45 pomeridiane senza interruzione. I proprietari hanno accettato l’orario di dieci ore di lavoro; ma vogliono che nella fabbrica si permanga 11 ore, con due mezz’ore di riposo per la colazione e per la merenda. L’orario sarebbe così dal settembre al marzo: dalle 6,30 alle 11,45 antimeridiane, con mezz’ora di riposo dalle 8 alle 8,30, e dalle 1,15 alle 7, con mezz’ora di riposo dalle 4,30 alle 5. Ci siamo abboccati una volta cogli industriali, ma questi, che avevano ceduto subito sulla questione dell’orario, non hanno voluto concederci di far senza della colazione e della merenda in fabbrica, a cui volevamo rinunciare. Finalmente la questione si era ridotta tutta ad una differenza di un quarto d’ora. Gli industriali avevano concesso l’uscita serale alle 6,30 invece delle 7, ma per guadagnare la mezz’ora perduta, diminuivano di un quarto d’ora la merenda, e facevano cominciare il lavoro un quarto d’ora prima. Su questo punto non abbiamo voluto cedere». «Ma perché non avete accondisceso alle proposte degli industriali?» domando. «Avevate già ottenuta subito una notevole diminuzione di permanenza in fabbrica, da 13 ad 11 ore; sembra cosa da disprezzarsi?». «Gli industriali durante le trattative ci aveano chiesto se noi avremmo in caso di urgenza di forti ordinazioni fatto qualche lavoro supplementare. Dopo che noi generosamente abbiamo detto di non voler guardare pel sottile per otto giorni od anche per due o tre settimane, essi non vollero abbandonare quell’ultimo quarto d’ora». La ragione non ha davvero molto peso; si tratta di questioni separate, da trattarsi disgiuntamente.
La realtà si è che gli operai sono meravigliosamente organizzati e solidali. «Siamo operai coscienti dei nostri diritti» afferma uno con occhi sfavillanti in cui è entrata la fede in un programma nuovo «siamo operai onesti che vogliamo regolare le condizioni del nostro lavoro in modo equo ed umano». E nella spiegazione delle vertenze coi padroni sull’orario si sente un linguaggio che contrasta colle attitudini quasi tradizionali di questi operai. Non si dice: Gli industriali volevano che il lavoro durasse mezz’ora di più, ma: Gli industriali volevano sfruttare una mezz’ora di più.
E si sente che gli operai, od almeno alcuni capi, credono che la fabbrica l’hanno fatta loro. Il collettivismo non è ancora però diventato l’espropriazione degli sfruttatori da parte di coloro che hanno soli creata la ricchezza. «Noi compreremo le fabbriche in contanti e le eserciteremo per conto della società». Tutto ciò ancora avvolto in una oscura nebulosa; sentono che adesso non è ancora sonata l’ora della rigenerazione e si accontentano di ottenere un minor orario e di affermarsi. Sovratutto affermarsi, e qui i miei discorsi cogli operai cambiano tono ed entrano nella politica.
Le risposte sono solo più a monosillabi. Quegli stessi operai che prima discorrevano abbondantemente del modo con cui vivevano, del loro orario, diventano sibillini e muti. Ed è qui, non nelle questioni di orario, in cui è facile accordarsi, che sta se non il perno delle lotte, almeno il germe dell’astio insolito che ora divide in due campi opposti padroni ed operai. Al disotto della calma profonda in cui vive la zona, e dalla quale con quasi assoluta certezza non si uscirà per l’indole tranquilla della popolazione e per gli incitamenti dello stesso partito socialista, cova un fermento mal represso.
Gli animi sono eccitati contro la chiusura di otto esercizi pubblici, dove convenivano i socialisti. Oggi, in pieno consiglio comunale, sette consiglieri presentano un memoriale contro l’operato dell’autorità politica, dove si biasima il sindaco perché quale primo magistrato del comune non ha impedito i soprusi e le illegalità dell’autorità centrale, e si invita il prefetto di Novara a dichiarare per quali articoli di legge la chiusura degli esercizi fu effettuata, oppure a riaprirli subito. E malgrado che un telegramma del sottoprefetto ordinasse al sindaco di togliere questo argomento dall’ordine del giorno, il consiglio, presenti 11 consiglieri su 20, di cui tre tessitori, gli altri osti, proprietari contadini, piccoli commercianti e bottegai, mugnai, fabbri, unanime vota la mozione ed il biasimo al sindaco. Segno di un profondo mutamento nello spirito delle masse.
All’ultima ora sento che gli operai andranno lunedì a vuotare i telai, ossia a finire quelle pezze di panno che erano state al momento dello sciopero lasciate incompiute. Era loro dovere.
20 settembre 1897
II
II Coggiola, 19 settembre
Ho parlato con parecchi industriali cercando di formarmi una idea esatta della situazione. Non tutti raccontano la medesima storia, ma questa varia nei suoi caratteri fondamentali.
Ecco quanto ho potuto raccogliere:
L’industria laniera del Biellese da alcuni anni attraversa tempi se non difficili almeno non più così prosperi come una volta. C’era stato un momento di rinnovata attività al tempo dell’aggio alto; questo agiva come un aumento di dazio protettivo ed impediva la importazione dei tessuti esteri. Allora i telai battevano continuamente; i prezzi erano rimuneratori, i fabbricanti fecero profitti e gli operai ottennero maggiori salari.
Salvo questo momento di floridezza, la industria della Val Sessera si può dire abbia attraversato un periodo di morta nel 1893-94-95. Le crisi imperversanti nell’Italia, le fallanze agricole si ripercossero sull’industria laniera. Si consumavano meno vestiti nuovi e si facevano durare più lungo tempo quelli già usati. Per conseguenza i telai battevano solo la metà del tempo; quattro, cinque giorni alla settimana in alcuni mesi; ed anche quando la fabbrica era sempre aperta, non tutti gli operai erano occupati. Qui la disoccupazione si manifesta in un modo peculiare. Non si getta un terzo, la metà degli operai sul lastrico, occupando di continuo gli altri, ed obbligando alcuni ad emigrar altrove per cercare lavoro; ma tra una pezza e l’altra si fa passare un tempo più o meno lungo, cosicché mentre alcuni operai lavorano, gli altri rimangono a casa.
Così gli operai sono tutti saltuariamente occupati per turno; la disoccupazione e la crisi industriale si manifesta col decremento del numero medio dei giorni in cui gli operai lavorano e non coll’aumento degli operai del tutto oziosi. Del resto gli operai stessi non permetterebbero che alcuni soli fossero in tempo di morta occupati e gli altri licenziati.
Dal periodo di crisi l’industria tessile non è ancora del tutto uscita; un grande stabilimento non lavora il sabato dopo pranzo per non accumulare fondi di magazzino.
Si può affermare però che un qualche risveglio nella Val Sessera si è manifestato nelle ultime campagne. Le ordinazioni sono venute più abbondanti e si sperava in una prospera nuova stagione, quando è scoppiato lo sciopero. Gli operai hanno abbandonato il lavoro senza finire le pezze incominciate. Adesso hanno acconsentito a vuotare i telai; ma il fatto ha prodotto una triste impressione sugli industriali, perché dinota la rottura di un’antica consuetudine che ambe le parti avevano sempre osservata.
Il momento poi è stato scelto dagli operai molto inavvedutamente, secondo gli industriali. La stessa lega di resistenza e qualche influente capo socialista hanno dovuto riconoscerlo. A questo proposito sono necessarie alcune spiegazioni sulle consuetudini commerciali dell’industria laniera. L’anno si divide in due stagioni, d’inverno e d’estate. Nell’inverno si fa la campagna d’estate e nell’estate quella d’inverno. Entro settembre, ad esempio, i fabbricanti finiscono il campionario d’estate e vanno in giro essi stessi o mandano i loro viaggiatori dai grossisti coi cosidetti campioni piccoli, sui quali i grossisti scelgono i numeri che presumibilmente sembra possano incontrare il gusto del pubblico.
Una volta i grossisti facevano subito le ordinazioni ed i fabbricanti si potevano mettere al lavoro; ora invece si fanno per ottobre e novembre i campioni grandi, che i grossisti distribuiscono ai dettaglianti e su cui si ricevono le ordinazioni definitive a novembre dicembre. Questo è uno dei guai maggiori nell’industria laniera. I campioni piccoli, e più quelli grandi, costano un’enormità; mi si citano delle fabbriche dove si spendono da 30 a 100 mila lire senza alcun compenso. Perché i campioni piccoli e grandi vengono distribuiti gratis ai grossisti, alcuni dei quali di sottomano se ne fanno delle collezioni per rivenderli, od anche per ottenerne imitazioni a buon mercato. È questa però una consuetudine radicata, difficile a togliersi, a meno di fare il dettaglio, cosa impossibile per i fabbricanti, che non possono mantenere un esercito di viaggiatori e non vogliono far concorrenza ai grossisti.
Lo sciopero è scoppiato quando in alcune fabbriche si era già ultimato il campionario piccolo e si stava per uscire, ed in altre se ne era già iniziata la preparazione. Ora tutto è sospeso. Se il lavoro non viene ripreso, i fabbricanti non usciranno col campionario piccolo, le ordinazioni non verranno e per sei mesi le fabbriche rimarranno ferme.
Gli industriali ci rimetteranno le spese generali, il costo del campionario, ma non dovranno subire le multe per inadempiute commissioni. Perderanno sovratutto gli operai, ridotti all’ozio per sei mesi, con risorse diminuenti progressivamente, nell’impossibilità di trovare lavoro sulla terra ingratissima.
Allora dovranno emigrare e rimpiangeranno i giorni in cui i telai battevano. Non solo emigreranno gli operai, ma emigrerà l’industria. Già alcuni industriali hanno manifestato l’intenzione di trasportare altrove una parte dei loro telai, nell’agro torinese, in Lombardia, dove la mano d’opera, se non altrettanto sperimentata, è meno costosa e più docile. Si ripeterà quello che è accaduto già per l’industria dei cappelli, una volta fiorente nel Biellese ed ora, per le pretese eccessive degli operai, successivamente trasportata ad Intra e poi a Monza. Sarebbe la rovina ultima delle valli, dove l’agricoltura non offre assolutamente alcuna risorsa. Non solo si è scelto male il momento, ma si è errato eziandio nella scelta del pretesto dello sciopero. Gli scioperi precedenti erano stati diretti contro industriali singoli.
Gli operai degli stabilimenti attivi potevano sussidiare gli scioperanti e protrarre l’inazione per lungo tempo.
Ora accade qualcosa di simile, perché i tessitori di Valle Mosso, di Val Ponzone, di Biella aiutano i compagni di Val Sessera. Ma non è così facile aiutare 2000 persone, come 350, ed il momento della resa dovrà venire presto.
Alle domande degli operai chiedenti un orario di dieci ore, gli industriali risposero accettando le dieci ore, ma intercalandovi due mezz’ore per la colazione e la merenda, dimodoché la permanenza in fabbrica era di undici ore.
Gli operai pretendevano di poterne fare senza, ma gli industriali temevano che i due riposi si sarebbero a poco a poco reintrodotti, riducendo la giornata di lavoro a nove ore. E se essi accettavano la giornata di dieci ore di lavoro effettivo, perché sapevano che l’operaio produce tanto in dieci ore quanto in undici stancandosi meno e lavorando più attentamente ed intensamente, non avevano la medesima certezza quanto all’orario di nove ore. Gli operai potevano, ma non vollero, accettare l’orario modificato. E qui ebbero torto, tanto più che la differenza si era ridotta a poca cosa nelle trattative, come ho già detto dianzi.
La lega di resistenza degli industriali decise di resistere ad oltranza, anche a costo di sospendere le fabbriche per sei mesi, non tanto per la questione dell’orario quanto per quella delle paghe e del regolamento interno. Per ora non si è parlato di aumenti nel salario, ma gli industriali hanno ragione di credere che se essi cedono sull’orario, poco dopo si sciopererà nuovamente per ottenere un aumento nei salari. E questo sarebbe incomportabile all’industria laniera biellese.
I tessitori della Val Mosso e della Val Sessera sono i meglio pagati del Biellese, e quelli del Biellese godono i salari più alti d’Italia. È vero che i biellesi sono più abili (da più secoli addestrati alla tessitura), è vero che esiste una maestranza numerosa e adatta ai varii generi di lavoro, ma non si può negare che quando i fabbricanti vicino a Torino, del Veneto, della Toscana pagano 8, 10 centesimi per ogni mille mandate invece di 14, 16, 18 come a Val Mosso od a Coggiola, quelli possono vincere più facilmente i loro rivali sul mercato. Mentre nel Veneto i tessitori si contentano di lire 1,50 al giorno, nel Biellese guadagnano da 2,25 a 3 lire; ed in una fabbrica nel mese scorso ebbero in media un salario per giornata di lavoro di 3,42 al giorno. Del resto gli industriali non sarebbero avversi ad un aumento nei salari, purché questo avvenisse contemporaneamente in tutta Italia. Ciò è però molto difficile!
All’epoca dello sciopero del 1889 fu concordata fra industriali e tessitori una lista uniforme di tariffe. Per un po’ fu osservata. Ma a poco a poco cominciarono alcuni industriali piccoli ad abbassare la tariffa di un centesimo per volta, ponendo agli operai l’alternativa di accettare i nuovi patti o di chiudere. Cosi si è ritornati al caos antico, e ne soffrono gli industriali che hanno osservato l’accordo. Perché gli operai non dirigono i loro sforzi specialmente contro gli industriali che danno salari più bassi della media?
La lega degli industriali vuole tener duro non solo per opporsi ad un aumento futuro dei salari, ma anche per mettere argine alle intrusioni della lega di resistenza nella disciplina interna degli stabilimenti. Gli industriali non possono oramai licenziare un operaio senza che gli altri abbandonino il lavoro. A Biella, alla fabbrica Squindo, 90 fonditori hanno scioperato in seguito al licenziamento di due loro compagni. Non è possibile nemmeno redarguire gli operai per lavoro mal fatto e per altre cause senza il beneplacito della lega. Con tutto questo gli industriali sono decisi a farla finita. «Vogliamo» dicono essi «essere padroni a casa nostra; non vogliamo essere coartati nella nostra libertà di assumere e licenziare operai da una lega misteriosa ed occulta. I direttori di fabbrica, i capi su cui pesa la responsabilità della buona o cattiva fortuna degli stabilimenti siamo noi; e non vogliamo essere obbligati a tener elementi turbolenti od a noi invisi. Siamo magari pronti a concedere loro anche due, tre, quattro settimane di preavviso, ma vogliamo poter licenziare chi non ci piace».
22 settembre 1897
III
Biella, 23 settembre
Da tre giorni mi sembra di fare uno strano sogno. Mentre viaggio nelle valli industriali del Biellese, e contemplo le fabbriche grandi e piccole inseguirsi lungo il fondo della vallata, ed ascolto i discorsi degli industriali e degli operai, in cui si mescola all’attrito sprizzante dalla nuovissima propaganda socialista il ricordo di un periodo patriarcale non ancora trascorso nelle relazioni fra i varii compartecipanti al prodotto dell’industria, ritornano dinanzi alla mente mia di studioso di cose economiche, le pagine narranti altre lotte, altre propagande nel paese che primo si è slanciato nella vita industriale, dissolvendo le antiche forme economiche ed instaurando sulle loro rovine quella organizzazione industriale che oggi impera incontrastata. L’industria laniera del Biellese attraversa ora un periodo molto simile a quello che si svolse intorno al 1830-40 nell’Inghilterra, e più specialmente nel paese del cotone, il Lancashire. Biella è stata detta la Manchester d’Italia, ed a ragione.
Nella storia i medesimi fatti si ripetono ad intervalli nei varii paesi, e sono l’inevitabile risultato delle trasformazioni economiche che così rapidamente si succedono nel nostro secolo.
Allora, come adesso in Italia, il ceto dei proprietari di terre imperava in Inghilterra, e malgrado che gli industriali si fossero già elevati a grande potenza, forti tasse gravavano su tutti gli oggetti di consumo dell’operaio e sulle materie prime dell’industria; le rivoluzioni nel macchinario si susseguivano a brevi intervalli e sostituivano al telaio a mano il telaio meccanico; gli uomini con salari alti venivano gettati sul lastrico, e le donne ed i fanciulli affollavano le fabbriche e preparavano la degenerazione della razza. Ed assistiamo perciò nell’Inghilterra ad un’agitazione vivissima contro il governo che tortura i sudditi con un sistema tributario iniquo; gli industriali chieggono l’abolizione dei dazi sui cereali; operai, stretti in organizzazioni gigantesche, alzano il grido della carta, bruciano i telai meccanici e mandano al parlamento i loro rappresentanti, coll’incarico di strappare il potere di mano ai signori della terra e dell’industria. La parola guerra di classe diventa il segnacolo in vessillo della classe operaia e gli animi si dividono con un profondo abisso.
Ora molto è mutato nell’Inghilterra; non più guerra, ma trattative, arbitrati. Gli scioperi permangono, ma vi si ricorre solo più in ultima istanza. Gli operai non hanno cessato di organizzarsi per aumentar la paga già cospicua e diminuir l’orario già diminuito, ma avanzano le loro domande solo quando sanno che gli industriali sono in grado di concederle; colle scale mobili aumentano o diminuiscono i salari, a misura che oscillano i prezzi di vendita della merce, da cui tutto si deve trarre: salari, profitti, assicurazioni, imposte, ecc.
Nel Biellese la rivoluzione industriale, che nell’Inghilterra avvenne al principio del secolo, è cosa recente. Solo da una ventina d’anni si è compiuta la progressiva trasformazione del telaio a mano nel telaio meccanico; ed essa non è stata esente da dolorose esperienze. Non si è potuto d’un tratto indurre gli operai che tessevano in casa loro, aiutati dalla intera famiglia, con orario irregolare, con giornate saltuariamente intense e prolungati ozi domenicali e lunediani, a venire alla fabbrica all’ora fissa, tutti i giorni della settimana. Non si seppe subito nemmeno fare il conguaglio fra il salario del tessitore a mano e quello del tessitore a macchina. La scarsità della maestranza abile ed i grandi profitti dei primi industriali tennero per un po’ di tempo i salari ad una misura molto alta; e quando la concorrenza costrinse a ribassare i prezzi, gli operai reagirono contro la diminuzione dei salari. Gli scioperi del 1877 e del 1889 ebbero per cagione appunto la necessità di introdurre una rigida disciplina e regolarità nel lavoro di fabbrica e di fissare in modo uniforme il valore della giornata di lavoro.
Ed ora la situazione industriale è la seguente: sostituito intieramente al telaio a mano il telaio meccanico nei grandi stabilimenti. Rimangono alcuni rari avanzi nelle fabbriche degli antichi telai, conservati per usi speciali, e si veggono ancora lungo le vie radi operai vecchi che si portano sulle spalle il filato per trasformarlo a casa in tessuti. Ma sono eccezioni che vanno rapidamente scomparendo.
Le fabbriche sono di tutte le gradazioni: da quelle che occupano 5 tessitori a quelle in cui si accentrano 800 tessitori e tessitrici.
Nelle fabbriche di una certa importanza si compiono tutte le successive operazioni necessarie per trasformare la lana greggia in tessuto pronto alla spedizione. L’industria non si è specializzata; non vi sono stabilimenti in cui si fili unicamente, altri in cui si tessano solo i generi d’estate oppure d’inverno, altri in cui solo si tinga o si apparecchi. L’ampliamento delle fabbriche non si compie per giustapposizione di saloni dedicati al medesimo lavoro, ma per completamento delle operazioni prima mancanti. Tutti gli attuali industriali della Val Sessera, di Val Mosso, di Biella erano due generazioni fa operai venuti dal niente. Né il processo di reclutamento degli industriali nel ceto operaio ha avuto termine.
Si citano molti fabbricotti, dove si lavora e si guadagna, condotti da antichi operai economi, intraprendenti, riuniti in società, di quattro, cinque amici, o cugini o fratelli. Vi sono molte fabbriche, i cui proprietari o sono andati in rovina od hanno cessato di dedicarsi all’industria, le quali vengono affittate intiere, o per sezioni, a uomini dotati di un qualche capitale, o godenti la fiducia di un amico denaroso o di un banchiere. Si comincia con qualche telaio e si tesse per conto altrui.
Poi s’imprende la tessitura per conto proprio; si aggiunge in seguito la tintoria, la filatura, e lo stabilimento è sorto e può prosperare anche contro la concorrenza di quelli potenti già stabiliti da lunga data. A Biella vi sono industriali che in una dozzina d’anni sono diventati milionari, ed erano capi operai. Non si vuole con ciò asserire che a tutti sia aperta la via di diventare fabbricanti; ora comincia persino a mancare il sito, a meno che con la trasmissione elettrica a distanza della forza motrice esso non venga artificialmente aumentato. Si vuole dimostrare solamente che la classe degli industriali è molto variegata; e va da quelli che sono mezzi operai e lavorano essi stessi o fanno lavorare i proprii figli e la propria moglie, a coloro che si riservano solo la direzione dell’impresa. Non c’è però ancora nessun proprietario di lanifici il quale sia un puro e semplice capitalista e si accontenti della sorveglianza su direttori stipendiati e di percepire alla fine dell’anno un dividendo variabile a seconda delle buone o cattive annate. Non esistono società anonime; se n’era fondata una, ma ha fatto cattiva prova ed ora si sta liquidando. Gli industriali sono essi stessi direttori dello stabilimento e vi dedicano la maggior parte del loro tempo. Per lo più sono parecchi fratelli, cugini o parenti in diverso grado. Uno si dedica alla parte tecnica, l’altro alla parte amministrativa, un terzo disegna, studia la tendenza della moda nelle stoffe, un quarto viaggia a ricevere le commissioni ed a ordinare le nuove macchine.
Il guadagno, una volta più cospicuo d’adesso, ma ancora abbastanza rilevante e non mai nullo, che gli industriali ritraggono dalla loro impresa, non è dunque solo interesse sul capitale impiegato, ma nella maggior parte è compenso per la loro opera di direzione, è un salario come un altro. Certo è un salario di gran lunga superiore al salario dell’operaio, ma la loro opera è anche di merito ben maggiore.
Tutto nelle fabbriche dipende dalla buona direzione ed amministrazione; dove questa manca non giova a nulla avere una maestranza abile ed esperta; gli affari vanno a rotoli e lo stabilimento si deve chiudere con danno del paese e degli operai, gettati sul lastrico ad ingombrare il mercato del lavoro ed a deprimere le mercedi. È vero che i fabbricanti talora sono remunerati profumatamente, ma gli operai non devono solo pensare con ira alle eleganti palazzine ed ai milioni accumulati, ma anche al merito reale di coloro che stanno a capo delle imprese fortunate, ed alla sfortuna di quelli meno abili o vinti nella lotta della concorrenza.
Ho sentito che nel Biellese ogni anno avvengono in media tre o quattro fallimenti nell’industria tessile. È cosa dolorosa, ma inevitabile, e finora l’unico mezzo per incitare al miglioramento della produzione è tener sempre viva e desta l’attenzione degli industriali su quanto è possibile fare per ridurre il costo e per aumentare l’efficacia del lavoro umano. Finora non s’è trovato altro mezzo per attuare la legge del minimo mezzo; né l’ora sembra spuntata di un nuovo ordinamento industriale nell’industria laniera. Gli accordi da qualche industriale invocati e perfino proposte non hanno ivi alcun avvenire. Sono troppo i generi prodotti, così eccessivamente molteplici i fattori di cui bisogna tener conto e così variabili da fabbrica a fabbrica, che è del tutto chimerico pensare a regolare la produzione, perché i prezzi non ribassino e si possano quindi pagare salari alti. Gli operai devono dunque adattarsi al pensiero che per un tempo indefinito futuro la regolatrice suprema dell’industria laniera biellese sarà ancora la concorrenza, non solo italiana, ma anche estera, e regolare su questa nozione sicura la loro condotta e le loro domande rispetto all’orario ed ai salari; e devono pensare che il capitale può ancora trasferirsi, sebbene con perdite per gli industriali e pel paese, ad altri paesi dove maggiore sia il suo tornaconto, e che il trasferimento non dipende dal beneplacito degli industriali, ma dalle inesorabili leggi del minimo costo.
Sovratutto poi è necessario ricordare che gli industriali non sono solo in lotta colla concorrenza, e quindi interessati a pagar poco per vendere a buon mercato, ma sono posti fra l’incudine ed il martello: fra la maestranza che chiede buone paghe ed il governo che affligge l’industria con imposte vessatorie, minute, ostacolatrici della produzione e si appropria una parte notevole del prodotto, parte che altrimenti potrebbe andare ad aumento dei salari. È questo un terreno su cui industriali ed operai sono naturalmente non in lotta, ma d’accordo; e possono stringere una sincera alleanza, gli uni per ottenere diminuzione delle imposte gravanti sull’industria, gli altri per ottenere uno sgravio sui loro generi di consumo. Ed a questo accordo fra industriali ed operai, per ridurre alla parte congrua quel partecipante ignoto e lontano che talvolta si attribuisce la parte del leone, è necessario solo un po’ di fiducia reciproca ed un po’ di buona volontà.
25 settembre 1897
IV
Biella, settembre
«Una casetta un campicello ed una vacca»; questo il grido di alcuni riformatori che in molte contrade industriali si spaventavano davanti allo spettacolo di torme immense di operai raccolti nelle grandi città attorno ad una fabbrica, salariati giornalieri, imprevidenti, beoni, senza legame col suolo, non aventi nulla da perdere e speranti molto in una rivoluzione industriale.
«Diamo a questi paria dell’industria una piccola proprietà, e li trasformeremo in custodi dell’ordine sociale e tutori delle istituzioni vigenti».
L’ideale dei riformatori è in gran parte attuato nel Biellese; nella Val Sessera, dove più, dove meno una notevolissima parte della popolazione operaia è anche proprietaria. Nella Val Mosso mi fu detto che l’80% delle famiglie operaie possiede la casa, il prato e il castagneto attiguo. È una proprietà curiosa, frazionatissima: la proprietà-cencio che non dà abbastanza da mangiare, ma pur tiene legati ed affezionati al luogo natio. I padri vecchi e le madri di numerosa figliuolanza stanno a casa, curano le faccende domestiche, conducono in pastura la vacca o la capra, mungono il latte, tagliano il fieno e lo mettono in serbo per l’inverno; sbattacchiano le castagne o le noci, gli uomini e le donne che ci vedono ancora; i giovani e le ragazze vanno alla fabbrica.
Ognuna di queste proprietà cencio ha un valore altissimo, senza nessuna corrispondenza col reddito effettivo. Solo chi conosce l’affetto intenso del montanaro per la sua terra può spiegarsi come una giornata di terreno, dove non cresce né la vite, né il grano, né la meliga, e dove si raccoglie solo dell’erba, delle castagne e della legna da fuoco, valga da 1500 a 4000 lire, ossia i prezzi attuali dei migliori vigneti nel Monferrato o dei prati della bassa piemontese, dove l’agricoltura non e un’occupazione secondaria ma la principale. Solo in tal modo si può spiegare l’estrema e quasi fantastica suddivisione del terreno, per cui alcuni posseggono poche are, qualche metro quadrato di prato, due o tre piante di castagne. Quando muore il capo famiglia, nessuno rinuncia alla terra; e questa viene divisa all’infinito fra gli eredi.
Questi operai piccoli proprietari guadagnano salari che, cominciando da 10 soldi per i ragazzini di 12 anni, e salendo a 3,50 pei tessitori, a 150-200 lire al mese pei capi sala, disegnatori, si devono dir buoni e superiori alla media italiana. È vero che in alcune campagne si è lavorato poco; a quanto mi fu detto, nel 1894 e nel 1895 gli operai furono occupati solo metà dell’anno; i salari poterono allora discendere a quelle cifre che alcuni tessitori mi descrissero come media, ossia 40 lire al mese.
Ma non si può estendere un fatto eccezionale ad alcuni anni e ad alcune fabbriche a tutti gli anni ed a tutti gli stabilimenti. Nel 1897 la media è stata molto più alta, e giunse in una fabbrica, come ho già detto, a 3,42 al giorno. Per un mese del 1897, scelto a caso, e per una fabbrica tipica della Val Sessera, ho potuto raccogliere dati più precisi. Il 6,3% dei tessitori guadagnò 100 lire ed oltre al mese; il 17,5% ottenne una paga da 90 a 100 lire; il 19,5% da 80 a 90; il 26,5%, da 70 ad 80; il 16%, da 60 a 70; il 9%, da 50 a 60; ed il 5,5%, da 30 a 50. La massa dei tessitori ha dunque uno stipendio medio da 70 a 100 lire al mese; alcuni pochi guadagnano di più; il 30% guadagna meno per cause speciali, e sovratutto per le interruzioni nel lavoro, con cui si manifesta il fenomeno della crisi e della disoccupazione nel Biellese. In un altro mese forse quelli che guadagnarono ora solo da 30 a 50 otterranno di più; ed al loro posto verranno altri. Se si pensa che molti operai non devono pagar fitto, e che del resto questo non è superiore alle lire 3 al mese per camera (camere vere e non soffitte come a Torino), che i proprietari ottengono qualche guadagno supplementare o qualche reddito in natura dalla campagna, sorge nella mente di molti la domanda: «Perché gli scioperi sono più frequenti, il socialismo ha gittato più profonde radici, trascinando uomini e donne, vecchi e fanciulli, a guisa di una novella religione, perché le donne leggono in chiesa l’Avanti! e baciano le mani all’oratore socialista nel Biellese e non invece in altri luoghi, dove i lavoratori sono veramente ridotti alla miseria ed alla fame cronica, come nella bassa vercellese o nella pianura lombarda? Perché si sciopera fra gli operai dei lanifici e non nei cotonifici, dove la paga è minore?».
La questione è complicatissima ed una risposta la si può dare solo con esitanza. Non si tratta, prima di tutto, di un fenomeno isolato e peculiare al Biellese. Prendete qualunque statistica ufficiale e vedrete che in Italia gli scioperi agrari avvengono, non fra gli agricoltori denutriti della bassa Lombardia, ma in quelli più vigorosi e meglio pagati dell’agro emiliano e cremonese; che in Inghilterra ed in America gli scioperi più grandiosi hanno luogo fra gli operai dell’industria metallurgica o carbonifera che hanno l’orario di otto ore, mezza festa al sabato, 10 lire al giorno e la carne al desco durante tutta la settimana, e che ivi aumenta il numero degli scioperi, precisamente come nel Biellese, non negli anni in cui i salari sono bassi, ma nelle annate prospere, quando il lavoro abbonda.
Non è difficile indicare le cause di questo fenomeno. Gli operai mal pagati non si trovano di solito nella grande industria, ma disuniti e separati nelle case loro e nella campagna; non elevano la loro mente al disopra del cibo giornaliero e della fatica necessaria per procurarselo. La vita di fabbrica cambia tutto questo. Nell’industria tessile non si richiede grande fatica muscolare dall’operaio; la macchina fa tutto da sé; esso deve solo stare molto attento. L’attenzione continua per 10, 11 ore, in mezzo ad un fragore assordante, stanca il sistema nervoso e fa nascere il desiderio di cibi e di bevande riconfortanti. La comunanza di vita in un grande stabilimento, il contatto continuo con numerose persone dello stesso ceto, fa sorgere il bisogno di vivere insieme; rallenta a poco a poco i legami di famiglia, indebolisce la forza di coesione dell’unità familiare e rafforza la simpatia fra i varii membri dello stesso gruppo sociale. Alla sera, finito il lavoro giornaliero, l’operaio desidera di ritrovare quelli con cui ha lavorato tutto il giorno, e casca nell’unico ritrovo attraente da lui conosciuto: l’osteria. È straordinario il numero degli alberghi, caffè, osterie, cantine, spacci di liquori, che il viaggiatore osserva nei villaggi industriali.
Nella Val Sessera se ne incontra uno ad ogni passo. Nel comune di Pray sono 11, a Portula 22, a Coggiola 42, a Pianceri 9. E gli osti fanno affari. Gli operai non comprano il vino a brente per consumarlo a casa, ma lo bevono unicamente a litri nelle osterie. Si comprende così come una parte notevole dei salari prende la via dell’oste, come gli operai, quantunque piccoli proprietari, siano imprevidenti, indebitati e malcontenti. È necessaria un’opera lenta e faticosa di rigenerazione sociale, la quale potrà solo essere l’opera degli operai stessi e delle persone generose, di cuore e senza seconde intenzioni, che esistono dappertutto ed abbondano nel Biellese, dove le consuetudini migratorie e la grande attività economica hanno creato una classe di persone le quali vivono di un reddito che fluisce nel paese, ma viene da lontano, e possono mantenersi giudici imparziali fra operai ed industriali.
In mezzo ad una classe operaia disposta dal lavoro di fabbrica alla solidarietà, premuta da bisogni nuovi non prima conosciuti, cadde come scintilla eccitatrice di un grande incendio la propaganda socialista, fomentata ed aiutata dalle discordie fra gli industriali e dalla scissura nel campo costituzionale.
Ed ora gli operai, che hanno sentito durante due successive campagne elettorali predicare da oratori valenti ed instancabili il verbo novello, vogliono tradurlo in atto, e cominciano col chiedere la riduzione dell’orario.
Colla fretta dei neofiti essi sono andati più avanti già dei loro apostoli; ed hanno dopo la lotta politica incominciato la lotta economica in un momento tale in cui, come ho già osservato, una sospensione delle fabbriche può avere lunga durata con conseguenze dannose per le valli biellesi.
Ed accanto alla domanda di riduzione di orario, la quale dopo tutto è stata accettata subito dagli industriali con una differenza minima, spunta lo spettro, pauroso per questi ultimi, di nuove domande: aumento di paghe e impossibilità per i fabbricanti di licenziare gli operai, da loro ritenuti fomentatori di malcontento e di sciopero, senza il consenso della lega di resistenza.
Amendue le domande sono premature. Io non so se un giorno si giungerà nel Biellese ad una condizione tale di cose in cui padroni ed operai non si credano più in diritto di discutere individualmente le condizioni del loro contratto di lavoro e si sottomettano alle decisioni dei comitati misti delle associazioni padronali ed operaie. In altri paesi oramai è questa una consuetudine radicata contro cui nessuno protesta; ma nel Biellese mi sembra ed è prematuro.
Il proprietario dello stabilimento non è una società anonima, un essere impersonale, lontano, a cui poco importa di avere piuttosto questo che quell’operaio, e contro i soprusi dei cui rappresentanti sono necessarie delle guarentigie, ma è un uomo che vive in mezzo alla fabbrica, conosce tutti i suoi operai personalmente ed il quale non si lascerà costringere tanto facilmente a tenersi vicino operai che non gli talentino.
E se i proprietari hanno il dovere di consentire alle domande che sono giuste e ragionevoli, gli operai hanno dal canto loro il dovere di non far proposte, la cui giustificazione si può solo trovare in ambienti ed in condizioni industriali che sono ben lontane dalle nostre.
È un perditempo discutere se nel lontano futuro impererà la libera concorrenza o la organizzazione collettivistica; non si può mettere a base della vita quotidiana le elucubrazioni che lo scienziato viene serenamente facendo nel suo studio; importa sovra ogni altra cosa che industriali ed operai cerchino di evitare nella pratica i sacrifizi immensi causati a tutte le parti contendenti da quell’arma a doppio taglio che è lo sciopero.
27 settembre 1897
V
Lo sciopero che ancora si prolunga fra i tessitori della Val Sessera e dilaga sporadicamente anche nelle altre valli ed in Biella non è stato privo di insegnamenti agli interessati nell’industria della lana. Agli operai ha insegnato che la tattica degli scioperi deve essere sottile e sapiente e richiede accorgimenti e cautele infinite riguardo ai modi ed ai tempi più opportuni per addivenire all’ultima ratio della guerra industriale. Essi si sono accorti che, come nella guerra vera, occorre sapere a tempo debito battere alquanto in ritirata se si vogliono conservare le posizioni conquistate e se si vuole impedire che il nemico approfitti di una mossa sbagliata per metterli in iscompiglio dopo la effimera vittoria.
Sovratutto esso ha insegnato loro a pregiare ed a valersi accortamente dell’arma della solidarietà mercé la lega di resistenza.
Le leghe, che ad alcuni industriali paiono mafie occulte e pericolose da sopprimersi colla forza della legge, sono invece i portati naturali e necessari della grande industria moderna. Ora sono semplici strumenti per lo sciopero, come erano le prime unioni artigiane inglesi. Ma avverrà delle leghe italiane come delle unioni inglesi. Queste, col crescere in potenza ed in ricchezza, videro la utilità di proseguire altri scopi, oltre la resistenza agli industriali, e crearono così nel loro seno casse contro la vecchiaia, la invalidità, le malattie, la disoccupazione, ecc. Inoltre se alle leghe giovani e prive di fondi importa poco iniziare uno sciopero, poiché i rischi sono tenui e si riducono alla perdita di un fondo minuscolo, i capi di potenti unioni guardano con diffidenza allo sciopero che farebbe sfumare come nebbia al vento le centinaia di migliaia di lire di riserva penosamente accumulate e porrebbe in pericolo il servizio delle pensioni e dei sussidi per malattia e per disoccupazione.
Tutte le più potenti unioni artigiane inglesi preferiscono allo sciopero le trattative, gli arbitrati, le reciproche concessioni, ed addivengono alla guerra solo in ultima istanza, con quanto vantaggio della pace sociale e della industria non è chi non veda.
Gli industriali, dal canto loro, hanno imparato quanto valore risieda nell’amichevole accordo per opporsi alle domande degli operai. Dal punto di vista dell’impresa, la lega fra gli industriali sopprime la concorrenza reciproca nella caccia all’operaio, come la lega operaia sopprime la caccia al salario. È l’inizio anche questo di un movimento che sarà lungo e fortunoso, ma potrà essere apportatore di conseguenze benefiche. Nelle dispute fra capitale e lavoro l’esistenza di associazioni padronali ed operaie sopprime il carattere personale, astioso, che si possa nascondere nei punti controversi, e lascia solo venire a galla i punti generali ed impersonali.
Su di questi è più facile trovare il ponte di passaggio per l’accordo fra le parti contendenti. Perché gli industriali ragionerebbero male se dalla forza imprevista esistente nella loro lega conchiudessero alla possibilità ed alla utilità di una guerra ad oltranza contro l’agitazione operaia allo scopo di sopprimere le leghe di resistenza fra le maestranze. L’effetto primo sarebbe forse quello della vittoria e della tranquillità, ma sarebbe vittoria effimera e tranquillità apparente, sotto le cui ceneri continuerebbero a covare i germi della discordia e della lotta.
La esistenza delle due associazioni opposte fornisce invece il mezzo adatto ad introdurre una nuova forma di arbitrio. Seduti ad un tavolo comune, i rappresentanti autorizzati delle due associazioni non tarderebbero a scovrire coll’occhio linceo di cui sono dotati gli uomini del mestiere un terreno neutro di accordo. Il segretario di una delle più potenti Trade-Unions diceva un giorno: «Da venticinque anni nella nostra industria e nella nostra città non avvengono scioperi. La ragione è facile a scoprire. Quando sorge una controversia, i rappresentanti ufficiali delle leghe padronali ed operaie sentono che su di loro incombe una grave responsabilità; da loro dipende il fiorire od il decadere dell’industria; la tranquillità e la pace di migliaia di famiglie o la loro forzata emigrazione all’estero. Non è mai avvenuto che essi si sottraessero alla loro responsabilità e non addivenissero ad un accordo con soddisfazione reciproca».
Ciò che accade altrove, può ripetersi nel Biellese, dove si annoverano gli industriali e gli operai più intelligenti e più abili d’Italia. Molti industriali sono avversi all’arbitrato, alle trattative colle leghe di resistenza, e si dimostrano riluttanti perfino a nominare i membri della loro parte nei futuri collegi dei probi-viri, perché credono che arbitrato significhi resa, abdicazione della propria indipendenza, e paventano che le sentenze del collegio dei probi-viri non siano osservate ed eseguite. È questo un errore funesto. L’arbitrato vuol solo dire sottomissione del giudizio individuale che può fallire perché interessato nella questione, al giudizio di una persona estranea la quale più difficilmente fallirà perché imparziale. Allo stato di guerra succedono così le trattative che creano e rafforzano la pace.
Quanto alla domanda se le decisioni del collegio dei probi-viri saranno eseguite, non si può rispondere se non: provate. E la esperienza del passato è arra sicura che, una volta messa in giuoco la molla della responsabilità collettiva di tutta una classe, questa saprà assurgere all’altezza dei suoi doveri. Se non gli si insegna a servirsi dello strumento nuovo, il novizio non imparerà giammai a maneggiarlo. Del resto i collegi a Como hanno fatto buona prova e preesistevano perfino alla legge nuova regolatrice.
Pel governo, finalmente, scaturiscono dallo sciopero biellese insegnamenti gravi e solenni. La tranquillità delle masse operaie scioperanti ha dimostrato che è inutile e pericolosa la repressione nei conflitti fra capitale e lavoro.
Quantunque le osterie siano veramente sovrabbondanti nei villaggi industriali, a me è sembrata inopportuna la chiusura degli otto esercizi pubblici. Ha eccitato gli animi ed ha allontanato il componimento delle vertenze. Il Biellese non è la Sicilia, ed i tessitori della Val Sessera non sono picconieri delle zolfare superstiziosi e forse violenti.
Il governo deve bensì reprimere le violazioni della legge, ma deve sovratutto regolare le condizioni degli interessati nell’industria, inspirandosi ai supremi principii della igiene, della pace sociale e della preservazione della razza, applicando le leggi esistenti, ed ove occorra, facendone delle nuove. Il ministero ha già iniziato le pratiche per la costituzione dei collegi dei probi-viri, ed ha fatto il dover suo. Esso deve vegliare ancora affinché i collegi si formino e funzionino veramente. Io non so in qual modo si provveda alla osservanza della legge sul lavoro dei fanciulli; certo non se ne curano persone tecniche, ma funzionari amministrativi sovraccarichi di mille faccende diverse. Tanto varrebbe che la legge non esistesse.
Biella è un centro industriale abbastanza importante perché vi venga adibito un ispettore delle fabbriche apposito ed eventualmente anche un sotto ispettore, scelti nel novero delle persone tecniche e pratiche dell’industria, specialmente tessile. L’ispettore dovrebbe vegliare alla rigorosa applicazione delle leggi esistenti e fare un’inchiesta minuta, precisa, paziente, imparziale sugli abusi che si manifestano e che richieggono un rimedio, ricercare, ad esempio, quali siano le vere cagioni per le quali la media dei riformati nei paesi industriali del Biellese è così spaventevolmente alta (quest’anno a Cossato su 50 coscritti se ne riformarono 48). Sarebbe una inchiesta amministrativa, senza inutili spese, col vantaggio che il medesimo organo che propose le nuove disposizioni sarebbe incaricato di applicarle.
Senza conoscere i mali che debbono essere riparati, è inutile legiferare; si faranno leggi bislacche destinate a rimanere senza applicazione, come tante altre in Italia.
6 ottobre 1897
* * * * *
Lo sciopero del porto di Genova
I
Lo sciopero dei lavoratori del porto di Genova, scoppiato improvvisamente ieri in seguito allo scioglimento della camera del lavoro, ha destato una impressione profonda, la quale non si restringe a Genova, ma si ripercuote in tutta l’alta Italia. Noi non sappiamo con precisione quali siano i motivi che hanno indotto il prefetto Garroni a sciogliere la camera del lavoro. Il decreto afferma che la camera faceva opera contraria all’ordine pubblico, istigando anche pubblicamente a delitti contro la libertà del lavoro, all’odio fra le diverse classi sociali ed alla disobbedienza della legge.
I giornali di Genova non ci danno informazioni siffatte da poterci formare un giudizio sulla giustizia e sulla opportunità del provvedimento prefettizio. Sicché a noi non resta se non aspettare il momento in cui un giudizio sereno ed imparziale possa pronunciarsi; pronti, se tale sarà il nostro dovere, a biasimare il prefetto quando lo scioglimento apparisse ingiustificato, od a lodarlo se la tutela dell’ordine imperiosamente avesse richiesto la deliberata chiusura.
Ad ogni modo, qualunque sentenza si voglia dare sul decreto del prefetto, nessuno che serenamente osservi le cose potrà persuadersi che fosse necessario, per un siffatto motivo, pronunciare la generale sospensione del lavoro nel porto di Genova.
Alcuni mesi or sono uno sciopero consimile scoppiava a Marsiglia; e per lunghi giorni le colonne dei giornali recarono informazioni delle sue conseguenze dannose per la vita economica ed industriale della Francia. Marsiglia non è il solo porto francese; eppure l’opinione pubblica si commosse fortemente; tristi presagi si fecero per l’avvenire del commercio marittimo; e si guardò con sospetto ed ansia all’incremento del traffico nei porti stranieri, e sovratutto nel porto di Genova, a danno di Marsiglia.
Tutti rammentano l’indignazione con cui dai nostri vicini si accolse la parola del deputato Morgari, andato ad eccitare alla lotta i lavoratori italiani. Egli apparve – e certo non lo era – come un messo dei commercianti liguri vogliosi di attirare a sé il traffico marsigliese; e come perturbatore dell’ordine pubblico il deputato socialista di Torino fu espulso da un ministero in cui pure moderatore delle questioni del lavoro era il socialista Millerand.
A scagionarsi dalla stolida accusa di essere venduto ai capitalisti genovesi, l’on. Morgari scrisse una lettera al Petit Provençal, nella quale si dichiarava dolente di non avere potuto far scoppiare lo sciopero anche fra i lavoratori del porto di Genova, a causa della assoluta proibizione delle società operaie di resistenza. Egli sapeva – affermando questo – di dire cosa non corrispondente a verità, poiché a Genova esisteva una camera del lavoro forte di 33 leghe e 44 associazioni. Ma il mal vezzo di parlar male all’estero del governo patrio è troppo radicato perché si perda un’occasione sola di dedicarsi a tal genere di esercitazioni retoriche.
Oggi il voto dell’on. Morgari si è compiuto: 8000 operai, eccitati, come da una scintilla elettrica, dal bisogno di protestare contro il decreto prefettizio, non hanno pensato che lo sciopero non era l’unico mezzo di far udire le loro ragioni; che il rimedio era peggiore del male; e che ad altre armi sarebbe stato doveroso ricorrere in questa lotta prima che ad una la quale è atta a ferire non solo chi la impugna, ma insieme la società intera.
Noi non abbiamo bisogno di dire il danno del prolungarsi dello sciopero attuale. Il porto di Genova è l’anima della vita italiana; è un meccanismo perfezionato e delicatissimo, il cui movimento dà vita e ricchezza a regioni ed a moltitudini, ed il cui arresto significa miseria diffusa nelle città popolose e fino nelle più remote campagne dove batte un telaio o dove è giunta la eco del commercio moderno.
Tutta questa vita è possibile e tutta questa ricchezza si svolge sol perché il porto di Genova è un superbo meccanismo atto a sfidare la concorrenza dei porti esteri, sol perché le organizzazioni del lavoro, del carico e dello scarico, le tariffe di trasporto da Genova ai porti d’oltremare ed alle città dell’Italia e dell’Europa sono combinate per modo da concedere ai trafficanti qualche lieve guadagno di pochi centesimi. Ma sospendasi il lavoro per un po’ di tempo, e le navi estere, od almeno quelle navi che possono spostarsi, andranno a caricare ed a scaricare nei porti esteri; e questi a gara si decideranno a concedere quelle facilitazioni che valgono a trattenerle per ora e ad attirarle in futuro. Nella gara internazionale dei traffici un momento perduto può essere la causa di grave danno. Mentre i porti concorrenti per l’accresciuto momentaneo traffico riescono a diminuir le tariffe ed a rendere l’incremento, da temporaneo, permanente; il porto di Genova si trova costretto ad aumentare le tariffe perché le spese generali più non si possono diffondere sul numero antico di atti di scarico e di carico; e l’aumento è un nuovo stimolo alle navi a recarsi altrove.
Grave è perciò la responsabilità di coloro i quali nel delicatissimo meccanismo di scambio fra l’Italia ed il resto del mondo introducono ostacoli materiali o morali, i quali siano cagione che il meccanismo non funzioni. Ciò che importa sovratutto è la vittoria; e per vincere occorre che tutti siano, come i soldati di un esercito, insieme solidali ed inspirati da un unico intento: tutti, dallo stato che è proprietario del porto, agli imprenditori che del porto si giovano per compiere lor traffici, agli operai che ne traggono alimento.
Il governo deve mantenersi al disopra dei partiti, non cedere né ai desideri degli imprenditori né ai clamori degli operai i quali chiedano interventi illegali a favore di una parte. Imprenditori ed operai devono essere animati da quello spirito di tolleranza e di equanimità che appiana gli attriti e risolve le questioni.
21 dicembre 1900
II
Genova, 21
In Genova l’oggetto generale dei discorsi è lo sciopero, il quale va diventando sempre più generale. Oramai sono più di dodicimila gli scioperanti nella sola Genova, tra lavoratori del porto ed operai delle officine; ed a questi si aggiungono altri cinque o seimila scioperanti a San Pier d’Arena ed a Sestri.
Siccome la causa dello sciopero è lo scioglimento della camera del lavoro, avvenuto per decreto prefettizio, così ho creduto dovere recarmi innanzitutto dal prefetto per conoscere i motivi che lo avevano indotto a tale provvedimento. Ecco, secondo quanto mi disse, con molta cortesia, stamane il comm. Garroni, quali ragioni hanno spinta l’autorità politica a sciogliere la camera del lavoro.
Questa già nel 1896 era stata disciolta dal prefetto d’allora, Silvagni, perché compieva atti contrari alle leggi vigenti, e perturbava l’ordine pubblico. In quest’anno, giovandosi della condiscendenza governativa, parecchi componenti l’antico sodalizio si sono ricostituiti da sé in camera del lavoro. Da sé, poiché non consta che vi sia stata una delegazione formale da parte degli operai. Anzi quasi tutti i membri del comitato esecutivo sono estranei al vero elemento operaio genovese. Tutti sono socialisti.
La nuova camera aveva tutti i caratteri dell’antica già disciolta, per cui dovere del prefetto attuale era di mantenere fermo il decreto del suo predecessore Silvagni.
Si aggiunga che, anziché avere scopi di intervento e di tutela delle ragioni dei lavoratori, quando se ne presentasse la necessità, la camera del lavoro ha costituito nel suo seno delle leghe di miglioramento per ognuna delle varie professioni, eccitando desiderii eccessivi nei membri delle leghe. Quando poi gli operai, presentarono domande di revisione di tariffe od aumento di salari, la camera del lavoro ha avuto l’aria di intervenire come paciera fra capitale e lavoro a dirimere un conflitto che essa aveva suscitato. Le leghe di miglioramento a poco a poco si mutarono così in leghe di resistenza e di prepotenza. Chi non era socio difficilmente poteva trovar lavoro, a causa delle intimidazioni della lega.
La camera del lavoro veniva in tal modo a compiere un’azione contraria alle leggi dello stato, annullando l’opera della camera di commercio e dei collegi dei probi viri, e facendo affiggere pubblici avvisi con cui invitava gli operai a far capo, non più alle autorità, ma esclusivamente ad essa. Le riunioni aventi carattere pubblico e discorsi violenti erano frequenti e costituivano un continuo eccitamento all’odio fra le classi sociali, e sovratutto fra capitale e lavoro. Ogni giorno una questione nuova veniva sollevata per dar agio ai dirigenti della camera di intervenire.
Perciò la camera del lavoro fu disciolta, lasciando sussistere però le leghe di miglioramento. Non perciò gli operai rimangono privi del mezzo di far valere le loro ragioni di fronte agli imprenditori.
Il comm. Garroni mi espose un suo disegno, che egli ha eziandio manifestato ieri all’onorevole Pietro Chiesa, il quale era andato da lui per sentire le ragioni dello scioglimento.
Esiste una legge dei probi viri, destinata a dirimere i conflitti tra capitale e lavoro. È vero che ora la legge non si applica ai lavoratori dei porti. Ma è sempre possibile, sia con una interpretazione autentica, sia per accordo delle parti, costituire collegi dei probi viri in cui siano rappresentate le due classi degli imprenditori e degli operai.
Nulla vieta inoltre che i probi viri eletti dalla classe operaia si possano costituire separatamente in camera del lavoro o segretariato del popolo – il nome non importa – per trattare le questioni operaie. La nuova camera del lavoro sarà una vera emanazione della classe operaia, e non sarà composta solo di otto persone scelte da se stesse.
Contro la rappresentanza legale degli operai, eletta da tutti gli interessati con le necessarie garanzie, nessun decreto di scioglimento interverrà mai, almeno finché il tribunale dei probi viri e la parte operaia si mantengano entro i limiti indicati dalle leggi. Questi gli intendimenti del prefetto, esposti all’on. Chiesa e su cui stamane, alle ore 10, doveva deliberare l’assemblea degli scioperanti.
Mi recai ai terrazzi di via Milano, dove era assiepata una folla immensa, ed in compagnia di alcuni giornalisti potei assistere alla discussione che nella sala di una società operaia tenevano i delegati delle leghe di miglioramento e numerosi membri della disciolta camera del lavoro.
Presiedeva l’on. Chiesa, un bel tipo di operaio intelligente e dotato di praticità e buon senso. Due correnti predominavano nell’assemblea; ed importa fermarcisi su, perché possono aiutare a spiegare l’origine e la persistenza dello sciopero.
Tutti gli operai ed i capi del movimento – fra cui alcuni non operai – sono d’accordo nel ritenere che lo scioglimento della camera del lavoro è stato un arbitrio inqualificabile del prefetto il quale, appena fu sicuro, per la chiusura della camera dei deputati, che non si sarebbero potute fare interpellanze al riguardo, con un colpo di testa sciolse la camera del lavoro, perquisì locali, asportò registri, ecc.
Nulla giustificava, affermasi, l’atto prefettizio. La camera del lavoro e le leghe di miglioramento si erano sempre adoperate a sedare i conflitti tra capitale e lavoro; e solo ai buoni uffici della commissione esecutiva è dovuto se alcuni scioperi gravissimi non scoppiarono nei mesi scorsi fra gli scaricatori di carbone e di grano, e se si poterono di buon accordo fra imprenditori ed operai ripristinare, alquanto modificate, le tariffe del 1892, che erano cadute parzialmente in disuso.
Lo scopo vero dello scioglimento si fu di mettere gli operai nella impossibilità di avere un organo proprio di difesa. Quando le leghe saranno disciolte, chi potrà far osservare le tariffe concordate? Alla prima occasione gli imprenditori le violeranno e vorranno pagare alquanto meno dello stabilito; e gli operai non avranno alcun mezzo di reagire.
Perciò scioperarono tutti. Non è questa una questione economica; è questione di dignità civile e di solidarietà.
Quanto alla solidarietà, devo rilevare una circostanza. Gli operai ascritti alle varie leghe del porto sono 4000, eppure gli scioperanti nel solo porto ammontano a 6000; il che vuol dire che si astennero dal lavoro operai non iscritti alle leghe. Ciò avvenne non già per solidarietà, ma perché è interesse dei negozianti o di scaricar tutto o di non scaricar nulla.
Le navi quando giungono in porto denunciano il numero dei giorni entro cui deve effettuarsi lo scarico. Se lo scarico dura di più, allora la nave va incontro alle stallie, ossia paga un diritto supplementare, detto di controstallia, che per i piroscafi moderni può calcolarsi a duemila lire al giorno. Se per uno sciopero parziale alcune navi lavorano ed altre no, quelle che non lavorano devono pagare le controstallie; ed è quindi interesse dei negozianti di non lavorare affatto, perché quando la inazione è generale si presume sia dovuta a forza maggiore e non si pagano le controstallie, mentre se la inazione è parziale, il regolamento la reputa dovuta all’opera dei negozianti e fa pagare il maggior diritto.
Perciò tutti scioperarono; gli ascritti alle leghe per protesta politica contro l’atto del prefetto, ed i non ascritti perché così portano le necessità degli ordinamenti portuali.
Di fronte alle nuove proposte prefettizie, conviene continuare nello sciopero?
Una parte, più intransigente, reputava che delle parole del prefetto non si dovesse fare il menomo conto, che esse fossero unicamente una manovra fatta per indurre gli operai a cedere ed a ritornare al lavoro, salvo poi disciogliere anche le leghe ed annientare ogni organizzazione operaia.
Altri, fra cui l’on. Chiesa, guardavano sovratutto all’aspetto pratico della questione. Il fatto si era che il prefetto, sotto una nuova forma, e con elezioni fatte in modo speciale, a norma della legge dei probi viri, permetteva la ricostituzione della camera del lavoro. «Perché sofisticare sulla forma quando si era ottenuto la sostanza? Non era forse vero che lo scopo degli operai, nel costituire la camera del lavoro, era quello di tutelare i nostri diritti? Non si era forse già dimostrato, scioperando in massa, che i lavoratori del porto di Genova sanno resistere alle illegalità governative? Un’altra volta il prefetto si piglierà ben guardia dal molestarci perché saprà che noi siamo fermamente decisi a resistere».
«Si aggiunga» notavano i fautori della moderazione «che continuando nello sciopero perderemo quello che ancora ci resta; le leghe saranno disciolte e perderemo il frutto di tanti mesi di lavoro. L’opinione pubblica, che ora ci è favorevole, si rivolterà contro gli operai perché i danni del commercio arenato, danni che ammontano a milioni di lire al giorno, si faranno vivamente sentire non solo in Genova, ma in tutta l’alta Italia. E non c’e mai stato nessun sciopero d’importanza generale il quale abbia avuto un esito propizio quando l’opinione pubblica vi era avversa».
Le decisioni degli scioperanti vi sono già state telegrafate: una commissione di nove si abboccherà oggi col prefetto, col sindaco e col presidente della camera di commercio; e finché non si sia venuti ad un accordo sulla base della ricostituzione della camera del lavoro, sotto una forma od un’altra, e sulla restituzione dei registri, fu deliberato di continuare lo sciopero.
22 dicembre 1900
III
Genova, 22 dicembre
Si dice che gli italiani abbiano il vizio di cominciare tutti i loro libri col descrivere le origini del mondo. Siccome però di questo vizio italiano sono abbastanza immuni i giornalisti, così spero che mi si vorrà perdonare se in questa mia lettera sullo sciopero attuale prendo le mosse da un’epoca un po’ remota.
I lavoratori del porto di Genova hanno infatti dal medioevo avuto la tendenza a raggrupparsi in corporazioni per la tutela dei loro interessi e per la determinazione dei salari e delle altre condizioni del lavoro. In verità sarebbe difficile fare altrimenti. Dove gli imprenditori sono pochi, e gli operai si contano a migliaia, e tutti sono, suppergiù, egualmente forti ed atti a compiere il rude lavoro di facchinaggio che è loro imposto, è naturale che gli operai si riuniscano in società per non portarsi via il pane l’un l’altro, per regolare l’ammontare del salario e la durata del lavoro.
Ancora. Siccome il lavoro del porto non è continuo, ma muta di giorno in giorno per intensità ed ampiezza, così è necessario che sul porto esista un’armata di lavoratori capace di far fronte ai lavori dei giorni di massima nello scarico e nel carico; e siccome nei giorni di lavoro medio od inferiore alla media non tutti possono essere occupati, così è d’uopo che gli operai si accordino per alternarsi al lavoro in modo che nessuno corra il rischio di morir di fame, quando il lavoro è scarso. Altrimenti alcuni si dedicherebbero ad altre professioni, e nei giorni di lavoro massimo mancherebbe la mano d’opera.
La necessità di provvedere a queste speciali contingenze del lavoro del porto di Genova – contingenze esistenti del pari in tutti i grandi porti e che dettero origine, anni or sono, al gigantesco sciopero dei facchini del porto di Londra – era talmente sentita che una compagnia, intitolata con lo strano nome di Compagnia dei caravana, esiste ancor oggi, la quale data dal principio del secolo XIV. Uno statuto dell’11 giugno 1340, nel suo primo articolo, in un linguaggio mezzo tra il genovese e l’italiano, dice: «Questi son li statuti e le ordination facte per tuti li lavoraor de banchi e de lo ponte de lo peago e de lo ponte della calcina e in tuti li altri logi facta e ordenà per lo prior, ecc. ecc.». Il priore incassava tutti i guadagni dei soci della compagnia; provvedeva alla cura dei malati e feriti. Per un curioso privilegio i soci dovevano essere bergamaschi e perciò i mariti mandavano le mogli a partorire a Bergamo, perché i figli potessero far parte della compagnia dei caravana. La quale aveva il privilegio esclusivo del carico e dello scarico nel porto di Genova, onde nascevano continue controversie coi facchini liberi ed abusivi da parte dei soci, che alla fine del secolo scorso erano giunti persino a vendere i loro posti.
Protetti dalle autorità genovesi, perché la compagnia accoglieva solo uomini di specchiata condotta morale e garantiva ogni danno che per avventura potesse essere arrecato dai soci; risparmiati dalle leggi abolitive di Napoleone e di Cavour, e dal legislatore italiano del 1864 che aboliva tutte le corporazioni operaie, i caravana, non più bergamaschi, ma italiani in genere, si mantennero fino ad ora, e vivono di vita fiorente.
Essi non sono più gli unici ed esclusivi facchini del porto di Genova, perché il loro privilegio è limitato allo scarico, al peso ed al trasporto delle merci provenienti dall’estero nel recinto del porto franco e della dogana, ossia nei luoghi dove si compiono operazioni daziarie su cui ha autorità ed ingerenza lo stato.
Sono circa 220 con a capo un console nominato dall’intendente di finanza e parecchi capi squadra. Versano tutti i guadagni in un fondo comune, il quale basta a pagare le spese d’amministrazione, a distribuire una pensione ai caravana resi inabili al servizio per vecchiaia o per ferite, ed a dare ancora un salario medio mensile non inferiore a 120 lire.
Tutti gli altri facchini e lavoratori liberi del porto – più di 6000 – guardano a questi 220 caravana del porto franco con invidia. Soggetti, come sono, a tutte le alee del commercio marittimo, sempre col rischio di rimanere disoccupati, i facchini liberi hanno sempre istintivamente sognato di costituire una corporazione che distribuisse fra tutti equamente il lavoro, desse un’indennità in caso di infortunio, li tutelasse contro gli sfruttamenti, provvedesse alle vedove ed agli orfani. Il divieto posto dalla legge del 29 maggio 1864 alla costituzione legale delle corporazioni d’arti e mestieri non ha fatto altro che acuire il desiderio di fondarle sovra una base libera, ma estesa a tutti i lavoratori.
Le società di mutuo soccorso, numerosissime, sono una manifestazione della tendenza. Così pure i bagon, curiose società, in cui gli operai si dividevano in turni, ed ogni turno attendeva al lavoro quando la sorte lo designava.
Tanto più il desiderio di avere nelle associazioni uno schermo contro le avversità della vita cresceva, in quanto la concorrenza fra gli operai veniva fomentata dai cosidetti confidenti o capi-squadra, i quali fungono da intermediarii fra la mano d’opera e i commercianti, che, avendo bisogno di caricare o scaricare una nave non vogliono trattare con 100 o 200 operai individualmente, ma con un solo che negozi a nome di tutti gli altri. Dei confidenti io ho sentito raccontare cose molto diverse. Gli uni affermano che i confidenti percepiscono un guadagno, lauto bensì, ma ben meritato dalle loro fatiche manuali e dalla loro opera di intermediazione.
Se si vogliono condannare i confidenti, quasi tutti uomini colossali, dalla muscolatura erculea, che sollevano pesi enormi come una piuma, bisognerebbe condannare tutti quelli che comprano e vendono e che dal facilitare gli scambi traggono un qualche guadagno. Altri invece afferma che i confidenti sono esosi sfruttatori della mano d’opera. Ricevono cinque dai commercianti e pagano la metà o poco più agli operai. La giornata media di parecchi confidenti non sarebbe inferiore ad 80 o 100 lire al giorno. Vi sono alcuni fra essi, antichi camalli, i quali si sono arricchiti a milioni e posseggono castelli sulla riviera ligure. Essi sono sempre pronti ad attizzare la discordia fra commercianti ed operai per farne loro pro. Anche ora non sono malcontenti che la camera del lavoro abbia spinto gli operai a far domande di aumento di salari, perché sperano di ricevere bensì dai commercianti le paghe secondo le nuove cresciute tariffe, salvo a distribuirne solo una parte agli operai, intascando il resto.
Per meglio speculare, i confidenti da alcuni anni avrebbero chiamato dalle montagne una moltitudine di contadini ignoranti e rozzi ad accrescere le falangi dei facchini del porto. Mettendo abilmente gli uni contro gli altri, i confidenti sarebbero riusciti a diminuire i guadagni degli operai, obbligandoli a lavorare al disotto delle tariffe per la tema di vedersi soppiantati da altri nel lavoro.
Qualunque giudizio si voglia arrecare intorno a codesti confidenti, è certo che gli operai del porto, da lungo tempo desideravano di trovare un organo per la difesa dei loro interessi.
Non già che le giornate di lavoro siano mal pagate; 6 o 7 lire al giorno sono una paga comune. Il guaio si è che la paga è saltuaria, oscillante, soggetta ad intermittenze e ad incertezze le quali molto contribuiscono a deprimere le sorti dei lavoratori e ad abituarli a costumi di oziosità e di spreco deplorevoli.
Di questi bisogni della classe operaia del porto di Genova pochissimi – è doveroso confessarlo – si diedero pensiero. Né il comune, né la camera di commercio e neppure gli altri enti politici o commerciali si accorsero mai che qualche cosa bisognava pur fare per organizzare gli operai e per impedire che un bel giorno il malcontento desse origine a dissidii ed a sospensioni del lavoro, perniciose per la vita di un porto come quello di Genova, di importanza non solo nazionale, ma internazionale.
Il solo che si sia occupato – fra le classi dirigenti – a dirimere le questioni del lavoro ed a mantenere la pace in mezzo agli operai del porto è un funzionario di pubblica sicurezza, Nicola Malnate, a cui la meritata commenda non ha mai tolto il desiderio di vivere ogni giorno da vent’anni la vita tumultuosa del porto, sempre intento a far da paciere fra capitale e lavoro.
In questa sua opera il Malnate nessun aiuto ottenne mai. Non dal governo, occupato in altre cose; non dalla camera di commercio, i cui mentori, in troppe faccende affaccendati, si occupano delle questioni del lavoro e del porto solo per accusarsi a vicenda di ottener favori nei trasporti a scapito dei rivali; non dai commercianti e dagli industriali, i cui rapporti con gli operai non sono ancora improntati a molta cordialità ed umanità. Non è spento ancora il ricordo di quel vecchio operaio che, dopo trent’anni di servizio ininterrotto in uno dei più grandi cantieri genovesi, fu buttato sul lastrico con 15 lire di buona uscita – il salario di una settimana di lavoro -; sì che il vecchio, ridotto alla disperazione, finì per annegarsi nelle acque del porto.
Che meraviglia, se di fronte a questa assoluta assenza e noncuranza delle classi dirigenti, i lavoratori del porto di Genova abbiano prestato ascolto alle predicazioni degli apostoli del socialismo? Che meraviglia se i socialisti, organizzando le leghe di miglioramento, abbiano attirato a sé gli operai, disertati da tutti, e si siano impadroniti per modo dell’animo loro da farli agire come un sol uomo nel senso che i capi del movimento desiderano?
23 dicembre 1900
IV
Genova, 23 dicembre
Ora la disciolta camera del lavoro è ricostituita e le leghe di miglioramento ritornano a funzionare. Il governo, che avea voluto far atto di autorità collo scioglimento, ha dovuto piegare dinanzi alla formidabile protesta degli scioperanti.
Ed allora perché sciogliere prima per ricostituire poi? Forse perché la camera del lavoro era quasi esclusivamente dominata da socialisti? Vi ho già dimostrato, in una precedente lettera, che le associazioni fra gli operai del porto rappresentano una vera necessità economica, se si vuole avere un’organizzazione del lavoro efficace e pronta. Il fatto che le leghe siano state costituite da socialisti prova tutto al più che questi erano stati più attivi e più abili degli altri partiti ed avevano saputo prima e soli trarre profitto dalla condizione dei lavoratori del porto di Genova. Ora, siccome non è lecito fare il processo alle intenzioni, lo scioglimento sarebbe stato legittimo solo quando, dietro l’impulso del partito, socialista, l’opera della camera del lavoro e delle leghe di miglioramento si fosse estrinsecata in modo contrario alle leggi.
A questo proposito ho esaminato gli statuti delle leghe ed ho interrogato persone che ne conoscono il funzionamento pratico e, per la loro posizione sociale, sono in grado di dare un giudizio imparziale.
Ecco i risultati ai quali sono giunto, risultati che ho motivo fondatissimo di ritenere fossero pienamente noti alle autorità politiche nel momento in cui fu deciso lo scioglimento della camera del lavoro.
Le leghe costituite nel porto ed affiliate alla camera del lavoro sono otto: 1) lega tra i facchini del carbone (600 soci); 2) tra gli scaricatori di carbone con 700 soci; 3) tra i coffinanti, ossia caricatori di carbone, con 500 soci; 4) tra i facchini in grano, con 400 soci; 5) tra i lavoratori in cereali, con 300 soci; 6) tra i giornalieri, caricatori e scaricatori di bordo, con 1400 soci; 7) tra i giornalieri chiattaiuoli, con 200 soci; 8) tra i pesatori di carbone, con 100 soci.
In tutto 3600 soci su 6000 operai, i quali, unendosi in lega e pagando una tassa d’iscrizione da lire 2,50 a lire 15 ed una tassa mensile da lire 1 a lire 2,50, si proponevano di costituire un’associazione intesa a regolare le condizioni del lavoro nel porto.
Scopo finale della lega era di stringere insieme tutti i lavoratori, escludendo dal lavoro gli operai non iscritti o non accettati nella lega e infliggendo multe ai soci i quali accettassero patti di lavoro non conformi alle prescrizioni delle singole leghe.
Dire se questi scopi siano oppur no contrari alle leggi vigenti dipende dal sapere se essi si raggiungono colla persuasione e cogli accordi liberi coi principali, oppure con violenze ed intimidazioni.
Se tutti gli operai lavoranti in una data azienda si mettono d’accordo a non accettare meno di un dato salario; o, se anche essendovi operai liberi, estranei alle leghe gli imprenditori consentono a impiegare soltanto gli operai associati, non si commette alcuna violazione di legge. Gli operai sono padronissimi di non voler lavorare se non a certe condizioni; gli imprenditori sono liberi di scegliere i loro lavoranti dove vogliono.
La violazione della legge e in ispecie degli articoli 154 e 165 del Codice penale si ha solo quando con minacce o intimidazioni, materiali o morali, si attenti alla libertà del lavoro, impedendo agli operai “liberi” di lavorare od agli imprenditori di scegliere i lavoranti dove meglio loro aggrada.
Ora a me consta che le autorità di polizia e politiche di Genova sapevano che questi mezzi delittuosi non furono mai finora messi in azione dalle leghe. Il processo che si intenterà forse ai componenti della disciolta camera del lavoro dimostrerà la verità di quanto ora affermo e che – ripeto – era cosa nota alle autorità.
Anche durante lo sciopero attuale le autorità di polizia poterono constatare che gli scioperanti non avevano posto alcun ostacolo alla libertà del lavoro. Quegli operai che nel primo giorno vollero lavorare, poterono liberamente caricare e scaricare navi, senza timore di minacce e senza intimidazioni.
L’unica legge perciò in base alla quale si potesse pronunciare lo scioglimento di società, le quali si propongano con accordi, sia pure volontari e liberi, di monopolizzare il mercato del lavoro, era la legge del 29 maggio 1864 abolitiva delle corporazioni di arti e mestieri.
Ma a parte che si tratta di una legge antica, disadatta alle moderne necessità economiche, e che da lunghi anni si permette ad associazioni vietate in teoria da quella legge di sussistere e di fiorire liberamente, sta il fatto che il prefetto non ha nemmeno creduto opportuno di citarla nel suo decreto. Il che prova essere ormai universalmente riconosciuta la necessità di una organizzazione dei lavoratori del porto.
Dato che la camera del lavoro e le leghe non aveano commesso alcuna violazione delle leggi esistenti, è chiaro che lo scioglimento si può giustificare soltanto per motivi di ordine pubblico o per il desiderio di sostituire alla camera disciolta un organismo migliore di tutela e di pacificazione sociale.
Quanto ai motivi di ordine pubblico, è lecito chiedersi: perché, se quei motivi apparvero esistenti ieri, per la camera disciolta, si credono scomparsi oggi con la camera nuova, composta quasi dei medesimi elementi? O forse si crede che il governo sia ora più capace di tutelare l’ordine contro una istituzione sovversiva ricostituita di quanto non fosse prima di rimangiarsi ad una ad una tutte le disposizioni prese contro i sovversivi disciolti?
Quanto all’intenzione delle autorità politiche di sostituire alla organizzazione abolita una migliore magistratura del porto, costituita, come mi spiegò il comm. Garroni, sulla base dei tribunali dei probi viri, pare a me che il modo scelto per ottenere lo scopo non sia stato il più felice.
Non è collo sciogliere improvvisamente la camera fondata dagli operai, che si inducono questi ad accostarsi ad un nuovo organismo creato da chi ha distrutto quello che essi si erano da sé costituito. Occorreva fondare prima i tribunali dei probi-viri; far toccare con mano i vantaggi che operai e imprenditori potevano trarne. A poco a poco gli operai genovesi, che sono gente pratica su cui le teorie fanno poca presa, si sarebbero abituati a guardare con fiducia ai nuovi tribunali ed avrebbero lasciato in asso le associazioni socialiste, quando si fossero accorti della inutilità di farne parte.
Invece, sciogliendo la camera esistente prima che qualcosa si fosse creato per sostituirla, si è quasi fatto credere che il governo volesse impedire ogni organizzazione dei lavoratori, per fare il vantaggio dei datori di lavoro. Il che non poteva non fornire un’ottima arma in mano ai capi socialisti per indurre gli operai ad opporsi fieramente al decreto prefettizio.
Lo sciopero fu certamente un danno grave per l’industria, i commerci e gli operai medesimi. La perdita di un milione di lire al giorno è stata vivamente risentita dalla piazza di Genova. Coloro i quali hanno da tanti mesi riempito la testa degli operai genovesi di parole grosse, come: “solidarietà, sfruttamento dei capitalisti, ecc. ecc.”, hanno certo una grave responsabilità, la quale sarebbe stata ancor maggiore se, ostinandosi il governo a non concedere nulla, le perdite economiche fossero cresciute al di là della già grossa somma presente.
Ma che dire dell’autorità politica, che a cuor leggero compie un atto senza sapere che questo avrebbe eccitato gli animi degli operai già infiammati dalla predicazione socialista e lo compie per giunta in un momento nel quale, per i traffici intensissimi, si poteva prevedere che i medesimi ceti commerciali di Genova avrebbero implorato ogni sorta di concessioni pur di poter riprendere il lavoro?
La conchiusione non è lieta. Uno sciopero come quello del porto di Genova è l’indizio di una condizione sociale in cui nessuno ha una coscienza precisa dei proprii doveri e dei proprii diritti. Da un lato la piazza che si impone al governo e distrugge il principio di autorità. Dall’altro il governo che si immagina di sciogliere le questioni del lavoro a colpi di decreto. E fra i due una grande istituzione nazionale – ché tale è il porto di Genova – la quale corre il pericolo di vedersi sopraffatta dalla concorrenza straniera. Qui è il pericolo maggiore. L’esperienza odierna ha dimostrato che il porto di Genova funziona per caso.
Quando ho visto un silenzio di morte regnare sulle calate dove il giorno prima fervevano lavori tumultuosi, una domanda mi si è presentata spontanea: ma che davvero non vi sia nessun mezzo di impedire conflitti, che possono mettere in forse la continuità della vita industriale e commerciale di mezza Italia, e farci perdere i vantaggi ottenuti faticosamente con una lotta diuturna nella concorrenza cogli altri porti?
Dato il modo come è ora organizzato il porto di Genova, le crisi sono inevitabili. Il porto è un caos, dove si incrociano e si confondono le autorità di polizia e di dogana, il governo politico, la camera di commercio, il comune, le ferrovie, i negozianti, gli armatori, gli operai colle loro leghe, i confidenti, ecc. ecc.
È un miracolo che gli attriti non siano più frequenti in questo intrecciarsi e sovrapporsi di competenze, di autorità e di interessi in lotta. Questa non è libera concorrenza, è confusione di burocrazie e di enti che si vogliono sopraffare a vicenda. Se il porto fosse un ente autonomo, libero ed agile nei suoi movimenti, tutti gli interessati saprebbero bene trovare il modo di farsi ascoltare e di mettersi d’accordo. Se, per esempio, nella futura magistratura del porto di Genova vi fossero alcuni rappresentanti delle leghe operaie, si potrebbe star sicuri che le questioni relative ai salari ed alle ore di lavoro sarebbero risolute.
In Inghilterra, quando, nel 1875, le leghe operaie erano maggiormente accusate di sopraffazioni e di delitti contro la libertà del lavoro, al governo non venne neanco in mente che il miglior rimedio fosse di scioglierle. Una legge concedette alle leghe la massima libertà di azione, obbligandole soltanto a non lavorare nel mistero, ma alla luce del sole. Adesso ogni tinta rivoluzionaria è scomparsa nelle unioni britanniche, divenute fin troppo borghesi per i socialisti del continente. Se anche da noi fosse riconosciuta la necessità delle associazioni operaie, e se ad esse fosse riconosciuta la parte che loro spetta nel determinare le condizioni del lavoro, i benefizi ben presto sarebbero evidenti. Gli operai del porto di Genova non sono né poco intelligenti, né rozzi, come si vorrebbero far credere. «Qui nel porto» è un ispettore di pubblica sicurezza il quale così scrive «un barcaiuolo è così sottile matematico che dottamente intrattiene l’Accademia dei Lincei; un carbonaio, Giambattista Vigo, era così gentil poeta da meritarsi dalla civica amministrazione di Genova, alla morte, il tumulo che già era stato accordato a Felice Romani; un facchino, Niccolò Conti, detto Legna, è così profondo in dialettica ed eloquenza da oscurar la fama di celebri avvocati; e un console di Caravana, Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, legato in amicizia con illustri statisti del risorgimento italiano per meriti patriottici, professa filosofia, dirigendo il facchinaggio di dogana, al pari di un antico sapiente dell’areopago di Grecia».
Date ad una classe operaia siffatta la possibilità di trattare liberamente, per mezzo delle proprie associazioni, cogli imprenditori e col governo, le questioni del lavoro, e dopo dieci anni non sentirete più parlare di sciopero, perché tutti avranno la coscienza del dovere di rimanere uniti contro la concorrenza estera, e non vedrete più tribuni socialisti alla testa degli operai, perché questi avranno imparato a curar da sé i proprii interessi e non avran più bisogno di tutori.
24 dicembre 1900
V
La risposta che il presidente del consiglio ha dato all’interpellanza Vitelleschi non può a meno [sic] di produrre una dolorosa impressione. L’on. Saracco non osò negare di avere errato nell’apprezzamento dei motivi che lo avevano indotto a decretare lo scioglimento della camera del lavoro di Genova; ma dell’errore gittò la colpa sulle autorità locali di polizia. Negò recisamente di aver ceduto dinanzi alle imposizioni della piazza e di aver fatto ricorso alla mediazione di elementi sovversivi; e volle far credere che la vittoria degli scioperanti fu dovuta soltanto al suo desiderio che nella città di Genova la calma ritornasse senza dover far uso della forza repressiva posta in sue mani.
A noi sembra che il capo di un governo responsabile non debba poter fare in moda siffatto la cronistoria di una sciopero come quello di Genova. Non era forse dovere del governo l’indagare – magari andando di persona a studiare la situazione – se realmente furono compiuti gli atti delittuosi che servirono a motivare la scioglimento della camera del lavoro? E se quei fatti delittuosi erano avvenuti, non doveva forse l’onorevole Saracco reprimerli senza esitare e senza cedere dinanzi alle minacce di sciopero? Se invece quei fatti fossero risultati insussistenti, non era del pari obbligo dell’autorità di astenersi da ogni provvedimento che potesse ferire il senso di giustizia delle masse operaie genovesi e spingerle a dimostrazioni ed a proteste deleterie per il commercio del massimo porto italiano?
La risposta dell’onorevole Saracco dimostra la verità di quella che finora era soltanto una fondatissima ipotesi: non essere il prefetto di Genova il solo colpevole di non aver compreso l’importanza del decreto di scioglimento della camera del lavoro.
Il governo fu il maggiore responsabile in tutta questa dolorosa faccenda; e, come tutti gli incoscienti, accortosi del fallo commesso, precipitò di dedizione in dedizione, sino a compromettere il prestigio dell’autorità ed a lasciar credere alla piazza che basti protestare e pretendere per vincere.
Il che è molto grave.
25 gennaio 1901
* * * * *
Leghe operaie e leghe padronali
I recenti scioperi di solidarietà hanno indotto molti industriali e commercianti a chiedersi: quale garanzia abbiamo noi contro codeste convulsioni industriali, le quali, per motivi a noi estranei, colpiscono le nostre industrie ed i nostri affari? Quale garanzia abbiamo noi che domani la vita della nostra fabbrica non rimanga sospesa, non più come protesta contro un atto considerato offensivo alla intiera classe operaia, ma per dar modo di vincere una battaglia impegnata in guisa particolare dalla maestranza di un’industria con la quale noi non abbiamo alcun rapporto? Chi ci garantisce che non si ricorra allo sciopero generale per vincere tutte le battaglie che gli operai inizino a turno nelle varie industrie, opprimendoci ad uno ad uno colla loro solidarietà?
Contro i danni degli scioperi di solidarietà e contro i pericoli degli scioperi impulsivi ed irragionevoli in genere, uno solo è in sostanza il rimedio; e questo si deve cercare ricorrendo ai medesimi strumenti di cui gli operai si servono nella lotta contro gli imprenditori. Gli operai si stringono in leghe per vincere colla forza organizzata del numero gli imprenditori ed ottenere cresciuti salari e migliori condizioni di lavoro? Ebbene gli imprenditori si uniscano in leghe ed oppongano anch’essi alla forza coalizzata dei lavoratori, la forza dell’unione e della concordia nella difesa.
Adamo Smith, il quale, come forse tutti sanno, fu il padre della economia politica e scrisse un secolo ed un quarto fa, disse che gli imprenditori non hanno bisogno di coalizzarsi: essi sono per natura già uno solo contro molti operai divisi ed hanno quindi naturalmente il sopravvento. Se Adamo Smith risuscitasse e potesse contemplare lo spettacolo imponente delle leghe operaie, sia nella terra inglese natia, sia in tutti i paesi inciviliti, non ripeterebbe la sentenza ora citata. Ora gli operai formano una massa sola coalizzata; e gli imprenditori sono molti e disuniti. Come in tutte le battaglie, se il capitano della massa compatta è abile e sa accortamente manovrare tra le nemiche schiere disunite, la vittoria gli arride sicuramente.
Agli imprenditori dispersi un’unica via di salvezza rimane: unirsi e lottare concordi contro l’avversario. L’Inghilterra, che è il paese classico delle leghe operaie, è anche il paese classico delle leghe degli imprenditori. Uno degli ultimi rapporti del dipartimento del lavoro ne novera ben 659, sparse nelle diverse località del Regno unito ed unite in 25 società nazionali e 15 federazioni.
Le associazioni si propongono di esercitare una azione regolatrice nei rapporti tra gli imprenditori ed i loro operai, controllando il saggio dei salari e le altre condizioni del lavoro, sostenendo i soci nelle loro dispute cogli operai. Così l’Iron Trades Employers’ Association intende assicurare la cooperazione di tutti i soci nel resistere alle domande delle unioni degli operai riguardo alle ore di lavoro, il cottimo, le ore straordinarie; e la Liverpool Employers’ Labour Association di stabilire un ufficio per l’organizzazione e la registrazione della mano d’opera, e di assistere i soci ad intentare azioni giudiziarie contro i marinai ed i fochisti che manchino al contratto d’arrolamento.
Quando scoppia uno sciopero, il socio che n’è minacciato deve darne avviso al segretario, il quale convoca l’assemblea generale. Se lo sciopero è limitato ad un solo ramo d’industria, si radunano i soli imprenditori in quel ramo; se invece è generale, tutti debbono essere solidali e nessuno può venire a patti speciali cogli scioperanti. Quando sia necessario per vincere uno sciopero, l’associazione degli industriali può ordinare la chiusura di tutti gli stabilimenti; ma ordinariamente per dichiarare una serrata generale è necessaria l’approvazione dei due terzi o dei tre quarti dei soci. È sottoposto a multe quel socio il quale assume nel suo opificio operai che uno sciopero od una serrata nello stabilimento d’un altro socio abbia lasciato temporaneamente senza lavoro.
Questi gli scopi delle leghe padronali inglesi. Le quali del resto, necessità imponendolo, hanno già avuto il loro riscontro in Italia, dove nel novembre scorso la Lega fra gli industriali in pannilana ed affini condusse e vinse la campagna contro lo sciopero dei tessitori a Biella, e dove il 26 gennaio scorso a Novara si fondava una grande Associazione fra gli agricoltori del Novarese, del Vercellese e della Lomellina, nel cui statuto si leggono tre articoli, il terzo, il quarto ed il dodicesimo, i quali statuiscono che: ogni socio debba pagare un contributo fisso di centesimi 10 per ogni ettaro di terreno e l’associazione debba indennizzare del danno sofferto il proprietario quando i lavoratori ricusino di osservare il contratto da loro consentito od il giudicio arbitrale su di esso; e gli aderenti si debbano accordare per determinare le condizioni ed i corrispettivi del contratto di lavoro ed in tutto quanto valga ed occorra a difesa dei comuni interessi.
Unirsi per combattere concordi: questo il motto delle leghe di industriali all’estero ed in Italia. Noi non dobbiamo però credere che la costituzione delle leghe padronali valga solo a cambiare le contese tra capitale e lavoro da piccole e numerose in lotte poche di numero e gigantesche di dimensioni. Sarebbe un guadagno; perché le battaglie tra grandi eserciti sono sempre meno micidiali di una moltitudine di piccoli combattimenti tra deboli schiere, inferocite da odii personali. Come la esistenza di due grandi eserciti in due nazioni vicine, ed il terrore dei danni incalcolabili che deriverebbero da una lotta gigantesca, allontanano il pericolo della guerra ed inducono i popoli a trattative, ad accordi e ad arbitrati, così succede anche nelle guerre industriali. L’organizzazione perfetta degli eserciti scema i rischi di guerra. L’organizzazione perfetta delle leghe padronali e delle leghe operaie allontana il pericolo degli scioperi e dei conflitti violenti.
Gli operai meno facilmente proclamano uno sciopero sia generale sia speciale, perché sanno che avrebbero contro di sé la massa compatta degli imprenditori. La lega degli industriali non ribassa a cuor leggero i salari e non licenzia indebitamente operai, perché sa di trovare contro di sé schierata la massa compatta dei lavoratori.
I danni di un cozzo violento sarebbero incalcolabili da una parte e dall’altra; e nessuna osa ricorrervi, se non davvero come ad una ultima ratio. Non esistono più e non possono esistere scioperi impulsivi e vendette ingiustificate. I capi od i segretari delle leghe preferiscono venire a patti e discutere. Ai piccoli trionfi del pugilato individuale dei paesi poco progrediti individualmente si sostituiscono le accorte trattative fra diplomatici consapevoli della responsabilità che incombe a chi rappresenta milioni di lire di capitale e migliaia di lavoratori.
In Inghilterra tutte le leghe padronali, come del resto le leghe operaie, non sono fucine di scioperi o di serrate, ma garanzie di pace. L’azione pacifica si esplica nelle commissioni miste (joint boards), costituite da un numero eguale di rappresentanti delle associazioni d’industriali e di rappresentanti delle leghe operaie, per stabilire di comune accordo il saggio dei salari, le ore di lavoro, i regolamenti di fabbrica, ecc.; e per comporre le piccole liti. Negli statuti delle leghe è anzi per lo più prescritto che si debba promuovere la costituzione di uffici di conciliazione e d’arbitrato per prevenire e per comporre le contese tra operai e principali.
Identico scopo si propongono le leghe padronali italiane. Uno dei principali fautori dell’associazione novarese citata così scrive: «S’inganna chi s’adonta del sorgere di leghe e di federazioni operaie. Un uomo illuminato deve anzi compiacersene, perché la associazione non è soltanto elemento di forza e di ordine, ma è anche affidamento di giustizia sociale. Epperò gli agricoltori devono imitare l’esempio e l’opera dei contadini, associandosi fra loro per determinare d’accordo con le leghe di costoro, quali condizioni, per quali corrispettivi il contratto di lavoro debba farsi e per assicurarne l’osservanza».
Il bollettino del consorzio agrario bolognese, in un articolo propugnante la costituzione di leghe di proprietari, afferma: «A noi sembra che il problema sociale, che agita le nostre campagne, debba trovare la sua soluzione in un ubi consistat fra le leghe degli operai e le leghe dei proprietari».
Non solo nelle campagne, ma dappertutto gli imprenditori devono convincersi che l’unione è lo strumento migliore per lottare contro le leghe operaie. Ed è strumento tale che per natura sua conduce non alla guerra, ma alla pace.
1 marzo 1902
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La bellezza della lotta
Rileggendo gli scritti sui problemi del lavoro, che l’editore Piero Gobetti ha desiderato che io riesumassi dalle riviste e dai giornali su cui li ero andati pubblicando dal 1897 in qua, mi sono accorto che essi obbedivano ad alcune idee madri, alle quali, pur nel tanto scrivere per motivi occasionali e sotto l’impressione di circostanze variabili di giorno in giorno, mi avvedo, con un certo perdonabile compiacimento intimo, di essere rimasto fedele; lo scetticismo invincibile, anzi quasi la ripugnanza fisica, per le provvidenze che vengono dal di fuori, per il benessere voluto procurare agli operai con leggi, con regolamenti, col collettivismo, col paternalismo, con l’intermediazione degli sfaccendati politici pronti a risolvere i conflitti con l’arbitrato, con la competenza, con la divisione del tanto a metà; e la simpatia viva per gli sforzi di coloro i quali vogliono elevarsi da sé e, in questo sforzo, lottano, cadono, si rialzano, imparando a proprie spese a vincere ed a perfezionarsi. Il socialismo scientifico ed il collettivismo russo, in quanto schemi di organizzazione della società o tentativi di applicare praticamente quegli schemi, non mi interessano. Sono al disotto del niente. Invece il socialismo sentimento, quello che ha fatto alzare la testa agli operai del Biellese o del porto di Genova, e li ha persuasi a stringere la mano ai fratelli di lavoro, a pensare, a discutere, a leggere, fu una cosa grande, la quale non è passata senza frutto nella storia d’Italia. Il collettivismo è un ideale buono per le maniche col lustrino e serve solo a far morire di fame e di noia la gente. Sono puri socialisti, del tipo noioso, coloro i quali vogliono far risolvere le questioni del lavoro da arbitri imparziali, incaricati di tenere equamente le bilance della giustizia, e vogliono far compilare le leggi del lavoro da consigli superiori, in cui, accanto ed al disopra alle due parti contendenti, i competenti, gli esperti, i dotti, i neutri insegnino ai contendenti le regole del perfetto galateo.
Oggi, gli ideali burocratici sono ridivenuti di moda. Sott’altro nome, l’aspirazione dei dirigenti le corporazioni fasciste di trovare un metodo, un principio, per far marciare d’accordo imprenditori ed operai, è ancora l’antico ideale collettivistico. La lotta combattuta per insegnare agli operai che l’internazionalismo leninista era una idea distruttiva e che la nazione era condizione di vita civile fu una cosa santa; ma il credere che si possa instaurare in terra l’idillio perfetto tra industriali ed operai, sotto la guida di qualche interprete autorizzato dell’interesse supremo nazionale, è una idea puramente burocratico-comunistica. Tanti sono socialisti senza saperlo; come tanti che si dissero socialisti o furono a capo di movimenti operai contro gli industriali erano invece di fatto puri liberali. Un industriale è liberale in quanto crede nel suo spirito di iniziativa e si associa con i suoi colleghi per trattare con gli operai o per comprare o vendere in comune; è puro socialista quando chiede allo stato dazi protettivi. L’operaio crede nella libertà ed è liberale quando si associa ai compagni per creare uno strumento comune di cooperazione o di difesa; è socialista quando invoca dallo stato un privilegio esclusivo a favore della propria organizzazione, o vuole che una legge o la sentenza del magistrato vieti ai crumiri di lavorare. Liberale è colui che crede nel perfezionamento materiale o morale conquistato collo sforzo volontario, col sacrificio, colla attitudine a lavorare d’accordo con altri; socialista è colui che vuole imporre il perfezionamento con la forza, che lo esclude se ottenuto con metodi diversi da quelli da lui preferiti, che non sa vincere senza privilegi a favor proprio e senza esclusive pronunciate contro i reprobi. I nomi non contano: l’ideale rimane quello che esso è intrinsecamente, qualunque sia la denominazione sua esteriore.
Oggi, il problema operaio in Italia ha cambiato nome: invece di federazioni o di camere del lavoro rosse o bianche o gialle, si parla di corporazioni fasciste. Quale è il contributo sostanziale che esse hanno recato al problema del lavoro? Parlo dei principi, non dei particolari. Non ha importanza il fatto che in parecchi casi le corporazioni si comportino nello stesso modo delle antagoniste rosse; che anch’esse usino talvolta violenze contro gli avversari o contro i crumiri o gli adepti di altre fedi; che esse pronuncino anatemi o boicottino altrui od ambiscano a monopoli. Queste possono essere accidentalità passeggere, non connaturate alla dottrina. Quale sia questa dottrina io tenterei di chiarire così:
«Il principio della lotta fra le due classi degli imprenditori e degli operai è nocivo alla produzione. Ognuno dei due combattenti immagina di poter raggiungere un massimo di vantaggio distruggendo ed espropriando l’avversario. L’imprenditore tenta di ridurre l’operaio al salario minimo; l’operaio vorrebbe annullare il reddito del capitale. In conseguenza della lotta e della sopraffazione dell’una parte sull’altra, sono alla lunga danneggiate ambedue ed è danneggiata sovratutto la nazione. Diminuisce la produzione ed impoverisce perciò la collettività; lo stato si indebolisce verso l’estero e si sgretola all’interno. La corporazione sorge per combattere questa politica suicida. Col suo medesimo nome essa afferma l’idea della costruzione, dell’ossequio al principio superiore della nazione, al quale gli egoismi particolari di classe debbono sacrificarsi. La corporazione non sacrifica l’operaio all’imprenditore; né l’imprenditore all’operaio; essa vuole riunire in una sintesi superiore le due rappresentanze finora ostili. Le corporazioni operaie e quelle padronali debbono rimanere distinte e indipendenti l’une dall’altre; ma, pur tutelando i propri interessi, ognuna di esse deve essere consapevole della necessità di non offendere l’industria, di non indebolire la nazione. Se le due corporazioni non sanno trovare la via dell’accordo fecondo, vi deve essere chi, nel momento critico, pronunci la parola risolutiva, dichiari la soluzione giusta alla quale tutti debbono inchinarsi. L’arbitro non deve avere la mentalità né dell’operaio né dell’imprenditore. Deve essere l’uomo che s’inspira alle necessità nazionali, che è educato nella dottrina del sacrificio del presente all’avvenire, che sa ricomporre in sintesi le vedute e gli interessi discordanti delle due parti unicamente intese al guadagno immediato».
La dottrina ora esposta è una nuova formulazione, con linguaggio mutato, di teorie le quali si sono di volta in volta sforzate di ritrovare l’unità perduta attraverso i conflitti fra uomini e classi. Le armonie economiche di Bastiat, la teoria dell’equilibrio economico, non sono forse anche tentativi di sintesi, sforzi per vedere il punto nel quale sul mercato, per un attimo, le forze si equilibrano e si raggiunge un risultato che può essere di massima felicitazione della collettività? Gli economisti come è loro costume, parlano di equilibrio, di prezzi, di mercato, di massima soddisfazione. I teorici delle corporazioni parlano di nazione e di soggezione delle classi alla volontà superiore che incarna l’interesse della nazione. Il linguaggio formale è diverso, il contenuto sostanziale è uguale.
Il problema non è di negare l’equilibrio fra le forze contrastanti; cosa che sarebbe assurda. È di trovare il metodo col quale quell’equilibrio possa essere raggiunto col minimo costo, colla minore superficie di attrito. Non è neppure necessario all’uopo scegliere l’una formula più che l’altra: purché l’equilibrio si raggiunga, possono riuscire utili le contrattazioni dirette, le leghe, le corporazioni, l’arbitrato, perfino il colpo di sterzo dell’uomo posto in situazione di autorità per togliere le parti dal punto morto in cui si erano cacciate. L’ideale della nazione o quello dell’interesse collettivo, l’aspirazione cooperativa o quella partecipazionistica sono tutte formule atte a condurre all’equilibrio. Ma tutte sono pure armi strumentali le quali sono vive e feconde soltanto quando siano adoperate in condizioni favorevoli. Quali siano queste condizioni non si può dire in modo tassativo. Ne enumero alcune tra le più caratteristiche.
È preferibile l’equilibrio ottenuto attraverso a discussioni ed a lotte a quello imposto da una forza esteriore. La soluzione imposta dal padrone, dal governo, dal giudice, dall’arbitro nominato d’autorità, può essere la ottima; ma è tenuta in sospetto, appunto perché viene da altri. L’uomo vuole sapere perché si decide e vuole avere la illusione di decidersi volontariamente. Bisogna lasciare rompersi un po’ le corna alla gente, perché questa si persuada che lì di contro c’è il muro e che è vano darvi di cozzo. Nella lotta e nella discussione si impara a misurare la forza dell’avversario, a conoscerne le ragioni, a penetrare nel funzionamento del congegno che fa vivere ambi i contendenti.
L’equilibrio stabile è più facilmente raggiunto dal tecnico che dal politico. Affidare cioè la risoluzione delle questioni del lavoro al ministro, al prefetto, al fiduciario fascista od al deputato conservatore illuminato, è indizio di scarsa educazione industriale. La soluzione, a cui il politico tende, è in funzione dell’equilibrio politico, non di quello economico. Entrano in gioco fattori di tranquillità esteriore, di accaparramento elettorale, di propiziazione di gruppi politici. Poiché l’equilibrio in funzione di fattori puramente economici sarebbe diverso, l’una o l’altra delle parti o tutt’e due cercano una compensazione alla perdita che debbono sopportare in favori economici ottenuti dal potere politico: all’equo trattamento corrisponde un aumento dei sussidi chilometrici, al controllo operaio sulle fabbriche tien dietro la tariffa doganale del luglio 1921, le piccole concessioni strappate da prefetti amanti del quieto vivere sono dolcificate dalle commende e dalle chincaglierie cavalleresche di cui, non si sa perché, gli industriali sono ghiottissimi. Non accade che l’offesa all’equilibrio economico duri. Qualcuno paga sempre il costo dell’offesa.
L’educazione dei tecnici capaci della soluzione dei problemi del lavoro si fa attraverso la lotta, tanto meglio quanto più questa è aperta e leale. Orator fit. Il buon arbitro non si fa sui libri, nei comizi elettorali, nella pratica prefettizia, non nei partiti, nei fasci, nei parlamenti. Solo l’operaio della miniera o della officina sente la vita del lavoro; solo l’industriale sente la gloria ed ha l’orgoglio della impresa. Troppi avvocati, troppi politicanti, troppi uomini abili, accomodanti, soluzionisti hanno rovinato il movimento operaio italiano. Ci sono stati troppo pochi uomini rudi, pronti a sbranarsi, ma pronti anche a sentire quel che in fondo al loro animo c’era di comune: l’amore al lavoro compiuto, l’orgoglio del capolavoro, il desiderio di metterlo al mondo perfetto. Solo discutendo faccia a faccia, queste due razze di uomini possono giungere a riconoscere le proprie sovranità rispettive: l’uno sulla direzione, sulla organizzazione e sulla invenzione della impresa, l’altro sulla propria forza di lavoro. La sovranità sui mattoni, sulle macchine, sulle merci non conta. È cosa morta, la quale vive soltanto perché l’organizzatore ed il lavoratore apprezzano e fanno valere quel che ognuno di essi apporta di proprio nell’opera comune. È bene che ognuno custodisca gelosamente l’esclusivo dominio sul proprio compito, che è, per l’imprenditore, di organizzare l’impresa e per l’operaio di prestare la propria opera manuale ed intellettuale. È bene che ognuno risenta vivamente l’ingerenza altrui nel proprio campo. Gli imprenditori sfiaccolati, che si rassegnano a lasciarsi controllare dai propri dipendenti, gli operai privi di orgoglio, i quali affidano la tutela del proprio lavoro a fiduciari non usciti dalle proprie file, sono mezzi uomini. Con questi omuncoli non si costruisce per l’avvenire. Si guadagnano forse denari, ma non si innalza l’edificio dell’industria, non si cresce valore alla personalità umana.
Perché l’equilibrio duri, è necessario che esso sia minacciato ad ogni istante di non durare. Chi vorrà leggere le pagine di questo libro, vedrà quanto sia antica la mia repugnanza verso i monopoli industriali ed operai. Ad un certo momento, le leghe rosse, accortesi di essere diventate potenti in un mondo di vili borghesi, frammezzo a magistrati prontissimi a rendere servigi invece che a dare sentenze, vollero essere sole padrone del lavoro: negarono ai bianchi ed ai gialli il diritto di esistere, si arrogarono il diritto esclusivo di eleggere rappresentanti nel consiglio superiore del lavoro e si apprestarono a negare il diritto del parlamento a correggere le decisioni del consiglio del lavoro caduto in loro mani. Fu il segnale della loro rovina. Oggi le corporazioni fasciste paiono avviarsi a commettere il medesimo errore. Anch’esse negano il diritto all’esistenza dei rivali sconfitti e ad uno ad uno li espellono dalle cooperative, dalle camere del lavoro, dai consigli del lavoro, dal parlamento. Solitudinem faciunt et pacem appellant. Anche ora, e sovratutto ora, bisogna negare che l’equilibrio esista nel monopolio, nella soppressione di diritto o di fatto degli avversari. Ho descritto, nei primi saggi di questo volume, gli sforzi che nel 1897 e nel 1900 compievano alcuni gruppi di operai italiani. A tanta distanza di tempo, riandando coi ricordi a quegli anni giovanili, quando assistevo alle adunanze operaie sui terrazzi di via Milano in Genova, o discorrevo alla sera in umili osterie dei villaggi biellesi con operai tessitori, mi esalto e mi commuovo. Quelli furono gli anni eroici del movimento operaio italiano. Chi vide, raccapricciando, nel 1919 e nel 1920, le folle briache di saccheggio e di sangue per le vie delle grandi città italiane, non riconobbe i figli di quegli uomini, che dal 1890 al 1900 nascevano alla vita collettiva, comprendevano la propria dignità di uomini ed erano convinti di dover rendersi degni dell’alta meta umana a cui aspiravano. Lo spirito satanico della dominazione, inoculato da politicanti tratti dalla feccia borghese, li travolse e li trasse a rovina. Perché l’equilibrio duri, bisogna che esso sia continuamente in forse. Bisogna che nessuna forza legale intervenga a cristallizzare le forze, ad impedire alle forze nuove di farsi innanzi contro alle forze antiche, contro ai beati possidentes. Perché gli industriali rendano servigi effettivi alla collettività, fa d’uopo che lo stato non dia ad essi il privilegio di servire la collettività, non li tuteli con i dazi protettori contro la concorrenza straniera; non li costituisca in consorzi a cui la gente nuova non possa aspirare. Perché gli operai si innalzino moralmente e materialmente, importa che ad ogni istante gli organizzatori rossi possano sfidare i bianchi e questi i rossi ed i fascisti amendue e con essi i gialli e tutti siano sotto l’incubo del sorgere di altri miti organizzativi. È diventato di moda oggi irridere alla pretesa di suscitare la concorrenza nel mondo delle organizzazioni padronali ed operaie; e si addita l’esempio delle corporazioni fasciste, le quali, nimicissime del monopolio sinché questo era tenuto dai rossi, ora che ne hanno la forza, lo pretendono per sé. E si vuol dimostrare che ciò non è solo frutto di prepotenza politica, ma di esatto calcolo economico, poiché solo coll’unicità e col monopolio della organizzazione possono gli operai ottenere il massimo di guadagno. Su di che non occorre disputare; poiché di ciò non si tratta.
Instaurino pure, se ci riescono, operai ed imprenditori, il monopolio del lavoro e dell’impresa. Ciò che unicamente si nega è che lo stato sanzioni legalmente il monopolio medesimo, vietando ad altri di combatterlo e di distruggerlo, ove ad essi basti il coraggio. Il punto fermo è questo, non quello della convenienza del monopolio. Finché il monopolio, padronale od operaio, è libero, finché è lecito a chiunque di criticarlo e di tentare di abbatterlo, può esso recare qualche danno; ma è danno forse non rilevante e transitorio. La condizione necessaria di un equilibrio duraturo, vantaggioso per la collettività, vantaggioso non solo agli industriali ed agli operai organizzati, ma anche a quelli non organizzati, non solo a quelli viventi oggi, ma anche a quelli che vivranno in avvenire, non è l’esistenza effettiva della concorrenza. È la possibilità giuridica della concorrenza. Altro non si deve chiedere allo stato, se non che ponga per tutti le condizioni di farsi valere, che consenta a tutti la possibilità di negare il monopolio altrui. La possibilità giuridica della negazione dà forza al monopolio, se utile davvero al gruppo e forse alla collettività, poiché la sua persistenza, contro alla libertà di ognuno di combatterlo, è la sola dimostrazione persuasiva della sua ragione di vivere. Qual merito o qual virtù si può riconoscere invero a chi, per vivere, fa appello alla spada del braccio secolare?
In verità poi, le organizzazioni, quando non siano rese obbligatorie dallo stato, non conservano a lungo il monopolio. La storia dei consorzi industriali e delle leghe operaie è una storia caleidoscopica di ascese, di decadenze, di trasformazioni incessanti. Ad ogni momento debbono dimostrare di meritare l’appoggio dei loro associati. Ed è impossibile, non aiutando il braccio secolare, che questa dimostrazione sia data a lungo. Gli uomini sono troppo egoisti o cattivi o ignari perché, trovandosi a capo di una organizzazione potente, non soccombano alla tentazione di trarne profitto per sé, a danno dei propri rappresentati o non si addormentino nella conseguita vittoria o non tiranneggino i reietti dal gruppo dominante. A rendere di nuovo l’organizzazione viva, operante e vantaggiosa agli associati ed agli estranei, uopo è che essa sia di continuo assillata e premuta da rivali di fatto o dal timore del loro nascere. L’equilibrio, di cui parlano i libri di economia, la supremazia della nazione a cui si fa oggi appello non sono ideali immobili. Essi sono ideali appunto perché sono irraggiungibili; appunto perché l’uomo vive nello sforzo continuo di toccare una meta, la quale diventa, quando pare di averla raggiunta, più alta e più lontana. L’equilibrio consiste in una successione di continui mai interrotti perfezionamenti, attraverso ad oscillazioni, le quali attribuiscono la vittoria ora a questa, ora a quella delle forze contrastanti. La gioia del lavoro per l’operaio e della vittoria per l’imprenditore, sta anche nel pericolo di perdere le posizioni conquistate e nel piacere dello sforzo che si deve compiere per difenderle prima e per conquistare poi nuovo terreno. Tolgasi il pericolo, cessi il combattimento, e la gioia del vivere, del possedere, del lavorare diventa diversa da quella che è sembrata gioia vera agli uomini dalla rivoluzione francese in poi. Non che la “quiete” di chi non desidera nulla, fuorché godere quel che si possiede, non possa essere anche un ideale e che la sua attuazione non sia bella. Ho descritto in un capitolo di questo libro la vita felice del lazzarone napoletano nel meraviglioso secolo XVIII, che fu davvero l’età dell’oro della contentezza di vivere, del buon gusto, della tolleranza e dell’amabilità. Purtroppo la natura umana è cosiffatta da repugnare alla lunga al vivere quieto e tranquillo. Se questo dura a lungo, è la quiete della schiavitù, è la mortificazione dello spirito. Alla quiete che è morte è preferibile il travaglio che è vita.
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Il diritto allo sciopero
L’art. 57 del progetto di costituzione presentato dalla commissione dei 75 alla costituente dice: «Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero». È questa una formulazione alquanto diversa di un principio che il secolo scorso, 1800 anni dopo Cristo, aveva riaffermato, abolendo dapprima la tratta degli schiavi e poi mettendo fine quasi contemporaneamente, tra il 1860 ed il 1870, alla servitù della gleba (l’uomo non può abbandonare la terra dove è nato) in Russia ed alla schiavitù dei negri (l’uomo non può abbandonare il padrone) negli Stati Uniti.
Risorgono talvolta forme particolari di schiavitù le quali legano l’operaio alla fabbrica destinata alla produzione bellica; ma sono norme di eccezione, rigidamente ristrette al tempo di guerra.
Il diritto allo sciopero è una applicazione del concetto, prevalso nelle società civili del secolo XIX, della abolizione della schiavitù e della instaurazione della libertà del lavoro. Che cosa infatti significherebbe la negazione del diritto di sciopero? Evidentemente l’obbligo del lavoratore di lavorare non quando a lui piace ed alle condizioni liberamente da lui discusse ed accettate, ma quando ad altri piace ed a condizioni diverse da quelle accettate da lui. Quell’obbligo ha un nome preciso e dicesi “schiavitù”. Non monta essere schiavi di un imprenditore privato o dello stato; ciò che all’uomo sovra ogni altra cosa importa essendo di non essere schiavo di nessuno.
Dovendo scegliere, è evidentemente preferibile essere schiavi (parola tecnica usata per indicare il fatto di non poter abbandonare il lavoro senza il consenso altrui) di un imprenditore privato che dell’imprenditore unico (stato). Infatti gli imprenditori privati sono molti e non è quindi assurdo fuggire, sia pure illegalmente, dall’uno all’altro ed essere ricevuti a braccia aperte da quest’altro imprenditore bisognoso di lavoratori. Inoltre, è più facile, e l’esperienza storica reca di ciò testimonianze innumeri, ai lavoratori concertarsi contro imprenditori privati e riuscire a violare la legge vincolatrice della libertà umana, di quanto non sia agevole concertarsi contro lo stato, che fa la legge a suo piacimento. Dove esiste la schiavitù esiste invero altresì una qualche maniera di governo tirannico; ed il tiranno può avere interesse ad ingraziarsi i lavoratori contro gli imprenditori privati, non mai contro se stesso.
In ogni caso gli uomini giustamente desiderano di non essere costretti a fare scelta fra due mali; ma vogliono la libertà. Epperciò il diritto di sciopero è sacrosanto. I codici civili dei paesi moderni avevano già concordemente formulato il principio del diritto allo sciopero affermando la nullità dei patti con i quali taluno si fosse obbligato a prestare senza limiti di tempo l’opera propria a favore altrui.
La abolizione della schiavitù od il suo sinonimo detto “diritto di sciopero” suppone tuttavia un dato clima economico. È un istituto che vive quando nella società agiscono determinate condizioni, tra le quali principalissima è quella ricordata sopra della libertà degli uomini di acquistare, a propria scelta, i beni ed i servizi da essi desiderati. Il lavoratore ha il sacrosanto diritto di abbandonare la fabbrica che non è in grado di pagargli il salario da lui giudicato bastevole a compensare le proprie fatiche ed a consentirgli quel tenore di vita al quale egli giudica di avere diritto. Ma il consumatore ha uguale ragione di non essere costretto da nessuno ad acquistare al prezzo di 20 mila lire un abito, solo perché i lavoratori chiedono – scioperano per ottenerlo – un salario siffatto che il produttore non può mettere sul mercato l’abito ad un prezzo inferiore a 20 mila lire. Al diritto di sciopero dei lavoratori, alla loro esigenza di non essere sottoposti a schiavitù corrisponde l’ugual diritto dei consumatori di non acquistare le merci prodotte dai lavoratori. Non sono due diritti diversi: bensì due faccie del medesimo diritto. Tra i due, i lavoratori ed i consumatori, vi è l’intermediario detto comunemente industriale, che gli economisti usano, dal 1738 in poi, chiamare “imprenditore” colui il quale, a suo rischio e vantaggio mette insieme i fattori produttivi – area, stabilimenti, macchine, scorte di materie prime e di semilavorati, dirigenti, impiegati, lavoratori -; ne paga il prezzo di mercato ed offre il prodotto finito al consumatore.
Se i due estremi, lavoratore e consumatore, fanno sciopero, i primi perché non ritengono di essere pagati abbastanza, gli altri perché ritengono il prezzo dei prodotti superiore al vantaggio che si ripromettono dal loro acquisto, l’imprenditore, il quale sta in mezzo dei due, non può rimanere fermo. Anch’egli, se non vuol perdere i suoi capitali – e la perdita dei capitali non giova a nessuno – deve potersi muovere. Il suo diritto a muoversi ha un nome abbreviato ed è diritto alla “serrata”. In sostanza, il diritto alla serrata degli imprenditori ha un contenuto semplice e necessario. Non si può immaginare che, là dove i lavoratori hanno il diritto – sacrosanto diritto, innato nell’uomo libero – di incrociare le braccia e di rifiutarsi a lavorare a condizioni da essi non accettate volontariamente, vi sia talun altro il quale sia costretto a tenere il proprio stabilimento aperto ed a pagare salari che egli giudica superiori al ricavo, dedotte le altre spese del prodotto da lui posto sul mercato. Se l’imprenditore potesse “costringere” i consumatori a pagare il prezzo di 20 mila lire per un abito, che gli è costato, fra salari, materie prime, ammortamenti, interessi sul capitale preso a prestito od ottenuto dai soci, ecc., altrettanta somma, l’imprenditore potrebbe fare a meno di “serrate”. Basterebbe aumentare i prezzi e qualunque salario sarebbe razionale. Fatta astrazione dal significato monetario della manovra, non vi sarebbe alcun limite all’aumento dei salari.
Ma così non è. I consumatori non hanno nessun obbligo di acquistare alcuna merce ad alcun prezzo prefissato. Anch’essi hanno diritto allo sciopero. Anch’essi hanno diritto a non diventare schiavi di chi vuol vendere una data merce ad un dato prezzo. Essi scioperano riducendo il consumo o rinunciando del tutto al consumo della merce rincarata.
Epperciò, l’imprenditore, posto fra l’incudine ed il martello, ha il diritto di serrata, ossia di riorganizzare la sua impresa, di mutare il genere della produzione, di ridurre o crescere il numero degli operai, di tentare nuovi mercati per adattarsi alle condizioni contemporaneamente poste dai lavoratori e dai consumatori, tra le quali egli deve pur trovare un mezzo di conciliazione. Diritto di sciopero e diritto di serrata sono due fattori o condizioni di un sistema economico improntato a libertà. Se togliamo l’un diritto aboliamo anche l’altro. Se l’imprenditore non può aprire, chiudere, allargare, restringere l’impresa; se il lavoratore non può abbandonare il lavoro, ciò significa che noi viviamo nel clima economico della schiavitù; in quel clima nel quale una autorità superiore, un tiranno dice al lavoratore: «tu lavorerai tante e tante ore al giorno, per tale e tale salario»; all’imprenditore: «tu comprerai la materia prima a tal prezzo, pagherai i lavoratori con tale salario e venderai i prodotti tuoi a tale prezzo»; ed al consumatore: «io ti distribuirò d’autorità i prodotti dell’industria in tale quantità e ad un prezzo tale che tutto ciò che è stato prodotto secondo il nuovo piano sia compensato interamente ed a tempo debito». Ma gli uomini non amano vivere in un siffatto clima, odiano la schiavitù e sono persuasi di aver diritto, nelle diverse loro manifestazioni di lavoratori, di imprenditori, di consumatori a scioperare contro chi pretende di farli vivere secondo le regole poste dai potenti della terra.